strani chrestiani

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ELL Jerim Bogdanic Pischedda Strani chrestiani? La fantastica pseudostoria dei chrestiani prima dei cristiani

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Sulla attestazione del nome chrestianus / chrestiani nel I secolo d.C. e sua corretta interpretazione. Studio su Iucundus Chrestianus.

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ELL

Jerim Bogdanic Pischedda

Strani chrestiani? La fantastica pseudostoria dei chrestiani prima dei cristiani

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strani CHrEstiani ?

La fantastiCa psEudostoria dEi CHrEstiani prima dEi Cristiani

Jerim Bogdanic Pischedda, BE

Ex Libris Lux

ELL 2012

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Ex Libris Lux © Jerim Bogdanic Pischedda

www.cristianesimoprimitivo.forumfree.it

[email protected]

ELL e-book Novembre 2012

Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia. Questo significa che quest’opera può essere liberamente

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Non enim vincimur quando offerentur nobis meliora sed istruimur

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V

IndIce

Ringraziamenti …. p. VI

Prefazione …. p. VII

1. Una strana iscrizione …. p. 1

2. Un articolo affatto originale …. p. 3

3. Limiti ed errori nelle tesi di Erik Zara e Alessio De Angelis …. p. 8

4. Per una corretta interpretazione di CIL VI, 24944 …. p. 21

5. Iucundus Chrestianus, un servo della Familia Caesaris …. p. 27

6. Il nomen chrestianus e i fantomatici chrestiani di Alessio De Angelis …. p. 33

7. Conclusioni …. p. 43

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VI

RIngRazIamentI

Raramente le opere culturali, anche modeste come quella che mi accingo a proporre ai lettori, non richiedono la collaborazione, in varie forme, di più persone. Questo mio scritto non fa eccezione. Desidero pertanto ringraziare tutti coloro che lo hanno in qualche modo reso possibile, in particolar modo il dr. Simone Gianolio, PhD, per la pazienza avuta durante le nostre lunghe discussioni sull’argomento e soprattutto per i preziosi consigli sulla storia, le usanze e l’epigrafia romane. Un ringraziamento particolare va al dr. Valerio Polidori, PhD, per la sua gentile prefazione e per la lettura e correzione del testo, nonché per i suoi importanti consigli. Inutile dire che ogni eventuale errore o imprecisione è da attribuire esclusivamente al sottoscritto. Desidero inoltre ringraziare i colleghi delle biblioteche romane che hanno gentilmente facilitato le mie ricerche bibliografiche. Non posso infine non ringraziare mia moglie Teodora, per la pazienza mostrata durante la redazione di questo studio, e mia figlia Rebecca per il suo amorevole e incondizionato appoggio.

Jerim Bogdanic Pischedda Roma, 18 novembre 2012

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VII

prefazIone Da quando, nel 2003, il genio narrativo di Dan Brown lanciò il "Da Vinci Code", l'editoria mondiale ha conosciuto un inusitato revival di interesse per il Cristianesimo delle origini riletto in chiave scandalistica, secondo stilemi tipici della cultura americana del terzo millennio. Il successo di questo filone è stato talmente eclatante da generare analoghe operazioni di marketing a tema religioso, come la pubblicazione del cd. Vangelo di Giuda da parte della National Geographic Society (2006), a coronamento di un rinnovato entusiasmo verso gli apocrifi del Nuovo Testamento, nuovamente editi da Elaine Pagels nei medesimi anni. A margine di queste grandi operazioni editoriali, si è sviluppato – anche in Italia – un bizzarro proliferare di letteratura pseudo-scientifica, opera sempre di dilettanti, che in qualche modo ha cercato di raccogliere le briciole di questi successi. I tentativi sono i più disparati: dalla solita laison ri-narrata da David Donnini (Il matrimonio di Gesù: ipotesi sull'unione tra Cristo e Maria Maddalena, 2007) alla psudonimia di Gesù di Emilio Salsi (Giovanni il Nazireo, detto Gesù Cristo e i suoi fratelli, 2008), passando per i creatori alieni di Mauro Biglino (Il Dio alieno della Bibbia, 2011), senza enumerare templari, santi Graal, piramidi, massonerie e ogni altro genere di amenità a cui difficilmente una persona di media cultura presterebbe attenzione ma che tuttavia popola molte librerie. In questo inesausto filone si situa autorevolmente l'opera di Alessandro e Alessio De Angelis, già noti per l'ennesima riesumazione del Gesù pseudonimo rivoluzionario (Giovanni il Galileo, ovvero Gesù, 2009) riletto poi in salsa mitologista (La fine del Cristianesimo: Gesù e gli Apostoli non sono mai esistiti. Le prove, 2012). A quest'ultimo lavoro, e più precisamente ad un suo excerptum a firma del solo Alessio De Angelis, attiene questa breve monografia. Il lavoro di De Angelis vuole dimostrare come un'epigrafe funeraria del I secolo recante la dicitura "chrestiani" costituisca la prova dell'esistenza di una setta giudeo-messianista nella Roma post-Augustea, ipotesi invero fantasiosa ma in fondo coerente con il retroterra del nostro autore. Il lavoro di Bogdanic Pischedda, che demolisce agevolmente l'assurda teoria, è in buona sostanza una compiuta riflessione sul dilettantismo: di come, cioè si possa vestire i panni dello studioso dilettante in senso etimologico (vale a dire di chi scientiam diliget) o nel suo significato comune e deteriore, di cui il De Angelis sembra essere – a dispetto della giovane età – un inveterato paradigma. Dopo una facile dimostrazione, attraverso il metodo dell'error conjunctivus, della fin troppo stretta dipendenza dell'articolo di De Angelis da un originale di un tal Erik Zara, il Nostro si muove con disinvoltura tra epigrafia, archeologia e storia, proponendo una ragionevole forbice di datazione per l'epigrafe e il senso del lessema in questione. Lo studio è agile e di piacevole lettura anche per un certo elemento umoristico suscitato dalla cura pedestre con la quale il De Angelis attinge dal non già eccelso lavoro di Zara. Per la cura metodologica e la sua buona impostazione scientifica, la lettura di queste pagine gioverà soprattutto a chi ritiene di poter fare a meno di un buon armamentario filologico nell'approccio agli studi storico-religiosi.

Valerio Polidori

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1. UNA STRANA ISCRIZIONE

E’ giunto alla nostra attenzione un recente articolo di Alessio De Angelis, che si

autodefinisce “esperto di cristologia ed esegesi biblica” nonché “il più giovane scrittore italiano di tutti i tempi”, dal titolo tanto interessante quanto significativo: I “Chrestiani” prima dei Christiani1. La tesi dell’articolo, in tutto quattro pagine in formato PDF, è abbastanza semplice nella sua audace pretesa di rivoluzionare le nostre conoscenze sulle origini del Cristianesimo: dal momento che una lapide in latino databile con buona certezza ai primi anni del I secolo d.C.2 riporta chiaramente leggibile la scritta chrestiani, e poiché in tale periodo i cristiani come vengono usualmente intesi non potevano ancora esistere, soprattutto a Roma, dove sarebbe stata rinvenuta questa iscrizione, allora con ogni evidenza il termine chrestiani deve indicare qualcosa di diverso, che De Angelis identifica in un gruppo messianista ebraico antiromano, probabilmente vicino al movimento zelota.

L’implicazione sottintesa è evidente, il vero e originale Cristianesimo sarebbe nato come movimento politico violentemente antiromano e non in seguito alla predicazione e alle opere di Gesù di Nazareth, che non sarebbe pertanto mai esistito, così come Nazareth stessa e gli apostoli: solo in un secondo tempo sarebbe sorto, ad opera del clero falsario, e soprattutto di Costantino ed Eusebio di Cesarea, il Cristianesimo irenico che conosciamo, con la creazione del personaggio fittizio di Gesù, che avrebbe il fine di celare la vera identità del fondatore del movimento cristiano, Giovanni di Gamala3, figlio di Giuda il Galileo e pretendente al trono di Gerusalemme, così come la vera natura e origine del Cristianesimo stesso. 1 L’articolo di Alessio De Angelis può essere scaricato dalla seguente pagina internet: https://www.facebook.com/groups/162450570543560/192833024171981/ (21/09/2012). 2 Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL) VI, 24944: D(is) M(anibus) // M() T() Drusi pateres(?) // Primicinio qui vixit // ann(os) XXXXII dies VII // Faustus Antoniae Drusi ius emit Iucundi Chrestiani oll(a). Per la traduzione e le difficoltà interpretative di questa iscrizione si veda il resto di questo articolo. 3 L’esistenza di questo Giovanni di Gamala, erede della dinastia degli Asmonei, non è storicamente accertata. Di lui la storia non ha conservato alcuna traccia, dal momento che nessuna fonte a noi nota ce ne parla. Per quanto è dato sapere esso nasce dalla penna del romanziere e giornalista inglese George Alfred Henty (1832 – 1902), che nel 1888 scrisse un romanzo, tuttora ristampato, dal titolo From the Temple. A Tale of the Fall of Jerusalem (London, Blackie & Son 1888), nel quale si narrano appunto le vicende di questo Giovanni di Gamala, che combattè contro i romani e divenne discepolo di Gesù. Nella sua prefazione Henty sostiene che la figura di Giovanni di Gamala sia una sua invenzione letteraria (cf. G.A. Henty: From the Temple. A Tale of the Fall of Jerusalem; rist. BiblioBazaar 2007, pp. 11-12). Solo successivamente Gesù sarà identificato da alcuni miticisti con questo Giovanni di Gamala, che essi, contro ogni evidenza, ritengono sia davvero esistito e che credono di ricavare dalle pagine di Giuseppe Flavio per comparazione con il Nuovo Testamento.

Riproduzione della lapide in oggetto ad opera di Domenico Maria Manni: Principi della religion cristiana in Firenze..., Firenze 1764, p. 3 (vedi nota n°18). Si tratta tuttavia non di una riproduzione fedele e reale ma tipografica.

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Questa idea non è certo nuova e rappresenta per certi versi un tratto caratteristico della via italiana al miticismo4 radicale. Benchè la teoria miticista sia nata già alla fine del XVIII secolo5, in Italia una vera diffusione di tale idea si ebbe solamente con il libro di Emilio Bossi (alias Milesbo) del 1903, Gesù Cristo non è mai esistito6, che ebbe un discreto successo editoriale e generò numerose polemiche e risposte7. Il Bossi tuttavia non manifestò mai l’idea che Gesù fosse in realtà Giovanni di Gamala. Il primo autore italiano a presentare un‘idea simile fu Mario Turone, che attorno alla metà degli anni ’50, sulla falsariga di Daniel Massè e citando i lavori di Paul L. Couchoud, identifica Gesù con Giuda il Galileo8. Si è tuttavia dovuto aspettare l’opera relativamente recente di Luigi Cascioli per avere un’identificazione di Gesù con Giovanni di Gamala9. Al Cascioli hanno fatto seguito Emilio Salsi10, Giancarlo Tranfo11 e infine Alessio De Angelis12, solo per citarne alcuni. L’articolo in questione è in realtà la parte principale di un capitolo dedicato a tale argomento all’interno dell’ultimo libro, il secondo di una trilogia dal titolo pretenzioso di Oltre la mente di Dio, pubblicato agli inizi di quest’anno, che i De Angelis, Alessandro e Alessio, padre e figlio, hanno dedicato alla “dimostrazione” dell’inesistenza di Gesù e degli Apostoli, ovvero alla grande cospirazione criminale che avrebbe dato vita al Cristianesimo13, definita nientemeno che “il più grande inganno globale che questo pianeta abbia conosciuto nell’arco degli ultimi duemila anni”14.

La tesi proposta nell’articolo, così come nel libro, a un’analisi più approfondita risulta essere del tutto insostenibile e fantasiosa, inficiata in maniera irreparabile da errori metodologici e fattuali, peraltro tipici del modo di “fare storia” a cui purtroppo ci hanno abituato i due De Angelis. Ma questa non è neppure, come a breve avremo modo di mostrare, la caratteristica peggiore e più fastidiosa di questo articolo, giacché il De Angelis ha fatto ben peggio, a nostro avviso, che scrivere sciocchezze.

4 Per miticismo si intende quella corrente di pensiero la quale, trovando sempre scarsa eco nelle accademie e università di tutto il mondo, ritiene che Gesù di Nazareth non sia mai esistito ma sia solamente un prodotto letterario o mitico: “the theory that no historical Jesus worthy of the name existed, that Christianity began with a belief in a spiritual, mythical figure, that the Gospels are essentially allegory and fiction, and that no single identifiable person lay at the root of the Galilean preaching tradition” (E. DOHERTY: Jesus, Neither God nor Man. The Case for a Mythical Jesus; Age of reason Publications 2009, pp. VII-VIII). Anche: “A ‘Mythicist’, for lack of a better term, is one who concludes from an examination of the data that a historical Jesus probably never existed” (T.S. VERENNA: Of Men and Muses. Essays on History Literature and Religion; Lulu.com 2009, p. 55). 5 Cf. A. SCHWEITZER: Storia della ricerca sulla vita di Gesù; Paideia 1986, pp. 551 e ss. 6 E. BOSSI: Gesù Cristo non è mai esistito; Società Editrice Milanese 1903. 7 G. BOCCACCINI: La ricerca sul Gesù storico in Italia dall’Ottocento a oggi, in Henoch 29 (2007), p. 109, 111. 8 M. TURONE: Gesù e Paolo identificati nella storia profana; Guanda 1958. 9 L. CASCIOLI: La favola di Cristo; Viterbo, Ed. aut. 2005. Id.: La morte di Cristo. Cristiani e Cristicoli; Viterbo, Ed. aut. 2007. 10 E. SALSI: Giovanni il Nazireo detto “Gesù Cristo” e i suoi fratelli. La risposta della Storia al "Gesù di Nazaret" di Joseph Ratzinger; Ed. aut. 2007. 11 G. TRANFO: La croce di spine. Gesù, la storia che non vi è ancora stata raccontata; Chinaski 2008. 12 A. DE ANGELIS, A. DE ANGELIS: Giovanni il Galileo ovvero Gesù; Il Libro-The Book 2008. 13 A. DE ANGELIS, A. DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo. Gesù e gli Apostoli non sono esistiti, le prove; Uno Editori 2012, pp. 185-192. In realtà l’articolo presente in rete riporta solamente le pp. 185-190 del libro, omettendo di riportare le considerazioni finali presenti nelle ultime due pagine, che, come avremo modo di vedere, sono abbastanza sconclusionate nella loro pretesa di collegare questi presunti cristiani messianisti con gli esseni di Qumran. In rete l’articolo viene presentato come opera di Alessio De Angelis ma il libro da cui è tratto è stato scritto assieme al padre Alessandro De Angelis: non sapendo chi dei due ha scritto cosa, ci atteniamo a quanto loro stessi sembrano indicare. 14 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, XIX.

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2. UN ARTICOLO AFFATTO ORIGINALE

Dobbiamo dire che a prima vista siamo rimasti colpiti dall’articolo in questione, il quale, se

paragonato alla consueta, a nostro avviso, discutibile produzione dei due De Angelis, parrebbe quasi un monumento al metodo storico-critico, con un apparato critico sostanzialmente degno di tale nome e un’esposizione, almeno a prima vista, coerente, consequenziale e ragionata. Insomma una specie di perla rara nella produzione dei due autori. E proprio questa caratteristica ci ha insospettito,

troppo differente infatti è il tipo di esposizione, la bibliografia riportata e l’utilizzo delle note a piè di pagina che si ritrova in questo articolo rispetto a quanto scritto dai due in precedenza e anche rispetto al resto del libro stesso. In breve, sembra non scritto da loro. E infatti, come abbiamo scoperto, non è stato concepito e scritto da loro, nel senso che si tratta in larga parte di quello che ci sentiamo di definire un banale quanto volgare ed evidente “plagio”, inteso non nel senso tecnico-giuridico del termine – non siamo infatti minimamente interessati alle questioni giuridiche o a lanciare accuse legali - ma nel suo significato più ampio e colloquiale di copiatura e appropriazione in vari gradi e forme del lavoro e delle idee altrui per farle passare come originariamente proprie. In questo senso ci troviamo dinanzi, da parte dei De Angelis, alla traduzione in italiano, a partire dal titolo, con alcuni opportuni cambiamenti e aggiunta di fotografie, di un articolo pubblicato in lingua inglese e in rete alcuni anni fa da un certo Erik Zara15, di cui peraltro nulla sappiamo.

Una semplice sinossi dei due articoli mostra infatti chiaramente come Alessio De Angelis abbia semplicemente tradotto o al massimo parafrasato in italiano buona parte dell’articolo di Erik Zara, facendolo proprio e discostandosene solamente laddove ritenuto più opportuno per meglio dimostrare la propria tesi (giacché come vedremo Zara è molto più prudente) o camuffare la copiatura, come fanno gli alunni meno capaci quando copiano dai primi della classe sperando di non essere scoperti dalla maestra. Ci sembra tuttavia evidente, nonostante queste varianti, come De Angelis riprenda non solo la tesi e l’intero impianto espositivo ma anche interi periodi, così come la bibliografia riportata e utilizzata (che coincide con quella di Zara e che evidentemente non ha mai veramente consultato) e persino le note a piè di pagina. A tale proposito è curioso come delle ventuno note presenti nell’articolo di De Angelis solo due possano essere considerate farina del suo sacco, ovvero la n° 4 (n° 24 del libro, p. 186), una descrizione tanto raffazzonata quanto inutile (che sospettiamo, per i contenuti e per come strutturata, essere a sua volta una copiatura, solo da altra fonte) delle pratiche sepolcrali romane, e la n° 19 (n° 39 del libro, p. 189) che guarda caso si degna di citare proprio l’articolo di Zara, senza però indicare dove il lettore possa reperire tale articolo e senza riconoscimento alcuno per il lavoro dello Zara stesso a cui De Angelis ha attinto così

15 E. ZARA: Chrestians before Christians? An Old Inscription Revisited. L’articolo è scaricabile al seguente indirizzo: http://www.textexcavation.com/documents/zarachrestianinscription.pdf (21/09/2012)

L'ultimo libro di Alessio e Alessandro De Angelis, dal quale è tratto l'articolo in

questione

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abbondantemente. Tutte le restanti note sono di fatto copiate o dal testo o dalle note di Zara. Tuttavia mentre l’articolo di quest’ultimo si conclude con un sostanziale agnosticismo su cosa si debba effettivamente intendere con quel chrestiani, De Angelis, una volta finito di copiare da Zara e dovendo quindi procedere da solo, ricade nei suoi soliti “vizietti” e ci regala un altro dei suoi voli pindarici, affermando, senza prova, logica e consequenzialità alcuna, che:

“si può dedurre che Jucundus, il Chrestianus, non era un Cristiano ‘gesuita’, ma un Messianista dell’Avvento; uno di quegli Ebrei, cioè, che più o meno pacificamente erano in attesa della venuta di un Messia di stirpe davidica che avrebbe scacciato gli invasori Romani dalle loro terre. Si tratta degli stessi Giudei che ritroviamo a Roma, in Vita Claudii, 25.4, come promotori dei moti legati a un’insurrezione avvenuta “in nome di Cristo” e, in Nero 16.2, come Cristiani seguaci di una setta nuova e malefica”16. L’articolo in rete di De Angelis di fatto termina qui, mentre nel libro dedica un altro paio di

pagine a questa “ardita” quanto improbabile teoria. Avremo modo di affrontare nella seconda parte di questo nostro studio queste curiose teorie di De Angelis, ma per il momento torniamo alla questione del “plagio”.

Per far comprendere meglio al lettore quanto sinora affermato, ci limitiamo a riportare gli

incipit dei due articoli, prima quello di Zara:

“In the 18th century the Italian historian Lodovico Antonio Muratori collected many ancient inscriptions in the work Novus Thesaurus Veterum Inscriptionum. Amongst them, one marble inscription, originally from Rome,(1) has puzzled some scholars. The inscription, an epitaph, given the Corpus Inscriptionum Latinarum identity number CIL VI 24944,(2) reads:

D. M

M. T. DRVSI . PATERES PRIMICINIO3. QVI VIXIT ANN. XXXXII. DIES VII

FAVSTVS. ANTONIAE. DRVSI. IVS EMIT. IVCVNDI. CHRESTIANI. OLL4

According to Dr. Heinrich Chantraine, the stone cutter severely disfigured the text and it is “nicht sicher zu heilen.”(5) “D.M.” is an abbreviation of “Diis Manibus”, “to the gods of the underworld”, and has been said to indicate that the grave was a pagan’s grave.(6) The text, being difficult to interpret as it is missing “essential” words, could be interpreted as saying that M. (and) T.(7), the father/fathers8 of Drusus, dedicated the tomb to his/their first born9 son, who lived for 42 years and seven days, and Faustus, the son/slave/freedman of Antonia, the daughter/wife (10) of Drusus, bought (emit) the right for the urn (with cremation ashes) to be put in a certain columbarium or other burial place (jus oll.),(11) from Jucundus, the Chrestian. “Antonia” has often been interpreted as referring to Antonia Minor (36 BCE - 37 CE),(12) the daughter of Mark Anthony the triumvir, and mother of the emperor Claudius. She was married to General Nero Claudius Drusus, from (18 or) 16 BCE until he died in 9 BCE.(13) Faustus has been regarded as a freedman (14), servant (15) or slave (16) of Antonia…”17

poi quello di De Angelis:

16 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 190. 17 ZARA: Chrestians, 1.

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5 STRANI ChRESTIANI?

“Siamo nel XVIII secolo: lo storico italiano Lodovico Antonio Muratori raccoglie alcune antiche iscrizioni latine nella sua opera Novus thesaurus veterum iscriptionum. Tra queste, un’iscrizione marmorea, proveniente da Roma, rese increduli alcuni studiosi. L’iscrizione(1), un epitaffio a cui nel Corpus inscriptionum latinarum è stato dato il numero seriale CIL VI 24944(2), riporta:

D. M.

M. T. DRVSI. PATERES PRIMICINIO. QVI VIXIT ANN. XXXXII. DIES VII

FAVSTVS. ANTONIAE. DRVSI. IVS EMIT. IVCVNDI. CHRESTIANI. OLL3

“D.M.” è l’abbreviazione di “Dis Manibus” (agli dèi Mani), identificati con le divinità dell’oltretomba(4). La formula introduttiva, rinvenuta in numerose altre epigrafi romane (vedi Stele di Licinia Amiate, III secolo CE), significa che la tomba è dedicata “agli dei degli inferi”, che avevano il compito di proteggere il sepolcro da eventuali profanazioni; di conseguenza è stato fatto notare come la tomba fosse un sepolcro pagano.(5) “M.T.” è stato interpretato come “Marcus et Titus/Tiberius”, dove è stato ipotizzato che il primo fosse il padre biologico, mentre il secondo il padre adottivo(6). Friedrich Münter ritiene che le parole “pateres primicinio” possano essere interpretate come “patris primigenii”(7), per cui il testo potrebbe essere letto come “M. e T., padre/padri di Druso, dedicò/dedicarono la tomba al suo/loro primogenito(8) Druso, che visse per quarantadue anni e sette giorni, e Fausto, il figlio/schiavo/liberto di Antonia, la figlia/moglie di Druso, acquistò il diritto per l’urna (jus olla), perché fosse deposta in un columbarium (nicchia per urne cinerarie) o in un altro luogo di sepoltura, da Giocondo il Chrestiano.” È stato ipotizzato che “Antonia” fosse un riferimento ad Antonia Minore (36 BCE-37 CE), figlia del triumviro Marco Antonio e della sorella dell’imperatore Augusto, Ottavia minore. Nel 17 BCE sposò Druso Maggiore (38 BCE-9 CE), fratello dell’imperatore Tiberio e figlio del primo matrimonio di Livia Drusilla, moglie di Augusto, con Tiberio Claudio Nerone. Dal matrimonio nacquero i figli Germanico (15-19), Claudio (10-54), futuro Cesare, e Claudia Livilla (13-31). “Faustus” è stato considerato un liberto9, domestico10 o schiavo11 di Antonia…”18

Uno sguardo alle note rende ancora più evidente come si tratti di una copiatura. Non abbiamo

intenzione di riportare l’intero testo per provare ciò che ci sembra già sufficientemente provato ed evidente. Lasciamo al lettore il “divertimento” di individuare le continue copiature e le eventuali modifiche lungo tutto l’articolo.

Rimane aperta tuttavia la questione su come si possa essere certi che sia stato De Angelis a copiare Zara e non viceversa. Su questo tuttavia non vi può essere dubbio alcuno poiché non solo l’articolo di Zara è stato pubblicato prima ma il verso della copiatura è reso evidente dalla nota n° 3 di De Angelis (nota n° 23 del libro, p. 185) che corrisponde, ovvero copia, la n° 4 di Zara.

Riportiamo di seguito le due note, prima quella di Zara: (4) Lodovico Antonio Muratori, Novus Thesaurus Veterum Inscriptionum, vol III. Class. XXIII, Mediolani (Milan) 1739-1742, p. 1668, no. 6. Rendering here after Manni, Gaetano, Principi della religion cristiana in Firenze: appoggiati a' più validi monumenti o si dica monumenti appartenenti alla medesima religione, 1764, p. 3.

poi quella di De Angelis:

18 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 185-186.

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6 STRANI ChRESTIANI?

(3) Muratori L. A., Novus Thesaurus Veterum Inscriptionum, vol III. Class. XXIII, Mediolani (Milan) 1739-1742, p. 1668. Rendering here after Manni, Gaetano, Principi della religione cristiana in Firenze: appoggiati a' più validi monumenti o si dica monumenti appartenenti alla medesima religione, 1764, p. 3. Come si vede le due note non solo sono praticamente identiche (l’unica differenza è quel “no.

6” da noi evidenziato in rosso ed assente in De Angelis) ma riportano entrambe anche due parole e frasi in inglese, ovvero: “Milan” e “Rendering here after Manni, Gaetano” (da noi messe nel testo appositamente in grassetto per evidenziarle), cosa perfettamente logica in Zara, che scrive in inglese, ma del tutto priva di senso in De Angelis, che ovviamente scrive sempre in italiano. Questo indica chiaramente che il verso della copiatura va dall’inglese all’italiano, con De Angelis che ha dimenticato di tradurre tali due espressioni e ha perso qualche pezzo per strada, oltre che correggere ciò che invece era corretto, ovvero quel “religion” nel titolo originale del Manni che egli invece erroneamente scrive “religione”. Infatti De Angelis, nel copiare, non si è premunito neppure di controllare cosa stesse copiando e in tal modo ha copiato anche l’errore di citazione di Zara, in quanto l’autore del libro in questione è solamente Domenico Maria Manni19, mentre “Gaetano” è probabilmente Pietro Gaetano Viviani, lo stampatore in Firenze, e non certo un coautore, di cui non vi è traccia20. Sarebbe bastato prendere in mano il suddetto libro e dare un’occhiata al frontespizio per rendersi conto dell’errore.

Inutile dire che tutto questo avviene non solo per l’articolo on line ma anche per quello presente nel libro dei De Angelis21, così che viene davvero naturale chiedersi se tale opera sia mai stata sottoposta ad una revisione editoriale professionale, non diciamo scientifica, perché questo è evidente non sia avvenuto.

Non dobbiamo certo spiegare ai lettori la gravità di quanto da noi riportato. Non ci interessano minimamente gli eventuali aspetti legali e giuridici, ciò che ci interessa è che De Angelis abbia di fatto spacciato, osandola persino pubblicare in un libro, la ricerca di Erik Zara come propria, dando l’impressione al lettore fiducioso e ignaro di aver effettuato un reale lavoro di ricerca invece di quella che risulta essere una banale copiatura con qualche opportuna modifica. Questo significa ad esempio che mai De Angelis ha letto o anche solo sfogliato i libri che ha citato (del resto alcuni sono vecchi tomi in 19 Domenico Maria Manni (1690 – 1788) fu Accademico della Crusca e direttore della Biblioteca Strozzi di Firenze. Scrisse numerose opere a carattere storico e filologico. Si veda la relativa voce in AA.VV.: Biografia Universale Antica e moderna. Ossia, Storia per alfabeto della vita publica e privata di tutte le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti. Opera affatto nuova compilata in Francia da una società di dotti ed ora per la prima volta recata in italiano con aggiunte e correzioni. Vol. XXXV, Mal – Mar; Venezia, Presso Gio. Battista Missiaglia 1827, pp. 123-125. 20 D.M. MANNI: Principi della religion cristiana in Firenze appoggiati a' più validi monumenti o si dica monumenti appartenenti alla medesima religione; Firenze, Stamp. Pietro Gaetano Viviani 1764. 21 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 185.

Frontespizio del libro di Domenico Maria Manni: Principi della religion cristiana...; Firenze 1764

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7 STRANI ChRESTIANI?

tedesco, lingua che spesso umanisti ben più navigati non riescono a padroneggiare), come peraltro si evince dalla bizzarra quanto scarna e inutile bibliografia finale del suo libro22. Se questo scredita anche il resto del libro dei due De Angelis lo lasciamo giudicare al lettore. Non sappiamo cosa sia passato nella mente dei due “autori” nel realizzare una simile operazione, l’unica nostra speranza, per superare la gravità di quanto mostrato, sia per i lettori che per De Angelis stesso, è che in realtà Erik Zara sia uno pseudonimo dello stesso Alessio De Angelis (o quantomeno del padre), anche se ne dubitiamo fortemente. Aspettiamo pertanto che De Angelis chiarisca questo imbarazzante episodio.

22 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 311-315.

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3. LIMITI ED ERRORI NELLE TESI DI ERIK ZARA E ALESSIO DE ANGELIS

La questione sollevata nel capitolo precedente porta con sé un’altra questione non meno

importante: la copiatura, a nostro avviso evidente, da parte di De Angelis dell’articolo di Erik Zara è ragione sufficiente per cassare le argomentazioni e la tesi contenute nel suo articolo e prima ancora in quello di Zara? Riteniamo un’ovvietà la risposta negativa a tale domanda: il fatto che un articolo sia un “plagio” non inficia di per sé la tesi sottesa all’articolo stesso e a quello originale, mostra semmai solamente la disonestà intellettuale di colui che copia. Dobbiamo allora occuparci in dettaglio di questa tesi, tenendo conto che essa in realtà va divisa in due momenti, il primo dei quali corrisponde al lavoro di Zara sull’attribuzione e datazione della lapide sepolcrale in oggetto e sulla effettiva presenza del cognomen chrestianus nei primi anni del primo secolo d.C., e quasi interamente scopiazzato da De Angelis, il secondo momento invece consiste delle sole conclusioni tratte da De Angelis.

La tesi presentata da Zara, e quindi da De Angelis, è, come già detto, semplice. La lapide sepolcrale che si sta considerando, per le sue caratteristiche e i suoi contenuti va datata con ogni probabilità ai primi anni del I secolo d.C. se non addirittura agli ultimissimi anni del I secolo a.C., il che genera un grosso interrogativo riguardo al senso da dare al termine chrestiani23, chiaramente presente nell’iscrizione e riguardo al quale Zara, al contrario di De Angelis, sembra tuttavia mantenere una certa lodevole, seppur fuorviante, prudenza:

“Since indeed no usage of the apparently very uncommon proper name or cognomen Chrestianos or Chrestianus, in Rome, during the life time of Antonia Minor, or the rest of the first century, can be confirmed, and since no known group seems to have been called Christiani or Chrestiani before 37 CE (and the Christians did not call themselves Christians until later, in their own documents), I conclude that the inscription, if correctly interpreted and dated, probably refers to something else. Perhaps Jucundus was a part of a group called the “Chrestians”, but as no external evidence in support of such a notion exists, I will leave the subject without further conclusions about the meaning of the word Chrestiani here”24.

23 Rileviamo come nel presentare le possibili interpretazioni del termine chrestiani Zara commetta un altro errore di citazione, affermando: “If Chrestianus is not a servant’s name, it could be referring to a person belonging to the new religion (i.e. Christianity), Dr. Marta Sordi concludes” (ZARA: Chrestians, 2). Zara rimanda poi in nota a “Marta Sordi, Autocoscienza e rappresentazione dei popoli nell'antichità, Vita e pensiero, 1992, (Sordi), p. 217”. Peccato che Marta Sordi non abbia mai scritto tale frase in quanto si tratta di un articolo di Saverio Xeres (S. XERES: Il nome Χριστιανοι come espressione dell’autocoscienza di un popolo nuovo, in M. SORDI (a cura di): Autocoscienza e rappresentazione dei popoli dell’antichità; Vita & Pensiero 1992, pp. 211-225). Il De Angelis ovviamente lo segue nell’errore, lanciandosi peraltro in una breve quanto simpatica filippica su quelli che egli è solito chiamare storici genuflessi (e.g. DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 192), ovvero sulle “autorità accademiche che, probabilmente per interessi personali, sempre più spesso tradiscono le verità storiche proponendo insostenibili teorie con lo scopo, sin troppo evidente, di avallare il proprio credo personale” (DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 189-190). Lasciamo ai lettori il giudizio su un simile sproloquio. 24 ZARA: Chrestians, 4.

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Per datare la lapide in realtà Zara si basa sulle osservazioni di altri autori, per lo più datati, e su una sorta di consensus a tale proposito nella peraltro scarna letteratura a riguardo. Il punto di partenza è l’identificazione dell’ Antonia Drusi dell’iscrizione con Antonia Minore (36 a.C. – 37 d.C.)25, nipote preferita dell’imperatore Ottaviano Augusto (63 a.C. – 14 d.C.), in quanto figlia della sorella Ottavia Minore (69 a.C. – 11 a.C.), nonché moglie di Nerone Claudio Druso Germanico (38 a.C. - 9 a.C.) detto anche Druso Maggiore26, secondogenito27 del pretore Tiberio Claudio Nerone (85 a.C. – 33 a.C.) e di Livia Drusilla (58 a.C. – 29 d.C.), la quale, nel 38 a.C., a soli tre giorni dalla nascita di Druso, diverrà la seconda moglie di Ottaviano Augusto. Stiamo pertanto parlando della dinastia imperiale Giulio-Claudia. Se dunque l’Antonia Drusi dell’iscrizione è effettivamente Antonia Minore, e questo sarebbe confermato, secondo Zara, dal fatto che praticamente solo le donne della casa imperiale vengono ricordate come “mogli di”, il Druso che compare due volte nell’iscrizione non può che essere suo marito, Druso Maggiore, al quale sarebbe pertanto dedicata la lapide sepolcrale. Basandosi sul fatto che Antonia è morta nel 37 d.C. e anche sul fatto che non è citata con la dicitura Augusta, Zara conclude che la lapide debba per forza essere stata realizzata al massimo nel 37 d.C. In realtà anche tale data sarebbe eccessivamente alta, giacché non si capisce perché Antonia Minore avesse dovuto aspettare così tanti anni per far incidere la lapide sepolcrale dell’amatissimo marito, morto nel 9 a.C. E’ pertanto più probabile che tale lapide sia stata realizzata o negli ultimissimi anni del I secolo a.C., subito dopo la morte di Druso, o nei primi anni del I secolo d.C.28, certamente troppo presto per una effettiva presenza cristiana a Roma. A onore di Zara dobbiamo dire che la sua interpretazione si basa sull’opinione di diversi esperti, tutti apparentemente concordi nell’identificare l’Antonia dell’iscrizione con Antonia Minore e che ancora oggi tale lapide è comunemente, ritenuta della prima metà del I secolo d.C.29

Ci sembra tuttavia che l’argomentazione di Zara presenti alcuni punti quantomeno problematici.

La prima cosa che colpisce è la totale assenza, sia in Zara che negli autori prima di lui, di un qualsiasi tentativo di analisi paleografica dell’iscrizione, il che ci fa concludere che tali autori e Zara

25 Su Antonia Minore si veda la monografia di N. KOKKINOS: Antonia Augusta. Portrait of a Great Roman Lady; Routledge 1992. Si veda anche la voce Antonia, supreme in beauty and mind in J. BURNS: Great Women of Imperial Rome. Mothers and Wives of the Caesars; Routledge 2007, pp. 25-39. K. POLASCHEK: Studien zur Ikonographie der Antonia Minor; L’Erma di Bretschneider 1973. W. TRILLMICH Familienpropaganda der Kaiser Caligula und Claudius. Agrippina Maior und Antonia Augusta auf Münzen; De Gruyter 1978. 26 Su Druso Maggiore si veda la recente, e per quanto sappiamo unica, monografia romanzata di L. POWELL: Eager for Glory. The Untold Story of Drusus the Elder, Conqueror of Germania; Pen & Sword Military 2011. 27 Il fratello maggiore di Druso è Tiberio Claudio Nerone (43 a.C. – 37 d.C.), che diverrà imperatore nel 14 d.C. con il nome di Tiberio Giulio Cesare Augusto. 28 Così Alessio De Angelis (DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 189-190). 29 AA.VV.: Libitina e dintorni. Libitina e i luci sepolcrali, le leges libitinariae campane, iura sepulcrorum: vecchie e nuove iscrizioni. Atti dell'11. rencontre franco-italienne sur l'epigraphie; Quasar 2004, p. 329.

Ritratto marmoreo di Antonia Minore, I sec. d.C., conservato presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps in Roma

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stesso (e ancor più De Angelis) non hanno mai visto tale lapide o una sua raffigurazione fedele, in fotografia o disegno. La mancanza di una pur basilare analisi paleografica rappresenta il venire

meno di un criterio importante, seppur non certo unico, per la corretta soluzione e datazione dell’iscrizione. Non ne facciamo certamente una colpa a Zara, neppure noi siamo riusciti a vedere dal vivo tale iscrizione o a trovarne una riproduzione fedele, in fotografia o disegno, questo perché, da quanto ci è dato sapere, tale lapide è purtroppo andata perduta30. Non siamo neppure riusciti a trovare uno studio approfondito e affidabile su tale iscrizione, che sembra essere considerata di poca importanza e citata solamente di passaggio, così che il consensus sull’interpretazione, attribuzione e datazione sembra il frutto dell’inerzia dopo le prime ipotesi, piuttosto che di un’analisi approfondita e condivisa. Un ulteriore problema è dato dal fatto che non è dato sapere in quale contesto è stata ritrovata tale lapide. Sappiamo solamente che è stata ritrovata a Roma e poi trasferita a Firenze31, il che è troppo poco, così che viene a mancare un’ulteriore criterio di analisi, quello del contesto, ovvero quello esterno32. Rimane pertanto solamente il criterio interno, quello relativo al testo in se stesso, per tentare di sciogliere adeguatamente l’iscrizione e tentare una datazione

almeno approssimativa. La presenza dell’adprecatio nella forma abbreviata DM,

nonché la dedica con gli anni di vita, ci dicono che senza alcun dubbio ci troviamo dinanzi a una lapide sepolcrale, realizzata per individuare il luogo di sepoltura e ricordare il defunto, che in questo caso sembrerebbe essere, ma non è affatto sicuro, un certo Druso. Il riferimento, nell’iscrizione, all’acquisto del diritto alla olla33, un vaso nel quale venivano conservate le ceneri dei defunti, ci dice che probabilmente l’iscrizione era all’interno o forse all’esterno di un columbarium, il quale, come suggerisce il nome stesso, era una costruzione funeraria ad uso collettivo con delle file di nicchie o loculi nelle pareti, nei quali venivano conservate le urne cinerarie. Si tratta di costruzioni funerarie molto diffuse a Roma a partire dalla metà del I secolo a.C.34 e utilizzate sino al II secolo

30 La cosa non deve sorprendere. La presenza di un’iscrizione nel Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL) non significa che essa sia tuttora esistente, in quanto nel frattempo potrebbe essere andata perduta, ma solo che ne è attestato il ritrovamento. In realtà sono diverse le epigrafi presenti nel CIL ma purtroppo non più in nostro possesso. Cf. G. SUSINI: Epigrafia romana; 3a ed., Jouvence 1997, pp. 42-43. Anche L. STORONI MAZZOLANI (a cura di): Iscrizioni funerarie romane; Rizzoli 1991, p. VII. 31 Cf. C. HUELSEN et al. (eds): Corpus Inscriptionum Latinarum. Vol. VI, Inscriptiones urbis Romae latinae. Pars IV, fasc. I, Tituli sepulcrales: Plotia-Zozon. Inscriptiones varii argumenti. Fragmenta; Berolini (Berlino) 1894 (De Gruyter 1968), p. 2509. 32 Generalmente quello paleografico viene considerato un criterio esterno (Cf. I. CALABI LIMENTANI: Epigrafia latina; 4a ed., Cisalpino 1991, p. 151), tuttavia lo abbiamo scorporato per facilitare la comprensione del lettore. 33 Sulla compravendita di sepolcri e diritti di sepoltura si veda M.L. CALDELLI, S. CREA, C. RICCI: Donare, emere, vendere, ius habere, concedere, similia. Donazione e compravendita, proprietà, possesso, diritto al sepolcro e diritti di sepoltura, in AA.VV.: Libitina e dintorni. Libitina e i luci sepolcrali, le leges libitinariae campane, iura sepulcrorum: vecchie e nuove iscrizioni. Atti dell'11. rencontre franco-italienne sur l'epigraphie; Quasar 2004, p. 310-349. 34 R. LUCIANI (a cura di): Roma sotterranea. Porta San Sebastiano, 15 ottobre 1984-14 gennaio 1985; [Comune di Roma – Assessorato per gli interventi sul centro storico – Assessorato alla cultura], F.lli Palombi 1984, p. 281.

Statua di Antonia Minore, della metà del I secolo d.C.

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d.C. inoltrato, quando la tumulazione iniziò a sostituire la cremazione35, destinate ad ospitare le ceneri dei membri delle famiglie non gentilizie, soprattutto liberti e schiavi, ma anche individui liberi di estrazione modesta o benestante. I nobili e i ricchi avevano generalmente sarcofaghi e sepolcri personali o familiari costosi o addirittura, nel caso delle famiglie imperiali, veri e propri

mausolei36, come quello di Augusto o Adriano a Roma.

Il primo effettivo problema nella

ricostruzione di Zara nasce dall’identifi-cazione dell’Antonia Drusi dell’iscrizione con Antonia Minore, in quanto non viene dato un vero motivo per tale identifi-cazione, a parte riportare che tale identificazione viene accettata da tutti. Ci sembra pertanto che tale identificazione sia effettuata semplicemente e solamente per assonanza e analogia con altre iscrizioni nelle quali è presente un’Antonia Drusi ragionevolmente identificata con Antonia Minore. La prosopografia a tale riguardo infatti è chiara e concorde nell’individuare nell’Antonia Drusi delle iscrizioni in nostro possesso Antonia Minore moglie di Druso Maggiore37, e questa è anche la

nostra opinione, così che è davvero molto probabile, quasi certo, che qui si parli effettivamente di Antonia Minore. Nonostante l’innegabile forza di questo dato, tuttavia, questa non è un‘argomentazione del tutto decisiva, tanto che lo stesso Zara è costretto ad ammettere che “It is not possible, based only on the information given, to conclude with absolute certainty that the Antonia and Drusus in the inscription actually are the famous Antonia and Drusus mentioned above”38. Nella sua nota 17 di pagina 2, inoltre, per rafforzare tale identificazione, Zara ricorda di non aver trovato nessuno che dubita dell’identificazione con Antonia Minore e cita un articolo, in realtà una nota dell’articolo, di Mason Hammond, universalmente riconosciuto studioso serio e autorevole, nel quale costui afferma che:

35 Sui colombari in generale e il passaggio all’inumazione e alle catacombe cristiane si veda J.M.C. TOYNBEE: Morte e sepoltura nel mondo romano; L'Erma di Bretschneider 1993, pp. 88-92. K. HASEGAWA: The Familia Urbana During the Early Empire. A Study of Columbaria Inscriptions; Archaeopress 2005. D. BORBONUS: Textual and Visual Commemoration in Columbarium Tombs of Early Imperial Rome; University of Pennsylvania Dissertations 2006. A. AUER: Die Columbarien der späten Republik und der frühen Kaiserzeit in den Nekropolen Roms und ihre Ausstattung; Munich 1989. J. BODEL: From Columbaria to Catacombs. Collective Burial in Pagan and Christian Rome, in L. BRINK, D. GREEN (eds): Commemorating the Dead. Texts and Artifacts in Context. Studies of Roman, Jewish, and Christian Burials; De Gruyter 2008, pp. 177-242. 36 Sui monumenti sepolcrali romani in generale si veda H. VON HESBERG: Monumenta. I sepolcri romani e la loro architettura; Longanesi 1994. 37 E. KLEBS: Prosopographia Imperii Romani Saeculi I, II, III, edita consilio et auctoritate Academiae Scientiarum Regiae Borussicae. Pars I, A-C; Berolini (Berlino), apud Georgium Reimerum 1897, pp. 106-107. 38 ZARA: Chrestians, 1-2.

Uno dei columbarii di Vigna Codini, sull’Appia, I secolo d.C.

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“A survey of the inscriptions in ILS39 II 2 chs. XVI, Tituli ministrorum vitae privatae, etc., and XVII, Tituli sepulcrales, produced relatively few instances where a woman was indicated as the wife of so-and-so except in the case of the imperial house”.

Ora, a parte che Zara sbaglia la citazione, poiché tale

articolo non è stato pubblicato nel volume 69 del 1965 del Harvard Studies in Classical Philology, bensì nel volume 84 del 1980, e la nota non è la numero 16 ma la numero 1540, non è ben chiaro come questa possa essere una dimostrazione a favore dell’identificazione con Antonia Minore. L’Hammond infatti, seppur esprimendosi in modo non chiarissimo, sta semplicemente argomentando che nella raccolta di iscrizioni da lui consultata vi sono relativamente pochi casi in cui viene citata la “moglie di”, con la costruzione al gentivo, e che non siano relativi alla casa imperiale, non che non esistono casi in cui questo avvenga al di fuori di essa, poiché sappiamo che questo non è vero, come testimonia peraltro proprio l’iscrizione di cui lo stesso Hammond sta trattando41, mentre era usuale nominare la moglie assieme al marito in vari modi, come testimonia il recente ritrovamento lungo la via Salaria, nei dintorni di Roma, di una lastra marmorea funeraria e la relativa

iscrizione databili tra la fine del I secolo d.C. e il II secolo d.C.42.

Se l’argomentazione di Zara è discutibile e problematica, essendo sostanzialmente un richiamo all’auctoritas, De Angelis, nello scopiazzare Zara, e pertanto nel commettere lo stesso errore di citazione, vuole strafare per dare più forza alla propria argomentazione, e combina il suo solito disastro, mettendo in bocca al compianto Hammond cose che costui non si sogna neppure di dire:

“A favore dell’identificazione dell’Antonia moglie di Druso citata nell’epigrafe con l’Antonia Minore figlia di Marco Antonio e Ottavia Minore, sorella di Augusto, ha espresso la propria opinione il professore dell’Università di Harvard Mason Hammond, che ha affermato: “Sono relativamente poche le attestazioni dove una donna viene indicata come moglie del defunto, eccetto nei casi in cui si tratta di illustri personaggi imparentati con la casata imperiale”43. Non solo così espressa tale citazione ci sembra avere ancora meno senso e rilievo, ma,

purtroppo per il De Angelis, Hammond sta argomentando in relazione a tutt’altra iscrizione e non si è neppure sognato di esprimersi a favore dell’identificazione dell’Antonia moglie di Druso citata 39 Hammond si sta riferendo a H. DESSAU (ed.): Inscriptiones Latinae Selectae; 5 tomi in 3 vol., Berolini (Berlino) 1892-1916. Sta citando in particolare il Vol. 2, Pars II, edito a Berlino nel 1906 per i tipi della Weidmann. 40 M. HAMMOND: An Unpublished Latin Funerary Inscription of Persons Connected with Maecenas, in Harvard Studies in Classical Philology, Vol. 84 (1980), pp. 263-277. 41 “Senecio Terentiae Maecenatis” (HAMMOND: Unpublished, 265, 271). 42 S. GIANOLIO: Una nuova iscrizione lungo la Via Salaria, in Epigraphica, Vol. LXXIV, 1-2/2012, pp. 403-406. In questo caso abbiamo a che fare con dei liberti. 43 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 188-189.

Busto marmoreo di Druso Maggiore conservato nella Sala di Druso del Palazzo

del Quirinale in Roma

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nell’epigrafe che stiamo analizzando, con Antonia Minore, e se nella sua nota egli cita varie iscrizioni riportanti l’espressione Antoniae Drusi, peraltro assieme ad altri diversi casi, lo fa solo come exempla. Se si fosse degnato di controllare e leggere l’articolo in questione De Angelis avrebbe facilmente evitato di ricopiare l’errore di Zara e di attribuire inoltre ad Hammond intenzioni che costui non ha mai avuto. Ma temiamo che sia davvero chiedere troppo al nostro cristologo dilettante.

Ammettendo pertanto che l’Antonia Drusi della nostra

iscrizione vada identificata con Antonia Minore, e quindi Druso con Druso Maggiore, un’analisi più approfondita dell’iscrizione, soprattutto della sua prima parte, che presenta numerosi problemi e difficoltà, alcuni irrisolvibili, porta a concludere tuttavia come l’identificazione del Druso della prima parte dell’iscrizione con Druso Maggiore, come sembra suggerire Zara, e soprattutto De Angelis, non sia probabile e neanche solo possibile. Dopo il primo problema legato all’identificazione di Antonia Drusi con Antonia Minore, sorge subito infatti un secondo problema, questa volta per la presenza delle due lettere puntate M. T., che non siamo in grado di sciogliere, per mancanza di altri elementi chiarificatori, in maniera soddisfacente e certa. Si potrebbe ipotizzare, di primo acchito, che siano le iniziali dei praenomina maschili M(arcus) e T(itus), sentendoci di escludere invece Tiberius, che è usualmente abbreviato con Ti44. Non sappiamo chi siano costoro, ma certamente ed evidentemente non sono il padre adottivo45 (Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto) e quello naturale (Tiberio Claudio Nerone) di Druso Maggiore, giacché nessuno sano di mente avrebbe abbreviato il nome di Ottaviano Augusto con una M, omettendo per di più la sua titolatura imperiale, senza contare che Tiberio Claudio Nerone è morto nel 33 a.C, quando Druso

Maggiore aveva solo cinque anni. Ogni altro tentativo di dare un nome a tali iniziali ci sembra essere aleatorio e si infrange inesorabilmente contro il muro della nostra ignoranza e mancanza di dati fondamentali riguardanti questa epigrafe: “ogni iscrizione ha una storia, di cui talvolta cogliamo le spie, ma che spesso è destinata a tacere per sempre”46. Un ulteriore problema è dato dalle due espressioni pateres e primicinio, che non risultano attestate altrove e sembrano essere piuttosto l’errore di un lapicida (inscriptor) inesperto o semianalfabeta47. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare infatti, “i monumenti iscritti presentano spesso errori nella scelta o nella sequenza delle lettere e a volte anche di intere parole”48, tali errori peraltro “riflettono le pronunce 44 G. SUSINI: Epigrafia romana; 3a ed., Jouvence 1997, p. 108. Anche A.E. GORDON: Illustrated Introduction to Latin Epigraphy; University of California Press 1983, p. 15. Per una più completa lista di abbreviazioni si veda I. CALABI LIMENTANI: Epigrafia latina; 4a ed., Cisalpino 1991, pp. 487 e ss. 45 In realtà, benché figliastro di Augusto e quindi facente parte a pieno titolo della famiglia imperiale, e benché fosse molto amato, come si vedrà dagli onori tributatigli alla sua morte, Druso Maggiore non fu mai adottato ufficialmente da Augusto (Cf. B. SEVERY: Augustus and the Family at the Birth of the Roman Empire; Routledge 2010, p. 162). 46 G. SUSINI: Il lapicida romano. [Introduzione all’epigrafia latina]; [Archivio di Stato di Bologna] 1966, p. 62. 47 Sui lapicidi e i loro eventuali errori si veda G. SUSINI: Il lapicida romano. [Introduzione all’epigrafia latina]; [Archivio di Stato di Bologna] 1966, pp. 57 e ss. Anche G. SUSINI: Epigrafia romana; 3a ed., Jouvence 1997, p. 75-76. 48 A. DONATI: Epigrafia romana. La comunicazione nell’antichità; Il Mulino 2002, p. 13.

Bassorilievo del lato meridionale dell'Ara Pacis a Roma raffigurante, nella processione della famiglia imperiale, Druso Maggiore e Antonia Minore, la quale tiene per mano il primogenito Germanico

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locali e il livello di cultura del committente quanto quello dell’incisore”49. Pateres pertanto dovrebbe in realtà essere patres, padri50, forse un iperurbanismo per influenza della voce greca πατέρες51, infatti l’accento in greco cade in luogo diverso dal latino, ed è certamente un nominativo plurale, il che indicherebbe che essi sono i dedicatori dell’iscrizione52. E’ stata anche proposta la lettura parentes53, ovvero genitori, ma patres ci sembra più probabile in quanto l’eventuale errore, se non si tratta di un grecismo più o meno volontario, è più facile e probabile. Nel nostro caso riteniamo ragionevole ipotizzare che pateres/patres non vada inteso nel senso primario di ‘padri’ ma in quello esteso di ‘genitori’. L’utilizzo di patres nel senso di genitori, ovvero al posto di parentes54, sembra infatti presente ad esempio in Virgilio55 e in diverse epigrafi funerarie provenienti da zone differenti, nonché nel latino volgare56, e dovrebbe quindi essere una forma colloquiale ovvero un plurale associativo57, come nello spagnolo mis padres, che letteralmente significa ‘miei padri’ ma in realtà significa ‘i miei genitori’, ovvero ‘mio padre e mia madre’58.

Riportiamo a titolo di esempio l’iscrizione sepolcrale della piccola Dunamiola, morta a soli tre anni, con la dedica di Sedatus e Paulina, che si definiscono patres e che con tutta evidenza, dal momento che la chiamano “dolcissima figlia”, sono i suoi genitori:

Sedatus et Paulina patres dulcissimae filiae Dunamiolae titulum posu erunt quae vixit annos tres et menses quinque et dies viginti59

Se questa nostra ipotesi è corretta allora M. e T. non sono le abbreviazioni di due praenomina maschili ma di un nome maschile e uno femminile60, che tuttavia al momento non siamo in grado di identificare.

49 L. STORONI MAZZOLANI (a cura di): Iscrizioni funerarie romane; Rizzoli 1991, p. X. 50 Il termine patres in alcuni casi assume il significato di ‘senatori’ o anche ‘antenati’, ma ci sentiamo di escluderlo, in quanto del tutto incongruente con il resto dell’iscrizione. 51 “Sono molti, nelle iscrizioni, i calchi linguistici latini sul greco e non mancano neppure, in iscrizioni latine, casi di lettere trasformate in caratteri latini con sovrapposizione di tratti di scrittura su lettere greche che il lapicida aveva inciso in precedenza in quanto abituato a quel sistema alfabetico” (A. DONATI: Epigrafia romana. La comunicazione nell’antichità; Il Mulino 2002, p. 17-18). “… (l’) importanza degli errori in parole di uso comune, in espressioni consuete, ma proprio questo è il caso in cui molti altri fattori possono condurre all’errore, ovvero l’errore può realmente rivelare un fenomeno linguistico“ (G. SUSINI: Il lapicida romano. [Introduzione all’epigrafia latina]; [Archivio di Stato di Bologna] 1966, p. 60). Più in generale si veda I. KAJANTO: A Study of the Greek Epitaphs of Rome; Helsinki 1963. 52 Erik Zara e assieme a lui De Angelis, che copia per l’ennesima volta un errore senza accorgersene, a dimostrazione che non ha la più pallida idea di che cosa si stia parlando, parla di dedica della tomba, laddove ovviamente si dedicava non la tomba ma la lapide e la relativa iscrizione. 53 C. HUELSEN et al. (eds): Corpus Inscriptionum Latinarum. Vol. VI, Inscriptiones urbis Romae Latinae. Pars IV, fasc. I, Tituli sepulcrales: Plotia-Zozon. Inscriptiones varii argumenti. Fragmenta; Berolini (Berlino) 1894 (De Gruyter 1968), p. 2509. 54 C.T. LEWIS, C. SHORT: A New Latin Dictionary; Clarendon Press 1891, p. 1314. 55 N. HORSFALL: Virgil, Aeneid 2. A Commentary; Brill 2008, pp. 579-580. 56 J. HERMAN: Vulgar Latin; Pennsylvania State University Press 2000, p. 103. 57 E. MORAVCSIK: A Semantic Analysis of Associative Plurals, in Studies in Language XXVII, 3/2003, pp. 469-503. 58 D. BRODSKY: Spanish Vocabulary. An Etymological Approach; University of Texas Press 2008, p. 357. 59 CIL XIII 03889. Per altre attestazioni simili si vedano ad esempio CIL XIII 03900, CIL XIII 03907, CIL XIII 07003, CIL XI 04674, CIL XI 00516, CIL IX 01866 et al.

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Il termine primicinio sembra essere un chiaro errore del lapicida e dovrebbe stare per primigenio, che significa ‘primogenito’. La prima parte dell’iscrizione potrebbe pertanto essere letta nel seguente modo:

Agli Dei Mani M. T. genitori di Druso [dedicano questa lapide] al primogenito che visse quarantadue anni e sette giorni

Sorge a questo punto la questione relativa a chi sia questo primogenito: De Angelis lo identifica

senza porsi alcun problema con il Druso poco prima nominato61, mentre Zara sembra essere più prudente. Il problema tuttavia è che Drusi e primicinio non concordano, essendo il primo ovviamente un genitivo e il secondo un dativo. Si potrebbe pertanto ipotizzare ad esempio che questo primogenito sia in realtà il fratello maggiore di questo Druso, o addirittura il figlio. Difficile dire quale sia la lettura corretta, in mancanza di ulteriori dati. Anche concordando con la lettura di De Angelis, il Druso di questa iscrizione non può essere in alcun modo Druso Maggiore, marito di Antonia Minore, per tutta una serie di difficoltà insormontabili per tale identificazione. La prima difficoltà, come abbiamo già visto, è data dalle due abbreviazioni M. e T., che non possono identificare il padre adottivo e quello naturale di Druso Maggiore e neppure i suoi effettivi genitori. La seconda difficoltà è data dalla totale mancanza di titolature per questo Druso. Druso Maggiore era il figliastro dell’imperatore e generale molto amato, difficile, anzi impossibile, pensare che nella

sua lapide funeraria ci si fosse dimenticati di identificarlo con i tria nomina e con gli attributi consueti, che generalmente erano Germanico, console, imperatore, e, più raramente, in seguito, fratello di Tiberio62. La terza difficoltà è data dal fatto che il defunto a cui sembra essere dedicata l’iscrizione è morto all’età di 42 anni: Druso Maggiore è morto il 9 a.C. per una caduta da cavallo, o per una malattia, mentre era al comando dell’esercito imperiale in Germania, all’età di soli

29 anni63. Un errore di ben tredici anni è difficilmente ipotizzabile persino per il più incapace dei lapicidi. Infine, ma non meno importante, Druso Maggiore non era un primogenito ma secondogenito. Da quanto esposto ne consegue che è impossibile che il defunto in questione fosse Druso Maggiore. Tale defunto non è neppure identificabile con il fratello maggiore, e quindi primogenito, di Druso Maggiore, poiché esso è il futuro imperatore Tiberio, che certo non morì a quarantadue anni ma a settantasette, proprio nel 37 d.C., nello stesso anno di Antonia Minore e ben

60 Il Mommsen propone Montanus e Tyche, ma non sappiamo su quali basi (C. HUELSEN et al. (eds): Corpus Inscriptionum Latinarum. Vol. VI, Inscriptiones urbis Romae Latinae. Pars IV, fasc. I, Tituli sepulcrales: Plotia-Zozon. Inscriptiones varii argumenti. Fragmenta; Berolini (Berlino) 1894 (De Gruyter 1968), p. 2509). 61 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 186. 62 Cf. CIL XIII 01272, CIL XIV 02496a, CIL VI 40321. 63 Per l’anno, le circostanze e le fonti sulla morte di Druso Maggiore si veda A.K. BOWMAN et al. (eds): The Cambridge Ancient History. Vol. 10, The Augustan Empire 43 BC – AD 69; 2nd ed., Cambridge University Press 1996, p. 181.

Aureus raffigurante Druso Maggiore con la scritta Nero Claudius Drusus Germanicus Imp. de Germanis

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dopo la morte del proprio padre naturale e di Ottaviano Augusto, che lo aveva adottato ufficialmente, facendone così il proprio erede, nel 4 d.C.64

Un ulteriore, a nostro avviso insormontabile, problema è dato dalla semplicità e modestia della

lapide, individuabile anche dagli errori del lapicida, dal fatto che il defunto, ovvero le sue ceneri, è deposto in un colombario e che il diritto a tale posto sembra essere stato comprato da un servo di Antonia Minore. Druso Maggiore, come già detto, apparteneva alla famiglia imperiale, era un generale dell’impero ed era amatissimo dal popolo, che lo ricorderà a lungo, probabilmente destinato ad essere il successore di Augusto: impensabile che potesse essere seppellito in un colombario, in un posto comprato da uno schiavo. Non solo è impensabile, ma sappiamo praticamente con certezza che non è così poiché la morte e i funerali grandiosi di Druso Maggiore, nonché la sua sepoltura nel Mausoleo di Augusto, sono stati raccontati da diversi autori dell’epoca. Riportiamo qui per brevità solo il racconto di Cassio Dione:

“Druso, pertanto, partì immediatamente, e mentre stava tornando velocemente indietro morì sulla strada per una malattia, prima di arrivare al Reno. Confermano la mia narrazione questi avvenimenti: prima della sua morte alcuni lupi che si aggiravano intorno all'accampamento continuavano a latrare; due giovani furono visti cavalcare in mezzo al fossato; un canto lamentoso di donne venne udito e si verificarono dei passaggi di comete nel cielo.

Così andarono le cose, e Augusto, essendo venuto a sapere con un certo anticipo della malattia di Druso (infatti non si trovava lontano da lui), mandò velocemente sul luogo Tiberio; questi trovò Druso ancora in vita e quando lo portò a Roma egli era ormai morto: dapprima si servì dei centurioni e dei tribuni militari per trasportarlo fino all'acquartieramento invernale dell'esercito, poi dei notabili cittadini di ciascuna città. Il corpo di Druso venne esposto nel Foro e si tennero due orazioni funebri: Tiberio ne pronunciò una lì sul luogo e Augusto ne pronunciò un'altra nel Circo Flaminio, dal momento che era assente per una spedizione militare e al momento della sua entrata nel pomerium non gli era consentito trascurare i suoi doveri di generale per celebrare le imprese compiute. La salma venne portata nel Campo Marzio dai cavalieri, sia quelli appartenenti all'ordine equestre vero e proprio che quelli di famiglia senatoria; là venne dato alle fiamme e le ceneri furono deposte nel Mausoleo di Augusto; Druso, insieme ai suoi figli, ricevette l'appellativo di Germanico ed ottenne degli onori che consistevano sia in statue, sia in un arco e un cenotafio sulla sponda del Reno”65.

Svetonio, nella sua Vita Divi Claudii, ci racconta inoltre che Augusto “non contento di aver fatto incidere sul suo sepolcro un epitaffio in versi, che aveva composto di persona, lasciò anche

64 A. ZIOLKOWSKI: Storia di Roma; Bruno Mondadori 2006, p. 313. 65 L. CASSIO DIONE: Storia romana, LV, 1-2. Traduzione italiana tratta da CASSIO DIONE: Storia romana. Volume quinto (libri LII-LVI); Rizzoli 1998, pp. 373-375. Per un’analisi di questo brano si veda P.M. SWAN: The Augustan Succession. An Historical Commentary on Cassius Dio’s Roman History, Books 55–56 (9 b.C .– a.D. 14); Oxford University Press 2004, pp. 44-47.

Resti del Cenotafio di Druso sul Reno

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uno scritto in prosa a memoria della sua vita”66. Ovviamente l’epigrafe di cui ci occupiamo non ha nulla a che vedere con l’epitaffio o elogium scritto da Augusto o con l’epigrafe funeraria sul sepulcrum di Druso nel Mausoleo di Augusto, purtroppo andata persa, così come l’elogium di Augusto67. Ugualmente non è pensabile che tale epigrafe facesse parte del suddetto Mausoleo non solo perché probabilmente ne avremmo notizia ma soprattutto perché il Mausoleo era destinato alle sepolture della famiglia imperiale e certamente nessuno schiavo avrebbe potuto comprare alcun diritto alla sepoltura per se stesso o per il proprio padrone. Ne consegue inevitabilmente che l’epigrafe in questione non è del sepulcrum di Druso Maggiore e, data la sua chiara natura sepolcrale, non può essere neppure di un monumento puramente commemorativo, come quello ricordato da Svetonio: “monumentum Drusi patris”68.

Tra l’altro è giunto sino a noi l’elogium di Druso Maggiore posto nel Foro di Augusto:

[Nero] Cl[au]diu[s] Ti. f. [Dru]sus Ge[r]man[i]cus [co(n)s(ul), p]r(aetor) urb(anus), q(uaestor), aug(ur), imp(erator) [app]ella[t]us in Germania69

Da dove dunque verrebbe questa epigrafe, se si vuole individuare nel Druso citato, e ancor più nel defunto, Druso Maggiore?

Da quanto sinora esposto si può

pertanto concludere che non ci troviamo affatto dinanzi a un’epigrafe funeraria dedicata al marito da Antonia Minore, come lasciato intendere da Zara nel corso della sua argomentazione, e chiaramente affermato da De Angelis70, bensì dinanzi a un’iscrizione servile proveniente da un colombario servile, nella quale Antonia Minore è presente solo indirettamente per 66 C. SVETONIO TRANQUILLO: Vita di Claudio, 1. Traduzione italiana tratta da C. SVETONIO TRANQUILLO: Vite dei Cesari. Volume secondo; Rizzoli 1998, p. 491. 67 S. PANCIERA: Il corredo epigrafico del mausoleo di Augusto, in H. VON HESBERG: Das Mausoleum des Augustus. Der Bau und seine Inschriften; Bayerischen Akademie der Wissenschaften 1994, p. 76. 68 C. SVETONIO TRANQUILLO: Vita di Claudio, 46. Sul fatto che Svetonio qui parli di un monumento commemorativo e non di un sepolcro di Druso al di fuori del Mausoleo di Augusto si veda A. FRASCHETTI: Indice analitico della Consolatio ad Liviam Augustam de morte Drusi Neronis filii eius qui in Germania de morbo periit, in Mélanges de l'Ecole française de Rome. Antiquité 108, 1/1996, pp. 207, 210. Anche S. PANCIERA: Il corredo epigrafico del mausoleo di Augusto, in H. VON HESBERG: Das Mausoleum des Augustus. Der Bau und seine Inschriften; Bayerischen Akademie der Wissenschaften 1994, pp. 74-75. 69 CIL VI 40330 [frr. a-e] (4). A. DEGRASSI: Inscriptiones Italiae. Vol. XIII, 3 - Eulogia; La Libreria dello Stato 1937, p. 15, nr. 9. EDR (Epigraphic Database Roma) 079519 (16/10/2012). 70 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 190.

Probabile raffigurazione dell'Arco trionfale di Druso Maggiore, oggi scomparso, sul verso di una moneta della metà del I sec. d.C.

Quello che rimane dell'Elogium Drusi posto nel Foro di Augusto

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identificare Fausto come suo schiavo o liberto e nella quale il Druso citato nella prima parte non può essere identificato con Druso Maggiore, ma forse con un suo servo o liberto, che ne ha preso il cognomen.

Se dunque non è possibile, e ci sembra che le argomentazioni a tale proposito siano

difficilmente contestabili, che il Druso citato nella lapide fosse Druso Maggiore, sorge la possibilità, nonostante la prosopografia ricordata, che anche l’Antonia Drusi citata nell’iscrizione non sia sua moglie, Antonia Minore, bensì un’altra figura a noi sconosciuta, così come suo marito Druso. Del resto non si può pensare che Antonia Minore e Druso Maggiore siano gli unici due Antonia e Druso della storia romana. Tutto questo crea un problema nella datazione proposta da Zara ai primi anni del I secolo d.C., giacché il tutto si basa solamente su questa identificazione e su alcune speculazioni alquanto curiose. Si ripropone pertanto la questione, alla quale non intendiamo sottrarci, della corretta datazione, in assenza di criteri esterni e della possibilità di un’analisi paleografica, di questa iscrizione, anche in relazione alla presenza dell’espressione chrestiani. Allo stato attuale delle cose è davvero difficile ma riteniamo non impossibile risalire al periodo di realizzazione dell’epigrafe71. In questo senso un importante indizio per una datazione perlomeno approssimativa potrebbe venire dall’adprecatio abbreviata DM presente nell’epigrafe. Nelle epigrafi funerarie del I secolo a.C. e I secolo d.C. è molto comune infatti la formula Hic Situs Est o la relativa abbreviazione HSE72, assente invece nella nostra iscrizione. Tale formula è stata progressivamente sostituita, soprattutto a partire dalla seconda metà del I secolo d.C., e sino al IV secolo d.C., dalla formula Dis Man(ibus)73 e quindi dalla sua abbreviazione DM74. L’assenza totale di queste formule dagli epitaffi degli schiavi di Augusto, Tiberio e Caligola indica un uso estremamente raro nella prima metà del I secolo d.C.75 L’invocazione DM ci suggerisce pertanto una datazione che tende almeno alla metà del I secolo d.C.76 Questa datazione trova conforto anche 71 Sulle difficoltà nella datazione delle epigrafi, soprattutto funerarie, si veda il classico H. TYLANDER: Etude sur l’epigraphie latine. Date des inscriptions, noms et denomination latine, noms et origine des personnes; CWK Gleerup 1952. 72 Cf. L. KEPPIE: Understanding Roman Inscriptions; John Hopkins University Press 1991, p. 107. Riportiamo solo, a titolo di esempio, l’iscrizione sul sepolcro di Tiberio Gemello (19 d.C. – 38 d.C.), figlio di Claudia Livilla (figlia di Antonia Minore e Druso Maggiore) e Druso Minore (figlio dell’imperatore Tiberio e Vipsania Agrippina), nel Mausoleo di Augusto (CIL VI 00892): Ti(berius) Caesar // Drusi Caesaris f(ilius) // hic situs est (S. PANCIERA: Il corredo epigrafico del mausoleo di Augusto, in H. VON HESBERG: Das Mausoleum des Augustus. Der Bau und seine Inschriften; Bayerischen Akademie der Wissenschaften 1994, p. 155). 73 Cf. G. SUSINI: Epigrafia romana; 3a ed., Jouvence 1997, p. 101. Anche I. CALABI LIMENTANI: Epigrafia latina; 4a ed., Cisalpino 1991, pp. 153-154. 74 La prima attestazione di DM può forse farsi risalire a non prima del 29 d.C. (CIL VI, 2489; ILS 2028 – J.B. CAMPBELL: The Roman Army 31 BC – AD 337. A Sourcebook; Routledge 1994, p. 39) mentre la forma DMS sarebbe attestata per la prima volta nel 58 d.C. (CIL VI, 7303; ILS 7863). Su questo si veda M. CHELOTTI: Le epigrafi romane di Canosa. Ricognizione delle testimonianze archeologiche nella valle dell’Ofanto; Edipuglia 1990 p. 217. Anche J.H. D'Arms: CIL X 1792. A Municipal Notable of the Augustan Age in Harvard Studies in Classical Philology, Vol. 76 (1972), p. 213. S. PANCIERA, P. ZANKER: Il ritratto e l’iscrizione di L. Licinius Nepos, in RENDICONTI, Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, Vol. LXI (Anno Accademico 1988-1989), 1990, pp. 373-374. 75 M. PARCA: The Franchetti Collection in Rome. Inscriptions and Sculptural Fragments; Quasar 1995, p. 56. Anche R. FRIGGERI, C. PELLI: Vivo e morto nelle iscrizioni di Roma, in S. PANCIERA (a cura di): Miscellanea (Tituli II); Edizioni di Storia e Letteratura 1980, p. 164. 76 Datazioni di questo tipo sono puramente indicative e non hanno pretesa di certezza: “L’acquisizione di una forcella cronologica sicura non esclude però che l’aspetto o il fenomeno possa riscontrarsi fuori di essa e non implica che tutti i documenti non databili, che testimoniano l’aspetto o il fenomeno, debbano automaticamente confluire entro i termini della forcella. Questi ultimi non sono confini invalicabili, irremovibili e obbligatori, ma parametri cronologici orientativi, sempre suscettibili di ampliarsi col progredire della nostra conoscenza. Il medesimo ragionamento vale anche là dove invece di una forcella si abbia un solo terminus ante/post quem non” (I. DI STEFANO MANZELLA: Il mestiere di epigrafista. Guida alla schedatura del materiale epigrafico lapideo; Quasar 1987, p. 222).

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nell’utilizzo del verbo emere, testimoniato sporadicamente nel I secolo a.C. e molto diffuso tra I e II secolo d.C., per divenire sempre più raro nelle iscrizioni pagane del III e IV secolo d.C.77. Se la nostra ipotesi di datazione, tendenzialmente più alta rispetto a quella prospettata da Zara e De Angelis, è corretta, essa rappresenta un’ulteriore importante conferma che il Druso dell’epigrafe non è Druso Maggiore. L’espressione chrestiani allora, che aveva suscitato così tante perplessità in Erik Zara e speranze in Alessio De Angelis, rappresenterebbe non più un problema, se mai lo fosse effettivamente stato, ma semplicemente una conferma di questa datazione, essendo attestata a livello popolare a Roma, come riporta Tacito negli Annales, proprio almeno a partire dalla seconda metà del I secolo d.C.: “vulgus Chrestianos appellabat”78.

Infine, non possiamo non notare come Zara sembri suggerire, copiato ancora una volta acriticamente e disastrosamente da De Angelis79, che la presenza della formula DM, ovvero l’invocazione agli Dei Mani, divinità pagane degli inferi, indichi una sepoltura pagana. Per quanto questo possa sembrare intuitivo, non è tuttavia sempre vero, in quanto la formula DM divenne ben presto stereotipata e addirittura preincisa nelle lapidi in vendita80, così che la troviamo in diverse epigrafi cristiane81, come ad esempio nella stele sepolcrale di Licinia Amias, proveniente dalla necropoli vaticana, che oltre all’adprecatio DM82 presenta quella che sembra essere una chiara simbologia cristiana83, così da essere considerata una delle più antiche iscrizioni cristiane. L’adprecatio DM, secondo studi recenti, sarebbe persino attestata in diverse sepolture ebraiche, seppure la cosa è tuttora oggetto di discussione84. Non stiamo argomentando, si badi bene, per

77 M.L. CALDELLI, S. CREA, C. RICCI: Donare, emere, vendere, ius habere, concedere, similia. Donazione e compravendita, proprietà, possesso, diritto al sepolcro e diritti di sepoltura, in AA.VV.: Libitina e dintorni. Libitina e i luci sepolcrali, le leges libitinariae campane, iura sepulcrorum: vecchie e nuove iscrizioni. Atti dell'11. rencontre franco-italienne sur l'epigraphie; Quasar 2004, p. 338. 78 P. CORNELIO TACITO: Annali, XV, 44, 2. P. TREBILCO: Self-Designations and Group Identity in the New Testament; Cambridge University Press 2012, p. 273. Sul nome cristiano e la sua attestazione nei primi secoli si veda O. MONTEVECCHI: Nomen christianum, in R. CANTALAMESSA, L.F. PIZZOLATO (a cura di): Paradoxos Politeia. Studi patristici in onore di Giuseppe Lazzati; Vita & Pensiero 1979, pp. 485-500. Sui cristiani a Roma nei primi due secoli si veda P. LAMPE: From Paul to Valentinus. Christians at Rome in the First Two Centuries; Fortress Press 2003. Anche K.P. DONFRIED, P. RICHARDSON (eds): Judaism and Christianity in First Century Rome; Eerdmans 1998. 79 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 186. 80 D. NOY: Death, in A. ERSKINE (ed.): A Companion to Ancient History; Blackwell 2009, p. 423. 81 C.M. KAUFMANN: Handbuch der altchristlichen Epigraphik; Herder 1917, p. 37; G. SUSINI: Epigrafia romana; 3a ed., Jouvence 1997, p. 91. A.E. GORDON: Illustrated Introduction to Latin Epigraphy; University of California Press 1983, p. 40. V. FIOCCHI NICOLAI, F. BISCONTI, D. MAZZOLENI: Catacombe cristiane di Roma. Origini, sviluppo, apparati decorativi, documentazione epigrafica; Schnell & Steiner 1998, pp. 150-151. 82 Il ritrovamento della formula estesa Dis Manibus in alcune iscrizioni cristiane ha definitivamente confutato che DM potesse significare Deo Magno, o qualcosa di simile, come precedentemente ipotizzato. Cf. C. CARLETTI: Lucera paleocristiana, la documentazione epigrafica, in G. DI CAGNO (a cura di): Puglia paleocristiana e altomedioevale V; Edipuglia 1990, pp. 10-11. 83 Per le possibili ambiguità della simbologia cristiana assieme a elementi pagani o ebraici e i relativi problemi si veda S. ENSOLI, E. LA ROCCA (a cura di): Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana; L'Erma di Bretschneider 2000, p. 324 e ss. Anche R.S. KRAEMER: Jewish Tuna and Christian Fish. Identifying Religious Affiliation in Epigraphic Sources, in Harvard Theological Review, Vol. 84, 2/1991, pp. 141-162. E’ curioso, ma non sorprende, come il De Angelis citi proprio questa stele quale esempio per l’utilizzo dell’adprecatio DM, per poi aggiungere che “di conseguenza è stato fatto notare come la tomba fosse un sepolcro pagano” (DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 186). De Angelis non poteva scegliere esempio peggiore, scelta probabilmente effettuata semplicemente perché, curiosamente, alla voce“Mani” di Wikipedia vi è proprio la stele di Licinia Amias come esempio. (http://it.wikipedia.org/wiki/Mani_%28religione_romana%29). 84 P.W. VAN DER HORST: Ancient Jewish Epitaphs. An Introductory Survey of a Millennium of Jewish Funerary Epigraphy (300 BCE - 700 CE); Kok Pharos 1996, p. 43. Anche J.S. PARK: Conceptions of Afterlife in Jewish Inscriptions. With Special Reference to Pauline Literature; Mohr Siebeck 2000, pp. 16-21. L.V. RUTGERS: The Jews

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un’origine cristiana dell’epigrafe in questione, e ancor meno ebraica ovviamente, giacché di fatto nulla di quanto in nostro possesso ci autorizza a questa ipotesi, semplicemente stiamo sottolineando

una curiosa leggerezza dello Zara, e l’ennesima disastrosa scopiazzatura di De Angelis, che potrebbe indurre i lettori a conclusioni non corrette.

In conclusione, ci sembra di poter affermare che lo studio di Erik Zara, pur presentando alcuni aspetti apprezzabili, debba essere considerato comunque problematico e incompleto, non solo e tanto per l’utilizzo peculiare e a volte discutibile delle fonti, soprattutto secondarie, e per la presenza di errori di citazione anche gravi, ma soprattutto per quella che ci sembra essere una mancanza di adeguato senso critico e forse persino di qualche conoscenza di base. Aldilà del riportare un sostanzialmente corretto ma acritico consensus, esso di fatto esso non aggiunge

nulla rispetto a quanto già, peraltro brevemente, prospettato da altri autori e anzi, pur mostrando una cauta prudenza su cosa si debba intendere con il

chrestiani dell’iscrizione, di fatto porta i propri lettori fuori strada, prospettando l’ipotesi che tale espressione possa indicare la presenza di gruppi di chrestiani “non cristiani”, dei quali tuttavia non abbiamo attestazione alcuna. Si tratta di un’ipotesi sostanzialmente inutile e di fatto radicalmente errata, come avremo modo di mostrare.

Prima, tuttavia, di affrontare questo argomento e quindi la seconda parte, legata soprattutto alle conclusioni di De Angelis, vogliamo provare a trarre delle conclusioni da quanto sinora illustrato e quindi elaborare una ragionevole ipotesi sulla natura e la datazione di questa epigrafe, nonché sulle persone che in essa compaiono.

in Late Ancient Rome. Evidence of Cultural Interaction in the Roman Diaspora; Brill 1995, pp. 269 e ss. D. NOY: Jewish Inscriptions of Western Europe. Volume 2, The City of Rome; Cambridge University Press 1995, pp. 489-495.

Stele funeraria marmorea di Licinia Amias, dalla necropoli vaticana in Roma, probabilmente dei primi anni del III secolo d.C.

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4. PER UNA CORRETTA INTERPRETAZIONE DI CIL VI 24944 Ci troviamo chiaramente, come già detto, dinanzi a un’iscrizione servile proveniente da un

colombario servile, quale era ad esempio il Colombario Codini II di Vigna Codini, tra l’Appia e la Via Latina. Sappiamo infatti che in tale colombario, terminato nel 10 d.C. e di proprietà della famiglia di Marcella Minore, sorellastra di Antonia Minore per parte di madre, furono deposte le ceneri di molti degli schiavi e liberti di Druso Maggiore e Antonia Minore85. L’Antonia Drusi citata è, a nostro avviso, con ogni probabilità Antonia Minore, su questo non abbiamo dubbi. Tuttavia, diversamente da quanto ipotizza Zara, questo di per se non ci aiuta molto per una datazione precisa: abbiamo infatti citazioni indirette di Antonia Minore che risalgono sino al 73-74 d.C., come nell’iscrizione funeraria (CIL VI 12037) di Antonia Caenis, liberta e segretaria di Antonia Minore86. Zara fa correttamente notare che nell’iscrizione oggetto della nostra analisi manca la dicitura Augusta, titolo che fu fatto votare al Senato dal nipote Caligola nel 37 d.C., ma che forse Antonia Minore rifiutò87, e che pertanto questo indicherebbe una data di realizzazione anteriore al 37 d.C., data della sua morte e forse divinizzazione. Tuttavia il titolo Augustus/Augusta non ha nulla a che vedere con la morte di una persona e la sua assenza o presenza non indica il suo essere o meno in vita, al contrario di quello che sembra curiosamente pensare De Angelis88. Avendo a che fare con un’iscrizione servile e non ufficiale, la citazione, indiretta, di Antonia Minore potrebbe aver omesso la sua titolatura per utilizzare un termine più breve e consueto, peraltro rimasto a lungo nella memoria, come testimonia ad esempio Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia89. Riteniamo pertanto che l’assenza del titolo Augusta non sia determinante, seppure certamente è significativo. Più importante, a nostro avviso, invece comprendere chi fosse il Faustus dell’iscrizione. La costruzione con il genitivo ci dice chiaramente che Faustus era o uno schiavo o 85 J.M.C. TOYNBEE: Morte e sepoltura nel mondo romano; L'Erma di Bretschneider 1993, p. 89. Anche N. KOKKINOS: Antonia Augusta. Portrait of a Great Roman Lady; Routledge 1992, p. 67. Il Colombario Codini II, assieme agli altri due colombari nella stessa zona, è stato scoperto e scavato attorno alla metà del XIX secolo, mentre l’epigrafe di cui ci occupiamo era nota da almeno un secolo, dunque non dovrebbe provenire da questa struttura, a meno di non ipotizzare che tale tabella fosse stata asportata già in tempi più antichi, magari proprio per la presenza di quel chrestiani, e posta altrove, per finire infine a Firenze e poi andare perduta. 86 N. KOKKINOS: Antonia Augusta. Portrait of a Great Roman Lady; Routledge 1992, p. 57. 87 S.E. WOOD: Imperial Women. A Study in Public Images 40 B.C. – A.D. 68; 2nd ed., Brill 2000, p. 148. 88 “nel momento in cui venne incisa l’iscrizione la matrona era ancora viva, altrimenti sarebbe stata definita Augusta” (DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 189). 89 C. PLINIO SECONDO: Naturalis Historia, VII, 80. IX, 172.

Ara funeraria di Antonia Caenis, segretaria e liberta di Antonia Minore, del 73-74 d.C.

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un liberto di Antonia Minore. Non può essere un libero (ingenuus), perché un libero non sarebbe mai stato identificato in tale modo, che indica subordinazione e appartenenza, e neppure un figlio, perché in tal caso sarebbe stato indicato almeno in forma abbreviata, con una “f”, proprio per non generare ambiguità, senza contare che con ogni probabilità sarebbe stato indicato il padre Nerone Claudio Druso Germanico e non la madre e, infine, che Antonia Minore, per quello che sappiamo, non ebbe figli di nome Faustus. Se Faustus era uno schiavo, allora quasi certamente Antonia Minore era ancora in vita, giacché in caso contrario o Faustus sarebbe stato un liberto, manomisso alla morte della padrona, oppure sarebbe appartenuto ad un altro padrone, che pertanto sarebbe stato indicato al posto di Antonia Minore. Pertanto, se Faustus era un schiavo allora la lapide va datata quasi sicuramente prima del 37 d.C. Nel caso tuttavia che Faustus fosse un liberto, allora egli sarebbe rimasto legato alla sua patrona e si sarebbe identificato per tutta la vita come membro della familia di Antonia Minore90, persino nei censimenti ufficiali91, tanto più che si trattava di una famiglia imperiale, e quindi il limite temporale superiore del 37 d.C. verrebbe a cadere.

Non possiamo non rilevare, a questo punto, quella che è una vera e propria “perla” di De Angelis, probabilmente la “leggerezza” più grossa da lui detta su questo argomento: per confutare che Faustus possa essere un liberto De Angelis arriva a dire che “la prima ipotesi risulta incoerente, perché se Fausto fosse stato un liberto la matrona non sarebbe citata affatto”92. Evidentemente De Angelis non ha mai aperto un manuale di epigrafia latina, altrimenti saprebbe che i liberti si identificavano appunto associando nel e al proprio nome quello del patrono o della patrona (indicati al genitivo)93, come risulta da centinaia se non migliaia di iscrizioni in nostro possesso. Purtroppo per De Angelis abbiamo anche un’epigrafe, probabilmente funeraria, di un Iucundus liberto di Antonia Minore:

Iucundus Antoniae Drusi lib(ertus)94

Non sappiamo, in mancanza di altri dati, se questo Iucundus sia lo stesso Iucundus Chrestianus dell’epi-grafe che stiamo analizzando in questo studio, potrebbe infatti trattarsi di due persone differenti ma che portano lo stesso cognomen. Il perché De Angelis abbia commesso un errore così grossolano è abbastanza chiaro: egli per l’ennesima volta acriticamente copia e traduce Zara, non sapendo nulla dell’argomento in questione e quindi non comprendendo quello che scrive. Zara infatti afferma che “perhaps her name not being mentioned at all, if Faustus was a free man”; De Angelis invece ha

90 H. MOURITSEN: The Freedman in the Roman World; Cambridge University Press 2011, pp. 42, 47, 50. A.M. DUFF: Freedmen in the Early Roman Empire; Heffer & Sons 1958, pp. 36 e ss. M. BRUTTI: Il diritto privato nell’antica Roma; Giappichelli 2011, pp. 145-146. O. ROBLEDA: Il diritto degli schiavi nell’antica Roma; PUG 1976, pp. 165 e ss. 91 H. MOURITSEN: The Freedman in the Roman World; Cambridge University Press 2011, pp. 38. 92 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 187. 93 H. MOURITSEN: The Freedman in the Roman World; Cambridge University Press 2011, pp. 38-39. 94 CIL VI 37451.

Iscrizione funeraria di Zeuxis, orefice, liberto di Livia, moglie di Ottaviano Augusto, e Rufa, liberta di Terzio, proveniente dal Colombario dei liberti di Livia sull'Appia, 1-14 d.C. (CIL IV 3927 – Roma, Musei Capitolini). Si noti la L di libertus/a.

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confuso free man, uomo libero, con freedman, liberto, ed ha combinato, ma oramai è quasi noioso rilevarlo, il suo solito disastro, arrivando persino ad accusare gli altri di incoerenza!

Dunque, per ritornare in argomento, si potrebbe ipotizzare che Faustus fosse un liberto, così come il Drusus della prima parte dell’iscrizione e Iucundus Chrestianus, giacchè è possibile, anche se non necessario, che tutti costoro condividessero lo stesso gradus dignitatis. Questo permetterebbe di ipotizzare una datazione almeno verso la metà del I secolo per questa epigrafe. Ci sembra tuttavia che, dati alla mano, questa ipotesi sia poco probabile. Una breve analisi delle epigrafi della familia urbana di Antonia Minore ci mostra infatti come lo status di liberto fosse generalmente sempre riportato, così come il fatto che la costruzione con il solo genitivo indicasse una condizione servile, come si vede chiaramente dalla seguente epigrafe:

Xeno / Antoniae Drusi Statira / Antoniae Drusi l(iberta) Malche / Antoniae Drusi l(iberta)95

dove Xenus è chiaramente indicato come servo di Antonia Minore, al contrario di Statira e Malche, invece liberte, come indicano le relative “l” apposte dopo il genitivo della patrona.

Riportiamo inoltre come ulteriore esempio:

Maritimi Antoniae Drusi l(iberti) rogatoris // Quintae Antoniae Drusi l(ibertae) cantricis96

In questo caso i due liberti,

probabilmente marito e moglie, indicano con orgoglio non solo il proprio status di liberti ma anche il proprio ruolo nella familia di Antonia Minore.

Generalmente i liberti ci tenevano a differenziarsi dagli schia-vi e pertanto tendevano a indicare, nelle epigrafi, la propria condizione o apertamente, con l’uso, come abbia- 95 CIL VI 29624. 96 CIL VI 33794, ILS 1696.

Lapide di Maritimus e Quinta, liberti di Antonia Minore, conservata nei Musei Capitolini di Roma

Aureus raffigurante Ottavia Minore con le scritte Antonia Augusta e Constantiae Augusti, fatto emettere dal figlio Claudio tra il 41 e il 54 d.C.

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mo visto, della lettera “l” o con l’abbreviazione lib(ertus), seguita dal nome del patrono/a al genitivo, o in maniera indiretta, utilizzando ad esempio i tria nomina, che li identificava come cives romani.

Faustus inoltre era un nome molto diffuso tra gli schiavi97, ma allo stesso tempo inevitabilmente anche comune tra i liberti e i loro figli, che spesso lo usavano come cognomen, in aggiunta al praenomen e al gentilizio del patrono98. Inoltre, poiché Faustus non viene identificato in nessun altro modo, e non si tratta certamente del defunto o di uno dei dedicanti, ma probabilmente di qualcuno esterno alla famiglia del defunto, in quanto, in caso contrario, tale relazione familiare sarebbe stata indicata, tale omissione indica probabilmente uno status servile, giacchè un liberto, e ancor più un libero (ma in questo caso specifico abbiamo visto che non può esserlo), sarebbe stato indicato almeno con anche il nomen99.

Da quanto detto ne consegue pertanto che Faustus probabilmente fosse uno schiavo100. Tuttavia è davvero difficile affermarlo con certezza, in quanto a partire dai primi anni dell’impero si nota una progressiva diminuzione dell’indicazione dello status nelle epigrafi, così che spesso diviene difficile determinare se ci si trova dinanzi a uno schiavo, un liberto o un libero101, tuttavia nei columbaria dell’età giulio-claudia la tendenza era quella di indicare il proprio status102.

Tenendo quindi conto di quanto sopra esposto e di quanto detto sull’utilizzo della formula DM, e in analogia con la seguente:

Linus Antoniae Drusi103

97 I. KAJANTO: The Latin Cognomina; Helsinki 1965, p. 73. 98 L. ROSS TAYLOR: Freedmen and Freeborn in the Epitaphs of Imperial Rome, in The American Journal of Philology LXXXII, 2/1961, p. 125. Riportiamo a titolo di esempio il liberto Sextus Avonius Faustus in CIL VI 12951 + 17768. 99 H. SOLIN: Onomastica ed epigrafia. Riflessioni sull’esegesi onomastica delle iscrizioni romane, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica 18 (1974), pp. 106-124. 100 Cf. H. CHANTRAINE: Freigelassene und Sklaven im Dienst der römischen Kaiser. Studien zu ihrer Nomenklatur; Steiner Verlag 1967, p. 307. M. KARRER: Der Gesalbte. Die Grundlagen des Christustitels, Vandenhoeck & Ruprecht 1991, p. 71. S. BACCHIOCCHI: From Sabbah to Sunday. A Historical Investigation of the Rise of Sunday Observance in Early Christianity; The Pontificial Gregorian University Press 1977, p. 166. Notiamo come ancora una volta Zara sbagli la citazione delle proprie fonti, giacché la pagina corretta non è la 188 come da lui indicato (ZARA: Chrestians, p. 2 n. 15) bensì la 166. Quasi inutile dire come il De Angelis, copiando alla cieca e non controllando, faccia lo stesso errore (DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 187). Anche S. BACCHIOCCHI: Rome and Christianity until a.D. 62, in Andrews University Seminary Studies XXI, 1/1983, p. 15. O. MONTEVECCHI: Nomen christianum, in R. CANTALAMESSA, L.F. PIZZOLATO (a cura di): Paradoxos Politeia. Studi patristici in onore di Giuseppe Lazzati; Vita & Pensiero 1979, p. 492. 101 “Early imperial inscriptions show a growth in the number of incerti, particularly among secondary names, and an increase in the number of epitaph in which freedman status is indicated only by internal evidence” (L. ROSS TAYLOR: Freedmen and Freeborn in the Epitaphs of Imperial Rome, in The American Journal of Philology LXXXII, 2/1961, p. 119). 102 L. ROSS TAYLOR: Freedmen and Freeborn in the Epitaphs of Imperial Rome, in The American Journal of Philology LXXXII, 2/1961, p. 119. 103 AE (Année Epigraphique) 1975, 0025. EDR (Epigraphic Database Roma) 075885 (16/10/2012). Anche A. FERRUA: Antiche iscrizioni inedite di Roma. Vigna Codini e Vibia, in Bollettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma LXXXII, 1970/71, p. 73, nr. 5.

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trovata a Vigna Codini e datata tra il 31 d.C. e il 65 d.C.104, riteniamo che si possa ragionevolmente fissare la possibile finestra temporale dell’epigrafe oggetto di questo studio tra gli ultimi anni del regno di Tiberio e il regno di Nerone, con, a nostro avviso, una maggiore probabilità per il periodo tra il 31 e il 37 d.C., ovvero poco prima della morte di Antonia Minore, con buona pace di De Angelis, bizzarramente convinto, tra le altre cose, di trovarsi dinanzi a una “epigrafe funeraria commemorativa al marito” dedicata da Antonia Minore e per il quale tale datazione sarebbe “paradossale”e “assurda”105.

Per quel che riguarda i pateres, il primicinio deceduto, al quale è dedicata l’epigrafe, nonché il primo Drusi citato, riteniamo che l’interpretazione più semplice e probabilmente corretta sia che il defunto sia proprio questo Druso che, come abbiamo visto, certamente non è Druso Maggiore. Assai difficile anche in questo caso riuscire a individuare con certezza lo status di queste persone. Il fatto che nessuno di costoro sia menzionato con il nomen gentilizio ci fa ritenere che si tratti di schiavi. D’altro canto, l’utilizzo del solo nome Drusus, probabilmente ricalcato proprio su Druso Maggiore, nonché il fatto che i pateres non abbiano messo i propri nomi per esteso, lascia ipotizzare forse una differenza di status, con i primi forse ancora schiavi e il figlio invece liberto106. Ci riesce infatti difficile immaginare che i pateres siano liberti e questo Drusus invece un ingenuus ma che non sia ricordato con i tria nomina107. Inoltre il fatto che tali pateres utilizzino il diritto, comprato probabilmente da uno schiavo, a depositare l’olla con le ceneri del figlio in quello che sembra essere un colombario di schiavi e liberti, ci suggerisce chiaramente la loro condizione servile. D’altra parte se la lettura pateres/padri è corretta ci troviamo per forza di cose dinanzi ad un’adozione, possibile solo per i liberi e i liberti. Gli schiavi infatti per la legge romana non avevano una famiglia, essendo proprietà del padrone, e quindi non avevano ufficialmente genitori e neppure figli, che potevano essere venduti a piacimento dai loro padroni108. Il fatto che in questa epigrafe si menzioni esplicitamente delle relazioni familiari permette di ipotizzare che potremmo trovarci di fronte a dei liberti. Il mancato utilizzo allora del praenomen e del nomen va attribuito alla familiarità tra queste persone piuttosto che alla loro condizione

104 EDCS (Epigraphik Datenbank Clauss/Slaby) - EDH 006859 al seguente indirizzo: http://edh-www.adw.uni-heidelberg.de/edh/inschrift/HD006859 (16/10/2012). 105 A. DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 190. 106 O. SALOMIES: Choosing a Cognomen in Rome. Some Aspects, in V.E. HIRSCHMANN, A. KRIECKHAUS, H.M. SCHELLENBERG: A Roman Miscellany. Essays in Honour of Anthony R. Birley on His Seventieth Birthday; Foundation for the Development of Gdańsk University 2008, pp. 85-88. 107 A meno di non voler individuare nelle iniziali M. T. non le iniziali dei nomi dei pateres ma del nome completo del defunto Druso. Tuttavia tale ipotesi ci pare difficile da sostenere in quanto i dedicatari risulterebbero allora completamente anonimi e non è affatto chiaro quale potrebbe essere il gentilizio preso da questo Druso. Rileviamo tuttavia come anche nel caso in cui questo Druso fosse effettivamente un liberto sia comunque strano che i suoi genitori non lo ricordino almeno con il gentilizio per esteso, come forma dovuta di ultimo rispetto. 108 M. GEORGE: The Roman Family in the Empire. Rome, Italy and Beyond; Oxford University Press 2005, pp. 39 e ss.

Olla di vetro, forse del I sec. d.C.

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servile109. Se invece pateres va inteso come parentes, si potrebbe ipotizzare, ma è davvero solamente un’ipotesi dal momento che non abbiamo trovato studi a proposito, che tale utilizzo richiami la Lex Papia Poppaea Nuptialis del 9 d.C. voluta da Augusto e nella quale erano definiti patres i coniugati con prole, ovvero i genitori. Benchè molto nella legge riguardi i patres familiae, quindi i genitori maschi, la legge si occupa anche delle donne e dei liberti, così che l’espressione sembra essere ambigua110. L’utilizzo di patres/pateres potrebbe pertanto indicare la volontà di esprimere indirettamente il proprio status di detentori di diritti familiari e quindi liberti. Riteniamo tuttavia che anche in questo caso l’ipotesi più semplice sia probabilmente quella corretta e quindi si tratti di servi in qualche modo legati alla famiglia imperiale.

Come si vede, non vi è modo, data la scarsità di dati a disposizione, di pervenire a una certezza riguardante lo status di queste persone, del resto non raramente ogni tentativo di individuare lo status di una persona dal modo in cui ne viene riportato il nome lascia il tempo che trova111, così che riteniamo che costoro possano semplicemente essere ritenuti incerti.

109 H. SOLIN: Onomastica ed epigrafia. Riflessioni sull’esegesi onomastica delle iscrizioni romane, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica 18 (1974), pp. 109, 114, 117-120. 110 C. FAYER: La famiglia romana. Aspetti giuridici ed antiquari, Vol. 2, Sponsalia, matrimonio, dote; L’Erma di Bretschneider 2005, pp. 576-578. 111 P.R.C. WEAVER: Familia Caesaris. A Social Study of the Emperor’s Freedmen and Slaves; Cambridge University Press 1972, p. 83.

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5. IUCUNDUS ChRESTIANUS, UN SERVO DELLA FAMILIA CAESARIS Una volta fissata dunque la cornice temporale sopra riportata, come deve intendersi quel

chrestiani che così tanto sembra incuriosire Zara e turbare De Angelis?

Non possiamo non notare, come prima cosa, il modo del tutto arbitrario con cui Zara e De Angelis, che ovviamente lo segue acriticamente come al solito, traducono quel Iucundi Chrestiani. Zara lo fa diventare Jucundus the Chrestian (p. 1) mentre per De Angelis diventa Giocondo il Chrestiano112. Ambedue, come si vede, appongono un articolo determinativo che nell’originale non vi è, anche perché il latino classico non lo conosceva, imponendo così su tale espressione la propria pre-comprensione del testo e prospettando un significato ancora del tutto da stabilire. Iucundus Chrestianus non si traduce infatti, se proprio lo si vuole tradurre, con “Giocondo il Chrestiano” ma semplicemente con “Giocondo Chrestiano”, senza alcun articolo che lasci intendere che chrestianus sia un nome alternativo, un soprannome o un epiteto identificativo di qualche sua caratteristica, perché è tutto da dimostrare. Tanto più che non vi è nulla, nel testo e nel contesto, che giustifichi tale resa: per indicare infatti la presenza di un nome alternativo o di un soprannome generalmente si utilizzava la formula qui et (vocatur) oppure sive113, chiaramente assente nella nostra epigrafe. Il greco ovviamente conosceva formule simili.

Dopo aver argomentato, come abbiamo descritto in precedenza, sulla natura e la datazione dell’epigrafe, Zara illustra le attestazioni dell’espressione cristiano / cristiani, nelle sue varie forme, tra cui appunto chrestianus / chrestiani, affermando che le prime attestazioni epigrafiche siano del III secolo d.C. mentre quelle letterarie siano almeno della metà del I secolo d.C. e pertanto, conclude, implicitamente e sorvolando velocemente e inspiegabilmente sulle sue stesse fonti citate, come il chrestiani dell’epigrafe non sia un nome e non possa riferirsi a un cristiano inteso nel senso proprio del termine ma forse ad un appartenente a qualche non meglio specificato gruppo. Inutile dire che anche in questo caso De Angelis semplicemente copia. Dobbiamo dire che siamo rimasti sconcertati dinanzi all’argomentazione di Zara. Primo perché appunto sembra ignorare le sue stesse fonti, che pure gli avevano ben fornito la soluzione della questione, e secondo perché non è affatto corretto affermare che non esistono altre attestazioni epigrafiche del lemma chrestianus nel I secolo d.C. e persino nella prima metà del I secolo d.C., giacché tra i vari nomi di schiavi riportati nei Fasti del collegio dei ministri della Domus Augusta ritrovati ad Anzio nel XVIII secolo (Fasti Antiates Ministrorum Domus Augustae)114 per ben due volte è riportato un Epaphroditus Chres(tianus), che fu magister del collegium nel 38 e nel 39 d.C. Abbiamo pertanto un’altra attestazione, doppia,

112 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 187- 188, 190. 113 I. CALABI LIMENTANI: Epigrafia latina; 4a ed., Cisalpino 1991, p. 139. Anche, più in generale, G.H.R. HORSLEY: The Use of a Double Name, in G.H.R. HORSLEY (ed): New Documents Illustrating Early Christianity. Vol. 1, A Review of the Greek Inscriptions and Papyri Published in 1976; The Ancient History Documentary Research Centre, Macquarie University 1981, pp. 89 - 96. 114 CIL X 6638B. A. DEGRASSI: Inscriptiones Italiae. Vol XIII, Fasti ed Elogia. Fasc. II, Fasti anni numani et iuliani, accedunt frialia, menologia rustica, parapegmata; Istituto Poligrafico dello Stato, Libreria dello Stato 1963, p. 201 e ss. T. MOMMSEN: Inscriptiones Latinae Antiquissimae ad C. Caesaris Mortem. Vol. I, Elogia clarorum virorum, Fasti anni iuliani, Fasti consulares ad A.V.C. DCCLXVI; Berolini (Berlino) apud Georgium Reimerum 1863, pp. 327-329.

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dell’uso di chrestianus come cognomen servile non solo nel I secolo ma proprio nel probabile periodo di realizzazione dell’epigrafe oggetto di questo studio. Risulta allora davvero incomprensibile questa “dimenticanza” di Zara, se di dimenticanza si è trattata (De Angelis ovviamente copia anche le “dimenticanze”, oltre che gli errori), tanto più che egli nella sua analisi cita non solo il classico studio di Heinrich Chantraine, “Freigelassene und Sklaven im Dienst der römischen Kaiser”, ma anche l’articolo di Orsolina Montevecchi, “Nomen christianum”, ed ambedue riportano espressamente e chiaramente l’attestazione di Epaphroditus Chrestianus115. Non solo, ma il Chantraine, quando parla di Iucundus Chrestianus, e Zara cita verbatim addirittura una sua opinione sullo stato dell’iscrizione tratta da quella stessa pagina, rimanda espressamente a Epaphroditus Chrestianus. Non possiamo non domandarci se Zara legga davvero, o almeno lo faccia con attenzione, le sue stesse fonti. Per De Angelis non abbiamo oramai dubbio alcuno che non lo faccia. Se infatti Zara avesse prestato attenzione in quale capitolo il Chantraine colloca Iucundus Chrestianus, ovvero il capitolo XVIII, “Agnomina kaiserlicher Freigelassener und Sklaven”, e soprattutto perché, non avrebbe avuto difficoltà a comprendere il senso di quel chrestiani, senza bisogno di ipotizzare improbabili gruppi di chrestiani a Roma nella prima metà del I secolo d.C.

Il suffisso –(i)anus nell’onomastica latina compare già in età repubblicana ed era usualmente usato per indicare un’appartenenza in seguito ad adozione, soprattutto nell’ambito della classe equestre e senatoria. Questa nomenclatura esprime pertanto il trasferimento della patria potestas, ed è formata dal gentilizio del padre naturale: classico l’esempio di Publius Cornelius Scipio Aemilianus, figlio di Lucius Aemilius Paulus Macedonicus e adottato da Publius Cornelius Scipio, figlio maggiore di Publius Cornelius Scipio Africanus116. In ambito servile ritroviamo alcuni esempi di cognomi costruiti con il suffisso -(i)anus nella prima età imperiale, ma sono rari e seguono la logica dei cognomi di adozione, cosi che “indicano generalmente cambiamento di proprietario per donazione: allo schiavo cioè veniva dato o aggiunto come secondo un nome che ricordava quello del suo primo padrone”117. Diverranno di moda solamente a partire dal II secolo d.C. I liberti conservavano di regola il loro nome di schiavo come cognome e assumevano il gentilizio e il prenome del patrono come propri. 115 H. CHANTRAINE: Freigelassene und Sklaven im Dienst der römischen Kaiser. Studien zu ihrer Nomenklatur; Steiner Verlag 1967, p. 343. O. MONTEVECCHI: Nomen christianum, in R. CANTALAMESSA, L.F. PIZZOLATO (a cura di): Paradoxos Politeia. Studi patristici in onore di Giuseppe Lazzati; Vita & Pensiero 1979, p. 492. 116 I. KAJANTO: The Latin Cognomina; Helsinki 1965, p. 23. H. CHANTRAINE: Freigelassene und Sklaven im Dienst der römischen Kaiser. Studien zu ihrer Nomenklatur; Steiner Verlag 1967, p. 293. 117 I. CALABI LIMENTANI: Epigrafia latina; 4a ed., Cisalpino 1991, p. 141.

Il frammento dei Fasti Antiates contenente, per due volte, il nome di Epaphroditus Chrestianus secondo la ricostruzione del Mommsen in Inscriptiones Latinae Antiquissimae… p. 327.

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Un caso particolare è costituito da quegli schiavi, o liberti, che presentano un doppio cognomen ovvero l’aggiunta di un agnomen in –ianus al cognomen utilizzato come nome da schiavo. Ed è proprio in questo caso che rientrano, come giustamente indica anche il Chantraine118, sia Epaphroditus Chrestianus che Iucundus Chrestianus: “these names are derived from the nomen or cognomen of a former master from whose familia the slaves have passed, either by gift, purchase, legacy or inheritance, into the Familia Caesaris. In the latter there are over three hundred examples”119. Quando uno schiavo veniva venduto o regalato ed entrava a far parte della Familia Caesaris, ovvero della familia imperiale, a volte aggiungeva un secondo cognome in -ianus al proprio nome da schiavo per ricordare il precedente padrone ed indicare il trasferimento della dominica potestas. Riportiamo come esempio quello di C. Julius Delphus Maecenatianus, che si presenta come liberto di Augusto120. Già schiavo di Gaius Cilnius Maecenas, Delphus è probabilmente entrato a far parte della Familia Caesaris quando Mecenate, alla propria morte, avvenuta nell’ 8 a.C., lasciò tutti i propri beni all’imperatore Ottaviano Augusto. Delphus Maecenatianus in seguito è stato manomisso da Augusto o mentre costui era ancora in vita o alla sua morte121, divenendone quindi un liberto e assumendone il praenomen e il nomen assieme al doppio cognomen. L’assunzione di questa forma di doppio cognomen tuttavia non avveniva spesso, il che indicherebbe un valore non legale ma piuttosto di status per questo agnomen aggiunto. Un simile utilizzo dell’agnomen lo si ritrova inoltre tra i servi publici, per i quali poteva indicare uno status privilegiato nell’ambito servile. Iniziano inoltre a comparire nomi derivati da noti liberti imperiali ma anche da comuni nomi di origine servile o libertina ed il loro significato viene così spiegato dal Weaver:

“Thus in the early Principate agnomina in -ianus, hitherto among slaves used mostly by the servi publici, were adopted by the slaves of the Familia Caesaris who had been bequeathed or presented to Augustus, Livia and Tiberius by other members of the Imperial family, prominent nobiles and equestrians, and client princes. Under Claudius - perhaps as early as Augustus with Licinus - when the freedman magnates rose to similar positions of influence with the emperor, their slaves also assumed agnomina on becoming Caesaris servi in keeping with the social status which they accorded themselves. The agnomen thereby acquired an added significance for these holders. As slaves of Imperial freedmen and slaves they had been in the inferior legal position of vicarii. But the rise in status to become direct slaves of the emperor was of great importance to them. Their legal status improved. They did not exchange one master for another of the same legal status but they achieved the actual status of their previous master. But in addition their social status and, as will be seen, their occupational status improved also. They were selected for promotion to the status of Caesaris servi because of their personal qualities and training. This change of status they marked in their nomenclature, where appropriate, by dropping the signification 'vicarius' and by taking a second name in -ianus in its place. […] Hence the term 'vicariani' to characterise bearers of slave-derived agnomina. These agnomina need not have belonged exclusively to administrative officials, any more than the term 'vicarius' is exclusively an administrative one in the Familia Caesaris. It

118 H. CHANTRAINE: Freigelassene und Sklaven im Dienst der römischen Kaiser. Studien zu ihrer Nomenklatur; Steiner Verlag 1967, pp. 293-295, 307, 343. 119 P.R.C. WEAVER: Familia Caesaris. A Social Study of the Emperor’s Freedmen and Slaves; Cambridge University Press 1972, p. 90. 120 CIL VI 19926: C(aius) Iulius divi Aug(usti) l(ibertus) Delphus / Maecenatianus / Iulia C(ai) l(iberta) Chronia / Iulia C(ai) l(iberta) Secunda / C(aius) Iulius Trophimas refecit sibi et suis / lib(ertis) libertabusque posterisque eor(um). 121 M. HAMMOND: An Unpublished Latin Funerary Inscription of Persons Connected with Maecenas, in Harvard Studies in Classical Philology, Vol. 84 (1980), p 269.

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would be strictly possible for a personal slave to exchange one slave master for another who would finally manumit him in the same way that the emperor manumitted other ' vicariani'”122.

Da quanto sinora detto si comprende bene allora come e perché si debba necessariamente

considerare Iucundus Chrestianus, così come Epaphroditus Chrestianus, un servo della Familia Caesaris, e più precisamente e probabilmente un vicarianus, il quale, con l’aggiunta di un secondo cognome al proprio nome servile, intende indicare in tal modo il proprio cambiamento di status nell’ambito della familia imperiale. Non vi è dunque nessun mistero in quel chrestiani nell’epigrafe di cui trattiamo, esso deriva certamente da un precedente padrone il cui nome quasi sicuramente era Chrestus123, o qualcosa di simile, un nome di origine greca usato soprattutto da e per schiavi e liberti124. Riportiamo solamente, a titolo di esempio, la seguente iscrizione funeraria, datata tra il 20 a.C. e il 30 d.C. con Titus Marius Chrestus e sua moglie Sextilia Chresta, entrambi liberti:

T(ito) Mario T(iti) l(iberto) Chresto Sextiliai ((mulieris)) l(ibertae) Chrestai libertis libertabus vivi fecere125

Benchè Christus e Chrestus siano certamente simili, così come Christiani e Chrestiani126, e benchè nell’antichità questo portasse a continue confusioni, soprattutto tra i pagani, il chrestiani di questa pigrafe non ha nulla a che vedere con il Cristianesimo e i cristiani in senso proprio, per quanto questa idea possa piacere ad alcuni autori127, e solo la nostra distorsione prospettica derivante da quasi due millenni di Cristianesimo ci porta a identificare in qualche modo come cristiano qualsiasi cosa possa avere assonanza con il lessema Cristo/Christus. Certo, in via del tutto teorica si potrebbe anche ritenere che alla fine degli anni ’30 del I secolo d.C. vi fosse già una presenza più o meno organizzata di “cristiani” a Roma, la cosa non è incredibile, tanto più che Faustus è uno schiavo di Antonia Minore, legata da amicizia con Agrippa I e la madre Berenice e dunque si tratta di una domus con stretti legami con ambienti

122 P.R.C. WEAVER: Familia Caesaris. A Social Study of the Emperor’s Freedmen and Slaves; Cambridge University Press 1972, pp. 217-218. 123 M. KARRER: Der Gesalbte. Die Grundlagen des Christustitels, Vandenhoeck & Ruprecht 1991, p. 71. 124 [G. KITTEL], G. FRIEDRICH: Theological Dictionary of the New Testament. Vol. IX, Φ – Ω; Eerdmans 1999, p. 484. Anche J. BAUMGART: Die römischen Sklavennamen; Breslau 1936, p. 21. O. MONTEVECCHI: Nomen christianum, in R. CANTALAMESSA, L.F. PIZZOLATO (a cura di): Paradoxos Politeia. Studi patristici in onore di Giuseppe Lazzati; Vita & Pensiero 1979, p. 491. H. SOLIN: Die griechischen Personennamen in Rom. Ein Namenbuch. Zweiter Band; Zweite wöllig neubearbeitete Auflage; De Gruyter 2003, pp. 1004 - 1010. Una veloce ricerca in EDCS della radice Chrest ad esempio ha dato 527 attestazioni; 140 in EDR (24/10/2012). 125 CIL IX 01875. EDR109755. 126 M. KARRER: Der Gesalbte. Die Grundlagen des Christustitels, Vandenhoeck & Ruprecht 1991, pp. 70-87. [G. KITTEL], G. FRIEDRICH: Theological Dictionary of the New Testament. Vol. IX, Φ – Ω; Eerdmans 1999, pp. 488-489. Sulle varie forme che il nome cristiano ha assunto nei primi secoli, si veda O. MONTEVECCHI: Nomen christianum, in R. CANTALAMESSA, L.F. PIZZOLATO (a cura di): Paradoxos Politeia. Studi patristici in onore di Giuseppe Lazzati; Vita & Pensiero 1979, pp. 485-500. 127 S. BACCHIOCCHI: Rome and Christianity until a.D. 62, in Andrews University Seminary Studies XXI, 1/1983, p. 15.

Iscrizione di Tito Mario Chresto e della moglie Sestilia Chresta, liberti, del 20 a.C. - 30 d.C., conservata nel Museo del Sannio di Benevento

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ebraici di rango elevato128. Sappiamo inoltre, se si deve prestare fede ad Atti 2,10-11, che nel giorno di Pentecoste immediatamente dopo la morte di Gesù ad ascoltare la predicazione di Pietro vi erano anche pellegrini provenienti da Roma, ovvero ebrei residenti nella capitale dell’impero, nonché proseliti gentili del giudaismo, così che con ogni probabilità il messaggio cristiano è arrivato ben presto nella capitale romana129. Ma questo è solo a livello di ipotesi. In realtà è assai difficile che nella finestra temporale più probabile di realizzazione di questa epigrafe il termine χριστιανοί / christiani / chrestiani fosse già stato coniato130. Inoltre gli schiavi appartenevano al padrone e quindi generalmente perdevano anche il proprio nome, per prendere quello che gli veniva dato dal nuovo padrone131. Anche quando gli schiavi potevano mantenere il proprio nome o sceglierne uno esso era sempre soggetto al benestare del padrone e seguiva comunque le regole onomastiche latine, soprattutto nei circoli nobiliari e imperiali. Non è pensabile che in quegli anni, e in quegli ambienti, uno schiavo potesse attribuirsi da solo o ottenere l’approvazione del proprio padrone per un agnomen derivato da un culto straniero e non riconosciuto dallo stato o che indicasse l’appartenenza a qualche minuscolo e oscuro gruppo o setta, tanto più se questa era fortemente e apertamente anti-romana, e infatti nonostante migliaia di epigrafi con altrettante migliaia di nomi servili, non si registra nessun caso di questo tipo. Non solo non è pensabile ma non vi è neppure necessità per farlo, visto che sappiamo, come abbiamo appena visto, che il cognomen chrestianus è riconducibile al nome servile Chrestus. Anche nel caso in cui Iucundus fosse un liberto, egli semplicemente avrebbe mantenuto il doppio cognomen aggiungendovi il gentilizio e il praenomen del patrono, o solo uno dei due. Così il servo Iucundus Chrestianus sarebbe diventato il liberto Tiberius Claudius Iucundus Chrestianus o Iulius Iucundus Chrestianus. Neppure i liberti infatti, benché certamente godessero di maggiori libertà e diritti rispetto agli schiavi, avevano totale libertà di scegliersi un nome132 e quando si prendevano tale libertà questo avveniva perché attraverso l’attribuzione di un nome che non gli spettava essi cercavano di attribuirsi uno status maggiore di quello effettivamente ricoperto, il che veniva generalmente ostacolato e represso dalle autorità: “the Roman regulation [which] punished with the confiscation of a fourth of his estate any person using a false appellation and those who knowingly concur therein”133. Quel che sorprende pertanto non è trovare un Chrestianus nella Familia Caesaris nella prima metà del I secolo d.C., o anche in tutto il I e II secolo d.C., ma il fatto che, a parte i due casi citati, non ne troviamo affatto, nonostante la relativa diffusione del nome Chrestus e dei suoi derivati e nonostante il fatto che in età imperiale non di rado ai figli veniva dato un cognomen derivato da quello paterno o materno, così che troviamo nomi come Avitianus, Cossianus, Donatianus, Atticillianus e simili. La prima attestazione certa infatti dell'utilizzo di Chrestianus come cognomen, dopo i casi da noi citati, è solamente del 205 d.C in un laterculus134 ritrovato a Roma e riportante gli appartenenti alla I cohors vigilum, tra i quali figura, 128 T. FLAVIO GIUSEPPE: Antichità Giudaiche XVIII, 143. Anche J. BURNS: Great Women of Imperial Rome. Mothers and Wives of the Caesars; Routledge 2007, p. 33. 129 Le origini del Cristianesimo a Roma sono oscure e oggetto di dibattito e ipotesi da molto tempo. A tale proposito si veda P. LAMPE: From Paul to Valentinus. Christians at Rome in the First Two Centuries; Fortress Press 2003. Anche B. GREEN: Christianity in Ancient Rome. The First Three Centuries; T & T Clark 2010, pp. 23 e ss. 130 D.G. HORRELL: The Label Χριστιανος. 1Peter 4:16 and the Formation of Christian Identity, in Journal of Biblical Literature 126, 2/2007, p. 366. 131 S.R. JOSHEL: Slavery in the Roman World; Cambridge University Press 2010, pp. 94-95. 132 P.R.C. WEAVER: Familia Caesaris. A Social Study of the Emperor’s Freedmen and Slaves; Cambridge University Press 1972, p. 35. 133 E.J. BICKERMAN: The Name of Christians, in E.J. BICKERMAN: Studies in Jewish and Christian History. Vol. 1; Brill 2007, p. 796. 134 CIL VI 01056. Ritrovata nell’area della Chiesa dei SS. Apostoli in Roma, attualmente tale iscrizione è conservata a Palazzo Barberini.

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nella terza colonna, un certo Herennius Chrestianus135, per il quale tuttavia non vi è certezza che fosse effettivamente un cristiano. Possiamo facilmente ipotizzare che l’utilizzo estremamente raro del lemma chrestianus, nelle sue varie forme, come cognomen e agnomen, e in generale come nome personale, nei primi secoli sia dovuto al fatto che da una parte i pagani rifuggivano da un simile nome a causa della diffidenza e del pericolo che portava con se l’assimilazione al culto cristiano che

inevitabilmente tale cognomen finiva per suscitare alle orecchie degli altri pagani136, dall’altra perché i cristiani stessi sembra non usassero praticamente mai la loro appartenenza religiosa come cognomen, probabilmente per evitare problemi con le autorità137.

La possibilità pertanto che quel chrestiani nell’epigrafe oggetto della nostra indagine indichi un effettivo cristiano o un appartenente a qualche

altro non meglio specificato gruppo, magari di messianisti ebraici, è di fatto pari a zero.

135 R. SABLAYROLLES: Libertinus Miles. Les Cohortes de Vigiles; Ecole Francaise de Rome; 1996, p. 685. 136 S. BENKO: Pagan Rome and the Early Christians; Batsford 1985, pp. 1-29. 137 O. MONTEVECCHI: Nomen christianum, in R. CANTALAMESSA, L.F. PIZZOLATO (a cura di): Paradoxos Politeia. Studi patristici in onore di Giuseppe Lazzati; Vita & Pensiero 1979, pp. 493-494. Anche J. Engberg: Impulsore Chresto. Opposition to Christianity in the Roman Empire c. 50 – 250 AD; Peter Lang 2007. J. GRANGER COOK: Roman Attitudes Toward the Christians. From Claudius to Hadrian; Mohr Siebeck 2010. E. ROWE: Called by the Name of the Lord. Early Uses of the Names and Titles of Jesus in Identifying His Followers; University of Notre Dame Dissertations 2012.

Nell’angolo in alto a destra Herenni Chrestiane, secondo la testimonianaza di R. FABRETTI: Inscriptionum Antiquarum Quae in Aedibus Paternis Asservantur…; Romae 1702, p. 261.

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6. IL NOMEN ChRESTIANUS E I FANTOMATICI

ChRESTIANI DI ALESSIO DE ANGELIS

Che cosa fare allora, a questo punto, e così veniamo, seppur più brevemente, alla seconda

parte di questo studio, quella riguardante le sole teorie di De Angelis, dell’affermazione di quest’ultimo per cui “è attestata l’esistenza – prima degli anni 30 – di una comunità settaria giudaica dal nome Cristianesimo che non è identificabile con l’omonima setta gesuita che sarebbe nata solo molti anni dopo, sia perché l’assenza di un nome proprio che identificasse l’attributo profetico Cristo, cioè unto, indica che per quei Cristiani il Messia non era ancora venuto”138? La risposta è semplicemente: “nulla!”. Ci troviamo davanti semplicemente e solamente al prodotto della invero invidiabile fantasia di De Angelis, che trasforma, ignorando dati e testimonianze nonché regole onomastiche e linguistiche, un normale agnomen servile di una tabella di colombario della prima metà del I secolo d.C. nell’attestazione di una setta giudaica di cui non abbiamo notizia alcuna139 in nessuna fonte a noi pervenuta140 e uno schiavo della famiglia imperiale, di cui nulla sappiamo, in un “Messianista dell’Avvento”141, qualsiasi cosa voglia dire questa bizzarra espressione coniata da De Angelis, ovvero un membro o sostenitore dei “Cristiani esseni dell’Attesa”142. Per far questo a De Angelis è bastata l’assonanza chrestiani / cristiani, immaginando, del tutto arbitrariamente, che il termine chrestiani, ma anche cristiani, possa significare e si possa tradurre, e soprattutto all’epoca potesse essere inteso, come “messianisti”143. Vale la pena soffermarci brevemente, in aggiunta a quanto sinora illustrato sul corretto senso e significato da dare a quel chrestiani dell’epigrafe in oggetto, su questa curiosa teoria di De Angelis, il quale pretende di dimostrare in tal modo “l’inesistenza durante tutto il I secolo CE, in Giudea e nel mondo, del Cristianesimo gesuita”144. Purtroppo per De Angelis e le sue audaci teorie parafilologiche, è lo stesso lemma chrestiani / christiani, una volta correttamente inteso, a dirci che non ci troviamo dinanzi a una non meglio nota setta giudaica di stampo messianico e zelota e che tale ipotesi è del tutto improbabile, se non impossibile. 138 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 203. 139 Non può essere presa come conferma dell’esistenza di questo gruppo di Chrestiani non cristiani neppure la discutibile e del tutto improbabile tesi di Eric Laupot sui Christiani quale gruppo nazionalista e rivoltoso antiromano (E. LAUPOT: Tacitus' Fragment 2: the Anti-Roman Movement of the Christiani and the Nazoreans, in Vigiliae Christianae 54, 3/2000, pp. 233-247). Laupot ipotizza infatti che un brano delle Cronache di Sulpicio Severo sia in realtà un brano delle Historiae di Tacito nel quale egli parlerebbe di un gruppo di Christiani che parteciparono alla rivolta antiromana del 66 d.C. e al successivo assedio di Gerusalemme del 70 d.C. La tesi di Laupot, elaborata ed ampliata in due successivi articoli e in un e-book autopubblicato on-line, non ha convinto il mondo accademico ed è relegata per lo più come curiosità nelle note a fondo pagina, senza contare che comunque ci troviamo in un periodo successivo rispetto a quello qui ipotizzato. Caustico il giudizio di Giorgio Jossa a tale proposito: “L’opinione de E. Laupot, Tacitus’Fragment 2: the anti-Roman Movement of the Christiani and the Nazoreans: Vigiliae Christianae 54 (2000) 233-247, che, sulla base di una fantasiosa relazione statistica tra i termini stirps, Ναζωραῖος e Ναζαρηνός, ritiene il frammento una fonte storica primaria, attraverso Tacito, sui cristiani come gruppo giudaico pesantemente coinvolto nella rivolta contro Roma, non merita alcun credito.” (G. JOSSA: Giudei o Cristiani? I seguaci di Gesù in cerca di una propria identità; Paideia 2004, p. 189 n. 1) 140 Sui gruppi stranieri e religiosi presenti a Roma si veda G. LA PIANA: Foreign Groups in Rome during the First Centuries of the Empire, in Harvard Theological Review XX, 4/1927, pp. 183-403. 141 DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, 190. 142 Ibid., 191. Qui il De Angelis sembra essersi confuso con la sua stessa terminologia. 143 Ibid., 176-178. 144 Ibid., 169.

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A lungo si è discusso sull’origine e il significato del termine Χριστιανοί / Christiani, che compare per sole tre volte nel Nuovo Testamento145 e in generale sembra essere raramente usato nel corso del I secolo d.C. da parte dei cristiani stessi, per infine imporsi dall’inizio del II secolo in poi.

Il consenso attuale si sta sempre più orientando verso l’ipotesi che tale termine non sia stato coniato e applicato a se stessi dai cristiani146 ma che abbia avuto origine tra la popolazione pagana, probabilmente di Antiochia147, come riporta Luca in At 11,26, o forse da qualche autorità romana148.

Come prima cosa bisogna dire che il termine Χριστιανοί / Christiani è un neologismo e allo stesso tempo un ibrido tra il greco e il latino, una formazione in qualche modo “eccezionale”149, di difficile compren-sione anche per greci e latini stessi, perché non deriva dal nome di Gesù,

come altri termini quali pitagorico aristotelico ecc., ma è costruito a partire dalla parola greca Χριστός senza tuttavia seguire gli usuali costrutti greci bensì assumendo la desinenza latina –ianus150. Prima ancora tuttavia è il termine Χριστός stesso ad essere problematico. Come è noto con tale termine veniva tradotto in greco l’ebraico mashiah (unto, consacrato mediante l’unzione), seppure il greco conosceva anche la forma μεσσίας151, dall’aramaico mesiha, che noi rendiamo semplicemente con “messia”152, una nozione sorta nel giudaismo pre-cristiano riguardante una figura escatologica, un inviato di Dio, un unto appunto, secondo la terminologia regale biblica, che 145 At 11,26. At 26,28. 1Pt 4,16. 146 G. JOSSA: I Cristiani e l’Impero Romano. Da Tiberio a Marco Aurelio; Carocci 2000, p. 33. Anche S. XERES: Il nome Χριστιανοι come espressione dell’autocoscienza di un popolo nuovo, in M. SORDI (a cura di): Autocoscienza e rappresentazione dei popoli dell’antichità; Vita & Pensiero 1992, pp. 214 - 215. D.G. HORRELL: The Label Χριστιανος. 1Peter 4:16 and the Formation of Christian Identity, in Journal of Biblical Literature 126, 2/2007, pp. 362 - 363. J.H. ELLIOTT: 1 Peter. A New Translation with Introduction and Commentary; Doubleday 2000, p. 790. T. HEGEDUS: Naming Christians in Antiquity, in Studies in Religion / Sciences Religieuses 33, 2/2004, pp. 173 – 190. Contra: E.J. BICKERMAN: The Name of Christians, in E.J. BICKERMAN: Studies in Jewish and Christian History. Vol. 1; Brill 2007, pp. 794 - 808. B. LIFSCHITZ: L’Origine du nom des chrétiens, in Vigiliae Christianae XVI, 2/1962, pp. 65 - 70. 147 H.B. MATTINGLY: The origin of the Name Christiani, in Journal of Theological Studies IX, 1/1958, p. 26. 148 P. TREBILCO: Self-Designations and Group Identity in the New Testament; Cambridge University Press 2012, pp. 276 – 280, spec. p. 279. P. TOWNSEND: Who Were the First Christians? Jews, Gentiles and the Christianoi, in E. IRICINSCHI, H.M. ZELLENTIN: Heresy and Identity in Late Antiquity; Mohr Siebeck 2008, p. 216, 225. E. PETERSON: Christianus, in AA.VV.: Miscellanea Giovanni Mercati. Vol. I; Biblioteca Apostolica Vaticana 1946, pp. 355-372. J.D.G. DUNN: Christianity in the Making. Vol. 2, Beginning from Jerusalem; Eerdmans 2009, pp. 303 – 304. J. TAYLOR: Why Were the Disciples First Called “Christians” at Antioch? (Acts 11,26), in Revue Biblique 101, 1/1994, pp. 75 – 94. 149 E.J. BICKERMAN: The Name of Christians, in E.J. BICKERMAN: Studies in Jewish and Christian History. Vol. 1; Brill 2007, p. 801. 150 L. SEMBRANO: Tra Gerusalemme e Roma. Antiochia alle origini del Cristianesimo, in D. GARRIBBA, S. TANZARELLA (a cura di): Giudei o Cristiani? Quando nasce il Cristianesimo?; Il Pozzo di Giacobbe 2005, p. 141. 151 Gv 1,41. 4,25. 152 J.A. FITZMYER: The One Who Is To Come; Eerdmans 2007, p. 1.

N. Bodarevsky, Il giudizio di San Paolo dinanzi ad Agrippa (1875). Al fianco di Agrippa II vi è la sorella Berenice, amica di Antonia Minore. Secondo Atti 26,28 in quell'occasione Agrippa II avrebbe esclamato ironicamente a Paolo: Ἐν ὀλίγῳ με πείθεις Χριστιανόν ποιῆσαι. Si tratta di una delle prime attestazioni del nomen christianus.

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avrebbe instaurato il regno di Dio su Israele, cacciando gli occupanti stranieri153. Tuttavia ci troviamo dinanzi a una innovazione semantica introdotta dai redattori della versione greca della Bibbia detta dei LXX, poiché “nel greco classico, infatti, esiste χριστός, ma è di uso raro, e non significa mai la persona che viene unta, bensì l’unguento che viene spalmato sulla persona, generalmente a scopo terapeutico”154, unto infatti viene generalmente reso con αληλιμμένος e poi con ηλειμμένος, ma mai con χριστός. Questo significa che un non ebreo, un Gentile, non poteva comprendere correttamente tale termine, del tutto estraneo all’uso greco, ma inevitabilmente, per il fenomeno dell’itacismo, per cui la lettera η (eta) era pronunciata come ι (iota)155, e che ritroviamo in molti papiri e manoscritti non solo del Nuovo Testamento156, era portato a confonderlo con il più comune aggettivo χρηστός157, che vuol dire “utile”, “buono”, ben presto divenuto un nome proprio158, diffuso soprattutto in ambito servile, e latinizzato in Chrestus, anche nella forma femminile Chreste: “neither pagans nor Christians in late antiquity could distinguish Χρηστός and Χριστός by their sound”159.

Sulla radice greca χριστ- è stato dunque aggiunto il suffisso latino –ianus così da formare la parola christianus, benchè il greco abbia propri suffissi: “In normal Greek the followers of Christ would be designated by an appellative with the suffix – ειος, like Επικούρειοι, Απολλωνιείοι, etc.”160. Sarebbe quindi da questo ibrido che per assonanza è stata coniata la parola greca χριστιανοί. Sembrerebbe pertanto che prima sia nata l’espressione latina e poi quella greca, il che ha portato, come abbiamo visto, alcuni studiosi a ritenere, con buone argomentazioni, che il termine sia stato coniato dalle autorità romane di Antiochia161.

153 Ci limitiamo a questa breve descrizione, consci della sua problematicità, dal momento che “twentieth-century research on messianism has shown that it is actually an open question what “messiah” means” (M.V. NOVENSON: Christ among the Messiahs. Christ Language in Paul and Messiah Language in Ancient Judaism; Oxford University Press 2012, p. 34). 154 O. MONTEVECCHI: Nomen christianum, in R. CANTALAMESSA, L.F. PIZZOLATO (a cura di): Paradoxos Politeia. Studi patristici in onore di Giuseppe Lazzati; Vita & Pensiero 1979, p. 495. Anche [G. KITTEL], G. FRIEDRICH: Theological Dictionary of the New Testament. Vol. IX, Φ – Ω; Eerdmans 1999, p. 495. 155 F.T. GIGNAC: A Grammar of the Greek Papyri of the Roman and Byzantine Periods. Vol. 1, Phonology; Cisalpino – La Goliardica 1976, p. 235 - 242. 156 W. SHANDRUK: The Interchange of ι and η in Spelling χριστ- in Documentary Papyri, in Bulletin of the American Society of Papyrologists 47 (2010), pp. 205-219. T.S. CAULLEY: The Chrestos/Christos Pun (1 Pet 2:3) in P72 and P125, in Novum Testamentum 53, 4/2011, pp. 376-387. J.R. ROYSE: Scribal Habits in Early Greek New Testament Papyri; Brill 2008, pp. 79-81. 157 M. HENGEL: Between Jesus and Paul. Studies in the Earliest History of Christianity; Wipf & Stock 2003, p. 167. Anche H. BOTERMANN: Das Judenedikt des Kaisers Claudius. Römischer Staat und Christiani im 1. Jahrhundert; Franz Steiner Verlag 1996, p. 59. 158 P. CHANTRAINE: Dictionnaire Etymologique de la Langue Grecque. Histoire des Mots. Tome IV-2, Φ – Ω et Index; Ed. Klincksieck 1980, p. 1276. [G. KITTEL], G. FRIEDRICH: Theological Dictionary of the New Testament. Vol. IX, Φ – Ω; Eerdmans 1999, pp. 483 - 489. Per alcuni esempi si veda G. WISSOWA: Paulys Real-Encyclopädie der classichen Altertumswissenschaft. Dritter Band, Barbarus – Claudius; Metzlerscher Verlag 1899, pp. 2449 – 2450. 159 M.J. EDWARDS: Χρηστός in a Magical Papyrus, in Zeitschrift fur Papyrologie und Epigraphik 85 (1991), p. 232. 160 E.J. BICKERMAN: The Name of Christians, in E.J. BICKERMAN: Studies in Jewish and Christian History. Vol. 1; Brill 2007, p. 801. 161 Oltre a quelli già citati in n. 148, anche E.A. JUDGE: Judaism and the Rise of Christianity. A Roman Perspective, in E.A. JUDGE: The First Christians in the Roman World. Augustan and New Testament Essays; Mohr Siebeck 2008, p. 437.

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Da parte sua il suffisso –ianus, come abbiamo già avuto modo di vedere per i cognomina di adozione e i nomi servili, indica appartenenza: “Latinisms like χριστιανός denote supporters, adherents, followers, or partisans of a person, with the key idea conveyed by the suffix being that of ‘belonging to’ the person to whose name the suffix is appended. Other examples are Brutianus, Augustianus, Caesarianus […] The degree and type of dependence or allegiance varied considerably, and included slaves or clients, as well as supporters or partisans of a political or military leader”162. Il suffisso –ianus in questi costrutti è sostitutivo del genitivo possessivo163 ed è generalmente attaccato al nome di una persona o al più a un titolo con cui tale persona è nota, ad esempio Augustus, e come tale viene inteso da chi ascolta164. Christianus / Χριστιανός pertanto veniva inteso da chi si trovava ad ascoltare tale lemma come “coloro che appartengono a un certo Christus / Χριστός” ovvero οἱ τοῦ Χριστοῦ 165, intendendo Christus / Χριστός come nome proprio di persona reale, anche se eventualmente non più in vita.

Tenendo conto pertanto della particolarità della formazione di questo lemma, possiamo fare qualche ragionevole considerazione sull’ipotesi di De Angelis che esso sia stato coniato come definizione interna da una setta o da un gruppo ebraico e che un seguace di tale setta abbia assunto a Roma, all’interno della Familia Caesaris, un tale nome.

Innanzitutto va detto che il termine christianus, o la sua eventuale variante chrestianus, non è traducibile con messianista, come propone audacemente, per usare un eufemismo, De Angelis (supra). Benché si possa essere tentati da una simile semplificazione, e benché certamente “the name Christianoi, and the name Christos, which it presupposes, cannot be explained apart from a Jewish background of belief in and expectation of the Messiah”166, si tratta di un’ingenuità: “Against this, however, is the formation of words such as Χριστιανοί, in which the Latino-Greek termination that, as Bickerman points out, denotes “belonging to”, is suffixed to the name of a person. Therefore the name Χριστιανοί presupposes the name of Χριστός. In other words, those

162 P. TREBILCO: Self-Designations and Group Identity in the New Testament; Cambridge University Press 2012, pp. 291 – 292. Si veda anche P.R. JENKS: A Manual of Latin Word Formation; Heath & Co. 1911, pp. 30-34. Per nomi simili si veda T. ZAHN: Introduction to the New Testament. Vol. 2; Second Edition Revised, Scribner’s 1917, p. 193-194. 163 E.J. BICKERMAN: The Name of Christians, in E.J. BICKERMAN: Studies in Jewish and Christian History. Vol. 1; Brill 2007, p. 803. 164 J. TAYLOR: Why Were the Disciples First Called “Christians” at Antioch? (Acts 11,26), in Revue Biblique 101, 1/1994, p. 76. 165 Cf. 1Cor 1,12. 3,23. 15,23; Gal 3,29. 5,24. P. TOWNSEND: Who Were the First Christians? Jews, Gentiles and the Christianoi, in E. IRICINSCHI, H.M. ZELLENTIN: Heresy and Identity in Late Antiquity; Mohr Siebeck 2008, pp. 215-216, 219. 166 J. TAYLOR: Why Were the Disciples First Called “Christians” at Antioch? (Acts 11,26), in Revue Biblique 101, 1/1994, p. 94.

Quello che rimane della sinagoga di Antiochia, dove Paolo, assieme a Barnaba, avrebbe predicato ai propri correligionari il nuovo vangelo di Cristo. Proprio ad Antiochia sarebbe stato coniato per la prima volta il termine Χριστιανοί.

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who first coined the name Χριστιανοί treated Χριστός as a proper name”167. Contro la possibilità di una simile traduzione vi è inoltre il fatto che il termine messianismo, necessariamente presupposto sia come concetto che come termine per il lemma messianista, è, come molti –ismi, un prodotto della modernità, essendo stato coniato, sembra, solo nel XIX secolo all’interno delle discussioni filosofiche dell’epoca168. Il latino e il greco semplicemente non conoscono il termine messianismo e devono usare circonlocuzioni per esprimere tale concetto astratto, come conseguenza con conoscono neppure il termine messianista.

A questo si deve aggiungere che se sembra attestata una relativamente diffusa attesa messianica nel corso del I secolo d.C., il concetto stesso di messia sembra essere alquanto sfuggevole e impreciso e soprattutto non condiviso tra le varie fazioni giudaiche dell’epoca: “Al volgere dell’era volgare, il messianismo escato-logico era ormai idea popolare e diffusa ma non divenne mai idea normativa, almeno fino a quando il sacerdozio e il tempio rimasero istituzioni fondamentali. La società giudaica del tempo continuò a rimanere divisa in molti gruppi (o giudaismi) caratterizzati da teologie tra loro anche molto diverse. Tale complessità si riflette anche nell’esistenza di diverse attese messianiche. Anche fra i giudaismi che sostenevano l’attesa di un messia escatologico vi erano opinioni e teologie diverse circa la sua identità, natura e funzioni. Tali differenze sono tra loro competitive e in nessun modo vanno ricondotte ad un quadro unitario”169. Non solo pertanto non vi era un unico messianismo giudaico normativo a cui richiamarsi ma lo stesso termine messia era piuttosto una sorta di contenitore che permetteva di esprimere le concezioni più diverse: “Messia […] è termine nel primo secolo estremamente vago e ambiguo. Per qualsiasi pretendente messianico la necessità primaria era piuttosto quella di precisare i connotati della propria rivendicazione messianica”170, tanto che l’attuale communis opinio tra gli studiosi del giudaismo è che “in early jewish literature, ‘messiah’ is all signifier with no signified; the term is notable primary for its indeterminacy. In other words, Jewish messiah language in the 167 J. TAYLOR: Why Were the Disciples First Called “Christians” at Antioch? (Acts 11,26), in Revue Biblique 101, 1/1994, p. 93. 168 I. BAHBOUT, D. GENTILI, T. TAGLIACOZZO (a cura di): Il messianismo ebraico; La Giuntina 2009, p. 8. 169 G. BOCCACCINI: Uomo, Angelo o Dio? Alle radici del messianesimo ebraico e cristiano, in G. BOCCACCINI (a cura di): Il Messia tra memoria e attesa; Morcelliana 2005, pp. 16-17. 170 Ibid, p. 30.

Epigrafe (CIL VI 27959) funeraria dei liberti di origine ebraica Lucio Valerio Baricha, Lucio Valerio Zabda e Lucio Valerio Achiba, proveniente dal monumento sepolcrale dei Valerii sulla Via Appia, a Roma, con ogni probabilità del I secolo d.C.:

L(ucius) Valerius L(uci) L(ibertus) Baricha L(ucius) Valerius L(uci) L(ibertus) Zabda L(ucius) Valerius L(uci) L(ibertus) Achiba

Si noti non solo la usuale L di libertus ma come tutti e tre abbiano preso il praenomen e il nomen del patrono, aggiunto al proprio nome da schiavo di chiara origine ebraica. Gli ebrei della diaspora infatti tendevano ad adattarsi all’onomastica locale.

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Hellenistic and Roman periods meant so many things that it effectively did not mean anything at all”171.

La conseguenza di quanto sopra è che è estremamente improbabile che un gruppo politico giudaico con attese messianiche abbia coniato e adottato il termine χριστιανοί / christiani sia per la sua assai particolare natura ibrida greco-romana172 sia perché tale termine, anche se avesse potuto essere inteso come “messianisti” (e abbiamo visto come non fosse affatto così), sarebbe stato del tutto insignificante e incomunicante. Gli studi di sociolinguistica e di identità sociale evidenziano come i gruppi tendono ad autodefinirsi attraverso una terminologia sufficientemente

significativa da permettere l’identificazione e la distinzione dagli altri, pertanto tale terminologia tende inevitabilmente a riflettere o evidenziare ciò che viene percepito come significativo o caratteristico e distintivo all’interno del

gruppo stesso173. I nomi con cui i vari gruppi si autodefiniscono al proprio interno ma anche si presentano all’esterno, agli altri, sono dunque vettori di identità174: “the names and terms used by social groups to identify themselves and other groups are part of a process of self-definition, a process involving a group’s asserting its own character and being, and distinguishing and demarking it from the character and being of other groups”175. Insomma: The development of a name is significant in itself. As Tabouret-Keller notes, ‘Identifying others or oneself is a means of differentiation and of opposition’. The articulation of a self-designation by a group implies that they are a group, and that they have a distinctive identity compared to outsiders, who are to be distinguished from ‘us’. […]. The self-designations used by a group have an impact on the group’s identity and on how it sees itself. Drury andMcCarthy write that names ‘announce to others and resonate to ourselves in a reflexive process who we are (or who we wish to see ourselves being)’. The way members of a group answer the question, ‘Who are we?’ has a significant impact on the group’s life”176. Questo processo di differenziazione e polarizzazione è particolarmente evidente tra i vari gruppi giudaici del Secondo Tempio, i quali se da una parte condividevano quello che potrebbe definirsi, per citare una nota espressione del Sanders, una sorta di common judaism177,

171 M.V. NOVENSON: Christ among the Messiahs. Christ Language in Paul and Messiah Language in Ancient Judaism; Oxford University Press 2012, p. 34. Anche S. TALMON: The Concept of Masiah and Messianism in Early Judaism, in J.H. CHARLESWORTH (ed.): The Messiah. Developments in Earliest Judaism and Christianity; Fortress Press 1992, pp. 79 – 115, spec. p. 80. 172 “In the Greek of the Roman period, I find only three adjectives employed as nouns and formed on the model of the Latin type which ends in –ianus. These are Καισαριανοί, Χριστιανοί and Ηρωδιανοί” (E.J. BICKERMAN: The Herodians, in E.J. BICKERMAN: Studies in Jewish and Christian History. Vol. 1; Brill 2007, p. 667). 173 J.M. CARROLL: What’s in a Name? An Essay in the Psychology of Reference; Freeman & Co 1985, p. 121. 174 G. PHILOGENE: Choosing a Name as Filter of Group Identity, in G. PHILOGENE: Racial Identity in Context. The Legacy of Kenneth B. Clark; American Psychological Association 2004, p. 92. 175 J.H. ELLIOTT: Jesus the Israelite Was Neither a ‘Jew’ nor a ‘Christian’. On Correcting Misleading Nomenclature, in Journal for the Study of the Historical Jesus 5, 2/2007, p. 123. 176 P. TREBILCO: Self-Designations and Group Identity in the New Testament; Cambridge University Press 2012, p. 5. 177 E.P. SANDERS: Judaism. Practice and Belief 63 BCE – 66 CE. SCM Press 1992, pp. 47 - 48.

Menorah proveniente dall'edicola della sinagoga di Ostia

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dall’altra necessitavano di nascondere tali tratti comuni per evidenziare la propria unicità e legittimità178.

E’ chiaramente evidente allora come il termine chrestiani, per la sua indeterminatezza e insignificanza, dovute al sotteso esplicito concetto di messia che si vuole ipotizzare, nonché per il costrutto particolare, sarebbe stato del tutto inadatto come endoetnonimo179 o autoetnonimo per un gruppo giudaico anti-romano e i suoi membri e infatti non è un caso che non si abbia alcuna attestazione del termine christiani / chrestiani in ambito giudaico quale autodesignazione di alcun gruppo religioso o politico dell’epoca180. Giuseppe Flavio, che pure a volte usa una varietà di termini per indicare i gruppi giudaici anti-romani, non conosce alcun gruppo con tale nome181 ed esso è ignoto anche alla tradizione rabbinica così come agli autori pagani di cui abbiamo conoscenza. Una ricerca nelle diverse fonti disponibili e in particolare nel Corpus Inscriptionum Judaicarum182 e nel Corpus Papyrorum Judaicarum183, così come nel Lexicon of Jewish Names in Late Antiquity di Tal Ilan184 non solo non fornisce alcun risultato, ma evidenzia come il lessema christ / chrest fosse generalmente evitato nella nomenclatura e nell’onomastica giudaica dell’epoca, tanto che non abbiamo nessun caso accertato dell’utilizzo del pur diffuso nome Chrestus da parte ebraica185, in particolar modo a Roma186. Siamo a conoscenza di diversi gruppi ebraici presenti a Roma nei primi

178 Sull’argomento si veda R. HAKOLA: Social Identities and Group Phenomena in Second Temple Judaism, in P. LUOMANEN, I. PYYSIAINEN, R. URO: Explaining Christian Origins and Early Judaism. Contributions from Cognitive and Social Science; Brill 2007, pp. 259-276. 179 Sugli etnonimi e il loro utilizzo si veda B. MULLEN, R.M. CALOGERO, T. I. LEADER: A Social Psychological Study of Ethnonyms. Cognitive Representation of the In-Group and Intergroup Hostility, in Journal of Personality and Social Psychology 92, 4/2007, pp. 612-630. 180 Questa che presentiamo non è una banale argomentazione ex silentio, in quanto la narrazione storica è possibile solo in presenza di attestazioni e corroborazioni date dalle fonti: ex nihilo nihil. 181 G. FIRPO: La terminologia della resistenza giudaica antiromana in Giuseppe Flavio, in Rendiconti dell’ Accademia dei Lincei IX, 8 (1997), pp. 675-714. 182 J.-B. FREY: Corpus Inscriptionum Judaicarum. ]ewish lnscriptions from the Third Century BC to the Seventh Century AD; 2 Vols, rist. KTAV 1975. 183 V.A. TCHERIKOVER, A. FUKS, M. STERN: Corpus Papyrorum Judaicarum; 3 Vols, Harvard University Press 1957 - 1964. 184 T. ILAN: Lexicon of Jewish Names in Late Antiquity. Part I, Palestine 300 BCE – 200 CE; Mohr Siebeck 2002; T. ILAN: Lexicon of Jewish Names in Late Antiquity. Part III, The Western Diaspora 330 BCE – 650 CE; Mohr Siebeck 2008; T. ILAN: Lexicon of Jewish Names in Late Antiquity. Part IV, The Eastern Diaspora 330 BCE – 650 CE; Mohr Siebeck 2011; T. ILAN: Lexicon of Jewish Names in Late Antiquity. Part II, Palestine 200 CE – 650 CE; Mohr Siebeck 2012. 185 R.E. VAN VOORST: Gesù nelle fonti extrabibliche. Le antiche testimonianze sul Maestro di Galilea; Ed. San Paolo 2004, p. 48. 186 Nessun Chrestus / Χρηστός è presente ad esempio in D. NOY: Jewish Inscriptions of Western Europe. Vol. 2, The City of Rome; Cambridge University Press 1995. Harry J. Leon, nel suo studio sugli ebrei di Roma, riporta 550 nomi di ebrei romani, ma fra di loro non compare alcun Chrestus (H.J. LEON: The Jews of Ancient Rome; The Jewish Publication Society of America 1960, pp. 93-121).

Resti della sinagoga di Ostia. Purtroppo non è giunta sino a noi nessuna delle altre sinagoghe romane dell'epoca

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decenni del I secolo d.C., grazie soprattutto alle iscrizioni trovate nei cimiteri ebraici dell’epoca187, ed essi sono generalmente legati alle varie sinagoghe presenti nell’Urbe188, undici attestate con certezza189, mentre per alcune altre sussistono dubbi. Così ad esempio sappiamo degli Augustenses (Αυγυστησίοι)190 e degli Agrippenses (Αγριππησίοι), che come si vede seguono gli usuali costrutti greci, essendo la comunità ebraica di Roma essenzialmente di lingua greca191. Tra di essi non risultano esservi Chrestiani e neppure qualcosa di lontanamente simile. Questo termine sembra essere del tutto ignoto alla comunità ebraica romana dell’epoca. E’ interessante notare inoltre come nessun autore antico, neppure l’autore degli Atti degli Apostoli o della Prima Lettera di Pietro o della Didachè, neppure Ignazio di Antiochia o gli apologisti cristiani del II secolo d.C. senta la necessità di disambiguare il termine christiani o christianus; nessuno di loro, neppure quando si avventura a spiegare il significato di tale termine ai lettori pagani, lascia intendere che ci possa essere confusione tra questi christiani e degli altri, precedenti, chrestiani e non sente il bisogno e la volontà di impedire tale imbarazzante confusione tra coloro che si definiscono leali sudditi dell’impero e cercano di accreditarsi come tali presso le autorità romane e un gruppo giudaico

espressamente anti-romano. Tutti costoro sembrano essere bellamente ignari di un gruppo messianico giudaico che porta lo stesso nome dei seguaci di Gesù detto il Cristo.

Un ulteriore motivo per cui è davvero difficile ipotizzare che un gruppo ebraico, ovvero i suoi membri e simpa-tizzanti, si possa essere autodefinito chrestiani è dovuto al fatto che tale costrutto greco-latino, seppur in se stesso non necessariamente denigratorio e deri-sorio, si poteva prestare facilmente a essere utilizzato in senso negativo192, tanto che il Mattingly ipotizza che esso sia stato costruito sulla falsariga di Augustiani, come venivano chiamati sprezzantemente quei giovani nobili romani, ma probabilmente

187 C. VISMARA: I cimiteri ebraici di Roma, in A. GIARDINA (a cura di): Società romana e impero tardoantico. Vol. II, Roma: politica, economia, paesaggio urbano; Laterza 1986, p. 382, Tab. A. Anche H.J. LEON: The Jews of Ancient Rome; The Jewish Publication Society of America 1960, pp. 135-166. 188 P. RICHARDSON: Augustan-Era Synagogues in Rome, in K.P. DONFRIED. P. RICHARDSON: Judaism and Christianity in First-Century Rome; Eerdmans 1998, pp. 23-38. 189 W. HORBURY, W.D. DAVIES, J. STURDY (eds): The Cambridge History of Judaism. Vol. III, The Early Roman Period; Cambridge University Press 1999, p. 173. 190 S. CAPPELLETTI: The Jewish Community of Rome. From the Second Century B.C. to the Third Century C.E.; Brill 2006 pp. 3-30. 191 T. RAJAK: The Jewish Dialogue with Greece and Rome. Studies in Cultural and Social Interaction; Brill 2002, p. 437. J.S. JEFFERS: Il mondo greco-romano all’epoca del Nuovo Testamento; Ed. San Paolo 2004, p. 300. S. CAPPELLETTI: The Jewish Community of Rome. From the Second Century B.C. to the Third Century C.E.; Brill 2006 p. 182. 192 “The Greek-speaking synagogues in Rome used the Greek suffix -esioi in their names. The suffix -ianus constitutes a political comment. It is not used for followers of a god. It classifies people as partisans of a political or military leader, and is mildly contemptuous” (E.A. JUDGE: Judaism and the Rise of Christianity. A Roman Perspective, in E.A. JUDGE: The First Christians in the Roman World. Augustan and New Testament Essays; Mohr Siebeck 2008, p. 437). “The label had a derogatory overtone from the outset, so that it meant, not simply ‘partisans of Christ’, but something like ‘Christ-lackeys’, shameful sycophants of Christ” (J.H. ELLIOTT: 1 Peter. A New Translation with Introduction and Commentary; Doubleday 2000, p. 790-791). Anche T. HEGEDUS: Naming Christians in Antiquity, in Studies in Religion / Sciences Religieuses 33, 2/2004, p. 177.

Catacombe ebraiche di Villa Rondanini, II secolo d.C.

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anche popolani, circa cinquemila, che facevano da claque permanente alle esibizioni di Nerone193:

After his mother's violent death early in A.D. 59 Nero began going his own way, free of her restraining influence. Despite his advisers' protests he was determined on public appearances as actor, singer, and charioteer, and began by instituting new semi-public games. Young nobles were pressed to take part in these Juvenalia, while a permanent claque was formed from the Roman knights under the title Augustiani. This paramilitary corps of handsome, tough youths devoted themselves to rhythmic praise of the emperor's person and his divine voice. Their whole life became an act of worship. […]. Not all his Augustiani naturally shared his ideals or felt for him the awed admiration common in the East. At best slightly ridiculous, they were often mere opportunists or worse. But whether sincere or not they were all trained to create an impression of fervour. They seemed animated by passionate belief. They must at once have caused a real stir. At Antioch, I believe, they inspired the nickname Christiani. […].The Antiochenes were notoriously witty, though Alexandria had the stronger tradition of ridiculing or embarrassing the Roman government. But Alexandria, having given Nero the idea of training his Augustiani, was in unusual good humour with the emperor and for that very reason Antioch, from long rivalry, was liable to move towards opposition. The news of Nero's artistry would be a godsend. Syria in its royal days had endured the rule of an imperial aesthete, Antiochus IV (Epiphanes), lover of the theatre and himself an occasional actor in mimes. This king, in whose tradition we may detect Antiochene satire, was so strangely like Nero that Antioch must have been particularly fascinated by each new folly. By A.D. 59-60 the populace was vividly aware of the growing body of heretical Jews and converts in their midst. These never wearied of proclaiming allegiance to a person called Christus, whose praises they sang in formal hymns. Were they not ludicrously like Nero's Augustiani? Christ had his claque at Antioch! The name Christiani would adroitly ridicule both groups at once.”194

Se dunque è altamente improbabile che un gruppo ebraico anti-romano abbia coniato per se stesso e per i propri membri la denominazione chrestiani, ancora più improbabile è che a farlo siano state le autorità romane o la popolazione locale, magari di Roma. Da una parte infatti le autorità romane mostrano poco interesse ad etichettare o anche solo conoscere i nomi dei vari gruppuscoli ebraici che si oppongono all’occupazione della Palestina, racchiudendoli spesso e volentieri tutti, come del resto fa Giuseppe Flavio, nella generica etichetta di “briganti” – latrones / λησταί195. La cosa non deve sorprendere, in quanto appartiene alle normali dinamiche dei gruppi: “In collectivist, group-oriented cultures like those of antiquity, groups speaking of other groups regularly generalize and homogenize ‘the others’, using one collective term to embrace all—ignorant of, or unconcerned with, any distinctions or labels made by group members among themselves”196. Dall’altra parte, se si vuole forzare il significato di messianisti per il lemma chrestiani, si deve presupporre e ipotizzare una assai poco probabile conoscenza della Bibbia greca dei LXX e del suo del tutto peculiare uso del termine χριστός, così come più in generale del concetto di messia, da parte della popolazione pagana o delle stesse autorità romane. A questo si deve aggiungere anche la questione del perché un siffatto gruppo avrebbe dovuto accettare una tale ambigua e probabilmente derisoria etichetta 193 P. CORNELIO TACITO: Annali, XIV, 13-15. L. CASSIO DIONE: Storia romana LXI, 19-20. C. SVETONIO TRANQUILLO: Nerone 20, 3. 25, 1. 194 H.B. MATTINGLY: The origin of the Name Christiani, in Journal of Theological Studies IX, 1/1958, pp. 29-31. 195 Sull’utilizzo di questa terminologia da parte romana si veda ad esempio T. GRUNEWALD: Bandits in the Roman Empire. Myth and Reality; Routledge 2004. Per quel che riguarda i gruppi rivoltosi anti-romani giudaici si veda il classico M. HENGEL: The Zealots. Investigations into the Jewish Freedom Movement in the Period from Herod I until 70 A.D.; T & T Clark 1989, pp. 24 - 75, 380 - 404. 196 J.H. ELLIOTT: Jesus the Israelite Was Neither a ‘Jew’ nor a ‘Christian’. On Correcting Misleading Nomenclature, in Journal for the Study of the Historical Jesus 5, 2/2007, p. 123.

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pagana, tanto da coniare addirittura dei secondi nomi o dei soprannomi da essa, con i quali interagire nella società romana.

Tornando brevemente quindi, prima di concludere questo nostro studio, a Iucundus Chrestianus, e avendo presente quanto sinora esposto, davvero non si capisce perché De Angelis trasformi un banale servitore della Familia Caesaris in un appartenente a un non meglio precisato e del tutto sconosciuto alle fonti, nonché improbabile, gruppo messianista ebraico. Non vi è infatti nulla nell’epigrafe analizzata così come nel nome che possa far supporre un ambiente anche solo parzialmente ebraico e certo non basta una banale assonanza lessicale, del tutto casuale e dovuta, come abbiamo visto, a particolari e ben noti meccanismi fonetici, per mettere in piedi un’ipotesi storica anche solo minimamente ragionevole. Non vi è neppure nulla, come già spiegato, che permetta di ritenere che quel chrestianus sia un nome alternativo o un soprannome, senza contare che l’utilizzo di secondi nomi e soprannomi risulta essere alquanto raro nella diaspora ebraica e comunque generalmente soggetto a proprie regole197.

197 A tale proposito si veda M.H. WILLIAMS: The Use of Alternative Names by Diaspora Jews in Graeco-Roman Antiquity, in Journal for the Study of Judaism 38 (2007), pp. 307 - 327.

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7. CONCLUSIONI

Il ritrovamento, a Roma, di un’iscrizione funeraria in latino probabilmente della prima metà del I

secolo d.C. contenente il termine chrestiani ha dato origine a diverse ipotesi sulla corretta interpretazione di tale lemma. Tra tali ipotesi, alcune delle quali invero fantasiose, si segnala quella di Alessio De Angelis, per il quale tale iscrizione attesterebbe l’esistenza di un gruppo messianista giudaico antiromano a Roma nei primissimi decenni del I secolo d.C., dal nome significativo di Chrestiani.

Tale articolo di De Angelis risulta essere un estratto dal suo ultimo libro ma soprattutto una banale copia e traduzione, con opportune modifiche, di un articolo precedentemente scritto in inglese, e pubblicato in rete, da un certo Erik Zara sullo stesso argomento.

L’articolo originale di Zara, tuttavia, presenta evidenti limiti non solo nell’utilizzo delle fonti, ma anche nella capacità di analisi e nelle conclusioni tratte, mentre l’articolo di De Angelis, oltre a soffrire inevitabilmente degli stessi limiti, contiene anche alcuni errori grossolani.

Messi pertanto da parte i due articoli, una rinnovata analisi dell’epigrafe in questione ha portato a stabilire diversi dati, tra cui il più importante è certamente quello relativo al periodo di realizzazione dell’epigrafe stessa, tra gli ultimi anni del regno di Tiberio e il regno di Nerone, con una maggiore probabilità per il periodo tra il 31 e il 37 d.C., ovvero poco prima della morte di Antonia Minore. Non vi è dubbio inoltre che si tratti di un’usuale tabella di colombario di ambiente servile e non un’iscrizione funeraria commemorativa dedicata al marito Druso Maggiore da parte di Antonia Minore, come prospettato dal De Angelis.

Riguardo al lemma chrestiani, le consuetudini e le regole epigrafiche ed onomastiche latine portano inevitabilmente a concludere come l’ipotesi di De Angelis, per il quale il nome Iucundus Chrestianus attesta la presenza a Roma, nei primi anni del I secolo d.C., di un gruppo messianista ebraico, sia del tutto priva di fondamento, in quanto si tratta di un normale servo della Familia Caesaris che ha assunto tale doppio cognome con la usuale, in questi casi, desinenza in -ianus in onore del precedente padrone, il cui nome probabilmente era Chrestus (da cui Chrest-ianus), nome relativamente diffuso all’epoca anche a Roma.

Il lemma chrestiani pertanto non rimanda in alcun modo ad alcun gruppo messianista giudaico, così come nulla ha a che vedere con il Cristianesimo in senso proprio.

La parte finale di questo studio è dedicata all’analisi dell’origine del termine christiani / chrestiani in modo da poter stabilire se davvero potesse all’epoca essere inteso come ‘messianisti’ ed essersi pertanto originato quale definizione, ovvero denominazione, interna o esterna di un gruppo messianista ebraico antiromano, soprattutto della diaspora, e quindi essere adottato come secondo nome o soprannome da uno dei suoi membri. Una volta inquadrata correttamente la questione dal punto di vista storico e filologico la conclusione non può che essere che questo è altamente improbabile.

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In conclusione, Alessio De Angelis ha messo in piedi non solo un’evidente catena indiziaria, il che sarebbe già un grave errore, ma una vera e propria catena di improbabilità, impossibilità e inesattezze, facendo strame del metodo storico e ignorando ripetutamente, anzi continuamente, i dati e le conoscenze a nostra disposizione, nonché gli studi di autori ben più preparati, per imbastire una fantasiosa quanto assurda teoria sull’esistenza e la presenza di fantomatici chrestiani messianisti ebraici a Roma nei primi anni del I secolo d.C. Tali chrestiani, tuttavia, esistono solo nella sua fantasia, poiché la storia non li conosce, semplicemente non sono mai realmente esistiti e non vi è motivo alcuno per ritenere che lo siano mai stati, con buona pace di De Angelis stesso e delle sue teorie pseudoscientifiche.

Nella sua prefazione un certo Mauro Biglino afferma, a proposito dell’opera dei De Angelis: “Ogni pagina, ogni paragrafo, ogni riga rappresentano un richiamo alla razionalità, alla cultura, allo studio, alla verifica […] un lavoro che impressiona per la sua precisione analitica, per i raffronti precisi e circostanziati […] Alessandro e Alessio De Angelis richiamano questi studiosi alle loro responsabilità, alla necessità di operare prestando attenzione alla correttezza storica e filologica”198. Vogliamo sperare, per lui e per i suoi lettori, alla luce di quanto sinora illustrato, che il Biglino abbia semplicemente voluto essere ferocemente ironico.

198 M. BIGLINO: Prefazione, in DE ANGELIS: La fine del Cristianesimo, IX-X.

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Sarebbe stata trovata a Roma un’iscrizione in latino, databile alla prima metà del I secolo d.C., nella quale si leggerebbe chiaramente la parola chrestiani. Questo ha portato alcuni teorici del complotto a ipotizzare che tale termine indicasse un membro di un gruppo messianista ebraico antiromano avente tale nome e attivo a Roma in quegli anni, prima della nascita del Cristianesimo vero e proprio. Il Cristianesimo originario sarebbe pertanto nato come un movimento politico antiromano prima della presunta nascita e predicazione di Gesù e solo successivamente, nel II secolo d.C., sarebbe sorto il Cristianesimo gesuano ad opera dei falsari Padri della Chiesa. Esiste davvero un’epigrafe romana della prima metà del I secolo d.C. che dimostrerebbe l’esistenza a Roma di chrestiani prima dei cristiani? Cosa c’è scritto davvero in tale epigrafe? Qual è il suo significato? Questi chrestiani erano davvero un gruppo messianista ebraico che si opponeva anche con la violenza all’occupazione romana della Palestina? Il termine latino christiani o chrestiani voleva davvero dire “messianisti” e indicava originariamente una setta vicina al movimento ebraico antiromano degli zeloti? In questo studio Jerim Bogdanic Pischedda, studioso del Cristianesimo delle origini e del Gesù storico, affronta la questione dei chrestiani prima dei cristiani, mostrando l’infondatezza di queste fantasiose teorie.