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Studi e ricerche I cappellani dei lavoratori italiani in Germania 1938-1943 Mimmo Franzinelli II saggio analizza l’operato dei sacerdoti impe- gnati tra il 1938 e il 1943 in Germania, col fol- to contingente di braccianti e di operai appron- tato nel quadro del progetto italo-tedesco di “emigrazione programmata”. I quaranta cap- pellani del lavoro — guidati da monsignor An- tonio Giordani, vescovo dei balilla — affianca- rono all’assistenza spirituale mansioni di natu- ra parasindacale e di orientamento politico-i- deologico. La situazione dei religiosi era piut- tosto delicata, come attestano le diffidenze del- le autorità tedesche (che vollero controllarne l’attività) e i dissapori con taluni sindacalisti fascisti. Scoppiata la guerra, una parte dei sa- cerdoti espresse ai superiori il desiderio di pas- sare con i combattenti, come cappellani milita- ri, per una concezione “eroica” del ministero sacerdotale. Nella primavera 1943, quando i fondamenti del progetto di emigrazione guida- ta denunziavano evidenti limiti, il comporta- mento dei cappellani si diversificò a seconda delle convinzioni individuali e con l’armistizio un buon numero di preti tornò in Italia, per evitare di adempiere a funzioni obbligatamente collaborazioniste. This essay examines the vicissitudes of the Ita- lian catholic priests sent to Germany in the pe- riodo 1939-1943 with the task o f assisting the numerous contingent o f farm labourers and in- dustrial workers involved in the German-Italian project for ‘‘programmed emigration”. The forty labour chaplains, led by Antonio Giorda- ni, bishop o f the Balilla youth, would play a multi-faceted role of spiritual care, tradeunio- nist assistance and ideological guidance. Their position was a farily delicate one, as proved by the mistrust shown on the part of the German authorities and by the recurrent frictions with certain fascist trade-union representatives. At the outbreak o f the war, part o f them expressed their will to join the Italian armed forces as mi- litary chaplains, inspired by a sort o f heroic concept of their ministry. By the spring 1943, however, when the emigration project had clearly shown its limits, the chaplains’ attitudes tended to differentiate according to their perso- nal beliefs, and after the armistice a considera- ble number o f them turned back to Italy, in or- der to avoid being involved in what would soon become aforceful collaboration. Italia contemporanea”, giugno 1992, n. 187

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S tu d i e ricerche

I cappellani dei lavoratori italiani in Germania 1938-1943

Mimmo Franzinelli

II saggio analizza l’operato dei sacerdoti impe­gnati tra il 1938 e il 1943 in Germania, col fol­to contingente di braccianti e di operai appron­tato nel quadro del progetto italo-tedesco di “emigrazione programmata”. I quaranta cap­pellani del lavoro — guidati da monsignor An­tonio Giordani, vescovo dei balilla — affianca­rono all’assistenza spirituale mansioni di natu­ra parasindacale e di orientamento politico-i­deologico. La situazione dei religiosi era piut­tosto delicata, come attestano le diffidenze del­le autorità tedesche (che vollero controllarne l’attività) e i dissapori con taluni sindacalisti fascisti. Scoppiata la guerra, una parte dei sa­cerdoti espresse ai superiori il desiderio di pas­sare con i combattenti, come cappellani milita­ri, per una concezione “eroica” del ministero sacerdotale. Nella primavera 1943, quando i fondamenti del progetto di emigrazione guida­ta denunziavano evidenti limiti, il comporta­mento dei cappellani si diversificò a seconda delle convinzioni individuali e con l’armistizio un buon numero di preti tornò in Italia, per evitare di adempiere a funzioni obbligatamente collaborazioniste.

This essay examines the vicissitudes of the Ita­lian catholic priests sent to Germany in the pe­riodo 1939-1943 with the task of assisting the numerous contingent of farm labourers and in­dustrial workers involved in the German-Italian project for ‘‘programmed emigration”. The forty labour chaplains, led by Antonio Giorda­ni, bishop of the Balilla youth, would play a multi-faceted role of spiritual care, tradeunio- nist assistance and ideological guidance. Their position was a farily delicate one, as proved by the mistrust shown on the part of the German authorities and by the recurrent frictions with certain fascist trade-union representatives. At the outbreak of the war, part of them expressed their will to join the Italian armed forces as mi­litary chaplains, inspired by a sort of heroic concept of their ministry. By the spring 1943, however, when the emigration project had clearly shown its limits, the chaplains’ attitudes tended to differentiate according to their perso­nal beliefs, and after the armistice a considera­ble number of them turned back to Italy, in or­der to avoid being involved in what would soon become a forceful collaboration.

Italia contemporanea”, giugno 1992, n. 187

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Manca a tutt’oggi un’adeguata conoscenza delle ripercussioni in campo ecclesiastico della strategia fascista di “militarizzazione” della società italiana. L’aspetto più evidente di tale fenomeno si ebbe con la costituzione, nel marzo 1926, dell’Ordinariato militare d’Italia, organismo alle cui dipendenze ope­rarono i cappellani inseriti nelle forze arma­te. Aboliti nel primo decennio unitario dai governi liberali, i cappellani militari ritorna­vano così ad operare stabilmente in tempo di pace, nel quadro di una stretta collabora­zione col ministero della Guerra e in una di­mensione di sostanziale avallo ideologico-re- ligioso del regime. Dopo un triennio di vita stentata, dalla primavera 1929 l’Ordinariato esercitò pienamente le sue prerogative, raf­forzato dai Patti Lateranensi (che ridefiniro­no e potenziarono le competenze dell’Om) e dalla sostituzione di monsignor Camillo Pa- nizzardi con monsignor Angelo Bartoloma- si1. Le successive tappe dell’inquadramento militar-confessionale di una parte del clero italiano furono l’istituzionalizzazione di due contingenti di sacerdoti, rispettivamente preposti ai piccoli dell’Opera nazionale Ba­

lilla ed alle camicie nere della Milizia volon­taria di sicurezza nazionale. La gestione del­l’Ispettorato cappellani dell’Onb e della Mv- sn venne rispettivamente affidata a monsi­gnor Antonio Giordani ed a monsignor Mi­chelangelo Rubino, stretti collaboratori del­l’arcivescovo castrense Bartolomasi. Quan­do poi si porrà il problema dell’impiego di manodopera nazionale al di fuori dei confi­ni, l’assistenza spirituale agli emigranti sarà garantita col reclutamento dei cosiddetti “cappellani del lavoro”, sperimentati in via informale dal 1936 tra i coloni militarizzati dell’Africa orientale (col mantenimento in servizio dei cappellani al termine della cam­pagna bellica)2 e organizzati in forma stabile dal 1938 per la manodopera inviata in Ger­mania nell’ambito degli accordi di coopera­zione tra regime fascista e Terzo Reich. Per l’emigrazione ordinaria, invece, il servizio religioso rimase affidato ai missionari italia­ni, come nel caso della Francia e del Belgio3.

In questa sede ci occuperemo degli eccle­siastici inviati nei territori tedeschi insieme a diverse migliaia di lavoratori, in base al pro­getto di “emigrazione controllata” che, date

1 Panizzardi (1875-1935) fu tacciato da Mussolini e da alcuni ministri di scarso attaccamento ai regime: la sua no­mina a Ordinario militare d’Italia, decisa dalla Santa Sede, era risultata sgradita in ambito governativo e originò ri­petuti attriti che intralciarono l’attività dell’Ordinariato. Candidato naturale alla direzione dei cappellani era mon­signor Angelo Bartomasi (1869-1959), già vescovo di campo durante la prima guerra mondiale, che infatti nell’apri­le del 1929 verrà richiamato ad assumere la guida della struttura ecclesiastico-militare. Per un quindicennio il prela­to piemontese rimarrà alla testa dei cappellani, finché nell’estate 1944, dopo che i nazifascisti si erano ritirati da Roma, le polemiche sulla sua contiguità col regime mussoliniano lo costringeranno a rassegnare le dimissioni (ac­cettate da Pio XII negli ultimi giorni dell’ottobre 1944). I! solo studio su Panizzardi, dei padri Giuseppini del Mu- rialdo, è costituito dalla pubblicazione commemorativa Monsignor Camillo Panizzardi, Roma, Scuola Tipografica Pio X, 1936. Egualmente insoddisfacente il quadro biografico sul suo successore; il volume Mons. Angelo Bartolo­masi Vescovo dei soldati d ’Italia, Pinerolo, Alzani, 1966, dovuto al nipote don Natalino Bartolomasi, si ferma al 1929. Sull’operato dell’arcivescovo castrense negli anni 1939-1945 cfr. Mimmo Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Treviso, Pagus, 1991.2 Al termine della campagna d’Abissinia, ai cappellani militari si sostituirono i cappellani del lavoro; si trattava spesso degli stessi sacerdoti che avevano assistito i soldati nella guerra e che quindi si limitarono ad adeguarsi alle mutate esigenze, rimanendo sempre sotto la giurisdizione di monsignor Bartolomasi. Fu il ministro delle Colonie, Lessona, a prospettare all’Ordinariato il nuovo campo di apostolato, col risultato di deteriorare i rapporti con i vi­cariati apostolici, gelosi delle proprie prerogative. La questione — nella quale interverrà anche padre Gemelli, a so­stegno del vicario apostolico a Mogadiscio— è affrontata in una storia del clero castrense durante il ventennio fa­scista, in fase di avanzata elaborazione da parte di chi scrive.3 Sulla presenza degli ecclesiastici italiani tra i nostri connazionali in terra francese: G. Sartori, I missionari degli emigrati italiani in Francia di fronte al fascismo nel decennio 1923-1934, in “Studi Emigrazione”, 5, febbraio 1966,

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le risultanze della trattativa triangolare go- verno-Santa Sede-Ordinariato militare, pre­vedeva la presenza sacerdotale. Il massiccio invio di rurali e di operai in Germania pun­tava ad alleggerire la pressione della disoc­cupazione interna (specie nelle campagne) ed obbediva alla volontà di fornire forza-la­voro all’alleato nazista in cambio di valuta pregiata. Dal 1941 lo scambio si realizzerà tra manodopera italiana e rifornimenti tede­schi, in significativa consonanza con la su­balternità della guerra fascista nei confronti della macchina bellica hitleriana. Alla metà del marzo 1938 partirono dall’Italia le prime tradotte ferroviarie con le avanguardie dei trentunmila braccianti (25.956 stagionali e 5.115 stabili) che in quell’anno avrebbero coadiuvato i contadini teutonici. Nel 1939 il numero dei nostri agricoltori incanalati ver­so il paese alleato toccò le 36.000 unità, equivalenti al 30 per cento degli stranieri complessivamente occupati nelle fattorie del Reich. Dal 1940 al 1942 il contingente di ru­rali si stabilizzò intorno ai cinquantamila emigranti, la stragrande maggioranza dei quali provenienti dalla Lombardia, dal Ve­neto, dall’Emilia-Romagna e dal Friuli. Le regioni meridionali fornirono poche centi­naia di contadini. La presenza femminile si aggirò attorno al 25-30 per cento del totale. Un numero decisamente superiore di italiani (tra i 170.000 ed i 220.000, pari a un’inciden­za percentuale variabile tra il 1941 e il 1942 dall’8,4 al 12,7 per cento della forza lavoro immigrata in Germania) venne adibito al

settore industriale e nei servizi, presso i can­tieri navali, nelle costruzioni aeronautiche, nelle aziende metalmeccaniche, nell’edilizia, nell’attività commerciale (come commessi). Si trattava del secondo gruppo nazionale, preceduto dai polacchi. Questa forza lavoro era alquanto eterogenea: in parte volontaria e in parte coatta, includeva operai generici e manodopera specializzata fianco a fianco con ex dissocupati4. L’impatto col lavoro in terra straniera avrebbe presumibilmente su­scitato fenomeni di disagio e di disadatta­mento, per cui si ritenne opportuno predi­sporre a beneficio dei nuclei di emigranti una duplice rete assistenziale: di natura sin­dacale (l’Ufficio sindacale italiano) e di ca­rattere religioso (i cappellani del lavoro).

Il primo nucleo di ecclesiastici dell’emigra­zione

Nel 1938, accanto ad alcuni elementi di con­tinuità con precedenti esperienze di assisten­za religiosa agli emigranti, si registrò un sal­to qualitativo rispetto ai tentativi sino ad al­lora esplicati. La principale novità consiste­va nel carattere di ufficialità, sancito dallo Stato, conferito ai sacerdoti inviati in Ger­mania. Era stato il ministero degli Esteri a lanciare l’iniziativa che, col beneplacito del­la Congregazione concistoriale e dell’Ordi­nariato militare, affidò a uno specifico cor­po di ecclesiastici la realizzazione di un pro­getto di indiscutibile rilievo sul piano dei

pp. 164-176; G. Rosoli, Ruolo delle missioni cattoliche italiane neI sud della Francia (1922-1934), in E. Temime e T. Vertone (a cura di), Gli italiani nella Francia del sud e in Corsica (1860-1980), Milano, Angeli, 1988, pp. 42-67; Aroldo Buttarelli, Missionari bergamaschi in Francia: tra emigrazione e crisi bellica (1938-1946), in “Studi e ricer­che di storia contemporanea”, 36, dicembre 1991, pp. 23-54. Per il Belgio si vedano le osservazioni contenute in A. Morelli, Fascismo e antifascismo nell’emigrazione italiana in Belgio (1922-1940), Roma, Bonacci, 1987, pp. 124- 137.4 L’impiego della manodopera italiana nei territori del Reich, un tema a lungo tracurato dagli studi storici, è ogget­to di indagine da parte di Brunello Mantelli, che ha anticipato in due documentati saggi ( / lavoratori italiani in Ger­mania 1938-43 e L ’emigrazione di braccianti italiani nel Terzo Reich 1938-1943, apparsi rispettivamente sulla “Ri­vista di storia contemporanea”, 4/1989, pp. 560-575, e su “Studi storici”, 3/1990, pp. 739-769) alcuni aspetti della sua complessiva ricerca, di prossima pubblicazione presso La Nuova Italia.

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rapporti economici e diplomatici internazio­nali. Rilevante, dunque, lo scarto esistente rispetto al lavoro esplicato sin verso la fine degli anni venti dai missionari dell’Opera Bonomelli5. Venne scartata l’ipotesi di ri­correre all’ufficio ecclesiastico che da tem­po assicurava nel paese l’apostolato nei luo­ghi di lavoro: l’Opera nazionale per l’assi­stenza religiosa e morale agli operai, diretta da monsignor Ferdinando Baldelli6.

Fu Mussolini in persona a disporre, nel­l’aprile 1938, che il redentorista Giacomo Salza assumesse le funzioni di responsabile organizzativo del corpo. Valoroso cappella­no militare, amico personale del duce e suo grande estimatore, padre Salza, dalla metà degli anni venti, rivestiva ruoli di primo piano nelle strutture fasciste dell’emigrazio­ne, quale responsabile del settore ecclesiasti­co dei Fasci italiani all’estero. Nessuno me­glio di lui avrebbe autorevolmente garantito il ruolo di orientamento ideologico dei cap­pellani del lavoro nei confronti delle masse operaie7. L’inquadramento della struttura assistenziale negli organici dell’Ordinariato castrense suonava come autorevole ricono­

scimento della decennale attività dispiegata da questa struttura in favore di una conce­zione nazionalista della religione e sottoli­neava la tendenziale militarizzazione della manodopera inviata in Germania. La deci­sione governativa di inviare in Germania un contingente di cappellani fu valutata positi­vamente dal Vaticano, che tramite la Con­gregazione concistoriale consegnò all’Ordi­nariato cinquemila lire a titolo di contributo per il sostentamento dei sacerdoti. Più gene­rosa l’oblazione disposta dal ministero degli Esteri: centomila lire, con una mensilità di 250 marchi per ciascun membro del corpo di assistenza religiosa.

Nella primavera del 1938 vennero asse­gnati ai trentunmila rurali, sparsi perlopiù in piccoli gruppi nelle fattorie tedesche, no­ve sacerdoti, che si portarono con frequen­za settimanale presso i concentramenti di maggiore rilievo e mensilmente tra i nuclei meno consistenti di agricoltori8. I religiosi funsero da intermediari tra gli emigrati, i datori di lavoro, le autorità politiche e di polizia, le strutture sanitarie, i consolati ita­liani e le organizzazioni fasciste in terra ger-

5 II principale tentativo di assistenza religiosa agli emigranti su scala europea fu avviato dall’Opera Bonomelli (sul­le ultime travagliate fasi dell’Opera, sciolta nel 1928, si veda Ph. Cannistraro e G. Rosoli, Emigrazione, Chiesa e fascismo, Roma, Studium, 1979). Le origini dei cappellani del lavoro sono tuttavia da ricercarsi nella struttura affi­data nel primo dopoguerra dal Vaticano all’ordinario castrense Michele Cerrati, nominato dalla Santa Sede “vesco­vo dell’emigrazione” (Cerrati, minato da una malattia polmonare che lo portò alla tomba nei febbraio 1925, non potrà però occuparsi in modo continuativo dei compiti affidatigli).6 L’Onarmo venne fondata nel 1926 da monsignor Ferdinando Baldelli, con l’obiettivo di prestare assistenza ai la­voratori dell’industria. I suoi cappellani organizzarono spacci aziendali, corsi educativi e conferenze in alcune fab­briche del settore pubblico (per esempio, a Roma, la Snia e la Peroni). L’attività del sodalizio si inserì nel solco del­l’azione sociale del fascismo, ma solamente durante la seconda guerra mondiale l’Onarmo riuscì a estendere il pro­prio raggio d’azione, grazie all’appoggio di monsignor Bartolomasi. Cfr. la documentazione contenuta nel volume commemorativo, edito dal sodalizio in occasione delle celebrazioni quarantennali, L ’Onarmo. L ’idea e l ’opera, Roma, 1962.

G. Salza (1881-1961) aveva militato nel clero castrense nella campagna libica, nella grande guerra e nel conflitto italo-abissino, riportando diverse onorificenze al valor militare. Devoto ammiratore di Mussolini, era assai apprez­zato dal sottosegretario alla Guerra Pariani e dal generale Messe. Dal 1926 il cappellano delia Milizia operava tra gli emigrati: per conto della direzione dei Fasci italiani all’estero si recò in Estremo oriente, nelle Americhe e in Africa, sviluppando un intenso apostolato politico-religioso. Il redentorista ricoprì pure, sino al 1939, la carica di Ispettore generale dei Balilla all’estero. Le benemerenze patriottiche valsero a Salza la Commenda dell’Ordine della Corona d’Italia.s Questi i nominativi del primo contingente di “cappellani del lavoro”: padre Giacomo Salza (direttore generale), padre Giulio Nehgerbon (responsabile del servizio di assistenza spirituale della Baviera), don Bortolo Artuso (Mag-

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manica. Le mansioni di indole spirituale ri­guardarono essenzialmente la celebrazione di messe festive, la distribuzione di riviste e di oggetti devozionali, l’organizzazione di lezioni catechistiche per gli aggregati più co­spicui di emigranti. Nell’ottobre 1938 l’arci­vescovo castrense relazionò alla Santa Sede sui primi riscontri dell’opera sacerdotale, evidenziando i pericoli incombenti sui nostri connazionali: l’ospitalità delle famiglie pro­testanti costituiva un insidioso rischio per le convinzioni cattoliche degli operai; il lavoro in terra straniera assoggettava i braccianti “a padroni senza fede o sfruttatori” ; la stessa situazione morale destò forti preoccu­pazioni, data la presenza di donne italiane “non sempre mogli o parenti, sebbene pre­sentate come tali”9.

L’ispettore padre Salza coordinò i sacer­doti posti alle sue dipendenze, si spostò continuamente da un gruppo di italiani al­l’altro, animò con slancio patriottico le principali cerimonie religiose, rivolse ai con­nazionali ardenti messaggi improntati all’e­saltazione del regime fascista e dell’alleanza con la Germania hitleriana. Rimpatriato verso la metà del dicembre 1938 insieme al­

l’ultimo contingente di rurali, fu subito rice­vuto in udienza da Mussolini, che ascoltò le positive impressioni di nove mesi di soggior­no tedesco10. Conclusa la prima stagione la­vorativa, padre Salza chiese di essere esone­rato ma, secondo quanto attesta il suo bio­grafo, “l’allora Segretario di Stato Card. Pa­celli, a nome del Papa Pio XI, lo pregherà di rimanere al suo posto per un secondo anno ancora. Volontà del Papa, volontà di Dio: reclinò il capo, docile, umile”11. Alcuni altri mesi di missione in Germania e finalmente l’irrequieto redentorista potrà passare ad al­tri impegnativi incarichi. A lui saranno affi­date le redini dei cappellani del lavoro inviati in Albania con gli operai al seguito delle truppe d’occupazione. Stavolta Salza opere­rà in stretta collaborazione con l’Onarmo12.

Nell’autunno 1939 l’incarico di sovrinten­dere al contingente di religiosi rimasti in Ger­mania venne affidato all’Ordinario militare monsignor Angelo Bartolomasi e a monsi­gnor Antonio Giordani, personalità di asso­luto rilievo in campo ecclesiastico per avere diretto per un decennio con mano ferma l’e­ducazione religiosa dei Balilla13. Se i pressan­ti impegni non consentirono al vescovo della

deburg), don Luigi Albrigo (Stettin), don Vittorio Vigato (Hannover), don Giovanni Tschon (Erfurt), don Ottavio Caurla (Nürnberg), don Ascanio Micheioni (Frankfurt) e don Mario Martinelli (Stuttgart). Padre Negherbon, do­po sei mesi di servizio, rientrò alla propria diocesi. Del nucleo originario di cappellani solamente Tschon e Albrigo daranno continuità al loro impegno in terra tedesca (il primo rimarrà in Germania sino al 1943 e il secondo addirit­tura fino agli anni cinquanta). L’elenco dei cappellani è conservato nell’Archivio storico dell’Ordinariato militare d’Italia, Roma, nella b. 50 - L 12 “Cappellani degli operai in Germania”, sottofascicolo varie. Il materiale di segui­to citato è depositato, tranne diversa indicazione, nei sottofascicoli personali dei cappellani contenuti nelle bb. 50 e 51 del suddetto fondo archivistico (i sottofascicoli sono ordinati alfabeticamente: le lettere A-D sono incluse nella b. 50; le lettere E-Z nella b. 51).

Monsignor Angelo Bartolomasi al cardinale Carlo Rossi, 18 ottobre 1938, in Arcivhio Ordinariato militare, cit., sf. varie.10 Cfr. Salza a Mussolini, 27 dicembre 1938, in Archivio Centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce, Car­teggio ordinario, f. 515610.11 G. Pascoli, Commemorazione del P. Giacomo Salza, redentorista, Roma, 1961, pp. 16-17. La stessa fonte infor­ma che il reverendo tenne un diario del suo soggiorno tedesco, un manoscritto che “serba pagine di passione tra le più frementi della sua vita” .12 Sull’attività esplicata da Salza tra i lavoratori italiani in Albania si veda L ’Onarmo, cit., pp. 117-121.13 Antonio Giordani (1877-1960) durante il primo conflitto mondiale fu cappellano della Marina, decorato con tre medaglie di bronzo e una croce di guerra al valor militare; nel maggio 1930 venne nominato proispettore del clero preposto all’Opera nazionale Balilla. In segno di riconoscimento per le capacità dimostrate alla direzione dei 3.500

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Gii di trasferirsi a Berlino, egli si mantenne comunque in costante rapporto epistolare con i cappellani, recandosi annualmente in visita pastorale tra gli emigrati. La sua deli­cata attività fu costantemente seguita dalla segreteria di Stato vaticana, che lo stimolò in più occasioni ad adeguare le esigue schiere dei cappellani al nutrito contingente dei lavo­ratori14. Monsignor Giordani si mosse con estrema decisione e raccolse positivi risultati: esercitò pressioni sui vescovi per distaccare dalle parrocchie elementi del clero secolare idonei alla missione in terra straniera, strap­pò cospicui finanziamenti alle confederazio­ni dell’Industria e dell’Agricoltura, fece stampare dalla Bonifatiusverein centomila li­bretti di preghiere in lingua italiana, ottenne mezzi motorizzati per ciascun cappellano15.

Nel 1939 i sacerdoti salirono a venticinque e l’anno successivo il loro numero aumentò di un’altra decina di unità. Migliorò anche il trattamento economico, portato a 300 mar­chi mensili16. Durante il periodo invernale, in coincidenza con il rimpatrio degli stagionali, i cappellani furono sospesi dall’incarico. So­lamente dal dicembre 1942 essi maturarono il diritto alla continuità del servizio e a usufrui­re di almeno una licenza annuale.

Caratteri del servizio e rapporti con gli emi­grati

La presenza ecclesiastica — attestatasi in­torno alle trenta unità nel 1941 e salita a quaranta sacerdoti l’anno successivo, in se­guito all’invio di altri contingenti di operai — mirava certamente ad attenuare, nella misura del possibile, situazioni di disagio psicologico e di disadattamento. Il cappel­lano dell’emigrazione si sforzava per un al­tro verso di proseguire l’opera intrapresa dal parroco del paese natale dei lavoratori, assicurando un elemento di continuità nel rivoluzionamento delle abitudini sociali. La dispersione territoriale della manodopera e lo scarso numero dei preti inviati in Ger­mania rappresentarono comunque un og­gettivo freno all’azione spirituale nei con­fronti degli emigrati. I religiosi esortarono ripetutamente i loro assistiti a prestare maggiore attenzione alle condizioni morali dei campi, valutate, quantomeno nel primo triennio, in termini sostanzialmente negati­vi17. Gli ecclesiastici registrarono infatti con sommo disappunto la caduta della tensione ideale che, se aveva animato i braccianti al momento della partenza dall’Italia, si era

cappellani dell’Onb, nel giugno 1933 fu elevato alla dignità vescovile, con assegnazione onorifica alla diocesi di Mindo. In campo politico il presule adottò comportamenti assai duttili. Nel giugno 1943 assicurò a Scorza il diretto impiego di un contingente di cappellani alla campagna propagandistica orchestrata dal segretario del Pnf; due mesi più tardi si accordò con Badoglio e col suo ministro della Guerra per riorientare l’attività dell’ispettorato secondo una linea afascista che salvaguardasse l’impegno antibolscevico; nell’autunno la costituzione della Rsi lo trovò di­sponibile a proseguire la sua collaborazione, mantenuta sino all’inizio dell’estate 1944. Poi monsignor Giordani manterrà una posizione defilata, accettando dal Vaticano la nomina di canonico di S. Maria Maggiore in Roma, ed eviterà l’epurazione. Nel 1956 Pio XII lo promuove arcivescovo titolare di Larissa di Tessalia e quattro anni più tardi Giovanni XXIII lo nomina assistente al Soglio pontificio. Sull’azione esplicata da Giordani durante il secon­do conflitto mondiale cfr. M. Franzinelli, Il riarmo dello spirito cit., ad incidem.14 Cfr. L’inequivocabile riferimento contenuto nella lettera inviata il 3 dicembre 1941 da Giordani al vescovo di Como, Macchi, per ottenere il benestare al mantenimento in servizio di un sacerdote di quella diocesi, Alfredo Prioni, impegnato nella zona di Hildesheim.15 Cfr. P. Petrelli, Mons. Antonio Giordani, Camerino, Tip. Savini-Mercuri, 1960, p. 18.16 Nel medesimo anno la retribuzione media degli emigranti oscillava tra i 465 e i 506 Reichsmark per 26 giornate lavorative mensili di 10-11 ore (cfr. B. Mantelli, L ’emigrazione dei braccianti, cit., p. 746).1 ' Con lo scoppio della guerra gli accenni negativi passarono in secondo piano, sostituiti da una retorica mirante a incanalare le energie morali e materiali degli operai e dei rurali alla vittoria, oltre che rispondente allo sforzo propa­gandistico del regime.

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poi gradualmente smarrita nelle quotidiane traversie.

Le relazioni stilate per monsignor Giorda­ni entrano nel merito delle problematiche di natura morale e indicano i punti dolenti. Ec­co in quali termini il cappellano zonale di Francoforte illustra le situazioni irregolari da lui riscontrate nella regione affidatagli:In una squadra di Marburgo due vivevano assie­me dicendosi sposati, mentre la donna ha il mari­to in Italia: li ho fatti separare almeno di stanza. A Eschwege due ragazze di Cortina d’Ampezzo portano i calzoni anche in casa (al lavoro li por­tano succintissimi), fumano e si tingono che è un piacere: sono il tormento della piccola squadra, qui non ho potuto che... predicare duro. Qua e là tedeschi e... tedesche che bestemmiano in... ita­liano: è raccapricciante [...] Una stonatura spe­ciale: la presenza tra i rurali di numerose donne non sposate in istato anche avanzato di materni­tà: qui a Francoforte ce n’erano due (più una sposata): i padroni si lamentano forte, sono un peso e un disonore per la squadra, gli uffici tede­schi pure si lamentano e si vanno chiedendo cosa succede in Italia, non parlo poi della stima che ne ricavano le donne italiane. Per il caso mio, inte­ressai Ispettorato, Arbeitsamt e infine Consolato: vennero tutte immediatamente rimpatriate, rima­se qui una sola che deve sposarsi fra giorni (in Italia credono che sia già sposata da un anno); ie­ri venne un’altra segnalazione da Darmstadt, al­tri casi si vanno maturando18.

Padre Ferronato, e come lui tanti altri suoi colleghi, intervenne dunque con provvedi­menti di rimpatrio a carico degli emigranti ri­tenuti di pessimo esempio ai compagni, in ciò sostenuto in modo determinante dalle au­torità italiane e germaniche, consapevoli che la condotta ordinata delle comunità lavora­trici fosse di per sé garanzia di produttività, nelle fabbriche come nei campi.

L’ammissione della crisi di valori e di comportamenti attraversata da una parte degli operai si accompagnò peraltro all’insi­stente riproposizione delle ragioni patriotti­che sottese al trasferimento della forza lavo­ro lungi dai confini nazionali. Le implicanze ideologiche dell’azione di sostegno spirituale sono implicitamente adombrate negli schemi di predicazione approntati dai sacerdoti per le visite ufficiali ai cantieri industriali. L’in­sistenza sulle aspettative riposte dalla patria verso gli emigranti mascherava intenti di na­tura politica, stemperati in un’aggettivazio­ne patriottico-religiosa che vantava i caratte­ri di nobiltà e di generosità della missione affidata dall’Italia (in realtà, dal Pnf) ai suoi cittadini inviati all’estero:La Patria non vi ha scacciati fuori dei confini. Tutt’altro! Ma vi ha dato nelle vostre mani un documento prezioso, cioè il passaporto pulito, col quale vi ha voluto dire che i confini sono sempre aperti per il vostro ritorno. Quindi potete immaginare come voi siete obbligati a corrispon­dere a tanta fiducia. La Patria vuole, cioè, che voi siate buoni operai e disciplinati. La Patria desidera l’onore interno, entro i propri confini, ma vuole assolutamente anche l’onore all’estero. Vedete dunque quale posto voi avete e anche quale responsabilità avete assunta. Ci pensate spesso sopra questo? O ve ne dimenticate qual­che volta?19

Spiccano, nelle esortazioni di don Enrico Johanntoberns, la rilevanza degli intenti pe­dagogici e la volontà di differenziare l’emi­grazione fascista da quella postunitaria, in forza dei persistenti vincoli con la madrepa­tria e della pianificazione migratoria operata dalle autorità governative. I cappellani si li­mitarono peraltro a generici cenni sui reali motivi dell’accordo italo-tedesco in merito

18 Relazione di Ferronato a Giordani, 17 settembre 1941. 11 cappellano era precedentemente in servizio nella diocesi di Bassano del Grappa.19 Enrico Johanntoberns, Pensieri da svolgere alla prima visita ufficiale degli operai italiani in Germania. Lo sche­ma è privo di data.

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alla forza lavoro, in una prospettiva decisa­mente ottimistica e nazionalista.

Quanto alle indicazioni sulla condotta quotidiana, venne insistentemente racco­mandato di evitare la bestemmia, di prestare correttamente le mansioni lavorative, di cor­rispondere all’opera dei superiori, di sop­portare pazientemente le tribolazioni acqui­sendo così meriti dinanzi a Dio. Abbastanza diversificata la posizione assunta sul delica­to problema del lavoro festivo: chiarita l’i­nopportunità che l’emigrante offrisse volon­tariamente la propria disponibilità nelle do­meniche e nelle ricorrenze di precetto, si la­sciò intendere che, qualora le esigenze pro­duttive lo avessero indifferibilmente richie­sto, si sarebbe potuto lavorare anche in tali occasioni20. In ogni caso, la santificazione delle feste rimase un obiettivo strategico, so­stenuto da argomentazioni riprese dal senso comune: “il denaro guadagnato di festa non ha mai arricchito nessuno e neppure può ar­ricchire un povero operaio”, osservò per esempio un ecclesiastico nel periodico giro tra i gruppi di connazionali. Tra le motiva­zioni avverse al lavoro domenicale vi era specialmente l’incompatibilità con la presen­za alle cerimonie religiose, assolutamente obbligatoria, come si desume dalle intima­zioni di padre Giuseppe Maldini agli operai italiani di stanza a Stuttgart:

Nessuno di voi deve mancare all’appello, ognuno deve fare il possibile per assistere almeno alla funzione religiosa e al discorso, dal Fiduciario al­l’ultimo camerata: scuse non sono ammesse, ec­cetto necessità impellenti in cui la Ditta obblighi al lavoro. Per avidità di danaro cercare il lavoro festivo è un profanare il giorno consacrato al Si­gnore ed un attirarsi le maledizioni di Dio21.

In tono piuttosto sbrigativo il sacerdote in­giunse inoltre ai lavoratori di informarlo di situazioni scabrose (“eventuali scandali mo­rali che si trovassero fra di voi mi debbono essere senz’altro riferiti”) e pure di “fidan­zamenti o solo amoreggiamenti” , affinché egli potesse valutare le prospettive dei rap­porti sentimentali. Al solito, il messaggio terminava con la riproposizione dei valori della religione, saldo elemento di orienta­mento in patria come nell’emigrazione: “nella forza dei Sacramenti troverete la virtù di conservarvi bravi Italiani e buoni cristia­ni, e l’energia di sopportare allegramente il sacrificio del lavoro e la lontananza dalla fa­miglia”.

Le contingenze belliche avevano conferito una maggiore importanza all’opera dei lavo­ratori italiani e reso ancora più delicato il compito dei sacerdoti. La guerra accentuò la valenza politica dell’opera esplicata dai cap­pellani, i quali nelle occasioni particolar­mente solenni proposero ai fedeli discorsi centrati sui valori militari e sull’alleanza ita- lo-tedesca. Anche quando l’incitamento po­litico-ideologico era più sfumato, il lavora­tori poterono cogliere i risvolti pratici, di at­tualità, disseminati nella predicazione reli­giosa: la lotta alla concezione materialista della vita, l’imperativo di seguire i precetti della spiritualità cristiana, l’opportunità di “fare sempre e dovunque onore al vostro nome di Italiani, e di Italiani cattolici” , per usare le parole del cappellano di Klagenfurt, don Antonino Figus. Il reverendo presentò nel marzo 1942 ai suoi assistiti della Carin- zia e della Stiria il “fattore spirituale” in ter­mini che potevano prestarsi alla polemica con l’ideologia paganeggiante dei nazisti:

20 Sull’interdizione del lavoro volontario festivo si vedano, oltre alle circolari di Johanntoberns, le esortazioni del­l’ispettore zonale della Vestfalia, Pietro Lazzari (in particolare, il messaggio ai “Carissimi operai della città di Er­furt”, del 27 febbraio 1941).21 Giuseppe Maldini, Circolare ai lavoratori di Stoccarda, s.i.d. Si tratta di una lettera ciclostilata, che il cappella­no bolognese era solito inviare ai gruppi di emigrati per preannunciare la sua visita e impartire le essenziali norme di comportamento.

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“Noi rigettiamo le brutali idee di chi valuta solo la resa materiale e tiene presente solo la carne e il sangue perdendo di vista i valo­ri superiori dello spirito” . Ma questi pretesi valori spirituali venivano immancabilmente coniugati col dovere di porsi agli ordini dei tedeschi in armi. Risultava così dubbia la veste apolitica con la quale si ammantavano alcuni sacerdoti (mentre altri non ebbero te­ma di lasciar trasparire la propria convinta adesione al regime mussoliniano).

L’uniforme dei cappellani del lavoro (sa­hariana e camicia nera, stivaloni, cappotto alla militare, berretto da ufficiale con lo stemma dell’aquila appollaiata sul fascio lit­torio, fascetti metallici sulle spalline) pre­sentava notevoli affinità con la divisa dei segretari delle federazioni provinciali del Pnf e in certa misura contribuì a fornire un’immagine ideologica dei sacerdoti al se­guito dei lavoratori. Si capirà allora come mai, durante le poche licenze concesse ai re­ligiosi, il ritorno alla parrocchia d’origine in quella tenuta marziale sollevasse perplessità nella pubblica opinione e negli stessi fami­liari dei cappellani, con tormentosi interro­gativi intorno alla reale natura della missio­ne in terra tedesca. La sorella di un giovane prete cremonese in missione a Stendal af­frontò la questione in un’ingenua lettera in­dirizzata a monsignor Giordani (quando oramai le sorti del conflitto volgevano al peggio per la causa nazifascista): “il mese scorso è venuto a casa per un po’ di giorni,

è arrivato in divisa nera e mi ha fatto una brutta impressione che non ve lo potete im­maginare. Io prego sempre il Signore che me lo conservi sempre un bravo sacerdote e un degno ministro”22.

Lo sconcerto provato dalla sorella di don Pietro Dornetti derivava dal timore che al sacerdote venissero affidate mansioni politi­co-militari, ritenute estranee alla dimensione sacerdotale e possibile fonte di inaridimento della vocazione spirituale. In effetti, l’esi­stenza dei cappellani degli operai si svolgeva secondo modalità e ritmi abbastanza inusua­li rispetto ai collaudati binari della vita par­rocchiale. I sacerdoti inviati in Germania dovevano obbligatoriamente essere in pos­sesso di patente automobilistica e percorre­vano grandi distanze su autovetture o su rombanti motociclette, in viaggi pericolosi (basti pensare ai frequenti bombardamenti) che li sottoposero ai più disparati rischi. Non mancarono gli inconvenienti legati a in­frazioni alle disposizioni annonarie23, ad estemporanee iniziative dirette a favorire la socialità dei lavoratori24, a imprevisti sog­giorni notturni in luoghi di fortuna e “alle circostanze imprevedibili di questa vita ran­dagia”, secondo l’efficace espressione del responsabile ecclesiastico di Salzgitter, don Ascanio Micheioni25. I casi più spinosi furo­no risolti col rimpatrio del cappellano, men­tre per le situazioni meno gravi si preferì ri­correre allo spostamento del sacerdote in al­tre zone della Germania26.

22 Maria Dornetti a Giordani, 19 giugno 1943 (sf. Pietro Dornetti).23 II cappellano zonale di Stoccarda dovette difendersi nell’ottobre 1942 dall’accusa di aver tentato di procurarsi benzina in modo illecito. Scagionatosi da una simile imputazione, il sacerdote venne allora tacciato di antigermane- simo. Cfr. memoriale di Giuseppe Maldini a Giordani, 26 ottobre 1942.24 In uno dei suoi periodici rapporti a Giordani, il responsabile dei cappellani Lazzari accennò all’originale com­portamento di un sacerdote, “che aveva — sia pure a scopi buoni — esportato da un campo 24 fiaschi di vino: si stava per muovergli inchiesta, quando egli in fretta e furia se ne andò in Patria! Che pensare di questo fatto?” (re­lazione del 7 dicembre 1942).23 Micheioni a Giordani, 3 marzo 1942. Il cappellano era originario di una parrocchia udinese, San Leonardo di Cividale.26 II sacerdote bellunese Antonio Codemo, dislocato nella zona di Brandeburgo, riferì in termini drammatici a Giordani l’esperienza personale di una disavventura che nell’autunno 1940 lo portò in carcere: “Dopo una giornata

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NelPinfuocato clima bellico non vi era te­ma che non venisse ricondotto alla mobilita­zione e ai sacrifici della guerra: significativo il contenuto del cartoncino commemorativo stampato nel gennaio 1941 dall’ispettore zo­nale della Westfalia, don Pietro Lazzari, in memoria di 22 operai italiani asfissiati dalle esalazioni di un fornello acceso nel dormi­torio:

Soldati del lavoro che, morti in terra amica ed al­leata nel fedele adempimento del vostro dovere, accomunati nella gloria a tutti gli Eroi che in ter­ra, sul mare ed in cielo, agli ordini del Duce e del Führer affermaste la decisa indistruttibile volontà di due Popoli e di due Rivoluzioni di lottare fino al Supremo olocausto della Vostra vita per creare un ordine nuovo nell’interesse di una sempre maggiore giustizia sociale nel mondo / riposate in pace / esempio perenne a tutte le generazioni, be­nedetti da Dio e dalla Patria27.

Il pieghevole, approntato in edizione bi­lingue, offriva un’immagine militarizzata degli operai e delineava indifferentemente un’aspirazione che avrebbe vieppiù condi­zionato l’operato dei sacerdoti: il bruciante desiderio di passare dall’assistenza ai lavora­tori al servizio tra i soldati. Numerosi reli­giosi scrissero infatti dalla Germania a Gior­dani e a Bartolomasi per ottenere l’agognata nomina a cappellano militare, sennonché il reiterarsi delle istanze urtò non poco i diri­genti dell’Ordinariato, tutt’altro che disposti a sguarnire la rete assistenziale degli emigra­ti. Alle prime richieste i presuli risposero con stringenti inviti a perseverare nella mis­sione all’estero; poi, nei casi di maggiore in­transigenza, accondiscesero, sia pure di ma­lavoglia, agli ardenti voti, facendo notare ai postulanti i fastidi provocati dagli inoppor­tuni trasferimenti28.

di lavoro faticosissima, lontano dalla mia sede da più di un mese, mentre me ne ritornavo notte tempo presso il Parroco che gentilmente mi ospitava per andare a riposare dopo diverse notti che avevo sempre passato in macchi­na, mi è avvenuta la disgrazia di cui siete bene a conoscenza. Non tento descrivervi quello che ho passato, perché credo che ogni parola guasterebbe. Pur avendo la coscienza della mia completa innocenza dall’Autorità Giudiziaria riconosciuta fin dal primo momento, dico solo che ho passato dei giorni e delle notti terribilmente spaventosi tanto che la morte mi sarebbe stata un sollievo. Tale prova ho passato tutto solo senza una parola di sollievo da parte di nessuno. Quello che ho sofferto Dio solo lo sa. Neppure dopo un anno mi sento il coraggio di comunicare la triste notizia ai miei famigliari ed al mio Vescovo, e forse non me lo sentirò mai. La mamma mia impazzirebbe dal dolo­re se venisse a sapere questo. Credo che ormai ne avrò abbastanza per tutta la vita” (relazione del 20 ottobre 1941). Il procedimento giudiziario si concluse con la condanna al pagamento delle spese processuali, quantificate in 350 marchi. La narrazione di don Codemo mostra la fragilità della condizione dei cappellani del lavoro, privi di un’a­deguata protezione ed in balia degli eventi.27 Pieghevole stampato a Datteln il 21 gennaio 1941 (sf. Pietro Lazzari).28 Emblematici, fra i tanti, i percorsi ecclesiastico-militari di Agostino Bonadeo, di Luigi Cavagnari e di Giuseppe Fai. Don Bonadeo, in missione a Berlino dal febbraio 1941, richiese in due occasioni a Bartolomasi l’arruolamento nel clero castrense (il 23 febbraio e il 30 giugno 1942), in toni toccanti: “Assumetemi, Eccellenza, tra i Vostri cap­pellani militari ed inviatemi appena possibile in mezzo ai nostri soldati che combattono con tanto sacrificio. E que­sto il mio unico desiderio” (cfr. il materiale depositato in Aomi, cit. , sf. Bonadeo). Il sacerdote fu esaudito. LT1 settembre venne assegnato al Reggimento bersaglieri motociclisti e pochi giorni più tardi partì per il fronte orientale (catturato dai sovietici il 21 dicembre, rimpatriò dopo tre anni e mezzo di prigionia, decorato con medaglia d’ar­gento al valor militare). A don Cavagnari, responsabile zonale di Brema, che nella primavera 1943 aveva invocato da Giordani il passaggio all’assistenza dei militari, il presule, a corto di sacerdoti disponibili per l’assistenza agli emigrati, rispose con toni rassicuranti stimolandolo a continuare la sua attività: “essere stato in Germania cappella­no militare o degli operai è la stessa cosa: potrai farti rilasciare un documento dal Comando di Battaglione, che lo farà ben volentieri, da cui risulti il servizio prestato, le benemerenze ecc.” (Giordani, 1° maggio 1943, in Aomi, cit., sf. Cavagnari). Le argomentazioni del vescovo di Mindo non rispondevano alla sua volontà interiore, bensì a questioni di opportunità, come si desume dalla corrispondenza intrattenuta con padre Fai, intenzionato “con gran­de cuore e volontà assoluta” ad assistere i soldati italiani di stanza a Danzica: inizialmente si intimò al cappuccino di non trascurare la propria essenziale missione (“Attualmente tu sei cappellano degli operai e non delle forze ar-

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L’esame di alcune domande compilate da­gli ecclesiastici per essere inviati tra gli ope­rai in Germania evidenzia il substrato milita­re dell’impegno missionario, implicito negli orgogliosi e sprezzanti accenni alla perma­nenza in un paese battuto dall’aviazione in­glese29. In una lettera diretta a tutti i cappel­lani degli operai, monsignor Giordani prese di petto il problema e lo risolse in modo pe­rentorio, diramando direttive miranti a far cessare lo stillicidio delle istanze di passag­gio alle forze armate:Ogni tanto viene a qualcuno di voi il desiderio di andar cappellano militare. Non voglio conoscer­ne i motivi, ma vi dico che la cosa mi dispiace. Assistere gli operai in Germania è meritorio come assistere i soldati: non di meno. I pochi vostri compagni che dovetti lasciare andare cappellani militari sono stati mandati tutti o in ospedali ter­ritoriali o di riserva, uno in un porto dell’Adriati­co, non si può parlare di eroismo. Restate quindi al vostro posto, considerandovi mobilitati anche voi, come lo sono gli operai. Se a fine guerra ci sarà un distintivo di cui questi potranno fregiarsi, quell’onore sarà riservato anche a voi, ma voi non cercate i nastrini. Siete in Germania per una

missione a nessuna seconda: amatela e le benedi­zioni del Signore vi accompagneranno30.

Le raccomandazioni inserite nella circolare del dicembre 1942 erano tassative, eppure non bastarono a far desistere dal loro obietti­vo i più ostinati sacerdoti, che continuarono a incalzare il superiore perché li trasferisse tra i soldati. Trattenuto da molteplici impegni al suo ufficio romano di proispettore dei cap­pellani della Gioventù italiana del Littorio, monsignor Giordani trovò il tempo di effet­tuare annuali ispezioni in Germania. Tali “vi­site pastorali” , della durata media di un me­se, vennero accuratamente predisposte dai re­ligiosi, che si fecero punto d’onore di mostra­re al vescovo l’attaccamento dei lavoratori al cattolicesimo e ai suoi ministri di culto31.

Accompagnato dai suoi collaboratori, il presule “visitò la maggior parte dei centri operai, incontrando dovunque cordiali acco­glienze dalle autorità consolari e dal beneme­rito clero locale; in queste visite amministra­va cresime, celebrava matrimoni, si interes­sava personalmente degli ospedali e delle scuole italiane, appianava difficoltà”32. Bi­

niate; non ti è vietato di occuparti anche di queste, ma devi tener presente che il tuo primo dovere, per il quale rice­vi anche uno stipendio, è verso gli operai: quindi, prima la giustizia e poi la carità”); successivamente, appurato che il reverendo aveva anteposto l’assistenza ai soldati a ogni altro incarico, Giordani pose un drastico ultimatum: “Tu forse pensavi di poter restare cappellano degli operai, ma ciò non è possibile. Chi si occupa principalmente degli operai è cappellano degli operai: o Tuna o l’altra cosa; posizioni nette” (lettere del 30 novembre e del 15 dicembre 1942, sf. Fai).29 Carlo Falconi il 5 febbraio 1943 scrisse a Giordani manifestandogli disponibilità a partire immediatamente per assistere gli operai, senza alcuna preoccupazione per la propria incolumità: “Posso già sapere la destinazione? Mi mandi pure in zone battute dalla Raf, non importa: se è possibile, nelle regioni più tipiche della Germania”. Dopo cinque mesi di missione, il religioso espresse il desiderio di passare nelle forze armate. La sua insistenza infastidì Giordani, che il 29 luglio 1943 informò il giovane sacerdote del prossimo esonero, raccomandandogli di “stare tranquillo”. Nominato cappellano militare, Falconi tornò in Germania con i reparti collaborazionisti e rimase a Berlino sino agli ultimi combattimenti. Rimpatriato fortunosamente da Berlino nell’aprile 1945, egli fu uno dei po­chi ecclesiastici incorsi nei provvedimenti di “discriminazione” (cfr. M. Franzinelli, / / riarmo dello spirito, cit., p. 361).30 Antonio Giordani, A i cappellani degli operai italiani in Germania, Roma, 10 dicembre 1942, in Aomi, cit., f. varie.31 Cfr. G. Sofia, S.E. Mons. Giordani fra gli operai d ’Italia in Germania, in “Le Missioni Scalabriniane tra gli ita­liani all’estero”, settembre 1941; G. De Mori, L ’Ecc. Mons. Giordani visita in Germania le opere di assistenza reli­giosa ai nostri operai, ne “L’Avvenire d’Italia”, 22 luglio 1942; R. Rizzato, Mons. Giordani ad Halle, in “Le Mis­sioni Scalabriniane tra gli italiani all’estero”, settembre 1942.32 P. Petrelli, Mons. Antonio Giordani, cit., p. 18.

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sogna ricordare che dal 1940 il ministero de­gli Esteri aveva affidato a monsignor Gior­dani l’incarico di ispettore religioso della Gii all’estero. Il vescovo fu ricevuto dalle comu­nità di emigrati in solenni cerimonie, nelle quali la coreografia predominò a scapito della spontaneità: i saluti dei delegati operai risentono di un’enfasi retorica di maniera, rivelatrice della supervisione ecclesiastica e della sudditanza ideologica alle gerarchie politico-religiose nazionali. Ecco, per esem­pio, il testo del messaggio augurale rivolto nel giugno 1942 dal rappresentante della co­munità italiana di Lipsia al massimo dirigen­te dei cappellani del lavoro:Benvenuto Tu qui; oh! Mandato di Dio, che ti sei degnato di venire fra noi; gioisce il cuor nostro di figli, attendiamo la parola che sola sà annientare ogni sconforto e rinvigorisce le debolezze dello spirito. Ascendi adunque a questo Altare: prepa­rato con Amore dai nostri cuori e innalzando l’Ostia di propiziazione “Ricordaci e prega la Di­vina Vittima per tutti noi, e per le nostre care fa­miglie lontane”. A nome di tutti i Camerati rivol­to in Rispettoso Ringraziamento accompagnato da un figliale saluto. Evviva Cristo Re! Viva il Re Imperatore! Evviva il nostro Duce!33

Non meno solenni le parole pronunziate da monsignor Giordani alla presenza degli emi­grati accorsi ad ascoltarlo nelle chiese catto­liche e nelle piazze delle borgate tedesche. Ai braccianti di Marienrode egli magnificò le naturali virtù dei lavoratori dei campi e di­pinse i contadini in toni aulici, in un discor­so infiorettato di riferimenti alla divinità e alla santità del lavoro:

I rurali sono fra tutti i lavoratori i più sobri, i più quieti, e soprattutto sono quelli che più da vicino

sentono la presenza di Dio nella natura. Il rurale è il collaboratore della Provvidenza di Dio nella natura. Il rurale è il collaboratore della Provvi­denza divina: è l’aiutante [...] La Provvidenza di Dio sostiene l’uomo attraverso il pane, il quale è preparato dal rurale. In alto quindi lo spirito. Se per necessità di lavoro la vostra fronte dovrà di frequente inchinarsi, lo spirito vostro sia sempre rivolto verso l’alto, verso questo grande essere con il quale siete chiamati a collaborare per il so­stentamento del mondo intero34.

Il vescovo riportò un’impressione estre­mamente positiva delle visite effettuate nella Germania in guerra: in una corrispondenza apparsa sul quotidiano cattolico “L’Italia” dichiarò di aver riscontrato notevoli miglio­ramenti nell’assistenza sindacale e spirituale prestata agli emigrati nell’estate 1942 rispet­to al periodo prebellico, ed espresse un calo­roso plauso all’indirizzo dei cappellani. A suo dire, i “missionari del lavoro” si sareb­bero infatti prodigati in modo esemplare, guadagnandosi l’affetto e la stima dei loro assistiti35. Del resto, rilevò il presule, il terre­no sul quale i sacerdoti seminavano era quanto mai fertile: “la maggior parte dei no­stri operai sente il vincolo della fede, indis­solubile per un italiano da quello della Pa­tria”36. Le ispezioni di monsignor Giordani stimolarono i più solerti cappellani a indire cerimonie di carattere straordinario. Tra queste manifestazioni devozionali segnalia­mo la Festa del Papa, tenutasi nella giornata di domenica 13 giugno 1943. Don Leonzio Nicolai, responsabile zonale di Salisburgo, convocò un raduno generale nella chiesa cat­tolica della cittadina. Nonostante la giorna­ta piovosa risposero all’appello circa due­cento operai, che si comunicarono e manife-

33 Messaggio augurale in occasione della Santa Visita Pastorale, letto dal lavoratore Antonio Crimella, Lipsia, 23 giugno 1942 (sf. Dompè).34 Lo stralcio del discorso di monsignor Giordani è tratto dalla cronaca stesa da monsignor Alfredo Prioni, in una circolare del 20 luglio 1941.35 A. Giordani, Gli apostoli dei lavoratori italiani in Germania, ne “L’Italia”, 25 luglio 1942.36 A. Giordani, Gli apostoli, cit.

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starano il fermo “proposito di mantenersi sempre e dovunque fedeli, devoti soldati di Cristo e della Chiesa”37. Al termine dell’a­dunata i fiduciari sottoscrissero per conto dei presenti una pergamena di devoto omag­gio al pontefice.

Azione parasindacale dei religiosi e conse­guenti conflitti

Un aspetto essenziale della presenza sacerdo­tale concerne i suoi riflessi di natura sindaca­le. In linea generale, i cappellani impartirono norme di condotta tendenti ad assicurare il corretto comportamento della manodopera, in ottemperanza alle esigenze produttive. Da qui la deprecazione delle stonature che pure si verificarono di tanto in tanto tra gli ope­rai, con la ricerca di mansioni maggiormente remunerative oppure col rimpatrio anticipa­to: “ogni abbandono di lavoro è reato grave contro le leggi dell’Italia e della Germania” , ammonirono nel settembre 1941 le disposi­zioni elaborate dai religiosi per i connaziona­li impiegati nelle regioni della Slesia e del Su- denland, nel mentre la possibilità di presen­tare reclamo per via gerarchica venne am­messa, a condizione però che non si inter­rompesse “per nessun motivo” la prestazione lavorativa. La circolare culminava in un cre­scendo di esortazioni moraleggianti:In ogni Squadra sorga un Apostolo coraggioso, animato dall’amore di Dio e all’Italia. Avanti in

nome di Dio! Lo esige l’onore Suo, lo comanda­no le leggi della Patria, lo reclama l’educazione, lo impone l’onore dell’Italia all’estero, lo doman­dano e lo implorano con cuore esacerbato i vostri cappellani38.

Degni di menzione i tentativi di affiancare agli ecclesiastici una rete di collaboratori ci­vili, scelti tra gli elementi di spiccati senti­menti cattolici, in funzione di collegamento tra il cappellano e le comunità dei lavorato­ri. 1 sacerdoti più intraprendenti ingaggia­rono dei validi assistenti, disseminati nei principali campi, che si assumevano man­sioni di coordinamento e di informazione39. Solamente in casi del tutto eccezionali i cappellani poterono usufruire del sostegno di sacerdoti indigeni: don Silvino Azzolini, responsabile degli operai italiani in Austria, nel giugno 1941 riuscì a garantire la cele­brazione della messa domenicale grazie alla disponibilità di sei preti locali, che cono­scevano “almeno un poco la lingua italia­na”40.

Gli interventi in chiave mediatrice per ri­solvere controversie insorte tra gli emigranti e i datori di lavoro non riuscirono affatto graditi alle autorità tedesche, e anzi posero qualche cappellano in pessima luce agli oc­chi dei dirigenti aziendali. Alcuni imprendi­tori denunziarono le intromissioni ecclesia­stiche alle autorità governative. Nella tarda primavera 1942 il ministro dei Culti conse­gnò una severa nota all’ambasciata italiana in Berlino: il documento impose una serie di

37 Relazione di Leonzio Nicolai, 13 giugno 1943. Il sacerdote proveniva da Magliano Sabino (Rieti).38 Circolare agli italiani lavoratori della Slesia e Sudenland, Breslavia, settembre 1941 (sf. Albrigo). Nel documen­to si invitavano i capicampo e i capisquadra ad annunziare immediatamente al cappellano “i casi gravi di immorali­tà e chi facesse opera contraria alla religione”, adombrando quindi un ruolo di controllo dei comportamenti privati degli operai da parte dell’apparato di assistenza ecclesiastica.39 Cfr. la relazione annuale di Silvio Azzolini, Con i lavoratori in Germania. Pagine di Fede e di Italianità, ne “11 Regno del S. Cuore” (annuario dello scolasticato S. Giuseppe per le Missioni estere, Castelfranco di Sopra), 1943.40 Azzolini a Giordani, 28 giugno 1941. Tre sacerdoti austriaci celebravano la messa in altrettanti quartieri della ca­pitale, e altri tre nel distretto di Vienna, fuori città. Complessivamente, questi sei preti assistevano ogni domenica 4.220 lavoratori italiani: restavano affidati alle cure domenicali di don Azzolini i rimanenti 1.249 connazionali, ospitati negli accampamenti dei Gaue Wien u. Niederdonau.

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disposizioni precettive vincolanti e limitati­ve. I sacerdoti si sarebbero dovuti attenere esclusivamente al piano spirituale, astenen­dosi da qualsivoglia azione sociale ed evitan­do di dare seguito a eventuali lamentele o re­clami di lavoratori, singoli o associati che fossero. Ai cappellani si fece carico di redi­gere prospetti mensili delle cerimonie reli­giose, da consegnarsi al Gaulagerbeauftrag- ten (l’incaricato zonale dei lager) e si intimò di negoziare ogni visita ai campi di lavoro41. L’ambasciatore Alfieri si rese a sua volta docile interprete delle volontà manifestate dalle autorità tedesche e intervenne di perso­na sull’Ispettorato dei cappellani, per esige­re il rispetto delle disposizioni emanate dal ministero dei Culti42.

Le direttive che puntavano a disciplinare le mansioni dei sacerdoti e a controllarne gli spostamenti non sempre trovarono effettiva attuazione, ma senz’altro contribuirono a rendere meno libero e immediato l’apostola­to tra gli emigranti. Dai rapporti e dagli epi­stolari tra i cappellani e la Curia castrense romana parrebbe comunque che l’attività ecclesiastica sia proseguita secondo le con­suetudini, a dispetto degli intenti normaliz­zatori delle autorità governative tedesche. Proprio in relazione ai limiti regolamentari, nella tarda estate 1942 il responsabile di­strettuale di Brux ringraziò il delegato sinda­cale zonale per le agevolazioni concesse al suo ministero pastorale in termini di libero accesso ai campi e si disse lieto di essere sta­to incaricato dell’attività dopolavoristica,

“affinché in ogni campo alla sera i lavorato­ri abbiano un’ora di divertente e onesto sol­lievo”43.

La complicazione più fastidiosa riguardò l’accesso ai campi di nazionalità mista: i la­sciapassare concessi ai cappellani non erano infatti validi per oltrepassare i cancelli dei lager dove gli italiani risiedevano fianco a fianco con emigranti provenienti da altri sta­ti. Talvolta questi campi ospitavano diverse centinaia di italiani, tagliati fuori dall’assi­stenza religiosa con motivazioni che intende­vano assicurare eguale trattamento a tutti gli operai. L’esclusione degli ecclesiastici fu de­cisa per evitare trattamenti di favore, e im­pedire che i lavoratori non italiani chiedesse­ro essi pure l’invio di propri ministri di cul­to44. Al divieto non erano forse del tutto estranee le diffidenze tedesche verso una possibile azione parasindacale dei cappella­ni. L’intervento ecclesiastico sul terreno so­ciale fu arginato dalla presenza dei fiduciari italiani, che in genere non apprezzarono lo sconfinamento del sacerdote in un settore di propria esclusiva competenza. I contrasti, anche forti, vennero portati a conoscenza dell’Ordinariato militare, che tramite monsi­gnor Giordani si sforzò di attuare una diffi­cile ricomposizione. In preparazione della Pasqua 1941, l’ispettore monsignor Alfredo Priori, durante una visita agli accampamenti operai, polemizzò aspramente con un fidu­ciario, denunziando il persistente sabotaggio da questi opposto all’azione sacerdotale tra gli emigrati45.

41 La missiva del ministro dei Culti, redatta I’l l giugno 1942, venne poi trasmessa dall’ambasciata italiana agli ispettori dei cappellani, i quali provvidero a portarla a conoscenza dei sacerdoti.42 II testo della lettera di Alfieri venne comunicato dall’Ispettore don Pietro Lazzari a tutti i cappellani in Germa­nia, con circolare del 27 marzo 1942.43 Giuseppe Macchiavelli, 2 settembre 1942.44 Alla questione dell’esclusione degli ecclesiastici dai campi di nazionalità mista è dedicato il rapporto di Antonio Ferronato a Giordani dell’8 dicembre 1941; il sacerdote si disse impossibilitato a entrare in tre lager di Ludwigsha- fen e in due campi nei pressi di Kassel e di Saarbriicken.45 Al fiduciario si rimproverò, tra gli altri addebiti, di avere programmato la proiezione di una pellicola cinemato­grafica in orario coincidente con le celebrazioni religiose, e di essere intervenuto con provvedimenti vessatori ai

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Il contrasto di maggiore portata, divam­pato nell’inverno 1942-1943, trovò schierati su posizioni antitetiche il cappellano di Mo­naco, padre Giuseppe Zanatta, e i dirigenti della locale comunità italiana. Il dissidio, al quale non erano estranei personalismi, de­terminò P ostruzionismo del capocampo alla partecipazione degli operai alle cerimonie religiose. Il sacerdote reagì tacciando il fidu­ciario di speculazioni economiche ai danni dei lavoratori e lo scandalo che ne seguì co­strinse l’Ufficio sindacale italiano di collega­mento col fronte tedesco del lavoro ad apri­re un’inchiesta sulle infamanti accuse. L’i­spettore don Lazzari, resosi conto delle im­plicazioni politiche della questione, assunse una posizione defilata ed evitò di intervenire a sostegno del confratello46. Costui si sentì scaricato dal superiore e ricorse direttamen­te a monsignor Giordani, insistendo sulle proprie accuse a dispetto del responso asso­lutorio redatto dalla commissione d’inchie­sta47. Un altro scontro frontale tra un cap­pellano del lavoro e un dirigente della strut­tura sindacale fascista si verificò a Salisbur­go nella primavera del 1943, stavolta con esito favorevole al sacerdote. Don Leonzio

Nicolai, inquisito da un fiduciario poi tra­sferito ad altra sede, bollò con epiteti ingiu­riosi, in una lettera all’ispettore dei cappella­ni, il suo infido avversario:Quel... (volevo dire “porco”, ma mi sono tratte­nuto), tale è finalmente partito e da quando è lontano lui, sembra che qui si respiri un’aria più pura! È stato allontanato perché, a sua confessio­ne a me e ad altri, la sua situazione qui era dive­nuta insostenibile! Alla larga! Oltre tutte le altre cose, era accusato presso queste autorità di fare la spia! E veramente la malattia ce l’aveva, giac­ché più volte ha provato ad assoldarmi quale sua spia su due argomenti troppo delicati! Natural­mente, non solo non abboccai, ma gli feci ben ca­pire che la spia non l’avevo fatta mai e che molto meno mi sentivo di farla ora, qui! Da cui tutta la sua rabbia contro di me! Mascalzone! Non aven­do potuto dir niente sul mio conto, perché sem­pre sono stato più che a posto in tutto e per tutto, ben consapevole del mio dovere e geloso del mio onore, ha voluto farmi quello scherzo di cattivo genere! Prima di partire ha però riconosciuto, spontaneamente, che aveva fatto male e che non poteva più oltre insistere, dicendomi anzi di aver­mi lodato presso l’Ambasciata e rendendomi te­stimonianza sul mio lavoro e sulla generale soddi­sfazione a mio riguardo! Pazienza, anche questa ci voleva, per poterle provare tutte!48

danni del cappellano zonale di Salzgitter-Harz, Luigi Albrigo, al fine di screditarne l’azione agii occhi della massa operaia. Ecco come il sacerdote riassunse la propria difficile situazione: “Tutti questi inconvenienti hanno creato, senza volerlo, non solo una grande antipatia, ma odio contro di me personalmente. Siamo arrivati al punto che non posso neppure entrare in ufficio, perché non sono desiderato. Che fare? mentre avrei purtroppo bisogno di loro? Alcuni nostri fiduciari ed interpreti hanno manifestato pubblicamente agli operai stessi questa loro avversione, quasi sfidandomi, il che mi ha arrecato un troppo grave dispiacere, sapendo di aver fatto di tutto pur d’andare d’accordo. E come rimanere ancora più a lungo? Dopo quello che vostra Eccellenza sa? Essi per spirito d’avversio­ne e per principio preso vanno d’accordo perfino con i tedeschi per tradirmi e per stancarmi sempre più. Ora in questo ambiente d’antipatia non si può lavorare bene e stiamo male tutti. Si promette e poi vigliaccamente si tradi­sce alle spalle” (Albrigo a Giordani, 12 maggio 1941). Il cappellano richiese alfine il trasferimento in altra regione della Germania.46 Rapporto di Lazzari a Giordani, 7 dicembre 1942, nel quale l’alto prelato venne invitato a occuparsi personal­mente della “questione Zanatta”, con motivazioni rinunciatarie e prudenti che lasciano trasparire la linea di con­dotta conciliatrice e remissiva adottata dall’ispettore dei cappellani in Germania: “Esaminate Voi, Eccellenza, tutta la documentazione e date in confronto le Vostre istruzioni, considerando che io non sono mai l’uomo battagliero qui in Germania... ma il sacerdote calmo e prudente. Perciò prego non darmi incarichi che mi possano sviare da questa mia linea di condotta. Trattate direttamente Voi, Eccellenza, cui nulla possono fare, bensì esaudire”.47 Zanatta a Giordani, 19 gennaio 1943. Il cappellano bassanese contestò I’oggettività dell’indagine, risultandogli che il fiduciario posto sotto inchiesta avesse pilotato gli accertamenti pro domo sua.48 Nicolai a Lazzari, 7 giugno 1943.

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All’origine della ruggine tra preti e fidu­ciari vi fu l’insofferenza di questi per una forma di controllo ecclesiastico che dai lavo­ratori tendeva a estendersi ai loro dirigenti. Emblematico, nella protesta sollevata dal re­ligioso addetto all’Ital. Sindicat di Fallersle- ben, Antonio Di Donè, il passaggio relativo al responsabile zonale del sindacato: “il sa­cerdote gli era sempre una spina, perché gli ostacolava i suoi intenti, specie col tirare donne negli ambienti sindacali” . L’essere caduto in disgrazia costò al cappellano di Fallersleben un sensibile indurimento delle condizioni materiali di esistenza: “la mia vi­ta è completamente isolata dal Campo; abi­to nella Sagrestia, privo di acqua e di gabi­netto; per il mangiare devo adattarmi a tutto data la mancanza di un locale per ristoro nel paese: vita un po’ grama, ma che sopporto volentieri pel Signore”49.

La controversa devozione degli emigranti

Per un coacervo di concomitanti ragioni, la generalità dei cappellani del lavoro vantò ol­tremodo il comportamento dei loro assistiti. Intenti propagandistici, esigenze di valoriz­zare appieno i propri sforzi e di attestare il ruolo formativo della presenza ecclesiastica indussero i reverendi a fornire un’immagine esageratamente positiva della fede degli ope­rai e dei braccianti: nella documentazione pubblica innanzitutto, ma pure — sebbene

in misura inferiore — nella corrispondenza privata. A onor del vero, monsignor Gior­dani aveva stimolato i suoi dipendenti a por­re l’accento sui fattori “eroici” eventual­mente ravvisati nel corso della loro missio­ne: egli raccomandò di prendere puntuale nota degli episodi edificanti (“atti speciali di pietà o di carità di cui anche i nostri operai spesso danno esempio”) e di inviarne tempe­stivo resoconto agli uffici romani, onde con­sentirgli di accennarne sulla stampa e nei rapporti alle autorità religiose e militari50. Stimolato da siffatti inviti, il cappellano di stanza nella Vestfalia e nella Renania setten­trionale relazionò al superiore in toni di pie­na soddisfazione per i valori spirituali da lui ravvisati durante l’esperienza pastorale e per il cordiale clima nel quale si era trovato a operare.

Dando uno sguardo indietro non posso che rin­graziare la Divina Provvidenza per tutta la bontà che ha avuto per me. Tanto in Pomerania quanto ora in questa zona non ho trovato difficoltà alcu­na da parte delle autorità germaniche ed ho tro­vato la massima cordialità nelle autorità politiche e sindacali italiane. Gli operai poi sono lietissimi allorché arriva il cappellano51.

Anche nella corrispondenza intrattenuta tra cappellani e parroci si ritrovano espres­sioni soddisfatte per il comportamento degli emigrati: nell’estate 1942 don Giuseppe Sar­tor scrisse da Erfurt all’arciprete di Consel­ve, sul conto di 26 rurali padovani “dislocati

49 Di Donè a Giordani, 12 novembre 1941. Il sacerdote informò il superiore che i lavoratori da lui assistiti sarebbe­ro rimpatriati per il riposo invernale in cinque convogli ferroviari, in partenza tra il 1° e il 19 dicembre, e chiese il permesso di ritornare nella parrocchia d’origine, Castelfranco Veneto.50 Cfr. la circolare del 10 dicembre 1942 precedentemente richiamata. Gli atti degni di menzione riguardarono es­senzialmente pellegrinaggi, episodi di commossa devozione religiosa, pagine di fede e di italianità. Se monsignor Giordani si attendeva dai lavoratori eccezionali segni di spiritualità, alcuni cappellani valutarono la situazione in modo più prosaico. Come don Johanntoberns che rivolse ai suoi assistiti osservazioni ben altrimenti concrete: “Ca­ri operai e fratelli, da voi non si pretende che siate persone di cultura e di scienza, ma potete tuttavia essere grandi e forti davanti a tutti, se non perderete mai il buon senso e il criterio”.51 Gaudenzio Angeli, relazione del 7 aprile 1943 sul primo anno di permanenza in Germania. Agli inizi della sua missione don Angeli aveva operato in Pomerania; quindi si trasferì a Essen, con competenza sugli italiani della We- stfalia settentrionale.

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qui in Germania per il comune ideale, per il compito di tutti: la vittoria delle armi dell’As­se”. Il sacerdote riferì di essere stato accolto da una calorosa cerimonia di “operai rurali bene formati, di illibati costumi, lavoratori in­defessi, tutto un cuore e un’anima sola per Id­dio, per la Religione, per la Patria”52. Il tono enfatico della missiva ingenera il sospetto che i reali sentimenti dei braccianti veneti, lieti per la visita di un ecclesiastico offertosi di fungere da tramite col paese d’origine, siano stati in parte travisati e retoricamente esagerati dal sa­cerdote. Comunque fosse, l’arciprete di Con­selve prese per oro colato la lettera del cappel­lano e rispose agli emigrati invitandoli a perse­verare nel sacrificio (“Siate sempre così. Siate figli degni di questa nostra incomparabile Ita­lia, che è il cuore pulsante della Chiesa di Cri­sto, che è il faro di luce divina che ha sempre illuminato e continuerà a illuminare il mondo intero”) e lodandoli per l’esemplare devozione religiosa, talmente forte, secondo le informa­zioni avute da don Sartor, da far “versare la­grime agli stranieri che vi guardavano e senti­vano, perfino ai Protestanti”53.

Non sempre però gli interlocutori dei cap­pellani si mostrarono davvero convinti della profonda fede dei nostri connazionali: un par­roco veneto rispose con una buona dose di stu­pore a un confratello che dalla Germania gli aveva inviato una lettera di encomi per la con­dotta dei suoi parrocchiani in terra straniera:a dirvi il vero, questi cari operai che voi avete trova­to così cordiali e rispettosi girano un po’ al largo dalla Chiesa quando sono qui al loro paese: conse­guenza della educazione laica ed irreligiosa ricevuta

ai bei tempi del socialismo, che qui ha regnato so­vrano per lunghi anni54.

L’ispettore zonale di Nürnberg non nascose, in una relazione apparsa su di un settimanale cattolico savonese, che — nel generale quadro della religiosità operaia — si fosse insinuata tra gli emigranti l’azione disgregatrice di “cat­tivi soggetti”, che in qualche comunità avreb­be appestato “tutto l’ambiente, rendendolo, se non decisamente ostile, certo completamen­te indifferente al problema religioso e alla vo­ce di richiamo del cappellano”55. Ancor più pessimista il giudizio del cappellano della re­gione di Metz, don Livio Manfredini, che a proposito degli italiani stabilitisi a Diedenho- fen confessò ai superiori di avere trovato “una indifferenza ed un’ignoranza religiosa vera­mente paurosa”56.

Del tutto differente il ritornello risonante sulle pagine dei periodici confessionali italia­ni, dove comparvero di tanto in tanto articoli stesi dai cappellani del lavoro. In siffatte corri­spondenze si diede conto dell’attività missio­naria in toni trionfalistici: secondo padre Az- zolini, per esempio, l’opera del cappellano sa­rebbe stata coronata da successi davvero note­voli:

Sempre atteso in tutti i campi, egli è accolto con gioia ed entusiasmo: in lui vedono la persona di­sinteressata, che porta nei cuori la pace perduta, che infonde coraggio negli animi abbattuti, che solleva lo spirito con la paterna sua parola di con­siglio e di conforto. Il Cappellano, con le sue amorevoli esortazioni e con le sue numerose istru­zioni, conserva e, non di rado, rinnova negli ope­rai l’attaccamento alla propria fede, Io spirito re-

52 Giuseppe Sartor all’arciprete di Conselve, 7 luglio 1942. Da notare che Sartor nella chiusa della lettera si attri­buì, indebitamente, la qualifica di cappellano militare.33 II messaggio diramato dall’arciprete agli emigrati venne pubblicato, col titolo Una bella lettera, sul bollettino parrocchiale di Conselve “La Campana di S. Lorenzo” del luglio 1942.54 Don Luigi Marterini, parroco di Romagnano Sesia, al cappellano del lavoro don Luigi Tommasini, 19 novembre 1942.35 F. Bernhardt, Icappellani italiani in Germania, ne “Il Lettimbro”, 11 settembre 1943.56 Don Livio Manfredini a monsignor Giordani, 11 ottobre 1942. 11 cappellano proveniva dalla parrocchia di S. Gualtiero di Lodi.

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ligioso, assieme all’amor patrio sacro ad ogni cat­tolico57.

Bisogna ovviamente considerare, per valuta­re nei corretti termini l’incisività dell’azione assistenziale, il ridotto numero di cappellani mediamente in servizio (mai superiore alla quarantina di unità), il nutrito contingente di emigrati in carico a ogni religioso (media­mente dagli otto ai diecimila), la carenza di benzina per i mezzi di trasporto degli eccle­siastici e la frammentazione geografica degli insediamenti lavorativi. Tali fattori impedi­rono ai sacerdoti di seguire in modo conti­nuativo la vita dei campi e non consentirono agli ecclesiastici di conoscere personalmente la maggioranza degli assistiti. Anche i preti ubicati nelle principali metropoli, per certi versi avvantaggiati dalla minore dispersione della manodopera, incontrarono pesanti ostacoli di natura oggettiva nell’esplicare la loro opera assistenziale. Prendiamo in esame il caso di un cappellano assegnato alla capi­tale del Reich.'Nel 1942 don Luciano De Sil­vestri doveva seguire ottomila dei venticin- quemila italiani occupati nella zona di Berli­no. Gli operai si trovavano alloggiati in un centinaio di lager; gli addetti al commercio — oltre un migliaio, in prevalenza camerieri e gelatai — erano sparsi in tutto il vasto tes­suto urbano; gli agricoltori, poco più di tre­cento, risiedevano in una trentina di aziende periferiche del Brandeburgo. Durante il 1942 il sacerdote ricevette otto abiure e ammini­strò il battesimo a sette convertiti58.

La crisi del 1943

L’emigrazione stagionale dei braccianti ter­minò con la fine del 1942. Rimasero nelle

campagne del Reich dodicimila agricoltori ‘stabili’. Anche per i circa duecentomila ita­liani addetti all’industria e ai servizi si pro­spettava la fine del lavoro in terra straniera. Difficoltà di varia natura, non ultime ragioni inerenti l’interscambio finanziario italo-tede- sco, consigliarono alle autorità fasciste di ri­chiedere il graduale rimpatrio degli emigran­ti. Accordi in tal senso vennero stipulati il 5 aprile 1943 presso la sede berlinese del mini­stero del Lavoro, ma il rientro si limitò a po­che decine di migliaia di operai. La riluttanza dei tedeschi a rinunziare alla manodopera straniera e gli eventi del 25 luglio determina­rono la permanenza dei nostri connazionali in Germania59.

Nel corso del 1943 le originarie motivazio­ni che avevano sostenuto l’attività dei cap­pellani del lavoro andarono via via smarrite. La crisi si accentuò con la deposizione di Mussolini, fors’anche perché era risaputo come si dovesse al duce l’allestimento del contingente religioso inviato in Germania. La sconvolgente realtà dei continui bombar­damenti aerei, che oltre a mietere vittime tra gli stessi lavoratori italiani deprimeva com­prensibilmente il morale degli emigrati, in­dusse le autorità civili a esigere dai cappellani un intervento straordinario in grado di risol­levare lo stato d’animo degli operai scampati alle incursioni delle fortezze volanti anglo-a­mericane. Non tutti i religiosi adempirono di buon grado una simile ingrata mansione. Tra gli episodi indicativi delle difficoltà del mo­mento e delle differenze soggettive tra i cap­pellani del lavoro, si può citare il comporta­mento del cappellano zonale di Essen, don Ranon, che a centinaia di operai rimasti sen­za abitazione e desiderosi di tornare in Italia annunziò come imminente il rimpatrio, col

57 S. Azzolini, Con i nostri lavoratori in Germania, cit.58 Luciano De Silvestri, Relazione Annuale A. 1942 X X E.F. Il reverendo, proveniente dalla diocesi di Vercelli, co­priva la zona di West Berlin.59 Su questi aspetti si veda B. Mantelli, I lavoratori italiani, cit., pp. 572-573.

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risultato di sollevare le ire del fiduciario ita­liano e dei tedeschi. Vista la malparata, il re­sponsabile sindacale contattò il cappellano di Colonia e gli ordinò di recarsi immediata­mente presso 1.500 lavoratori sinistrati “che minacciavano ribellioni a ogni rovescio”, per “calmare la gente e dire delle messe” . Don Turinetto volle parlare dapprima ai 650 uomini “più scaldati, stanchi e delusi”, ai quali rivolse parole abili e consolatrici, ap­pellandosi all’orgoglio nazionale e al potere miracolistico della fede. Così il sacerdote spiegò il proprio operato, nella relazione compilata per i superiori ecclesiastici.Io a quella gente affamata (in un giorno avevano avuto 280 grammi di pane), a quella gente carica di cenci, due volte sinistrata, che da quindici giorni non aveva più visto né asciugamani né sa­poni, a quella gente a cui unico conforto era il pensiero di rivedere la patria casetta, dovevo an­nunziare che ciò che era stato loro detto sul ritor­no in patria era stato uno sbaglio e che si doveva rimanere e riprendere il lavoro. Radunata la fol­la, cominciai a parlare seguendo il metodo dolce, mellifluo, girovagante, fatto a paraurti [...] La fiamma dell’amor patrio bruciava l’anima del mio disgraziato uditorio. Il popolo era pronto ad obbedire ai miei comandi ed io comandai che il giorno dopo alle ore 10 dovevano radunarsi tutti per la celebrazione di una messa in ringraziamen­to a Dio del benefizio ricevuto per lo scampato pericolo dei bombardamenti. Così feci nell’altro campo60.

In questo modo don Turinetto riuscì a ri­condurre la massa operaia ai faticosi adem­pimenti quotidiani, rimediando all’impoliti­co discorso del collega don Ranon, che di­nanzi alla sconvolgente visione dei rischi e delle condizioni di lavoro degli operai ita­liani aveva trovato il coraggio di lasciar

da parte ogni infingimento opportunistico e di rivendicare l’immediata smobilitazione.

Pochi giorni dopo lo spiacevole incidente, don Modesto Ranon incorse in una seconda disavventura, anch’essa collegata alle traver­sie degli operai di Essen: la censura tedesca bloccò una lettera nella quale il sacerdote bellunese descriveva in toni impietosamente realistici la vita dei lavoratori italiani. Il cap­pellano scrisse a monsignor Giordani che il numero ufficiale delle vittime dei bombar­damenti si era rivelato, per la comunità ita­liana, notevolmente superiore ai dati ufficia­li; aggiunse che gli operai erano “rimasti pri­vi di tutto” e valutò che le condizioni psico­logiche si presentavano piuttosto precarie: “i nervi hanno avuto la loro parte e non si calmano tanto facilmente quando le sirene si fanno nuovamente sentire”61. La lettera, in­tercettata dagli addetti alla censura, venne rispedita al mittente, con una cortese quanto severa osservazione:Secondo le disposizioni in vigore non è permesso di inoltrare all’Estero e neanche all’Estero alleato delle comunicazioni tanto ampie concernenti in­cursioni aeree nemiche. Quindi con nostro rincre­scimento Vi dobbiamo far ritornare questa lette­ra. I passi contrassegnati di rosso accennano alle notizie che in nessun modo devono essere comu­nicate62.

Decisamente, don Modesto Ranon trovava forti difficoltà a orientare il proprio com­portamento secondo le circostanze belliche, in conformità al volere dei superiori. Altri suoi confratelli reagirono alle incursioni ne­miche con l’ennesima riproposizione delle ragioni del loro apostolato tra gli operai: “certamente il tormento aereo snerva e de­prime, ma non molliamo!” , scrisse per

60 Don Pietro Turinetto all’ispettore don Lazzari, 18 marzo 1943. Il sacerdote era stato precedentemente in cura d’anime a Cumiana (Torino).61 Ranon a Giordani, da Essen-Bergerborbeck, 23 marzo 1943.62 Notifica dell’Auslandsbriefpriifstelle a Ranon, depositata nel sf. del cappellano unitamente alla missiva censu­rata.

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esempio il cappellano di stanza a Brema nel­l’aprile 1943.

Lo svolgersi degli eventi bellici accentuò il carattere militare insito nel servizio espletato dai cappellani del lavoro, alcuni dei quali si prestarono di buon grado ad assistere i re­parti dell’esercito italiano di stanza in Ger­mania63. Anche in questo particolare settore l’annunzio dell’armistizio ebbe esiti dirom­penti e interruppe bruscamente i rapporti tra i cappellani e i loro comandi. Nei quattro mesi successivi all’8 settembre monsignor Giordani ricevette dal territorio tedesco tre sole lettere di sacerdoti. I suoi corrispondenti — Pietro Lazzari, Giuseppe Sartor e Vittorio Vinaj — lo informarono del parziale rientro dei cappellani e delle nuove prospettive di­schiusesi a quanti avevano scelto di rimanere

in Germania. A inizio 1944 l’ispettore don Lazzari rimpatriò e si ritirò presso la propria famiglia, senza curarsi di riferire a monsi­gnor Giordani quali fossero le condizioni dei religiosi rimasti oltralpe. Le mansioni diretti­ve vennero provvisoriamente assunte da don Francesco Bernhardt, che potè contare su 24 sacerdoti, la cui attività si svolse però in mo­do senz’altro meno organizzato e coordinato di quanto non si era verificato sino agli inizi del settembre 1943. Con la nascita della Rsi e con l’arrivo di centinaia di migliaia di milita­ri internati mutò bruscamente l’orizzonte di riferimento degli ecclesiastici, la cui perma­nenza in Germania assunse ben altri conno­tati assistenziali e nuovi riferimenti politico­organizzativi64.

Mimmo Franzinelli

63 Indicativo quanto scrisse a monsignor Giordani il già citato don Cavagnari, in una missiva del 19 aprile 1943: “Per cinque mesi ho anche prestato servizio per la truppa del 3° Battaglione Nebbiogeno, ora è giunto un Cappella­no militare a Berlino, che viene al Battaglione una volta al mese e nel frattempo faccio ancora io. So che il Coman­do ha inoltrato, attraverso all’Ordinariato Militare, la proposta per un mio riconoscimento militare per tale servi­zio, svolto anche sotto i bombardamenti”.64 Fu la Seconda sezione dell’Ordinariato militare, con sede a Verona e competenza territoriale sulla Rsi, a dirigere nominalmente l’azione dei cappellani del lavoro. Ma il provicario monsignor Casonato evitò di salire in Germania e di fatto lasciò che monsignor Giordani continuasse a interessarsi dei suoi protetti. L’attività dei sacerdoti oscillò tra la dimensione caritativo-assistenziale e il collaborazionismo coi nazifascisti. In alcuni memoriali compilati dai sacerdoti subito dopo il rimpatrio si accusò l’ambasciata della Rsi a Berlino di averli osteggiati in vario modo, ma­nifestando evidente insofferenza verso gli internati e nei confronti di chi intese alleviarne le condizioni di cattività. Una testimonianza del decano dei cappellani del lavoro, L. Fraccari, è riprodotta, col titolo Storia di una missione, nel “Corriere d’Italia” (periodico in lingua italiana stampato a Francoforte sul Meno), aprile 1974.

Mimmo Franzinelli, ricercatore del Circolo culturale Ghislandi di Breno (Bs). Tra le sue pubblicazioni: Lotte operaie in un centro industriale lombardo (1987), Padre Gemelli per la guerra (1989), Il riarmo dello spirito (1991).