svolta radicale. alla ricerca di una via di uscita
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Partendo dalla grande crisi, un tentativo di distruggere i feticci della società attuale alla ricerca della sostenibilità ambientale e sociale.TRANSCRIPT
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Dedicato a tutte le persone che hanno reso la mia vita meritevole di essere vissuta, alcune
delle quali non sapranno mai quanto mi sono state care
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INTRODUZIONE
“Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere” (Mahatma Gandhi)
Waangari Maathai era solita descrivere l’importanza dell’impegno individuale attraverso
una favola, la favola del colibrì:
È la storia di un colibrì e di un’immensa foresta divorata dal fuoco. Tutti gli animali escono dalla foresta e rimangono paralizzati, mentre guardano la foresta bruciare e sentono di essere impacciati, impotenti, tranne un piccolo colibrì. Lui dice “devo fare qualcosa per questo fuoco” e così vola fino al torrente più vicino prende un po’ d’acqua e la butta sul fuoco, e va su e giù, su e giù più veloce che può. Nel frattempo, tutti gli altri animali, alcuni di loro molto grossi, come gli elefanti, con una grande proboscide, che potrebbero portare molta più acqua, stanno lì, impotenti, inermi, e dicono al colibrì: ma cosa pensi di fare? Sei troppo piccolo! Questo incendio è troppo grande, le tue ali sono piccole, il tuo becco è così piccolo, puoi portare solo un po’ d’acqua alla volta. Ma mentre loro continuano a scoraggiarlo, lui torna da loro, senza perdere tempo, e dice: “io faccio del mio meglio e questo, secondo me, è quello che ognuno di noi dovrebbe fare”. Tutti noi dovremmo sempre fare come il colibrì. Io posso sentirmi insignificante, ma di sicuro non voglio essere come gli altri animali della foresta, che guardano mentre il pianeta va in fumo. Io sarò un colibrì e farò del mio meglio.
Quello che state per leggere è per l’appunto il contributo di una persona senza troppe
pretese e potenzialità, come il colibrì della favola. Come lui, per varie ragioni, non ho più
saputo resistere alla tentazione di spegnere il fuoco della foresta, che vedo bruciare
oramai da tanti anni, fin dall’adolescenza quando mi sono interessato ai movimenti contro
la globalizzazione neoliberale. Forse la scintilla decisiva è stato vedere la mia nazione
subire un vero e proprio golpe finanziario con la nomina a presidente del consiglio di Mario
Monti, plenipotenziario dei poteri forti al punto da affermare che lo scopo del suo governo
è convincere i cittadini ad “accettare senza eccessive reazioni sacrifici pesanti”; forse è
stato assistere da spettatore impotente alla macelleria sociale riservata alla Grecia e alla
Spagna, che i tecnocrati vorrebbero presto estendere al resto d’Europa.
Ma la motivazione maggiore probabilmente mi deriva dalla professione di insegnante nella
scuola superiore, dove lavoro a stretto contatto con giovani generazioni per lo più ignare
delle tegole che stanno cadendo sulla loro testa. Solo pochi riescono a intravedere il futuro
cinereo che persone molto più ciniche e anziane stanno preparando loro, ed è difficile
immaginare come reagiranno questi ragazzi – probabilmente in modo furioso e irrazionale
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come nelle rivolte delle banlieu parigine e nei riot di Londra – quando ne saranno
consapevoli.
A differenza del protagonista della favola, in questo tentativo di spegnere l’incendio non
sono solo, perché molti altri animali della foresta hanno reagito manifestando in varie
forme sotto svariate etichette: Indignati, movimento dei forconi, movimenti per i beni
comuni, contro le grandi opere, per la protezione dell’ambiente, laboratori politici
alternativi... tutti mossi da un sentire comune che però fatichiamo ancora a razionalizzare.
Nella mia opera di colibrì ho attinto da acque molto pregiate, forse insufficienti per
spegnere l’incendio, ma da cui sicuramente tutti dovrebbero abbeverarsi. Fuori dalla
metafora, ho provato a mettere insieme quelli che, a mio giudizio, sono i pensieri più
avanzati per una società realmente sostenibile sul piano umano e ambientale. So che in
queste pagine c’è materiale degno di lettura perché in gran parte mi sono limitato a
fungere da link, tentando di interconnettere aspetti diversi di un quadro comune e solo
nell’ultima sezione prevalgono le mie idee personali. Anche per questa ragione ho lasciato
ampio spazio alla citazione, sia per non appropriarmi del pensiero altrui sia per apprezzare
i contributi che provengono da una pluralità di fonti che, pur esprimendo concetti comuni,
quasi mai vengono accostate l’una con l’altra, mentre invece sono come legate dallo
stesso filo conduttore.
Fin da quand’ero ragazzo ho cercato di essere un osservatore attento e dai molteplici
interessi, sono sempre rimasto affascinato da quello che Pasolini definiva il compito
dell’intellettuale, ossia quello di “seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che
se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche
lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente
quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e
il mistero”. Non ho la pretesa di considerarmi un intellettuale ma, avendo avuto per
privilegio sociale la possibilità di studiare e di arricchire la mia cultura leggendo libri,
frequentando l’università, partecipando a conferenze, ecc. ritengo sia mio dovere
comportarmi come se lo fossi, un impegno che è diventato più pressante conoscendo tanti
studenti a cui è stata negata questa possibilità. Per alcuni i manuali scolastici sono gli unici
libri a disposizione in casa e, avendo ricevuto input solo da televisione, internet, telefoni
cellulari, videogiochi ecc. molti presentano i sintomi del cosiddetto ‘analfabetismo di
ritorno’ e viene il sospetto che la desuetudine totale alla lettura abbia inficiato lo sviluppo
cognitivo, impedendo così la piena realizzazione delle potenzialità intellettive: i rapporti
PISA che denunciano l’incapacità di quasi il 50% degli studenti italiani di comprendere un
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testo di media difficoltà sono solo uno dei tanti esempi che si potrebbero portare. In quelle
situazioni capisci quanto sei stato fortunato, in termini economici ma soprattutto familiari,
perché hai avuto la possibilità di crescere in un contesto aperto alla stimolazione culturale,
permettendoti molteplici prospettive.
Questo libro è basato sulla raccolta di materiale accumulato nel corso di diversi anni.
Molto spesso, nelle discussioni su blog e forum, ho dovuto scontrarmi con persone che
non si accontentavano di ragionevoli constatazioni (ad esempio sulla limitatezza delle
risorse naturali) e volevano continuamente numeri che giustificassero le mie asserzioni; io
stesso ho dovuto informarmi per smentire cifre e statistiche altrui. Chi ha bisogno di
stroncare cifre alla mano tutta la mitologia che aleggia intorno all’ideologia della crescita o
alle tecnologie salvifiche come il nucleare, ad esempio, in questo pagine sarà
abbondantemente accontentato.
Mi ritengo una persona idealista, perché credo nel valore dell’utopia, ma allo stesso tempo
pragmatica: non ho ideologie da difendere, ho sempre cercato di prendere il meglio –
almeno ciò che a me sembrava tale – da ogni movimento di pensiero, e se dovessi
descrivere la mia visione del mondo essa è un mix di marxismo, ecologismo, anarco-
socialismo e filosofia della decrescita. Un’influenza molto importante mi deriva
dall’adolescenza e dalla passione per il punk politico, che mi ha suggestionato parecchio
soprattutto per quanto riguarda la necessità di apertura mentale rifiutando discriminazioni
ed etichettature.
Questo contributo si divide in quattro parti:
- nella prima viene affrontata l’origine della crisi economica, con spiegazioni molto diverse
da quelle consuete;
- nella seconda vengono demoliti tre idoli che ancora dominano l’immaginario delle
persone dichiaratamente ‘progressiste’ o ‘di Sinistra’, ossia crescita economica, sviluppo
sostenibile e socialdemocrazia;
- nella terza si illustrano le ragioni della sconfitta storica della Sinistra in tutte le sue forme
e si cerca di ‘disfare’ il suo patrimonio ideale allo scopo di recuperare elementi utili per un
nuovo approccio culturale;
- nella quarta troviamo la pars costruens, le proposte concrete su cui fondare una società
su basi nuove;
- nella quinta, sicuramente la più discutibile perché frutto in gran parte di riflessioni
personali, sono proposte alcune strategie di azione politica.
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Nella lettura qualcuno forse rimarrà perplesso dai giudizi molto critici nei confronti della
Sinistra, specialmente di quella ‘radicale’ e magari li troverà eccessivi, simili alla reazioni
stizzite di un amante tradito. Pur non avendo un passato da vero e proprio militante, non
essendo mai stato iscritto a partiti o sindacati – ho solo brevemente collaborato come
traduttore con Liberazione e in un caso con la Manifestolibri – sono sempre stato convinto
che la Sinistra, almeno quella meno compromessa, avesse i mezzi intellettuali per dare
risposte concrete alle gravi problematiche che ci troviamo ad affrontare; ed è motivo per
me di grande delusione, ad esempio, sentire gli sproloqui di uomini politici
orgogliosamente comunisti capaci solo di liquidare come ‘depressive’ le misure di austerità
anti-crisi, come dei keynesiani qualsiasi, oppure di difendere a oltranza il sistema sociale
europeo senza proporre reali alternative e anzi insistendo nel proporre alleanze politiche
inconcludenti. Ho lesinato meno critiche ai Verdi ai movimenti ambientalisti sia perché più
giovani e quindi storicamente meno responsabili, sia perché nelle coalizioni di governo di
cui hanno fatto in Italia parte sono sempre stati ampiamente subalterni al Centro-Sinistra –
a differenza di Rifondazione Comunista, che è stata determinante per gli equilibri dei due
governi Prodi - cosa che ovviamente non attenua le loro responsabilità. Forse avrei dovuto
soffermarmi sul movimento emergente Europa Ecologie guidato da Daniel Cohn-Bendit,
visti i suoi recenti successi elettorali, tuttavia la mia posizione sullo sviluppo sostenibile e
le critiche di Cohn-Bendit sulla decrescita in favore del Green New Deal bastano per
capire se ritengo la strategia politica di questo partito compatibile con la mia visione. Ho
invece quasi totalmente escluso il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo perché è ancora
troppo presto per capire se riuscirà a dare una forma concreta alla sua proposta politica
basata sulla democrazia diretta su base digitale, al di là dei recenti successi elettorali nelle
elezioni amministrative.
Dovendo limitare l’ambito della trattazione, ho tralasciato a malincuore argomenti a cui
sono molto affezionato, come la questione di genere e la lotta alla discriminazione, che
ritengo imprescindibili per una società basata su nuovi convincimenti. Non ho affrontato
tematiche spinose come il signoreggio bancario o la sovranità monetaria non perché non
le ritenga importanti ma perché le dottrine che si propongo come solutrici si interessano
esclusivamente agli aspetti economici della crisi, suggerendo come soluzione universale
dei problemi la riforma dei sistemi di emissione della moneta (vedi la cosiddetta Modern
Money Theory), per proseguire sostanzialmente il business as usual della civiltà
industriale avanzata, che è invece l’oggetto della mia critica.
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Un’ultima importante premessa. Pur ragionando in termini globali, perché le varie crisi che
ci troviamo ad affrontare presentano un carattere planetario, le mie riflessioni sono molto
improntate all’agire locale, non solo per non peccare di presunzione sbandierando
soluzioni universali ma anche perché nell’universalismo ho proprio smesso di crederci:
oggi lo ritengo niente più della veste nobile dell’etnocentrismo occidentale responsabile del
colonialismo, delle guerre mondiali e della globalizzazione neoliberista. In molte parti del
mondo stanno pensando alla difficile transizione che ci aspetta – penso ad esempio alla
concezione del buen vivir sudamericana o alla Shakti indiana – e noi occidentali possiamo
apprendere ma difficilmente calarci ancora nei panni, a noi tanto abituali, dei sapienti che
devono indicare la via della salvezza al resto dell’umanità. Mi limito quindi a condividere le
mie idee con i miei concittadini.
Ravenna, 24/12/2012
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PRIMA PARTE
SOLO UN BLUFF FINANZIARIO? LA LUNGA ORIGINE DELLA GRANDE CRISI
“E’ impossibile che il capitalismo possa sopravvivere, innanzitutto perché ha bisogno di sangue da succhiare. Prima era come un’aquila, ma ora assomiglia di più a un avvoltoio”. (Malcolm X)
Chi è responsabile della grande crisi economica che stiamo vivendo, iniziata tra il 2007 e il
2008, deflagrata con il clamoroso fallimento della banca d’affari Lehman Brothers? Per l’ex
presidente della FED Alan Greenspan la colpa è della natura umana e della sua tendenza
agli eccessi speculativi durante i periodi di prosperità1. Secondo Padre Gabriele Amorth,
prete esorcista frequentatore di molti programmi televisivi, è stato invece Satana a
suggerire scelte sbagliate ai mercati, agli esperti e agli investitori2.
Secondo la maggioranza dei media meno inclini alle speculazioni filosofiche e/o
teologiche, i guai sono dovuti alla spregiudicatezza della finanza, all’uso indiscriminato di
strumenti ad alto rischio come i derivati o i mutui subprime, con questi ultimi accusati di
essere i principali artefici del dissesto. Essendo i subprime finanziamenti ad alto rischio di
insolvenza perché rivolti a disoccupati e redditi medio-bassi, forse Greenspan e Padre
Amorth apprezzeranno che queste fasce di popolazione siano i principali bersagli delle
politiche di risanamento - un giusto castigo per espiare il peccato di aver voluto “vivere al
di sopra delle proprie possibilità”. Le banche, da parte loro, hanno beneficiato dai governi
di ‘programmi di stabilizzazione’ multimiliardari, su tutti il piano Paulson statunitense che
ha elargito ben 700 miliardi di dollari. Insomma, Satana avrà anche consigliato male gli
investimenti ma alla fine ci ha pensato la Provvidenza a sistemare tutto: alcuni (pochi)
sono ricchi come e più di prima mentre per (tanti) altri si apriranno nuove vie di
beatitudine, perché “la crisi economica e la sofferenza possono avvicinare l'uomo
maggiormente a Dio”3 (parola non di Padre Amorth questa volta bensì di un altro prelato,
Monsignor Mimmo Cornacchia, Vescovo di Lucera-Troia).
Forse ispirate della Spirito Santo, ben prima del 2007 alcune Cassandre inascoltate
parlavano apertamente del rischio di una catastrofe finanziaria. Nel 2000 è stato
1www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2009/09/greenspan.shtml? uuid=4a793e54-9d2c-11de-8a87-777d1fe84fe8&DocRulesView=Libero 2www.pontifex.roma.it/index.php/interviste/religiosi/1059-la-crisi-economica-mondiale-colpa-di-satana-il- demonio-suggerisce-sceglie-sbagliate-solo-per-dividerci-molti-vescovi-non-credono-al-maligno 3www.pontifex.roma.it/index.php/interviste/religiosi/3237-la-crisi-economica-e-la-sofferenza-possono- avvicinare-luomo-maggiormente-a-dio-l-avvento-sia-tempo-di-speranza-attiva-da-vivere-senza-le-braccia-conserte-dobbiamo-essere-ottimisti
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pubblicato un libro molto interessante, intitolato Rapporto Lugano: ovvero come salvare il
capitalismo nel XXI secolo, ispirato ai club semi-segreti delle élite mondiali come il
Bilderberg Group, la Trilateral o l’Aspen Institute. Scritto dall’economista e militante di
ATTAC Susan George, si tratta di un romanzo fanta-politico che narra dell’incontro di un
gruppo di scienziati e accademici di varie discipline convocati da misteriosi committenti (si
sa solo che sono importantissime personalità dell’establishment politico-economico
mondiale) in una villa di Lugano per studiare le prospettive del sistema capitalistico, al fine
di preservarlo dalle sue crisi interne e perpetuare lo status quo della politica globale:
vengono proposte soluzioni su come manipolare l’opinione pubblica mondiale e
mantenere il giogo sui paesi del Sud del mondo, su come favorire indirettamente il
genocidio dei popoli africani per contenerne la minaccia demografica, con toni ovviamente
cinici ma anche pseudo-razionali, che ricordano molto le tesi di analisti come Henry
Kissinger, Samuel Huntington, Edward Luttwak o dei think thank conservatori, solo con
toni un po’ più espliciti - neppure troppo, per la verità - di quelli usati in dichiarazioni
pubbliche e del tutto in linea con molti documenti riservati desecretati4. La verosimiglianza
è accresciuta dal fatto che solo nella post-fazione conclusiva la George svela l’artificio
letterario, quando oramai il lettore è convinto davvero di aver letto un rapporto segreto
sfuggito di mano, che finalmente gli ha permesso di togliere ogni velo alla realtà e di
comprendere la coerenza di strategie politiche in piena contraddizione con gli intenti
dichiarati dei potenti della Terra, sempre pronti a riempirsi la bocca di belle parole sul
rispetto dei diritti umani e la diffusione di benessere e democrazia.
I precetti del Rapporto Lugano sono stati seguiti abbastanza fedelmente, nel senso che
sfruttamento, traffico di armi, carestie, flagelli sanitari e denutrizione hanno sicuramente
prosperato nell’ultimo decennio; è stata però quasi del tutto ignorata la sezione introduttiva
dell’opera, dove gli esperti ammonivano di operare una vasta opera di risanamento
ambientale del pianeta e, per quanto fosse spiacevole, di regolare il mercato con leggi
chiare e rigide, alla stregua di quanto fece Roosevelt con il New Deal, altrimenti sarebbe
stata inevitabile una crisi finanziaria di proporzioni colossali. Gli analisti del Rapporto, per
quanto strenui sostenitori del capitalismo, si dimostravano molto scettici sulle possibilità di
invertire la rotta e salvare il sistema:
Speculatori, individuali, grandi società, banche, agenzie di intermediazione, fondi pensione e molti altri ricevono tali e tanti benefici dal sistema che non vogliono e non
4Si pensi al National Security Study Memorandum 200, firmato da Henry Kissinger, redatto per l’Amministrazione Ford nel 1974 e desecretato nel 1990, dove di fatto si consiglia di utilizzare il genocidio come mezzo di politica estera per contenere l’espansione dei paesi in via di sviluppo.
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possono prendersi cura del sistema stesso. Gli operatori sono esseri razionali e il mercato si basa su azioni razionali, sulle conoscenze e la partecipazione di tutti coloro che ne fanno parte. In ambito finanziario, però, sono le decisioni del momento ad avere la meglio: i diritti immediati di un operatore prendono il posto della conservazione di quello stesso sistema che li fornisce. Come si possono limitare le tendenze pericolose o prevenire un disastro globale in un contesto del genere?5
Non la stupidità quindi, bensì un eccesso di ‘razionalità economica’ avrebbe spinto gli
operatori sull’orlo del precipizio, dal momento che la speculazione ha creato una sorta di
microcosmo a sé stante incapace di ragionare nel lungo periodo e di rapportarsi con le
problematiche del mondo reale, comprese quelle della ristretta super-classe che prospera
grazie a questo sistema.
Nel 2007, poco prima del ‘big bang’, André Gorz aveva lucidamente descritto i meccanismi
dell’inganno finanziario:
Il denaro stesso è la sola merce che l’industria finanziaria produce con operazioni sempre più azzardate e sempre meno controllabili sui mercati finanziari. La massa di capitale che l’industria finanziaria drena e gestisce supera di gran lunga la massa di capitale che valorizza l’economia reale (il totale degli attivi finanziari rappresenta 160.000 miliardi di dollari, cioè da tre o quattro volte il PIL mondiale). Il ‘valore’ di questo capitale è puramente fittizio: esso riposa in gran parte sull’indebitamento e il good will, cioè su anticipazioni: la Borsa capitalizza la crescita futura, i futuri profitti delle impresa, la futura salita dei prezzi degli immobili, i guadagni che potranno svincolare le ristrutturazioni, fusioni, concentrazioni, ecc. Le quotazioni di Borsa si gonfiano di capitali e dei loro plusvalori futuri, e le famiglie vengono incitate dagli istituti di credito a comprare (tra l’altro) azioni e certificati di investimento immobiliare, ad accelerare così la salita delle quotazioni, a chiedere in prestito alla propria banca somme crescenti mano a mano che aumenta il loro fittizio capitale finanziario. La capitalizzazione delle anticipazioni di profitto e di crescita incoraggia l’indebitamento crescente, alimenta l’economia con liquidità dovuta al riciclaggio bancario di plusvalenze fittizie, e permette agli Stati Uniti una ‘crescita economica’ che, fondata sull’indebitamento interno ed estero, è di gran lunga il principale motore della crescita mondiale (compresa la crescita cinese).6
Di fronte al disastro dell’architettura finanziaria, si sono levate da più parti voci per un
‘ritorno all’economia reale’, in modo assolutamente bipartisan, visto che tale proclama è
stato fatto proprio dalle organizzazioni degli industriali fino all’estrema Sinistra. Secondo il
segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero
La stagnazione dell’economia è il risultato diretto e logico delle politiche restrittive della BCE e dei governi europei. Questi delinquenti che ci governano, trincerandosi
5George 2000, 41-426Gorz 2009, 31-32
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dietro le stupidaggini del neoliberismo diffuse a reti unificate, per difendere i privilegi di banchieri, imprenditori e manager, stanno demolendo l’economia reale, aumentando la disoccupazione e tagliando lo Stato sociale7.
Ne consegue quindi che solo la stoltezza e l’avidità delle classi dirigenti impediscono il
ritorno alla normalità? Che basterebbe sostituire gli ‘stupidi criminali’ con personalità un
po’ più illuminate? Con buona pace di Ferrero, forse per avere un quadro più completo
della situazione è bene rivolgersi alle analisi di marxisti più competenti e documentati.
Il Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES)8, attraverso tre dei suoi
principali ricercatori (Luciano Vasapollo, Rita Tartufi, Joaquin Arriola) ha redatto un
pamphlet ironicamente intitolato Il risveglio dei maiali (chiaro riferimento ai paesi indicati
con l’acronimo PIIGS – Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna – la cui fragilità
economica sta mettendo a rischio l’esistenza stessa dell’Euro). Nell’introduzione dell’opera
viene esposta una teoria della crisi ben diversa da quella presentata correntemente da
media, politici ed economisti, anche perché basata su di un’analisi di lungo periodo e non
solo sul trend degli ultimi anni. Gli ultimi cinquant’anni di storia economica del capitalismo
vengono divisi dagli autori in tre fasi principali:
- una prima fase che va dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio degli anni
Sessanta, dove gli Stati Uniti emergono prepotentemente come maggior potenza
economica mondiale, impegnandosi nella ricostruzione dell’Europa e del Giappone, che
causa i postumi del conflitto non possono proporsi come concorrenti commerciali. È il
momento dell’estensione delle politiche keynesiane alle zone del pianeta sotto l’influenza
statunitense, Italia compresa, dove i lavoratori riescono a concordare con il capitale una
nuova ridistribuzione della ricchezza e maggiori diritti, favorendo così una forte espansione
economica;
- la seconda fase ha inizio a partire dagli anni Sessanta, quando i partner degli USA
diventano dei concorrenti minacciosi e la politica militare, contrassegnata dalle guerre in
Corea e Vietnam, inizia a pesare sul bilancio statunitense. Nel 1971, con un atto
unilaterale, Richard Nixon pone fine alla convertibilità del dollaro in oro, abolendo gli
accordi di Bretton Woods che fin lì avevano retto le sorti dell’economia mondiale; nel 1973,
7http://lnx.paoloferrero.it/blog/?p=3868 8Per comodità nelle pagine successive chiameremo ‘neomarxisti’ il CESTES e gli studiosi di orientamento affine. Rispetto ai marxisti tradizionali cercano di superare la riflessione prettamente operaista e industrialista, aprendosi ai movimenti sociali internazionali soprattutto sudamericani. Solitamente hanno posizioni molto critiche nei confronti dei partiti della Sinistra radicale europea, anche di quelli dichiaratamente comunisti.
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la crisi petrolifera e l’aumento dei prezzi delle materie prime contribuiscono alla recessione
globale;
- la terza fase, iniziata a partire dagli anni Ottanta con la presidenza Reagan, segna l’inizio
della deregulation finanziaria, dello smantellamento del sistema keynesiano-fordista
attraverso le privatizzazioni e della rivalsa del capitale sul lavoratori. Questi ultimi,
subendo manovre come la delocalizzazione produttiva, vedono enormemente ridotti i loro
margini di contrattazione. L’innovazione tecnologica, in particolare la robotica e
l’informatica, ricoprono un ruolo di primo piano in questi processi di divisione
internazionale del lavoro.
Queste tre fasi sono direttamente concatenate tra loro. Negli anni Sessanta, dopo la
ricostruzione post-bellica e la diffusione dello stile di consumo statunitense in Europa e
Giappone (il cosiddetto boom economico), il mercato cominciava a saturarsi perché i
principali prodotti industriali di massa (automobili ed elettrodomestici, in particolare) si
erano oramai diffusi in modo capillare. Si era chiuso un ciclo espansivo e le strutture di
potere capitalistico per mantenere la loro posizione di privilegio dovevano trovare nuovi
mercati oppure una nuova fonte di ricchezza, che venne individuata nella rendita
finanziaria. Per usare la terminologia del sociologo Zygmunt Bauman, si assisteva al
passaggio dalla società ‘solida’ fordista improntata sulla fabbrica a quella ‘liquida’ post-
fordista basata su reti economiche transnazionali, grazie allo sviluppo dell’informatica.
Secondo la visione degli studiosi del CESTES, non ha alcun senso rimpiangere la
‘vecchia, cara economia reale’, perché la finanziarizzazione è stata la logica conseguenza
del tentativo del capitalismo di perpetuare se stesso:
Anche se la crisi attuale si manifesta inizialmente come stallo delle finanze internazionali, come si è visto non è questa la sua causa principale. Le misure per ridurre il peso del mercato monetario internazionale e del credito possono essere parte di un programma di emergenza, ma non rappresentano un’alternativa alla crisi mondiale. L’attuale crisi manifesta, attraverso i suoi aspetti finanziari, la futilità dell’intento del capitale di andare sempre oltre i propri limiti... Nel tentativo, impossibile, vista la sua natura strutturale, di uscire dalla crisi che si protrae ormai da oltre 35 anni, più concretamente di non voler prendere atto e fare i conti con le vere cause sistemiche, i capitalismi internazionali hanno usato la finanza in maniera sovrastrutturale, ma anche sostitutiva in chiave speculativa, per supplire alle forti difficoltà dei processi di accumulazione del capitale. In questo senso si è giunti a una prevalenza e autonomizzazione, fino a un vero dominio, dei processi della finanza speculativa proprio per tentare di recuperare l’insufficiente produzione di plusvalore in relazione alla sovrapproduzione di merci e capitali, o meglio alle loro relazione di valorizzazione, con una significativa crisi di accumulazione del capitale.
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In quest’ottica anche il problema del debito assume una nuova valenza:
L’attuale crisi del capitale, quindi, viene da lontano e mostra la sua strutturalità già dai primi anni ’70, con una tendenza al ristagno, con forti e continue tensioni recessive, in parte attenuate dai ripetuti processi di ricomposizione della localizzazione dei centri di accumulazione mondiale del capitale, con una riduzione temporale dei cicli delle crisi finanziarie, che hanno evidenziato come le diverse forme di indebitamento crescente, interne ed esterne, pubblico e privato, abbiano di fatto garantito la sopravvivenza degli storici centri di accumulazione del capitale del Nord America e dell’Europa Occidentale. Le distinte forme di indebitamento presenti in questa crisi sono il risultato disperato del capitale di prolungare nel tempo la riproduzione di se stesso, mantenendo l’aumento del consumo di massa in relazione all’aumento della produttività del lavoro e la riduzione dei salari e della massa salariale in relazione all’aumento di produttività...È per questo che in un disonesto gioco massmediatico si vuol far credere che l’attuale crisi sia di natura finanziaria e dovuta a un’eccessiva liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati, che ha provocato bolle speculative, finanziarie e immobiliari, e la sostituzione del profitto produttivo ‘buono’ ai guadagni del capitale finanziario ‘cattivo’, con l’eccesso di rendite finanziarie, immobiliari e di posizione9.
È facile quindi comprendere perché il settore finanziario abbia aumentato a dismisura la
propria importanza fino a superare di più di quattro volte (dato del 200710) l’economia
reale. Da una parte le aziende necessitano di liquidità per sostenere gli investimenti,
dall’altra i consumatori hanno bisogno di credito per consolidare il potere d’acquisto, in un
circolo vizioso che per sostenersi invade ogni settore della società umana creando bolle
speculative di ogni genere. Con l’avvento della finanziarizzazione, lo stesso concetto di
impresa ha subito un cambiamento strutturale: da istituzione unitaria complessa, si è
trasformata in una complessa rete di contatti, variabili e rescindibili in ogni momento, dove
il ‘principale’ non è più la proprietà – il ‘padrone’, in stile Henry Ford o Giovanni Agnelli –
ma gli azionisti. Sono subentrati agenti-manager, il cui impegno nell’azienda è
estemporaneo (in genere non durano in carica più di qualche anno), sostenitori della teoria
contrattualistica dell’impresa, in base a cui
ogni contratto va rispettato solo fino a quando sia possibile dimostrare che il rendimento d’una data quota dell’uno o dell’altro sia al minimo pari, e possibilmente superiore, agli standard di mercato. Le imprese debbono rinunciare a esercitare qualsiasi controllo sul capitale fisico, sulla forza lavoro e sul capitale finanziario. Provvede il mercato a fare affluire queste diverse risorse”.11
9Vasapollo, Martufi e Arriola 2011, 29-3110Gallino 2011, 5511Gallino 2009, 109
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In questa visione, l’elemento centrale è il valore di mercato dell’impresa, la sua quotazione
borsistica, mentre passano in secondo piano considerazioni come posizione sul mercato,
innovazione tecnologica, numero di dipendenti, interessi dei lavoratori e della comunità
locale.
L’impresa appare come un fascio accidentale di attivi e passivi che esiste per essere di continuo ri-arrangiato allo scopo di massimizzare il valore per gli azionisti. L’impresa con le sue forze di lavoro sono diventate, in via di principio, oggetti a perdere.12
L’obiettivo principale è quindi la compravendita di azioni, la distribuzione di dividendi e
interessi, l’elargizione di stock options, il tutto a scapito della produzione, dell’innovazione
e dell’adeguamento di salari e condizioni di lavoro: il rendimento a breve termine è
nettamente privilegiato rispetto alle strategie di ampio respiro.
Partendo da questa mission, Luciano Gallino delinea alcuni comportamenti tipici del
mondo imprenditoriale presentati come conseguenze ‘naturali’, accidenti inevitabili
dell’economia globalizzata, e che invece sono predeterminati a tavolino, rivelandosi
quindi profezie che si autoavverano:
- creare divisioni finanziarie dell’impresa, con servizi molto simili a quelli bancari;
- non assumere dipendenti con contratti stabili e assegnare a ditte esterne il maggior
volume di produzione con contratti a termine (nel 2008 oltre il 70% delle nuove
assunzioni è avvenuto con contratti a termine);
- premere per il blocco dei salari;
- chiudere impianti produttivi, indipendentemente dalla loro efficienza.
Tutte queste operazioni presentano un fine comune: aumentare la disponibilità finanziaria
dell’impresa per investimenti speculativi e realizzare ininterrottamente plusvalenze. Ecco
spiegato perché, normalmente, la quotazione del titolo borsistico di un’impresa sale alla
notizia di licenziamenti e chiusura di impianti, in quanto il denaro risparmiato su stipendi e
spese di gestione potrà essere utilizzato per nuovi movimenti finanziari.
Nel quadro della società transnazionale si modifica anche il ruolo dello Stato, in un
quadro che molti commentatori hanno definito come il passaggio dall’era del governo a
12Ibidem, 111
15
quello della governance13. Nella governance lo Stato abdica alle tradizionali prerogative di
indirizzo politico-economico per diventare il mediatore di interessi rappresentativi di
diverse realtà sociali (in particolare imprese e sindacati), allo scopo di assicurare le
migliori condizioni costi/benefici per i mercati internazionali; in sostanza lo Stato
abbandona il perseguimento dell’interesse generale per una gestione di tipo aziendale
della cosa pubblica.
In definitiva, quel fenomeno che per anni abbiamo chiamato vagamente ‘globalizzazione’
nasce da questi tre elementi – finanziarizzazione e transnazionalizzazione dell’economia,
finanziarizzazione dell’impresa e ridefinizione dello Stato – e la crisi del 2008 rappresenta
il logico esito di questa fase (finale?) del capitalismo. Possiamo quindi rassicurare Padre
Amorth sul fatto che Satana non c’entra nulla, o meglio: la logica stessa del capitale è
intrinsecamente ‘diabolica’ e autodistruttiva senza richiedere alcun intervento aggiuntivo
del Maligno.
Uno squarcio nel velo
Sulla base delle considerazioni fin qui esposte, continuare a sostenere che la crisi
economica internazionale sia iniziata solo alla fine del 2008 suona non solo falso ma
anche fortemente classista e ideologico: si è parlato apertamente di ‘crisi’ solo quando è
stato coinvolto il grande capitalismo finanziario e transnazionale, perché le difficoltà di
lavoratori e piccola impresa erano da tempo preesistenti e la progressiva libera
circolazione delle merci e dei capitali aveva già devastato negli anni Novanta non solo le
fragili economie di stati africani, asiatici e latino-americani, ma persino gli stessi USA, dove
nel 2004 – quando Greenspan e compagnia si compiacevano per la salute e la stabilità
dell’economia mondiale – il tasso di povertà superava il 12% e il Dipartimento del lavoro
segnalava la graduale contrazione dei salari14. Tuttavia, i mass media hanno cominciato
ad allarmarsi solo quando la ristretta ‘super-classe’ composta da meno del 2% della
popolazione mondiale non ha più potuto perpetrare impunemente quello che, di fatto, era
uno stratagemma contabile destinato a scoppiare prima o poi come una bolla di sapone e
c’è da scommettere che la crisi sarà dichiarata ‘conclusa’ non appena tale cerchia avrà
ristabilito con gli interessi i propri privilegi, con buona pace del resto dell’umanità.
13Petrella in Cacciari 2010, 65-6714Chomsky 2007, 240. Bisogna anche fare attenzione ai criteri utilizzati dalle istituzioni per rilevare crescita economica e occupazione. Secondo l’economista John Williams, curatore del sito Web Shadow Government Statistics (www.shadowstats.com), i dati ufficiali del governo USA sarebbero in gran parte mistificatori, e dalle sue analisi si evince che la recessione economica sarebbe iniziata già a partire dalla fine del secondo millennio.
16
L’analisi neo-marxista del CESTES è molto più completa e accurata di quelle proposte
dagli economisti classici, tuttavia – proprio perché marxista – si concentra quasi
unicamente sulle dinamiche dei flussi economici. È possibile integrarla con altri tipi di
analisi? In particolare, lo stallo dell’economia dovuto alla sovrapproduzione è legato solo
alla ciclicità delle crisi? Quali sono le conseguenze della sovrapproduzione sul pianeta
Terra, forse non più in grado di reggere le pretese produttive capitaliste? Per rispondere a
questa domanda bisogna consultare altre fonti15.
La crisi di un pianeta svuotato
Ugo Bardi, docente presso il Dipartimento di chimica dell’Università di Firenze e membro
dell’ASPO (Association for the Study of Peak Oil, associazione che studia il picco di
produzione del petrolio) nel libro La Terra svuotata affronta con stile divulgativo ma rigore
scientifico il tema dell’esaurimento delle risorse e del futuro energetico dell’umanità. Nel
capitolo intitolato L’ankus del re: la storia dei combustibili fossili, è presente una disamina
storica dell’era industriale condotta con l’occhio dell’esperto energetico che, se integrata
con la valutazione economica neomarxista, permette di trarre alcune importanti
conclusioni.
La fase storica keynesiana della ricostruzione post-bellica e del boom economico coincide
con la disponibilità di immense risorse petrolifere a buon mercato, sia per la pressione
esercitata sui paesi produttori (alcuni dei quali ancora sotto il giogo coloniale europeo) sia
per l’abbondanza e la facilità di estrazione degli idrocarburi. Solo un geologo molto
lungimirante, Marion King Hubbert, capì che abbondanza non significa infinità e cominciò
a elaborare un modello teorico (noto come Picco di Hubbert) in base al quale si prevedeva
che l’estrazione di greggio degli USA avrebbe raggiunto l’apice nel 1970 per poi crollare:
previsione che effettivamente si avverò.
15I neomarxisti non sono affatto privi di sensibilità ecologica, ma tendono a ridurre il problema ambientale all’interno del conflitto capitale-lavoro. Ne Il risveglio dei maiali, a pagina 33, troviamo scritto: “Si può dissentire sul fatto che il consumo intensivo di materie abbia gravissime conseguenze sulla salute del pianeta, come affermano i sostenitori della ‘crescita zero’ (vengono citati il Club di Roma, Latouche e Georgescu-Roegen, n.d.r.)... Tuttavia, è indubbio che l’utilizzo di criteri di mercato nella gestione di queste risorse sia apparentemente irrazionale”. Questa affermazione contiene due errori di fondo: il primo è che il Club di Roma o Georgescu-Roegen hanno elaborato analisi sulla base di evidenze scientifiche, da cui si può dissentire solo esponendo dati altrettanto concreti; nel caso specifico delle risorse planetarie, il compito è abbastanza arduo perché bisogna confutare le leggi dell’entropia e della termodinamica. Inoltre lo sfruttamento intensivo degli ecosistemi è sempre dannoso, a prescindere che a guidarlo siano logiche di mercato, socialiste, collettiviste o di altro tipo. La scomparsa del Lago Aral e i rovinosi disastri ecologici perpetrati nella Cina maoista contro i ‘quattro flagelli’ ne sono una chiara testimonianza.
17
All’inizio degli anni Settanta, nella seconda fase indicata neomarxisti, quella della
sovrapproduzione e della stagnazione, gli USA si ritrovarono quindi privi di un’importante
fonte di approvvigionamento, situazione che peggiorò nel 1973 quando – così almeno
racconta la vulgata storica – i paesi arabi chiusero i rubinetti del petrolio agli occidentali
per protestare contro l’appoggio accordato a Israele nella cosiddetta Guerra del Kippur
con l’Egitto. Le riflessioni di Bardi permettono di vedere l’intero fenomeno della crisi
petrolifera sotto una nuova luce:
La crisi petrolifera del 1973 prese un po’ tutti alla sprovvista; ma per chi sapeva guardare non era affatto inaspettata. Già negli anni Sessanta, Pierre Wack, analista della Shell, aveva cominciato a ragionare sulla possibilità di una scarsità petrolifera imminente. Wack non usava la teoria di Hubbert che, probabilmente, nessuno conosceva. Studiava però gli stessi fenomeni con un metodo che era stato sviluppato in campo militare da Herman Kahn della Rand Corporation. Si chiamava “scenario planning”, detto anche “pensare l’impensabile”. Questo metodo non è quantitativo, ma è un modo per essere preparati davanti a eventi improvvisi; come devono fare, in effetti, i militari. Con i suoi scenari, nel 1972 Wack fu in grado di allertare i dirigenti della Shell che all’orizzonte c’era qualcosa di brutto che si preparava...Nel 1973, i nodi vennero al pettine. Quell’anno, i prezzi del petrolio greggio schizzarono verso l’alto con la causa scatenante che fu la “guerra del Kippur” fra arabi e israeliani. Ne seguì il famoso embargo dell’OPEC; l’organizzazione dei paesi produttori petroliferi. L’embargo focalizzò l’attenzione di tutti sulla dimensione politica della crisi ma, in realtà, la questione politica rimase sempre marginale nell’influenzare la disponibilità di petrolio16.
Cessato l’embargo, la decadenza produttiva durò circa dieci anni raggiungendo l’apice con
la rivoluzione iraniana del 1979, una crisi politica che tra il 1978 e il 1980 portò alla
sparizione del 6% della produzione mondiale. Negli anni Ottanta – terza fase del modello
neomarxista, quella neoliberale – grazie alla riammissione della quota produttiva iraniana
e all’innovazione tecnologica, che permise di effettuare perforazioni a profondità maggiori
e di sfruttare nuovi pozzi come quelli situati nel mare del Nord, la produzione cominciò
gradualmente a risalire, per poi scendere nuovamente:
...Già oggi, nel 2011, possiamo dire che qualcosa si è verificato con il petrolio verso il 2004-2005 che ha interrotto una crescita che, sia pure con qualche sussulto, era continuata fin dalla fine della prima crisi petrolifera... Dal 2004 al 2011 la curva di produzione petrolifera mondiale è sostanzialmente piatta.Invece i prezzi non sono stati assolutamente costanti in questi anni. Anche qui, qualcosa sembra essere successo verso la fine degli anni Novanta che ha dato inizio a una rampa di aumenti che è partita da un valore intorno ai 20 dollari al barile e ha
16Bardi 2011, 128-129
18
portato gradualmente a culminare nel massimo storico del barile che è arrivato a quasi 150 dollari nell’estate del 2008. Il prezzo si è poi abbassato bruscamente, scendendo fino a sotto i 40 dollari al barile per poi risalire oltre i cento dollari al barile nel 2010. Un secondo ciclo di crollo dei prezzi sembra essere in corso al momento (metà del 2011). Tutti questi sconvolgimenti indicano che il picco è vicino o forse già arrivato17.
La tempistica è importante: la produzione di petrolio giunge al culmine nel 2004-2005
mentre il prezzo schizza alle stelle nel 2008, cioè proprio nell’anno della grande crisi. È
bene precisare che, vivendo in una società basata sui risorse fossili, non dobbiamo
pensare al suo utilizzo solo come combustibile, ma anche come fonte di materie prime
(plastica e nylon), di fertilizzanti e pesticidi; essendo la moderna agricoltura industriale
basata sulla meccanizzazione e sui fertilizzanti derivati dagli idrocarburi, in un certo senso
‘mangiamo petrolio’ e non può essere una coincidenza che anche la recente crisi
alimentare si sia verificata nel periodo 2006-2008. L’Oil Market Report 2011 della Agenzia
Internazionale dell'Energia (IEA) ha confermato le constatazioni dell’accademico italiano,
sottolineando come da più di un anno e mezzo il mondo stia consumando
approssimativamente un milione di barili di petrolio in più di quelli che produce.
Bardi, insieme al fisico Marco Pagani, si è interessato anche al picco di estrazione dei
minerali e i risultati dei loro studi sono stati resi noti su di un articolo 18 pubblicato su The
Oil Drum: dalla loro ricerca condotta sui database della United States Geological Survey
(USGS), si deduce che alcuni metalli come il piombo e il mercurio hanno già raggiunto da
molti anni il picco di estrazione (nel 1986 per il piombo e addirittura nel 1962 per il 17Ibidem, 134-13518Peak Minerals, disponibile on line all’URL http://europe.theoildrum.com/node/3086
19
Grafico 1
Produzione
mondiale di
petrolio
(fonte: ASPO
Italia)
mercurio), mentre molti materiali utilizzati come semiconduttori in campo elettronico,
elettrotecnico e informatico – tellurio, cadmio, renio, gallio - lo hanno registrato tra gli anni
Ottanta e Novanta; la produzione di ferro sarebbe stabile dalla metà degli anni Ottanta. A
suffragare i dati di Bardi e Pagani, il 13 maggio 2010 l’UNEP (United Nations Environment
Programme, Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente) ha diramato un comunicato
stampa19 in cui si sollecitano i governi a intraprendere opportune misure per il riciclaggio
dei metalli e delle cosiddette ‘terre rare’, molto impiegate nell’industria high-tech.
Da questo punto di vista anche l’energia nucleare, che molti presunti esperti celebrano
quale fonte infinita di energia, si trova ad arrancare. I dati della World Nuclear Association
(WNA) segnalano che la produzione di uranio si aggira sulle 55.000 tonnellate annue,
contro una domanda di 67.000, la cui differenza oggi viene coperta da sorgenti secondarie
come l'arricchimento di uranio impoverito, il riprocessamento del combustibile esaurito
(una tecnica molto pericolosa sul piano ambientale e militare, perché consente di separare
il plutonio e riciclarlo per scopi bellici) o il prelievo da armi dotate di testate nucleari: è
bene premettere che, anche se queste venissero smantellate completamente per uso
civile, questo apporto extra di uranio non durerebbe più di quattro anni. Per tali ragioni, il
contributo dalle miniere è imprescindibile. La WNA ha stabilito due range principali (definiti
‘commerciali’), a seconda che il prezzo per estrarre l’uranio superi gli $80/Kg o i $130/Kg:
della prima qualità ne sarebbero rimasti 2,5 milioni di tonnellate, della seconda 5,4 milioni
di tonnellate, che significherebbero rispettivamente 45 e 100 anni circa di autonomia,
considerando la produzione e i consumi attuali. Se, come propongono alcuni piani
energetici, il ricorso al nucleare raddoppiasse, le stime andrebbero dimezzate.
Osservando il grafico 2 (elaborazione EWG basati sui dati della AIEA, Agenzia
Internazionale per l’Energia Atomica) è facile constatare come il picco della produzione di
uranio sia stato già raggiunto negli anni Ottanta.
19www.unep.org/Documents.Multilingual/Default.asp?DocumentID=624&ArticleID=6564&l=en&t=long
20
Il prezzo commerciale dell’uranio ha registro inoltre fluttuazioni abbastanza anomale nel
corso degli ultimi anni, simili a quelle che hanno interessato il petrolio. Nel 2007, prima che
la crisi provocasse il crollo dei prezzi di molte materie prime, il diossido di uranio aveva
raggiunto la cifra record di $140 a libbra (circa $60 a Kg), per poi scendere fino ad
assestarsi sui $60 a libbra ($27 a Kg). Eppure, all’inizio del 2000, il prezzo era dieci volte
più basso, intorno ai $5-10 a libbra. Se davvero dovesse verificarsi il ‘rinascimento atomico
internazionale’ sostenuto da molte lobby energetiche – poco probabile per la verità, dopo
la catastrofe di Fukushima - è scontato che l’aumento della domanda provocherebbe un
rialzo dei prezzi verso la soglia di limite di $80 a kg.
In ogni caso c’è poco da recriminare, perché il nucleare come alternativa al petrolio è un
luogo comune non suffragato dai fatti: secondo il Word Oil and Gas Review 2010 dell’ENI
un paese come l’Italia, che non utilizza per nulla energia atomica, ha un consumo di
petrolio pro capite (9,40 barili annui) inferiore a quello di paesi nuclearizzati come la
Germania (10,84), il Giappone (12,47) e persino della tanto decantata Francia (10,96)20.
È molto importante non confondere il concetto di ‘picco’ con quello di ‘esaurimento’. Se in
passato si è riusciti a ovviare al calo della produzione di una materia prima, come
accaduto per il petrolio negli anni Ottanta, ciò è avvenuto o perché sono stati scoperti
nuovi giacimenti oppure – quel che avviene oggi nella maggior parte dei casi - perché i
20Ne consegue che i sostenitori del nucleare i quali, all’indomani dell’incidente della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, gridavano ‘meglio il nucleare’ (come scrisse Chicco Testa su Il Riformista) decantandolo come antagonista del petrolio erano ignoranti o in cattiva fede. E tra questi, oltre a Umberto Veronesi (massimo testimonial dell’atomo in Italia), comparivano alcuni accademici specializzati in fisica nucleare come Carlo Bernardini professore emerito di Fisica Università di Roma - Direttore di Sapere, Carlo Artioli ingegnere nucleare Enea e docente Master Nucleare Bologna, Sandro Paci Università di Pisa - docente di Impianti Nucleari, Davide Giusti ingegnere nucleare Enea - docente Master Nucleare Bologna, Domiziano Mostacci ingegnere nucleare - docente Università di Bologna, Giuseppe Gherardi - ingegnere nucleare Enea, tutti firmatari della lettera aperta al PD in favore del nucleare pubblicata nel maggio 2010 su Il Riformista e Il Corriere della Sera.
21
Grafico 2
miglioramenti tecnologici hanno permesso o l’estrazione da minerali a minor
concentrazione di materia o la perforazione del terreno a profondità maggiori. Tuttavia, ciò
richiede un maggior investimento economico ed energetico, nonché un’attività più invasiva
nei confronti degli ecosistemi, con tutti i rischi connessi21. La Deepwater Horizon, la
piattaforma petrolifera della BP al largo del Golfo del Messico tragicamente nota per il più
grave disastro ambientale della storia americana, estraeva petrolio a una profondità di
1500 metri, e c’è chi malgrado tutto propone di realizzare pozzi off-shore per profondità
ancora maggiori.
Ma il rischio più grande non deriva forse da queste gravi delitti ecologici, che se non altro
ravvedono momentaneamente la coscienza di politici e cittadini, bensì dai tanti e quotidiani
crimini ambientali di minor portata spesso esaltati come miracoli del progresso scientifico.
Tra questi la tecnica della fratturazione idraulica o fracking – brevettata dalla Halliburton –
consistente nel pompaggio di enormi quantità di acqua e sostanze chimiche nelle
formazioni rocciose per aumentare l'estrazione e il tasso di recupero del petrolio e del gas
naturale contenuti nel giacimento, con grave contaminazione di suolo e falde22. Oppure
pensiamo all’estrazione di petrolio dagli scisti bituminosi, praticata in Canada e Venezuela:
per ogni barile di petrolio ricavato sono necessarie ben 2 tonnellate di sabbia, 7 barili
d’acqua e complessi procedimenti chimici per la raffinazione, tutte operazioni molto
onerose per l’ambiente, con il risultato finale che il ritorno dell’investimento energetico
(cioè il rapporto tra l’energia ricavata e quella consumata, convenzionalmente indicata con
l’acronimo EROEI) spesso è inferiore a 1, quando quello del petrolio estratto in modo
convenzionale è stato sempre almeno superiore a 10.
Il nucleare presenta problemi simili: il fisico olandese Jan Willem Storm van Leeuwen ha
dimostrato che, sfruttando minerali a minor concentrazione di uranio, diminuisce l’EROEI e
aumentano le emissioni di CO₂ per l’estrazione finché le emissioni per ricavare il
combustibile di una centrale atomica eguagliano o superano quelle delle centrali a
turbogas23.
21Bardi 2011, 9322Vietato in molte nazioni, il fracking è balzato agli onori della cronaca in Italia dopo un articolo entusiastico di Massimo Mucchetti apparso sul Corriere della Sera (Alcune domande su Eni e Mosca Perché si vuole raddoppiare le onerose importazioni quando c’è tanto gas più conveniente?, 3 dicembre 2010), dove veniva così presentato: “...In America inizia una rivoluzione tecnologica che rende abbondante il gas, e dunque riduce in prospettiva la centralità dei fornitori storici, Russia, Algeria e Libia. Nel 2005 si producono le prime quantità di shale gas, gas estratto da rocce scistose, tipiche del sottosuolo delle zone ex carbonifere, attraverso potenti getti d'acqua mista a solventi. In tre anni questo gas non convenzionale emancipa gli Usa dalle importazioni e fa crollare i prezzi sul mercato spot alla metà di quelli take or pay”.23Baracca e Ferrari Ruffini 2011, 186
22
Ma all’appello troviamo anche molte soluzioni spacciate per ambientaliste: l’ONU ha
dichiarato ‘crimine contro l’umanità’ le coltivazioni destinate alla produzione di
biocarburanti – altra soluzione propagandata come panacea - una rapina di suolo agricolo
che ottiene solo lo scopo di affamare i popoli, peggiorare la salute del pianeta e contribuire
poco o niente alla soluzione del deficit energetico.
Se il progressivo esaurimento delle materie inorganiche è preoccupante, quello delle
risorse biologiche lo è ancora di più. Secondo la FAO, nonostante lo sviluppo tecnologico
– o forse sarebbe meglio dire a causa di esso - il 60% degli ecosistemi mondiali sono
ormai degradati o vengono utilizzati secondo modalità non sostenibili, il 75% degli stock
ittici sono troppo sfruttati o impoveriti in modo eccessivo e dal 1990 si è assistito alla
perdita di circa il 75 % della diversità genetica delle colture agricole a livello mondiale. E il
Global Forest Resources Assessment 2010 ci informa che oramai solo il 31% della
superficie terrestre è ancora coperto da foreste.
Una visione post-marxista per l’economia, la società e l’ambiente
Integrando le considerazioni neomarxiste con le ricerche degli studiosi del picco delle
risorse, si scopre che le recenti crisi economiche mondiali sono legate non solo alla
sovrapproduzione e alla stagnazione della domanda, ma anche a uno sfruttamento troppo
intensivo delle risorse naturali. La rivoluzione tecnologica a partire dagli anni Settanta,
oltre ad aumentare la produttività e a promuovere una divisione internazionale del lavoro,
ha reso più efficiente l’utilizzo delle materie prime e, soprattutto, ha perfezionato le
tecniche di estrazione consentendo di attingere da nuove risorse; tuttavia ciò non è stato a
costo zero, dal momento che ha richiesto maggior dispendio energetico – provocando
quindi maggior inquinamento – e una costante opera vessatoria nei confronti
dell’ambiente. Pertanto bisogna chiedersi: la crisi che stiamo vivendo è solo una delle
tante, cicliche, che affliggono periodicamente il capitalismo, oppure è la crisi definitiva del
sistema dovuta in gran parte a considerazioni extra-economiche legate alla salute del
pianeta?
Solo le generazioni future potranno rispondere alla domanda, tuttavia molti indizi fanno
pensare che la seconda opzione sia quella più probabile. Vediamone alcuni, che vanno ad
aggiungersi a quelli esposti in precedenza:
23
- ancora nel negli anni Settanta esistevano molte ‘terre vergini’ (per riprendere
un’espressione di Rosa Luxemburg) non intaccate dal capitalismo, sia sotto forma di
potenziali consumatori (i popoli dei paesi comunisti e di quelli in via di sviluppo) sia di terre
da perforare, coltivare o edificare. Oggi invece tutte le nazioni del pianeta partecipano più
o meno intensamente al processo di globalizzazione economica, e anche nei paesi più
poveri sono comparse élite borghesi che tentano di imitare gli stili di vita occidentale,
sogno irraggiungibile per il resto della popolazione; la Terra è stata scandagliata in ogni
parte alla ricerca di petrolio e materie prime e per sfruttare gli unici giacimenti di una certa
entità si rischiano gravi catastrofi ecologiche;
- la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è aumentata del 35% in soli due
secoli (di cui il 10% negli ultimi 15 anni), passando da 280 a 380 parti per milione (ppm), il
più alto livello non solo degli ultimi 950 mila anni ma probabilmente dal Miocene, cioè da
20 milioni di anni a questa parte. I climatologi dell’IPCC (Gruppo intergovernativo di esperti
sul cambiamento climatico, attivo in seno all’ONU) sono concordi nel sostenere che
oltrepassare la soglia dei 450 ppm porterebbe a conseguenze disastrose e probabilmente
irreversibili;
- la prepotente ascesa economica della Cina, che in pochi anni è diventata la seconda
potenza economica mondiale, ha destabilizzato non poco l’assetto geopolitico mondiale,
anche perché i cinesi hanno cominciato ad attuare una sorta di ‘colonialismo dal volto
umano’ nei confronti di molti paesi africani (Angola, Congo, Gabon, Guinea Equatoriale,
Kenya, Libia, Mauritania, Niger, Nigeria e Sudan, dove la politica cinese è stata
corresponsabile della crisi del Darfur) basato sulla cooperazione economica - vendita di
armi compresa - in cambio dell’accesso alle materie prime. Ciò ovviamente ha provocato
un irrigidimento degli USA, i quali non tollerano la presenza di un altro attore globale di
pari portata e dopo gli interventi armati in Afghanistan, in Iraq e in Libia hanno rafforzato la
presenza dell’AFRICOM, il contingente militare statunitense in Africa. La dichiarazione del
presidente cinese Hu Jintao che il 7 dicembre 2011, davanti alla Commissione militare
centrale, ha esortato la Marina a “proseguire la propria modernizzazione” e a “essere
pronta alla guerra, per salvaguardare la sicurezza nazionale e la pace”24 si può
interpretare come una semplice minaccia diretta agli USA affinché rinuncino a operazioni
militari come l’aggressione all’Iran, ma non è comunque da sottovalutare25. Anche se
24http://www.asianews.it/notizie-it/Hu-Jintao-alla-Marina-militare:-Preparatevi-alla-guerra-23380.html25L’istituto di ricerca PNAC (Project for the New American Century), un think thank ideologicamente affine ai cosiddetti neoconservatori, gruppo politicamente dominante dell’amministrazione Bush (si pensi a Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz) aveva elaborato un documento intitolato Rebuilding America's Defences: Strategies, Forces And Resources for a New Century, dove si auspicava un aumento della spesa militare e il riposizionamento delle forze armate statunitensi dall’Europa al Pacifico in funzione anti-cinese.
24
spesso le guerre e il keynesismo militare hanno contribuito alla soluzione di crisi
economiche, un conflitto USA-Cina con o senza possibili risvolti nucleari non sembra
affatto auspicabile;
- al di là dell’ottimismo ostentato dai capi di governo – come la crescita del 10% annua del
PIL promessa da Mario Monti partecipando alla trasmissione Otto e mezzo – i vertici
dell’economia mondiale sono sempre più scettici riguardo alle possibilità di ripresa. Il
World Economic Outlook 2011 del Fondo Monetario Internazionale delinea il rallentamento
a breve della crescita mondiale, prospettando per i paesi avanzati un tasso (definito
‘anemico’ dagli economisti del FMI) del 2% o meno e paventa ulteriori stagnazioni a causa
dell’aumento del prezzo del petrolio; la stessa preoccupazione si ritrova nel rapporto
Energy in 2050 di HSBC (banca inglese, seconda azienda mondiale in termini di asset).
Sulla base di tutto ciò, se ci troviamo veramente di fronte a una fase storica nuova che
chiede di essere affrontata con visioni politiche ed economiche diverse da quelle
tradizionali, quali devono essere i nuovi punti di riferimento? Prima di rispondere a questa
domanda, conviene demolire una volta per sempre alcune convinzioni tanto radicate
nell’opinione pubblica quanto pericolose e fallimentari.
25
SECONDA PARTE
DISTRUGGERE GLI IDOLI PROGRESSISTI
“Tutti i miei mezzi sono sensati; le mie motivazioni e i miei obiettivi sono folli”(frase pronunciata dal Capitano Achab nel romanzo Moby Dick di Herman Melville)
Il filosofo inglese Francesco Bacone chiamava ‘idoli’ (idola) quei pregiudizi senza
combattere i quali è impossibile una reale conoscenza della natura.
In questa sede tenteremo di demolire tre importanti idoli ancora riveriti da molte persone di
fede progressista – crescita economica, sviluppo sostenibile e socialdemocrazia -
ricercando di dimostrare non solo la loro inadeguatezza per affrontare le sfide della realtà
attuale ma per evidenziare come, ben lungi dall’essere soluzioni, siano essi stessi una
causa rilevante dei problemi che affliggono la società contemporanea.
26
Crescita economica
La crescita dell’economia è sicuramente il dogma che ha contrassegnato non solo lo
sviluppo capitalistico in tutte le sue declinazioni – liberismo, keynesismo, socialdemocrazia
- ma tutta l’epoca successiva alla rivoluzione industriale, compreso il socialismo reale che
da questo punto di vista non aveva nulla da invidiare al capitalismo. Nel discorso alla
nazione del 17 novembre 1935, tessendo le lodi dello stakhanovismo, Stalin ritiene né più
né meno rispetto alla concezione capitalista che il benessere consista nella produttività e
nell’accaparramento di merci:
Si è già detto qui che il movimento stakhanovista, come espressione di norme tecniche nuove, più elevate, rappresenta un modello di quell'alta produttività dei lavoro che soltanto il socialismo può dare e che non può dare il capitalismo. È del tutto giusto. Perché il capitalismo sconfisse e sorpassò il feudalesimo? Perché creò norme più alte di produttività del lavoro, perché dette alla società la possibilità di ottenere prodotti in quantità incomparabilmente maggiore che non sotto il regime feudale. Perché rese la società più ricca. Perché può e deve il socialismo vincere e inevitabilmente vincerà il sistema economico capitalista? Perché può dare forme più alte di lavoro, una produttività del lavoro più elevata che non il sistema economico capitalista. Perché può dare alla società una quantità maggiore di prodotti e rendere la società più ricca di quanto essa non sia nel sistema economico capitalista.
Oggi siamo tutti concordi nel condannare la follia criminale di Stalin, eppure rimaniamo
imperturbabili ed anzi applaudiamo chi, in nome di altre ideologie, ripete deliri analoghi
ben spalleggiato dai media, i quali ricoprono un ruolo fondamentale nell’influenzare
strumentalmente l’opinione pubblica. Gli esempi sono innumerevoli e per brevità ci
limitiamo a presentarne alcuni tra i più bizzarri. Su una pagina del giornale on line
blitzquotidiano (www.blitzquotidiano.it) è possibile trovare questo titolo: “La Merkel
spaventa gli Usa e il mondo”26. Che cosa stava minacciando la cancelliera tedesca: forse
la militarizzazione dei confini? Il ripristino delle leggi razziali e dei campi di sterminio? La
guerra atomica? Molto peggio, come riportava il sottotitolo: “Niente stimoli alla crescita”.
Gli USA e il resto del mondo, molto apatici quando gli scienziati prevedono sconvolgimenti
ecologici planetari, sarebbero rimasti attoniti e sgomenti di fronte a questa decisione
'scioccante' della statista tedesca.
L’organo ufficiale degli industriali italiani, Il Sole 24 Ore, compete assolutamente alla pari.
Il 31 marzo 2010 le sue pagine ospitavano l’opinione illuminata di Giorgio Squinzi – attuale
presidente di Confindustria e Amministratore Unico di Mapei, all’epoca numero uno di
26www.blitzquotidiano.it/economia/wall-street-merkel-crescita-stimoli-inflazione-crisi-416546/
27
Federchimica – espressa in un summit sul Made in Italy: “L'Italia deve tornare
all'ossessione per la crescita” tipica degli anni Cinquanta e Sessanta. Testuali parole, ha
proprio usato il termine ‘ossessione’, che indica un atteggiamento compulsivo e irrazionale
al limite del patologico, da curare con assistenza psicologica. Eppure non solo nessuno
dei presenti si è sentito in dovere di chiamare d’urgenza la neurodeliri ma Il Sole 24 Ore
l’ha presentato come un fatto positivo e degno della massima approvazione. Anche i nuovi
quadri dell’associazione sembrano già ben instradati per rimpiazzare degnamente i
membri più anziani: “Senza crescita si muore” è stato infatti il lugubre ammonimento di
Federica Guidi, presidente dei Giovani imprenditori, contenuto nella sua relazione al
quarantesimo convegno dei giovani industriali
Confindustria ha spiegato a più riprese che la crescita non è ‘né di Destra né di Sinistra’, e
purtroppo sembra difficile darle torto. “La crescita e lo sviluppo sono l’unico modo per
risanare i conti pubblici e trovare la via della ripresa”, è un giudizio con cui sicuramente
concorderebbero gli industriali, peccato si debba al Segretario Confederale della CGIL,
Danilo Barbi27. Il maggior sindacato italiano ha addirittura dedicato uno sciopero generale,
indetto il 6 maggio 2011, sulla necessità di crescere. Inutile soffermarsi sull’importanza
attribuita dalla Sinistra liberal desiderosa di cavalcare il vento liberista - pardon, ‘riformista’
- ma anche nell’ultra-Sinistra la situazione non è particolarmente migliore.
Non si può certo sospettare il comunista Oliviero Diliberto di simpatie per la grande
industria o il liberismo, tuttavia deve condividerne alcuni principi fondamentali. Altrimenti
come spiegare la seguente dichiarazione, rilasciata nel 2005 in un’intervista al Corriere:
“Ai mercati vorrei dire che il paese con la crescita economica maggiore è la Cina
comunista”, come se questa fosse un esempio da seguire?
Per finire, persino alcuni intellettuali non mainstream che vogliono farsi portavoce dei
movimenti popolari sorti dopo l’acuirsi della crisi – spesso indicati con il nome di ‘Indignati’
- sostengono la stessa posizione ideologica. Ad esempio Loretta Napoleoni:
...il cambiamento di cui abbiamo bisogno non è la promessa di far quadrare il bilancio, né la riorganizzazione dei conti dello Stato attraverso lo spostamento di alcune voci da un titolo di spesa a un altro, neppure la riduzione di alcune di queste ultime. Ciò che i mercati domandano è la ripresa della crescita economica. E guarda caso e proprio ciò che invoca la popolazione europea28.
27www.cgil.it/tematiche/Documento.aspx?ARG=ECON&TAB=0&ID=16520 28Napoleoni 2011, 166
28
Non si capisce allora l’accanimento degli Indignati contro con i vari Draghi, Trichet e Monti,
visto che questi non fanno altro che ripetere all’unisono la loro volontà di sostenere la
crescita.
Per finire in bellezza, è giusto lasciare l’ultima parola alla massima istituzione nazionale, il
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e al suo stringente appello per “forzare la
crescita”29, quasi si potesse minacciarla e sottometterla ai nostri voleri.
La crudele dittatura del PIL
Ma che cosa si cela dietro l’espressione ‘crescita economica’? Di fatto si intende l’aumento
del Prodotto Interno Lordo (PIL), osannato come indicatore universale di benessere
economico. Il PIL solitamente viene definito come il valore complessivo di beni e servizi
prodotti all'interno di un paese in un anno, una definizione molto asettica e impropria
perché all’incremento del PIL contribuiscono fattori per nulla positivi. Lo ha spiegato molto
bene Robert Kennedy in uno dei suoi ultimi discorsi pubblici:
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle […]. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. […] Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.30
Per completezza di informazione, anche la criminalità partecipa in modo massiccio alla
crescita del PIL: secondo alcuni studiosi in Italia le mafie contribuiscono circa per il 7%.
Ma anche le catastrofi naturali danno un enorme apporto, fino al sospetto che in certi casi
29Napolitano: forzare la crescita, Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2011 30Discorso tenuto il 18 marzo 1968 presso l’università del Kansas
29
vengano agevolate per consentire lucrose opere di ricostruzione31. L’imprenditore
Francesco De Vito Piscicelli, famoso per essere stato intercettato al telefono mentre rideva
di gusto pensando alle lucrose opportunità offerte dal terremoto che in quel momento
stava sconvolgendo L’Aquila, è stato additato come un mostro di cinismo invece di
presentarlo per quello che era realmente: un businessman che aveva interiorizzato in
modo fin troppo diligente l’ideologia economica dominante.
Con ben altre motivazioni, sindacati e partiti di Sinistra sostengono la necessità di
aumentare il PIL perché l’aumento di reddito consentirebbe di allargare la base imponibile
(con cui sovvenzionare i servizi al cittadino) ma soprattutto permetterebbe di fronteggiare
la disoccupazione, secondo il ragionamento: più produttività = più posti di lavoro. Tale
equazione – talvolta chiamata ‘effetto cascata’ - considerata una verità auto-dimostrata da
tutti, dai liberisti più sfrenati ai comunisti più irriducibili, poteva essere valido nella vecchia
società fordista, ma riproporla oggi significa affermare una colossale menzogna:
In un mondo nel quale il progresso tecnologico promette un incremento drammatico della produttività e della produzione aggregata, marginalizzando o eliminando dal mercato milioni di lavoratori, l'«effetto a cascata» sembra un'ingenuità, se non una vera stupidaggine. Continuare ad affidarsi a un obsoleto paradigma della teoria economica in un'era post-industriale e post-terziario rischia di essere disastroso per l'economia nel suo complesso e per la stessa civiltà del XXI secolo.Mentre l'idea dell'«effetto a cascata» della tecnologia ha dominato il pensiero dei grandi imprenditori e dei rappresentanti istituzionali per la maggior parte del secolo, è stata un'altra visione del ruolo della tecnologia a catturare l'immaginazione del pubblico. Se gli imprenditori hanno sempre considerato le tecnologie come un mezzo per generare incrementi nella produzione, maggiori profitti e più occupazione, il pubblico ha coltivato un'immagine diversa: quella che un giorno le tecnologie sostituiranno la manodopera e renderanno l'uomo libero in un mondo migliore. La fonte della loro ispirazione non sono stati gli scritti asciutti e tecnici degli economisti, ma la pletora dei romanzieri e degli scrittori di saggistica popolare che, con le loro vivide descrizioni di un futuro paradiso tecnologico, libero dal lavoro e dalla fatica, hanno agito come un magnete, guidando il pellegrinaggio di intere generazioni verso quello che si credeva fosse il nuovo paradiso terrestre.Ora, alla vigilia della rivoluzione delle alte tecnologie, queste due idee molto differenti del rapporto tra tecnologia e lavoro stanno entrando sempre più in conflitto. La domanda è se le tecnologie della Terza rivoluzione industriale esaudiranno il sogno degli economisti di produzione e profitti infiniti o quello della gente di un futuro migliore. La risposta a questa domanda dipende, in larga misura, da quale di queste due visioni del futuro dell'umanità avrà la capacità di radunare sotto di sé le forze, il talento e la passione delle prossime generazioni...Oggi molte persone trovano difficile comprendere come il computer e le altre tecnologie introdotte dalla rivoluzione informatica - che avevano sperato fossero in grado di liberarli - possano invece essersi trasformati in un mostro meccanico che
31Nel libro Shock Economy Naomi Klein teorizza che le aziende multinazionali e i loro sostenitori politici promuovano un vero e proprio ‘capitalismo dei disastri’.
30
deprime i salari, distrugge l'occupazione e minaccia la stessa sopravvivenza di molti lavoratori. Ai lavoratori americani era stato fatto credere che, diventando sempre più produttivi, sarebbero riusciti a liberarsi dalla schiavitù del lavoro; ora, per la prima volta, si sta dicendo loro che spesso gli aumenti di produttività non provocano aumenti del tempo libero, ma code all'ufficio di collocamento32.
Solo per riportare alcuni dati concreti, nel febbraio-marzo 2010 la Commissione europea
ha calcolato per la UE un aumento del PIL pari allo 1% - superiore a quello stimato, lo
0,7% - mentre contemporaneamente l’Eurostat registrava una disoccupazione stabile
intorno al 10%. Nello stesso anno la Germania, locomotiva della crescita europea, a fine
giugno segnava un +3,7% rispetto all’anno precedente e contemporaneamente 134.800
lavoratori tedeschi del comparto industriale perdevano il posto33. Gli USA addirittura hanno
chiuso l’ultimo trimestre del 2009 con una crescita netta del 5,7%, ma il Dipartimento del
lavoro nel gennaio 2010 ha constato solo un lieve rallentamento del trend negativo, non
una ripresa dell’occupazione.
Ma l’Europa e gli USA rappresentano il ‘vecchio’ mondo incapace di affrontare le sfide
dell’economia attuale, per cui forse è più corretto concentrare l’attenzione sull’inarrestabile
ascesa dei paesi del cosiddetto BRIC, ossia Brasile, Russia, India e Cina. Ecco le
percentuali relative alla disoccupazione nel 200934, confrontate con la crescita economica
media annua del quinquennio 2004-2009:
NAZIONE CRESCITA DISOCCUPAZIONEBrasile 3,5% 8,3%Russia 3,9% 8,2%India 8,3% 4,4%Cina 11,4% 4,3%
Se Brasile e Russia destano preoccupazione, perché presentano dati sulla
disoccupazione non molto dissimili da quelli della zona Euro (9,4%) - che però, si badi
bene, è cresciuta solo dello 0,8% - i due giganti asiatici sembrano confermare gli assunti
tradizionali. In realtà, basta non fermarsi alla superficie per scoprire una verità
sconcertante: India e Cina possono vantare una disoccupazione relativamente bassa
perché, per molti aspetti, sono ancora paesi non completamente sviluppati. Di fatto,
malgrado la grande esplosione industriale, sono ancora nazioni prevalentemente agricole,
perché in Cina l’agricoltura occupa il 38% della popolazione, in India addirittura il 52%35.
Questi numeri indicano la persistenza di un’agricoltura tradizionale a bassa tecnologia 32Rifkin 1997, 8233Dati dell’istituto di ricerca economica ZEW di Mannheim34Fonte: The Economist 201135Dati CIA World Factbook relativi al 2009.
31
richiedente un alto tasso di manodopera. In Brasile e in Russia, dove è già iniziata da
tempo la modernizzazione del settore, gli addetti all’agricoltura sono rispettivamente il 20%
e il 10%36. Una volta promossa una massiccia modernizzazione agricola, ampiamente
sostenuta da istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, anche Cina e India si
troveranno a fare i conti con lo stesso problema.
Queste considerazioni del resto non portano nulla di nuovo sotto il sole, perché è già da
tempo che si nutrono seri dubbi sulla correlazione benessere-PIL.
Nel 1996, l’ONU ha diffuso il Rapporto sullo Sviluppo Umano dell’UNDP (United Nations
Development Programs) il quale, contraddicendo l’opinione generale di politici, economisti
e media, sentenzia in modo inequivocabile, dati alla mano, che "Non c'è nessun legame
tra crescita economica e sviluppo umano": benché nel periodo 1970-85 il Prodotto
Nazionale Lordo37 sia aumentato del 40%, la povertà è cresciuta del 17% e in gran parte
dei casi – smentendo clamorosamente gli apologeti del neoliberismo – non solo la
disoccupazione non ha accennato a diminuire ma, quel che è peggio, “la crescita
economica e incontrollata sta comportando la devastazione delle foreste, l'inquinamento
dei fiumi, la distruzione delle biodiversità e l'esaurimento delle risorse naturali". Lo sviluppo
del capitalismo globalizzato viene bollato come "non sostenibile e non meritevole di
essere sostenuto” perché, oltre a non portare progressi nelle nazioni Sud del mondo, sta
pericolosamente impoverendo quelle del Nord.
Insomma, si direbbe proprio che Jean Baudrillard non esagerava affatto quando definiva il
PIL “il più straordinario bluff collettivo della società moderna”, “un’operazione di ‘magia
bianca’ che cela in realtà la magia nera di un soleggio collettivo”.
Crescita che impoverisce
Le grandi ondate migratorie dal Sud del mondo e dall’Europa orientale rappresentano uno
dei lati oscuri dello sviluppo e della globalizzazione. Genericamente le cause vengono
attribuite alla povertà e al sottosviluppo eppure, se si ragiona con i criteri tradizionali, i
conti non tornano. Come per la disoccupazione, la crescita economica dovrebbe se non
fermare almeno rallentare i trend migratori in uscita; invece in molti casi non accade nulla
36A titolo di paragone, nell’Unione Europea sono poco più del 5%. 37Il Prodotto Nazionale Lordo (PNL) è il valore dei beni e dei servizi finali realizzato in un anno dalle unità economiche (imprese,ecc.) di una nazione, che operano nel paese stesso e all’estero. Il PNL si differenzia dal PIL solo su un punto: si tratta di un aggregato nazionale e non interno.
32
di ciò, anzi la situazione addirittura peggiora. Vediamo alcuni dati riguardanti i BRIC e altre
nazioni del Sud del mondo contrassegnate da forte crescita38:
NAZIONE CRESCITA PIL
(1999-09)
TASSO
EMIGRAZIONE
(2005-10)39
Brasile 3,5% 0,2%Russia 3,9% 1,5%India 8,3% -7,6%Cina 11,4% 16,1%
Nigeria 6,3% 16,0%Bangladesh 6,2% 5,1%
Vietnam 6,8% 27,1%
Se si eccettua l’India – che comunque è la seconda nazione al mondo per numero di
emigrati – negli altri paesi l’emigrazione è cresciuta e i processi di modernizzazione e
sviluppo sono una delle cause principali, come ha spiegato molto lucidamente Luciano
Gallino ribaltando numerosi luoghi comuni e svelando una realtà molto scomoda:
Intanto, nel mondo, le forze che spingono masse di disperati a emigrare continueranno a crescere a dismisura. A chi pensasse che i contadini non esistono più, bisogna ricordare che oltre metà della popolazione del mondo, 3,2 miliardi su un totale di 6,2 miliardi di individui, è tuttora classificata dall’ONU come popolazione rurale. La stragrande maggioranza di essa, oltre il 91 per cento, è concentrata nelle regioni meno sviluppate, comprendenti più dell’80 per cento della popolazione mondiale. Questa massa di contadini, che include i familiari, è esposta da tempo a massicci processi di espulsione dalla terra. È una delle facce invisibili – agli occhi dei paesi sviluppati – della globalizzazione.Le cause dell’espulsione dei contadini del mondo dalle loro terre sono principalmente tre. La più rilevante è la razionalizzazione dell’agricoltura, ossia il passaggio dalle colture tradizionali all’agri-industria. Nei paesi in via di sviluppo, sotto la spinta dei governi stessi – cui la sferza del Fondo Monetario Internazionale chiede di esportare i prodotti agricoli per pagare debiti loro concessi – e delle imprese transnazionali, i contadini vengono estromessi dai loro campi... I campi vengono accorpati in proprietà di migliaia di ettari, mentre gli aratri tirati dal bue sono sostituiti dai trattori, i semi tradizionali da sementi geneticamente modificate, le falci dalle mietitrebbia. Da un punto di vista strettamente economico, i risultati sono strepitosi: la produttività pro capite, su quegli stessi terreni, può aumentare da 500 a 1000 volte. Provocando, però, un lieve inconveniente. Se la produttività aumenta di 1000 volte, vuol dire che
38Sono state scelte nazioni dove le migrazioni fossero imputabili il meno possibile alla partecipazione a conflitti o a gravissime tensioni interne. Per tale ragione sono stati esclusi paesi che, in base alle teorie economiche ortodosse, dovrebbero trovarsi in situazioni idilliache, vista la crescita riscontrata nel decennio 1999-2009: si pensi all’Angola (+14,4%), alla Birmania (+11,1%), alla Sierra Leone (+9,4%), all’Afghanistan (+9,0%), al Ruanda (+7,7%) o al Sudan (+7,3%). Per quanto possa sembrare incredibile, alcune delle nazioni più sfortunate del pianeta sono ampiamente capaci di rispondere ‘sulla carta’ ai tanti chiacchierati BRIC; un’altra prova del carattere menzognero del PIL come indicatore di benessere. 39Fonte: Rapporto sullo Sviluppo Umano UNPD 2009
33
per coltivare quella medesima superficie occorrono 1000 volte di lavoratori in meno. Un piccolo numero dei contadini così privati dei loro mezzi di sostentamento – forse 20, forse 50 su 1000 – potranno trovare occupazione come salariati delle imprese che hanno acquisito i campi. Gli altri debbono sbrogliarsela...Una seconda causa di espulsione dei contadini dalla terra sono i grandi progetti di sviluppo, finanziati per lo più dalla Banca Mondiale. Essi vedono in primo piano le dighe costruite sui maggiori fiumi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, nonché autostrade, oleodotti, canali di navigazione, aeroporti. Nel burocratese delle organizzazioni internazionali, le popolazioni allontanate dai loro villaggi al fine di realizzare tali mega-opere sono dette Project Affected People (PAP). Per la sola India, si stima che nel 1997 i PAP fossero oltre 21 milioni. Altri milioni di PAP si ritrovano in Brasile, in Turchia, In Cina, nella quale – per toccare un unico caso – i lavori per la diga delle Tre Gole sullo Yangtze, la più grande del mondo, alla fine priveranno della terra circa due milioni di contadini.40
In paesi come Nigeria e Sudan masse di contadini e pastori sono stati espropriati delle
loro terre con la forza, di solito senza il versamento di alcun indennizzo, allo scopo di
trivellare le loro terre per l’estrazione degli idrocarburi.
Viene spontaneo il parallelismo storico con il fenomeno della recinzione delle terre comuni
– in inglese enclosures – avvenuto in Gran Bretagna e poi nel resto d’Europa tra Seicento
e Settecento, una ‘rivoluzione agricola’ che spianò la strada a quella industriale e al
capitalismo, lucidamente descritta da Karl Polanyi ne La grande trasformazione. Anche in
quel caso, intere masse contadine furono espropriate e solo una parte riuscì a farsi
assumere come salariata, mentre la maggioranza dovette trasferirsi forzatamente nelle
città dove fu stipata in improvvisati quartieri dormitorio, ben presto regno di alcolismo,
prostituzione e criminalità. Questi eserciti di sbandati trovarono poi una parziale
collocazione nell’industria, la quale poté contare su di una manodopera vasta e in preda
alla miseria, quindi facilmente ricattabile: i romanzi di Charles Dickens e le cronache di
Friedrich Engels hanno fotografato efficacemente quel disastro sociale.
Con le dovute differenze, oggi viene applicato l’esperimento economico inglese su larga
scala e le persone coinvolte aumentano in modo esponenziale. Uno studio del 2008 del
World Resource Institute, pubblicato successivamente su Forbes, illustra come otto delle
dieci città più popolate al mondo si trovino nel Sud del mondo e le previsioni per il 2025,
basate sui trend attuali, sono inquietanti:
40Gallino 2007, 161-162
34
CITTÀ NAZIONE
POPOLAZIONE
2008 (in milioni di
abitanti)
PREVISIONE 2025 (in milioni di
abitanti)
Mumbai India 18,2 26,4Delhi India 15,0 22,5
Dhaka Bangladesh 11,9 22,0Sao Paolo Brasile 18,3 21,4
Città del Messico Messico 19,2 21Calcutta India 14,7 20,6Shangai Cina 14,5 19,4Karachi Pakistan 11,6 19,1
Si pensi che molte di queste città fino agli Settanta non raggiungevano i 5 milioni di
abitanti. In Africa lo stesso fenomeno si ripropone in proporzioni ridotte, ma il dramma è
identico: Lagos e Il Cairo superano i dieci milioni di abitanti, mentre Algeri, Città del Capo,
Johannesburg, Kano, Khartoum, Kinshasa, Nairobi si attestano tra i 3 e i 6 milioni. Il 23
maggio 2007 si è raggiunto l’apice nella storia umana, con la popolazione urbana che per
la prima volta ha superato quella insediata nelle nelle campagne.
Queste enormi megalopoli, sovraffollate e congestionate, non riescono a ‘smaltire’
l’enorme esodo dalle campagne, ragion per cui l’emigrazione in Occidente diventa una
scelta quasi obbligata.
I ‘rifiuti umani’ oggi non sono migliaia come nella rivoluzione industriale, ma milioni e le
loro mete non sono più Londra, Manchester o Liverpool, ma tutte le nazioni del Nord del
mondo, mentre la società ‘per bene’ di entrambe le epoche si caratterizza per il disprezzo
verso gli emarginati, accusati di rozzezza, violenza e inettitudine. Dominati da
un’economia mondiale cinica e tecnocratica, non c’è quindi da stupirsi se un organismo al
di sopra di ogni sospetto come la Banca Mondiale avesse annunciato per la fine del 2009
altri 90 milioni di poveri41 e che lo stesso istituto avesse già segnalato nel 2008 – cioè a
crisi appena iniziata - l’esistenza di 1,4 miliardi di persone al mondo in condizione di
povertà estrema, ossia con un reddito inferiore a 1,25 dollari al giorno42.
In una situazione del genere, l’esplosione continua in Africa di conflitti per il controllo
strategico delle risorse e il persistere di traffici economici illeciti in combutta con le
multinazionali sono la regola, come ben sa qualsiasi cittadino informato del Nord del
mondo. C’è invece meno consapevolezza sul fatto che questo fosco quadro non dipende
dalla povertà endemica dovuta ad arretratezza culturale e tecnologica, come siamo soliti
41Banca Mondiale, entro il 2010 novanta milioni nuovi poveri, Il Sole 24 ore, 5 ottobre 2009. 42Banca Mondiale, comunicato stampa n°:2009/065/DEC
35
pensare, bensì da quelle dinamiche da anni presentate come necessarie per lo sviluppo
africano:
In ultima analisi, a rendere così lucrativo lo sfruttamento illegale delle risorse è la forte richiesta delle merci e dei prodotti che se ne possono ricavare. L’enorme espansione del commercio globale e la crescita delle reti finanziarie hanno reso relativamente facile l’accesso ai mercati principali da parte dei gruppi armati, che non hanno avuto molta difficoltà a organizzare reti internazionali di contrabbando, grazie agli scarsi controlli, alle complicità esistenti fra trafficanti, all’imprenditoria e alla finanza mondiale, e grazie, infine, al lassismo dei controlli delle nazioni consumatrici43.
L’interiorizzazione dell’ideologia della crescita
Essendo sufficiente una piccola analisi critica per smontare le premesse dell’ideologia
della crescita, i suoi sostenitori devono comportarsi alla stregua di sacerdoti di una
religione, costruendo dogmi e verità rivelate ma soprattutto operando una vasta opera di
proselitismo, persuasione e se necessario di repressione delle ‘eresie’ all’ortodossia
dominante. Similmente alla Chiesa medievale, bisogna evitare ogni considerazione di
merito in favore di un astrattismo rassicurante e di argomentazioni pseudo-ragionevoli che
aprano una breccia nella coscienza delle persone per essere interiorizzate senza riserve.
C’è un documento di Confindustria, ingiustamente poco noto, redatto nel 2008 e intitolato
La crescita economica, vero bene comune (‘vero’ evidentemente in contrapposizione a
quelli ‘falsi’ della tutela del lavoro, del territorio, dell’ambiente, ecc.) che si propone come
una specie di vangelo della crescita e di cui vale la pena riportare alcuni stralci
dell’introduzione per il loro carattere ‘filosofico’ se non quasi ‘liturgico’:
La vera priorità che il Paese deve assumere è la crescita economica.Da troppo tempo l’Italia cresce poco. La crescita è insufficiente se guardiamo alle potenzialità e ai bisogni del Paese. E’ sensibilmente inferiore ai risultati delle altre nazioni industrializzate e alla media dell’Unione Europea. E’ molto lontana rispetto ai ritmi che in passato siamo stati capaci di conquistare.Bisogna saper dire la verità agli italiani, per quanto amara e spiacevole, anche durante la campagna elettorale. Non alimentare attese e false speranze che poi vengono deluse quando, giunti al Governo, si fa l’ovvia scoperta che la realtà è ben diversa dai sogni contenuti nelle promesse. La popolazione italiana è perfettamente in grado di capire, anche perché tocca tutti i giorni con mano i problemi e le difficoltà. E sa reagire in modo deciso e impegnarsi, come ha dimostrato tante volte nel passato anche recente.
43Renner 2002, citato in Carrisi 2009, 133
36
Oggi sappiamo che sono necessarie grandi scelte, anche impopolari, che non sono senza costo. Veniamo da troppi anni di non scelte. Ognuno deve essere pronto a fare la sua parte, nella consapevolezza che per un vero risanamento nessuno potrà pensare di scaricare gli oneri solo su altri soggetti.
Confindustria riconosce che c’è qualcosa di antidemocratico nella crescita44, ma come una
cattiva medicina deve essere assunta per il bene della popolazione. La prima ‘pillola’ da
mandar giù è il taglio della spesa pubblica:
Il Paese deve essere preparato ad affrontare con determinazione, senza subirle, le radicali, profonde e ancora largamente imprevedibili trasformazioni globali, sociali e ambientali che avverranno nei prossimi anni, di cui vediamo alcuni segni nei nuovi prezzi record delle materie prime. Ciò impone rapidi e drastici cambiamenti nelle politiche e nei comportamenti... La spesa pubblica corrente, tolti gli interessi, assorbe il 39,6% del PIL. Questo autentico Moloch, al quale sacrifichiamo possibilità di crescita e capacità di risanamento, va ridimensionato e riqualificato, per spostare risorse verso gli investimenti e accrescere la produttività dell’intero sistema.Dobbiamo ridurre l’enorme ammontare del debito pubblico che in Italia è il 105% del PIL, a fronte di un 60% nel resto dell’eurozona...Per affrontare davvero questi problemi è indispensabile ricominciare a crescere a ritmi almeno europei. Se dal 1992 in poi fossimo cresciuti agli stessi ritmi della media UE, oggi il nostro PIL sarebbe superiore di oltre 225 miliardi di euro. Il costo della non crescita è quindi impressionante. E’ il risultato delle tante non scelte o di scelte palesemente sbagliate, è il costo delle mancate riforme e dei tanti diritti di veto che consentono a piccole minoranze di imporsi sugli interessi generali.Il motore della crescita sono le imprese e i lavoratori che operano in mercati concorrenziali. Si deve creare un ambiente che assecondi la spinta al cambiamento, che permetta di cogliere appieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dall’apertura di nuovi mercati. Solo la più alta crescita consente di coniugare maggiore produttività e maggiore occupazione. E solo con una maggiore produttività è possibile aumentare la retribuzione reale dei lavoratori, nel settore privato come in quello pubblico.
Con la lusinga di maggiori retribuzioni, i lavoratori, alla maniera dei capponi di Renzo ne I
promessi sposi, dovrebbero competere crudelmente tra loro, rinunciando a diritti
fondamentali in cambio di qualche soldo in più, il loro obolo da immolare sull’altare della
crescita.
Per finire, un po’ di vecchia, sana saggezza neoliberista:44È curioso che, tra le 20 nazioni che hanno registrato la maggior crescita nel periodo 1999-2009, secondo il Democracy Index 2010 dell’Economist, solo sette (Sierra Leone, Buthan, Armenia, Cambogia, Mozambico e Uganda) non appartengono alla categoria ‘autoritari’ ma a quella ‘ibridi’. La prima ‘democrazia imperfetta’ – l’India – è solo ventiseiesima, mentre nessuna ‘democrazia completa’ appare tra i cinquanta paesi a maggior crescita.
37
In questo documento Confindustria indica gli ambiti chiave dove intervenire e le azioni prioritarie da intraprendere con urgenza per imprimere un ritmo diverso allo sviluppo. Alcuni interventi possono essere attuati subito e senza costi. Altri richiedono un’azione duratura, costante e coerente nel tempo. Queste azioni non hanno colore politico, non sono né di Destra né di Sinistra, come senza colorazione politica è il traguardo della crescita. La crescita economica è il vero bene comune della nazione perché crea ricchezza nell’interesse e a beneficio di tutti.
Non si tratta quindi di una proposta tra tante, bensì di una Torah dell’economia da
accettare come verità rivelata: There is no alternative, come amava ripetere Maggie
Thatcher, presto imitata da vecchi nemici di Sinistra45.
Dopo la premessa di intenti molto astratta, La crescita vero bene comune entra nello
specifico dei provvedimenti, concentrandosi su di un tassello molto importante, quello
legato agli investimenti nelle infrastrutture:
Il gasdotto dalla Russia (TAG) può aumentare la propria capacità entro il 2011, quello dall’Algeria (Transmed) entro il 2012... Per avviare un riequilibrio del mix di fonti occorre completare la riconversione a carbone degli impianti di Tor Valdaliga Nord, Porto Tolle e Vado Ligure.Per il nucleare sono tre le azioni prioritarie: partecipazione dell’Italia all’attività di ricerca e sviluppo nei reattori di quarta generazione; partecipazione italiana alla realizzazione di centrali all’estero, in particolare vicino ai confini, attivando linee di interconnessione ad hoc; realizzare impianti nucleari di nuova generazione in Italia verificando anche la possibilità di una compartecipazione utenti-produttori industriali per la realizzazione.
Il completamento del mercato elettrico renderà più competitivo il settore con un forte processo di liberalizzazione... Infrastrutture Opere prioritarie: Torino-Lione e Corridoio 5 (alta velocità Milano-Brescia, Verona-Padova-Venezia-Trieste); Brennero; Terzo Valico di Genova; alta velocità Napoli-Bari; autostrada Salerno-Reggio Calabria; Statale jonica; Pedemontana; Brebemi; ferrovia Palermo-Messina-Catania;
Si tratta delle famose ‘grandi opere’, quelle che vengono definite ‘fondamentali’ a
prescindere, necessarie per la ‘modernizzazione’ – altra parola-totem - e per non
‘rimanere esclusi dall’Europa’. I movimenti dei cittadini e gli esperti ‘dissidenti’ che tentano
vanamente di discutere sull’utilità effettiva di tali infrastrutture dati alla mano stanno solo
perdendo il loro tempo: queste opere sono fini a se stesse, il loro scopo consiste
unicamente nel rimettere in moto l’economia. Anzi, nella logica del capitalismo dei disastri,
45Ad esempio l’idea per cui la “politica economica non è di Destra o di Sinistra, ma buona o cattiva” è dell’ex cancelliere tedesco socialdemocratico Schroeder.
38
se potessero disintegrarsi subito dopo la costruzione renderebbero un servigio ancora più
grande.
Bisogna riconoscere ad Emma Marceglia di aver spiegato a suo tempo a chiare lettere
quali sarebbero stati veri i meriti del programma nucleare franco-italiano siglato dal
governo Berlusconi, poi bocciato dal referendum del 2011:
Il nucleare rappresenta una grande opportunità perché potrebbe mettere in moto investimenti pari a 30 miliardi di euro. Se lavoreremo bene, circa il 70% di tali investimenti potrebbe riguardare l'indotto italiano46.
In sostanza, l’avventura atomica era completamente slegata da considerazioni
energetiche, doveva essere un espediente per risollevarsi dalla crisi e in questo senso
assomigliava a eventi come le olimpiadi invernali o i mondiali di calcio, ossia occasioni per
realizzare infrastrutture destinate rapidamente a trasformarsi in vere e proprie cattedrali
nel deserto, ma ottime per alzare il PIL, incrementare i fatturati delle imprese e migliorare
temporaneamente i livello occupazionali. Come commentava un importante sito Web
dedicato alla finanza:
Le imprese che potranno essere coinvolte arriveranno dai settori più disparati. A parte le opere civili e la tecnologia nucleare vera e propria, opere e forniture riguarderanno componenti meccanici, elettronici, elettrotecnici, apparati elettrici, sistemi informatici di gestione e controllo, e così via. Insomma la torta è interessante e a quanto sembra c’è spazio per tutti47.
E poco importa se la torta è avvelenata.
Crescita e politica energivora
Una politica improntata alla crescita infinita presuppone elevati consumi energetici, anche
perché i costi legati all’energia rafforzano l’entità numerica del PIL. Non è certo un caso
che la frase “il consumo energetico in futuro è destinato ad aumentare” sia diventata un
leit motiv ricorrente di politici di ogni colore, del mondo accademico, imprenditoriale,
sindacale e persino di alcune associazioni ambientaliste; del resto possono vantare
l’appoggio di autorictas – alcune delle quali per nulla disinteressate alla questione – pronte
a suffragare con delle cifre gli sproloqui futuristici. Quanto aumenteranno i consumi
46 http://www.informazione.it/a/77FDB5E1-41B9-45E7-806B-1CAD143AB895/NUCLEARE-MARCEGAGLIA-OPPORTUNITA-INVESTIMENTI-PER-30-MLD-EURO47http://www.affaritaliani.it/economia/ritorno_al_nucleare_progetto_enel.html
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energetici da qui al 2030? Secondo alcune stime della IEA, del 66%; per il Congresso
mondiale dell’energia 2010, del 40%; per la Commissione Europea del 50%. I colossi
petroliferi Exxon-Mobil e BP propongono rispettivamente il 57% e il 39%. Finché ci si limita
a sparare cifre come fossero numeri del Lotto non sorgono problemi, il difficile è cercare di
giustificarli su base razionale.
Nel maggio 2005, la Direzione Generale Energia e Risorse Minerarie del ministero delle
attività produttive ha stilato un rapporto intitolato Scenario tendenziale dei consumi e del
fabbisogno al 2020, un’analisi servita da riferimento per la breve esperienza del secondo
governo Prodi e mantenuta inalterata con il ritorno al potere del Centro-Destra. In questo
documento, dall’analisi dei consumi energetici italiani del 2004, pari 195,5 Mtep (milioni di
tonnellate di petrolio equivalenti), si prevede il seguente trend:
2010: 212,0 Mtep (+8%)
2015: 226,5 Mtep (+15%)
2020: 243,6 Mtep (+24%)
Se ciò fosse vero, significherebbe che per il 2020 in Italia i consumi complessivi dell’Italia
sarebbero di circa 550 TWh maggiori degli attuali, che per intenderci equivalgono
pressappoco all’apporto energetico annuale di 45 reattori atomici di terza generazione; per
quanto riguarda l’elettricità, si ipotizza una produzione complessiva di 410 TWh, per far
fronte a un fabbisogno complessivo di 464 TWh (si passerebbe dagli attuali 5,6 MWh pro
capite a 7,7 MWh, l’odierno tasso di consumo francese sovradimensionato dal ricorso
massiccio al nucleare).
Trattandosi di una relazione tecnica e non di semplice propaganda politica i dati vanno in
qualche modo motivati. Ecco la premessa fondamentale servita da base per le previsioni
di consumo:
L’arco temporale dei dati storici, sia energetici che economici, preso in considerazione è usualmente quello che va dal 1980 al 2004, tranne nei casi, più avanti appositamente evidenziati, nei quali, sulla base di macrofenomeni di tipo economico, tecnologico o sociale, si è ritenuto più opportuno restringere il suddetto arco temporale facendolo partire dagli anni in cui i fenomeni in questione si andavano evidenziando, ai fini di una più corretta ed aggiornata previsione. Le macrovariabili economiche di riferimento prese in considerazione, ai fini del calcolo delle relative intensità energetiche, sono per i settori agricoltura, industria e terziario, il relativo valore aggiunto, per il residenziale i consumi delle famiglie, per i trasporti il Prodotto Interno Lordo (PIL) del Paese.Le intensità energetiche di settore così ottenute, per ogni fonte energetica, vengono
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estrapolate tenendo conto delle specificità di ciascun settore (come più avanti specificato) fino agli anni 2020.Per ottenere le proiezioni dei dati energetici di consumo per settore e per fonte, vengono fatte delle elaborazioni ad hoc sulle variabili economiche: più precisamente i valori aggiunti di settore ed i consumi delle famiglie vengono estrapolati sulla base degli andamenti storici dal 1980 ad oggi, che evidenziano una crescita lineare (vedi Appendice). L’andamento assunto per i valori aggiunti di settore si riflette in una crescita media annua del PIL dell’1,65% dal 2005 al 2020; si è assunto che tale crescita avvenga con i seguenti criteri: 1,4% nel 2005, 1,5% nel 2006 e 2007 e crescente dall’1,6% al 2,0% nel periodo dal 2008 al 2020, con un tasso medio annuo, in questo periodo, dell’1,7%. E’ opportuno notare che tali valori di crescita economica sono alquanto prudenziali, anche, ad esempio, in confronto a quanto previsto dall’Unione Europea, che vuole per il nostro Paese una crescita economica del 2,4% tra il 2000 ed il 2010 e del 2,2% tra il 2010 ed il 2020.
In definitiva, le stime poggiano su di una presunta analisi storica e sul presupposto
ideologico di tassi di crescita previsti a tavolino, avulsi dalla realtà. Si ragiona come se il
periodo di espansione economica iniziato dalla fine degli anni Ottanta dovesse proseguire
ininterrottamente anche nel nuovo millennio, mentre la crisi economica del 2008 ha invece
cambiato profondamente le carte in tavola. Ecco una dimostrazione pratica:
DATO RILEVAZIONE IEA 2008 PREVISIONE 2008 DIFFERENZATotale energia primaria
fornita
176,03 Mtep 206,5 Mtep -30,47 Mtep
Importazione energia
elettrica
43 TWh 168 TWh -125 TWh
Consumi finale gas
naturale
482 TWh 539 TWh -57 TWh
Consumo finale petrolio 53,2 Mtep 72,2 Mtep -19 MtepConsumo finale
elettricità
309 TWh 325 TWh -16 TWh
Le previsioni a breve termine sono completamente fallite e visto l’acuirsi della crisi dopo il
2008 è altamente improbabile che si verifichino quelle di lungo periodo. Di fronte a certi
contraddizioni di termini, si è levata qualche timida reazione interrogativa anche tra i
media mainstream; ecco quanto scriveva Maurizio Ricci su Repubblica del 13 dicembre
2010:
South Stream (progetto di gasdotto che dovrebbe collegare UE e Russia evitando il transito in paesi extracomunitari, ndr), si sostiene, è una leva cruciale per allentare, grazie al metano che mette a disposizione, la nostra dipendenza energetica. Se si fanno i conti, però, il risultato è paradossale: nell'ansia di assicurarsi risorse affidabili, l'Italia rischia di nuotare, presto, in un mare di energia superflua. A meno di non
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compiere, fin d'ora, quando gli investimenti vengono programmati, scelte delicate e difficili...La Terna, che gestisce la distribuzione dell'elettricità in Italia, stima che, al 2020, i consumi italiani oscilleranno fra i 370 e i 410 TWh. Molti giudicano queste previsioni ottimistiche. I parametri fondamentali per le proiezioni dei futuri consumi sono, infatti, il ritmo di sviluppo economico e i risparmi che può generare una maggiore efficienza nell'uso di energia. La Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, che giudica irrealistico, sulla base dell'esperienza storica, un ritmo di sviluppo annuo dell'economia italiana superiore all'1,5% l'anno, come stima la Terna, pensa che ai 400 TWh si arriverà, forse, solo nel 2030. L'Enea, che punta molto sull'efficienza, allontana questo traguardo al 2050.Supponiamo, per fare una media, che i 400 TWh di consumi vengano raggiunti dopo il 2030, quando il piano nucleare dovrebbe essere, in larga misura, già realizzato. Avremmo 300 TWh prodotti come oggi (ammesso che non ci sia anche un boom delle rinnovabili) e 100 con il nucleare [il giornalista ipotizzava uno scenario basato su ipotesi che prevedevano la costruzione di altre quattro centrali oltre a quelle già previste nell’accordo del 2009]. Tutto bene, apparentemente. Però, bisognerebbe spiegarlo a chi, in questo momento, sta investendo o pensa di investire in South Stream e nelle altre infrastrutture, progettate per portare più gas in Italia. E lo sta facendo in grande, moltiplicando gasdotti e rigassificatori. Se tutti i progetti in corso andassero in porto, l'Italia si troverebbe a disporre di una marea di metano
Come se non bastasse, già oggi circa 20 mila megawatt di potenza elettrica sono
completamente inutilizzati, pari al 34-35% della capacità installata, con impianti a gas
progettati per funzionare 5-6 mila ore l'anno che viaggiano sotto le 2.800 ore o meno.
In barba ai dati di fatto, le conclusioni dello Scenario tendenziale dei consumi cercano di
dare un alone di credibilità scientifica ai proclami dell’industria energetica:
Il sistema elettrico, per quanto in questi ultimissimi anni abbia superato la crisi di sotto capacità produttiva, continua a necessitare di nuove strutture ed infrastrutture. Nel giro di una decina di anni, infatti, il nuovo parco centrali che si va realizzando non sarà più sufficiente a provvedere in maniera sicura alla domanda di energia né tanto meno a sostenere i picchi di domanda, soprattutto estivi. La localizzazione delle nuove centrali poi, quasi tutte site al nord ed al sud d’Italia, pone un importante interrogativo sulla capacità dell’attuale rete di trasmissione a sostenere il previsto traffico: occorre provvedere per tempo per evitare di rendere inutile quanto ad oggi fatto.
Su una cosa siamo assolutamente d’accordo: è più che mai necessario ‘provvedere per
tempo’ prima che sia troppo tardi.
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Le sirene dell’ideologia della crescita: il consumismo
Abitualmente si ritiene il consumismo una patologia sociale simile alla bulimia, che affligge
persone incapaci di mantenere a freno la bramosia di possesso, un effetto collaterale del
mercato dovuto alla disponibilità sempre crescente di merci; oppure, alla maniera di
Greenspan con la crisi, la bramosia e la cupidigia sono ritenute connaturate alla natura
umana. Così facendo si minimizza il problema a un fatto di autocontrollo individuale o di
dannazione del genere umano, assolvendo tutte le storture intrinseche al sistema di
produzione e consumo.
In realtà il consumismo consiste in una vera e propria ideologia, in un sistema di controllo
sociale che persegue finalità politiche di controllo della popolazione:
Possiamo dire che il ‘consumismo’ è un tipo di assetto sociale che risulta dal riutilizzo di bisogni, desideri e aspirazioni dell’uomo prosaici, permanenti per così dire ‘neutrali rispetto al regime’, facendone la principale forza che alimenta e fa funzionare la società e coordina la riproduzione sistemica, l’integrazione sociale, la stratificazione sociale e la formazione degli individui, oltre a svolgere un ruolo di primo piano nei processi di autoidentificazione individuale e di gruppo e nella scelta e ricerca di modi per orientare la propria esistenza. Vi è ‘consumismo’ là dove il consumo assume quel ruolo cardine che nella società dei produttori era svolto dalla società del lavoro... A differenza del consumo, che è soprattutto caratteristica e attività di singoli esseri umani, il consumismo è un attributo della società48.
L’analisi storica non solo conferma queste intuizioni di Bauman ma spiega come il
fenomeno non fosse affatto inevitabile o connaturato all’avidità umana. Il consumismo è
stato pianificato a partire dagli anni Venti in USA, quando agli aumenti di produttività dovuti
all’innovazione tecnologica non faceva riscontro una dilatazione altrettanto sostanziale dei
consumi. All’epoca lo ‘stile di vita americano’ era molto diverso da quello che in tempi
recenti George Bush ha dichiarato ‘non negoziabile’: la cultura prevalente, dominata
dell’etica protestante del lavoro, aveva nel risparmio e nella parsimonia dei capisaldi
fondamentali e gran parte dei lavoratori una volta ricevuto un trattamento salariale
superiore molto spesso preferiva un maggior tempo libero a un ulteriore incremento del
reddito.
Tale sensibilità si scontrava con le esigenze espansionistiche – queste sì veramente
inevitabili – dell’economia capitalista. Nel 1925 la Commissione senatoriale per
l’educazione e il lavoro guidata da Robert Wagner tenne una serie di audizioni sui rischi di
stagnazione economica e a quel punto scattò la reazione allarmata del mondo
48Bauman 2010, 36-37.
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imprenditoriale per operare una vera e propria rivoluzione antropologica, per creare quello
che Edward Cowdrick chiamò ‘il nuovo Vangelo economico del consumo’, che ebbe tra i
suoi primi adepti il consulente della General Motors Charles Kettering e l’economista
Hazel Kyrk. In breve tempo vennero individuate le strategie di marketing per operare la
conversione alla nuova religione dei consumi:
- sfruttare i mass media operando un bombardamento pubblicitario soprattutto sulle
giovani generazioni, in cui erano meno radicati i valori tradizionali;
- svilire l’autoproduzione di beni e, attraverso le dinamiche della moda, favorire la rapida
obsolescenza dei prodotti trasformando lo spreco in valore socialmente riconosciuto;
- incoraggiare la creazione di desideri nuovi e crescenti, illudendo le classi sociale medio-
basse sulla possibilità di imitare lo stile di vita di quelle più elevate;
- valorizzare il marchio come valore intrinseco a prescindere dal prodotto.
L’introduzione del credito al consumo che, capovolgendo la concezione tradizionale,
permette di soddisfare immediatamente un acquisto prima di aver contratto tutta la somma
di denaro necessaria, rappresentò l’asso nella manica per trasformare queste premesse
ideologiche in un vero e proprio sistema totalitario di controllo delle coscienze. Non si può
pensare altrimenti leggendo la conclusione del rapporto della Commissione presidenziale
sui recenti cambiamenti economici, voluta dal presidente Herbert Hoover,
Questa ricerca ha dimostrato, in maniera conclusiva, ciò che un tempo veniva considerato teoreticamente vero: i desideri sono insaziabili; ogni desiderio soddisfatto apre la strada a un nuovo desiderio. La conclusione è che, di fronte a noi, si aprono panorami economici sterminati, e che la soddisfazione di nuovi desideri creerà immediatamente desideri sempre nuovi da soddisfare... Attraverso la pubblicità e altre tecniche di promozione si è data una sensibile spinta alla produzione... Parrebbe che si possa procedere con un crescente attivismo... La nostra situazione è fortunata e il momento di inerzia notevole49.
Alla fine della seconda guerra mondiale, lo stesso paradigma è stato integrato anche in
Europa e Giappone per poi diffondersi al resto dell’umanità con il crollo del socialismo
reale e l’avvento della globalizzazione, non senza incontrare resistenze più o meno
marcate.
49Citato in Rifkin 1997, 54
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Quando la grande trasformazione investì l’Italia, Pier Paolo Pasolini prese una posizione
molto netta e anticonformista dichiarando che la società dei consumi dovesse essere
intesa come un nuovo fascismo, persino più potente e spietato di quello mussoliniano:
Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni.Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè, come dicevo, i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane50.
Oggi possiamo apprezzare appieno i danni apportati dal consumismo: impoverimento
culturale, distruzione dei legami sociali comunitari, indebolimento delle relazioni familiari,
perdita di identità dovuta alla necessità di tenere il passo della moda o al non sapersi
adeguare ai nuovi modelli dominanti, mercificazione di tutti gli aspetti della vita compresi
quelli legati alla sfera interiore, esaltazione del denaro come fine in sé stesso ed
elevazione a virtù dell’egocentrismo e dell’accumulazione personale. La conseguenza più
evidente di questo degrado sono gli isterismi di massa che spesso superano ogni
immaginazione, come la calca di ventottomila persone che nell’estate 2011 si è riunita fin
dalle prime ore dell’alba per prendere d’assalto un nuovo centro commerciale della catena
Trony a Roma o le tre persone morte nel 2004 a Riad in un megastore dell’Ikea nel
tentativo di assicurarsi uno dei cinquanta buoni sconto distribuiti alle casse.
In caso estremo si possono delineare scenari da guerra civile: i cosiddetti riot che hanno
sconvolto Londra nell’agosto 2011 possono essere l’anteprima di uno scenario ripetibile in
altre grandi metropoli occidentali, dove orde di ragazzi della working class e della classe
50Pasolini 2007, 22-23
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media impoverita dalla crisi assalgono i centri commerciali per accaparrarsi i-phone e altri
prodotti alla moda non più alla portata dei loro portafogli, senza alcuna rivendicazione
politica ma mossi solo da rabbia e risentimento.
Proseguire o svoltare?
Una volta dimostrato che l’ideologia della crescita economica non solo non porta
benessere ma addirittura devasta il pianeta ed è fonte di povertà e degrado sociale, si può
decidere di cambiare radicalmente rotta e ricercare nuovi modelli economici, oppure
mantenere il modello e limitarsi a indici alternativi al PIL, come fanno ad esempio Joseph
Stiglitz, Amartya Sen o Jean-Paul Fitoussi. Questi economisti, per quanto sicuramente ben
intenzionati, sembrano non aver inteso la logica profonda del sistema, per il quale il PIL
che tanto si sforzano di criticare e di cui denunciano le incongruenze assurge a indicatore
assolutamente affidabile:
In quest’algebra mitica della contabilità vi può essere una verità profonda, la verità del sistema economico-politico della società della crescita. Ci pare un paradosso che il positivo e il negativo siano addizionati insieme alla rinfusa. Ma forse è semplicemente logico. Infatti la verità è che forse sono proprio i beni ‘negativi’, gli svantaggi compensati, i costi interni di funzionamento, i costi sociali dell’autoregolazione ‘disfunzionale’, o i settori secondari che della prodigalità inutile che giocano in questo insieme il ruolo dinamico di locomotiva economica... Occorre ammettere l’ipotesi che tutti questi svantaggi entrino da qualche parte come fattori positivi, come rilancio della produzione e del consumo51.
51Baudrillard 1976, 27
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Sviluppo sostenibile
‘Sviluppo sostenibile’ è un’espressione quanto mai di moda, un’etichetta che viene
appiccicata indifferentemente a soggetti molto diversi tra loro: a paladine della difesa del
territorio e delle pratiche agricole tradizionali, come Wangari Maathai o Vandana Shiva, a
economisti innovativi come Herman Daly, a movimenti ambientalisti ma anche a potenti
corporation del settore petrolifero, come vedremo. Persino Renato Brunetta e Franco
Frattini, non particolarmente noti per l’amore verso la natura, hanno collaborato alla
stesura del Manifesto per lo Sviluppo Sostenibile della FREE/Foundation for Research on
European Economy e di Amici della Terra; ma anche il Centro-Sinistra può vantare i suoi
assi. Le indagini della magistratura hanno scoperto che Luigi Lusi, il tesoriere della
Margherita balzato agli onori delle cronache per l’accusa di appropriazione indebita delle
casse del partito, effettuava versamenti sospetti a favore del Centro per il futuro
sostenibile, fondazione presieduta da Francesco Rutelli con lo scopo (dichiarato) di
promuovere lo sviluppo sostenibile.
Basterebbe ciò per svelare l’inconsistenza di tale concetto52 o nella migliore delle ipotesi
per confermare il detto popolare per cui “la strada che porta all’inferno è lastricato di buone
intenzioni”.
Le origini del concetto di sviluppo sostenibile risalgono al 1972, anno in cui venne redatto il
rapporto I limiti dello sviluppo, commissionato dal Club di Roma a un gruppo di scienziati
del MIT. Gli autori mettevano in guardia contro il pericolo dell’esaurimento delle risorse
naturali e auspicavano un’economia stazionaria che rinunciasse alle pretese di crescita
infinita; un appello che resterà però inascoltato, perché bisognerà aspettare vent’anni
prima che le problematiche ecologiche trovassero la meritata attenzione sul piano politico
con la Conferenza sul clima di Rio de Janeiro del 1992.
52Addirittura alcuni alfieri del neoliberismo si sono convertiti sulla via di Damasco dello sviluppo sostenibile. Il caso più squallido è probabilmente quello del giornalista del New York Times e premio Pulitzer Thomas Friedman, noto per il fideismo nel credo neoliberista che rasentava l’assurdo e per la cinica arroganza verso ogni limitazione delle prerogative sovrane del mercato, fossero di carattere sociale o ambientale. Oggi Friedman si è dato una colorata di verde ed è capace di dichiarazioni come questa: “I nostri genitori furono la Grande Generazione, costruirono per noi un mondo di libertà e abbondanza. Noi siamo stati la generazione delle cavallette, abbiamo mangiato tutto. I nostri figli dovranno essere la regeneration, creando un modello di crescita basato su valori sostenibili, sia per il mercato che per Madre Natura. Detto in due parole, quello che la libertà fu per i nostri genitori, la sostenibilità dovrà essere per noi e i nostri figli. Altrimenti non saremo liberi, anzi saremo ancora meno liberi di quanto non lo saremmo stati se i sovietici avessero vinto la guerra fredda. Le restrizioni che l' economia e la natura imporrebbero su di noi sarebbero severissime, a meno appunto di non trovare un modello di crescita sostenibile” (Paolo Valentino, Mercato e natura sostenibili, l’equazione di Friedman, Corriere della Sera, 15 luglio 2009). Curiosamente, l’enfasi sulla crescita è l’unica cosa che accomuna il vecchio e il nuovo Friedman.
47
Cinque anni prima di tale avvenimento, la Commissione mondiale sull'ambiente aveva
provato ad affrontare la spinosa questione della conciliazione tra crescita e preservazione
della natura in un relazione intitolata Our common future (noto in Italia come Rapporto
Brundtland, dal nome della coordinatrice della commissione, la norvegese Gro Harlem
Brundtland) in cui per la prima volta venne presentata la teoria dello ‘sviluppo sostenibile’,
presentata come
forma di sviluppo che permette si soddisfare i bisogni attuali senza compromettere la capacità delle generazione future di soddisfare i loro.
Fin qui si tratta di un auspicio di alto valore morale assolutamente condivisibile. I problemi
sorgono quando le vecchie generazioni cominciano a fare supposizioni sui bisogni di
quelle future: quanto dovranno i posteri limitare le loro pretese rispetto ai progenitori baby
boomers? Al riguardo, il Rapporto Brundtland stringe l’occhio alla tecnologia come mezzo
di emancipazione dai limiti naturali:
Il concetto di sviluppo sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, bensì imposti dall'attuale stato della tecnologia e dell'organizzazione sociale alle risorse economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane. La tecnica e la organizzazione sociale possono però essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica.
Niente paura, insomma: ci sarà un nuovo boom economico, paragonabile a quello del
secondo dopoguerra (altrimenti che ‘era di crescita’ sarebbe?) quindi le future generazioni
possono tirare un sospiro di sollievo, insieme ovviamente al mondo imprenditoriale
terrorizzato all’idea di ridurre i suoi volumi di affari. Ci penserà la tecnologia a risolvere tutti
i problemi.
Anche il Nobel per l’economia Robert Solow ha espresso a più riprese idee in linea con il
Rapporto Bruntland – è significativo che abbia ottenuto il Nobel proprio nel 1987, l’anno di
pubblicazione del Rapporto – teorizzando che un livello di consumo sostenibile può essere
assicurato tutte le volte in cui la tecnologia garantisca un grado sufficiente di sostituibilità
tra risorsa naturale e capitale fisico. Nel saggio Intergenerational equity and exhaustible
resources ha portato alle estreme conseguenze il ragionamento affermando che
non c’è in linea di principio alcun problema; il mondo può in effetti andare avanti senza risorse naturali.
48
Qualche burlone ha interpretato alla lettera l’economista statunitense, ipotizzando che in
futuro si potranno cucinare pizze sempre più grandi senza ricorrere alla farina, grazie a
forni sempre più sofisticati53.
L’OCSE, il club che comprende tutti i paesi più industrializzati a eccezione di Russia e
Cina, ha organizzato un forum nel 2008 a Parigi dove ha esposto la sua versione di
sviluppo sostenibile, basata sull’assunto per cui “la crescita economica da sola non basta
per risolvere i problemi mondiali”. Joaquin Arriola, dell’università di Bilbao, ha così
riassunto le proposte dell’OCSE in merito alla difesa dell’ambiente:
a) Dare la priorità alle tasse ecoambientali per ridurre le emissioni specifiche, invece di ricorrere alla spesa pubblica considerata “risorsa di ultima istanza”.b) Approfondire la strategia di far pagare l’inquinamento a chi lo produce.c) Ridurre l’aiuto allo sviluppo in attività che provocano direttamente il cambiamento climatico e favorire l’informazione sull’impatto climatico delle strategie di sviluppo nei paesi della periferia. d) Mantenere la cultura dell’automobile utilizzando gli agrocombustibili come fonte di energia e sviluppare tecnologie che limitino il ricorso all’uso dei cereali, semi oleosi e zucchero come materia prima degli agrocombustibili.e) Sviluppare l’energia nucleare e sotterrare i residui radioattivi a grande profondità nella terra.f) Fare ricerca su diversi fronti riguardo il cambiamento climatico, la biodiversità e l’inquinamento.g) Approfittare del ruolo delle città nella somministrazione delle infrastrutture necessarie per la gestione e il riciclaggio delle risorse, per generare nuove forme d’affari privati legati alla somministrazione di queste risorse54.
Se si eccettuano i punti sul nucleare e in parte quello sugli agrocombustibili, gli altri sono
comuni a tutti i progetti di sviluppo sostenibile, da quelli orientati al business a quelli
promossi da associazioni ambientaliste. Oltre al ruolo centrale affidato alla tecnologia,
l’idea fondamentale è che la base del risanamento ambientale passi attraverso la
quantificazione dei costi ecologici e ‘quote di inquinamento’ come quelle previste dal
protocollo di Kyoto (il cosiddetto sistema cap and trade); inquinare diventa quindi una sorta
di diritto, previo pagamento. Per il resto non una parola di critica sul sistema di produzione
e consumo mondiale, ragion per cui Serge Latouche è tra i molti a ritenere lo sviluppo
sostenibile una colossale presa in giro dell’umanità, un espediente per salvare l’ideologia
della crescita tinteggiandola un pochino di verde:
53Forse siamo troppo malevoli con Solow: mosso dalla necessità, l’ingegno umano può trovare soluzioni miracolose. Ad esempio nel 2007, quando in Messico il prezzo del mais schizzò alle stelle a causa del suo impiego come biocarburante, la popolazione più povera ricorse all’argilla per preparare la tradizionale tortilla. Chissà se un fatto del genere rientra nel modello di Solow. 54Arriola in Vasapollo 2008, 100
49
Il qualificativo ‘sostenibile’ si configura dunque come un chiaro tentativo di salvare il salvabile del paradigma dello sviluppo, ormai smarrito dopo i ripetuti fallimenti e sostituito dal paradigma della globalizzazione nell’ambito degli affari e delle istituzioni di Bretton Woods.55
Solo illazioni eco-disfattiste? Se lo sviluppo sostenibile non è soltanto uno slogan, allora i
buoni propositi devono sfociare in qualcosa di concreto, in un programma che numeri alla
mano chiarisca come si possa conciliare crescita economica e salvaguardia del pianeta e
delle generazioni future. Su quest’aspetto i sostenitori dello sviluppo sostenibile sono
molto carenti perché tale operazione è stata tentata seriamente in un solo caso e, come
vedremo, con esiti decisamente insoddisfacenti.
La IEA e lo Scenario 450
Le ultime conferenze mondiali sul clima che hanno aperto l’era post-Kyoto - Copenaghen
2009, Cancún 2010 e Durban 2011 - hanno impostato il dibattito sui cambiamenti climatici
accettando la tesi più volte ribadita dalla IPCC (Intergovernmental Panel on Climate
Change, la commissione climatica dell’ONU) secondo cui l’obiettivo fondamentale è
impedire che la temperatura media del pianeta oltrepassi i 2°C. A tal fine occorre che la
concentrazione di CO₂ nell’atmosfera non superi i 450 ppm (parti per milione), quindi le
nazioni del mondo godrebbero di un ‘bonus’ (oggi la concentrazione è intorno 380-390
ppm) per aumentare le emissioni, per poi ridurle gradualmente: in caso di infrazione di tale
limite, i climatologi hanno paventato il rischio di conseguenze irreversibili per il pianeta.
Seguendo le prescrizione dell’IPCC, la IEA si sforza da alcuni anni di elaborare un modello
energetico che coniughi lotta ai cambiamenti climatici e crescita economica, chiamato
Scenario 450, che viene allegato al World Energy Outlook (WEO) pubblicato annualmente
dall’agenzia. Nella versione divulgata nel 2011, lo Scenario 450 prevede un trend di
crescita dei consumi energetici dell’1,4% annuo fino al 2020, che dovrebbe ridursi allo
0,3% annuo tra il 2020 e il 2035; a pag. 212 del WEO 2011 appare questa tabella di
previsione dei consumi di energia primaria:
55Latouche 2008, 83
50
FONTE CONSUMO (in MTEP) % SUL TOTALE2009 2020 2035 2009 2020 2035
Carbone 3294 3716 2316 27% 26% 16%Petrolio 3987 4182 3671 33% 29% 25%
Gas 2539 3030 3208 21% 22% 22%Nucleare 703 973 1664 6% 7% 11%
Idroelettrico 280 391 520 2% 3% 3%Biomasse e
rifiuti
1230
1554 2329 10% 11% 16%Altre rinnovabili
99 339 1161 1% 2% 2%TOTALE 12132 14185 14870 100% 100% 100%
Chi è un po’ pratico della materia resterà molto perplesso riguardo al dato 2009
sull’energia nucleare, perché 730 MTEP annui vorrebbero dire più di 8100 TWh di
produzione elettrica – l’atomo non si può impiegare per altri usi – mentre la stessa IEA in
altri dispacci ci informa che le centrali atomiche contribuiscono per circa 2700 TWh; come
spiegare la contraddizione? Di fatto la IEA ragionando in MTEP (ossia milioni di tonnellate
di petrolio equivalenti) adotta un criterio, abbastanza discutibile, per cui un kWh di energia
elettrica generata da un reattore nucleare evita il consumo di un’energia primaria
equivalente moltiplicata per tre (circa) di combustibili fossili. In pratica, quello che compare
nella tabella è il rendimento ideale del reattore, che in realtà non riesce a convertire più del
30-35% del calore prodotto dalla fissione in energia elettrica, limite insuperato anche per i
nuovi reattori di terza generazione56.
Ne consegue pertanto che, anche nella previsione ottimistica del 2035, il nucleare
contribuirebbe per meno del 4% ai consumi di energia primaria, quindi le fonti fossili
sarebbero ancora più del 63% del totale. Ma aumentare del 140% la produzione di energia
atomica richiederebbe la costruzione ex novo di più di 200 centrali e la sostituzione di circa
novanta unità di prima e seconda generazione che verso il 2015 arriveranno al termine del
ciclo operativo, con paesi come Germania, Svezia, Svizzera e Giappone che hanno
annunciato la graduale uscita dall’atomo dopo il grave incidente di Fukushima. Come se
non bastasse, se anche si concretizzassero gli sforzi titanici per sostenere un simile
programma di espansione, si andrebbe incontro a una beffa terribile, perché secondo la
guida Uranium from mine to mill compilata nel 2010 dalla WNA le riserve di uranio
‘commerciale’ (estraibile a un prezzo inferiore a $80/kg) permetterebbero non più di una
ventina d’anni di autonomia, dopodiché bisognerebbe incrociare le dita e sperare che
56Ringrazio pubblicamente il professor Ugo Bardi per avermi chiarito questo aspetto in uno scambio privato per email.
51
l’industria del settore sia riuscita a mettere in commercio i fantomatici reattori auto-
fertilizzanti di IV generazione57.
Quello relativo al nucleare non è l’unico elemento controverso dello Scenario 450 ma solo
la punta di un iceberg. Ad esempio:
- 240 MTEP in più di energia idroelettrica corrispondono alla costruzione di una trentina di
maxi-dighe sul tipo di quella cinese delle Tre Gole sul fiume Yangzte, che ha costretto a
sfollare due milioni di persone e sommerso innumerevoli villaggi;
- viene definita ‘opzione chiave’ l’utilizzo delle centrali a carbone con sequestro di carbonio
(CSS), una tecnologia basata più sul desiderio di impiegare ancora il carbone che su
motivazioni ecologiche. Lo stoccaggio della CO₂ in depositi sotterranei è infatti
difficilmente fattibile e molto pericoloso;
- contrariamente ai dati esposti nella prima sezione, la IEA pospone il picco della
produzione del petrolio al 2020 e quello del gas naturale a data da destinarsi;
- la IEA punta pericolosamente sulle biomasse al fine di realizzare biocarburanti per
sopperire al picco del petrolio. Nel rapporto si precisa che, dei 2329 MTEP di energia da
biomassa, il 29% - ossia 675 MTEP – dovrebbe essere destinata alla produzione di
biocarburanti, ma già oggi che se ne consumano ‘solo’ una sessantina di MTEP58 esistono
gravi problemi di concorrenza con l’agricoltura destinata all’alimentazione umana;
- la IEA stima che la realizzazione complessiva del programma richiederebbe un
investimento di 36,5 trilioni di dollari tra il 2011 e il 2035, ossia 1,5 trilioni di dollari all’anno
– un ammontare che, per intenderci, equivarrebbe al 3,7% del PIL mondiale 2008, un
grande onere in tempi di crisi economica.
Tirando le somme, lo Scenario 450 oscilla tra previsioni fantascientifiche e scenari da film
dell’orrore. Ma riuscirebbe a venire incontro ai desideri espansionistici del business
imprenditoriale? Quanto sarebbe il tasso annuo di crescita del PIL con un aumento
energetico dell’1,4%? Non è facile dare una risposta precisa, tuttavia si possono ipotizzare
alcune stime59.
Tra il 2000 e il 2008, il PIL mondiale è aumentato del 3,2% annuo mentre il consumo
energetico del 2,7% annuo: se quest’ultimo venisse ridotto all’1,4% come previsto nello
57Tutti gli esperimenti di reattori autofertilizzanti tentati finora (Beloyarsk-3 in Russia, Monju in Giappone e Superphénix in Francia) sono miseramente falliti, a causa dell’elevata pericolosità nel trattamento del plutonio.58Stima del BP Energy Outlook 2030 59I dati successivi sono stati ricavati da IEA Statistics - CO₂ emissions from fuel combustion 2010
52
Scenario 450, mantenendo anche per il 2011-2020 la medesima intensità energetica si
avrebbe una crescita dell’1,6% di per sé non particolarmente esaltante60. Tuttavia su
questo misero risultato grava come un macigno la necessità di contenere le emissioni di
CO₂, che per lo Scenario 450 dovrebbero attestarsi a 31,9 Gt (giga-tonnellate, miliardi di
tonnellate); cioè ‘solo’ 3,1 Gt più del 2009, mentre nel 2000-2008 l’aumento è stato di 8,4
Gt. L’efficienza tecnologica (il rapporto CO₂ /PIL) dovrebbe fare un balzo in avanti del 20%
in pochi anni, e ciò sembra difficilmente fattibile considerando la preponderanza ancora
assegnata alle fonti fossili.
Per questi livelli modesti di crescita, l’umanità dovrebbe spingersi fino ai limiti teorici di
inquinamento, nella speranza che le teorie dei climatologi reggano alla dimostrazione
pratica, e imbarcarsi in programmi energetici tanto ambiziosi quanto sconclusionati sul
piano politico e sociale. L’assurdità è tale che neppure la IEA sembra credere più di tanto
alle sue stesse proposte (pag. 239):
Ogni anno bisognerebbe costruire circa 27 GW di reattori nucleari, che necessitano un’accettazione diffusa di questa tecnologia. Altre tecnologie che sono state prese in esame, come le gradi dighe e i biocarburanti, incontrano resistenze da parte dell’opinione pubblica a causa delle potenziali conseguenze ambientali e delle problematiche legate alla sostenibilità... Dal momento che implementare lo Scenario 450 sarebbe già estremamente impegnativo, è assai difficile pensare di sviluppare la tecnologia ancora più rapidamente, modificando sia i comportamenti individuali che la pianificazione urbana.
Non è tutto verde ciò che luccica
Una delle peggiori distorsioni perpetrate dal sistema mediatico è stato quello di ridurre i
problemi ecologici a una questione di fonte energetica, a una lotta tra paladini del nucleare
o delle rinnovabili, ammorbando l’opinione pubblica con migliaia di dibattiti di dubbio valore
scientifico degenerati in chiacchiere da salotto se non peggio. E bisogna ammettere che i
partiti verdi e le associazioni ambientaliste non sono affatto esenti da colpe.
In realtà, la vera discriminante è tra ritenere il riscaldamento climatico l’unica incognita per
l’umanità e invece pensare che il pianeta stia affrontando una crisi ecologica-sociale molto
più complessa, di cui l’effetto serra è solo una delle componenti; tra pensare che la
soluzione consista solo nel dotarsi di tecnologie ‘pulite’ oppure capire che è arrivato il
momento di progettare e implementare nuovi paradigmi politici ed economici, quindi anche
60Confindustria definiva nel 2010 l’Italia ‘malata di poca crescita’ perché stentava ad arrivare al 2% (Bagnoli Roberto, L’Italia malata di poca crescita, Corriere della Sera 17 dicembre 2010)
53
energetici. I sostenitori del nucleare, nel 99% dei casi, puntano sulla necessità di
mantenere l’attuale livello di consumi e quindi il business as usual, ma qualche guru
ambientalista non è da meno, con la differenza che si propone lo stesso scopo ricorrendo
alle rinnovabili. Consideriamo un esempio famoso.
Lester Brown, presidente dell’Earth Policy Institute, è ritenuto uno dei maggiori paladini
dell’ambientalismo; la prefazione all’edizione italiana del suo libro Piano B 3.0 è stata
curata da Beppe Grillo mentre quella di Piano B 4.0 da Loretta Napoleoni. In quest’ultima
Brown propone una vera e propria ‘economia di guerra’ (testuali parole) in modo da
passare dagli attuali 1600 GW di potenza generati dall’idroelettrico e dalle rinnovabili a
oltre 9000 GW nel 2020. Entrando nel dettaglio, prevede di aumentare la potenza
dell’idroelettrico di 405 GW, pari alla capacità di 21 dighe sullo Yangtze, e addirittura di
2800 GW l’eolico, l’equivalente circa di un milione di maxi pale eoliche. Obiettivi quindi non
meno ambiziosi – e quindi infattibili - di quelli dello Scenario 450.
Al pari di Greenpeace, Brown è favorevole alla costruzione di Desertec, un progetto
patrocinato dal Club di Roma e sviluppato dal consorzio DII GmbH/Desertec Industrial
Iniziative, che prevede di costruire centrali solari termodinamiche ed eoliche nei deserti
dell’Africa settentrionale, per un investimento pari a 400 miliardi di euro in dieci anni; è un
convinto sostenitore anche dei maxi impianti fotovoltaici da 800-100 mq, realizzati da
aziende come la Sunedison, che sottraggono terreni all’agricoltura creando disagi alle
popolazioni, per di più senza promuovere un’occupazione locale perché solitamente viene
impiegato esclusivamente personale interno all’impresa.
Con una visione simile, non sorprende che Brown manifesti alcuni stereotipi tipici degli
sviluppisti mainstream. Ecco ad esempio come liquida il problema dell’impatto ambientale
dei maxi parchi eolici:
Altri sono critici a causa dell’impatto sul paesaggio. Quando alcuni guardano una centrale eolica, percepiscono un degrado del panorama. Altri ci vedono una fonte di energia che salverà la civiltà. Sebbene vi siano problemi legato alla sindrome NIMBY (Non In My BackYard, “non nel mi giardino”), la risposta PIMBY (Put in My BackYard, “mettila nel mio giardino”) è sempre più diffusa... Ciò non sorprende, visto che i posti di lavoro che si creano, i diritti e i proventi dalle tasse provenienti dalle turbine eoliche sono i benvenuti nelle comunità locali61.
Oltre alla riproposizione dell’odiosa teoria della sindrome NIMBY – quella di cui vengono
accusati quotidianamente gli oppositori delle ‘grandi opere’ - rivediamo i soliti miti della
61Brown 2010, 167
54
tecnologia salvatrice e il dogma della subordinazione dell’ambiente alle ragioni
economiche, edulcorati e inseriti in una cornice eco friendly.
Malgrado in Piano B 4.0 vengano proposte soluzioni anche per la lotta alla fame e alla
povertà, queste assumono quasi sempre un carattere tecnico-pratico, senza mettere in
discussione più di tanto i fondamenti del sistema politico ed economico, per cui non
sorprendono gli apprezzamenti ricevuti nelle alte sfere. Brown è stato definito dal
Washington Post “uno dei più influenti opinionisti del mondo”, ha partecipato al Congresso
mondiale dell’energia 2010 insieme ai colossi industriali del settore e tra i finanziatori suoi
e dell’Earth Policy Institute compaiono realtà non profit legate a doppio filo alle grandi
multinazionali, come le fondazioni Rockfeller e Turner. In Cina le opere di Brown non solo
non hanno subito censura – a differenza di quanto capitato ad altri ecologisti - ma Piano B
2.0 ha ricevuto un premio letterario nel 2005 e addirittura è stato citato dal premier Wen
Jiabao a più riprese in articoli giornalistici e interventi pubblici: un riconoscimento davvero
singolare per un ambientalista, essendo stato ottenuto dall’uomo politico che ha
consegnato alla Cina il triste primato di maggior emettitore al mondo di CO₂. In perfetta
sintonia con la mentalità dello sviluppo sostenibile, il governo cinese obietterebbe di aver
intrapreso un cammino ecologicamente virtuoso sconosciuto all’Occidente, avendo
investito dopo la crisi economica ben il 7,1% del PIL (circa 170 miliardi di dollari) nello
sviluppo delle energie rinnovabili, contro l’1,8% degli USA e lo 0,9%% dell’Europa62.
Contrariamente alle illusioni di molti commentatori63, l’obiettivo reale è di affiancarle alle
fonti tradizionali al fine di sostenere l’impetuosa crescita. Non si spiegherebbe altrimenti
perché si punti su infrastrutture faraoniche ad alto impatto ambientale, come il maxi-parco
eolico di Jiuquan, per cui è prevista una potenza di 10 GW (ossia quindici volte più elevata
di quella della più grande centrale eolica attualmente esistente) o i 13 GW di progetti di
centrali solari in stile Desertec stanziati nel 2009. E soprattutto non si spiegherebbe
perché i piani energetici cinesi continuino a sostenere il carbone come principale risorsa
strategica.
Il realismo richiede quindi di abbandonare le visioni manichee sulle rinnovabili, che
potevano essere vere 10-15 anni, quando le grandi corporation del settore energetico
erano interessate solamente a fonti fossili e nucleare (oltre alle grandi dighe) e quando le
teorie negazioniste sull’influenza umana nel riscaldamento globale del pianeta trovavano
ancora sufficiente credito:
62Cianciullo e Silvestrini 2010, 2163Il solito Thomas Friedman ha offerto una delle sue perle di saggezza sul New York Times del 27 settembre 2009 scrivendo che la ‘rossa Cina sta per diventare verde’.
55
È istruttivo osservare come i fautori a oltranza del presente ordine economico e sociale abbiano con realismo prontamente mutato condotta; inizialmente essi hanno negato l’esistenza di un qualsiasi indizio di interferenza nociva con l’ambiente. Costoro sostenevano che le crisi in ambito economico e sociale dovessero considerarsi fisiologiche e che i danni all’ambiente, alla salute, all’ecosistema fossero totalmente inesistenti, al più irrilevanti; oppure, se rilevati e quindi non contestabili, andassero ascritti a fattori estranei all’azione dell’uomo. Di fronte all’aggravarsi della crisi il piano è cambiato; si ammette la gravità della congiuntura e la si cavalca. Cioè si è elaborata una strategia per cui dopo aver provocato guasti si può lucrare ancora, travestendosi da addetti alle riparazioni64.
Oggi è molto più conveniente intraprendere vaste operazioni di marketing per la
promozione dello sviluppo sostenibile (Texaco, Suez o Dupont, ad esempio, tra le aziende
più distruttive nei confronti dell’ambiente, fanno parte del World Business Action For
Sustainable Development) e cercare di mettere le mani sulle fonti rinnovabili in modo da
utilizzarle all’interno dei consueti paradigmi di sviluppo: General Electric, Exxon Mobil,
Shell e persino Areva (la multinazionale francese del settore atomico), solo per fare alcuni
nomi, sono impegnate nell’eolico e nel solare. Come ha notato saggiamente Hervé Kempf,
queste aziende portano avanti progetti ‘verdi’ assolutamente minoritari rispetto a quelli
condotti sulle fonti energetiche tradizionali, a scopo pubblicitario e per darsi un’aurea di
credibilità di fronte all’opinione pubblica: “In quest’ottica, lo sviluppo delle energie
rinnovabili è soltanto un alibi ecologico per una politica immutata, un contrafforte per il
capitalismo che distrugge l’ambiente”65.
In Italia assistiamo addirittura al paradosso per cui diventano ‘sostenibili’ persino le fonti
fossili. Gian Battista Merlo, presidente di ExxonMobil Mediterranea, intervistato da a
Nuova Energia – Il periodico dello sviluppo sostenibile, dopo aver premesso che
Per il futuro ci aspettano due grandi prove. La prima consiste nel rispondere al crescente fabbisogno di energia che il mondo richiede per il suo sviluppo economico e sociale, soprattutto nei Paesi oggi meno avanzati; la seconda è quella di riuscire a farlo in modo sostenibile, salvaguardando l'ambiente
ha poi platealmente calato la maschera svelando che cosa intendono per ‘sostenibilità’ le
corporation:
64Cosenza 2010, 7765Kempf 2010, 87. A riprova della correttezza del giudizio di Kempf, società come Exxon Mobil e Shell svolgono una fortissima attività di lobby nel Congresso statunitense per bloccare le iniziative volte al taglio delle emissioni di gas serra.
56
A meno di fluttuazioni marginali sulle singole componenti, tutte le previsioni concordano sul fatto che petrolio e gas resteranno ancora le maggiori fonti di energia per alcuni decenni a venire, coprendo circa il 60% della domanda. Le nostre stime prevedono un aumento al 2030 rispetto ad oggi di circa 76 milioni di barili/giorno di petrolio e gas, cioè circa 8 volte la produzione attuale dell'Arabia Saudita. Le ragioni per cui petrolio e gas rimarranno le fonti energetiche più diffuse sono sostanzialmente la loro economicità e la loro versatilità.In forte aumento soprattutto il gas, il cui mercato globale avrà una crescita media del 2,2% all’anno da qui al 2030, contro l'1,5 del petrolio. Certamente le centrali elettriche bruceranno più metano (circa il 40% della domanda di gas), il cui commercio crescerà notevolmente. L'evoluzione tecnologica renderà sempre più competitivo il gas naturale liquefatto (GNL) e assisteremo alla crescita del numero di terminali di ricezione, stoccaggio e rigassificazione, soprattutto in Europa e Nord America. La disponibilità di gas da fonti sicure e a costi competitivi avrà importanza strategica per lo sviluppo industriale e il benessere di un Paese e chi sarà più efficiente e rapido nell'adeguarsi al crescente mercato del GNL godrà di vantaggi competitivi66.
L’interesse per il GNL e i rigassificatori è sintomatico di come lo sviluppo ‘sostenibile’
finisca stranamente per coincidere con quello ‘realmente esistente’. I rigassificatori
appartengono alla stessa categoria di grandi opere di cui fanno parte TAV e MOSE, ossia
infrastrutture tenacemente sostenute da Destra e Sinistra nonostante le vibrate resistenze
della popolazione67. A differenza del nucleare68, l’atteggiamento verso i rigassificatori è
stato sicuramente molto più bipartisan. Da ministro dello sviluppo del secondo governo
Prodi, l’attuale segretario del PD Bersani aveva già sostenuto la necessità di costruire una
rete di rigassificatori, e i vertici nazionali di Centro-Destra e Centro-Sinistra si sono
mostrati compatti nel sostenere la costruzione di impianti come quello di Porte Empedocle,
malgrado le reazioni contrarie a livello locale: il giro di affari del resto va ben oltre l’aspetto
energetico. La CMC, la cooperativa ravennate vicina ai DS e poi al PD, si è aggiudicata il
mega-appalto per il raddoppio della strada statale 640 Agrigento-Caltanissetta, che ha
visto l’assegnazione dei numerosi subappalti alle ditte edili del luogo. Anche i partiti
sostenitori dei gruppi no-gas hanno spesso mostrato un atteggiamento non sempre
coerente: nel suo libro C’è un problema con l’Eni, l’ex giornalista di Liberazione Sabina
66Dario Cozzi, Merlo: Pronti a raccogliere le grandi sfide dello sviluppo sostenibile, a Nuova Energia – Il periodico dello sviluppo sostenibile, www.nuova-energia.com/index.php?option=com_content&task=view&id=61&Itemid=87. 67Oltre all’impatto ambientale dei rigassificatori, esistono forti rischi dovuti all’instabilità del GNL e alla sua notevole potenza esplosiva. 68In realtà anche dentro il Centro-Sinistra i simpatizzanti del nucleare erano numerosi e non si limitavano ai sostenitori dichiarati (come Umberto Veronesi, Chicco Testa, Franco De Benedetti, Pietro Ichino, Tiziano Treu e Margherita Hack, firmatari della lettera aperta in favore del nucleare apparsa su il Riformista dell’11 maggio 2010). Un cablogramma intercettato da WikiLeaks rivela che nel 2007 Pierluigi Bersani, allora ministro per lo sviluppo economico, firmò con il Segretario USA all’Energia Bodman, un accordo bilaterale di partnership sulla ricerca e lo sviluppo dell’energia nucleare; Bersani si impegnava anche a favorire la creazione un clima di consenso nel paese a favore dell’atomo.
57
Morandi denuncia di aver ricevuto pressioni da Alfonso Gianni (allora dirigente di
Rifondazione Comunista e sottosegretario allo sviluppo economico) in seguito ad alcuni
articoli polemici apparsi sull’organo del Prc69.
Greenwashing e vera sostenibilità
Ma in definitiva che cosa significa ‘sostenibilità’? Non emettere gas serra? Non intossicare
aria, acqua e terra con sostanze artificiali? Oppure, come sostenne un direttore della
TESCO, “un nuovo modo per fare affari”? Più si abusa del termine più la confusione regna
sovrana.
I nuclearisti molto spesso etichettano come ‘sostenibile’ la loro energia perché la fissione
atomica non produce gas serra e le centrali liberano quindi nell’atmosfera solo vapore
acqueo70. Se detta in buona fede, si dimostra la più totale ignoranza del ciclo dell’energia
nucleare e sorprende che persone sempre pronte a denunciare i risvolti ecologicamente
negativi delle energie rinnovabili – ad esempio gli inquinanti processi di purificazione del
silicio per produzione di celle fotovoltaiche – siano totalmente ignari di quelli correlati alla
loro tecnologia preferita.
L’estrazione dell’uranio è un’attività ad alto consumo di energia e di acqua, che altera
pesantemente il territorio e mette a rischio la salute dei lavoratori a causa delle emissioni
di radon, gas nocivo per la salute umana. Il Niger è l’esempio lampante dei danni provocati
da tale attività: da anni martoriato da conflitti interni e guerre civili, lo stato centrafricano
presenta l’indice di sviluppo umano tra i più bassi del mondo, un tasso di denutrizione
elevatissimo, una mortalità infantile eccezionale (più di duecento bambini su 1000
muoiono tra gli uno e i quattro anni di età) e l’estrazione di uranio condotta per decenni dai
francesi di Areva sicuramente pesa in questa tragedia. Greenpeace, in collaborazione con
il laboratorio francese indipendente Criirad e la rete di ONG Rotab, ha condotto alcuni
studi dove si evidenzia come Areva abbia eseguito le operazioni in modo negligente,
rilasciando sostanze radioattive nell'aria, infiltrando le falde acquifere e contaminando il
terreno intorno alle città minerarie di Arlit e Akokan.71 In ogni caso, il solo fatto di aver
impiegato in 40 anni ben 270 miliardi litri di acqua (6,75 miliardi di litri all’anno) ha originato 69L’influenza dell’ENI sui vertici politici e sui media è vista con sospetto da molte fonti autorevoli. Nel novembre 2010, l’organizzazione WikiLeaks ha pubblicato alcuni cablogrammi inviati dall’ex ambasciatore statunitense in Italia Ronald Spogli, alcuni dei quali molti critici nei confronti della posizione dominante assunta dall’ENI all’interno del governo e sui media. 70A onor del vero rilasciano anche Trizio e Carbonio 14, sui quali pesano forti sospetti per la salute umana (Baracca e Ferrari Ruffino 2011, 257). 71Nel 2010 Areva ha ammesso le proprie responsabilità e si è impegnata a bonificare le zone colpite, dopo aver disatteso questo compito nel 2008.
58
sicuramente conseguenze tragiche, in un paese occupato per due terzi dal deserto dove le
temperature sono tra le più alte registrate sul pianeta.
I problemi della fase finale del ciclo atomico non sono da meno: le scorie nucleari hanno
lunghissimi tempi di decadimento radioattivo (intorno ai migliaia di anni) e a oggi non
esiste un sito di stoccaggio definitivo, creando perciò un pesante fardello per l’ambiente e
le generazioni future. Non si può immaginare nulla di più lontano dallo sostenibilità.
Se la presunta sostenibilità del nucleare lasciava adito a pochi dubbi, molti resteranno
sorpresi dallo scoprire che tante soluzioni commerciali etichettate green in realtà sono
estremamente dannose per l’ambiente, come ha sperimentato di persona Gunther Pauli, il
pioniere della cosiddetta blue economy.
Pauli, ispirato dalle idee innovative di Lester Brown, negli anni Ottanta fondò la Ecover,
azienda specializzata in detergenti completamenti biodegradabili che sostituivano i
tensioattivi artificiali con altri ricavati dalla palma da olio. Quando l’innovazione cominciò a
imporsi sul mercato, Pauli scoprì con orrore che i suoi prodotti stavano contribuendo alla
deforestazione dell’Indonesia e all’estinzione dell’orangutan. Inconsapevolmente, la sua
impresa si era macchiata di greenwashig, termine che indica l'ingiustificata appropriazione
di virtù ambientaliste. Pauli capì che la biodegradabilità non implica di per sé la
sostenibilità, per la quale ideò invece una sua personale definizione: “fare di più con quello
che si ha”, rivedendo quindi il modello di business. Per questa ragione, ha condannato
come greenwashing l’utilizzo di colture dedicate alla realizzazione di biocarburanti e
plastiche biodegradabili, oppure l’impiego di materiali rari e costosi per moduli fotovoltaici
e torri eoliche.
Integrando la visione di Pauli con l’auspicio del Rapporto Brundtland, secondo cui occorre
trovare "equilibrio fra il soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere la
possibilità delle future generazioni di sopperire alle proprie", si possono gettare le basi per
la ricerca della vera sostenibilità, di cui ci occuperemo nella quarta parte.
Uscire da qualunque crescita per salvare il pianeta.
Malgrado certe dichiarazioni ufficiali che trascendono la demenzialità, è davvero possibile
che chi occupa le alte sfere della politica e dell’economia mondiale sia talmente ottuso da
ignorare l’esistenza del problema ambientale? Il governo USA che, come garanzia dai
59
rischi dell’effetto serra, suggeriva di “modificare la radiazione solare”72 credeva veramente
a ciò che stava proponendo? Sono talmente cieche e ignoranti le classi dirigenti mondiali?
Malgrado l’apparenza, diversi indizi lasciano intravedere una preoccupazione concreta.
Nel 2005 l’allora ministro del Tesoro britannico Gordon Brown chiese a Nicholas Stern,
economista della Banca Mondiale, di stilare un rapporto sugli effetti economici dei
cambiamenti climatici, che Stern ha poi utilizzato come base per il libro Un piano per
salvare il pianeta, presto diventato una Bibbia dello sviluppo sostenibile. Nel febbraio
2004, il settimanale britannico The Observer rivelò l’esistenza di un rapporto segreto del
Pentagono per il presidente Bush in cui i pericoli ambientali erano considerati “più
pericolosi di Al Qaeda” per la sicurezza nazionale americana. Infine non bisogna
dimenticare che l’ex vicepresidente USA e Nobel per la Pace Al Gore, balzato agli onori
della cronaca per la partecipazione al documentario ecologista Una scomoda verità
(vincitore di due premi Oscar) è stato per molti anni punto di riferimento di lobby e
potentati economici – l’Amministrazione Clinton, di cui Al Gore era vice, è stata
determinante per l’ascesa del neoliberismo – ed è difficile immaginare che ora siano del
tutto estranei alle sue battaglie ambientaliste. Allora come si spiega la pericolosa
svogliatezza che rischia di condannare in eterno il pianeta?
Il problema fondamentale è che la ristretta super-classe che governa il mondo trae il suo
privilegio dalle attività responsabili della devastazione ambientale. Interrompere il
meccanismo della crescita illimitata vorrebbe dire inceppare l’intero sistema economico e
sovvertire gran parte delle gerarchie esistenti. Ne consegue perciò che alle preoccupazioni
per la salute del pianeta siano anteposte quelle per la preservazione dell’ordine
dominante, per cui si ignora o si ridimensiona il problema – magari foraggiando qualche
scienziato ‘eretico’ capace di affermare che i cambiamenti climatici sono dovuti a strane
alterazioni dell’attività solare, e assicurandogli grande visibilità presso i media – oppure si
elabora una visione ambientalista molto miope etichettandola con la parola magica
‘sostenibile’, attuando al più qualche misura palliativa.
Non è un caso che il problema ecologico venga ridotto al riscaldamento climatico dovuto
all’emissione dei gas serra (l’approccio di Stern), l’unico aspetto dove la tecnologia può
dare un apporto concreto, estromettendo altri ugualmente importanti come la perdita di
biodiversità che invece richiederebbero la revisione radicale dello stile di vita occidentale e
delle metodologie di produzione, unica reale via di salvezza. Ma ciò, come sostengono
giustamente Hervé Kempf e Daniel Tanuro, può essere compatibile con l’esistenza del
72E’ quello che fece l’amministrazione Bush in un promemoria inviato all’IPCC.
60
mercato ma non con il capitalismo, un sistema economico che non può ammettere uno
stato stazionario ma deve incessantemente espandersi. È per tale ragione che, qualsiasi
alternativa si voglia trovare allo logica della crescita infinita e delle sue versioni
politicamente corrette (come lo sviluppo sostenibile, l’economia dello stato stazionario o le
teorie della post-crescita) essa dovrà inevitabilmente emanciparsi dalle pratiche e dalla
cultura del capitalismo.
.
61
Una nostalgica utopia negativa: la socialdemocrazia
Molte persone, simpatizzanti di Sinistra ma non solo, rimpiangono apertamente il
capitalismo della ricostruzione post-bellica che spianò la strada al boom economico degli
anni Sessanta e parallelamente consentì l’ampliamento dei diritti sociali, civili ed
economici: un’epoca non solo di ridistribuzione della ricchezza e di mobilità sociale, ma
anche di sostanziale ottimismo verso il futuro e di grande passione politica, molto diversa
da quella attuale, apatica e dominata da insicurezza, clientelismo e dove il compito dello
Stato sembra unicamente quello di rastrellare denaro in nome del bene supremo della
bilancia dei pagamenti. Senza demonizzare alcunché, è giunto finalmente il momento di
abbandonare ogni mitizzazione: benché molte conquiste rimangano dei capisaldi
irrinunciabili, non si può prescindere da un’analisi critica di quegli anni per comprendere
alcuni importanti errori che hanno influenzato inevitabilmente le fasi storiche successive,
compresa quella attuale. Si potrebbe liquidare immediatamente l’argomento ribadendo
che, trattandosi di una delle tante forme di economia basata sulla crescita – anzi,
storicamente parlando forse della migliore economia di crescita possibile - la
socialdemocrazia73 di fatto non sia intrinsecamente sostenibile. Tuttavia, per non covare
rimpianti immotivati, è bene analizzare un po’ più a fondo quel periodo storico, scoprendo
aspetti troppo spesso trascurati che fanno riflettere su certi giudizi tradizionali.
L’insostenibile ricostruzione socialdemocratica
Malgrado gli stravolgimenti dell’era neoliberista, il benessere europeo è ancora
strettamente connesso alle politiche socialdemocratiche attuate nel secondo dopoguerra
dalle principali nazioni del continente. Con lievi sfumature da paese a paese, venne
adottato come paradigma per la ricostruzione dell’Europa sotto l’egemonia statunitense
una ricetta keynesiana basata su grandi investimenti pubblici a sostegno dei mercati
interni, accompagnata a un progressivo accordo con le forze sindacali per migliorare le
condizioni della classe lavoratrice, creando le premesse per un aumento dei consumi che
originasse una congiuntura economica favorevole. In un simile contesto di ricostruzione
seguire dottrine liberiste sarebbe stato del tutto insensato, anche perché la necessità di
contenere la minaccia ideologica comunista non ammetteva fallimenti di alcun genere:
73Per comodità in questo capitolo eviteremo le disquisizioni terminologiche usando i termini ‘socialdemocratico’ e ‘keynesiano’ sostanzialmente come sinonimi, indicando quelle politiche dove lo Stato sostiene l’attività economica allargando la fascia dei diritti sociali la distribuzione del reddito, allo scopo di sostenere la domanda aggregata e la crescita dei consumi.
62
occorreva dimostrare che il capitalismo di stampo americano non era egoista ed elitario,
ma si faceva carico di migliorare il benessere di tutti gli strati sociali, similmente a quanto
accaduto negli USA negli anni Trenta con il New Deal roosveltiano74. Nel discorso
inaugurale del secondo mandato presidenziale Harry Truman fu assolutamente esplicito:
Per la prima volta nella storia, l’umanità ha le conoscenze e la capacità di alleviare le sofferenze di questi popoli. Gli Stati Uniti eccellono tra le nazioni nello sviluppo di tecniche scientifiche e industriali. Le risorse materiali che possiamo permetterci di utilizzare per l’assistenza di altri popoli sono limitate. Ma le nostre inquantificabili risorse di conoscenze tecniche sono in costante aumento e sono inesauribili.Io credo che dovremmo mettere a disposizione dei popoli che amano la pace i vantaggi del nostro bagaglio di conoscenze tecniche per aiutarli a realizzare le loro aspirazioni ad una vita migliore. E, in cooperazione con altre nazioni, dovremmo favorire gli investimenti di capitale in settori che necessitano di sviluppo. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo a produrre, attraverso i loro stessi sforzi, più cibo, più vestiti, più materiali per l’edilizia abitativa e più in energia meccanica per alleggerire i carichi.
Ecco quindi la straordinaria ‘generosità’ del piano Marshall - anche nei confronti degli ex
nemici Germania, Italia e Giappone – e il ricorso a strategie di pianificazione economica
che ancora negli anni Trenta sarebbero state bollate come ‘socialiste’ e che adesso invece
erano pensate allo scopo di rafforzare il capitalismo. In alcuni casi vennero addirittura
imitate misure precedentemente sperimentate in URSS, che già aveva condotto una
massiccia opera di modernizzazione prima dello scoppio della guerra.
Lo storico inglese Eric Hobsbawn ha definito il periodo 1950-65 ‘età dell’oro’ della crescita
economica, a suo giudizio dovuta soprattutto alla concertazione tra imprenditori e parti
sociali:
Questa politica si fondava anche su un tacito o esplicito accordo tra gli imprenditori e i sindacati per contenere le richieste dei lavoratori entri limiti che non intaccassero i profitti nel presente né le prospettive di alti profitti nel futuro, profitti tali da giustificare gli enormi investimenti senza cui la crescita spettacolare di produttività dell’Età dell’oro non sarebbe potuta avvenire... Questo patto sociale era accettabile per tutte le parti in causa. I datori di lavoro, che non si preoccupavano molto di pagare salari elevati in tempi di espansione e alti profitti, accolsero con favore la regolare prevedibilità di contrattazioni che facilitavano la programmazione. I lavoratori, a loro volta, ottenevano benefici aggiuntivi, nonché misure assistenziali sempre più estese e generose... Le economie dei paesi industriali capitalistici andavano a gonfie vele,
74Secondo molti storici, Luigi Einaudi nel dopoguerra fu emarginato da incarichi di governo non solo per la diffidenza della Sinistra ma su pressione dell’Amministrazione statunitense preoccupata dalle sue idee liberiste. L’elezione a presidente della Repubblica di fatto consistette in un prestigioso promoveatur ut admoveatur.
63
se non altro perché per la prima volta (al di fuori del Nordamerica e, forse, dell’Australia) si formò un’economia di consumo di massa, grazie alle condizioni di pieno impiego e di costante crescita dei salari reali, garantiti da misure di sicurezza sociale che venivano finanziate con l’aumento delle entrate fiscali75.
In questo contesto si radicò la concezione dello stato sociale (welfare state) e ideali come
la previdenza sociale, l’istruzione pubblica e l’assistenza sanitaria gratuita diventeranno
dei cardini della società europea occidentale tenacemente difesi dalla popolazione, a
differenza di altri provvedimenti di questo periodo (come la nazionalizzazione dell’energia
e delle telecomunicazioni) fagocitati dall’ondata neoliberista degli anni Novanta. La
crescita economica inoltre sancì l’inizio della società dei consumi, dove beni in precedenza
appannaggio di ristrette élite (automobile, televisore, elettrodomestici, ecc.) divennero
accessibili alle masse, grazie al connubio tra maggior potere di acquisto e diritti sociali
garantiti dallo Stato. Persino un paese come l’Italia, uscito devastato dalla guerra, ottenne
risultati strepitosi: all’inizio degli anni Sessanta il reddito nazionale era raddoppiato
passando da diecimila a ventimila miliardi di lire; la quota dell’industria tra il 1952 e 1962
incrementò dal 27% al 44% del PIL, il cui tasso di crescita nei primi anni Sessanta si
attestò anche sopra il 6%, con una punta del 6,8% nel 196176; aziende come Ignis, Indesit,
Olivetti e FIAT si rivelarono tra le più fiorenti del Mercato comune europeo.
Questa ’età dell’oro’, basata su compromessi politici a largo raggio e su di una situazione
socio-economica molto particolare come quella del dopoguerra, non poteva però durare in
eterno:
Economicamente quell’equilibrio dipendeva da una coordinazione fra la crescita della produzione e i guadagni che tenevano stabili i profitti. Una flessione della crescita continua della produzione e/o una crescita sproporzionata nei salari avrebbero prodotto una destabilizzazione. Il sistema si reggeva su un equilibrio che era mancato vistosamente fra le due guerre, quello fra la crescita della produzione e il potere d’acquisto dei consumatori. I salari dovevano crescere abbastanza in fretta da mantenere sostenuto il ritmo delle vendite, ma non così in fretta da comprimere i profitti. Ma come controllare i salari in un’epoca di penuria di manodopera o, più in generale, come controllare i prezzi in un periodo di domanda eccezionalmente elevata? In altre parole come controllare l’inflazione o come riuscire almeno a contenerla? Infine l’Età dell’oro dipendeva dal dominio politico ed economico degli USA che agivano – talvolta senza volerlo – come stabilizzatori e garanti dell’economia mondiale.77
75Hobsbawn 2006, 331-332. Sempre allo scopo di soffocare il conflitto sociale, l’imprenditoria statunitense accettò di finanziare e riorganizzare corsi di riqualificazione per i primi gruppi di lavoratori estromessi dai processi di automazione. Così facendo però i sindacati rinunciavano a qualsiasi controllo sullo sviluppo tecnologico (Rifkin 1997, 149). 76Mammarella in Desideri e Themelly 1996, 1110.77Hobsbawn 2006, 334-335
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La crisi del sistema di convertibilità del dollaro in oro, iniziata negli anni Sessanta - quindi
ben prima dell’abolizione per opera di Nixon – l’indebolimento degli USA dovuto alla
guerra del Vietnam e l’esaurirsi delle migrazione interne, fonti di manodopera a basso
costo, portarono alla diminuzione della produttività con ricadute inevitabili su di un sistema
sociale che basava la propria prosperità sull’utopia della crescita continua.
Non si deve dimenticare che questa fase storica fu governata in Europa da partiti politici
del Centro o della Sinistra moderata, per cui si trattò di un ‘socialismo’ molto diluito e non
privo di contraddizioni. Il principio ispiratore era il motto di John Maynard Keynes secondo
cui “almeno per altri cent’anni, il brutto è bello e il bello è brutto, perché il brutto è utile,
mentre il bello non lo è…Il tempo della bellezza non è ancora venuto“. Come dire: il fine
giustifica i mezzi e forse per questa ragione i partiti socialdemocratici e i sindacati non si
opposero più di tanto agli interventi armati per reprimere l’indipendentismo delle colonie e
allo scoppio dei conflitti in Corea e Vietnam, quando non li hanno apertamente sostenuti.
La classe lavoratrice e le fasce sociali più deboli ottennero il riconoscimento di diritti
fondamentali, ma furono anche pervase dall’ideologia mercificatrice della nascente società
dei consumi che distrusse gran parte della cultura popolare e delle pratiche comunitarie,
un fenomeno accentuato dall’esodo sempre più esteso dalle campagne. Alla ricerca della
piena occupazione, l’attenzione venne concentrata sulla crescita e sull’abbondanza, senza
interrogarsi adeguatamente sugli scopi della produzione e sulle conseguenze dello
sviluppo sull’ambiente; e probabilmente nella storia non è esistito esempio più grande di
alienazione dei lavoratori degli operai della Tennessee Valley Authority – fiore all’occhiello
del New Deal rooseveltiano – che inconsapevolmente producevano energia elettrica per i
laboratori del centro di ricerche atomiche di Oak Ridge, il più importante di quelli legati al
progetto Manhattan (da lì uscì l’uranio usato per bombardare Hiroshima). È un dato di fatto
che le organizzazioni sindacali si sono rivelate più combattive in Italia e in Germania, cioè
dove aveva imperato il nazifascismo, che nella patria del New Deal dove si è affermata
l’AFL-CIO, sindacato moderato e smaccatamente filo-governativo.
Accanto a un’economia socialdemocratica cominciava a prendere piede una società
individualista e omologata che presto, come predisse Pasolini, avrebbe offerto il fianco a
una nuova reazione totalitaria mascherata di spensieratezza e libertinismo; contrariamente
alle aspettative, tra Stato e cittadino cominciò a crearsi una frattura sempre più netta:
65
Paradossalmente anche lo stato sociale, fiore all’occhiello delle socialdemocrazie, ha lavorato in questa direzione, perché ha sostituito la comunità con le istituzioni. In effetti quando andiamo in ospedale, a scuola, al posto di polizia, non troviamo facce note al quartiere, ma degli estranei che sono lì per guadagnare uno stipendio. Va da sé che i soldi per pagarli li diamo noi tramite le tasse, ma il rapporto è troppo indiretto per suscitare in noi un senso di appartenenza. Così viviamo i servizi pubblici come dei corpi estranei gestiti dall’alto, che raramente apprezziamo78.
Non si deve dimenticare che uno dei primi statisti a implementare misure concrete di
assicurazione sociale è stato Otto von Bismarck, non certo sospettabile di simpatie
socialiste, seguito a ruota da altri politici di orientamento conservatore (anche William
Beveridge, autore del Report of the Inter-Departmental Committee on Social Insurance
and Allied Services servito da spunto per il governo laburista successivo a Churchill, era
un liberale). Oggi risulta abbastanza chiaro che fu il padronato a spingere per i versamenti
obbligatori dei propri operai, in modo da non doversi più accollare interamente il costo
della sicurezza sociale dei lavoratori; così facendo, lo Stato non solo poteva monitorare le
condizioni di salute della propria classe lavoratrice - e anche militare, con la coscrizione
obbligatoria - ma contrastava attivamente le associazioni spontanee di mutuo soccorso
finanziate dall’auto-tassazione, portatrici di un’idea di autogestione operaia potenzialmente
eversiva.
Il ‘progressismo di Stato’ è sempre stato molto ambiguo anche riguardo all’allargamento
della sfera dei diritti alle donne e alle minoranze, concessi soprattutto allo scopo di favorire
la loro integrazione nel mercato del consumo, lasciando intatta il più possibile la struttura
di potere preesistente e mantenendo quindi sotto forma diversa la discriminazione.
L’esclusione su base sessuale o razziale, spesso considerata un residuo della sottocultura
che permea le classi sociali più basse, in realtà ricalca le tendenze interne al potere
politico ed economico e finisce per rispecchiarsi sul resto della popolazione. Laddove le
categorie sociali discriminate sono riuscite a superare l’esclusione, ciò si deve allo sforzo
di organizzazioni popolari che l’hanno duramente combattuta e quasi mai alla redenzione
o all’ammissione di colpa da parte dello Stato.
Prendiamo ad esempio il caso italiano. A meta anni Sessanta, la Piaggio Vespa diventò un
prodotto di massa, molto consigliato anche per la mobilità femminile: rispetto alle moto
tradizionali, il piccolo serbatoio e la potenza ridotta consentivano a persone con una
struttura fisica più minuta, quindi anche alle donne, di poter usufruire di un ciclomotore; la
pubblicità presentava la Vespa come baluardo dell’emancipazione. Eppure nello stesso
78Gesualdi 2010, 106
66
periodo, sul piano legislativo, la situazione era molto meno rosea: benché la Costituzione
repubblicana riconoscesse l’uguaglianza dei sessi, molti anni dopo la sua proclamazione
rimanevano in vigore leggi prettamente discriminatorie, come il matrimonio quale giusta
causa di licenziamento (abolita nel 1963), il perseguimento giudiziario del solo adulterio
femminile (cassata nel 1968) e altre ancora; il numero delle donne impegnate in politica
rimaneva scandalosamente basso. Lo stile di vita materiale delle giovani italiane era simile
a quello delle loro coetanee francesi, tedesche o inglesi, ma sul piano dei diritti avevano
ancora molto da invidiare, e solo l’attivismo femminista degli anni successivi è riuscito a
cambiare la situazione, spesso apertamente contrastato dal potere.
Il boom implode
Il ‘miracolo economico’ italiano, governato da una classe dirigente con forti interessi
clientelari, ha mostrato con maggiore chiarezza tutte le problematiche di uno sviluppo
repentino e incontrollato. Già nel 1968 lo storico Giuliano Procacci, nella sua Storia degli
italiani, condannava la speculazione edilizia e la motorizzazione di massa, gonfiata oltre le
possibilità economiche del paese a scapito del trasporto pubblico, che facevano da
corollario a un’amministrazione pubblica mastodontica quanto inefficiente, alla corruzione
generalizzata e a un sistema fiscale forte con i deboli ma incline a tollerare le grandi
evasioni.
Tuttavia, anche dove lo sviluppo era condotto in modo più efficiente, il ‘capitalismo
riformato’ recava con sé tutte le problematiche che sarebbero poi esplose
drammaticamente ai giorni nostri. In un’epoca in cui i le fonti energetiche fossili erano
abbondanti e la bramosia consumista imperava, si trascurò la finitezza della materie prime
e la natura venne trattata come discarica universale e pozzo senza fondo da cui attingere
a piacimento; neppure il capitalismo pre-bellico aveva mai mostrato particolari scrupoli nei
confronti dell’ambiente, ma ora i ritmi produttivi si erano decuplicati. Quando nel 1966
Albert Speer, architetto e ministro per gli armamenti del Reich hitleriano, venne rilasciato
dal carcere di Spandau, rimase assolutamente sconcertato dal mondo che si trovò di
fronte, come si evince da alcune interviste: “Quando mi hanno liberato, sono rimasto
stupefatto dal numero di auto in circolazione, da quell’incredibile sperpero di energia... il
mondo in cui vivete non ha il minimo futuro”79. Si trattava dell’opinione smaliziata di una
persona scevra da interessi economici e politici del momento, e forse per tale ragione fu
79Citato in Rouer e Gouyon 2009, 102
67
avallata da ben pochi scienziati: tra questi il geofisico Marion King Hubbert, con la teoria
del ‘picco’ di produzione di una risorsa non rinnovabile, elaborata già nel 1956 e presa in
seria considerazione solo negli anni Settanta in seguito alla crisi del Kippur e alla serrata
dei paesi dell’OPEC. Il fabbisogno energetico indiscriminato fu la giustificazione principale
per la diffusione del nucleare civile, senza interrogarsi adeguatamente sui rischi associati
a questa tecnologia; anzi, in alcuni casi si verificarono connivenze delle associazioni dei
lavoratori, come in Francia. Dopo la creazione nel 1946 dei monopoli energetici nazionali
Electricité de France (EDF) e Gaz de France (GDF), per evitare conflitti sociali si stabilì
per decreto che l’1% del fatturato di tali imprese venisse destinato a un fondo sociale
gestito dai sindacati, dove la CGT, strettamente legata al Partito Comunista Francese, era
l’associazione maggiormente rappresentata80. In questo modo si evitò qualsiasi
discussione critica sullo sviluppo energetico all’interno dei movimenti dei lavoratori81.
La degenerazione produttivista portò alla svalutazione del lavoro umano in favore
dell’automazione, con scarsissimo riguardo per gli oneri sociali e ambientali che poteva
comportare:
L’ideale al quale aspirava l’Età dell’oro, benché fosse realizzato solo gradualmente, era una produzione o perfino un’erogazione di servizi senza la presenza umana: i robot automatizzati che assemblavano l’automobile, stanze silenziose piene di file di computer che controllavano la produzione di energia, treni senza conduttori. Gli esseri umani erano necessari per un’economia siffatta solo per un aspetto, come acquirenti di beni e servizi. Proprio in ciò consiste il problema centrale di questo tipo di economia. Nell’Età dell’oro esso sembrava ancora irreale e remoto, coma la futura morte dell’universo per entropia sulla quale gli scienziati vittoriani avevano ammonito la razza umana82.
Fino agli anni Sessanta il tasso di disoccupazione in Europa e Giappone non superò mai
l’1,5% per cui solo a partire dagli anni Settanta il dualismo uomo-macchina diventò una
tematica scottante; eppure, al pari della crisi energetica, non era affatto un’incognita
imprevedibile. Tuttavia, persino molte formazioni politiche marxiste ritenevano che
andasse favorito lo sviluppo tecnologico per arrivare alla contraddizione finale tra capitale
e lavoro, quella dove le forze produttive agiscono in modo quasi autonomo permettendo
l’emancipazione definitiva dei lavoratori umani dalla fatica. 80Baracca e Ferrari Ruffini 2011, 132-13381Il ritardo nello sviluppo delle energie rinnovabili è imputabile in gran parte agli idrocarburi a buon mercato e ai massicci stanziamenti nell’energia atomica: nel 2008 (dati IEA), il paese che utilizzava maggiormente il nucleare per la produzione elettrica, cioé la Francia, aveva meno dell’1% da solare ed eolico. Come testimonia l’ottimo libro L’autarchia verde di Marino Ruzzenenti, la scienza fascista aveva compiuto ricerche interessanti sulle energie rinnovabili e sulle materie prime di origine biologica, completamente abbandonate nel dopoguerra dai monopoli energetici statali ENEL ed ENI. 82Hobsbawn 2006, 314
68
La meccanizzazione delle campagne ha rappresentato un’altra faccia del medesimo
problema: associata alla ‘rivoluzione verde’, basata sulla diffusione capillare della bio-
chimica a danno delle conoscenze tradizionali, sembrava possibile soggiogare la natura ai
ritmi della produzione industriale promettendo di mettere fine alla fame del mondo. In
Francia, tra il 1960 e il 1980 la produzione si è triplicata, ma la popolazione contadina si è
ridotta di un quarto83, e gli altri paesi europei hanno riscontrato dinamiche simili. Gli effetti
nocivi di pesticidi e concimi chimici sarebbero diventati evidenti solo anni dopo che la
‘rivoluzione’ era stata propagandata in tutto il mondo come panacea, mostrando il lato
oscuro di quella produttività smisurata.
Da tutte queste considerazione si deduce che la socialdemocrazia novecentesca non è un
modello sostenibile e che la globalizzazione e l’ondata neoliberista hanno funzionato da
catalizzatore di problematiche già preesistenti, con l’ulteriore danno di svilire le conquiste
della classe lavoratrice.
Miopia e superficialità
A cinquant’anni di distanza dai fatti è molto facile e forse ingeneroso rimproverare errori e
sottovalutazioni, se pensiamo che persino un’istituzione conservatrice come la Chiesa
cattolica si era fatta coinvolgere dalla bramosia sviluppista: nel 1967, Papa Paolo VI
scrisse l’enciclica Popularum Progressio, sostanzialmente una benedizione delle politiche
di crescita economica condita da alcune raccomandazioni paternalistiche84.
Bisogna premettere, a giustificazione dei fautori della socialdemocrazia, che il panorama
politico tra gli anni Cinquanta e Sessanta non presentava paradigmi molto diversi per
quanto riguarda lo sviluppo produttivo e la tematica ambientale. Il comunismo, la principale
alternativa al sistema capitalista, di fatto seguiva per altre vie lo stesso mito della crescita
illimitata, pur affidandosi a una gestione interamente statale dell’economia imperniata
sull’industria pesante e non sui beni di consumo; i livelli di spreco energetico e di
inquinamento non hanno mai avuto nulla da invidiare all’Occidente. Il pensiero
ambientalista ha cominciato ad assumere una dimensione politica solo a partire dagli anni
Settanta e i suoi precursori derivano soprattutto dalla tradizione anarchica e dal pensiero
83Latouche 2005, 5984In questa enciclica per la prima volta il capitalismo viene pienamente legittimato dalla Chiesa: “Ma se è vero che un certo «capitalismo» è stato la fonte di tante sofferenze, di tante ingiustizie e lotte fratricide, di cui perdurano gli effetti, errato sarebbe attribuire alla industrializzazione stessa quei mali che sono dovuti al nefasto sistema che l'accompagnava. Bisogna, al contrario, e per debito di giustizia, riconoscere l'apporto insostituibile dell'organizzazione del lavoro e del progresso industriale all'opera dello sviluppo”.
69
freak e new age influenzato dalle culture orientali, mentre era quasi del tutto estraneo al
marxismo e al liberalismo.
L’errore di fondo compiuto dalla Sinistra è stato quello far coincidere il progresso sociale
quasi esclusivamente con il miglioramento della condizione lavorativa e di aver ragionato
su concetti come ‘povertà’ e ‘ricchezza’ in termini strettamente materialisti, sottovalutando
gli aspetti culturali e sociali, come i legami comunitari.
Certo, la maggior parte dell’umanità restava povera, ma nelle vecchie roccheforti industriali della classe operaia che significato potevano ancora avere le parole dell’Internazionale, che esortavano gli affamati a destarsi dal loro torpore, per operai che ora si aspettavano di possedere un’automobile e di trascorrere sulle spiagge della Spagna le ferie annuali pagate? Se fossero venuti tempi difficili, uno stato assistenziale sempre più esteso e generoso non avrebbe forse offerto loro la protezione, in misura mai immaginata prima contro i rischi della malattia, delle disgrazie e della vecchiaia, così temuta in passato dai poveri? Il loro reddito cresceva anno dopo anno, quasi automaticamente. Non sarebbe forse aumentato per sempre? La gamma di beni e servizi offerta dal sistema produttivo e disponibile per loro faceva rientrare nel consumo quotidiano ciò che in passato era un lusso. Anno dopo anno essa si ampliava. In termini materiali che cosa poteva volere di più il genere umano, se non estendere i benefici di cui godevano i popoli favoriti di alcuni paesi agli sfortunati abitanti di quelle parti del mondo – i quali, va detto, erano pur sempre la maggioranza dell’umanità – che non erano ancora entrati nel processo di ‘sviluppo’ e ‘modernizzazione’?85.
Oggi miopia e superficialità di questo ragionamento sono evidenti. L’incredibile benessere
materiale dell’Occidente è sempre stato figlio dello sfruttamento di altri paesi, attraverso
forme di colonialismo dirette o indirette, ma per l’operaio degli anni Cinquanta-Sessanta
non era così ovvio. Inoltre, l’idea che la torta potesse ampliarsi a dismisura senza effetti
collaterali era ampiamente radicata nella classe dirigenti; ecco cosa scriveva nel 1957
Anthony Crosland, deputato laburista e importante teorico del socialismo, nel libro The
future of socialism:
Ci si può aspettare senz’altro che l’automazione risolva ogni altro problema di scarsa produzione. Guardando al futuro, il nostro presente tasso di crescita ci porterà in cinquant’anni a una produzione nazionale triplicata86.
Questa fiducia acritica nella tecnologia, degna del peggior Positivismo, era il filo
conduttore che accomunava la Sinistra moderata e quella più estremista, come se la crisi
degli anni Venti e le due guerre mondiali non avessero insegnato nulla. Solo una
85Hobsbawn 2006, 314-31586Riportato in Hobsbawn 2006, 315
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sparutissima minoranza avrebbe seguito Pasolini barattando “una lucciola per la
Montedison”.
Il grande intellettuale friulano aveva compreso come la visione ‘sviluppista’, unita al
meccanismo della delega allo Stato e alla mercificazione anche degli aspetti più intimi
dell’esistenza umana, avrebbe portato a una mutazione antropologica radicale della
popolazione – che lui vedeva già all’opera negli anni Sessanta – in direzione molto diversa
da quella auspicata dai progressisti. Imitando gli stili di vita borghesi, era inevitabile
assorbirne anche la mentalità. Marcuse parlò di “uomo a una sola dimensione”,
completamente annebbiato dal consumismo al punto da non comprendere la repressione
del potere, dove la libertà si riduce alla possibilità di scegliere tra prodotti differenti.
Pensare che il capitalismo fosse ‘cambiato’ o ‘riformato’, come credevano i socialisti alla
Crosland87, è stata un gravissimo abbaglio: il capitalismo non era affatto mutato, ma i
lungimiranti governanti occidentali del dopoguerra avevano capito, per usare le parole di
Hobsbawn, che era necessario salvare l’impresa innanzitutto da se stessa prima che dalle
rivendicazioni della classe lavoratrice o dal comunismo, e per il suo bene bisognava
somministrarle qualche boccone amaro. Non appena lo sviluppo tecnologico e le
condizioni politiche glielo hanno permesso, cioè a partire dagli anni Settanta, le imprese si
sono emancipate dal lavoro locale e gli stati capitalisti hanno gradualmente riproposto -
spalleggiate da nuovi sacerdoti dell’economia, su tutti Milton Friedman e la dinastia dei
Chicago Boys – le stesse ricette, in versione aggiornata, responsabili della Grande
depressione e della crisi del 29. Secondo Bauman è stato il passaggio da un capitalismo
produttivo e localizzato (il cosiddetto fordismo) a uno consumista e basato sulla libera
circolazione globale, a segnare in modo irreversibile il destino delle classe lavoratrice: fino
a quando la fabbrica era radicata sul territorio, anche l’azienda aveva interesse a
sostenere un minimo di misure di welfare, dove lo Stato si facesse carico almeno degli
oneri sanitari di quella che sarebbe stata la manodopera dell’impresa per molti anni a
venire; quando il capitale ha potuto ricercare in tutto il mondo le condizioni più vantaggiose
sul piano del mercato del lavoro, aprendo e dismettendo attività produttive in tempi record,
ha perso ogni interesse al riguardo, declassando lo Stato sociale a un inutile fardello e i
lavoratori a poco più di una inevitabile seccatura. I nuovi padroni del vapore, gli arroganti
manager di cui oggi Sergio Marchionne è probabilmente l’esempio più lampante, non sono
da considerarsi la causa bensì la conseguenza coerente di un processo storico iniziato
molto tempo fa e che aveva trovato il sostegno di Sinistra e sindacati.
87“Il capitalismo si è riformato in misura tale da diventare irriconoscibile”
71
Quando ne ha avuto la possibilità, il capitalismo ha gettato la maschera dimostrando che
la socialdemocrazia era una solo una fase di transizione e un modello non sostenibile è
stato rimpiazzato con uno altrettanto insostenibile ma molto più iniquo.
72
TERZA PARTE
DISFARE LA SINISTRA PER RIFARE LA POLITICA
“Che cos’è la Sinistra?” è la classica domanda delle cento pistole. La versione italiana di
Wikipedia se la cava con una risposta lapidaria ed essenziale:
Con il termine Sinistra, utilizzato nel campo della politica, si indica la componente del Parlamento che siede alla sinistra del Presidente dell'assemblea e, in generale, l'insieme delle posizioni politiche qualificate come più egualitariste della Destra
Nell’epoca attuale in cui le differenze tra i due schieramenti sono ridotte al minimo, si tratta
senza dubbio di una definizione ineccepibile.
Storicamente, a partire dalla posizione che occupava nell’assemblea degli Stati Generali
del 1789, il termine ‘Sinistra’ è servito a indicare quei gruppi politici sostenitori di una
trasformazione sociale in favore dei ceti popolari e quindi di una società più egualitaria, in
contrasto con la ‘Destra’ interessata alla conservazione dello status quo e al
mantenimento della disuguaglianza. Presentata in questo modo, si direbbe quasi di aver
identificato i ‘buoni’ e i ‘cattivi’ della politica, cosa purtroppo ben lontana dal vero.
Alla Sinistra, nelle sue varie declinazioni, sono ascrivibili alcuni dei peggiori eventi della
storia umana, si pensi al comunismo sovietico - degenerazione autoritaria della rivoluzione
che avrebbe dovuto emancipare se non l’umanità almeno il popolo russo – e l’escalation
nucleare militare, iniziata dal democratico Franklin Delano Roosevelt e proseguita con il
suo vice Truman; più in generale ogni forma di ‘Sinistra’, in tutte le sue sfumature, ha i suoi
scheletri nell’armadio e soprattutto la sua collezione di fallimenti.
La variante estrema della Sinistra, il comunismo sovietico, che fino agli anni Settanta era
riuscito a competere con il capitalismo americano almeno sul piano della corsa agli
armamenti e dell’industrializzazione pesante, negli anni Ottanta entrò in una fase di
stagnazione economica da cui è stato incapace di riprendersi. La rigidità della
nomenclatura, oberata da potentissime corporazioni burocratiche e militari, ha bloccato le
svolte riformiste di Mikhail Gorbaciov e impedito la ristrutturazione su base informatica
dell’apparato industriale, finché tutto il sistema sovietico è drammaticamente imploso su
se stesso grazie anche agli sforzi orchestrati dall’Occidente. Come ha ben detto Antony
Giddens, “quello che sembrava un implacabile sistema di potere, il totalitarismo
comunista, svanì quasi come non fosse mai esistito”.
73
Le varianti più moderate della Sinistra, resistite a una fine così drammatica, troppe volte
hanno fatto il gioco della Destra: la svolta neoliberista non sarebbe stata possibile senza
l’apporto fondamentale del liberal Bill Clinton, che ha completato l’opera dei predecessori
repubblicani Reagan e Bush; e in Europa tutte le forze di orientamento socialisteggiante –
laburisti inglesi, socialisti francesi, SPD tedesca e in Italia i partiti susseguitesi allo
scioglimento del PCI - crollata l’URSS e tramontati i modelli keynesiani, si sono lasciati
irretire da Frances Fukuyama e dall’idea della ‘fine della storia’, della vittoria definitiva
della democrazia liberale nella forma della globalizzazione neoliberista. Dichiarando quindi
conclusa la loro funzione storica di forze egualitarie e ridistributrici, questi partiti nel
migliore dei casi hanno cercato vanamente di implementare una globalizzazione ‘dal volto
umano’ che preservasse qualcosa del vecchio welfare state dalla furia devastatrice del
mercato; altre volte, per usare la parole di Zygmunt Bauman, si sono posti l’obiettivo di
“fare in modo più completo il lavoro che la ‘Destra’ reputa necessario ma non riesce a fare”
spesso con il consenso di sindacati ammaestrati e ubbidienti. In Gran Bretagna il New
Labour di Tony Blair ha realizzato gran parte del programma thatcheriano ancora
incompiuto e in Italia sono stati governi di Centro-Sinistra a introdurre la precarizzazione
del lavoro (con il Pacchetto Treu, varato dal governo Dini e confermato da quello Prodi I),
a privatizzare Telecom ed Eni, a riformare in senso privatistico la Banca d’Italia e a
disporre la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. È stato un governo di Centro-Sinistra
- sostenuto per di più da una formazione politica dichiaratamente comunista - il primo nella
storia repubblicana ad aggredire uno stato sovrano non solo senza alcun mandato
dell’ONU ma addirittura senza voto parlamentare o del consiglio dei ministri, dimostrando il
più totale disprezzo per la Costituzione e il diritto internazionale. Il caso italiano è
esemplare del disfacimento della Sinistra perché ha visto la nascita del Partito
Democratico (ultima metamorfosi del Partito Comunista Italiano, poi diventato Partito
Democratico della Sinistra e infine Democratici di Sinistra) una formazione politica
‘leggera’ che persino nel nome ha rinunciato a qualsiasi aggancio ideale con la tradizione
socialista. Ha ben spiegato Marco Revelli:
La fusione fredda è fallita. È un partito che si è costruito su retoriche mediatiche e ha cancellato tutte le culture politiche da cui nasceva perché le riteneva un ostacolo all'assemblaggio finale. Gli resta una struttura economica - le cooperative - e tante amministrazioni locali.88
88Il Manifesto del 24 dicembre 2009
74
Non sorprende quindi che l’astro nascente del PD, il sempiterno ‘giovane’ e
orgogliosamente ‘rottamatore’ sindaco di Firenze Matteo Renzi, debba la propria notorietà
a slogan di cui l’unico politicamente significativo è probabilmente “sto dalla parte di
Marchionne senza se e senza ma” (per poi scaricarlo in tempo di primarie non appena
sono risultate evidenti le menzogne della FIAT sul cosiddetto piano industriale Fabbrica
Italia).
La ‘nuova Sinistra’ europea (o ‘Terza via’, come la chiamava Blair) ha sdoganato non solo
il credo economico della Destra, ma ha anche legittimato la guerra come mezzo per le
controversi internazionali, appoggiando in modo acritico gli interventi armati in Serbia,
Afghanistan e Libia, con i laburisti inglesi che addirittura hanno sostenuto a spada tratta
l’imperialismo dichiarato dell’amministrazione Bush collaborando all’invasione dell’Iraq89.
E per finire questo quadro sconfortante non si può certamente omettere la Repubblica
popolare cinese. Il Partito Comunista Cinese, a differenza di quello sovietico, si è
dimostrato molto più pragmatico: ha collaborato con il ‘nemico capitalista’, accettando ad
esempio la presenza di multinazionali che sfruttassero la manodopera locale a basso
costo, ma ha evitato accuratamente di farsi integrare nei sistemi finanziari occidentali,
rimanendo sostanzialmente immune all’influenza nefasta di Banca Mondiale, Fondo
Monetario, WTO e agenzie di rating. La Cina ha sfidato l’Occidente sul suo stesso terreno
e sotto la rigida supervisione statale ha perseguito una politica spregiudicata di sviluppo,
fatta di dumping commerciale, sottovalutazione della moneta nonché di una buona dose di
spionaggio industriale e di raffinate forme di neocolonialismo, realizzando una crescita
economica record che nel periodo 2004-2009 ha raggiunto livelli dell’11% all’anno. Oggi la
Cina è la nazione maggior consumatrice di materie prime fondamentali come rame,
piombo, zinco, stagno, nichel, alluminio, gomma, lana, cotone e carbone (ancora dietro
agli Usa per consumo di petrolio); la Cina è la maggior produttrice di energia; la più grande
azienda non bancaria è cinese, la Petro China (nel 2009 ha ottenuto una capitalizzazione
di mercato di 353,2 miliardi di dollari, rispetto ai 324,7 di Exxon Mobil e ai 270,6 di
Microsoft), ma anche le due maggiori banche del mondo sono cinesi, la Industrial and
Commercial Bank of China e la China Construction Bank, la prima delle quali è riuscita a
capitalizzare un po’ meno del doppio di Bank of America-Merryl Linch. La Cina è anche il
89Il Centro-Sinistra italiano ha fatto anche di peggio, cavalcando la demagogia e il populismo della Destra attraverso ‘sindaci sceriffi’ sostenitori delle ronde e implacabili nemici dei veri nemici della società, ossia lavavetri, writer e rom. “Chi lavora con me sa che sono abbastanza tosto, molto di più di quanto dicono.. Non ho mai avuto timore di esprimere idee controcorrente... E non ho timore di decidere. Altrimenti non avremmo chiuso 29 capi rom spostando quindicimila persone”: non è una frase di Borghezio, Calderoli o di un sindaco-Rambo leghista, bensì del democratico e ‘filo-africano’ Walter Veltroni (Corriere delle Sera del 29 agosto 2007)
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paese record per emissioni di gas serra ed esecuzioni capitali e le disuguaglianze
crescono sempre di più: il coefficiente di Gini90 della Cina ‘comunista’ è oramai simile a
quello degli USA (41,5 contro 45,091) e dove nello stabilimento Foxconn di Shenzen, la più
grande fabbrica produttrice di componenti elettrici ed elettronici, il suicidio è assurto a
forma di protesta operaia: tutto ciò rappresenta il lato oscuro della crescita dirompente. Se
Pechino testimonia il trionfo del capitalismo di Stato forse, con buona pace dei suoi più
convinti ammiratori sinistroidi occidentali – ad esempio Oliviero Diliberto – non andrebbe
additata come modello di socialismo.
Alla luce di tutto ciò, forse la risposta migliore alla domanda “che cosa la Sinistra?”
sarebbe parafrasare quanto disse Gandhi sulla società occidentale, ossia “una buona
idea”.
Solitamente la sconfitta storica della Sinistra viene spiegata in due modi contrastanti: i
‘realisti’ (ossia le forze di Centro-Sinistra) presentano il fallimento epocale del socialismo
reale e del modello socialdemocratico post-bellico come prove della superiorità del
liberalismo e della democrazia di mercato, di cui bisognerebbe accettare i principi senza
però rinnegare del tutto lo spirito solidaristico delle origini; il modello ideale è la
concertazione tra rappresentanti degli industriali e sindacati alla ricerca di compromessi
che possano soddisfare padroni e lavoratori (anche se quasi sempre al ribasso per questi
ultimi). Dal lato opposto, i partiti neocomunisti gridano al tradimento degli ideali originari
del socialismo e denunciano il carattere ideologico di misure anti-sociali – privatizzazioni,
flessibilità del lavoro, ecc. – presentate come naturali e inevitabili. Per molti versi hanno
ragione e torto entrambi.
Che il socialismo reale e la socialdemocrazia keynesiana-fordista siano falliti o abbiano
mostrato ampiamente i loro limiti è lampante, molto meno che la conseguenza di ciò
consista nell’ineluttabile accettazione del paradigma neoliberista, palesemente in crisi a
partire dal 2008. La Sinistra ‘radicale’, dal canto suo, più che nostalgica del comunismo
sembra appiattita sulla difesa del welfare state socialdemocratico – il ‘modello sociale
europeo’ - in una battaglia spesso sacrosanta ma priva di slancio e prospettiva.
Anche per Sinistra radicale sembra condivisibile il giudizio di Revelli:
90Il coefficiente di Gini è una misura della diseguaglianza di una distribuzione, spesso usato come indice di concentrazione per misurare la disuguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la situazione in cui tutti percepiscano esattamente lo stesso reddito; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 100 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove una persona percepisca tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo.91Dati reperiti dal CIA World Factbook relativi al 2007
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Povera di idee, povera di uomini, povera di strategia. Povera, soprattutto, di radicamento sociale. Di rapporto con un proprio “corpo” sociale (ed elettorale). Ceto politico presentatosi di fronte agli elettori una sola richiesta: “salvateci”. Fateci sopravvivere.92
Vale la pena di soffermarsi sul sostanziale fallimento dell’incontro avvenuto tra il 2000 e il
2006 tra Rifondazione Comunista e movimento no global, quando alla guida del partito
c’era Fausto Bertinotti. Quell’esperienza, unica nel suo genere in Europa – dove la
diffidenza reciproca tra movimenti e Sinistra partitica è sempre stata elevata - si basava
sul presupposto che la base comune fosse semplicemente il rifiuto della guerra e del
neoliberismo; tuttavia, mentre i no global vi arrivavano in genere da una visione
assolutamente post-fordista delle società, Rifondazione era ancora saldamente ancorata
al vecchio modello produttivo. I no global venivano spesso accusati di non interessarsi a
sufficienza al tema dell’occupazione, quando invece lo facevano da una prospettiva
diversa, volta a denunciare le logiche produttive e non tanto a esprimersi sotto forma di
rivendicazione sindacale. Si sentiva inoltre nell’aria il desiderio di egemonizzare i
movimenti i quali, nella loro estrema dinamicità, faticavano a comprendere le rigide
strutture di un partito e finirono per sentirsi più che altro un bacino elettorale da cui
attingere voti sventolando qualche slogan e concordando la candidatura di qualche
esponente93.
Inoltre in quel periodo Rifondazione mantenne un atteggiamento ‘pragmatico’ per cui
venne strumentalizzata e si lasciò strumentalizzare: il rapporto ambiguo con il Centro-
Sinistra a livello nazionale e locale è stato sicuramente l’elemento più evidente, ma non
certo l’unico, e forse neppure il più pregiudizievole. Bertinotti, ad esempio, con la stessa
disinvoltura partecipava al World Social Forum di Porto Alegre, incontrava il
Subcomandante Marcos – leggenda vuole che si sia fatto autografare una copia
dell’album dei Clash Sandinista – ma presenziava stabilmente anche a Porta a Porta di
Bruno Vespa dove, secondo i dati del Magazine del Corriere della Sera, tra il 1999 e il
2004 fu recordman di ospitate, battendo persino Berlusconi (74 contro 69). Il segretario di
Rifondazione, avvezzo alla frequentazione di salotti radical-chic, sperava di allargare la
base elettorale del partito grazie all’inattesa visibilità televisiva, ma così facendo è venuto
incontro ai piani di Vespa, il quale desiderava avvantaggiare Berlusconi e i suoi alleati
offrendo tanto spazio alla forza politica più critica per gli equilibri del Centro-Sinistra.
92Revelli 2010, 14293Ovviamente anche i movimenti altermondisti, se sono evaporati nel giro di pochi anni malgrado l’avverarsi di gran parte delle loro fosche previsioni, hanno la loro parte di responsabilità.
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Insomma, che vestisse l’abito dell’idealismo o del machiavellismo, anche la Sinistra
radicale è andato incontro a un colossale disastro.
Gli errori storici della Sinistra
Sulla base di quanto esposto nelle sezioni precedenti, è facile accorgersi che il più grave
errore storico della Sinistra è stato commesso durante il boom economico degli anni
Sessanta, quando si è fatto coincidere il progresso sociale con la crescita economica,
senza riflettere sulle conseguenze ambientali, senza interrogarsi criticamente sullo
sviluppo tecnologico e soprattutto senza domandarsi quali ripercussioni avrebbe avuto sul
tessuto sociale l’adesione acritica alla società dei consumi, considerata invece un indubbio
fattore di progresso. Pier Paolo Pasolini, un comunista ‘eretico’, venne deriso
sostanzialmente da tutto il panorama politico e culturale proprio per avere espresso dubbi
sulla trasformazione sociale post-bellica indicata con il termine generico di ‘sviluppo’:
Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: anzi, sono le parole chiave dei nostri discorsi. Queste due parole sono «sviluppo» e «progresso». Sono due sinonimi? O, se non sono due sinonimi, indicano due momenti diversi di uno stesso fenomeno? Oppure indicano due fenomeni diversi che però si integrano necessariamente fra di loro? Oppure, ancora, indicano due fenomeni solo parzialmente analoghi e sincronici? Infine; indicano due fenomeni «opposti» fra di loro, che solo apparentemente coincidono e si integrano?... Vediamo: la parola «sviluppo» ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di «destra». Chi vuole infatti lo «sviluppo»? Cioè, chi lo vuole non in astratto e idealmente, ma in concreto e per ragioni di immediato interesse economico? È evidente: a volere lo «sviluppo» in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. E, poiché lo «sviluppo», in Italia, è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali che producono beni superflui. La tecnologia (l’applicazione della scienza) ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto transnazionali. I consumatori di beni superflui, sono da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo «sviluppo» (questo «sviluppo»). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di «poveri», di «lavoratori», di «risparmiatori», di «soldati», di «credenti». La «massa» è dunque per lo «sviluppo»: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. Ciò non toglie che la sua scelta sia decisiva, trionfalistica e accanita. Chi vuole, invece, il «progresso»? Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare, appunto, attraverso il «progresso»: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e chi è dunque sfruttato. Quando dico «lo vuole» lo dico in senso autentico e totale (ci può essere anche qualche «produttore» che vuole, oltre tutto, e magari sinceramente, il progresso: ma il suo caso non fa testo). Il «progresso» è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo «sviluppo» è un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa
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dissociazione che richiede una «sincronia» tra «sviluppo» e «progresso», visto che non è concepibile (a quanto pare) un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo. [...] Dunque: la Destra vuole lo «sviluppo» (per la semplice ragione che lo fa); la Sinistra vuole il «progresso». Ma nel caso che la Sinistra vinca la lotta per il potere, ecco che anch’essa vuole - per poter realmente progredire socialmente e politicamente - lo «sviluppo». Uno «sviluppo», però, la cui figura si è ormai formata e fissata nel contesto dell’industrializzazione borghese. Tuttavia qui in Italia, il caso è storicamente diverso. Non è stata vinta nessuna rivoluzione. Qui la Sinistra che vuole il «progresso», nel caso che accetti lo «sviluppo», deve accettare proprio questo «sviluppo»: lo sviluppo dell’espansione economica e tecnologica borghese. È questa una contraddizione? È una scelta che pone un caso di coscienza? Probabilmente sì. Ma si tratta come minimo di un problema da porsi chiaramente: cioè senza confondere mai, neanche per un solo istante, l’idea di «progresso» con la realtà di questo «sviluppo».
Quarant’anni dopo poco è cambiato e anche la Sinistra ‘radicale’ non sembra
particolarmente interessata a questo tema: nel documento programmatico del primo
congresso della Federazione della Sinistra, ad esempio, non appare un minimo accenno
alla critica del consumo94.
Non solo la Sinistra ha accettato l’equazione progresso = sviluppo ma ha fatto anche di
peggio, integrando nella logica economica capitalistico-borghese le associazioni dei
lavoratori e le forme societarie alternative alle dinamiche di mercato. Non ci riferiamo solo
alla sempre maggiore accondiscendenza delle forze sindacali nei confronti del padronato,
sublimata nel 1993 con il cosiddetto ‘patto della concertazione’, ma anche alla
degenerazione di fenomeni come la cooperazione. Anziché preservare la diversità del
movimento cooperativo, il PCI e le sue successive emanazioni si sono sforzate in tutti i
modi di far concorrere le cooperative ‘rosse’ con l’azienda privata e la ricerca del business
non poteva che snaturare completamente gli ideali originari95.
Si potrebbe liquidare il discorso pensando semplicemente ai centri commerciali Ipercoop,
che hanno invaso oramai tutte le città italiane spodestando spesso i colossi privati del
94Compare solo una vaga preoccupazione di carattere ambientale: “Il nuovo modello di produzione e consumo deve basarsi sul principio di limite in una società sostenibile e sull’idea che le risorse naturali costituiscono un bene comune, non merci sottoposte all’appropriazione privata finalizzata al profitto”. Nessun riferimento alla nocività sociale del consumismo, quindi. 95La Lega delle cooperative italiana (Lega Coop) nella sua Carta dei valori ha definito quattro principi fondamentali:
- tra componenti privati e componenti pubblici non può esserci separazione: l’attività strettamente imprenditoriale e l’impegno sociale sono inscindibili;
- la cooperativa è un soggetto economico che, nel rispetto dell’economia di mercato, opera per l’abolizione di rendita e di privilegio;
- la qualità delle iniziative e il loro significato sociale deve essere riconosciuta e valutata in una dimensione operativa;
- la funzione della cooperazione va valorizzata attraverso un uso più intenso della rappresentanza.
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settore, ma un caso ancora più emblematico è quello della Cooperativa Muratori
Cementisti (CMC) di Ravenna: una vera e propria multinazionale cooperativa dell’edilizia,
che a livello politico si è segnalata soprattutto per la vicinanza a esponenti di primo piano
dei DS-PD, come Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani (di cui, alla luce di questo fatto,
forse si capiscono meglio alcune prese di posizione sulle ‘grandi opere’).
Tra i primi 100 contractor al mondo del settore - come sottolinea con orgoglio il sito Web
dell’azienda - CMC in Italia è impegnata in iniziative ‘di significato sociale’ come la TAV,
l’ampliamento della base militare di Vicenza e il ponte sullo stretto di Messina, ma non
lesina di colare cemento in giro per il mondo: in Angola, in Mozambico, a Taiwan, nelle
Filippine e persino in Sudan, dove ha realizzato un albergo di lusso tra le critiche di chi
l’accusava, così facendo, di rafforzare la leadership del capo del governo Al-Beshir,
accusato di genocidio dal Tribunale penale internazionale96.
Dopo i successi nel settore produttivo, le cooperative hanno allargato gli orizzonti al
mondo delle banche e della finanza, obiettivo poco compatibile con il legame a una forza
politica ‘diversa’ a forte radicamento popolare com’era pur con tutti i suoi difetti il vecchio
PCI, che quindi andava radicalmente trasformato. L’intercettazione telefonica del 18 luglio
2005 dove l’allora segretario dei DS Piero Fassino chiede al Presidente di Unipol Giovanni
Consorte “Allora? Abbiamo una banca?” (in riferimento alle oscure manovre per
impadronirsi della Banca Nazionale del Lavoro, finite sotto investigazione giudiziaria) forse
non bisogna interpretarla come una ‘devianza’, bensì come la logica conseguenza di una
precisa evoluzione politica iniziata molti anni prima; non a caso vede coinvolto un dirigente
come Fassino che - pubblicamente e non nel retroscena oscuro di qualche intercettazione
- non ha mai fatto mistero di ritenere più valido e attuale il corrotto Bettino Craxi rispetto
all’integerrimo Enrico Berlinguer. Una scelta di campo profondamente sensata, se lo
scopo della ‘Sinistra riformista’ deve essere quello di intrallazzare con i poteri economici.
Dell’intervista concessa da Berlinguer a Repubblica del 28 luglio 1981 è passata alla storia
la parte dove il leader comunista manifesta la propria preoccupazione sulla ‘questione
morale’ e sull’occupazione massiccia di vasti settori dello Stato per opera dei partiti; meno
nota invece è la riflessione sui mutamenti in atto nella società capitalistica:
Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza.
96Il 13 ottobre 2012 il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci (esponente del PD) si è improvvisato addetto stampa della cooperativa invitando i cittadini a disertare una manifestazione indetta da alcune associazioni contro le attività della CMC, rallegrandosi successivamente per il suo 'fallimento' in termini di partecipazione (da segnalare che anche i partiti della Sinistra radicale e l'IDV hanno disertato la manifestazione).
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Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione... La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.
Con buona pace di Fassino e Veltroni e della loro sfegatata ammirazione per Bettino
Craxi, queste parole suonano estremamente profetiche. Berlinguer sembrava aver capito
che non sussistevano più le condizioni per un rinnovamento sociale in accordo con il
capitale e che le nuove forme assunte dal capitalismo (come l’edonismo consumista),
invasive della vita umana, avrebbero intaccato l’anima del cittadino - droga, rifiuto del
lavoro, sfiducia, noia, disperazione - prima ancora di comprometterne la condizione socio-
economica. La colpa di Berlinguer non è stata certo di non aver condiviso la
degenerazione craxiana, bensì di non aver saputo istruire una classe dirigente dotata del
suo stesso metodo di analisi e che condividesse le medesime preoccupazioni: purtroppo il
leader comunista ha favorito l’ascesa di personaggi machiavellici come Massimo D’Alema,
turbati da inquietudini e ansie molto diverse dalle sue, che hanno segnato in modo
indelebile il percorso della Sinistra italiana allontanandola dalle sue radici popolari e
vanificando anni di dure battaglie.
81
Il marxismo, croce e delizia97
Per la Sinistra non aver compreso la grande trasformazione che si profilava sul finire degli
anni Settanta, ossia il passaggio dalla società fordista basata sulla produzione a quella
post-fordista e globalizzata incentrata sull’accesso al consumo, equivale a un peccato
mortale. In particolare si è sottovalutato il nuovo ruolo assegnato allo Stato, che di fatto
impedivano la riprosizione delle classiche politiche socialdemocratiche:
Per oltre un secolo il segno distintivo della Sinistra è stato la convinzione che sia sacrosanto dovere della comunità di prendersi cura di tutti i suoi membri e assisterli collettivamente contro le forze potenti cui non possono opporsi da soli. Le speranze socialdemocratiche di assolvere a questo compito sono state generalmente riposte nel moderno Stato-nazione sovrano, sufficientemente potente e ambizioso da limitare i danni perpetuati dal libero gioco dei mercati, costringendo gli interessi economici a rispettare la volontà della nazione e i principi etici della comunità nazionale. Ma gli Stati-nazione non sono più potenti come erano o speravano di diventare in passato. Gli stati politici che un tempo rivendicano la piena sovranità militare, economica e culturale sul loro territorio e relativa popolazione, non hanno più la sovranità su questi aspetti della vita comune. La conditio sine qua non di un efficace controllo politico sulle forze economiche è che le istituzioni politiche ed economiche operino allo stesso livello: e oggi non è più così. I poteri veri, quelli che decidono la gamma di opzioni e opportunità di vita della maggior parte dei nostri contemporanei, sono evaporati dallo Stato-nazione per dissolversi nello spazio globale, dove fluttuano liberi da controllo politico: la politica è rimasta locale, e perciò non più in grado di raggiungerli e tanto meno di imporre loro vincoli98.
Come reazione, invece di difendere il ruolo dello Stato e di sostenere i settori sociali più
colpiti dalla globalizzazione, si è aderito al modello della governance descritto nella prima
sezione, tanto caro ai poteri forti nazionali e internazionali e caldamente sostenuto da
esponenti di spicco della Nuova Sinistra come Jacques Delors o Romano Prodi all’interno
delle istituzioni europee.
Incapace di cogliere i cambiamenti in atto, la Sinistra tutta ha anche dimostrato scarsa
comprensione delle innovazioni tecnologiche e del ruolo dei media di massa, in particolare
97Dal momento che il prossimo paragrafo è molto critico nei confronti del marxismo, è bene sottolineare che si ritengono tuttora valide molte delle intuizioni di Marx, ad esempio la teoria dell'alienazione o della falsa coscienza. Bisogna semplicemente evitare oggi ciò di cui Marx metteva in guardia nel 1852 ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte: “La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventie proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia”.98Bauman e Rovinosa-Madrazo 2011, 53
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la televisione, che sono stati colonizzati dalle tendenze culturali legate al mondo
imprenditoriale, producendo un vero e proprio lavaggio del cervello delle classi lavoratrici e
svilendone ogni fermento antagonista.
Ma come giustificare questa indolenza proprio da parte dello schieramento politico che
poteva vantare il sostegno di gran parte del mondo intellettuale? Forse nel momento
critico, a inizio anni Settanta agli albori della globalizzazione, l’adesione troppo spesso
acritica al pensiero marxista ha favorito la staticità intellettuale, condizionando tutta
l’azione politica (e che come corollario finale ha visto il rifiuto totale e immotivato del
pensiero marxista per strizzare l'occhio al neoliberismo). Il marxismo, inteso come esegesi
del pensiero di Karl Marx, ha prodotto troppo spesso una casta di ‘sacerdoti rossi’
immedesimatisi nell’avanguardia del proletariato preconizzata da Lenin, sempre pronta a
contestare ogni trasgressione dell’ortodossia favorendo quindi il bieco conformismo. Elio
Vittorini, nel famoso carteggio con Togliatti in cui lamentò l’atteggiamento oppressivo della
nomenklatura del PCI nei confronti della rivista Politecnico da lui diretta, centrò
perfettamente il problema:
Domandiamoci piuttosto quali vizi o difetti del nostro atteggiamento verso la cultura possano contribuire a rendere così secco come oggi, per esempio, è in America il rapporto della nostra politica con la cultura. Essi ci vengono forse dal fatto che l'alimento spirituale di cui il marxismo è ricco attira nella sua orbita, a nutrirsene, a viverci sopra di rendita, troppi piccoli intellettuali che, incapaci di vita propria, ne diventano i ringhiosi cani di custodia, e l'usano come una specie di codice della politica e della cultura, pronti a pretendere, da ogni altro che più o meno vi si avvicini, una squallida adesione conformista, priva di problematicità, come è la loro.
Solo pochi pensatori brillanti etichettabili come marxisti hanno prodotto riflessioni originali,
spesso distaccandosi da molti assunti del marxismo classico - ad esempio Antonio
Gramsci, Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse e Jean Paul Sartre; molti
sono stati ampiamente sopravvalutati, come Toni Negri, che se n’è uscito con
ragionamenti ‘rivoluzionari’ assolutamente compatibili con l’attuale sistema politico-
economico mondiale99. Ecco quindi la necessità di uscire dal fideismo affrontando ogni
tematica razionalmente e senza pregiudizi.
Marx ha brillantemente analizzato il capitalismo ottocentesco, definendone i principali
meccanismi di funzionamento e riuscendo così a prevedere alcune delle crisi cicliche che
99In particolare ha sviluppato una forte critica nei confronti dello Stato-Nazione che, anziché sfociare in una valorizzazione della comunità locale come nell’anarchismo classico, di fatto legittima i presupposti ideologici della globalizzazione.
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attanagliano questa forma di sistema economico. Parallelamente a ciò, ha elaborato una
riflessione politica sulla lotta al capitalismo, abbozzando possibili scenari di superamento
della proprietà privata, della divisione capitale-lavoro e dello Stato come organizzazione
sociale; il tutto nell’ottica filosofica della visione materialistico-dialettica della storia. Come
hanno acutamente osservato Marino Badiale e Massimo Bontempelli in Marx e la
decrescita, questi tre aspetti – analisi del funzionamento dell’economia capitalista, teoria
della rivoluzione comunista e materialismo storico – sono indipendenti tra loro e
l’eventuale validità di uno non avvalla automaticamente gli altri. L’avverarsi delle ‘profezie
economiche’ di Marx, in particolare la grande crisi del 1929, ha spinto molti seguaci del
socialismo a ritenere che ciò legittimasse tutto l’impianto politico-filosofico, contro
l’evidenza dei fatti.
Per capire il successo ottenuto da Marx nell’influenzare il pensiero socialista e la Sinistra
bisogna inserire il filosofo tedesco nel contesto storico della sua epoca, contrassegnata
dal predominio culturale positivista. Benché stigmatizzasse come ‘utopistiche’ tutte le
concezioni socialiste diverse dalla sua, anche altri pensatori ‘rivali’ – ad esempio Owen,
Proudhon, Kropotkin – erano fermamente convinti che il metodo delle scienze naturali
potesse essere applicato alla società umana per desumerne le leggi che la governano,
con la differenza che non avevano la presunzione di poterle scoprire personalmente. Marx
invece offriva ben più di un’ideologia politica, ossia un complesso e coerente sistema
filosofico dove la teoria della rivoluzione comunista era l’apice di una costruzione molto più
articolata. Marx infatti proponeva100:
- una precisa scansione temporale della fase rivoluzionaria: una volta raggiunto il massimo
sviluppo delle forze produttive sotto il capitalismo, il soggetto rivoluzionario – il proletariato
– prenderà il potere e il controllo dello Stato, attuando la dittatura del proletariato, ossia
una fase di transizione dove il potere politico è detenuto dai lavoratori attraverso il partito
unico (quello comunista) che procederà alla definitiva abolizione della proprietà privata
realizzando una società senza classi e senza Stato, il comunismo;
- una descrizione del sistema di dominazione capitalista, dove l’asservimento del
proletariato avviene attraverso il controllo dei mezzi di produzione, l’estorsione del
100E’ opportuno ricordare che la tradizione marxista successiva si è impegnata attivamente per presentare la costruzione filosofica di Marx (ed Engels) più coerente di quanto non l’avesse elaborata il filosofo di Treviri: in realtà Marx ha sviluppate varie teorie in momenti diversi della sua vita e ha spesso cambiato idea. E riguardo alla genialità, non si dimentichi che Marx, uomo di grandissima erudizione, conosceva molto bene le teorie degli odiati ‘utopisti’ e se necessario non si faceva scrupolo di recuperarle e applicarle ai propri scopi (la teoria del plusvalore, ad esempio, si trova già in Proudhon).
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plusvalore, la creazione di un ‘esercito di riserva’ di disoccupati che tiene basso il costo del
lavoro;
- un’analisi del processo di sviluppo del capitalismo, inevitabilmente legato a crisi cicliche
di sovraproduzione;
- una teoria sulla vita sociale, per cui i modi di produzione (la struttura) determinano le
istituzioni, la cultura e i rapporti sociali e politici (la sovrastruttura) che quindi non sono
altro che costruzioni ideologiche;
- un metodo di analisi storica basato sul materialismo storico-dialettico, versione in chiave
materialista della dialettica storica hegeliana. Aleksandr Malinovskij ha così sintetizzato
questo principio:
La storia mostra che ogni sistema di idee - sia esso religioso, filosofico, giuridico o politico - per quanto fosse rivoluzionario al momento in cui nacque ed intraprese la sua lotta per la supremazia, prima o poi diventa un impedimento e un ostacolo allo sviluppo ulteriore, diventa cioè una forza socialmente reazionaria.
Secondo il metodo dialettico, la borghesia, il soggetto rivoluzionario del Risorgimento che
ha spodestato la nobiltà dal potere, con l’industrializzazione ha creato anche la sua
negazione cioé il soggetto destinato inevitabilmente a succederle, il proletariato.
Alla base del successo di Marx ci sono quindi le pretese di scientificità e ‘realismo’: se lo
scopo finale era il medesimo degli anarchici, ossia la soppressione dello Stato, il marxismo
prevedeva un itinerario fatto di tappe intermedie – creazione di un partito, conquista dello
Stato - apparentemente più concrete e plausibili del semplice passaggio dall’oggi al
domani all’auto-gestione degli anarchici; questi ultimi del resto, animati da una sincera
vocazione anti-autoritaria, puntavano molto sullo spontaneismo e non volevano tracciare
un corso preciso degli eventi, possibile solo attuando un dirigismo centralista.
Già da questa prima analisi è possibile constatare alcune criticità fondamentali insite nel
pensiero marxista:
- separa i mezzi dai fini: per arrivare al comunismo bisogna prima consentire il massimo
sviluppo del sistema nemico - il capitalismo - per poi fargli seguire una rivoluzione il cui
scopo è l’instaurarsi di una dittatura che dovrebbe spianare la strada alla liberazione del
genere umano, un percorso decisamente contraddittorio;
85
- riduce la società umana al materialismo: arte, cultura, religione, filosofia, ecc. sono solo
sovrastruttura (“fantasmagorie delle mente”, secondo Marx ed Engels) che non possono
influenzare la struttura economica ma solo esserne influenzate;
- in linea con la visione positivista, è intriso di un forte progressismo e industrialismo: lo
sviluppo tecnologico, dal momento che creerà le condizioni per il successo del
proletariato, è visto come positivo e tende a diventare un fine in se stesso;
- malgrado gli intenti egualitari, si presenta come fortemente verticista ed esclusivo: anche
se il concetto di avanguardia del partito sarà elaborato solo successivamente da Lenin, si
può già desumere in Marx ed Engels. La complessa elaborazione filosofica si presta
facilmente all’instaurarsi di ristrette élite intellettuali e inoltre viene scelto in maniera
aprioristica il soggetto rivoluzionario, il proletariato operaio delle nazioni più sviluppate,
escludendo altri apporti.
Il secondo punto è particolarmente importante per la nostra analisi: ridurre l’umanità ai
rapporto economici – così come Machiavelli tendeva a ridurla alla volontà di potenza e
Freud agli impulsi della sfera sessuale – svalutando tutto il resto come ‘sovrastruttura’,
significa semplificare arbitrariamente un fenomeno quanto mai complesso e variegato qual
è il genere umano. Concentrare l’attenzione sull’uomo solo per quanto riguarda le
esigenze biologiche di sopravvivenza, negando o sottovalutando tutto quegli aspetti capaci
di produrre felicità – realizzazione personale, senso di comunità, empatia con le persone e
l’ambiente – è stato l’errore fondamentale del socialismo reale, ben compendiato nella
celebre frase che Emma Goldman rivolse ai bolscevichi: “Se non posso ballare, allora non
è la mia rivoluzione”. La Sinistra occidentale, fosse o no dichiaratamente marxista, si è
imbattuta nel medesimo errore:
Quasi tutte le critiche dei ‘caratteri borghesi’ della società moderna, della sua tecnica, della sua individualità, sono esse stesse impregnate proprio di ciò che vanno criticando. Enfatizzando l’economia, l’interesse di classe, il ‘substrato materiale’ della società, tali critiche sono portatrici proprio di quel ‘carattere borghese’ che pretendono di criticare. E sono pericolosamente inadempienti verso il loro impegno a trascendere le condizioni economiche della società capitalistica e a recuperare quel livello etico del discorso e quegli ideali che il capitalismo ha brutalmente depredato. Nel linguaggio di molti pensatori radicali, ‘società razionale’ spesso significa poco più che società razionalizzata e ‘libertà’ spesso significa poco più che efficace coordinamento dell’umanità nel perseguimento di fini economici. Economicizzando la totalità della vita, il capitalismo ha economicizzato la ‘questione sociale’, le strutture
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della libertà e anche il progetto rivoluzionario. Il contesto comunitario del soggetto di questo progetto è quasi completamente scomparso101.
Criticare la validità del materialismo storico-dialettico è molto più semplice. Oggi è facile,
dopo il crollo definitivo del comunismo sovietico, constatare che la dialettica storica non ha
seguito fino alla fine le linee d’azione previste da Marx, un giudizio su cui sicuramente
concorderanno tristemente anche i più fanatici sostenitori del marxismo (tranne forse i più
accaniti filo-cinesi). Il vero problema è che le profezie di Marx, fin dal principio, si sono
avverate molto raramente.
Le principali rivoluzioni comuniste nel mondo, in particolare in Russia e in Cina,
contrariamente alle aspettative di Marx hanno visto per protagoniste nazioni
prevalentemente agricole dal basso sviluppo industriale, a prescindere dall’apporto del
proletariato operaio in queste rivolte. Nelle nazioni più industrializzate, pur travolte dalla
grande crisi sistemica del 1929 – il ‘giorno del giudizio’ in base alle profezie marxiane - la
possibilità di una rivoluzione non si è mai prospettata se non sotto forma di ‘rivoluzione
conservatrice’ nazional-socialista in Germania e Italia. Dopo la seconda guerra mondiale il
massiccio sviluppo delle forze produttive in Occidente, che avrebbe dovuto essere alla
base dell’emancipazione del proletariato, ha di fatto rafforzato le prerogative dello Stato
borghese e favorito la creazione di potenti oligopoli transnazionali, le corporation
multinazionali. E i partiti comunisti occidentali hanno sempre ottenuti consensi minimi, ad
eccezione di quello italiano che infatti presentava un carattere riformista molto poco
rivoluzionario.
Se Bakunin avesse potuto assistere a tutti questi eventi, avrebbe sicuramente rivendicato
con orgoglio di aver lamentato fin dall’inizio una delle debolezze fondamentali della teoria
marxiana, ossia il ridimensionamento dello Stato a semplice sovrastruttura: in effetti tutte
le volte che il capitalismo si è trovato in situazioni di crisi o di impasse che ne potessero
pregiudicare la sua esistenza – fermenti politici tra fine Ottocento e inizio Novecento, crac
del 29, ricostruzione post-bellica, crisi attuale – è intervenuto lo Stato a salvarlo, usando
ora il bastone della repressione ora la carota della redistribuzione e dell’assistenzialismo
(anche ai meno bisognosi, come testimoniano le recenti regalie al sistema bancario).
Davvero troppo per un’istituzione che sarebbe semplicemente ‘burattinata’ dai rapporti di
produzione capitalista102.
101Boochkin 2010, 338102Nel libro La grande trasformazione Karl Polanyi distingue tra ‘mercato autoregolato’ (che si può indicare genericamente come ‘capitalismo’) e il laisser-faire, ossia il liberismo nelle sue forme estreme. Secondo
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Se Marx è ampiamente giustificabile per non aver previsto il futuro – nessuno in fondo ha il
dono della preveggenza – forse lo è meno per le deduzioni fatte sul passato, la base del
principio storico-dialettico sui cui poggiava il futuro successo del proletariato, che il filosofo
tedesco indicava nella precedente vittoria della borghesia sulla nobiltà. È incredibile come
Marx e tutta la generazione successiva dei marxisti non si siano accorti del paragone
assolutamente improprio tra borghesia e proletariato:
Infatti, nel modo di produzione feudale la classe sfruttata, nel senso marxiano, non è rappresentata dalla borghesia, ma, ovviamente, dai contadini. La borghesia nel feudalesimo è una classe in qualche modo “interstiziale”, che non partecipa, cioè, alla produzione del plusprodotto, ma organizza i processi del suo scambio, lucrando su di essi. E’ proprio per questo suo carattere in qualche modo “esterno” al modo di produzione feudale che essa riesce a creare, negli interstizi della società feudale, i primi nuclei del nuovo modo di produzione, che rappresentano la base oggettiva di un ruolo sociale, una rete di relazioni, una coscienza di sé, alternative al feudalesimo. Lo sviluppo di tutti questi elementi darà alla classe borghese la capacità di abbattere la società feudale103.
In realtà i politici comunisti non erano tutti dogmaticamente stupidi: Lenin, Stalin, Mao e i
dirigenti sovietici e cinesi si erano si erano perfettamente resi conto delle anomalie della
dialettica marxiana. Solo che, invece di operare una riflessione critica, decisero di far
avverare a tavolino le profezie di Marx operando un’industrializzazione forzata e in questo
senso dimostrarono un’intelligenza dogmatica.
Il tentativo di recuperare in pochi decenni il gap tecnologico con l’Occidente, frutto invece
di più di un secolo di progressi graduali, è stato l’elemento che, insieme al militarismo, ha
reso irreversibile la degenerazione autoritaria del socialismo reale. Progetti ambiziosi di
modernizzazione sulla pelle della gente attraverso politiche come il comunismo di guerra,
lo stacanovismo, l’economia staliniana o il ‘grande balzo in avanti’ potevano realizzarsi
soltanto esercitando un controllo draconiano sulla società; i dirigenti comunisti
teorizzarono addirittura la possibilità di una mutazione antropologica, la creazione
dell’uomo nuovo sovietico, inquadrando rigidamente la popolazione e sottoponendo i
bambini fin dall’infanzia alla dottrina pedagogica di Anton Semenovyč Makarenko,
finalizzata espressamente a forgiare un individuo comunista e lavoratore privo di
personalità propria. Per quanto potesse apparire bizzarro se non proprio disumano, la
Polanyi, per ovviare ciclicamente alle degenerazioni provocate dal laisser-faire, lo Stato di volta in volta può intervenire sotto varie forme, democratiche o autoritarie (New Deal o nazi-fascismo) allo scopo di introdurre delle limitazioni allo scopo di preservare il ‘mercato autoregolato’ (e quindi il capitalismo). 103Badiale e Bontempelli 2010
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dialettica storica in fondo non indicava il superamento di ogni consuetudine e tradizione
culturale?
Ben lungi dall’emancipare la classe lavoratrice, lo ‘sviluppo delle forze produttive’ ha
assunto la forma di un cieco scientismo responsabile di consistenti danni ecologici e di
pericolosi sviluppi tecnici. Juri Gagarin, lo Sputnik e la centrale nucleare di Obninsk (la
prima al mondo a generare elettricità per una rete di trasmissione) hanno come contraltare
i milioni di morti delle carestie provocate dalla collettivizzazione forzata, crimini ambientali
come la scomparsa del lago Aral e l’incidente di Chernobyl, con le masse lavoratrici che
hanno solo cambiato il colore delle catene finendo vittime di un’alienazione persino
superiore a quella provocata dal capitalismo.
Oltre la lotta di classe verso nuove prospettive
Anche il concetto marxista di ‘lotta di classe’, pur partendo da constatazioni reali, ha finito
per trasformarsi in pesante fardello ideologico. Il primo socialista a mettere in seria
discussione il valore della ‘classe’ nel capitalismo moderno è stato probabilmente André
Gorz.
Gorz si accorse che il lavoratore del capitalismo ‘giovanile’ ottocentesco o ancora
dell’epoca fordista poteva sentirsi parte di una ‘classe’ perché il lavoro segnava (in termini
di tempo dedicato) in modo preponderante la sua vita, in quanto normalmente si svolgeva
per tutta l’esistenza fino alla pensione la medesima professione, spesso per lo stesso
datore di lavoro; era quindi più facile creare empatia con i colleghi e da lì organizzarsi
anche a livello sindacale.
L’innovazione tecnologica e la divisione internazionale del lavoro hanno completamente
mutato questo scenario, innanzitutto riducendo drasticamente l’entità numerica della forza
lavoro: la ‘classe operaia’, soggetto rivoluzionario per eccellenza, secondo il Censimento
del 1961 in Italia rappresentava il 40,6% degli occupati, mentre nel Rapporto ISTAT 2011
si attesta al 28,4%, con gran parte dei contratti di tipo precario. Altri paesi industrializzati
presentano dati analoghi: negli anni Cinquanta gli addetti all’industria statunitensi erano il
30%104 della forza lavoro, a metà dei Novanta – cioè ben prima della crisi, in piena fase
espansionistica - si erano ridotti a meno del 17%105. Al di là dei semplici numeri, in seguito
alla ristrutturazione del lavoro dovuta all’automazione esiste un’importante differenza
104Secondo il CIA World Fractbook nel paradiso della manifattura, ovvero la Cina, nel 2008 gli addetti all’industria erano il 27,8% della forza lavoro, un dato quindi simile a quello statunitense degli anni Sessanta. 105Rifkin 1997, 30
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‘qualitativa’ tra la fabbrica fordista e quella attuale: si è passati da un ambiente di lavoro
‘affollato’, ossia quello della vecchia ‘linea’ di montaggio, a un nuovo modello in cui gli
operai agiscono a distanza in diversi segmenti produttivi, dove quindi comunicazione e
socializzazione sono molto più ridotte106. Per finire, l’adozione massiccia dell’approccio
toyotista o just in time, decentralizzando la produzione in una moltitudine di ditte
appaltatrici spesso poste in aree geografiche molto lontane tra loro, ha ulteriormente
frammentato i lavoratori diminuendo la loro forza sindacale.
A fronte di un sistema produttivo che produce tre volte di più con meno forza lavoro, le
nuove tecnologie informatiche hanno rimpiazzato gli operai con un ristretto numero di
‘lavoratori della conoscenza’, senza assolutamente poter assorbire il disavanzo
occupazionale107: in una società della crescita, ciò significa disoccupazione e
precarizzazione del lavoro. Anche se può dispiacere la Sinistra e mettere in dubbio
radicate certezze, ci troviamo di fronte un quadro sociale del tutto inedito:
Il lavoro non è più il principale il cemento sociale, né il principale fattore di socializzazione, né l’occupazione principale di ciascuno, né la principale fonte di ricchezza e benessere, né il senso e il centro della vita108.
Ne consegue che oggi il contrasto con la società capitalistica avviene su nuovi fronti:
Il punto importante è che ormai tanto la critica della razionalità capitalistica quanto la sensibilità socialista dei salariati nei settori produttivi più evoluti non risultano dalla vita di lavoro e dalla coscienza di classe, ma piuttosto dalla scoperta, fatta in veste di cittadini, genitori, consumatori, abitanti di un quartiere o di una città, che lo sviluppo capitalistico li espropria dal loro ambiente di vita, sia sociale che naturale. Non è nella competenza professionale né nell’identificazione con il lavoro che scaturiscono le motivazioni per resistere contro questa spoliazione, ma nella vita e nell’esperienza extra-professionale.
Il disagio verso il capitalismo assume un carattere interclassista che si riscontra ad
esempio nella lotta contro l’invadenza del mercato e la mercificazione consumista di ogni
aspetto della vita umana, nell’impegno contro le discriminazioni, nella rivendicazione del
diritto a un alimentazione sana e adeguata, nella preservazione del territorio dalla
106 Revelli 2010, 253. L’automazione ha anche permesso di sostituire alcune figure simbolo dell’autoritarismo aziendale (come i cronometristi) con delle macchine, smussando così gli attriti con i vertici. 107Gorz annovera anche i cosiddetti ‘servizi alla persona’, che condanna in quanto ‘sudafricanizzazione’ della società dove la massa degli esclusi dall’occupazione viene proposta come servitù di una ristretta cerchia di privilegiati. Anche i cosiddetti ‘lavori socialmente utili’ spesso non sono altro che goffi tentativi di tamponare l’emorragia occupazionale attraverso la sovvenzione di attività improduttive. 108Gorz 1992, 37
90
devastazione delle ‘grandi opere’, nella difesa della propria tradizione culturale contro
l’omologazione mass-mediatica.
...Il conflitto principale non oppone più capitale e lavoro, ma i grandi apparati scientifici, tecnici, burocratici (che in ricordo di Max Weber e di Lewis Mumford ho chiamato la mega-macchina burocratica-industriale) alle popolazioni in conflitto con la tecnicizzazione dell’ambiente, la professionalizzazione e l’industrializzazione delle decisioni e degli atti della vita quotidiana, gli esperti patentati che vi tolgono la possibilità di determinare da soli i vostri bisogni, desideri, o il modo di gestire la salute e, più in generale, la vostra vita109.
Il cittadino contemporaneo è costantemente bersagliato dalla critica spietata del potere
politico ed economico, continuamente indotto a vergognarsi per la sua incapacità di
‘mordernizzarsi’, di ‘stare al passo con i tempi’, di ‘fare sacrifici’, di ‘essere competitivo e
produttivo’, di ‘fare le scelte giuste’, di ‘essere fannullone’ ed ‘egoista’. Giaculatorie di
questo tipo vengono ripetute in modo ossessivo ogniqualvolta la cittadinanza si azzarda
minimamente a difendere le protezioni sociali, il lavoro, il territorio, la proprietà pubblica e
tutte le volte in cui vengono anteposti i propri affetti alla carriera professionale (studiare o
lavorare all’estero per i giovani è oramai un imperativo categorico). Soprattutto il ‘popolo
bue’ non può e non deve impicciarsi di questioni politiche, economiche o energetiche
perché quando consultato direttamente – referendum 2006 sulla riforma costituzionale,
referendum 2011 su privatizzazione dell’acqua e nucleare – ha la brutta tendenza a fare le
scelte 'sbagliate'. In fondo non c’è da stupirsi: se il totalitarismo sovietico ammetteva un
solo pensiero e un solo partito politico, la mega-macchina110attuale può tollerare
l’esistenza di varie formazioni politiche (possibilmente solo due e quasi identiche tra loro)
ma il grado di pluralismo concesso è più o meno lo stesso che vigeva nel vecchio PCUS,
nel senso che l’orientamento neoliberale sopportare tutte le opinioni ma ammettendone
solo una corretta e indubitabile.
Prima di Gorz un altro pensatore, Ivan Illich - se possibile ancora più eccentrico e fuori
dagli schemi – aveva biasimato come i ‘rivoluzionari’ concentrassero la loro attenzione sul
109Ibidem, 94110D’ora in avanti utilizzeremo questo termine nella sua accezione sociologica: “Mega-macchine sociali: cosí sono state definite le grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come componenti o servo-unità. Mega-macchine potenti ed efficienti di tal genere esistono da migliaia di anni. Le piramidi dell’antico Egitto sono state costruite da una di esse capace di far lavorare unitariamente, appunto come parti di una macchina, decine di migliaia di uomini per generazioni di seguito. Era una mega-macchina l’apparato amministrativo-militare dell’impero romano. Formidabili mega-macchine sono state, nel Novecento, l’esercito tedesco e la burocrazia politico-economica dell’Urss” (Gallino 2010, 5).
91
sistema politico invece che sulla mega-macchina e sulle ripercussioni sociali che essa
genera scatenando tutti i suoi strumenti di dominio (per usare un gergo filosofico, si
concentravano solo sugli epifenomeni e non sul fenomeno vero e proprio):
Attualmente i criteri istituzionali dell'azione umana sono l'opposto dei nostri, compresi quelli vigenti nelle società marxiste, dove la classe operaia si crede al potere. Il pianificatore socialista rivaleggia col cantore della libera impresa, per dimostrare che i suoi principi assicurano a una società il massimo di produttività. La politica economica socialista si definisce molto spesso per l'ansia di accrescere la produttività industriale di ogni paese socialista. Il monopolio dell'interpretazione industriale del marxismo funge da barriera e mezzo di ricatto contro ogni forma di marxismo giudicata eterodossa perché industrialmente poco efficiente... L'interpretazione esclusivamente industriale del socialismo fa sì che comunisti e capitalisti parlino lo stesso linguaggio, misurino in maniera analoga il grado di sviluppo raggiunto da una società. Una società nella quale la maggioranza dipenda, quanto ai beni e servizi che riceve, dalle qualità d'immaginazione, d'amore e di abilità di ciascuno, appartiene alla categoria cosiddetta sottosviluppata; viceversa, una società in cui la vita quotidiana consiste in nient'altro che una serie di ordinazioni dal catalogo del grande magazzino universale, è ritenuta avanzata. E il rivoluzionario non è più che un allenatore sportivo: campione del terzo mondo o portavoce di minoranze sottoconsumatrici, argina la frustrazione delle masse alle quali rivela il loro ritardo; canalizza la violenza popolare e la trasforma in energia di rincorsa.Ciascun aspetto della società industriale è una componente di un sistema globale che implica l'escalation della produzione e l'aumento della domanda indispensabile per giustificare il costo sociale complessivo. Ecco perché, concentrando la critica sociale sulla cattiva gestione, la corruzione, l'insufficienza della ricerca o il ritardo tecnologico, non si fa che distrarre l'attenzione della gente dal solo problema che conti: la struttura inerente allo strumento preso come mezzo e che determina una crescente carenza generale. Un altro errore consiste nel credere che la frustrazione attuale sia dovuta principalmente alla proprietà privata dei mezzi di produzione e che l'appropriazione pubblica di questi mezzi attraverso un organismo centrale di pianificazione proteggerebbe gli interessi della maggioranza e porterebbe a un'equa ripartizione dell'abbondanza. La struttura anti-umana e manipolatrice dello strumento non sarà trasformata dal rimedio proposto... Fino a quando condividerà l'illusione che sia possibile aumentare la velocità di locomozione di chiunque, la società continuerà a criticare il proprio sistema politico anziché immaginare un sistema di circolazione moderno, più efficiente di tutti quelli che si basano su veicoli rapidi. La soluzione, tuttavia, è a portata di mano: non risiede in un certo modo di appropriazione dello strumento, ma nella scoperta del carattere di certi strumenti, e cioè che nessuno potrà mai possederli. Il concetto di appropriazione non vale per gli strumenti incontrollabili. Il problema urgente è invece di determinare quali strumenti possono essere controllati nell'interesse generale, e di comprendere che uno strumento non controllabile rappresenta una minaccia insostenibile. Quanto al sapere come organizzare la partecipazione individuale a un esercizio del controllo che risponda all'interesse generale, è un fatto secondario.Certi strumenti sono sempre distruttivi, qualunque sia la mano che li governa: la mafia, i capitalisti, una ditta multinazionale, lo Stato o anche un collettivo di lavoratori. Così è, per esempio, per le reti autostradali a corsie multiple, per i sistemi di comunicazione a grandi distanze che utilizzano una larga gamma di frequenza, e così anche per le miniere a cielo aperto o per la scuola. Lo strumento distruttivo
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accresce l'uniformazione, la dipendenza, lo sfruttamento e l'impotenza; toglie al povero la sua parte di convivialità per rendere i ricchi ancora più ciechi alla perdita della loro111.
Queste riflessioni permettono di superare l’impasse della Sinistra gettando solide basi per
un nuovo terreno di confronto.
Le cinque caratteristiche di un radicale
Prima di entrare nel merito vero e proprio dei cambiamenti sociali da apportare e di
proporre una strategia di lotta, è bene chiudere questo capitolo chiarendo quale può
essere l’atteggiamento politico di una persona che, ‘disfatta la Sinistra’, cerchi di
approdare a categorie culturali nuove. Al riguardo può essere interessante riproporre
quelle che a giudizio di Dwight Macdonald – intellettuale statunitense di metà Novecento
critico del marxismo - dovevano essere le ‘cinque caratteristiche di un radicale’,
intendendo come ‘radicale’ una persona che ha rifiutato le categorie marxiane di dialettica
storica, lotta di classe, opposizione struttura/sovrastruttura e che ritiene necessario un
controllo sociale sulla tecnologia. Macdonald le elaborò in un lungo articolo intitolato La
radice è l’uomo, pubblicato sulla rivista Politics112:
- negativismo: rifiuto della sottomissione allo Stato e alla burocrazia, anche a costo di non-
agire piuttosto di intraprendere un’azione sbagliata;
- irrealismo: durante la prima e la seconda guerra mondiale, molti intellettuali di
orientamento pacifista (come John Dewey) si schierarono a favore dell’intervento bellico in
quanto unica possibilità ‘realistica’. Per Macdonald invece non bisogna separare i mezzi
dai fini e occorre combattere un sistema non appoggiando le sue azioni ma operando una
scelta antitetica;
111Illich 2005, 47-49. È interessante notare che prima ancora di Gorz e Illich cominciava a insinuarsi qualche piccolo dubbio. Ad esempio ecco cosa scriveva nel 1952 G.B.H. Cole in Storia economica del mondo moderno: “I paesi nei quali la produzione di massa ha progredito di più sostengono di essere delle democrazie, le quali dedicano molti sforzi ad educare i loro cittadini sulla necessità di partecipare attivamente alla vita della collettività. Resta da vedere, tuttavia, se la loro partecipazione alla vita democratica del proprio paese è compatibile con condizioni di lavoro che non danno all’individuo alcuna occasione di impegnarsi in uno sforzo creativo, se non in senso puramente quantitativo e in vista di guadagno di denaro” (pag. 156-157). Si tenga conto che Cole, docente di Oxforfd, non era affatto uno studioso eterodosso come testimonia il periodo di presidenza alla Fabian Society, organizzazione politica moderatamente socialista tra le fondatrici del partito laburista inglese. 112L’articolo è disponibile integralmente in Arendt, Caffi, Goodman e Macdonald 2012
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- moderazione: non nel senso di moderatismo politico, centrismo o ‘riformismo’, bensì
come rifiuto della hybris, della pretesa marxiana di ridurre tutta l’esistenza umana in
termini scientificamente conoscibili;
- piccolezza: Macdonald denuncia il feticismo delle masse tipico della Sinistra, obiettando
che in un’epoca dove le masse – presunte rivoluzionarie – compiono azioni quanto mai
convenienti al sistema, l’azione individuale (ad esempio attraverso l’obiezione di
coscienza) o di piccoli gruppi coerenti con i propri ideali può avere una forza maggiore di
quella di partiti centralizzati e burocratizzati alla maniera dello Stato;
- egoismo: lo sviluppo scientifico e gli apparati burocratici a partire dalla fine dell’Ottocento
hanno ridotto l’individuo a un semplice ingranaggio di una macchina mastodontica, una
condizione non migliorata dai partiti della Sinistra rivoluzionaria che, in nome di una
beatitudine futura, hanno costretto i propri militanti alla rinuncia del proprio interesse in
nome di quello superiore del partito o della classe. È invece necessario ristabilire il primato
dell’individuo e rivendicare il pieno diritto delle sue emozioni, della sua immaginazione, dei
suoi sentimenti morali.
Partendo da questi presupposti, Macdonald immaginava un’azione politica guidata da
piccoli gruppi di individui che condividessero questo programma minimo:
- pacifismo come condicio sine qua non;
- rifiuto della coercizione individuale da parte di Stato o partiti, opponendosi attraverso gli
strumenti di volta in volta più idonei (discussione, sabotaggio, messa in ridicolo, evasione,
resistenza passiva) secondo lo stile di lotta di organizzazioni radicali come gli IWW
(Industrial Workers of the World, noti anche come wobblies, movimento operaio con
strategie di azione anarco-sindacaliste)
- presa di distanza dalle ideologie politiche che, come il marxismo, chiedono sacrifici
immediati promettendo un roseo avvenire;
- concezione del socialismo come questione etica e non pragmatica, importante per
l’individuo a prescindere dal numero di simpatizzanti;
- comportarsi coerentemente con i propri ideali, quindi in modo eventualmente irrealistico;
- pensare in termini di esseri umani e non di classe, ammettendo che inizialmente le
proprie idee saranno condivise solo da un numero di persone limitato e forse eccentrico
(per restare nell’attualità si pensi ai francesi Casseurs de pub, tra i primi sostenitori
assoluti delle idee della decrescita). È anzi molto probabile che i soggetti rivoluzionari
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classici, come i lavoratori, siano inclini alla sociolatria - la preoccupazione profonda per il
buon funzionamento della macchina industriale dalla quale si crede di poter ottenere
standard più alti di vita – e che almeno all’inizio potrebbero rivelarsi ostili113.
I principi di Macdonald, teorizzati immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, si
rivelano quanto mai attuali e serviranno come faro nella sezione finale del libro per
riflettere sulle strategie di azione politica.
113Un esempio è la triste vicenda seguita alla chiusura dell’ILVA di Taranto, disposta dalla magistratura per motivi ambientali e sanitari nell’estate 2012, quando gran parte degli operai dello stabilimento ha rivendicato la riapertura degli impianti al motto “meglio morire di tumore che di fame” spalleggiata dai sindacati confederali e dai proprietari dell'impresa.
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QUARTA PARTE
USCIRE DAL GIGANTISMO PER UNA SOCIETÀ EQUA E SOSTENIBILE
“Una nuova forma di produzione non può convivere con le vecchie forme di consumo, non più di quanto possa adattarsi alle vecchie forme di organizzazione politica”
(Pëtr Kropotkin)
Le riflessioni esposte nel capitolo precedente sono centrali per le pagine che seguiranno.
La Sinistra ha sempre imperniato l’analisi politica sui conflitto capitale-lavoro mentre il
nostro approccio basato su Gorz e Illich – e ispirato al Lewis Mumford - riconosce invece
nelle storture economiche una parte del problema, che invece viene identificato in tutta la
mega-macchina industriale-capitalistica-finanziaria e negli effetti che produce sulla
popolazione e sul pianeta, dei quali la subordinazione del lavoro al capitale è solo una
delle manifestazioni114.
Serge Latouche ha scritto un libro specificatamente dedicato all’argomento, intitolato per
l’appunto La Megamacchina. Secondo l’analisi dell’economista francese, i problemi
principali da affrontare sono i seguenti115:
- L’emancipazione e lo scatenamento della tecnica e dell’economia: lo sviluppo
tecnologico proverbialmente ‘non si può fermare’, diventa un fine a se stesso a
prescindere dalle esigenze reali e i suoi effetti positivi o negativi (ad esempio la nube
radioattiva di Chernobyl) non conoscono frontiere. Le tecnologie hanno consentito anche
l’annullamento delle distanze, la creazione di quello che Marshall McLuhan chiamava
‘villaggio globale’, che comporta la scomparsa dello spazio politico e una regressione nel
privato che può sfociare in violente rivendicazioni identitarie (lo sviluppo delle reti di
comunicazione globale è stato accompagnato dal parallelo riemergere dei nazionalismi in
Europa e del fondamentalismo religioso in Asia e Africa). Anche l’economia si è
transnazionalizzata di pari passo con lo sviluppo delle reti di comunicazione, sottraendosi
al controllo degli Stati-Nazione e invadendo ogni aspetto della vita umana mercificandola;
114Anche Gallino è ricorso al concetto della mega-macchina per descrivere la società attuale, che chiama ‘finanz-capitalismo’: “Il finanzcapitalismo è una mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi. L’estrazione di valore tende ad abbracciare ogni momento e aspetto dell’esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all’estinzione. Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona” (Gallino 2011, 5).115Latouche 2008, 30-43
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- La macchinizzazione del sociale: il cittadino si trasforma in utente della mega-macchina,
che ne plagia desideri e aspirazioni. La perdita di identità e la transnazionalizzazione dei
processi economici e politici inficiano i legami sociali, mentre l’efficienza diventa l’unico
valore di riferimento a cui piegare ogni aspetto dell’esistenza umana;
- Il vicolo cieco: tale efficienza è autoreferenziale e punta all’accumulazione illimitata del
capitale e alla crescita infinita, concetti che contrastano con il carattere limitato della Terra
e delle sue risorse;
- L’ingiustizia: violando ogni basilare legge della fisica, non solo la promessa di prosperità
e uguaglianza per tutti della mega-macchina diventa una clamorosa menzogna, ma
addirittura si incrementano infelicità e disuguaglianze, creando una società sempre più
polarizzata. In Italia, che pure è una delle nazioni occidentali dove il problema è meno
evidente, il 10% delle persone più ricche possiede il 40% della ricchezza del paese mentre
il 10% più povero solo lo 0,3%116;
- L’uniformazione: la mega-macchina ammette solo lo stile di vita occidentale e aborre il
multiculturalismo. Anche gli apologeti del neoliberismo, come Frances Fukuyama,
ammettono questa circostanza presentandola però come un fatto positivo: “La tecnologia
rende possibile un’illimitata accumulazione di ricchezza e quindi la soddisfazione di una
serie di desideri sempre più vasta. Questo processo assicura una crescente
omogeneizzazione di tutte le società umane indipendentemente dalle loro origini storiche e
dalle loro eredità culturali. Tutti i paesi in cui è in atto un processo di modernizzazione
sono destinati ad assomigliarsi sempre di più: essi dovranno urbanizzarsi, sostituire le
forme tradizionali di organizzazione sociale come la tribù, la setta e la famiglia con altre
forme economicamente razionali basate sulla funzionalità e l’efficienza, e infine dovranno
provvedere all’istruzione dei loro cittadini”117;
- Lo sradicamento: le nazioni nate nell’era della globalizzazione, laddove lo stile di vita
occidentale fatica a imporsi - come nell’Europa orientale - non traggono legittimità da una
società civile o su di un moderno concetto di cittadinanza, bensì da un sentimento neo-
tribale che pretende di ergersi a ‘popolo’ e ‘Stato’;
- La spoliazione produttiva: il lavoratore tende a diventare un ingranaggio della
megamacchina, in forme più raffinate ma non meno alienanti e soggioganti di quelle
proposte dai modelli fordisti-tayloristi. I servizi telematici come la posta elettronica, ad
esempio, vengono spesso sfruttati per allargare a 24 ore su 24 la reperibilità del lavoratore
superando i limiti fisici dell’azienda e gli orari di lavoro canonici;
116Triani 2010, 36117Fukuyama 1996, 13
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- L’assenza del desiderio di cittadinanza: il cittadino contemporaneo, dopo una dura
giornata di lavoro, si trova spesso di fronte a problematiche di carattere familiare o
burocratico-amministrativo, che lo spingono a ricercare rifugio nell’entertainment anziché a
interessarsi alla comunità e a impegnarsi politicamente, e così facendo tende a
demandare importanti decisioni politiche agli esperti.
Per riassumere, siamo giunti alla conclusione che il superamento reale del capitalismo e
dei suoi disastri è possibile solo destrutturando il gigantismo della mega-macchina sui cui
si regge, rallentandone il ritmo esasperato di evoluzione e riportandola a un livello
accettabile per le esigenze umane e ambientali, ricostruendo il tessuto sociale e
immaginando nuove forme di convivenza tra uomo e natura. Si può pertanto partire da
alcune premesse fondamentali, per poi svilupparle ulteriormente:
- ridurre il peso delle attività umane a una dimensione compatibile con l’ambiente;
- sviluppare concezioni scientifiche ed economiche slegate dalle tecnocrazia;
- combattere le tendenze globalizzatrici concentrando l’attenzione sulla sfera locale, quella
dove la società civile può intervenire con maggior risultato;
- permettere al cittadino di riappropriarsi della propria autonomia;
- introdurre un controllo sociale sulla tecnologia, in modo che persegua dei fini realmente
utili per la collettività e la preservazione dell’ambiente, non per il capitale;
- riappropriarsi della cultura per ricostruire un sentimento democratico di cittadinanza,
dove il rifiuto delle tirannie globalizzate e la riaffermazione del Sé trovino fondamento
sull’aspirazione all’uguaglianza e alla lotta alla discriminazione, e non su di una cieca
rivendicazione identitaria;
- ricostruire il tessuto sociale, pretendere una ridistribuzione sostenibile della ricchezza e
combattere i modelli culturali imposti dalla società della crescita.
Da queste considerazioni prendono lo spunto alcune idee imprescindibili.
98
Decrescita
‘Decrescita’ è una parola tabù, una vera e propria bestemmia nel mondo economicista in
cui viviamo118. Non è un’ideologia bensì uno slogan che indica una pluralità di soluzioni,
alcune delle quali sostengono un radicale rifiuto della tecnologia e il ritorno al primitivismo
oppure assumono la forma di culti neopagani matriarcali; in questa sede faremo
riferimento a una concezione che potremmo definire ‘decrescita scientifica’ basata sul
superamento – e non la negazione – della modernità e dello sviluppo.
Alcune movimenti politici marginali, legati all’anarchismo e al socialismo utopistico,
avevano già contestato l’ideologia della crescita economica indiscriminata a partire dalla
fine dell’Ottocento, e nel corso del Novecento il delirio produttivista e tecnologico della
società occidentale era stato oggetto di critica da parte di alcuni pensatori radicali - Pier
Paolo Pasolini, Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse. Tuttavia, si è dovuto
aspettare fino agli anni Settanta perché qualcuno si interessasse in modo scientifico e
sistematico all’argomento della crescita economica e della sua compatibilità con la
biosfera. Nel 1971 l’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen fondò la
bioeconomia, una disciplina che studia l’economia in rapporto alle leggi della fisica, con
particolare riferimento al secondo principio della termodinamica. Questo postulato
determina che, alla fine di ogni processo, la qualità dell'energia è sempre peggiore rispetto
all'inizio e quindi qualsiasi processo economico che produce merci e materiali diminuisce
la disponibilità di energia nel futuro e di conseguenza la possibilità di produrre altre merci e
beni materiali: da tale constatazione Georgescu-Roegen prese le mosse per delineare
118Questa parola crea una frattura talmente radicale con le tradizioni economiche consolidate da indurre a un rifiuto psicologico anche persone che portano avanti concezioni compatibili con la decrescita, come Piero Bevilacqua o Guido Viale, che preferiscono parlare più vagamente di ‘sostenibilità’. C’è poi chi non ha capito proprio niente del concetto, come Paolo Ferrero, che in un’intervista ha affermato: "Considero le proposte che provengono dal movimento per la decrescita in larga parte condivisibili; ritengo sbagliato l’obiettivo della decrescita. Il nostro obiettivo non è la decrescita, anche perché altrimenti quest’anno in Italia saremmo andati abbastanza avanti con il socialismo avendo perso il 5% del PIL, ma la modifica del meccanismo di accumulazione. Noi vogliamo “de-mercificare”, non “de-crescere”, non vogliamo mettere la retromarcia e andare indietro, ma svoltare". A parte il fatto di non aver mai spiegato in che cosa consista tale ‘demercificazione’, Ferrero commette il tipico errore di confondere la decrescita, ossia la riduzione volontaria del consumo, con la recessione, che è invece una scelta imposta dalla necessità; la stessa differenza che passa tra una dieta dimagrante e l’inedia. Comunque il fraintendimento di Ferrero è nulla rispetto alle invettive di Giampaolo Fabris, che nel libro La società post-crescita parla della decrescita come di una visione “all’insegna del fermate il mondo voglio scendere”, “prospettiva utopica e conservatrice”, una romanticheria intrisa di “inattuale economicismo”, un “fondamentalismo accecato dell’utopia” in cui le varie correnti sono ossessionate da “l’abbattimento dell’odiato capitalismo”, capaci solo di ipotizzare “uno scenario claustrale, un po’ ‘polpottista’”, “nuovi Savonarola” il cui comune denominatore è “la vocazione masochistica all’ascetismo”, “il massimalismo scostante, talebano che mette in discussione ogni ambito della vita quotidiana per riportarlo a una sorta di stato di natura, di cultura preindustriale additata a modello di buon vivere”, “l’ostracismo nei confronti delle imprese multinazionali ma, più in generale, delle imprese tout court” e il “rigore di stampo superegoico” (i virgolettati sono tutti affettuosi apprezzamenti pazientemente copiati dal libro).
99
una economia della de-crescita, basata cioè sulla riduzione dei consumi e quindi sul
risparmio delle materie prime e dell’energia e sul rispetto dei ciclo biologici.
Successivamente Ivan Illich e la scuola francese del post-sviluppo, in particolare
intellettuali come Cornelius Castoriadis e Jacques Ellul, hanno elaborato ulteriormente tale
concezione ma è stato soprattutto Serge Latouche a divulgarla sotto forma di impegno
civile e progetto politico al fine di ricostruire una società su basi nuove, rigenerandola
anche sul piano sociale. Per Latouche
La parola d’ordine della decrescita ha soprattutto lo scopo di sottolineare con la forza l’obiettivo della crescita illimitata, obiettivo il cui motore è essenzialmente la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale, con conseguenze disastrose per l’ambiente e dunque per l’umanità. Non soltanto la società è ridotta a mero strumento e mezzo della meccanica produttiva, ma l’uomo stesso tende a diventare lo scarto di un sistema che punta a renderlo inutile e a farne a meno.119
Posta in questi termini la decrescita non comporta una rinuncia, bensì una liberazione
della ‘droga della crescita’, la capacità di stare meglio sprecando meno risorse:
Riducendo volontariamente la produzione di alcuni tipi di merci perché non hanno un’utilità effettiva, o perché causano danni ambientali irreparabili, o perché possono essere sostituite da prodotti analoghi che diminuiscono il consumo di risorse naturali e/o l’impatto ambientale e/o la quantità degli scarti da smaltire, non si peggiora la qualità della vita, non si fanno rinunce o sacrifici. Si fanno miglioramenti che non si potrebbero ottenere senza una diminuzione del PIL.120
È bene distinguere la decrescita non solo dallo sviluppo sostenibile ma anche dalla teoria
dell’economia stazionaria, propugnata dall’ex funzionario della Banca Mondiale Hermann
Daly121. Infatti nelle decrescita è presente una critica radicale dello sviluppo, che prescinde
dagli effetti meramente ecologici, come ha indicato Gorz:
119Latouche 2009, 17120Pallante 2009b, 8121 L’idea di un’economia stazionaria comincia ad affacciarsi anche tra alcuni economisti ortodossi un po’ più illuminati. Ecco quanto scriveva l’ex ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa nel 2009 sulle pagine del Corriere: “La crescita ante-2007 era insostenibile sotto il profilo economico-finanziario... Si può allora chiedere: perché mai «crescita»? Non sarebbe meglio la cosiddetta «crescita zero», proposta decenni fa dal Club di Roma? La risposta è no, perché non sarebbe sostenibile socialmente; non basterebbe a migliorare la condizione dell’oltre metà del genere umano priva di scarpe ai piedi, di acqua potabile, di cure mediche adeguate, per non dire del miliardo a rischio di morte per fame. No, quindi, alla crescita zero per il mondo intero; ma sì (o quasi) per il mondo ricco, che scarpe ne ha in abbondanza, lascia aperto il rubinetto dell’acqua, getta molte delle medicine ottenute gratis e da solo produce gran parte del degrado ambientale. In breve: crescita mondiale moderata, concentrata nei Paesi emergenti” (Tommaso Padoa Schioppa, Utopie dannose e utopie utili, Corriere della Sera, 19 agosto 2009)
100
La soddisfazione integrale di tutti i bisogni in cambio di una prestazione lavorativa ridotta non dipende dallo sviluppo insufficiente delle forze o dei mezzi di produzione, ma, al contrario, dal loro sovrasviluppo. Il sistema non ha potuto e crescere e riprodursi che accelerando la distruzione allo stesso tempo che la produzione delle merci; organizzando nuove rarità mano a mano che cresceva la massa delle ricchezze; svalutandole quando queste rischiavano di diventare accessibili a tutti; e perpetuando così la povertà allo stesso tempo che i privilegi, la frustrazione allo stesso tempo che l’opulenza122.
Per implementare la decrescita, Latouche teorizza un circolo virtuoso basato sulle ‘8 erre’:
rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare,
riciclare. Esaminiamole una per una.
- Rivalutare: si tratta dell’aspetto fondamentale per una rivoluzione culturale che spiani la
strada alla decrescita. I valori dominanti oggigiorno sono quelli veicolati dall’ideologia
neoliberista, quindi individualismo, competizione, ricerca del profitto a tutti i costi,
conformismo e rifiuto della diversità. Una società della decrescita deve promuovere
altruismo, solidarietà, armonia con la natura, rispetto dell’Altro e un’etica e una giustizia
svincolate dalla logica del profitto e dell’accaparramento. Deve inoltre saper rivalutare una
concezione del ‘saper fare’ troppo spesso sminuita dalla società dei consumi, interessata
a plasmare a sua immagine e somiglianza un individuo sempre più inetto e dipendente dal
mercato.
- Riconcettualizzare: l’etnocentrismo occidentale ha forgiato la sua visione di concetti quali
‘povertà’, ‘sviluppo’ e ‘libertà’ imponendoli al mondo intero. In particolare, ha bollato tutte
le pratiche di sussistenza come ‘arretrate’, sostituendole con pratiche ‘sviluppiste’ che,
soprattutto nel Terzo Mondo, hanno creato disastri e miseria di proporzioni inimmaginabili,
per cui si impone la ridefinizione di tutto il nostro immaginario collettivo:
Oltre a distruggere l’integrità della comunità umana, il capitalismo ha anche corrotto il concetto classico di ‘vivere bene’, alimentando un terrore irrazionale per la scarsità materiale. Stabilendo criteri quantitativi per definire una ‘buona vita’, ha dissolto le implicazioni etiche del ‘limite’. Da questa lacuna è sorta una problematica specificatamente tecnica, dei nostri tempi: equiparando il ‘vivere bene’ con il ‘vivere opulentemente, il capitalismo ha reso difficilissimo dimostrare che la libertà è più strettamente connessa con l’autonomia personale che con l’opulenza, più con la padronanza della propria vita che con il possesso delle cose, più con la sicurezza emozionale che da viene da una corroborante vita comunitaria che con la sicurezza materiale che deriva dal mito della natura dominata da una tecnologia onnipotente123.
122Gorz 2009, 95123Boochkin 2010, 402
101
Bisognerebbe inoltre ribaltare l’assunto di Fukuyama sulla ‘fine della storia’ e interrogarsi
sui limiti del liberalismo e sulla vera essenza della democrazia.
- Ristrutturare: l’uscita dal capitalismo prevede una riconversione del precedente apparato
produttivo, per creare tecnologie funzionali a una società basata sul nuovo paradigma. Sul
piano ecologico, invece di pensare a innovazioni spesso costruite con materie prime rare e
attraverso processi di produzione molto inquinanti124, è preferibile riutilizzare il materiale
esistente secondo nuove logiche, limitando altresì i flussi di materia.
- Ridistribuire: le disuguaglianze, non solo tra il Nord e il Sud del mondo ma anche
all’interno delle singole nazioni, sono una delle cause principali del fallimento della
globalizzazione neoliberista, anche per quanto riguarda il saccheggio di materie prime e la
pirateria ambientale. Bisogna chiudere con queste pratiche e offrire caso per caso
opportuni risarcimenti e riparazioni.
- Rilocalizzare: la delocalizzazione delle attività produttive è fonte di grande disagio
ecologico e sociale, innescando dinamiche che accentuano la degenerazione ambientale
e la distruzione delle economie locali nel Sud e nel Nord del mondo, causando ondate
migratorie sempre più crescenti. Anche la politica deve riprendere una dimensione locale
in modo che i cittadini non si sentano più vittime di forze oscure e inaccessibili ma
possano influenzare attivamente i processi decisionali, fino a ricreare condizioni ispirate il
più possibile alla democrazia diretta.
- Ridurre: la nostra società assomiglia sempre di più alla Leonia descritta da Calvino ne Le
città invisibili, la metropoli dove ogni giorno i cittadini si risvegliano circondati da prodotti
nuovi di zecca, perché quelli utilizzati il giorno prima sono stati rigorosamente e
immancabilmente cestinati, finendo per creare montagne di spazzatura sempre più alte e
imponenti intorno alla città. Apprezzare la durata delle cose, evitando di farsi fuorviare
dall’ansia delle novità a ogni costo è un fattore imprescindibile nella lotta allo spreco e a tal
fine occorre promuovere quello che Gorz chiamava ‘principio dell’autolimitazione’, per cui
l’individuo limitando il proprio lavoro circoscrive i propri bisogni in favore dell’autonomia di
vita e quindi di una maggiore libertà;
- Riutilizzare/riciclare: la legge universale dell’entropia coinvolge tutto il creato, dalla più
piccola delle particelle fino all’espansione delle galassie e l’umanità non può sottrarsi a
questa dura realtà. Il riutilizzo delle componenti, pur abbassando il PIL, può rappresentare
una miniera preziosa per prolungare la durata di merci e beni, permettendo allo stesso
tempo di risparmiare energia.
124È il caso ad esempio delle celle fotovoltaiche a telluro di cadmio: benché presentino un rendimento energetico superiori a quelle tradizionali, sono costruite con materiali molto più rari del silicio.
102
Sulla base delle ‘8 erre’, Latouche ha stilato un programma politico della decrescita in
nove punti, invitando le forze politiche a condividerli e attuarli:
1. Recuperare un’impronta ecologica uguale o inferiore a un pianeta: il Living Planet
Report del WWF da alcuni anni documenta che, grazie alle ideologie della crescita
economica, il prelievo delle risorse supera la capacità di rigenerazione del pianeta; si tratta
di uno sviluppo non sostenibile che ovviamente va immediatamente bloccato prima che il
mancato smaltimento assuma proporzioni drammatiche.
2. Integrazione dei costi di trasporto: la delocalizzazione delle attività produttive oggi è
favorita dai prezzi contenuti dei trasporti, in quanto non sono tassati nel modo opportuno i
danni provocati da tale attività. Se ciò avvenisse gli imprenditori sarebbero seriamente
incentivata a rilocalizzare le attività.
3. Rilocalizzare le attività: le delocalizzazioni comportano non solo un danno ambientale,
ma costi sociali elevatissimi per i paesi coinvolti che non possono essere ridotti a banali
esternalità economiche. In una delle pagine introduttive del libro Giù le mani! di Michael
Moore, sotto la scritta “Che cos’è il terrorismo?” appaiono due foto: la prima è quella di un
palazzo governativo di Oklahoma City, sventrato dall’attentato dinamitardo del 1995; la
seconda è quella di un altro edificio in rovina, anch’esso apparentemente vittima di
bombardamento: in realtà è raffigurata la fabbrica della General Motors di Flint (stato del
Michigan) come appariva nel 1996, dopo che i vertici dell’azienda l’avevano smantellata
per trasferire la produzione in Messico. Un’associazione di idee semplicemente geniale.125
4. Restaurare l’agricoltura contadina: principio valido sia nel Nord che nel Sud del mondo.
Deindustrializzare l’agricoltura e riportarla a una dimensione locale, naturale e tradizionale
significa anche ridurre il degrado sociale e ambientale provocato dallo spopolamento delle
campagne. Per fare ciò occorre abbandonare il mito della produttività, quello che negli
anni Sessanta ha dato origine alla ‘rivoluzione verde’ e che ora mai palesa tutti i suoi limiti,
e passare dalla logica della priorità all’esportazione a quella della sussistenza e della
sovranità alimentare.
5. Trasformare gli aumenti della produttività in riduzione del tempo di lavoro e in creazione
di posti di lavoro: si tratta di una concezione radicale nello spirito dei movimento dei
lavoratori delle origini, ma che i sindacati e la Sinistra attuale hanno sostanzialmente
abbandonato in nome della ‘politica dei redditi’ e dei ‘premi di produttività’, entrambe
125Si pensi anche alla chiusura dello stabilimento FIAT di Termini Imerese, in una regione come la Sicilia dove la scarsa iniziativa privata rischia seriamente di rafforzare logiche clientelari e criminalità organizzata.
103
misure consone alla crescita economica. Emancipare il più possibile l’uomo dalla schiavitù
del lavoro salariato è invece non solo un insostituibile fattore di progresso, ma anche
l’unica possibilità per una convivenza pacifica tra forza lavoro e sviluppo tecnologico.
Latouche stima che, nel corso di due secoli, la produttività in Francia sia aumentata 30
volte, ma la durata del lavoro sia calata solo della metà, con una crescita dell’occupazione
di solo 1,75 volte.
6. Stimolare la “produzione di beni relazionali”: lo Stato può farlo cercando di rendere la
conoscenza un bene collettivo e non una fonte di esclusione. La popolazione invece può
creare nuove reti comunitarie per l’assistenza o lo svago, nello spirito di un nuovo
mutualismo.
7. Ridurre lo spreco di energia: prima di pensare a produrre energia ‘ecologica’, sarebbe
bene risparmiare almeno una parte di quella consumata attualmente. Al momento sono
già disponibili tecnologie che permettono, a parità di produzione, di ridurre di quattro volte
il consumo di energia; associazioni come il Rocky Mountain Institut lavorano da alcuni anni
su questi progetti e hanno elaborato soluzioni pratiche applicabili da subito.
8. Penalizzare fortemente le spese pubblicitarie: la pubblicità è parte integrante
dell’ideologia capitalista, perché incita all’acquisto in modo compulsivo e irrazionale e
attraverso la moda provoca la rapida obsolescenza delle cose. Chi ne sottovaluta la
portata dovrebbe chiedersi perché, ad esempio, solo negli USA nel 2007 sono stati
investiti 148,99 miliardi dollari in inserzioni pubblicitarie126. Già oggi è vietato reclamizzare
alcuni prodotti (sigarette, superalcolici) e non è consentita la trasmissione di alcune
tipologie di programmi, come quelli pornografici, in determinate fasce orarie; in futuro si
potrebbe proibire la trasmissione di pubblicità durante i programmi destinati ai bambini,
che sono ovviamente le vittime più facilmente manipolabili e limitare l’invadenza dei
materiali di propaganda commerciale in ogni spazio fisico urbano. Un ruolo importante può
ricoprirlo l’istruzione scolastica rivelando la natura dei meccanismi di propaganda e
consenso.
9. Decretare una moratoria sull’innovazione tecnico-scientifica: è senza dubbio uno dei
punti più controversi e discussi, da cui si sono dissociati persino molti simpatizzanti del
movimento per la decrescita. Secondo Latouche bisognerebbe esercitare un’importante
opera di indirizzo dello sviluppo tecnologico, in modo da adeguarlo alle reali necessità
umane e ambientali. Si può portare come prova il fatto che, in una nazione come la
126Dati del TNS Media Intelligence reports U.S. Advertising 2007
104
Francia che ha puntato in modo massiccio sull’energia nucleare, le rinnovabili occupino
uno spazio infimo nel panorama energetico
La teoria della decrescita è assolutamente rivoluzionaria perché nega alla radice i
fondamenti del capitalismo - cioè ricerca del profitto e crescita economica - molto più di
quanto non facciano altre ideologie radicali convinte di doverlo sfidare sul piano della
produttività, come faceva il socialismo reale. Presenta inoltre il vantaggio di non richiedere
necessariamente la ‘conquista del potere’ essendo applicabile già da subito come filosofia
di vita quotidiana combattendo in modo pacifico ma fermo l’establishment politico ed
economico.
Agroecologia
Oggi i fallimenti della cosiddetta ‘rivoluzione verde’, cominciata a metà degli anni
Cinquanta e basata sulla diffusione su scala mondiale della chimica industriale e della
meccanizzazione in campo agricolo, sono ampiamente risaputi: dopo l’impennata
produttiva iniziale, a farla da padrone sono stati avvelenamento delle falde,
standardizzazione e perdita di biodiversità, impoverimento dei terreni e spopolamento di
massa delle campagne127. L’agricoltura è responsabile del 18% delle emissioni di gas
serra, di cui il 45% provocate dai concimi azotati, la cui decomposizione libera protossido
di azoto (N₂O)128.
Altrettanto conosciuto è il problema della fame nel mondo che, secondo il rapporto FAO
2009, riguarda più di un miliardo di persone. Molti però non si immagineranno
minimamente che nel 2008, anno in cui è impennato il prezzo di molti generi alimentari
anche a seguito di speculazioni finanziarie, la produzione mondiale di cereali aveva
raggiunto il valore record di 2.232 milioni di tonnellate, un dato che dovrebbe significare la
disponibilità di un chilo al giorno per ogni essere umano129. Questa situazione assurda
chiarisce come il problema della crisi alimentare dipenda principalmente da situazioni
politiche e solo secondariamente dalla scarsità produttiva. Per sintetizzare, tra le cause
principali della denutrizione si annoverano:
127Per approfondimenti del problema si rimanda alla lettura di opere come Il libro nero dell'agricoltura, di Davide Ciccarese128Gouer e Gouyon 2009, 294129Colombo e Onorati 2009, 40
105
- il ricorso massiccio, nei paesi del Sud del mondo, alla monocoltura per prodotti da
esportazione a scapito dell’agricoltura di sussistenza. La monocoltura, privilegiata
soprattutto per ripianare il debito estero, è più soggetta all’attacco di parassiti e malattie,
quindi comporta molti rischi;
- l’aumento dei prezzi agricoli, spesso ottenuto artificiosamente distruggendo riserve
alimentari nel Nord del mondo. La FAO ha calcolato che tra il 2005 e il 2008 il prezzo del
mais è cresciuto del 131% e quello del frumento del 177%, stimando inoltre che l’aumento
dell’1% del costo di un alimento comporta tra i poveri una riduzione dell’assunzione
calorica dello 0,5%130;
- la standardizzazione delle colture operata dall’agronomia occidentale, che riduce la
diversità biologica aumentando i rischi di carestia. Se nel recente passato l’umanità ha
consumato in modo costante più di 3000 generi di piante, oggi 8 coltivazioni producono il
75% degli alimenti mondiali131.
- la debolezza dei mercati del Sud del mondo, generata non soltanto dall’apertura
indiscriminata al commercio internazionale, ma anche da politiche di cooperazione
internazionale insensate. Infatti molte ONG, in base allo stereotipo della scarsità di cibo,
donano grandi quantità di prodotti alimentari che finiscono in concorrenza con quelli locali,
danneggiando ulteriormente i produttori;
- le guerre e le azioni terroristiche, che impediscono il normale svolgimento dell’attività
agricola;
- la diffusione indiscriminata di colture per l’alimentazione animale e la produzione di
biocarburanti;
- lo spreco di cibo, che raggiunge proporzioni inimmaginabili. Tristram Stuart ha calcolato
che, solo con il cibo sprecato in un anno negli USA e in Gran Bretagna da famiglie,
ristorazione e vendita al dettaglio, si potrebbe sfamare a un livello minimale oltre un
miliardo di persone, evitando l’emissione di più di ottanta milioni di tonnellate di gas serra.
Se allo spreco aggiungiamo anche l’eccessivo consumo – secondo la FAO il numero di
obesi nel mondo è all’incirca uguale a quello dei denutriti, intorno al miliardo di persone -
.le risorse sperperate sono inquantificabili;
La precarietà e l’instabilità del settore agro-alimentare derivano in gran parte dal fatto che,
nel sistema attuale di produzione e consumo, il ruolo dell’agricoltore è assolutamente
passivo, in balia degli agenti internazionali. L’Africa rappresenta solo la punta dell’iceberg:
130Ibidem, 41131Shiva 2009, 195
106
L'Africa è il continente più ricco di risorse del pianeta ed è sottopopolato. Ha una popolazione pari a quella dell'Europa ed è tre volte più grande. È anche tre volte più grande della Cina e ha un terzo della sua popolazione. Ciò nonostante, è il continente dove maggiormente infierisce la povertà. «Certamente - sostiene Pierre Rabhi - ciò dipende dal fatto che da molti secoli le sue ricchezze sono sottoposte a saccheggio. Ma non solo. La miseria endemica che imperversa nel mio continente natale, come del resto nella maggioranza delle regioni definite sottosviluppate, deriva in gran parte dall'imposizione a popolazioni che non hanno chiesto nulla a nessuno, di modi di produzione che non sono adatti né ai loro territori, né al loro saper fare, né alle loro forme di organizzazione sociale. La nuova distribuzione modernista, introdotta dalla colonizzazione e perseguita dalla politica del libero scambio, può essere illustrata nella maniera seguente. Quelle popolazioni rappresentano un potenziale produttivo, per cui le si connette al sistema mercantile facendole coltivare prodotti esportabili secondo il procedimento abituale dell'agroindustria: si forniscono loro le sementi e gli input con le modalità d'impiego; dopo la raccolta, il contadino porta le sue balle di cotone alla cooperativa, che le spedisce in Olanda o altrove per commercializzarle; alla fine della catena il piccolo produttore riceve la sua parte del prezzo di vendita diminuito del costo delle forniture. Non controllando né il primo, né il secondo, egli non può allora che constatare la sua dipendenza dall'economia mondiale e dalle sue fluttuazioni: costo dei concimi indicizzato sul dollaro (ci vogliono tre tonnellate di petrolio per produrre una tonnellata di concime), prezzi delle merci sottomessi alla speculazione, diktat del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale... Siccome nel frattempo la coltivazione dei prodotti alimentari è stata sradicata per fare spazio monoculture (cotone, caffé, arachidi...), finalizzate esclusivamente all'esportazione, il contadino africano si ritrova nell'impossibilità di uscire dal sistema»132.
Movimenti contadini del Sud e del Nord del mondo, come quelli riuniti nel network Via
Campesina, hanno invece proposto un approccio diverso, che riscopre in chiave moderna
la tradizione; si possono così sintetizzare le proposte principali:
- decretare il primato della sovranità alimentare su qualsiasi altra considerazione, per cui il
fine dell’agricoltura è innanzitutto soddisfare il fabbisogno di ogni comunità locale. Tale
principio è divenuto legge in Equador, Bolivia, Nepal, Mali, Nicaragua e Venezuela, paesi
che non a caso hanno sofferto nel recente passato i drammatici effetti delle monocolture
da esportazione;
- restituire autonomia alla comunità contadina, rifiutando il ricorso invasivo a biotecnologie
e meccanizzazione in favore del riciclo dei nutrienti e dell’ottimizzazione dell’uso delle
risorse locali. È il presupposto dell’agricoltura biologica che, per funzionare efficacemente,
necessita di una produzione diversificata abbandonando la logica della monocoltura;
132Pallante 2009a, 53-54
107
- abolizione del principio di proprietà intellettuale sugli organismi viventi, quasi sempre atto
di biopirateria operato dalle multinazionali nei confronti del Sud del mondo;
- accorciamento della filiera produttiva;
- promozione di riforme agrarie che, colpendo la grande proprietà fondiaria, agevolino la
formazione di comunità autonome di piccoli contadini;
- subordinazione di tutte le produzioni agricole a scopo non alimentare alle esigenze
nutrizionali della popolazione umana.
Il secondo punto, che può apparire arcaico e antimoderno, è fondamentale perché
ribadisce la centralità dell’autonomia locale contadina. Abbiamo già constatato nella
seconda parte gli effetti deleteri dell’agricoltura industriale sulle società del Sud del mondo
in termini occupazionali, ma altrettanto importante è la perdita di indipendenza. Il ritorno
alla trazione animale, ad esempio, può anche fungere da fonte di concime e biogas,
mentre l’agricoltura sviluppista si traduce in dipendenza da combustibili e ricambi per i
macchinari, che va ad aggiungersi a quella dai prodotti biochimici.
In quest’ottica si può focalizzare meglio l’avversione degli ambientalisti per i prodotti OGM.
Ammesso che non comportino alcun pericolo per la sicurezze alimentare e che
permettano realmente di abbandonare l’uso di pesticidi – cosa che molti studi indipendenti
contestano133 - adottare sementi transgeniche significa praticare una rigida
standardizzazione delle colture, costringere il contadino ad acquistare semi sterili e quindi
non manipolabili, rendendolo dipendente dai capricci delle multinazionali e allargando la
filiera. Negare ciò affermando che il costo per le sementi sarebbe inferiore a quello per i
pesticidi (dando per scontato che l’agrobusiness non sarebbe mai tanto cinico da
aumentare i prezzi, una volta vincolati i contadini) dimostra la miopia di ragionare solo in
termini pecuniari e una visione del contadino come operaio della terra privo di
intraprendenza e iniziativa. Impedire all’agricoltore di manipolare i semi equivale infatti a
mortificare la sua professione.
Monsanto e le altre corporation del settore promettono che gli OGM metteranno fine alla
fame nel mondo, riciclando così i vecchi slogan della rivoluzione verde, ma si è appena
evidenziato come il problema della denutrizione non sia legato alla scarsa produttività.
Inoltre lo studio del 2007 Organicagriculture and the global food supply: renewable
133Ad esempio, nel rapporto 2008 di Friends of the Earth Internationali i dati testimoniano che le colture transgeniche comportano un aumento consistente nel ricorso a glifosato e pesticidi. In ogni caso, gli studi che presentano risultati positivi sembrano scordarsi che, nel lungo periodo, i parassiti avranno inevitabilmente la meglio in quanto variabili geneticamente, per cui la natura selezionerà specie resistenti; si ripeterà sostanzialmente lo stesso processo provocato dall’uso massiccio di antibiotici.
108
agriculture and food systems, redatto da un gruppo di studio dell’università del Michigan
coordinato da Catherine Badgley, ha quantificato che un’agricoltura biologica, se adottata
nelle modalità opportune, sarebbe in grado di produrre tra le 2.640 e le 4.380 calorie per
persona al giorno, un dato abbondantemente al di sopra del fabbisogno umano.
A livello accademico, si comincia a parlare da tempo di agroecologia, intendendola
appunto come un approccio che non si limita ad analizzare l’aspetto produttivo ma tutta la
dimensione ecologica, tecnica, socioeconomica e culturale dell’agroecosistema, al fine di
preservare la biodiversità, il riciclo dei nutrienti, l’ottimizzazione dell’uso delle risorse locali,
l’autosufficienza economica delle azienda agricole.
La diffusione dell’agroecologia avrebbe ricadute talmente importanti sul piano sociale e
ambientale che la sua estensione su scala planetaria deve rappresentare un obiettivo
politico imprescindibile.
Scienza, tecnologia ed economia: nuovi paradigmi
Per millenni l’umanità è vissuta seguendo i cicli naturali sfruttando quasi esclusivamente
energie rinnovabili per il proprio sostentamento. Le rivoluzione industriali, ricorrendo ai
combustibili fossili come il carbone e ai processi di sintesi chimica, hanno apparentemente
permesso l’emancipazione dai ritmi della natura assoggettando la produttività alla volontà
umana, sia in campo agricolo che in quello industriale, con la sola discriminante
dell’efficienza tecnologica. Per favorire ciò, si è sviluppata una costante settorializzazione
del pensiero scientifico in branche specializzate che sicuramente ha permesso di
espandere la conoscenza sui fenomeni naturali, perdendo però di vista il mondo fisico
come insieme vivente e trasformando gradualmente la scienza, nel nascente mondo
capitalista, in un un’ancella dell’economia industriale e della politica:
La ragione, la scienza e la tecnica, queste tre grandi vie (o ‘strumenti’, per usare il linguaggio del moderno strumentalismo) per la conquista della libertà umana che solo una generazione fa sembravano tanto certe, non godono più di un così alto status. Fin dalla metà del ventesimo secolo, si è vista la ragione diventare razionalismo, una fredda logica per la manipolazione sofisticata degli esseri umani e della natura; la scienza diventare scientismo, un’ideologia che vede il mondo come un corpo eticamente neutrale, essenzialmente meccanico, che deve essere manipolato; la tecnica diventare tecnologia moderna, un armamentario di potentissimi strumenti per affermare l’autorità di un élite tecnoburocratica. Questi ‘mezzi’ per salvare la libertà dalle grinfie di un modo clericale e mistificato hanno rivelato un lato oscuro che ora minaccia di ostacolare la libertà, se non addirittura di
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annullare proprio quelle aspettative di società libera e di libera mente umana che ragione, scienza e tecnica avevano fatto nascere134.
Le conseguenze sono state pesantissime per l’umanità. Contagiata dall’ideologia del
profitto a breve termine, la scienza ha trascurato ogni principio di precauzione nel tentativo
di assoggettare la natura ai ritmi industriali, trascurando o addirittura negando gli effetti
collaterali delle tecnologie. Slegata da ogni considerazione etica, la tecnologia si è
asservita al potere militare producendo ordigni sempre più devastanti, fino ad arrivare alla
concreta possibilità di distruzione del pianeta attraverso la proliferazione nucleare. La
storia dell’energia atomica è emblematica delle degenerazioni che si sono verificate: i
reattori nucleari, in origine, servivano unicamente a produrre plutonio per scopi bellici; solo
successivamente si pensò che l’enorme quantità di calore prodotta dai reattori potesse
essere recuperata almeno parzialmente in una centrale termoelettrica, una logica
decisamente fredda e cinica avulsa da qualsiasi ambizione di progresso umano. Del resto,
alcuni scienziati di primo ordine come John von Neumann ed Edward Teller hanno
sostenuto con forza l’escalation nucleare se non proprio caldeggiato una guerra atomica, e
non a caso sono serviti da ispirazione a Stanley Kubrick per il personaggio del Dottor
Stranamore, vivida incarnazione cinematografica dello stereotipo dello ‘scienziato pazzo’
ben lontano dalle rappresentazioni ideali illuministe e positiviste. Ma è ancora più triste
pensare che gli scrupoli di coscienza non siano bastati neppure a persone di alto profilo
morale, come Albert Einstein o Andrei Sacharov, dall’astenersi dai progetti atomici militari.
Illich e Marcuse hanno sostenuto che lo sviluppo tecnologico ipertrofico tende a ridurre
drasticamente il grado di autonomia umano demandando sempre di più agli esperti; per
tale ragione, Illich propone di riportare la tecnologia a un livello ‘conviviale’, dove sia la
macchina a lavorare per l’uomo e non l’uomo per la macchina. Questo approccio sembra
indirizzare nella direzione giusta, ma resta ancora abbastanza incompleto perché non
affronta pienamente le ragioni della degenerazione della conoscenza, pur abbozzandone
alcune. Vandana Shiva nel libro Monoculture della mente ha denunciato alcune
caratteristiche negative del sapere attuale, che si possono così riassumere:
- E’ profondamente imbevuto di economicismo e pertanto è insensibile ai bisogni umani, al
punto che il 90% di questo sapere potrebbe andare distrutto, visto che addirittura minaccia
134Boochkin 1988, 414
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la vita umana (come insegnano gli incidenti di Bhopal, Chernobyl, Sandoz); la sua fine
migliorerebbe le possibilità di benessere umano;
- Le implicazioni politiche del sapere dominante non garantiscono né l’eguaglianza né la
giustizia. Esso rompe la coesione delle comunità locali e divide le società tra quelle che
hanno accesso al sapere - e quindi al potere - e quelle che non ce l'hanno;
- Essendo frammentato e destinato a rapida obsolescenza, il sapere perde ogni
dimensione di saggezza;
- E’ un sapere intrinsecamente colonizzante e mistificatorio che nasconde la
colonizzazione sotto la mistificazione;
- Rifugge dalla concretezza, svalutando i saperi concreti e locali;
- Impedisce la partecipazione a una pluralità di soggetti;
- Trascura moltissimi percorsi per conoscere la natura e l’universo: è una “monocoltura
della mente", appunto.
Partendo da questi errori, la Shiva è tra coloro che propongono un paradigma scientifico
basato su di una visione olistica – il cardine del pensiero ecologico - incentrato sulla
complessità e sull’interrelazione tra i fenomeni anziché su di una visione riduzionista. La
natura non viene più considerata semplicemente come erogatrice di materie prime, ma
come parte integrante di un ciclo della vita da cui dipende anche l’esistenza umana. La
versione più estrema di questa nuova concezione è probabilmente la teoria di Gaia di
James Lovelock, in base alla quale la Terra – chiamata Gaia – è un organismo vivente
unitario capace anche di difendersi dalle aggressioni che le vengono portate; in generale
si tratta di un approccio rintracciabile nelle culture africane, asiatiche e sudamericane,
dove sono radicate tradizioni indigene ispirate all’animismo che tendono a integrare uomo
e natura, rispetto alla separazione abbastanza netta che contraddistingue la cultura
giudaico-cristiana135 e l’Islam. È certo che, se la scienza occidentale si fosse ispirata alla
concezione olistica, l’industrializzazione non si sarebbe spinta in uno sviluppo aggressivo
incurante delle conseguenze a lungo termine.
Il pensiero della Shiva però non si limita a un approccio interdisciplinare tra le diverse
branche della scienza, ma sottolinea l’importanza di integrare anche e soprattutto le 135Basti leggere questo passo dell’enciclica Popularum Progressio: “«Riempite la terra e assoggettatela» (Genesi 1,28): la Bibbia, fin dalla prima pagina, ci insegna che la creazione intera è per l'uomo, cui è demandato il compito d'applicare il suo sforzo intelligente nel metterla in valore e, col suo lavoro, portarla a compimento, per così dire, sottomettendola al suo servizio. Se la terra è fatta per fornire a ciascuno i mezzi della sua sussistenza e gli strumenti del suo progresso, ogni uomo ha dunque il diritto di trovarvi ciò che gli è necessario. Il recente concilio l'ha ricordato: «Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all'uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, dimodoché i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia, ch'è inseparabile dalla carità»”.
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conseguenze sulla società umana, altrimenti la tecnologia rischia di creare sempre più
esclusione, come in effetti è avvenuto con lo sviluppo frenetico di tecniche di produzione
labor saving allo scopo di tagliare la manodopera, oppure disinteressandosi degli effetti dei
modelli produttivi sulla struttura sociale. Ad esempio, molti scienziati ‘progressisti’136, pur
ammettendo le storture dell’agrobusiness, perorano la causa delle sementi OGM come
soluzione per la denutrizione, senza pensare alle conseguenze del radicamento della
monocultura nelle società del Sud del mondo.
Il fisico Fritjof Capra propone di spingere la visione olistica (non lineare) fino alle
conseguenze più rivoluzionarie:
La nuova visione scientifica della vita, fondata sui concetti della dinamica non lineare, rappresenta un vero e proprio spartiacque concettuale. Per la prima volta, abbiamo ora a disposizione un linguaggio che ci mette in grado di descrivere e analizzare i sistemi complessi... Nella mia estensione dell’approccio sistemico al dominio sociale è esplicitamente incluso anche il mondo materiale. Ciò suonerà strano, dato che solitamente chi si dedica allo studio della società non è interessato al mondo della materia. Per il modo in cui sono state organizzate le nostre discipline accademiche, le scienze naturali si occupano delle strutture materiali, mentre le scienze sociali studiano le strutture sociali (intese essenzialmente come regole di comportamento). In futuro però, una divisione così marcata non sarà più possibile, proprio perché la sfida principale del nuovo secolo – per gli scienziati della società, per quelli della natura e per chiunque altro – sarà quella di costruire delle comunità che siano ecologicamente sostenibili, progettate in modo tale che le loro tecnologie e le loro istituzioni sociali (le loro strutture materiali e sociali) non vengano a minare quella capacità di sostenere la vita che è una proprietà intrinseca del mondo naturale.I principi che staranno alla base della progettazione delle nostre future istituzioni sociali dovranno essere in armonia con quei principi organizzativi che la natura stessa ha sviluppato al fine di sostenere la rete della vita. Per raggiungere questo fine, non potremo fare a meno di un orizzonte concettuale unificato che ci consenta la comprensione sia delle strutture materiali, sia di quelle sociali137.
La concezione di Capra è particolarmente incisiva nei confronti dell’economia. Inizialmente
una parvenu dell’Accademia – ancora a inizio Ottocento nella prestigiosa università di
Oxford venne osteggiata per molti anni la creazione di una cattedra di economia politica -
questa disciplina è in assoluto quella che più è rimasta isolata dalle scienze naturali e
sociali138 eppure ha finito per diventare dominante imponendo i suoi modelli astratti e 136 Penso ad esempio a Dario Bressanini, collaboratore de Il Fatto Quotidiano. 137Capra 2002, 22-23138 I suoi adepti in genere sono molto suscettibili alle critiche che vengono da ambienti scientifici di settori esterni. Il 21 ottobre 2011 l’astrofisico Francesco Sylos Labini scrisse un post sul suo blog nel sito Web de Il Fatto Quotidiano permettendosi di mettere in dubbio i meriti di alcuni Nobel per l’economia – principalmente appartenenti alla scuola dei Chicago boys di Milton Friedman, come Robert Lucas – che non solo non avevano previsto la crisi ma avevano sostenuto a spada tratta le misure che l’hanno fatto deflagrare. Il giorno dopo, sullo stesso sito Web, Andrea Moro, professore associato della Vanderbilt University e membro
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senza alcun riferimento concreto con la realtà. L’apoteosi di questa assurdità è stata
raggiunta sicuramente da Milton Friedman e dal suo celebre aforisma per cui ‘l’azienda è
responsabile solo nei confronti degli azionisti’, come se si trattasse di un’entità
dell’iperuranio platonico indifferente a quanto succede nel mondo reale; e non a caso nel
mondo descritto nei manuali l’economia può crescere all’infinito, le materie prime sono
illimitate, non esistono ‘esternalità negative’ come l’inquinamento e gli esseri umani,
quando non sono ridotti a mere pedine del mercato, assumono caratterizzazioni
psicologiche grottesche.
Tralasciando le concezioni basate sulla ‘responsabilità sociale dell’impresa’ (di fatto
operazioni di marketing basate su di una filantropia per nulla disinteressata), è meglio
concentrare l’attenzione sui modelli economici imperniati sulla concezione olistica e
l’imitazione degli ecosistemi. Un esempio è l’approccio chiamato ora design sistemico,
eco-design o economia della biomimesi: il modello economico è strutturato in modo che il
flusso (throughput) di materia scorra da un sistema ad un altro in una metabolizzazione
continua, dove gli scarti di un’attività diventano materia prima per un’altra secondo un
effetto cascata; in questo modo si diminuisce l’impronta ecologica aumentando il flusso
economico e quindi anche le possibilità occupazionali. Le singole parti del sistema si
intrecciano formando una rete virtuosa di relazioni tra i flussi di materia, energia e
informazione (l’agroecologia descritta nel precedente paragrafo è un esempio di design
sistemico).
Gunter Pauli ha chiamato questo orientamento blue economy (o green economy 2.0), per
differenziarlo sia dall’economia tradizionale - (in) red economy – sia dalla economia che
integra le energie rinnovabili nei soliti modelli di business (green economy). Invece di
immaginare tecnologie fantascientifiche, Pauli incoraggia ad apprezzare l’efficienza degli
ecosistemi:
Mentre l’uomo è sempre alla ricerca di fonti energetiche per applicazioni commerciali e domestiche, gli ecosistemi non devono mai essere collegati alla rete elettrica. Nessun membro dell’ecosistema necessita di combustibili fossili o di una connessione alla rete per produrre, né i rifiuti rappresentano un prodotto nei sistemi naturali. Tutto rimane nel flusso dei nutrienti. In natura, i rifiuti prodotti dagli uni sono
del collettivo di economisti Noisefromamerika, reagì in modo molto stizzito alle critiche di Labini, concludendo arrogantemente: “Pensando un criterio certamente consono alla “scuola di Chicago”, il salario è una misura del contributo di un lavoratore al prodotto di un paese. Lo è di più in condizioni di concorrenza nel mercato del lavoro, di meno in condizioni monopolistiche, ma almeno serve a dare un ordine di grandezza. Accettando questo criterio, per misurare il contributo degli economisti al benessere globale basta sommare tutti i loro salari. Ad essere fortunati, arriveremo sì e no a una frazione di millesimo del Pil globale. Ecco, questo è il nostro contributo al miglioramento della condizione umana. Giusto un pelino più grande di quello degli astrofisici”.
113
sempre un nutriente, un materiale o una fonte di energia per gli altri. Perciò, la soluzione non solo alle sfide dell’inquinamento ma alle sfide economiche cui dobbiamo far fronte risiede nell’applicazione di modelli osservabili in un sistema naturale... Emulando il modo in cui gli ecosistemi trasformano ogni cosa, anziché sostituire un elemento o un ingrediente tossico con uno meno inquinante, si utilizzeranno processi verdi e sostenibili a tutti gli effetti, offrendo posti di lavoro e surclassando le industrie che producono rifiuti. Ciò significa che il prodotto che ne deriva, che di si tratti di un colore naturale, di un materiale edile o di una superficie idrorepellente, è possibile non solo ottenerlo rispettando la sua interazione con l’ambiente, bensì garantendo successo economico e aggiudicandosi una considerevole quota di mercato139.
Per fare ciò è necessaria un’apertura mentale che consenta di sopperire agli errori del
passato:
Sempre più spesso l’industria trova sostituti naturali a prodotti efficaci ma tossici, però poi impiega metodi tradizionali di produzione, contribuendo così all’aumento della nostra impronta di carbonio. Quando l’industria trova soluzioni nella sfera biologica, torna poi alla manipolazione genetica e alla clonazione per garantirsi risultati controllabili. Per modificare lo standard di mercato non sarà sufficiente sostituire una molecola con un’altra, bisognerà ispirarsi ai processi naturali per dirigere i sistemi verso la sostenibilità. Una blue economy offre un modello che si attiene alla fisica e alla natura nella selezione dei materiali e nei processi. Così avvia una cascata generativa e rigenerativa di innovazioni realizzabili, creando prodotti sostenibili140.
I risultati ottenibili sono sbalorditivi:
Ci sono vaccini che non necessitano di alcuna refrigerazione, strumenti per regolare il ritmo cardiaco che non hanno bisogno di chirurgia, tecnologie del vortice che disincrostano le tubature dell’acqua senza sostanze chimiche, alghe che sconfiggono i batteri rendendoli ‘sordi’, seta tagliente come la lama di un rasoio e la lista sarebbe ancora molto lunga...L’opportunità di sostituire qualcosa con niente, di sostituire un materiale o un procedimento non rinnovabile o tossico con un altro che dipende solamente dalla fisica e dai processi naturali è particolarmente affascinante. La capacità di ridurre il rischio generando maggiore liquidità rende i prodotti e i servizi competitivi, promuovendo così una nuova ondata di imprenditorialità. In questo modo si creeranno milioni di posti di lavoro sostenibili, fondamentalmente passando dai vecchi modelli e metodi produttivi ormai superati a innovazioni e processi basati sulla comprensione scientifica di soluzione già collaudate che incoraggiano la prossima generazione ad abbracciare l’innovazione141.
139Pauli 2010, 53140Ibidem,115141Ibidem, 119
114
Nel libro Blue Economy, Pauli presenta cento innovazioni basate sul nuovo approccio,
molte delle quali ideate in paesi del Sud del mondo dove si fa di necessità virtù.
Per implementare questo modello economico, bisogna ovviamente pensare a una
pianificazione di nuovo tipo dove la politica individui come realizzare flussi di materia
efficienti. Per farlo occorre superare i modelli classici basati sulla linearità, ma non solo:
I modelli economici lineari prevedono l’assegnazione di un valore di mercato a ogni cosa, il calcolo del costo di ogni input, la distribuzione dei costi indiretti su ogni output e la conversione dei centri di costo in centri di profitto fatti per competere per le risorse interne mediante l’esternalizzazione. Ne deriva un calcolo basato sulla logica del consolidamento che prevede in sostanza la somma di tutto e l’eliminazione dei doppi conti. Questo non svela le sinergie esistenti tra le diverse divisioni di una stessa società, né identifica i beni comuni considerati gratuiti (e pertanto privi di valore).Inoltre, non mette un prezzo sulle esternalità imposte alla società – che si trova fuori dal core business – e non scopre le opportunità andate perse che esulano dall’attività principale delle aziende, semplicemente perché non vengono nemmeno prese in considerazione. Di solito non facciamo altro che imporre costi alle generazioni future, che non sono né consapevoli né tantomeno informate del fatto che stiamo sfruttando la Terra oltre il limite che andrebbe rispettato per poter ancora rimediare facilmente alle nostre colpe: lasciamo a loro i problemi da risolvere e, così, il cambiamento climatico può continuare senza che si capisca davvero quanto è urgente porvi rimedio142.
Difficile capire fin dove Pauli, nella sua genialità, sia consapevole di proporre un modello
di economia mercato che supera però il capitalismo e i dogmi del profitto e della crescita
illimitata.
Risparmio e conversione di modello energetico
Applicando la visione olistica, il sistema energetico va ripensato non solo in merito alle
problematiche ambientali ma anche alle ripercussioni sociali che può originare, visto che,
metaforicamente parlando, l’energia e le sue infrastrutture costituiscono il sangue e le
ossa della mega-macchina capitalista. La struttura centralizzata basata sulle grandi
centrali è tra i principali responsabili del dominio politico-economico attuale, in quanto
relega il cittadino a semplice utente-consumatore privilegiando l’espertocrazia, le grandi
corporation e il centralismo dei processi decisionali; la sua inefficienza favorisce i consumi
eccessivi e lo spreco, sposandosi con la logica della crescita e non certo con le evidenze
della scienza. Non bisogna cadere nell’errore di ritenere questo modello la conseguenza
142Ibidem, 269
115
naturale dello sviluppo tecnologico dagli albori della rivoluzione industriale: l’effetto
fotovoltaico, ad esempio, era stato scoperto dal fisico francese Edmond Becquerel già nel
1839 e tra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX molti ingegneri anche in Asia e
in Africa avevano realizzato prototipi dei moderni collettori solari, ma le fonti fossili e la loro
concentrazione in stock – impossibile con le rinnovabili – permetteva agli investitori di
impadronirsi dei giacimenti e di creare situazioni di monopolio, quindi sono state favorite in
tutti i modi, così come successivamente è successo con il nucleare143.
Per combattere questa visione anche in questo caso è necessario adottare un approccio
sistemico che non si limiti a una discussione sul tipo di energia da impiegare:
La soluzione al caso climatico non è il cambiamento delle fonti energetiche, dal combustibile fossile al nucleare, ai biocombustibili e alle grandi centrali idroelettriche. La soluzione è il cambiamento del modello: - da una visione riduttiva a una visione del mondo olistica basata sulle interconnessioni;- dal modello industriale automatizzato a un modello ecologico;- dalla definizione dell’essere umano in termini di consumo a una definizione che ci riconosca come protettori delle risorse limitate della terra e creatori della sua ricchezza insieme alla natura.144
Il terzo punto è quello da cui partire, perché l’elevato fabbisogno energetico – a
prescindere dalla fonte utilizzata – legittima l’esistenza della mega-macchina e dei suoi
seguaci strutturando gerarchicamente la sfera sociale. Nel saggio Energia ed equità, Illich
illustra efficacemente la questione:
Una politica di bassi consumi di energia permette un'ampia scelta di stili di vita e di culture. Se invece una società opta per un elevato consumo di energia, le sue relazioni sociali non potranno che essere determinate dalla tecnocrazia e saranno degradanti comunque vengano etichettate, capitaliste o socialiste...Mentre si è cominciato ad accettare, come condizione per sopravvivere fisicamente, qualche limitazione ecologica al consumo energetico massimo pro capite, non si arriva ancora a vedere nell'impiego del minimo possibile di potenza il fondamento di una varietà di ordinamenti sociali che sarebbero tutti moderni quanto desiderabili. E tuttavia solo stabilendo un tetto all'uso di energia si possono ottenere rapporti sociali che siano contraddistinti da alti livelli di equità L'unica scelta attualmente trascurata è la sola che sia alla portata di ogni nazione. E’ pure la sola strategia che permetta di usare una procedura politica per porre limiti al potere anche del più motorizzato dei burocrati. La democrazia partecipativa postula una tecnologia a basso livello energetico; e solo la democrazia partecipativa crea le condizioni per una tecnologia razionale.
143Tanuro 2010, passim144Shiva 2009, 71-72
116
Ciò che in genere si perde di vista è che l'equità e l'energia possono crescere parallelamente solo sino a un certo punto. Al di sotto di una certa soglia di watt pro capite, i motori forniscono condizioni migliori per il progresso sociale. Al di sopra di quella soglia, l'energia cresce a spese dell'equità. Ogni sovrappiù di energia significa allora un restringimento del controllo sull'energia stessa.La diffusa convinzione che un'energia pulita e abbonante sarebbe la panacea di tutti i mali sociali è dovuta a un inganno politico, secondo cui l'equità e il consumo d'energia possono stare in correlazione all'infinito, almeno in certe condizioni politiche ideali. Vittime di questa illusione, tendiamo a ignorare qualunque limite sociale della crescita del consumo energetico. Ma se hanno ragione gli ecologi ad affermare che la potenza non metabolica è inquinante, è di fatto altrettanto inevitabile che, al di là d'una certa soglia, la potenza meccanica produca guasti. La soglia oltre la quale comincia la disgregazione sociale indotta da alti quanta di energia non coincide con quella dove la trasformazione dell'energia comincia a produrre distruzione fisica; espressa in cavalli-vapore, è sicuramente più bassa.. E’questo il fatto che va riconosciuto in via teorica perché si possa affrontare sul piano politico il problema del wattaggio pro capite che la società deve porre come limite ai propri membri.
A prescindere dell’ideologia, si tratta anche di una soluzione di buon senso, perché gran
parte del consumo è spreco e, per citare Maurizio Pallante, qualunque sia il liquido che si
versa in un secchio è meglio prima tappare gli eventuali buchi. Del resto persino ambienti
non sospettabili di simpatie ambientaliste o decresciste concordano sulle potenzialità
dell’efficienza energetica. Il Rapporto sull'efficienza energetica redatto nel 2007 da ENEA
e CESI RICERCA e poi ripreso dalla Commissione Energia di Confindustria, sostiene la
necessità di un “piano straordinario di efficienza energetica”, che secondo le stime
sarebbe in grado in 10 anni di creare 1,6 milioni di occupati in più, permettendo un
aumento della produzione industriale di 238 miliardi, il taglio di 207 milioni di tonnellate di
CO₂ e 14 miliardi di risparmio in bolletta145. Secondo la task force di Confindustria, questi
sarebbero i campi principali su cui intervenire:
- illuminazione
- trasporti
- motori elettrici
- riqualificazione energetica degli edifici
- cogenerazione piccola e grande
- elettrodomestici di classe A e oltre
145Ovviamente Confindustria non punta alla decrescita: lo scopo è di reinvestire il risparmio energetico in nuova attività produttiva. Questa situazione per cui si ricerca l’efficienza allo scopo di aumentare la crescita produttiva, consumando quindi più risorse, è noto come ‘paradosso di Jevons’.
117
- caldaie a condensazione
- pompe di calore
- gruppi di continuità avanzati nelle utenze elettriche industriali e terziarie.
Il rapporto si conclude stimando i possibili risparmi per settore ottenibili al 2016:
Settore GWh/annuiResidenziale 56.380
Terziario 24.700Industria 21.537Trasporti 23.360
Totale 126.327
Rispetto alla produzione elettrica del 2008 – prima cioè che la crisi riducesse
sensibilmente i consumi – si tratterebbe di un risparmio energetico del 40% ‘gratis’, senza
cioé aver ancora operato una riconversione degli stili di vita ispirati al consumo, pertanto i
margini di miglioramento sono amplissimi.
Un progetto basato sulla drastica riduzione dell’impatto energetico a parità di benessere è
quello della cosiddetta Società a 2000 Watt. Nel 1998 alcuni ricercatori del Politecnico di
Zurigo, ragionando su di un modello energetico sostenibile su scala planetaria, scoprirono
che la media del consumo di energia a livello mondiale corrisponde a 2000 Watt di
potenza continua, cioè quella di un cittadino europeo degli anni Sessanta, che oggi invece
ne utilizza 5000-6000, mentre altri popoli devono accontentarsi di molto meno: 1500 i
cinesi, 1000 gli indiani, circa 500 gli africani.
Gli ingegneri svizzeri accettarono la sfida: realizzare un modello energetico che
consentisse il medesimo benessere ma disponendo di soli 2000 Watt di potenza,
cercando di contenere a 500 quelli ottenuti con combustibili fossili, più o meno l’apporto
energetico di un litro di benzina. In questo modo si riuscirebbe a contenere le emissioni a
una tonnellata pro capite, un obiettivo in linea con quello proposto al G8 di L’Aquila 2009,
dove ci si è impegnati a ridurre dell’80-95% i gas serra prodotti dai paesi più sviluppati.
Ovviamente tutto ciò è impossibile senza lavorare sull’efficienza energetica.
Grazie alla collaborazione dell’istituzioni politiche della regione di Basilea, in breve tempo
sono stati calcolati i principali dispendi energetici e ipotizzate soluzioni:
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Attività
Potenza
impiegata (Watt) Proposta SoluzioneRiscaldamento 1500 450 Utilizzo sistemi riscaldamento
passiviBeni di consumo e
alimenti
1140 500 Riduzione sprechi e riciclo materiale
Costruzione
infrastrutture
900 340 Razionalizzazione delle opere
Trasporto 850 320 Potenziamento trasporto pubblico,
riduzione viaggi aerei
Un aspetto importante riguarda la cosiddetta energia grigia, cioè il dispendio energetico
per assicurare un servizio o per produrre, trasportare fino al luogo di utilizzo e infine
smaltire un prodotto o un materiale: le economie di scala, le delocalizzazioni e
l’importazione di materie prime e alimenti a basso costo favoriscono il dispendio
energetico e quindi l’inquinamento, mentre la filiera corta, oltre a garantire un maggior
controllo sul prodotto, permette di contenere emissioni e consumi.
Ne consegue che un progetto come quello della Società a 2000 Watt presenta elementi
assolutamente rivoluzionari, ossia l’obiettivo di uno stato produttivo stazionario e la
riscoperta della dimensione locale, in netto contrasto con le filosofie che hanno ispirato il
boom economico del secondo dopoguerra e la svolta neoliberale di fine anni Ottanta.
Una volta ridotti i consumi è possibile interrogarsi sulle fonti da adottare e sul modello in
cui integrarle.
I combustibili fossili, l’energia idroelettrica e nucleare si basano su di un modello
fortemente accentrato, dove il cittadino-utente dipende in modo indissolubile dai detentori
dell’energia, con tutti i risvolti politici ed economici che ciò comporta:
La ragione di questo è lo stato fisico delle materie prime. Solo in pochi luoghi le risorse minerali e fossili si trovano in depositi accessibili nella crosta terrestre in concentrazioni sufficientemente elevate. Estrarle richiede un grande impegno di mezzi e di forze, e per trasportarle su lunghe distanze occorrono strutture di trasporto a lungo raggio e molta energia. Convertirle in elettricità, acciaio o benzina, rende necessarie grandi centrali, acciaierie e raffinerie e, infine, distribuirle esige reti di trasporto e sistemi di consegna146.
Le energie rinnovabili permettono di modificare radicalmente questo schema:
Esse si trovano in linea di massima in tutto il mondo, ma a una densità inferiore, nonché a periodicità incostante. Si procurano senza molto sforzo, e il loro trasporto si limita al circuito regionale. La conversione in elettricità, carburante e materiali
146Sachs e Morosini 2011, 143
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necessita certo capitale e tecnologie, ma vengono meno le grandi strutture di distribuzione grazie alla maggiore vicinanza tra produzione e consumo. Insomma, un’economia solare può far crescere le interdipendenze dell’economia regionale e rendere superflue quelle dell’economia globale.In questa prospettiva si sta delineando una possibile inversione di tendenza nello sviluppo industriale. Al posto dell’accentramento delle materie prime, nascono distretti decentrati, su piccola scala e distribuiti sul territorio, che producono energia, alimenti e materiali grezzi. Si forma una struttura economica in cui molti piccoli produttori forniscono energia in molti luoghi e non più pochi mega-produttori in uniche localizzazioni... Molto lascia credere che il passaggio a un’economia ecocompatibile comporti anche quello a un’economia ri-regionalizzata147.
E infatti qualcosa si sta muovendo: circa ottantamila tedeschi partecipano a cooperative
per la produzione di energia pulita, secondo uno studio di Deutsche Genossenschafts- und
Raiffeisenverband e.V. (DGRV), assieme a BSW-Solar, l’associazione tedesca del solare
e all’Agenzia per l’energia rinnovabile (Agentur für erneuerbare Energien – AEE); i
consumi elettrici domestici di questi cittadini sono totalmente coperti dall’energia pulita
prodotta dalle cooperative di cui sono soci. In Italia Retenergie, cooperativa ad azionariato
popolare, ha già realizzato oltre un centinaio di impianti basati su un mix di rinnovabili.
In uno schema decentrato diventa possibile per ogni produttore scambiare le eccedenze di
energia in una struttura reticolare. Jeremy Rifkin lo ha chiamato il ‘World Wide Web
dell’energia’, perché ricalcherebbe concettualmente quello applicato in Internet e proprio
come il Web garantirebbe nuovi margini di azione all’insegna di una nuova libertà e
dell’indipendenza. Una cornice di questo genere ricorda molto da vicino certi progetti
anarchici o del socialismo utopistico, che fino a poco tempo fa sembravano assurdi e
irrealizzabili. Secondo il Wuppertal Institut, il decentramento energetico non è solo
scientificamente più efficiente ma è anche veicolo di promozione sociale:
Poiché un sistema decentrato produce l’elettricità per lo più in zone vicine al consumatore, può essere adattato alle condizioni economiche della natura locale. La produzione elettrica diventa così un’attività economica regionale: i consumatori si trasformano sempre di più in produttori di energia. Si instaura un sistema che porta frutti anche a livello sociale: piccole centrali elettriche, materie prime locali, reti di fornitura regionali richiedono la partecipazione della cittadinanza, rafforzano le competenze del luogo e, comunque, sono sistemi più democratici delle strutture centralizzate. Creano più posti di lavoro, poiché devono essere costruiti numerosi nuovi impianti, che poi hanno bisogno di manutenzione; consentono una pianificazione orientata alle necessità immediate e brevi periodi di lavorazione, infondendo nelle persone coinvolte una maggiore consapevolezza del loro valore per la società. I costi diretti per un grande impianto da 50 o 200 Megawatt nell’ambito di
147Ibidem, 143-144
120
una rete di fornitura centralizzata sono ancora inferiori a quelli per molto piccoli impianti. In compenso gli impianti decentrati sono più vantaggiosi per la macroeconomia... Le materie prime fossili di solito hanno bisogno di lunghe filiere di rifornimento, che a loro volta creano lunghe catene di valore aggiunto. La maggior parte dei posti di lavoro e i maggiori profitti non riguardano i consumatori. Questa logica può essere ribaltata con un cambio di materie prime di base. Il fotovoltaico, l’eolico, le piccole centrali elettriche e le biomasse seguono filiere di produzione più brevi; ciò non vale solo per le materie prime, ma spesso anche per le tecnologie di conversione a esse connesse.148
In Germania, ad esempio, l’industria delle rinnovabili occupa oltre 235.000 persone, con il
solo fotovoltaico che offre lavoro a più persone del comparto nucleare, mentre l’eolico può
vantare oltre 85.000 lavoratori, il doppio rispetto a quelli delle miniere di carbone
tedesche149. Il ricorso a un sistema decentrato basato su piccoli impianti è importante
perché, contrariamente ai luoghi comuni, tutte le infrastrutture energetiche comportano
impatto ambientale, anche quelle cosiddette ‘verdi’: vaste aree coperte da celle
fotovoltaiche o specchi riflettenti danneggerebbero l’attività di fotosintesi, così come la
sottrazione di una quota rilevante di energia eolica potrebbe incidere negativamente
sull’ecosistema150.
A livello internazionale, sono sorti alcuni enti per la promozione dell’energia
decentralizzata, che fanno riferimento alla WADE (World Alliance for Decentralized
Energy), a cui collaborano anche alcune corporation impegnate nel business energetico
tradizionale (ad esempio Siemens e Chevron). In alcune nazioni dell’Europa
settentrionale, come Olanda e Finladia, le fonti decentralizzate di energia raggiungono il
35% della capacità complessiva, in Danimarca addirittura superano il 50%151;
complessivamente però nel mondo la percentuale è ancora bassa, intorno al 10%. Una
nota sul sito Web della WADE sintetizza quali siano i problemi per la diffusione di nuovi
paradigmi:
Molti dei maggiori ostacoli che deve affrontare chi desidera investire nell’energia decentrata sono di carattere normativo o politico, piuttosto che tecnico. In altre parole, la tecnologia e le conoscenze ingegneristiche non sono i fattori che limitano un’implementazione più rapida dell’energia decentrata. Le principali barriere sono politiche di pianificazione sorpassate o obsolete152
148Sachs e Santarius 2005, 181-182149Dati riportati in Greenpeace energy revolution 2008150Chiesa, Cosenza e Sartorio 2010, 64151Dati del World survey of decentralized energy 2005152www.localpower.org/pol_general.html
121
Il decentramento permetterebbe anche di affrontare al meglio i consumi energetici: piccole
reti locali potrebbero funzionare in corrente continua (DC) a 12 V anziché in corrente
alternata (AC) e siccome le energie rinnovabili producono corrente continua - la stessa
consumata dalla maggioranza delle apparecchiature domestiche - si potrebbe evitare la
dispersione derivante dalla trasformazione di corrente, che garantirebbe secondo Gunther
Pauli un risparmio di elettricità del 50%.
Herman Scheer, sociologo tedesco più volte membro del Bundestag, ha dedicato gran
parte del suo impegno politico in favore della diffusione sostenibile delle energie rinnovabili
e nel libro Imperativo energetico ha delineato alcune delle problematiche più rilevanti per
la riconversione del sistema. Sheer mette in guardia contro una ‘tecnologia senza
sociologia’, come il tentativo del business di integrare le rinnovabili nel quadro tradizionale,
cercando di favorire progetti mastodontici e di dubbia fattibilità come le centrali a carbone
con sequestro del carbonio, Desertec, i maxi-parchi eolici off-shore e le super-grid per il
trasporto di energia153. Sostenitore di un approccio ‘dal basso’, Sheer condanna i tentativi
di pianificazione tecnocratica preferendo lo sviluppo di tanti progetti indipendenti basati su
piccole imprese energetiche locali, senza nutrire alcuna fiducia negli accordi internazionali
sul clima, sui dispositivi di vendita delle emissioni e sulle cosiddette politiche del ‘mix
energetico’, che a suo giudizio non servono per promuovere le fonti rinnovabili bensì per
tutelare quelle convenzionali. L’ENEL, ad esempio, non si fa problemi ad ammetterlo
pubblicamente:
Il boom nella produzione di energia rinnovabile, arrivata ormai a coprire oltre un quarto del fabbisogno nazionale di elettricità, unito a consumi ormai da anni stabili o in calo, rende sempre più marginale la necessità di produrre energia dalle centrali tradizionali, costringendole a lavorare a scartamento ridotto, con pesanti ripercussioni sulla loro redditività. A lanciare quello che per i grandi produttori di energia è un allarme rosso è il presidente dell'Enel Paolo Andrea Colombo. "Lo sviluppo delle rinnovabili, unito alla stagnazione della domanda, sta rendendo difficile la copertura dei costi di produzione degli impianti convenzionali, mettendone a rischio la possibilità di rimanere in esercizio", ha lamentato oggi Colombo...Il problema, agli occhi dell'Enel, è che quel mondo prevedeva una serie di impianti costati fior di investimenti ma che per essere redditizi hanno bisogno di produrre a ritmi ormai ampiamente superflui. In termini numerici a dare un'indicazione del fenomeno è l'ex consigliere di amministrazione di Enel G. B. Zorzoli, oggi presidente
153Molte di queste soluzioni sono invece sostenute a spada tratta da gruppi ambientalisti come Greenpeace. È curioso che, nell’introduzione all’edizione italiana di Imperativo energetico, il presidente del Kyoto Club Gianni Silvestrini contesti l’opinione di Sheer: definendo “indispensabile” il contributo di centrali solari nel deserto e parchi eolici off-shore.
122
della sezione italiana dell'International Solar Energy Society, in un'intervista al sito Qualenergia 3. "Questi (impianti, ndr) per ripagarsi dovrebbero funzionare circa 4-5mila ore l'anno, invece ne stanno funzionando, quando va bene, 3mila. Il ridotto uso dei cicli combinati si traduce anche in miliardi di metri cubi di gas in meno, con un innegabile vantaggio in termini ambientali e di bilancia dei pagamenti, ma con un danno economico per chi vende gas".Un'evoluzione che Enel conta di rallentare (è stata anche oggetto di un duro scontro nei mesi scorsi con Terna) andando innanzitutto a rivedere il conto energia che nelle sue diverse versioni ha sino ad oggi fatto da volano a questa rivoluzione. Per questo Colombo ha invocato una "razionalizzazione degli incentivi" che consenta una maggiore efficienza, che "eviti gli sprechi inutili e garantisca lo sviluppo selettivo dei progetti". "Tenuto conto dell'emergenza finanziaria - ha detto intervenendo alla Terza Conferenza del diritto dell'energia del Gse - è ragionevole attendersi un'adeguata ridefinizione dei meccanismi incentivanti"154.
Queste resistenze politico-economiche si integrano con il giudizio espresso da Vandana
Shiva, secondo cui tutte le principali proposte dell’Occidente riguardo la questione
climatica mirano a salvaguardare la globalizzazione e il modello accentrato di produzione:
Siamo tutti d’accordo sul fatto che per prevenire un catastrofico cambiamento climatico dobbiamo contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2°C. Ma la maggior parte delle ‘soluzioni’ per ridurre le emissioni mantengono e addirittura incrementano gli schemi di produzione e di consumo ad alto impiego di energia. Esiste una profonda distanza tra l’obiettivo di ridurre almeno dell’80 o 90% le emissioni di CO₂ e i programmi proposti per attuarlo. Il problema del cambiamento climatico è ovviamente collegato alla questione energetica ma riguarda anche l’economia, come i beni sono fabbricati e distribuiti, il modo in cui le nostre case sono progettate e costruite, come è prodotto ciò che mangiamo e ciò che indossiamo. Tuttavia, nei dibattiti e nei negoziati sul cambiamento climatico, la globalizzazione e l’industrializzazione non vengono mai considerate.155
L’interesse per i cambiamenti climatici è quindi legato solo ai rischi di mutamento sociale
che potrebbero originare. Adesso si capisce perché molti governi e la grande impresa
vedono con favore i biocarburanti e l’energia nucleare, oppure la termovalorizzazione dei
rifiuti, le biomasse e al più l’energia eolica: perché consentono di riproporre il paradigma
centro-periferia, costituito dalla grande centrale e dalla dipendenza passiva da essa. Il
nucleare si presta in modo straordinario agli scopi dei sostenitori della crescita economica,
perché richiede investimenti elevati e si sposa bene con comportamenti orientati al
consumo, in quanto la reazione atomica non si può controllare e tutta l’energia prodotta va
utilizzata subito altrimenti viene dispersa. 154Gualerzi Valerio, Boom rinnovabili, l'Enel avverte "A rischio impianti convenzionali", Repubblica 30/03/2012. Non è un caso che il Governo Monti si sia impegnato attivamente nel bloccare gli incentivi alle rinnovabili155 Shiva 2009, 69
123
Paesi emergenti come Brasile, India e Cina si candidano per ospitare le colture destinate
alla produzione mondiale di biocarburanti, con il rischio concreto di distruggere le ultime
foreste vergini e di sovraccaricare le riserve idriche a discapito della produzione per uso
alimentare. Le grandi multinazionali del settore, come la Petronas, anziché cercare di
coltivare piante come la jatropha in climi semi-aridi - a cui potrebbero adattarsi svolgendo
anche un’importante opera contro la desertificazione - preferiscono sfruttare i terreni più
fertili per aumentare la resa, sradicando in gran parte le economie contadine, con
conseguente aumento del prezzo dei cereali e dei prodotti essenziali per l’alimentazione
umana, nonché il forte rischio di provocare carestie su vasta scala; tutto al solo scopo di
mantenere le popolazioni in uno stato di dipendenza simile a quello dei combustibili fossili.
Mentre nucleare e biocombustibili animano i dibattiti, quasi sconosciuta al pubblico è la
creazione di energia tramite cogenerazione, termine con cui si indica la produzione e il
consumo contemporaneo di diverse forme di energia secondaria (energia elettrica e/o
meccanica ed energia termica) partendo da un'unica fonte, fossile o rinnovabile, attuata in
un sistema integrato. Un esempio è dato dall’automobile, dove la potenza prelevata
dall'albero motore è usata sia per la trazione sia per la produzione di elettricità, il calore
sottratto ai cilindri viene utilizzato per il riscaldamento dell'abitacolo e la pressione dei gas
di scarico per attivare l’eventuale turbina di sovralimentazione. Lo sfruttamento di calore e
pressione non comporta un aumento dei consumi, poiché sono scarti del processo di
conversione da energia chimica a meccanica attuato dal motore. Uno dei primi esempi di
cogeneratore su piccola scala è stato il TOTEM, realizzato nel 1973 dall'ing. Palazzetti del
Centro Ricerche FIAT, ma la casa torinese ha completamente abbandonato tale
progetto156che in tempi recenti è stato riproposto invece da Wolkswagen, Toyota e Honda.
Un microcogeneratore per uso domestico consiste in un motore di derivazione
automobilistica, opportunamente depotenziato (15-20 kW), a cui sono collegati un
generatore elettrico e uno scambiatore di calore, allo scopo di utilizzare la dispersione
termica del propulsore per il riscaldamento e l’acqua calda; la resa di questi sistemi è tale
per cui il taglio di emissione di CO₂ rispetto agli impianti separati può raggiungere il 40%.
La microcogenerazione, integrata con le energie rinnovabili, si adatta alla perfezione in
uno schema energetico reticolare dove si scambiano le eccedenze, e rappresenta un
esempio importante di riconversione ecologica di un settore – l’industria automobilistica –
non solo dannoso sul piano ambientale, ma oramai in stagnazione da diversi anni.
156 Palazzetti in diverse interviste ha sostenuto che l’abbandono del TOTEM fu legato non solo al fatto che mal si addiceva alle politiche produttive centralizzate dell’ENEL, ma anche al coinvolgimento della FIAT nei programmi nucleari italiani.
124
In definitiva, risparmio energetico e microgenerazione di energia nella visione
decentralizzata possono rendere effettiva l’idea di Illich di una società conviviale a basso
consumo energetico, dove la tecnologia viene riportata a misura d’uomo e rilocalizzata sul
territorio, restituendo all’individuo e alle comunità gran parte dell’autonomia e del potere
decisionali perduti.
125
Quattro idee sparse per la società sostenibile
Una società basata sulla decrescita, sull’agroecologia, sulla visione sistemica della
scienza e sulla decentralizzazione energetica implica una rivoluzione che inevitabilmente
deve ridefinire i rapporti politici, economici e sociali tradizionali. In questo capitolo verranno
presentate quattro idee innovative, in modo volutamente ‘sparso’ e non sistematico, che
possono servire da importante spunto per ulteriori riflessioni.
Democrazia deliberativa
Massimo Fini, giornalista da sempre anticonformista e controcorrente, ha le idee ben
precise sulla democrazia e non ha paura di esporle. Leggiamo dal suo libro Sudditi:
Democrazia significa, etimologicamente, «governo del popolo». Scordiamoci che il popolo abbia mai governato alcunché, almeno da quando esiste la democrazia liberale. Se c’è qualcosa che fa sorgere nell’anima di un liberale un puro sentimento di orrore è il governo del popolo. Quindi non è tanto paradossale scoprire che se il popolo ha governato qualcosa è stato in epoche preindustriali, preliberali, predemocratiche... E’ quindi all’interno del regime rappresentativo che va posta l’inquietante domanda: qual è l’elemento cardine della democrazia? Sarà, forse, il consenso? Niente affatto. Il consenso può esistere anche nelle dittature, come insegnano il nazismo e fascismo, spesso anzi è assai più ampio di quello che i governatori possono ottenere in un regime democratico. Sarà allora il fatto che in democrazia il consenso è spontaneo e nelle dittature coatto? Anche questo è dubbio. Nazismo e fascismo ebbero per un certo periodo un consenso sicuramente spontaneo e volontario. Caduta l’egemonia dell’antifascismo militante, che aveva velato pudicamente per alcuni decenni la vergognosa verità, oggi non c’è libro di storia che non parli degli «anni del consenso» al regime mussoliniano. Sono quindi le elezioni? Ma anche in Unione Sovietica, persino in Bulgaria, com’è noto, si tenevano elezioni. E’ il pluripartitismo? Max Weber nota – e siamo già negli anni Venti del Novecento – che «l’esistenza dei partiti non è contemplata, da nessuna Costituzione» democratica e liberale. Non possono quindi essere i partiti l’elemento caratterizzante della democrazia liberale che esisteva anche prima della loro istituzionalizzazione. Sarà, come alcuni dicono, «il potere della legge»? Ma il potere della legge esiste anche negli Stati autoritari, anzi più uno Stato è autoritario più questo potere è forte e invalicabili...
Noam Chomsky è più lapidario ma non meno duro:
La democrazia ha bisogno della dissoluzione del potere privato. Finché esiste il potere privato nel sistema economico è una barzelletta parlare di democrazia. Non si può nemmeno parlare di democrazia, se non c'è un controllo democratico dell'industria, del commercio, delle banche, di tutto.
126
È molto probabile che Il cittadino comune si riconosca nei pensieri di questi due grandi
intellettuali. La sfiducia verso i partiti e il crescente astensionismo, fenomeni sempre più
diffusi in tutto l’Occidente, si devono al disagio per l’esclusione dai processi decisionali,
alla sensazione di essere vittime di un potere che, indipendentemente dalle formazioni al
governo, sembra interessato solo a problematiche della casta politica e di una ristretta
cerchia di privilegiati; aleggia la sensazione di sentirsi spremuti dalle tasse, solo per
contribuire a finanziare dinamiche politiche estranee a qualsiasi controllo sociale, quelle
volute dal ‘pensiero unico’ post-ideologico. È possibile ovviare a questo male della
democrazia attuale? O bisogna limitarsi a sfogare il proprio desiderio di espressione con
trovate demagogiche come il televoto o i sondaggi?
Una base di partenza per rispondere alla domanda è la constatazione che la moderna
democrazia rappresentativa liberale nasce dall’ibridazione di due teorie politiche
dell’Illuminismo, lo stato liberale di Montesquieu e lo stato democratico di Rousseau.
Montesquieu, sul modello dello Stato inglese, teorizzava una monarchia costituzionale
dove i tre poteri fondamentali - legislativo, esecutivo e giudiziario - fossero affidati a tre
istituzioni differenti e immaginava un parlamento eletto a suffragio ristretto, dove il diritto di
voto era esercitato solo dalle persone che garantivano un certo livello di contribuzione al
fisco: pertanto, immaginava una sorta di oligarchia allargata alla piccola borghesia e ai
grandi detentori del capitale, dove questi ultimi avevano ovviamente più mezzi per farsi
eleggere. Il sistema pluricamerale è una testimonianza del tentativo di mantenere il
privilegio sociale, perché in origine uno dei due organi – chiamato camera alta, camera dei
lord o Senato a seconda della tradizione culturale – era nominato direttamente dal sovrano
(come nello Statuto Albertino) oppure eletto da cittadini con un livello di contribuzione
superiore a quello sufficiente per esprimere il voto nella camera più bassa.
Jean Jacques Rousseau, cittadino svizzero, era invece un convinto repubblicano e
riteneva la rappresentatività elettorale un metodo moderno per riproporre disparità di tipo
feudale. Ispirandosi all’antica Atene e alle assemblee di villaggio contadine di epoca
feudale, propugnava che ciascuna comunità fosse amministrata come una democrazia
diretta, dove ogni cittadino contasse un voto ed esercitasse direttamente la funzione
legislativa senza alcun corpo intermedio. Inutile aggiungere che, tra i due modelli, è stato
quello di Montesquieu a imporsi, mentre l’idea di Rousseau è stata fatta propria e rivisitata
da movimenti utopistici come l’anarchismo; non è un caso che nella Dichiarazione dei
diritti dell'uomo e del cittadino, nella Dichiarazione d’indipendenza americana e nella
Costituzione degli Stati Uniti non compaia in nessun caso la parola ‘democrazia’.
127
Nel corso dell’Ottocento e del Novecento, negli Stati liberali le classi sociali inferiori sono
riuscite progressivamente ad allargare la base elettorale, fino al riconoscimento del
principio del suffragio universale e di qualche strumento di democrazia diretta come il
referendum. Ne consegue che l’attuale ‘democrazia liberale’, in realtà andrebbe
ribattezzata ‘liberalismo democratizzato’, perché nel compromesso democrazia/liberalismo
è stato sicuramente quest’ultimo a prevalere, ed è inevitabile che periodicamente
riemergano le ‘tare’ originare del liberalismo classico: elitarismo, difesa del privilegio
sociale, decisionismo, predominio delle lobby e del grande capitale sulla volontà popolare.
Pur riconoscendo l’impossibilità - e la non convenienza – di rinunciare del tutto alla
rappresentatività elettorale, è possibile ribaltare il rapporto tre le due forme di teoria
politica a vantaggio questa volta della democrazia?
Una risposta concreta a questa esigenza è la democrazia deliberativa, teoria originaria
non di un nazione democratica liberale come USA, Gran Bretagna o Francia, ma del
Brasile, una terra che ha conosciuto crudeli dittature fasciste ma dove si sono radicate,
soprattutto a livello locale, concezioni politiche ispirate a forme non eterodosse di
socialismo, alla teologia della liberazione e a pratiche comunitarie della cultura indios.
L’applicazione concreta del principio si deve al Partito dei Lavoratori (PT – Partido dos
Trabalhadores), formazione di Sinistra sorta nel 1985 dopo la caduta della giunta militare,
e la piccola e povera municipalità di Porto Alegre ne è l’emblema.
Democrazia deliberativa significa che le consultazioni dei cittadini, a differenza di quanto
avviene nel liberalismo, hanno carattere vincolante a cui le forze politiche regolarmente
elette devono attenervisi. A Porto Alegre si è deciso che il controllo sulle priorità di spesa
del bilancio debba essere vagliato direttamente dal popolo, introducendo la pratica del
bilancio partecipativo, che si espleta nel corso dell’anno in diverse fasi:
Il periodo tra marzo e giugno segna la prima tappa del processo. In marzo in tutta la città ha luogo una serie di riunioni preparatorie, in cui i membri dell’amministrazione municipale illustrano i risultati ottenuti l’anno precedente e presentano i piani dell’amministrazione per l’anno successivo. Tra la metà di aprile e la seconda metà di maggio, nel cosiddetto ‘turno unico’, i cittadini di Porto Alegre si riuniscono in sedici assemblee territoriali – cui dal 1994 se ne sono aggiunte altre sei tematiche – allo scopo di votare la propria lista di priorità per l’anno. Le assemblee tematiche dedicate a problemi di carattere generale, come l’assistenza sanitaria, i provvedimenti a favore dei giovani, eccetera, hanno luogo direttamente in seno al Consiglio municipale, a simboleggiare l’apertura delle istituzioni rappresentative alla città nel suo complesso... A conclusione della prima fase del processo ha luogo la solenne riunione del Consiglio municipale, in cui le priorità votate dalle varie assemblee vengono trasmesse alle amministratori locali. Spetta a questi ultimi, coadiuvati da una staff tecnico, di studiare attentamente la realizzabilità delle
128
proposte – questo nei mesi di luglio e agosto. Da settembre in poi li fiancheggia in questa attività il Consiglio di bilancio (COP), di elezione popolare, formato da quarantotto delegati votanti direttamente dalle assemblee del ‘turno unico’. Infine a novembre e dicembre, la giunta e il Consiglio comunale della città di Porto Alegre approva il bilancio.157
In quindici anni la poverissima Porto Alegre ha subito trasformazioni profonde: il 99% della
popolazione ha accesso all’acqua potabile, la rete fognaria è passata dal 46% all’86%
della copertura del territorio e gli studenti che hanno intrapreso studi universitari si sono
più che raddoppiati.
Pur non essendo la panacea di tutti i mali, la democrazia deliberativa ha allargato la base
della partecipazione politica, concentrando l’attenzione su tematiche in precedenza
marginali e dimostrandosi un antidoto efficace a clientelismo e corruzione, anche perché
l’amministrazione comunale è costretta a rendere conto pubblicamente delle proprie scelte
e a giustificarle. Ribaltando lo schema dall’alto verso il basso tipico delle deliberazioni
classiche - non solo nei regimi dittatoriali, ma anche in quelli socialdemocratici o
liberaldemocratici - si pone un grosso ostacolo alla costruzione, ad esempio, di
infrastrutture a elevato impatto ambientale invise alla popolazione, mentre istanze come la
raccolta differenziata dei rifiuti o la riconversione energetica avrebbero molta più
probabilità di essere accolte.
Per funzionare al meglio, la democrazia deliberativa richiederebbe il ridimensionamento
dei centri abitati e una riforma federalista molto diversa da quella attuata in Italia dal
Centro-Sinistra o da quella sognata dalla Lega, dove il municipio - l’ultima ramo della
catena amministrativa - diventi l’istituzione centrale e non la regione o macro-regione
com’è nelle intenzioni attuali. Il suo carattere ‘esotico’ potrebbe farla apparire poco
consona per l’Europa e l’Occidente in genere, abituato a ‘esportare’ la democrazia anziché
a imparare nuove forme di gestione politica, tuttavia è una soluzione che va esplorata
prima che la decadenza del liberalismo, aggravata dalla crisi economica e dall’avanzata
dell’estrema Destra, possa sfociare nell’autoritarismo più o meno esplicito insito in tutti
progetti di riforma istituzionale basati sul presidenzialismo o volti a rafforzare le prerogative
dell’esecutivo.
157Ginsborg 2004, 142-143
129
Reddito di cittadinanza
La dura sentenza di Milton Friedman per cui “Non esiste qualcosa come un pasto gratis”, è
sempre stata additata dai sostenitori del neoliberismo come prova delle necessità di
monetizzare e mercificare ogni aspetto della vita umana, compresi (soprattutto) quelli
legati alle esigenze primarie: da qui la condanna di ogni forma di welfare e assistenza
ottenuta al di fuori delle condizioni mercato, ribaltamento perfetto del principio socialista
secondo cui bisogna liberare l’uomo dalla schiavitù del bisogno. Ma come assicurare
realmente tale emancipazione? La risposta più netta e scandalosa a questo interrogativo
consiste nel capovolgere diametralmente la concezione di Friedman, assicurando non solo
un pasto gratis, ma addirittura un reddito di sussistenza a ogni cittadino,
indipendentemente da qualsiasi prestazione lavorativa e dalle condizioni economiche,
dovuto all’individuo per il solo fatto di esistere.
L’idea del reddito ‘universale’, ‘di cittadinanza’ o ‘di esistenza’ (in inglese basic income) è
talmente radicale e innovativa che persino molti esponenti dell’estrema Sinistra la
ritengono totalmente assurda e inconcepibile, tanto si allontana dalla classica equazione
reddito = lavoro. Storicamente è stata sostenuta dalla costituzione giacobina del 1793
(elaborata dal Comitato di salute pubblica guidato da Robespierre, ma mai entrata in
vigore), dal rivoluzionario americano Thomas Paine e ha ricevuto una formalizzazione dal
filosofo statunitense John Rawls nella sua opera Una teoria della giustizia (1971).
Attualmente l’associazione internazionale Basic Income Network - che ha una
ramificazione anche italiana - svolge una battaglia culturale per il riconoscimento di questo
diritto, insieme a molti movimenti politici progressisti.
Una delle motivazioni più importanti per l’istituzione del reddito di cittadinanza riguarda le
trasformazioni tecnologiche dovute all’automazione e all’informatizzazione dei processi di
produzione e gestione, che hanno ridotto drasticamente il numero delle mansioni svolte in
precedenza da esseri umani, riaccendendo ansie, per così dire, neo-luddiste. Il libro di
Rifkin La fine del lavoro descrive sul piano storico l’emergere di questo fenomeno:
Quando la prima ondata di automazione colpì il settore industriale, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, i leader sindacali, gli attivisti dei diritti civili e molti sociologi furono rapidi nel suonare l'allarme. Le loro preoccupazioni, comunque, non erano molto condivise dagli uomini d'impresa dell'epoca, che continuavano a credere che l'aumento della produttività generato dalle nuove tecnologie di automazione avrebbe stimolato la crescita economica e favorito l'occupazione e la crescita del potere d'acquisto. Oggi, al contrario, un numero ridotto ma crescente di manager inizia a preoccuparsi di dove ci porterà la rivoluzione tecnologica. Percy Barnevik è il
130
chief executive officer della Asea Brown Boveri, un colosso svizzero-svedese da 40.000 miliardi che produce generatori elettrici e sistemi di trasporto, oltre che una delle maggiori società di engineering del mondo. Come altre imprese globali, ABB ha recentemente re-engineerizzato le proprie attività, tagliando 50.000 posti di lavoro, pur riuscendo ad aumentare il fatturato del 60% nello stesso periodo di tempo. Barnevik si domanda: «Dove andrà a finire tutta questa gente?» Secondo le sue previsioni, la quota di forza lavoro impegnata nell'industria in Europa è destinata a diminuire dall'attuale 35 al 25% entro i prossimi dieci anni, con un'ulteriore discesa al 15% nei vent'anni seguenti. Barnevik è profondamente pessimista sul futuro dell'Europa: «Se qualcuno mi dice: "Aspetta due o tre anni e vedrai esplodere la domanda di lavoro", gli domando: "Dimmi dove? Quali lavori? In quali città? In quali aziende?" Se mi metto a tirare le somme, scopro che esiste il rischio che l'attuale 10% di disoccupati e sottoccupati diventi il 20 o 25%».158
Poiché le tecnologie del post-fordismo presentano un carattere labor saving ed è
impensabile che ripropongano l’utopia della piena occupazione del fordismo, Rifkin
propone che lo Stato si faccia carico di attribuire un salario per quelle mansioni a cui
normalmente non viene riconosciuto lo status di impieghi retribuiti, come le attività di
volontariato; di fatto, siccome tutte le persone quotidianamente compiono lavori ‘non
retribuiti’ (assistere i familiari, mantenere la propria abitazione, promuovere relazioni
sociali attraverso la partecipazione ad associazioni, ecc.), da qui a pensare che un reddito
garantito sia un diritto universale il passo è breve.
Il fenomeno della precarizzazione del lavoro ha accentuato l’interesse per le teorie del
reddito universale, dal momento che lo Stato è costretto, suo malgrado, a intervenire
economicamente sotto forma di sussidi di disoccupazione e incentivi alle aziende per la
creazione di posti di lavoro, solitamente con risultati effimeri e poco efficaci: nelle pagine
precedenti, trattando della crescita si è accennato alle ‘grandi opere’, un business
miliardario per le imprese che serve anche da patetico artificio per aumentare
temporaneamente l’occupazione, con il risultato di realizzare infrastrutture inutili – l’Italia
pullula di ‘cattedrali nel deserto’ - o addirittura dannose per l’ambiente senza risolvere i
problemi sociali.
Le politiche neoliberiste, avverse alla concezione classica del sussidio di disoccupazione,
hanno teorizzato il workfare, un concetto risalente all’Amministrazione Nixon e ripreso anni
dopo da quella Clinton. L’idea consiste nell’eliminare i contributi assistenziali per la
creazione di impieghi riservati alle famiglie la cui sussistenza si basava proprio su tali
contributi. Per quanto apparentemente ragionevole, all’atto pratico il workfare fa sembrare
la ‘schiavitù salariale’ di marxiana memoria una prospettiva gradevole e seducente:
158Rifkin 1997, 36
131
Chi non lavora, dopo un certo periodo, viene castigato, privato di assistenza sociale. Il programma è concepito per i disoccupati, considerati tutti come responsabili del loro stato... Il workfare penalizza i più poveri, aggiungendo alla loro miseria una disprezzo assoluto, la dimostrazione del ‘grado zero’ dei loro diritti, la privazione di ogni accesso al rispetto: senza il minimo scrupolo, esso riesce a estorcere loro ciò che è ancora possibile prendere: la loro fatica pressoché gratuita. Una permissività ufficiale vicina all’imposizione della schiavitù, che fa pensare a quelli che sono stati, fino a poco tempo fa, i metodi sovietici.159
Se il neoliberismo ha avuto gioco facile nel giustificare la fine del ‘posto fisso’ come
ricaduta dell’innovazione tecnica, allora deve essere possibile anche apprezzare i vantaggi
di tali tecnologiche in modo che tutta la popolazione possa goderne. Se la tecnica
permette di emanciparci dal lavoro – mentre oggi consente di affrancare il capitale dai
lavoratori – bisogna allora costruire una società dove vengano valorizzati quegli aspetti
della vita umana che troppo spesso la necessità di lavorare aveva tenuto repressi:
...Bisogna riprendere la rivendicazione di un reddito di sussistenza. Il suo fine non è perpetuare la società del denaro e della merce, né perpetuare il modello di consumo dominante nei cosiddetti paesi sviluppati. Il suo fine, al contrario, è sottrarre i disoccupati e i precari all’obbligo di vendersi: “liberare l’attività dalla dittatura dell’impiego”... Come dice un testo di un’associazione di disoccupati tra le più influenti in Francia, il reddito di sussistenza deve “darci i mezzi per dispiegare attività infinitamente più gratificanti di quelle alle quali ci si vuole costringere”, ricchezze intrinseche che nessuna impresa può fabbricare, che nessun salario può acquistare delle quali nessuna moneta può misurare il valore.160
Ricercare un’ipotetica ‘precarietà dal volto umano’, come fanno le forze politiche di Centro-
Sinistra e i sindacati confederali, è l’esatto contrario di ciò. Con la sicurezza del reddito
garantito le persone sarebbero più inclini ad assumere rischi per valorizzare i propri talenti
culturali, artistici o sportivi; e se, come sostiene qualche oppositore, “con un reddito base
la gente si adagerebbe, si siederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro” – una delle tante
perle di saggezza dispensate dal ministro del lavoro del governo Monti, Elsa Fornero -
almeno non sarebbero ossessionate da ansie e paure che potrebbero indurli a
commettere crimini, a dedicarsi a occupazione inutili e magari lesive per la società e
l’ambiente, a rischiare la vita arruolandosi nell’esercito o, nella migliore delle ipotesi, a
sprofondare nelle depressione, nella droga e nell’alcolismo. È molto facile constatare se
159Forrester 2003, 66-67160Gorz 2009, 139
132
per lo Stato sarebbe più dispendioso accollarsi l’onere dei danni provocati da questi
fenomeni o tollerare la predilezione per la pasta al pomodoro.
Un’unica indennità universale rimpiazzerebbe quelle che lo Stato eroga dietro verifica dei
requisiti e consentirebbe perciò il risparmio su tutte le autorità di controllo. Potrebbe anche
risolvere l’annosa questioni delle pensioni, che in quest’ottica potrebbero trasformarsi in
una retribuzione supplementare da aggiungere al reddito di cittadinanza in base alla
contribuzione versata, in modo che l’uscita dal lavoro diventi un fatto soggettivo e non più
condizionato da direttive esterne come quelle sull’età minima. Si tratterebbe di un vero
‘patto generazionale’ equo e solidale, molto diverso da quelli attualmente proposti, dove le
generazioni più anziane vengono accusate di privilegio al solo scopo di lenire gli effetti
della flessibilità elargendo qualche obolo ai giovani precari.
Indirettamente, il reddito di cittadinanza rafforzerebbe il diritto del lavoro in modo più
efficace di molti provvedimenti legislativi espliciti perché le imprese, non potendo più fare
leva sullo spettro dell’indigenza da disoccupazione, dovrebbero finalmente offrire
condizioni soddisfacenti; il fenomeno dei working poor161, sempre più diffuso nel mondo
occidentale, sarebbe estirpato alla radice. Anche l’autorità della criminalità organizzata
verrebbe seriamente incrinata, perché le fonti della sua manovalanza potrebbero
finalmente affrancarsi dalla dipendenza del racket: Roberto Saviano in Gomorra ha
descritto come la Camorra eroghi regolarmente alla famiglie del clan (anche in caso di
arresto dell’affiliato) la ‘mesata’, versione criminosa del reddito di cittadinanza, al fine di
ingraziarsi e assicurarsi la fedeltà della popolazione. Ciò ha portato a situazioni
drammatiche come quelle del parco Verde di Napoli, dove più volte la popolazione
disperata è intervenuta in difesa dello spaccio di droga contro gli interventi delle forze di
polizia, rivendicando il crimine come un diritto per non morire di fame: se la sussistenza gli
fosse garantita dallo Stato, c’è da pensare che queste persone abbandonerebbero il
traffico di stupefacenti e sarebbero sicuramente più utili per la società.
Ovviamente è necessario prevedere opportune politiche contro la delocalizzazione, per
non offrire un’altra giustificazione al ricatto della fuga verso mercati del lavoro più
competitivi, così come non bisogna prestare il fianco favorendo l’eliminazione di conquiste
imprescindibili del welfare state, come aveva ipotizzato Milton Friedman in una sua ipotesi
neoliberale di reddito di cittadinanza.
L’allerta è massima perché, con l’aggravarsi della crisi, molti politici hanno parlato di
reddito di cittadinanza in termini del tutto distorti, cioè come forma di integrazione al
161Con questa espressione si indicano quelle fasce di popolazione che, pur occupate, si trovano al di sotto della soglia di povertà.
133
reddito per quei soggetti disoccupati che non usufruiscono di ammortizzatori sociali oppure
si trovano in condizioni di povertà, nel quadro quindi della cosiddetta flexsecurity.
In questa sede premeva evidenziare le radicali potenzialità di progresso sociale che
contraddistinguono il reddito di cittadinanza: per una descrizione dettagliata dei capisaldi
filosofici, politici ed economici e delle modalità per attuarlo, rimandiamo alla lettura di
Reddito per tutti: un’utopia concreta per l’era globale (AAVV, Manifestolibri 2009), curato
da Basic Income Italia. Il problema fondamentale, ovvio cavallo di battaglia dei contestatori
del reddito di cittadinanza, è il denaro da cui attingere per l’erogazione: al riguardo, una
proposta interessante del Wuppertal Institute è di spostare la tassazione dal lavoro alle
risorse, destinando parte degli introiti di questa ‘fiscalità ecologica’ per servizi sociali come
il reddito di cittadinanza162.
Open source: l’economia della condivisione
Nell’immaginario collettivo, l’invenzione e la diffusione dell’informatica si devono ad
agenzie di ricerca pubbliche e a mega-corporation private, che avrebbero propagato a
livello di massa una tecnologia originariamente per pochi iniziati, un po’ come successo
per l’automobile o la televisione. Questo quadro è molto fuorviante perché, se esaminiamo
retrospettivamente la storia dell’informatica, ci accorgiamo che la grande industria molto
spesso ha commesso errori di valutazione enormi, riuscendo ad ovviare soltanto in
extremis a previsioni e strategie completamente sbagliate. Come testimonianza riportiamo
queste due famose ‘profezie’ di mercato:
"Penso che ci sia posto, sul mercato mondiale, per circa 5 computers". (Thomas J. Watson, Amministratore Delegato IBM, 1948).
"Che bisogno ha una persona di tenersi un computer in casa?". (Kenneth Olsen , fondatore della Digital Equipment, alla convention della World Future Society, 1977)
Bill Gates, osannato dai media di tutto il mondo quale precursore della tecnologia, capace
di anticipare i cambiamenti epocali della società - insomma, una specie di genio - fino al
1994 non intuì minimamente le potenzialità di Internet, che solo sul finire del 1995 divenne
ufficialmente una priorità della Microsoft. Come in tante altre occasioni, lo salvò la forza
del denaro: in ritardo per lo sviluppo di un browser originale, acquisì i diritti sul software
162Sachs e Morosini 2011, 245-246
134
Spyglass, rinominandolo in fretta e furia Internet Explorer. L’ansia del ritardo fu tale da non
accorgersi che un’altra azienda aveva sviluppato un programma con il medesimo nome,
un fatto che è costato guai giudiziari a Gates e qualche milione di dollari di risarcimento.
La leggenda di Internet come progetto del Pentagono per assicurare il collegamento tra le
base militari in caso di guerra atomica è anch’essa abbastanza spuria. È vero che il
gruppo di ricerca era sovvenzionato dalla DARPA (Defense Advanced Research Projects
Agency), un’agenzia governativa, ma la priorità principale fu individuata nella condivisione
di informazioni e potenza di calcolo, in modo che più utenti da zone diverse potessero
usufruire delle risorse offerte dai pochi supercomputer presenti nelle maggiori università e
nei principali centri di ricerca: da qui nacque l’idea delle reti di computer. Quando diverse
reti locali hanno deciso di interagire tra di loro tramite un protocollo comune (quello http),
allora è nata Internet, che quindi nasce come aggregazione spontanea e non come
processo guidato dall’alto.
A Tim Berners-Lee, ricercatore del CERN di Ginevra, si deve l’invenzione della pagine
Web, create allo scopo di gestire con più efficienza e comodità le informazioni condivise di
quanto non avvenisse con l’email e lo scambio di file. L’abbinamento Web-Internet è stato
il connubio vincente per la diffusione capillare della Rete, anche tra persone totalmente a
digiuno di informatica e Berners-Lee ha volontariamente rinunciato a rivendicare brevetti
sulla sua invenzione - che con ogni probabilità lo avrebbero reso multimiliardario – per
non ostacolare la realizzazione del World Wide Web.
Il termine hacker in origine indicava persone come Berners-Lee e i visionari progettisti di
Internet, appassionati aperti alla condivisione e alla ricerca comune per lo sviluppo
dell’informatica come fine in sé stesso. Una volta che il settore è stato occupato in modo
massiccio dal grande capitale, che ha imposto la propria visione del lavoro e degli affari –
proprietà intellettuale, licenze d’uso, segreto industriale, ecc. – non a caso hacker ha finito
per contraddistinguere i criminali informatici, perdendo la sua valenza originaria. Del resto,
agli occhi delle corporation, sviluppare software senza autorizzazione anche senza scopo
di lucro è un vero e proprio crimine. Bill Gates è diventato una delle persone più ricche del
pianeta in gran parte perché, tradendo la sua originaria vocazione hacker, ha incominciato
ad applicare le logiche del business tradizionale all’informatica. E Steve Jobs e la sua
Apple, troppo spesso incensati come visione opposta di business, in realtà non sono stati
da meno163.
163Nel libro Contro Steve Jobs di il ricercatore e blogger bielorusso Evgeny Morozov ha fortemente demitizzato la figura del fondatore di Apple, segnalando i possibili risvolti negativi di alcune sue invenzioni e dimostrando come il suo successo sia legato più a oculate strategia di marketing che a innovatrici filosofie tecnologiche (e, aggiungeremmo, grazie a un sapiente sfruttamento della manodopera orientale).
135
Steven Levy, nell’introduzione al libro Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica,
sostiene che i principi generali dell’etica hacker siano:
- socializzazione
- apertura
- decentralizzazione
- avvicinare le persone ai computer
- migliorare il mondo
Questi capisaldi sono stati fatti propri dal movimento per il software libero, il quale ha agito
anche sul piano legale ideando licenze come GNU-GPL che, permettendo il libero
accesso ai codici sorgente dei software (pratica da cui deriva il termine open source,
‘sorgente aperta’), consente alla comunità di sviluppatori di perfezionare costantemente i
programmi; un ruolo di primo piano in questo senso è stato ricoperto da Richard Stallman,
un ex ricercatore del MIT di Boston, che ha fondato nel 1985 la Free Software Foundation,
allo scopo di tutelare e promuovere il software libero. I frutti concreti di questo impegno
oggi sono prodotti diffusi ed efficienti come i sistemi operativi della linea Linux (nato da
un’idea dell’hacker finlandese Linus Torwalds), il browser Firefox, la suite da ufficio Open
Office, il programma di riproduzione audio/video VLC, che si sono dimostrati in grado di
competere senza problemi contro la concorrenza del grande business.
Il rapporto costo-benefici dei sistemi open source non-proprietari è ancora enormemente
sottovalutato: si stima che, se tutta la pubblica amministrazione italiana si convertisse
all’uso di software liberi, il risparmio sulle licenze d’uso sarebbe nell’ordine dei 2 miliardi di
euro.164 Aziende informatiche come la Asus hanno sviluppato una serie di notebook –
quindi veri e proprio computer portatili, da non confondere con i netbook, a funzionalità
limitata – equipaggiata con una sistemi operativi Linux, riuscendo a ridurre i prezzi di quasi
due terzi.
Mano a mano che l’informatica assumeva un ruolo rilevante all’interno della società e,
soprattutto, Internet esaltava la condivisione dell’informazione, lo spirito dell’etica hacker
ha cominciato a farsi strada anche al di là del mondo digitale, cercando di ridefinire alcune
pratiche consolidate ritenute ostacolo alla diffusione della cultura, in particolare quella del
diritto di copyright:
164Dato estratto dalla contro-finanziaria 2010 di Sbilanciamoci!
136
In un quarto di secolo sono cambiate parecchie cose: è chiaro che ci siamo abituati alla privatizzazione di quella conoscenza e creatività che in realtà appartiene a tutti noi... Alcuni di questi argomenti sono radicati nei principi basilari del diritto d’autore stesso. La cosa evidente è che si tratta di un diritto di possesso. Di per sé non vi è nulla di male nel diritto alla proprietà, a condizione che sia integrato e limitato nell’ambito degli interessi di natura sociale, socio-economica, macro-economica, ecologica e culturale. Tali interessi devono lasciare sulle relazioni fra individui, rispetto a un bene o un valore, un’impronta forte almeno quanto quella del guadagno personale. Da un punto di vista culturale ci si può chiedere se sia giusto e necessario proteggere le creazioni degli artisti con la proprietà individuale. Per definizione nasce così un diritto d’uso esclusivo e monopolistico dell’opera e, di conseguenza, viene privatizzata una parte essenziale della nostra comunicazione, fatto che va a scapito della democrazia. È esagerato definire il diritto d’autore una forma di censura? In linea di massima, no. Innanzitutto bisogna tener presente che ogni opera artistica attinge in modo considerevole da quanto altri hanno realizzato in un passato più o meno recente. Si può attingere da un pubblico dominio quasi infinito ed è dunque strano concedere a volte per una sola aggiunta (sebbene degna di sconfinata ammirazione) un titolo di proprietà sull’intera l’opera. Il diritto che ne scaturisce ha conseguenze profonde: nessuno, infatti, ad eccezione del proprietario, è autorizzato a utilizzare o modificare come meglio crede l’opera in questione. Ciò significa che una parte tutt’altro che insignificante del materiale con cui noi, in quanto individui, possiamo comunicare rimane chiusa sotto chiave. In genere trarre ispirazione da un’opera esistente non è un problema; le difficoltà sorgono quando un elemento della nuova opera, anche se minimo, ricorda o potrebbe ricordare quella precedente.165
Concezioni come questa hanno portato alla nascita del copyleft e dei creative commons,
licenze dove viene consentita la copia dell’opera a patto di citarne la fonte.
Anche i famigerati software per il file-sharing, come E-Mule e Bit-Torrent, condannati dalle
multinazionali dell’informatica come pericolosi strumenti di pirateria digitale, in realtà si
limitano a sviluppare concretamente una cultura non capitalista dove viene valorizzata la
condivisione di un bene e non il suo possesso egoistico. La Legge 128 del 21 maggio
2004, meglio nota come Legge Urbani dal nome del ministro proponente - che punisce chi
inserisce nella Rete un file protetto da diritto d’autore, chi lo scarica e chi segnala la sua
presenza – scritta sotto dettatura della lobby dell’editoria e delle major discografiche e
cinematografiche, è una chiara dimostrazione della paura che queste pratiche non profit
possano alla lunga soppiantare quelle commerciali166.
Il limite degli hacker è stato forse quello di non comprendere appieno la portata che i loro
ideali possono assumere al di là dell’informatica, un nesso non sfuggito a Gorz:
165Smiers e Van Schijndel 2009,14-15166Da notare che questo provvedimento legislativo ha passato l’esame del Parlamento con i voti favorevoli di tutto il Centro-Destra - di cui all’epoca faceva parte anche l’UDC di Pier Ferdinando Casini, oltre a Forza Italia, Alleanza Nazionale e Lega Nord - ma con la significativa astensione dei DS e della Margherita, mentre hanno votato contro la Sinistra radicale e Italia dei valori.
137
L’economia delle conoscenza ha dunque vocazione a essere un’economia della messa in comune e della gratuità, vale a dire il contrario di un’economia... Questo protocomunismo ha le sue figure emblematiche nell’informatica. Questa differisce dalla scienza per una specificità: essa è allo stesso tempo conoscenza, tecnica di produzione di conoscenza e mezzo di fabbricazione, di regolazione, di invenzione, di coordinazione. Nell’informatica è soppressa la divisione sociale tra quelli che producono e quelli che concepiscono i mezzi per produrre. I produttori non sono più dominati dal capitale attraverso i mezzi di lavoro... L’hacker è la figura emblematica di questa appropriazione/soppressione del lavoro. Con lui, le forze produttive umane, divenute soggetto, si ribellano alla loro cooptazione da parte del capitale, rivolgono le risorse dell’informatica contro di esso... Con lui appaiono nuove forme di comunicazione e di regolazione; un’ammirevole etica anarco-comunista, l’etica hacker, allo stesso tempo arte di vivere, pratica di altri rapporti individuali e sociali, ricerca di strade per uscire dal capitalismo e per liberare infine dalla sua presa i nostri modi di pensare, di sentire, di desiderare.167
Se anche gli altri lavoratori riuscissero a diventare hacker del loro campo, rivolgendo
contro il capitale i suoi stessi mezzi, allora l’uscita dal capitalismo sarebbe finalmente
compiuta.
Welfare comunitario
Proposte come decrescita, riduzione dell’orario di lavoro e reddito di cittadinanza possono
scontrarsi con un obiezione molto forte di stampo socialdemocratico: siccome queste
misure riducono considerevolmente il lavoro e il PIL, diminuiscono anche gli introiti fiscali
di cui lo Stato ha bisogno per mantenere servizi essenziali di welfare state come la sanità
e l’istruzione pubblica.
Francesco Gesualdi, allievo di Don Milani e coordinatore del Centro Nuovo Modello di
Sviluppo, ha ipotizzato una nuova concezione di assistenza, che chiameremo qui welfare
comunitario, che cerca di rispondere a queste osservazioni. I punti essenziali sono i
seguenti:
- istruire gli individui, sin dall’età scolare, a un minimo di educazione alla salute in modo da
saper risolvere autonomamente le situazioni meno gravi, che non richiederebbero
l’intervento di personale medico e che ciò nonostante oggi oberano l’attività del servizio
sanitario;
167Gorz 2009, 15-17
138
- sviluppare rapporti comunitari, a livello di condominio, caseggiato e quartiere, per servizi
come la cura degli anziani o dei bambini che non richiedano assistenza specialistica;
- lavoro gratuito dei cittadini per sostituire o affiancare il concetto tradizionale di
tassazione. Il cittadino sosterrebbe economicamente il welfare non più con una
contribuzione in denaro, ma prestando lavoro a titolo gratuito in strutture statali: pubblica
amministrazione, sanità, polizia, ecc. Verrebbero istituzionalizzate pratiche come il servizio
civile obbligatorio, non solo come copertura di posti di lavoro ma anche per creare un
senso di solidarietà collettiva;
- parziale ripublicizzazione delle attività produttive necessarie per il funzionamento del
welfare e degli apparti dello Stato, allo scopo di renderlo indipendente dal mercato. Ad
esempio, le spese del servizio sanitario nazionale, per il 70% circa, sono destinate
all’acquisto di farmaci, cosa che non accadrebbe se esistessero laboratori e centri di
ricerca statali da cui attingere.
Il welfare comunitario non è solo una misura strumentale per applicarne altre, ma serve
come stimolo per costruire una società basata più sui beni relazionali e meno sul denaro e
il profitto:
In concreto ogni adulto potrebbe mettere a disposizione della comunità qualche giorno al mese, in cambio la comunità garantisce a ogni persona, dalla culla alla tomba, il diritto ad accedere gratis a tutti servizi pubblici.168
In una società dove il tempo da dedicare al lavoro è minore, l’assistenza alla propria
comunità diventa un dovere e agendo dall’interno il cittadino potrebbe anche comprendere
meglio quelle realtà istituzionali oggi frequentemente oggetto di critiche aprioristiche, come
la sanità e la pubblica amministrazione. Un cittadino informato che vivesse anche solo
temporaneamente in quelle istituzioni, rendendosi conto dei problemi che le attanagliano,
potrebbe anche proporre adeguate soluzioni in sede politica, mentre oggi categorie come
medici, insegnanti e forze dell’ordine si lamentano vanamente sia della cecità dei
legislatori sia della scarsa comprensione da parte dell’opinione pubblica.
L’idea di Gesualdi va perfezionata e approfondita, anche alla luce di alcune esperienze già
attive in Scandinavia e in paesi del Sud del mondo: si noti come ricalchi da vicino
l’economia della condivisione degli hacker, trasposta in campi totalmente diversi
dall’informatica. Ha il merito importantissimo di preservare la concezione dello Stato
168Gesualdi 2009, 50
139
sociale ridandogli nuova linfa e vigore, anche rispetto a certe visioni un po’ romantiche di
fautori della decrescita che ne vorrebbero la soppressione per sostituirlo totalmente con
l’assistenza familiare e comunitaria.
140
QUINTA PARTE
CAMBIARE LA SOCIETÀ: TRA IL DIRE E IL FARE...
“Un grammo di pratica è in genere più importante di una tonnellata di teoria”(Ernst Friedrich Schumacher)
Avere delle buone idee è facile, altra storia è metterle in pratica anche quando
apparentemente si gode di vasto consenso. I movimenti no global o altermondisti,
sviluppatisi sull’onda delle contestazioni contro summit del WTO tenutosi nel 1999 a
Seattle, hanno vissuto importanti momenti di gloria per poi sprofondare sostanzialmente
nell’anonimato. Il grande movimento contro la guerra che, dopo le pesanti contestazioni
successive all’intervento USA in Iraq, il New York Times definì addirittura ‘seconda
potenza mondiale’, ha dato scarsissimi segni di vita durante recente invasione della Libia e
c’è chi lo ha definito con scherno un esempio di ‘opposizione ideale a Sua Maestà’.
È difficile spiegare le ragioni di un successo così effimero: forse l’aver tradito lo slogan
‘pensare globalmente, agire localmente’ cercando di sfidare gli avversari sul loro stesso
terreno mondiale proponendo ‘un’altra globalizzazione’, forse l’eccessivo peso degli
occidentali su di un movimento dichiaratamente a favore del Sud del mondo, forse - è
l’idea di Latouche - l’aver riproposto in chiave ‘alternativa’ la mitologia logora del progresso
e dello sviluppo cavalcata dal neoliberismo. Come se non bastasse, la speranza di molti
militanti che le proposte altermondiste fossero cooptate dai partiti politici della Sinistra è
maturata in qualche candidatura elettorale di esponenti dei movimenti e nulla più.
Come va allora affrontato il progetto di una società sostenibile? Quali linee di azione
seguire? In una proposta di società basata sulla decrescita e sul decentramento politico,
economico ed energetico quale deve essere il ruolo dello Stato-Nazione? E, soprattutto,
quali soggetti dovrebbero sostenere tale cambiamenti? E in che modo e sotto quali forme?
141
Crisi della democrazia: partire da se stessi per riscoprire la comunità
Mentre scrivo, la fiducia verso i partiti politici è ai minimi storici e secondo gli istituti
demoscopici è molto probabile attendersi alle prossime elezioni un tasso di astensionismo
prossimo al 50%, come per altro sta già avvenendo in diversi paesi europei (al secondo
turno delle elezioni legislative francesi 2012 si è toccata la punta negativa del 56,29%). Il
politologo britannico Colin Crouch ha coniato il termine ‘postdemocrazia’, con cui indica un
sistema politico formalmente regolato da norme democratiche ma la cui applicazione è
progressivamente svuotata dalla prassi, dove il potere reale viene consegnato a ristrette
oligarchie prive di qualsiasi controllo sociale.
È incredibile come l’attuale situazione del vecchio continente somigli a quella già vissuta
da altri popoli in precedenti momenti storici. Ad esempio, l’economista cileno Manfred
Max-Neef sintetizzava così la crisi democratica sudamericana successiva alla seconda
guerra mondiale:
In America Latina, alle condizioni che hanno portato all’indipendenza e alla creazione di stati nazionali hanno fatto seguito processi di sviluppo promossi e controllati da oligarchie nazionali. Sul piano politico questi nuovi stati si presentavano come democrazie liberali, mentre su quello economico miravano a uno sviluppo capitalistico e all’integrazione in mercati esteri. Queste democrazie hanno escluso le masse popolari dalla vita politica, privandole di canali di partecipazione sociale e di accesso al potere politico169.
Oggi ci troviamo esattamente nella stessa identica situazione. La ricetta di Max-Neef per
superare l’oligarchia evitando la reazione populista consiste nell’affidare un ruolo da
protagonista alle micro-organizzazioni economiche locali, senza bypassare
necessariamente l’intervento statale ma evitando ogni forma di cooptazione da parte della
politica tradizionale: lo ‘sviluppo locale’ da lui proposto deve avere per base l’aspirazione
all’autonomia e all’autosufficienza delle singole comunità anche attraverso il
decentramento decisionale, in modo pragmatico e rifuggendo sia l’ideologismo delle
grandi organizzazioni politiche sia le ristrette pratiche della democrazia rappresentativa
liberale.
L’ economista inglese Raj Patel, fiero oppositore di Banca Mondiale e WTO e aperto
sostenitori di molti movimenti sociali del Nord e del Sud del mondo, definisce addirittura le
169Max-Neef, Elizalde, Hopenhayn 2011, 28-29
142
elezioni il “sintomo più infettivo” della democrazia170 propendo invece per l’azione diretta
“che violi la proprietà privata in nome della giustizia globale” 171:
Ogni filosofia del cambiamento sociale ha una sua visione dell’ostilità. La filosofia di Gandhi non era, come alcuni l’hanno ricostruita, un grande padiglione di preghiere e incenso. Pur essendo non violenta prevedeva l’opposizione e il conflitto... La trasformazione dei dissidenti in criminali non avviene per magia: succede perché l’odierna società di mercato è fondata su di un’ideologia che non tollera chi mette in discussione il fragile consenso sul ruolo dei mercati172.
Il quadro conflittuale descritto da Patel non è affatto inedito per l’Occidente. Proviamo a
ripartire dalla sconfitta storica della Sinistra, che nella seconda sezione abbiamo delineato
come l’incapacità di riconoscere la grande trasformazione degli anni Settanta con la crisi
progressiva del welfare state e dello Stato-nazione. Eppure il ventennio 1960-80 è stato un
grande periodo di lotta, al punto che importanti istituzioni dell’establishment come la
Trilaterale parlarono di ‘crisi di governabilità’ a causa dell’emergere di un forte
antagonismo sociale:
Negli Stati Uniti la crisi aveva assunto sin dall’estate del 1964 forme quasi insurrezionali: moti del proletariato nero si propagavano da est a ovest, con saccheggi e incendi di interi quartieri delle grandi città – a Detroit la sollevazione era durata una settimana – e si erano prolungatati fino agli anni ’70 con le azioni di insubordinazione di massa e di sabotaggio nelle grandi fabbriche e nelle università. Con uno scarto di alcuni anni, il ‘dissenso’ aveva raggiunto, nel 1967, le università e i licei della Germania occidentale, poi si era esteso nei centri industriali del resto d’Europa e prolungato fino alla metà degli ani ’70 (in Italia fino al 1980) con azioni operaie che differivano fondamentalmente dagli scioperi abituali: rifiuto dei tempi di lavoro imposti; rifiuto di obbedire ai ‘capetti’; autoriduzione dei ritmi; occupazioni prolungate con sequestro dei padroni o dei dirigenti; rifiuto di delegare ai rappresentanti legali del personale il potere di negoziare; rifiuto di transigere sulle rivendicazioni sorte dalla base; rifiuto del lavoro, semplicemente...I movimenti sociali degli anni 1967-1974 si collocavano deliberatamente al di fuori del terreno definito dalle istituzioni della società-Stato. Invece di rivendicare, cercavano di cambiare essi stessi ‘la vita’, ciò che la condizionava e ciò di cui era fatta. Di cambiarla sottraendola alla logica della produttività, ma anche a quella del lavoro astratto, della standardizzazione, del consumo di massa, della normalità, della quantificazione, della sincronizzazione. Di cambiarla affermando la specificità di bisogni e desideri senza soddisfazione monetaria possibile173.
170Patel 2010, 187171 Ibidem, 182172Ibidem, 181173Gorz 1998, 17-18
143
Ispirandosi a questi movimenti che sembrano perduti in tempo lontani e irripetibili, come si
può pensare di ‘cambiare la vita’ oggi contro la dittatura economica? È possibile una tale
‘rivoluzione’?
Normalmente, sotto l’influenza del marxismo, intendiamo il termine ‘rivoluzione’ quasi
esclusivamente nel senso di insurrezione armata contro l’autorità statale, sul tipo della
Rivoluzione francese o di quella russa: nelle condizioni attuali, tutto ciò viene percepito
come un’utopia lontana e impossibile anche perché nel mondo transnazionalizzato è
difficile localizzare i veri centri del potere, la Bastiglia o il Palazzo d’inverno del terzo
millennio. Può essere utile invece esaminare come il concetto di ‘rivoluzione’ venga
declinato nella tradizione anarchica:
Cosa sarà allora la rivoluzione?... La maniera migliore di rendersene conto è smettere di pensare alla rivoluzione come a una cosa - ‘la rivoluzione’, il grande cataclisma, il punto di rottura – e chiedersi invece: “Che cos’è un’azione rivoluzionaria?”. Ecco la nostra risposta: un’azione rivoluzionaria è qualsiasi azione collettiva che affronti e respinga una qualche forma di dominio e di potere, e che nel frattempo, alla luce di questo processo, ricostituisca nuove relazioni sociali, anche all’interno della comunità. L’azione rivoluzionaria non si propone necessariamente di rovesciare i governi. Ad esempio, sarebbe un atto di per sé rivoluzionario il tentativo di creare delle comunità autonome nei confronti del potere (con le parole di Castoriadis, comunità che si autocostituiscono, decidendo collettivamente le proprie regole e i propri principi operativi e riesaminandoli costantemente)174.
Basandoci su questa definizione, il primo passo per una svolta significativa può consistere
nell’impegno individuale – l’egoismo di Macdonald - una ‘riconversione di se stessi’ più o
meno energica, basata sull’adozione di misure ispirate al risparmio energetico, al software
open source, all’applicazione degli stili di vita della decrescita o anche solo al cosiddetto
‘consumo critico’. Per interpretazioni più radicali si pensi al romanziere Simone Perotti, che
ha intrapreso il percorso del downshifting, ossia la volontaria e consapevole autoriduzione
del salario e delle ore di lavoro, descrivendola nei libri Adesso Basta e Avanti tutta. Lo
‘scollocamento’, ossia la scelta della semplicità volontaria per ritrovare la libertà personale
emancipandosi dalla dittatura frenetica dei cicli di produzione e consumo e dalla schiavitù
dell’occupazione, rappresenta forse l’affronto peggiore per il sistema economico
dominante, che può tollerare oppositori ma non boicottatori o obiettori – non è un caso che
la burocrazia statale spesso intervenga per limitare gli ambiti di autonomia e
autoproduzione accampando motivazioni di sicurezza, sanitarie o di tutela del lavoro.
174Graeber 2006, 47
144
La somma dei singoli impegni personali diventa consapevolezza politica vera e propria nel
momento in cui le sensibilità e le preoccupazioni di più persone si traducono in un atto di
coscienza della comunità contro il potere dominante. In questa categoria rientrano
sicuramente le azioni a difesa del territorio contro lo sfruttamento economico, inizialmente
prerogativa delle popolazioni del Sud del mondo che si opponevano alla devastazione
ambientale e sociale dovuta alla modernizzazione, ma che oggi sono sempre più diffuse
anche in Occidente, come dimostra chiaramente il caso italiano. Nel 1962 la popolazione
di Gagliano Castelferrato (Enna) accoglieva come un eroe nazionale il presidente dell’ENI
Enrico Mattei, che prometteva di portare sviluppo e prosperità in Sicilia: cinquant’anni
dopo comitati cittadini agrigentini - memori dei disastri perpetrati dal colosso di Stato
nell’isola - lottano senza sosta per impedire l’apertura di un rigassificatore a Porto
Empedocle, malgrado la sua costruzione sia condivisa da Destra e Sinistra. Le
contestazioni contro TAV, MOSE, ponte sullo Stretto, ampliamento della base Dal Molin di
Vicenza, termovalorizzatori, discariche e centrali elettriche sono opera di cittadini non più
disposti a immolare il loro territorio – e la loro salute - per realizzare vuoti templi della
scienza e della tecnica, solo per le manie di grandezza (e ricchezza) di qualche
imprenditore o politico, senza rassegnarsi alla prospettiva di scontri con le forze di polizia
come testimoniano le cronache della Val di Susa. E non si possono più liquidare tali
opposizioni come manifestazione di sindrome NIMBY e attribuirle quindi all’egoismo,
perché le contestazioni cominciano a riguardare anche realtà come i centri commerciali,
normalmente considerate fonti di benessere che non producono gli stessi disagi delle
discariche o delle infrastrutture industriali.
La potenzialità di questi movimenti è enorme, anche se di solito la loro ‘coscienza
rivoluzionaria’ è molto bassa, nel senso che raramente si rendono conto di essere portatori
di valori che possono realmente destrutturare il sistema della mega-macchina: ne è riprova
io fatto che quasi mai questi movimenti creano coordinamenti comuni. Eppure sono la
rappresentazione più efficace della tattica lillipuziana di imbrigliare il ‘gigante’ affaristico-
politico’ e forse proprio per questa ragione sono oggetto di scherno e riprovazione da parte
dei politici - questi movimenti spesso riescono anche a condizionare le sezioni locali dei
partiti mettendoli in contrasto con le segreterie regionali e nazionali - nonché di infiltrazioni
da parte delle forze di polizia.
A un secondo livello troviamo l’associazionismo impegnato in svariate opere di
promozione sociale (in campo assistenziale, ambientale, economico) che spesso
supplisce in modo determinante alle carenze dell’intervento statale. Molte iniziative
145
permettono di ricostruire un clima di cittadinanza e comunità che spezzi la cappa
dell’individualismo egoista del consumismo capitalista, attraverso la diffusione di pratiche
come i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS), i bilanci di giustizia, il consumo equo e solidale.
Secondo Marco Gesualdi, per quanto pieno vitalità e carico di proposte innovative, anche
il mondo dell’associazionismo rischia di incidere molto poco politicamente a causa della
sua divisione e della sua scarsa coscienza di essere portatore di ideali politici alternativi:
In Italia esiste un panorama di associazioni e movimenti sociali estremamente ricco che non però non riesce ad esprimere tutto il suo potenziale perché è troppo disgregato e ripiegato su stesso. All’interno di questo variegato mondo ognuno insegue il proprio progetto: commercio equo, diritto all’acqua, slow food, finanza etica, diritti degli immigrati. Progetti belli, importanti, ma pur sempre orticelli... Chi fa commercio equo non sente di avere molto da spartire con chi si occupa di ripubblicizzare l’acqua, chi si occupa di pace non si sente di avere molto da condividere con chi si occupa di sobrietà anche se le guerre si scatenano sempre di più per il controllo delle risorse.... Persa la capacità di fare movimento ci stiamo trasformando in gruppi professionalmente impeccabili, politicamente insignificanti. Moscerini, che a seconda dei calcoli di convenienza del potere, possono finire schiacciati al suo tacco o risucchiati nel suo grande ventre175.
Crouch sembra condividere il medesimo timore: una società dove sono fiorenti i gruppi di
pressione e lobby più o meno consolidate è indice di un forte liberalismo, ma non di una
altrettanto robusta democrazia176. Invece, se l’associazionismo evita pericolose deviazioni
verso quel tipo di umanitarismo apolitico caro alla Destra, la sussidiarietà – ossia il
principio per cui le istituzioni, nazionali o sovranazionali, debbano tendere a creare le
condizioni che permettono alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente
senza sostituirsi ad essi nello svolgimento delle loro attività - può diventare un elemento
importante di democratizzazione se inserito in una cornice non di privatizzazione del
settore pubblico ma di aspirazione neo-mutualista:
Il nome “terzo settore” è ormai pura copertura ideologica della lobby di un sistema di “imprese” che hanno i suoi attori principali nella Lega delle cooperative e nella Compagnia delle Opere. Il diritto sociale in questi casi si deforma in capacità di accesso del “cliente” al mercato sociale. Nei vuoti crescenti lasciati dal “mercato sociale” prende spazio l’assistenza selettiva, l’attività oblativa, l’intervento caritatevole del “capitalismo compassionevole”... Solo se costruisco ho diritto ad avere un sostegno a costruire, solo un operare sociale che realizza una valenza pubblica può richiamarsi al principio di sussidiarietà. Se si vuole affermare questa forma di socialità antistatalista occorre opporsi in modo netto all’uso strumentale,
175Gesualdi 2009, 70-71176Crouch 2003, 22
146
improprio e abusivo del concetto di sussidiarietà come copertura di operazioni di esternalizzazione dall’alto di funzioni pubbliche, di appalti, sovente opachi, di sfere di intervento pubblico al cosiddetto privato-sociale. Non è un caso se accade che le iniziative di cittadinanza attiva solidale oggi si richiamino sovente all’esperienza storica del mutualismo. Il mutualismo riprende alcuni principi di fondo di grande attualità: il valore dell’autogestione, la capacità positiva di realizzare in basso e non solo rivendicare verso l’alto, il legame tra problemi degli ambiti di vita e l’esperienza di lavoro, infine l’affermazione del principio di solidarietà che si distingue sia dalle pratiche di oblazione dall’alto sia dalla pur lodevole virtù personale dell’altruismo.Non c’è conflittualità tra diritti sociali e mutualismo. L’apporto del mutuo soccorso nella fase aurorale dell’affermazione di diritti sociali è indubbio. All’intero della cerchia dell’associazione il vincolo di reciprocità statutariamente affermato faceva sì che il singolo lavoratore di fronte alle sventure della vita per la prima volta cessasse di cadere nella condizione del bisognoso che implora benevolenza verso l’alto, diventando invece un soggetto portatore del diritto al sostegno solidale dell’associazione. Forme di nuovo mutualismo non possono quindi essere viste come interventi di supplenza di diritti negati dalla crisi e dal restringimento del welfare ma come azione diretta positiva volta a rendere esigibili diritti elusi, a promuovere nuovi diritti e, soprattutto, tesa ad affermare un rapporto radicalmente mutato tra pubblica amministrazione e società che veda emergere il protagonismo dei soggetti, il loro potere di partecipazione solidale alle scelte e alle decisioni che riguardano le loro esistenze. La società contemporanea spezza legami sociali e costruisce di fatto e ideologicamente le derive individualistiche. Vengono oscurate e impedite le insopprimibili esigenze umane di sociabilità177.
Nel prossimo paragrafo esamineremo dimostrazioni concrete di questi auspici.
Pensiero e azione diretta: per un partito-movimento di base
I laboratori politici culturali alternativi, per quanto cerchino di sopperire alla mancanza di
visione d’insieme, sono ancora marginali. Troppo frequentemente si ripetono le vecchie
tendenze disgregatrici che hanno già visto protagonista la Sinistra, come successo
all’iniziativa Uniti e diversi, composta da alcune associazioni (tra cui Alternativa di Giulietto
Chiesa, Il Movimento della decrescita felice di Maurizio Pallante e Movimento Zero di
Massimo Fini) unite dal collante del rifiuto della logica della crescita infinita: la partnership
è durata meno di un anno per la differenza di vedute sulle strategie da seguire.
Esiste poi un problema ancora più grave, ossia la necessità di segnare profondamente la
società senza limitarsi a fenomeno d’élite della classe media in grado di organizzare
utilmente il suo tempo libero e di sfruttare in modo proficuo il Web178.
177 Pino Ferraris, Per un nuovo mutualismo: praticare l'obiettivo, www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Per-un-nuovo-mutualismo-praticare-l-obiettivo-12493 178Grazie a Internet si avvicinano alla discussione politica persone che, probabilmente, non se la sentirebbero di partecipare fisicamente in partiti e associazioni, quindi si può rendere concreto l’ideale democratico per cui ogni singola persona conta un voto, evitando l’insorgere di ristrette oligarchie. È altrettanto vero però che così si crea un fenomeno elitario, formato da ‘cittadini informati’ piccoli e medi borghesi che, per privilegio
147
È triste riconoscere che i membri dell’establishment politico-economico, quando accusano
i loro contestatori di essere gruppi auto-organizzati sul Web composti per lo più da
borghesi, colpiscono abbastanza nel segno. Pur rifiutando il concetto tradizionale di lotta di
classe è innegabile che non ci si può limitare all’intellettualismo, alla scrittura di qualche
buon libro, all’aggiornamento di qualche valido sito Web o a qualche sparuta iniziativa
pubblica. Per incidere realmente bisogna offrire alla cittadinanza esempi concreti e
continuativi di impegno politico, sociale e civile. Può sembrare un’impresa titanica, in realtà
basta prendere spunto da alcuni precedenti storici e riadattarli alla realtà contemporanea,
che hanno valore esemplare perché i soggetti coinvolti all’epoca sopperivano con la
partecipazione attiva alle scarse risorse economiche. Vediamone alcuni particolarmente
celebri:
- nel 1870 a Tredegar, nel Galles del Sud, viene fondata la Tredegar Medical Society,
un’istituzione sanitaria finanziata dai lavoratori che si proponeva di assistere tutta la
popolazione locale, compresi coloro che non contribuivano economicamente. Il deputato
laburista Aneurin Bevan, proveniente dal collegio elettorale di Tredegar, utilizzerà poi
questa esperienza come modello per il servizio militare nazionale britannico (NHS)179;
- nel 1947 Don Zeno Saltini fonda Nomadelfia, definita come "una proposta" alternativa
agli standard delle società occidentali, dove viene adottato uno stile di vita simile
all'esperienza dei kibbutz o dei falansteri, dove non esiste proprietà privata, lavoro
retribuito ed è stata fondata una scuola gestita direttamente dalla comunità;
- nel 1954, dopo essere stato trasferito nel minuscolo paesino di Barbiana a causa di
screzi con la Curia di Firenze, Don Lorenzo Milani fonda una scuola ispirata a metodi
didattici innovativi che diventa ben presto un collettivo di contestazione del sistema
educativo italiano;
- alla fine degli anni Sessanta, negli USA il Partito delle Pantere Nere organizza un
programma di prime colazioni gratuite nei quartieri disagiati abitati in maggioranza da
persone di colore, con successo maggiore delle iniziative istituzionali180;
sociale, hanno la possibilità di trascorrere molto tempo al computer e sono dotati di strumenti informatici abbastanza efficienti e di connessioni sufficientemente rapide per non trasformare in un incubo la pratica della discussione in Rete. 179Tredegar rappresentava uno dei tanti esempi di Friendly Societies diffuse nel Regno Unito dalla seconda metà dell’Ottocento, gruppi locali di lavoratori in cerca di un sostegno comunitario per fronteggiare problemi di vita quotidiana come alloggio e salute, per garantire assicurazioni e prestiti, indennità per i lavoratori e per formare cooperative di consumo. Erano fenomeni ben noti a Lord Beveridge, il fondatore del welfare state britannico. 180Patel in Holtz-Gimenez 2011, 173
148
- nel Cile di Pinochet, laboratorio delle teorie neoliberiste di Friedman e dei Chicago boys,
si formano le organizaciones econòmicas populares, che assicurano mense per i poveri,
laboratori artigiani, cooperative di consumo e coltivazioni comuni181;
- nel 1976 in Bangladesh Muhammad Yunus fonda la Grameen Bank, allo scopo di
sostenere le famiglie duramente colpite dalla carestia del 1974. È la prima banca dei
poveri, che concede microprestiti alle popolazioni povere locali senza richiedere garanzie
collaterali e garantendo così il loro accesso al credito. Il ‘microcredito’, come viene
chiamata l’iniziativa, riscuote talmente successo contribuendo al miglioramento sociale
che alla banca e al suo fondatore verrà assegnato il premio Nobel per l’economia 2006182.
- nel 1977 un gruppo di donne keniote guidate da Waangari Maathai fonda il Green Belt
Movement, una rete comunitaria con lo scopo di piantare alberi per bloccare la
deforestazione e risanare l’ambiente; in una ventina di anni il movimento riuscirà a
reimpiantare più di una venti milioni di alberi e si segnalerà per la dura opposizione al
governo autoritario di Daniel Arap Moi;
- il 1 gennaio 1994 in Messico, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazional (EZLN),
formato prevalentemente da indigeni di etnia Maya, occupa alcuni municipi della regione
meridionale del Chiapas, in reazione all’entrata in vigore del NAFTA (North American Free
Trade Agreement), instaurando un governo autogestito basato sulla democrazia diretta e
partecipativa;
- In Argentina, paese che negli anni Settanta e Ottanta è stato fiore all’occhiello del Fondo
Monetario Internazionale, lo scoppio della grande crisi è avvenuto con ben 7 anni di
anticipo, nel dicembre 2001. I lavoratori delle fabbriche, per reagire alla chiusura degli
stabilimenti, li hanno occupati con il proposito di autogestirli ottenendo dal governo il
riconoscimento dell’operazione:
Il processo di recupero per le cooperative autogestite del primo modello segue tre fasi. La prima è quella del controllo dei mezzi di produzione per rimettere in marcia l'attività: si deve entrare in fabbrica e prenderne possesso evitando di essere denunciati e poi estromessi per violazione dei diritto di proprietà. La seconda è quella di sussistenza: si produce solo su richiesta concreta, ciò consente di ottenere i primi fondi e immagazzinare prodotti finiti. In questa fase i lavoratori realizzano la loro attività «a rischio» per poi distribuire utili che coprono appena i loro bisogni elementari. La terza fase è quella della sostenibilità. La cooperativa comincia a vendere i suoi prodotti sul mercato con maggiori margini di profitto, investe in
181Ginsborg 2004, 186182Dalla Grameen Bank sono derivate diverse altri iniziative, tra le quali la più interessante è Grameen Shakti, organizzazioni non profit sorta nel 1996 che ricorre al microcredito allo scopo di portare l’energia elettrica nei villaggi rurali attraverso la diffusione dei panelli fotovoltaici, istruendo principalmente le donne nella loro manutenzione. A oggi sono stati installati circa 550.000 sistemi solari domestici in 40.000 villaggi.
149
equipaggiamenti, espande la produzione. In una certa misura le fabbriche si trovano a coprire la domanda di una fetta di mercato che avevano lasciato insoddisfatta 183.
Questo genere di iniziative, chiamate ‘recupero delle fabbriche’, è stata una delle ragioni
principali dell’abbassamento della povertà tra il 2004 e il 2007 dal 45,6% al 26% e si è
diffusa con successo anche in Uruguay e Bolivia. Tali autogestioni nella maggioranza dei
casi hanno portato a una struttura decisionale orizzontale, eliminando le gerarchie e
uniformando i salari e le neocooperative molto spesso si sono associate in reti
commerciali e hanno realizzato sinergie con le comunità locali.
Le iniziative appena presentate sono passate alla storia e offrono spunti importanti di
riflessione. La riappropriazione del territorio, troppo spesso sentita come una problematica
di polizia causata da immigrazione e criminalità, può concepirsi come implementazione di
nuovi modelli di organizzazione economica al fine di combattere disoccupazione e
degrado: la creazione di cooperative di manutentori, di servizi alla persona e per il riciclo
dei rifiuti può essere una soluzione importante, perché si creerebbe un clima di mutua
assistenza all’interno delle comunità. Si potrebbero proporre progetti per il risparmio
energetico e la riconversione degli impianti tradizionali alle energie rinnovabili e alle
cogenerazione, sempre impiegando cooperative gestite da manodopera proveniente dai
quartieri più dismessi, magari sviluppando progetti in collaborazione con gli istituti
professionali e i centri di formazione, generalmente frequentati dagli strati più poveri della
popolazione e dagli immigrati. Pur vivendo in affitto o in un alloggio popolare, contribuire
all’ammodernamento e al restauro delle proprie abitazioni e delle infrastrutture del proprio
quartiere creerebbe un vero e proprio clima di comunità e attaccamento nei confronti di
una realtà che oggi viene spesso odiata in quanto simbolo di esclusione sociale, e per
questo oggetto di vandalismo e rabbiosa devastazione.
Un altro aspetto importante riguarda il riciclo dell’hardware informatico, di cui il mercato
rende sempre più rapida l’obsolescenza, al fine di compensare il digital divide tra le classi
meno abbienti e cercando di creare un accesso gratuito e universale a Internet. La
necessità di una controinformazione dal basso, fatta da chi veramente vive i problemi
dell’esclusione e del degrado, può portare alla ricostituzione di realtà digitali antagoniste
come lo sono state ECN-Isole nella Rete (un network che univa centri sociali, attivismo
politico e realtà hacker) o Tactical Media Crew, un progetto basato sull’idea di realizzare
183Tognonato Claudio, Un fabbrica diversa per l’America latina, Il Manifesto, 7 gennaio 2007
150
un giornalismo alternativo sui temi bistrattati dai grandi media. Il fenomeno delle telestreet
degli anni Ottanta, emittenti televisive che trasmettevano un debole segnale via etere
rivolgendosi a poche centinaia di telespettatori di un territorio ristretto o sfruttando coni
d’ombra di altre stazioni televisive, oggi può conoscere una seconda giovinezza sotto
forma di Web-Tv. Alcuni programmatori hanno ideato software come il SOMA, basato su
piattaforma Linux, per la gestione da remoto del palinsesto televisivo, permettendo di
pianificare ed automatizzare tutto il palinsesto riducendo drasticamente i tempi di gestione
della messa in onda. Se pensiamo all’impatto delle radio libere negli anni Settanta, queste
nuove forme di comunicazione possono raccogliere un’audience molto più vasta e
diversificata, analogamente a quanto avviene negli Stati Uniti e nei paesi del Nord Europa
con le Tv comunitarie ad accesso pubblico (Open Channels), emittenti televisive non profit
con finalità sociali e culturali.
Organizzare forme di aggregazione e socialità, al di fuori dei circuiti commerciali
dominanti, sarà una priorità non inferiore alla riorganizzazione del lavoro, perché il futuro
della società dipende da come vengono plasmate le nuove generazioni: centri sociali
autogestiti possono fare moltissimo, organizzando attività culturali di rottura, incentivando
l’autoproduzione e promuovendo il dibattito politico.
Invece di limitarsi alla rivendicazione su diritti e su contratti, il lavoratore deve esprimersi
sulla organizzazione aziendale del lavoro: il destino occupazionale spesso è legato a
doppio filo a sprechi energetici, inefficienza produttiva o miopia nelle scelte economico-
aziendali, quindi è del tutto naturale far sentire la propria voce su tutti questi aspetti 184. Le
attività produttive in fase di dismissione devono diventare un nuovo terreno di lotta, senza
limitarsi a trattare con la proprietà per evitare la chiusura, ma sostenendo i lavoratori nel
proporre un piano di riconversione industriale gestito direttamente da loro, nonché
analizzando le inefficienze dell’azienda dovute a deficit infrastrutturali o a pessimi modelli
di management. Lavoratori coscienti delle inadeguatezze dell’impresa e capaci di proporre
alternative gestionali e produttive possono proporsi a pieno diritto per rilevare l’attività,
smettendo di essere semplici oggetto delle trattative tra sindacati e vertici aziendali.
Per diffondere il nuovo pensiero andranno organizzati convegni, iniziative su Internet ma
anche proposte editoriali divulgative a basso costo, che raggiungano fasce della
popolazione che resterebbero altrimenti estranee: non è immaginabile che, di punto in
bianco, persone di modesta preparazione culturale e poche inclini alla riflessione
intellettuale si cimentino nella lettura di opere troppo complesse. Un esempio da
184Basti pensare alla fabbrica di alluminio dell’Alcoa a Portosverme (Sardegna), la cui dismissione è avvenuta prevalentemente per gli eccessivi consumi energetici.
151
ripercorrere potrebbe essere quella della collana dei Libri di base, proposta da Tullio De
Mauro all’interno del PCI alla fine degli anni Settanta. L’obiettivo era di
mettere insieme cultura scientifica e cultura umanistica, e anche medica, economica, statistica, coinvolgendo persone esterne, molto lontane, come Sabino Cassese Giorgio Ruffolo, Luigi Spaventa... Bisognava costringere gli autori a scrivere non più di 100 cartelle. Un quarto del libro doveva essere destinato alle illustrazioni, ai grafici, ai disegni. Il testo doveva essere rigidamente ancorato al massimo di leggibilità, rispettando quelle tecniche che in inglese si chiamano plain language e oggi preferiamo chiamare ‘scrittura controllata’. La frasi non dovevano oltrepassare le 25 parole e le parole dovevano aderire a quel vocabolario di base, che intanto stavo cercando di costruire, un vocabolario di circa 6-7000 parole di uso più frequente e più familiari. E le parole che eventualmente non fossero contenute nel vocabolario andavano spiegate nel contesto con le illustrazioni.185
Oggi Altreconomia e Terredimezzo propongono libretti tascabili dal costo inferiore ai 5
euro e mai superiori al centinaio di pagine, dedicati a temi dell’economia, dell’ambiente e
dell’informazione, scritti con un linguaggio semplice pensato per studenti delle scuole
superiori.
Educatori e insegnanti potrebbero proporre una pedagogia ispirata ai valori progressisti,
alla maniera di Gianni Rodari, in modo che fin dall’infanzia l’individuo apprenda
l’importanza della solidarietà, della conoscenza, del rispetto dell’ambiente e della lotta allo
spreco, prima che venga fagocitato dalla furia edonistica del consumismo e della
pubblicità.
Internet rimarrà il principale veicolo di informazione e diffusione, ma oltre al Web 2.0
andranno prese in considerazione tutte le forme che consentano di trasformare il computer
in una Web-TV, ricorrendo anche a tecnologie streaming audio-video, sempre allo scopo
di proporre forme di comunicazione che, essendo più simili a quelle del medium di massa,
siano fruibili da un pubblico non solo di élite. Non si può rimanere confinati in discussione
da salotti radical-chic o da caffé intellettuali brulicanti di studenti universitari improvvisatisi
rivoluzionari, altrimenti sarebbe meglio lasciar perdere tutto fin dal principio.
Tirando le somme, i nuovi soggetti politici – è meglio utilizzare il plurale – dovrebbero
rappresentare un ibrido tra un partito politico fortemente de-gerarchizzato e
l’associazionismo di base. Qualcuno potrebbe trovare delle analogie con la vecchia
struttura del PCI e delle sue realtà-satellite come CGIL, ARCI, Lega delle cooperative,
Editori Riuniti e altre ancora; in effetti quella che viene spesso chiamata ‘egemonia
185De Mauro 2010, 141-142
152
culturale della Sinistra’ forse si doveva più a questi soggetti subalterni che al partito in se
stesso, che da quando si è progressivamente ‘emancipato’ da essi (fatta eccezione per la
mercificazione della cooperazione) si è rivelato sempre di più un guscio vuoto e
autoreferenziale. In mancanza di una struttura forte sul piano burocratico ed economico
qual era il PCI - che per altro non sarebbe auspicabile, viste le degenerazione a cui si è
prestato - il nuovo modello dovrebbe assumere un assetto federativo dando dei punti di
riferimento per i militanti ma limitando il più possibile le gerarchie. I militanti per un’incisiva
azione politica dovrebbero:
- prima di tutto studiare, informarsi e analizzare la situazione politico-economica locale,
nazionale e mondiale;
- impegnarsi nella difesa attiva del territorio e del lavoro, proponendo alternative concrete
ai piani di sviluppo e modernizzazione del potere ufficiale: contro-manovre economiche,
contro-piani urbanistici e ambientali, contro-piani industriali. Il caso più emblematico in
Italia è quello dell’associazione Sbilanciamoci!, che ogni anno addirittura redige una
contro-manovra finanziaria alternativa a quella del governo;
- mettere in pratica azioni dirette come quelle appena descritte;
- presentare delle liste civiche nelle elezioni politiche locali, ed eventualmente in quelle
nazionali, riflettendo sull’opportunità di formare delle correnti di opinione all’interno di
determinati partiti, sindacati e organizzazioni di categoria.
Ovviamente per avere successo tale programma, per quanto pienamente compatibile con
la prassi della democrazia liberale e il rispetto della legalità, richiede un consistente ricorso
a forme di disobbedienza civile. L’opzione preferenziale è ricercare la collaborazione delle
autorità, in caso contrario bisogna ricorrere a tutte quelle forme di violazione della legalità
compatibili con la democrazia, come boicottaggi, picchettaggi e occupazioni, oppure
bisogna intraprendere ugualmente attività a sfondo economico e sociale anche senza le
autorizzazioni preventive, radicandole fino a costringere l’istituzione a riconoscerne
l’esistenza e a legittimarle186. Nulla di nuovo sotto al sole, per altro: nella storia, il
passaggio dall’aristocrazia al liberalismo e il successivo allargamento dei diritti democratici
non è avvenuto solo tenendo dibattiti e aderendo diligentemente alle legislazioni in vigore,
ma attraverso battaglie anche molto dure.
186 Prendendo spunto dall’esperienza del movimento no global, sarà bene dotarsi di un valido pool di avvocati militanti allo scopo di intraprendere le misure legali necessarie.
153
La disobbedienza civile ha un suo valore a prescindere ma oggi, dove i partiti politici
assomigliano sempre di più a oligarchie chiuse e le persone subiscono sulla loro pelle
decisioni presi da organismi extra-nazionali (UE, BCE, FMI, Banca Mondiale, ecc.) al di
fuori di qualsiasi giurisdizione democratica, è forse l’unico modo per salvare la società
dall’autoritarismo. In Italia abbiamo il vantaggio non indifferente di poter contare
sull’appoggio di quella che dovrebbe essere la legge fondamentale dello Stato, ossia la
Costituzione repubblicana. Nata dalle battaglie della Resistenza anti-fascista, essa
rappresenta la sintesi culturale del pensiero del cattolicesimo democratico, del socialismo
e dell’azionismo e oggi il suo messaggio suona quasi come eversivo, in quanto fortemente
anti-liberista e basato sulla subordinazione della libera impresa e della proprietà privata a
fini sociali187; per questo è ritenuta oggi tanto obsoleta dai poteri forti che controllano il
paese.
Ecco alcuni degli articoli più significativi, che costituiscono le basi per un programma
politico che esige di essere realizzato anche in supplenza dello Stato188 e che ci parlano di
una nazione che non ha nulla a che vedere con l’Italia attuale:
Art. 1 L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Art. 2 La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 4 La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo
187Ne consegue che Beppe Grillo prende delle grandissime cantonate quando sul suo blog se ne esce con affermazioni come: “Questa Costituzione garantisce i partiti ed esclude i cittadini”, “i partiti hanno scritto la Costituzione come un abito su misura” e che quindi “va cambiata al più presto”, solo per le limitazioni alle iniziative referendarie e alle leggi di iniziativa popolare. 188Si noti che la Costituzione distingue il concetto di ‘repubblica’, che include tutto il corpo sociale, da quello di ‘Stato’ che comprende solo le istituzioni.
154
le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Art. 5La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.
Art. 8Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Art. 9La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Art. 11 L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Art. 32. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Art. 33.L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.
Art. 34.La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.
Art. 35. La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori.
Art. 36.Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
Art. 37.La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
155
Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
Art. 38.Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale.I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale.Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.L'assistenza privata è libera.
Art. 41.L'iniziativa economica privata è libera.Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali189.
Art. 42.La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.
Art. 44.Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà. La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane.
Art. 45. La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata.La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.
189È noto che il mondo imprenditoriale e la Destra (era un cavallo di battaglia di Tremonti) vorrebbero cancellare questo articolo trasformandolo in una formulazione del tipo: “tutto ciò che non è espressamente vietato è lecito”. Ciò avviene perché, se l’art.41 fosse realmente applicato, non sarebbero possibili le delocalizzazioni produttive e i ricatti aziendali in stile Marchionne. Le critiche intorno a questo dettato costituzionale sono state fatte proprie dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in una lettera aperta pubblicata sulla rivista on line Reset (www.reset.it/focus/127/284 ).
156
La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato.
Art. 46. Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.
Art. 47.La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito.Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.
Art. 53. Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.
Non è fuori luogo ricordare che, su proposta di Giuseppe Dossetti, l’Assemblea
Costituente aveva introdotto esplicitamente il ‘diritto di resistenza’ – che si ritrova in altre
carte costituzionali – sotto questa forma: “La resistenza, individuale e collettiva agli atti dei
pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente
Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino”; tale comma è stato poi ritirato per
l’opposizione di democristiani, liberali e repubblicani, anche se rendeva al meglio lo spirito
che anima la Costituzione.
Imparando dal passato, non va ripetuto l’errore di una parte del movimento no global,
costituito soprattutto dalle maggiori ONG, che ha avuto la colpa di sostenere discussioni
infinite con i fautori della globalizzazione, ricorrendo ad argomentazioni di tipo soprattutto
etico-morale, nel vano tentativo di persuadere gente convinta di avere la verità in tasca.
Le istituzioni confondo spesso il ‘dialogo’ con la ‘spiegazione’. Dal momento che non possono concepire di essere in errore o in torto, daranno per scontato che se siete in disaccordo con le loro posizioni è questione di malafede o di difetto nella comunicazione: il problema è solo che non si sono spiegati con sufficiente chiarezza190.
Morale della favola: agli occhi del pubblico i no global hanno finito per apparire come dei
tediosi grilli parlanti, mentre le loro controparti istituzionali facevano la figura dei tolleranti
democratici liberali, che accettavano il confronto di idee ben diversamente dai manifestanti
190George 2005, 181-182
157
fanatici. Al riguardo, vengono in mente le ore e ore passate prima del G8 di Genova 2001
a intavolare discussioni con il ministro degli esteri Renato Ruggiero, persona sicuramente
molto più rispettabile dei suoi colleghi di governo (dal quale infatti sarà poi costretto a
dimettersi), senza però ottenere nulla se non di accreditare il governo Berlusconi come
aperto al dialogo e alla pluralità di opinioni. Nonostante ciò, molte ONG premono per
ottenere una funzione consultiva nelle istituzioni economiche internazionali191. Siccome gli
avversari ricorreranno al solito metodo di presentare i propri interlocutori come ‘anime
belle’, ‘sognatori’ – al momento opportuno però capaci di trasformarsi in pericolosi
‘terroristi’ - o altre amenità, la dialettica deve puntare a smontare le loro argomentazioni in
modo preciso e documentato, ribaltando le accuse di ingenuità e sottolineando la follia di
politiche pensate senza alcun rispetto dell’abc delle scienze naturali, senza paura di
denunciare tutte le contraddizioni della società della crescita basata sull’abbaglio della
ricchezza materiale e sulla leva della speculazione finanziaria.
Pur trattandosi di una realtà reticolare composta da una pluralità di soggetti, sarebbe
importante trovare una denominazione comune per richiamare nel pubblico l’adesione a
valori condivisi, come avviene con i movimenti definiti ‘Indignati’ o che utilizzano la parola
‘Occupy’ in riferimento all’iniziativa Occupy Wall Street. Come ha ben spiegato Paul
Hawken, le organizzazioni e le associazioni che rivendicano sostenibilità ecologica e
giustizia sociale sono la più potente forza rivoluzionaria del tempo ma la gente fatica ad
accorgersene soprattutto perché manca un nome – un brand, per usare un termine del
marketing – con cui definire globalmente il loro ambito di azione.
Un atteggiamento pragmatico: superare gradualmente lo Stato in favore dei beni comuni
Prima di vaneggiare a proposito di massimi sistemi sul ruolo e la valenza dello Stato,
riprendendo dibattiti Otto-Noventeschi, è bene chiarire un punto importante: è rimasto
molto poco tempo per evitare che la crisi economica, sociale e ambientale si aggravi a
livelli insostenibili. Parliamo di un orizzonte temporale di non più di dieci-quindici anni,
quindi non resta alternativa che assumere un atteggiamento pragmatico senza scadere
nell’idealismo eccessivo192. Tuttavia, non si può eludere il problema sul futuro delle
istituzioni politiche e sulla loro validità.
191 Nel Rapporto Lugano si vede con favore questa forma di collaborazione, perché “ha una capacità provata di rendere le ONG molto più ‘costruttive’ e ‘responsabili’, vale a dire meno radicali, polemiche e indisciplinate”. 192Non c’è nessun contrasto con l’irrealismo di Macdonald, perché non si tratta di accettare qualcosa di antitetico ai propri ideali allo scopo di trarne del profitto, ma di riconoscere la modalità migliore per metterli in pratica.
158
All’interno dei movimenti per la decrescita, c’è chi ritiene che a un arretramento del
mercato debba seguire parallelamente anche quella dello Stato (ad esempio Maurizio
Pallante e il Movimento per la Decrescita felice) e chi sostiene invece che lo Stato debba
coordinare questa transizione (come il gruppo di Alternativa). Sono entrambe posizioni
rispettabili che poggiano su valide argomentazioni.
Storicamente, il welfare state è stato possibile grazie all’economia della crescita e alla
sostituzione di vincoli sociali comunitari con pratiche istituzionalizzate statali; una
contrazione dell’economia ridurrebbe anche le entrate dello Stato e quindi la sua capacità
di azione. A differenza delle amministrazioni locali, lo Stato centrale non solo è meno
influenzabile dall’opinione pubblica ma deve rispondere direttamente a istituzioni
sovranazionali e alleanze internazionali che ostacolano misure radicali come quelle
necessarie per le politiche decresciste. È anche difficile immaginare una classe politica
nazionale – la famigerata ‘casta’, per intenderci – che già fatica a ridurre i propri
scandalosi privilegi, decidere di ridurre al minimo anche le proprie prerogative politiche a
favore del localismo e dell’azione diretta dei cittadini.
Parimenti, in che modo si potrebbe attuare un programma politico come quello descritto da
Latouche senza occupare posizioni di governo? Ad esempio, come ridurre l’orario di
lavoro, istituire un reddito minimo di cittadinanza o penalizzare la pubblicità? In generale, è
possibile immaginare che la rete delle comunità locali riesca ad attuare autonomamente la
decrescita e il decentramento sottraendo il potere allo Stato centrale e rendendo vano il
suo operato? Sembra come minimo una prospettiva molto utopica, anche se non
impossibile.
Ma cosa accadrebbe se per qualche ragione lo Stato cessasse improvvisamente di
funzionare? Con tutti i suoi difetti, il welfare state assicura quasi gratuitamente a migliaia di
persone protezione dalla miseria, assistenza sanitaria e istruzione. Un welfare comunitario
può sicuramente offrire da subito dei servizi migliori, ma certe prestazioni – ad esempio
previdenza e cure sanitarie ad alto livello tecnologico – al momento non sono alla sua
portata e molto probabilmente non lo saranno mai. E in una nazione come l’Italia,
l’assenza dello Stato in molte aree del paese spalancherebbe le porte a forme di dominio
ben più crudeli, come le organizzazioni mafiose.
Anche gli anarchici più incalliti devono riconoscere che l’ulteriore indebolimento dello
Stato-Nazione, se non addirittura la sua sparizione, rappresenterebbe la manna dal cielo
per la finanza mondiale e le imprese transnazionali che da decenni lottano contro le sue
prerogative e consentirebbe alle tirannie private la colonizzazione immediata di ogni
159
spazio pubblico che lo Stato, volente o nolente, ancora protegge dalla mercificazione. Solo
dei ‘rivoluzionari’ benestanti imbevuti di ideologismo possono assumere atteggiamenti
improntati al ‘tanto peggio, tanto meglio’, come fa Toni Negri193 e brindare allo sfacelo dello
Stato-Nazione.
Per comprenderci, può essere utile immaginare lo Stato come un’enorme diga logora,
obsoleta, piena di falle anche perché gestita da un personale che invece di curarne la
manutenzione opera sabotaggi sistematici allo scopo di farla definitivamente crollare: se
ciò accadesse, non ci sarebbe più alcun argine al dilagare dello tsunami tecnocratico-
finanziario. In questa situazione, per chi vive al riparo della diga non sembra sensato
contribuire alla sua distruzione per poi gioirne mentre si viene inghiottiti dalle acque. È
molto meglio cercare di tamponare le falle, aspettare che le acque si calmino e nel
frattempo elaborare strategia alternative.
Ne consegue che gli interventi per tappare le falle non sono pensati allo scopo di
preservare lo Stato-diga, bensì chi vive al di là da esso – cioè noi stessi. È l’opinione che
ha espresso anche una delle massime personalità dell’anarchismo contemporaneo, il
linguista statunitense Noam Chomsky:
L’ideale anarchico, qualunque sia la sua forma, ha sempre aspirato, per definizione, verso uno smantellamento del potere statale. Io condivido questo ideale. Eppure, esso entra spesso in conflitto diretto con i miei obiettivi immediati, che sono di difendere, ossia rinforzare certi aspetti dell’autorità dello Stato. Oggi, nel quadro della nostra società, credo che la strategia degli anarchici sinceri debba essere di difendere certe istituzioni dello Stato contro gli assalti che subiscono, pur sforzandosi di costringerle ad aprirsi a una partecipazione popolare più ampia ed effettiva. Questa pratica non è minata dall’interno da una contraddizione evidente tra strategia e ideale; essa procede naturalmente da una gerarchizzazione pratica degli ideali e da una valutazione, del tutto pratica, dei mezzi di azione.
Gli italiani che il 12-13 giugno 2011 hanno votato contro la privatizzazione dell’acqua e
l’energia nucleare hanno leggermente smorzato l’intensità dello tsunami non certo per fare
un piacere ai padroni della diga, che non hanno sicuramente apprezzato l’esito
referendario, ma per se stessi, il proprio territorio e le generazione future.
193Non troppo paradossalmente, le teorie di Negri hanno ricevuto l’approvazione di personalità del tutto estranee all’estrema Sinistra. Frances Fukuyama, profeta del neoliberismo, ha dedicato una lunga e benevola recensione a Impero, mentre Francesco Cossiga ha dichiarato: “Hanno scritto che è la teoria degli antiglobal, ma non è vero. Intanto Negri riconosce alla globalizzazione dei meriti, soprattutto quello di aver portato al superamento degli Stati nazionali. E poi, a differenza degli antiglobal, Negri non crede che gli Stati Uniti siano il centro dell'impero, e nel suo testo non c´è traccia di pauperismo”.
160
Gradualmente andrà superato il vecchio statalismo socialdemocratico con il concetto di
‘bene comune’ sostenuto dai nuovi movimenti sociali:
La sensibilità ecologica e sociale della popolazione ha portato a rivalutare l’idea della gestione pubblica di quei beni e servizi comuni necessari ad una vita dignitosa di ciascuno individuo e delle comunità locali. Ma, attenzione. I movimenti referendari non sembrano avere alcuna nostalgia per carrozzoni clientelari tipo ex municipalizzate. Al contrario si fanno interpreti di una crescente sensibilità civica, di una grande voglia di prendersi cura direttamente di ciò che appartiene ai cittadini semplicemente come abitanti di questa Terra: beni naturali come l’acqua, l’aria, i boschi e i parchi, il paesaggio e beni che ci ha lasciato in eredità chi è vissuto prima di noi: i beni storici e culturali, le infrastrutture, i servizi alle persone. Si chiama ‘pubblico partecipato’ e si riferisce a processi decisionali, gestionali e di controllo attraverso cui tutti i cittadini vengono messi nelle condizioni di partecipare alle decisioni. Oltre e meglio la delega agli apparati tecnico-burocratici, spesso mal indirizzati dalle rappresentanze politiche. Nuove esperienze stanno sorgendo dal basso.194.
Come ha ben spiegato il prof. Ugo Mattei (docente di diritto civile all’università di Torino), i
beni comuni rappresentano il manifestarsi di una concezione radicata nella società pre-
moderna, prima che lo Stato-nazione riuscisse a imporre violentemente la propria
egemonia attraverso fenomeni come quello dell’enclosures di cui si è accennato nella
seconda sezione. Prima dell’accentramento dei poteri nelle mani dello Stato centrale,
processo iniziato a partire dal XV secolo, le comunità erano un soggetto di diritto
riconosciuto al pari dello Stato e del privato: le pratiche come i commons o ‘usi civici’ (uso
comune di terre, boschi e fonti d’acqua, le cosiddette ‘forme di consumo relazionale’)
erano la norma in una società basata sulla sussistenza dove l’esistenza del singolo
individuo era basata sul suo ruolo di cooperazione sociale. Oggi di fronte al dramma
ecologico provocato dalla monetarizzazione di ogni singolo aspetto della Natura (chiara
degenerazione del pensiero individualistico liberale) e all’emergere di soggetti
transnazionali – le corporation - svincolate da qualsiasi autorità dello Stato e anzi capaci di
influenzarne pesantemente la condotta politica, le pratiche neo-comunitarie stanno
conoscendo una seconda giovinezza. Ciò si accompagna inevitabilmente a una
ridefinizione del concetto stesso di ‘politica’ e delle forme in cui viene praticata:
Il movimento per i beni comuni non può che essere un movimento per un’autentica declinazione dell’idea stessa di cittadinanza, fatta di partecipazione attiva e non di
194Paolo Cacciari, “La rivoluzione politica dei beni comuni” a Napoli, Carta 27 luglio 2011
161
mera scelta passiva fra i partiti politici offerti sul mercato della politica, alle scadenze elettorali, nel puro interesse dell’offerta stessa195.
Ciò corrisponde allo spirito dell’azione diretta proposto in questa sede, che mira a
superare tanto la gestione autoritaria-centralizzata statale quanto la privatizzazione in
favore di un impegno diretto della cittadinanza. Lo storico austriaco e militante di ATTAC
Christian Felber nel libro L’economia del bene comune ha avuto il grande merito di
tradurre ideali nobili ma apparentemente utopici (strutture orizzontali, democrazia
partecipativa, ecc.) in una proposta concreta. Felber ha teorizzato una divisione dei poteri
ulteriore a quella liberale – in contrasto con tutte le proposte di riforma costituzionale ‘neo-
assolutiste’ ispirate al presidenzialismo e al rafforzamento del ruolo dell’esecutivo – dove
alla tradizionale democrazia rappresentativa si aggiungono la democrazia diretta
(referendum propositivi e abrogativi, iniziative di legge popolare con carattere vincolante) e
la democrazia partecipativa (bilancio partecipativo, communalia democratiche196) e dove il
potere costituente (cioè la sovranità, che in democrazia dovrebbe appartenere al popolo)
viene diviso dal potere costituito (parlamento e governo). Secondo lo studioso austriaco lo
strumento principe in mano alla popolazione per influenzare attivamente i meccanismi
legislativi sarebbe la convenzione, ossia un’assemblea eletta dal popolo al fine di
riscrivere le regole costituzionali. Felber sembra dare per scontato che questo tipo di
procedure andrebbe concordato con il potere, ma si può anche immaginare una situazione
in cui vasti settori del mondo sindacale, dell’associazionismo politicamente impegnato e
dei movimenti sociali decidano di attuarle in piena autonomia riappropriandosi in qualche
modo dello strumento del voto: malgrado il carattere non ufficiale delle consultazioni, in
caso di una vasta adesione sarebbe difficile per la politica eludere le nuove istanze e
quindi sarebbe necessario almeno un parziale riconoscimento.
In ogni caso, qualunque ipotesi di costruire una società basata sulla destrutturazione della
mega-macchina non può prescindere da una logica di frammentazione e delocalizzazione
del potere, evitando qualsiasi tentazione di soluzione ‘forte’ basata sulla leadership
centralista se non addirittura sull’autoritarismo. Purtroppo lo sconforto per l’immobilismo
politico ha portato anche molti intellettuali di grandissimo spessore a covare idee del
genere; ecco quanto ha dichiarato in un’intervista Latouche:
195Mattei 2011, 81-82196Le communalia democratiche sono una nuova forma di azienda pubblica, dove nel consiglio di amministrazione siedono rappresentanti di amministrazione pubblica, lavoratori e utenti. Un esempio già esistente è la società energetica californiana SMUD.
162
Prima immaginavo un'organizzazione piramidale con alla base piccole democrazie locali e delegati al livello superiore.. Oggi penso che la democrazia sia un'utopia che ha senso come direzione. Ma la cosa importante è che il potere, quale che sia, porti avanti una politica che corrisponde al bene comune, alla volontà popolare, anche se si tratta di una dittatura o di un dispotismo illuminato197.
Se già è difficile concepire una democrazia liberale e rappresentativa davvero interessata
al bene comune, sicuramente non esiste dispotismo ‘illuminato’ – quello settecentesco di
fatto cercò di sfruttare alcune idee illuministe allo scopo di rafforzare il ruolo del sovrano e
dello Stato centrale contro l’ingerenza di nobiltà e Chiesa – che possa esserlo. Oggi le due
nazioni più nocive per il riscaldamento globale del pianeta sono gli USA, ossia quella
probabilmente più liberale al mondo – non la più democratica – e la Cina, retta da una
ferrea dittatura, ma entrambe hanno collaborato fraternamente perché le conferenze
internazionali sul clima non giungessero a nulla di concreto, ed entrambe sono nazioni
accomunate da un potere centrale forte e restio alle influenze della popolazione.
Decisioni imprescindibili
La vittoria clamorosa e inaspettata dei referendum del giugno 2011, sostenuti per lo più da
comitati civici senza il sostegno dei grandi partiti, ha riaperto il dibattito sull’opportunità di
realizzare liste civiche nazionali capaci di portare avanti un programma basato sulle
tematiche ignorate dalla casta politica ma condivise da più della metà del popolo italiano.
Qualcuno ha ricordato come in Sudamerica, in Venezuela, Bolivia, Equador, i movimenti
sociali siano riusciti a portare al governo entità politiche invise ai poteri forti internazionali e
al grande capitale, prendendo subito provvedimenti che ne hanno inasprito l’antipatia ma
senza subire contraccolpi politici-limitari, evitando così il destinato capitato nel 1973 al Cile
di Allende.
Pur essendoci validi motivi di speranza, bisogna anche essere consapevoli dei limiti. Un
conto è proporre la candidatura di una lista indipendente che ottenga i voti necessari
all’ingresso in Parlamento – come capiterà probabilmente al Movimento 5Stelle di Grillo –
un altro è ottenere un consenso tale da arrivare al governo della nazione, ossia la
maggioranza assoluta dei consensi; il programma radicale e innovativo precluderebbe
qualsiasi tipo di alleanza politica e l’esperienza della Sinistra dimostra fuori da ogni dubbio
197 http://www.lettera43.it/economia/macro/italia-serve-la-bancarotta_4367557970.htm
163
che è deleterio sostenere politiche di ‘desistenza’ o peggio ancora di collaborazione con il
ceto politico attuale. In ogni caso esistono problematiche non eludibili che possono essere
affrontate esclusivamente dal governo e dal parlamento nazionale, sui quali bisognerà
esercitare ogni sorta di influenza possibile. Le più urgenti al momento sono quattro:
- debito pubblico: gran parte del cosiddetto ‘debito sovrano’ è stato contratto con banche e
loro diramazioni (come i cosiddetti ‘investitori istituzionali’) che sono ricorse a strumenti
finanziari truffaldini quali i derivati. Chi ha fatto di tutto per provocare la crisi non può
beneficiare dei suoi effetti, per tale ragione è necessario al più presto un audit del debito
pubblico al fine di comprendere quali quote sono legittime e quali no;
- permanenza nell’Euro e rapporti con l'Unione Europea: la valuta europea, così come è
concepita, rappresenta una camicia di forza che sta strangolando le società dei paesi
PIIGS, una situazione ulteriormente aggravata dalla ratifica del Fiscal Compact e dal
Meccanismo Europeo di Stabilità (MES);
- riforma del sistema bancario: va assolutamente posto un limite allo strapotere bancario. I
provvedimenti variano dai più blandi, come la separazione fra banche commerciali e
banche di investimento, l’aumento della riserva frazionaria, il divieto di operare nei paradisi
fiscali, a quelli più radicali come la riforma della banca centrale e la nazionalizzazione del
sistema bancario (come accaduto in Islanda) e la revisione completa del sistema di
signoraggio;
- presenza dell’Italia nella NATO e nelle missioni militari all’estero: il recente conflitto in
Libia è il segnale che la potenza militare dell’Alleanza Atlantica sarà dispiegata nei futuri
focolai di crisi, come Iran e Siria. L’Italia, coerentemente al dettato costituzionale che rifiuta
la guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali, non può
assolutamente partecipare a iniziative belliche che rischiano di innescare conflitti di portata
ancora più vasta e devastante.
Sono tematiche talmente impegnative che può sembrare impossibile intervenire dal basso,
ma non bisogna disperare. Ricordiamoci che, costretto dalla pressione popolare, nel 1993
il parlamento più inquisito della storia repubblicana abolì l’immunità di deputati e senatori
nei confronti dell’azione penale, ossia il privilegio più apprezzato dalla casta politica.
Esistono quindi ampi margini di azione che vanno assolutamente sfruttati.
164
La doppiezza della Nuova Destra e il caso ungherese
L’opinione prevalente sull’avanzata neo-fascista e xenofoba in Europa è che si tratti della
reazione allo sradicamento culturale, politico ed economico provocato dalla
globalizzazione, un tentativo di ergere i valori ‘solidi’ del nazionalismo e dell’integralismo
religioso a barricata contro la ‘liquefazione’ della società; una sorta di movimento no global
di estrema Destra quindi, che rivendica la prevalenza del locale sul globale e la riscoperta
della specificità etnica e culturale in opposizione al neoliberismo imperante. Un quadro
non irragionevole ma è forte il sospetto che, dietro la cortina di fumo ideologica, il grande
capitale globale abbia spesso tratto vantaggio da queste visioni reazionarie, specialmente
se molte rivendicazioni etnico-indipendentiste hanno portato alla dissoluzione di Stati
grandi e potenti, come è successo per la Jugoslavia e l’ex-URSS, lasciando spazio a tante
piccole nazioni deboli e più facilmente manipolabili da parte delle corporation nonché delle
mafie internazionali.
Bauman considera i due fenomeni – globalizzazione economica e reazione neofascista –
affatto antitetici e per certi versi complementari, perché alcuni degli obiettivi degli
estremisti di Destra permettono di distrarre l’opinione pubblica dai fini delle politiche
globalizzatrici; ad esempio l’accanimento contro l’immigrazione:
Si noti che gli immigrati si adattano allo scopo assai meglio di qualsiasi altra categoria di cattivi, veri o presunti... Quando tutti i posti di lavoro sono precari e considerati non più sicuri, la vista degli immigrati è come il sale sulle piaghe... Per chi li odia e li attacca, gli immigrati incarnano – in modo visibile, tangibile, nel corpo – il presentimento inespresso, ma penoso e doloroso, della loro stessa smaltibilità. Si sarebbe tentanti di dire che, se non ci fossero immigrati che bussano alle porte, bisognerebbe inventarli... perché offrono ai governo un ‘altro deviante’, un bersaglio quanto mai gradito per le ‘tematiche scelte con cura su cui impostare le campagne’. I governi, spogliati di gran parte delle loro capacità e prerogative sovrane dalle forze della globalizzazione che non sono in grado di contrastare – e meno ancora di controllare – non possono far altro che ‘scegliere con cura’ i bersagli che sono (presumibilmente) in grado di sopraffare e contro cui possono sparare le loro salve retoriche, e gonfiare i muscoli sotto gli occhi dei loro sudditi riconoscenti.198
Il caso italiano della Lega Nord è probabilmente l’esempio più lampante di questa
gigantesca pantomima. Da sempre dichiaratamente razzista e xenofoba, la Lega ha
sostenuto a spada tratta provvedimenti lesivi della dignità e dei diritti umani dei migranti,
198 Bauman 2008, 72
165
come la famigerata legge Bossi-Fini e i respingimenti dei barconi in mare aperto, ha fatto
della ‘battaglia per la sicurezza’ il suo cavallo di battaglia, ma ha appoggiato tutti
provvedimenti del secondo e del terzo governo Berlusconi a tutela della casta di ‘Roma
ladrona’, nonché dell’incolumità giudiziaria di quello che Bossi, tra il 1994 e il 1999,
chiamava affettuosamente “il mafioso di Arcore” che “con le televisioni fa il lavaggio del
cervello alla gente”. In molti casi – si veda il DDL Alfano sulle intercettazioni, poi ritirato – il
sostegno ha riguardato quelle proposte che limitano considerevolmente le forze inquirenti
nella repressione dei crimini di strada, tanto vituperati dai leghisti.
Ma ogni limite di decenza si è superato con il noto caso delle mensa scolastica di Adro
(piccolo comune del bresciano), dove nell’aprile del 2010 il sindaco leghista, sostenuto da
molti genitori di alunni ‘autoctoni’, ha interdetto la fruizione di pasti regolari ai bambini in
ritardo con i pagamenti, quasi tutti provenienti da famiglie extracomunitarie. Quando un
imprenditore locale, disgustato per il cinismo dei suoi concittadini, si è offerto di pagare di
tasca propria i debiti contratti da queste famiglie, nuovamente i genitori ‘legalisti’ sono
insorti spalleggiati dal sindaco: secondo loro, l’intervento del benefattore è stato sbagliato
perché ‘ha premiato i furbi’, come hanno prontamente fatto notare in manifestazioni dove
venivano esibiti cartelli con slogan del tipo ‘mangiapane a tradimento’.
Questo stesso partito politico che, nei confronti di persone pericolosamente in bilico sulla
soglia di povertà, si mostrava irremovibile e gridava allo scandalo per qualche centinaio di
euro, sei mesi prima aveva approvato in Parlamento il cosiddetto ‘scudo fiscale’ ideato dal
ministro dell’economia Tremonti, un provvedimento che autorizzava il rientro di capitali
dall’estero sottratti al fisco con la garanzia dell’anonimato, pagando una misera multa
corrispondente al 5% delle somme evase ed eludendo l’IVA. I ‘furbi’ che negli anni hanno
sottratto al fisco milioni di euro hanno potuto riportarli tranquillamente in Italia e reinvestirli
con la sicurezza che la magistratura non sarebbe mai venuta a conoscenza di questo
condono, un vero e proprio riciclaggio di Stato di cui, a giudizio di molti magistrati come
l’ex procuratore aggiunto di Palermo Roberto Scarpinato, ha beneficiato soprattutto la
borghesia mafiosa.
Del resto molti anni prima, quando la Lega era ancora un movimento politico giovane e di
piccole dimensioni, altri ‘furbi’ di lungo corso ne avevano già intravisto le potenzialità. Nel
1994, chiamato a testimoniare nel corso del processo Enimont, Umberto Bossi ha dovuto
ammettere di aver ricevuto un finanziamento illecito dal manager di Montedison Carlo
Sama, ragione per cui nel 1998 la Cassazione ha condannato a 8 mesi il leader della Lega
Nord e ad altri 8 il segretario amministrativo del partito Alessandro Patelli. I recenti intrighi
166
riguardanti il tesoriere Belsito e il cosiddetto ‘cerchio magico’ formato dalle personalità
vicine alla famiglia Bossi sono il coronamento di un processo iniziato molto tempo prima,
negli anni della Lega ‘dura e pura’ ancora illibata dall'abbraccio mortale del berlusconismo.
Fuori da casa nostra, il caso più clamoroso è sicuramente quello ungherese, dove alle
elezioni del 2010 il partito FIDESZ di Viktor Orbán ha ottenuto una schiacciante
maggioranza, che gli ha permesso di stravolgere in senso reazionario e clericale la
Costituzione magiara, di indebolire la corte costituzionale e mettere sotto controllo i media;
in politica estera, si è segnalato per aver varato una legge che estende la cittadinanza
anche ai magiari che vivono al di fuori dell’Ungheria, preambolo alla ben più ambiziosa
richiesta di revocare il Trattato di Trianon e le cessioni territoriali successive alla sconfitta
nella prima guerra mondiale.
Orbàn e il suo governo hanno attirato l’interesse di molte persone estranee al neofascismo
per aver cercato di riportare la Banca centrale ungherese sotto il controllo dello Stato e per
le durissime prese di posizione contro le politiche della UE; c’è chi vede in Orban una
specie di ‘resistenza’ – virgolette quanto mai d’obbligo – e di riscatto della sovranità
nazionale contro le ingerenze dei poteri transnazionali. La realtà invece è che Orbàn è
una manna dal cielo per l’establishment europeo e mondiale, che potrà così accomunare
ogni forma di contestazione ai deliri di questo nuovo Horthy e legittimarsi come unica
alternativa al dilagare dell’estrema destra xenofoba e al ‘populismo’.
Insomma, sia che vesta i panni dello spauracchio sia del collaboratore più o meno
involontario del regime economico dominante, per il fascismo si può ancora applicare
l’idea di Karl Polanyi per cui esso rappresenti una possibilità politica sempre presente, una
mossa – più che un movimento – che i poteri forti decidono di giocare quando mostrare il
loro vero volto è troppo impresentabile e impopolare. E che sicuramente non può portare a
nulla di positivo.
Superare la modernità per aprire una nuova era
Zygmunt Bauman ha coniato la definizione ‘modernità liquida’ per descrivere l’avvento
dell’epoca neoliberista/post-fordista, basata sulla soppressione degli orizzonti temporali
presente-passato in favore di un eterno presente dove alcuni capisaldi della modernità –
sviluppo tecnologico, crescita economica, individualismo – vengono sostenuti fino alle
estreme conseguenze, anche a costo di distruggere i legami sociali e di compromettere
167
definitivamente la salute del pianeta. La modernità liquida è ovviamente la figlia degenere
dell’Illuminismo e delle sue aspirazioni emancipatrici, democratiche ed egualitarie
La pars costruens di questo libro si basa su concezioni che, in gran parte, riscoprono in
chiave moderna molti elementi della premodernità: mutualismo comunitario, democrazia
diretta, uso delle risorse rinnovabili, visione olistica... ma non si tratta di una regressione al
passato – sostenuta semmai dalle tendenze pseudo-decresciste di Destra - quanto di un
ritorno al futuro dove la tecnologia e la scienza della mega-machina capitalista vengono
passate al setaccio per selezionare quanto può tornare utile a una società sostenibile sul
piano ecologico e sociale; lo stesso viene fatto con la conoscenza tradizionale, che viene
riscoperta e opportunamente selezionata. Tutto ciò non deve essere interpretato come
una contraddizione bensì come un’importante conquista intellettuale. Influenzata dal
marxismo e dalla sua matrice hegeliana, la Sinistra ha sempre aderito a una visione
dialettica e storicistica, per cui il progresso consisterebbe nello scorrere della storia, quindi
la modernità si tradurrebbe in una fase di superamento e confutazione del premoderno. Il
Novecento ha dimostrato come questo atteggiamento degeneri inesorabilmente nella
fiducia cieca nello sviluppo tecnologico, nel disprezzo per i limiti naturali nonché
nell’alienazione e nella disgregazione sociale. Non è un caso che le grandi dittature del XX
secolo abbiano cercato legittimazione nelle filosofie storicistiche, allo scopo di tagliare i
ponti con il passato e reprimere alla radice il dissenso: se il regime rappresentava una
fase storica necessaria, allora per definizione era inconcepibile e irrazionale qualsiasi
opposizione.
Oggi invece la necessità di reinterpretare in chiave moderna alcune conoscenze del
passato, prendendo coscienza dei nostri limiti e abbandonando la visione sviluppista, ci
spinge a interpretare l’epoca attuale in termini di postmodernità:
La postmodernità è l’epoca segnata dalla trasformazione del capitalismo da una logica della produzione a una logica del consumo, dal passaggio da un’industria delle macchine a un’industria dell’informazione, dalla fine della lotta di classe universale alla rivendicazione dei diritti delle minoranze locali. Il pensiero postmoderno non ha dunque più la fiducia illuministica e positivistica per la scienza, come costruzione razionale e progressiva di conoscenze oggettive. La crescita della conoscenza non è considerata continua, ma discontinua; è caratterizzata da eterogeneità dei linguaggi e da pluralità delle concezioni. Il pensiero postmoderno non crede più nella costruzione di un pensiero universale che può essere espresso in un linguaggio universale, come ritenevano i grandi esponenti del pensiero moderno. Inoltre si mette in evidenza come nello sviluppo della scienza entrino in gioco aspetti irrazionali e fideistici, influenze sociali, politiche ed economiche... L’abbandono di concezioni totalizzanti del sapere favorisce l’accettazione della pluralità delle visioni del mondo che non si presentano come saperi compatti e omogenei, ma come prospettive
168
parziali e frammentate su aspetti specifici della realtà. La cultura e la scienza non sono quindi processi di accumulo di conoscenze e trasmissione di queste conoscenze da una generazione all’altra, ma sono prospettive o narrazioni espresse in un linguaggio condiviso tra chi parla e chi ascolta. Le narrazioni si diffondono a condizione che esista questo patto all’interno della comunità relativa199.
L’abbandono dell’universalismo, baluardo della cultura occidentale in tutte le sue
accezioni, permette di abbracciare quello che il filosofo indo-catalano Raimon Panikkar ha
chiamato pluriversalismo, ossia la ricerca di un’aspirazione comune nella diversità, quella
di salvaguardare il pianeta e il genere umano, un fine a cui ogni cultura nel rispetto della
sue tradizioni dovrà necessariamente tendere. Si possono inoltre superare etnocentrismo
e dogmatismo, peccati mortali della Sinistra europea, che ha interpretato la vocazione
internazionalista più che altro come una missione civilizzatrice nei confronti dei popoli non
occidentali, operando un evidente colonialismo culturale.
Non si tratta di speculazioni meramente filosofiche, perché uscire dalla modernità e dallo
sviluppo comporta ricadute pratiche molto importanti che sarebbe pericoloso trascurare.
Ad esempio, molti ritengono che una società della decrescita sarebbe di per sé più giusta
perché prevede una inevitabile ridistribuzione (una delle ‘erre’ di Latouche), diminuendo la
polarizzazione ricco-povero: un ragionamento corretto, ma che non mette al riparo da
ingiustizia e sopruso. La disparità tra l’ultimo dei contadini cinquecenteschi e Carlo V era
sicuramente molto minore di quella oggi esistente tra il più povero del mondo e Bill Gates,
ma è difficile sostenere che la società feudale, per quanto sostenibile sul piano ecologico,
fosse un modello di giustizia. La modernità ha fallito soprattutto perché, in tutte le sue
forme politico-economiche, ha pensato di poter manipolare la natura a proprio piacimento
inseguendo chimere come quella della crescita infinita, mostrando un’arroganza
prometeica che oggi rischia seriamente di distruggere il pianeta. Ma si è espressa anche
sotto forma di idee di libertà e uguaglianza, in parte precedenti allo sviluppo capitalista
(solo in ambito europeo, si possono rintracciare nell’antica Grecia, nell’Umanesimo e nel
Rinascimento, nella Riforma protestante e nei movimenti ereticali, ad esempio) che
sarebbe sbagliato condannare come cause dei mali attuali.
La riscoperta del premoderno è fondamentale non solo perché ci permette di ritrovare le
basi per un’economia sostenibile e rispettosa dell’ambiente, ma anche di ricostruire una
coesione sociale che la modernità, in particolare attraverso il mito della produttività e il
consumismo, ha cercato in tutti i modi di spezzare. Ma non si deve scordare che la
199Meccacci 1999, 54-55
169
premodernità è stata anche un epoca di istituzione del privilegio, intolleranza e
sottomissione della donna, fenomeni che almeno una parte del pensiero moderno ha
condannato e combattuto. Tra i legami collettivi premoderni rientrano anche manifestazioni
sinistre come il clientelismo - il fenomeno delle mafie deriva storicamente dalla
degenerazione di pratiche comunitarie - per cui bisogna fare una cernita accurata tra
presente e passato: se vanno necessariamente recuperati certi aspetti della società
patriarcale non si può pensare di rispolverare il patriarcato tout court. La semplice uscita
dalla modernità significherebbe una nuova Restaurazione, dove nuovi poteri assoluti e
paternalisti si ergerebbero a garanti dell’ordine sociale a tutela di un’umanità incapace di
governarsi autonomamente. In fondo persino l’ordinamento politico attuale, al culmine
della modernità, sta restaurando alcune pratiche politiche reazionarie, come il familismo
politico ed economico e la scarsa mobilità sociale, con la tecnocrazia che si propone come
nuova forma di auctoritas ineccepibile. A buon diritto l’economista di Harward Umair
Haque parla del presente come di ‘era neofeudale’.
La modernità ha agito molto male però ha permesso di mettere in discussione le strutture
del potere aristocratico, delle oligarchie come la nobiltà e la Chiesa, per restituire dignità
all’individuo. Libertà, uguaglianza e fraternità - concentrandosi in particolare su
quest’ultima, un valore premoderno colpevolmente trascurato – è quindi un programma
politico ancora valido, sostanzialmente tradito dalla modernità e che occorre realizzare in
nuove forme, benché sia figlio di un movimento come l’Illuminismo che ha ispirato anche
alcuni dei più grandi errori della storia umana. Si badi bene che dall’Illuminismo sono
discese anche correnti ‘eretiche’ – come l’opera di Rousseau, l’anarchismo e il socialismo
utopistico – fin dalle origini molto critiche nei confronti dei miti della modernità di cui oggi
constatiamo la disfatta.
Se l’uomo moderno era un po’ un bambino, presuntuoso e incontentabile, oggi nella
postmodernità può finalmente diventare adulto, riconoscere i propri sbagli e operare un
serio esame di coscienza, riportando alla memoria consigli e ammonimenti di coloro che
aveva disprezzato e deriso.
Per tutte queste ragioni, quando alcune fautori della decrescita si dichiarano
orgogliosamente reazionari – intendendolo nel senso nobile del termine, di volontà di non
abbandonare la tradizione per la novità fine a se stessa - non si può fare a meno di
provare un certo imbarazzo, che certamente non deriva dalla fede in vecchi sistemi
filosofici o politici. Infatti concetti come il pluriversalismo sono concepibili solo adottando
un atteggiamento di relativismo culturale incompatibile con il pensiero reazionario, si pensi
170
ad esempio alla dura condanna della Chiesa cattolica ribadita ancora ufficialmente ai
giorni nostri da Giovanni Paolo II (enciclica In veritatis splendor, 1993) e Benedetto XVI
(enciclica Spe salvi, 2007); oppure si pensi alla Destra populista europea,
orgogliosamente ancorata alla tradizione – interpretata per la verità in modo abbastanza
distorto - e nemica giurata di ideali moderni come laicità, tolleranza e libertà di
espressione.
Per i popoli occidentali quindi non è necessario abbandonare l’ideale del progresso, bensì
di prospettarlo nella versione radicalmente diversa proposta da Latouche:
Noi occidentali non dobbiamo vergognarci di condividere il sogno progressista occidentale. Tuttavia, una volta presa coscienza dei danni provocati dallo sviluppo, si tratta di aspirare a una migliore qualità della vita e non a una crescita illimitata del PIL. Noi vediamo il progresso nella bellezza delle città e dei paesaggi, nella purezza delle falde freatiche che ci danno l’acqua potabile, nella trasparenza dei fiumi, nella pulizia dell’aria che respiriamo, nel sapore dei cibi che mangiamo. C’è ancora molto da inventare per rendere più efficace la lotta contro l’invasione del rumore, per aumentare gli spazi verdi, per preservare la fauna e la flora selvagge, per salvare il patrimonio naturale e culturale dell’umanità. Per non parlare di tutto quello che c’è da fare sul terreno della democrazia. La realizzazione di questo programma partecipa pienamente dell’ideologia del progresso e presuppone il ricorso a tecniche sofisticate, alcune delle quali devono ancora essere inventate200.
200Latouche 2005, 83
171
IN CONCLUSIONE: INTRAPRENDERE LA SVOLTA RADICALE, OSSIA COLTIVARE
LA RAGIONEVOLEZZA SOGGIOGANDO IL RAZIONALISMO ECONOMICO
“Non è per nulla superstizioso, anzi è realistico cercare quel che non si può né prevedere né predire, esser pronti ad accogliere, aspettarsi dei ‘miracoli’ in campo politico” (Hannah Arendt)
Marx ed Engels terminavano il Manifesto del partito comunista spronando i proletari alla
lotta, tanto da perdere avevano solo le loro catene. Il consumatore occidentale al contrario
potrebbe pensare di avere molto da perdere da una politica basata sulla decrescita e la
limitazione dei consumi materiali.
In realtà ogni timore cesserebbe se ci accorgessimo che di fatto la decrescita è già
iniziata, solo che a guidarla non sono le idee di Latouche, Pallante o degli eco-anarchici,
bensì quelle del Fondo Monetario Internazionale, delle corporation e delle oligarchie
finanziarie. Queste entità non sono interessate alla redistribuzione della ricchezza e
all’uguaglianza, bensì a mantenere il più possibile inalterato l’ordine mondiale esistente,
tutelando in particolare la classe dei super-ricchi che costituisce circa l’1% della
popolazione planetaria. A tal fine non si può preservare il benessere di tutti, qualcuno si
deve di volta in volta sacrificare man mano che la ‘torta’ si fa più piccola, tagliando quindi
sempre di più la base della piramide sociale mondiale, con il vertice che vede con
sgomento il terreno farsi sempre più vicino reagendo in modo sempre più crudele e
spietato. È una visione completamente disperata, nel senso letterale del termine di
mancanza totale di speranze, dove la super-classe tira a campare ai danni del resto
dell’umanità senza alcuna prospettiva ideale; crederanno forse che il denaro garantisca
l’immunità da qualsiasi disastro, così come nel film 2012 le persone più ricche della Terra
si salvano dall’Apocalisse acquistando i costosissimi biglietti per accedere alle
fantascientifiche arche. Non poteva esserci miglior raffigurazione caricaturale dell’avidità e
dell’idolatria tecnologica che pervadono la super-classe.
Solo deliri complottisti-catastrofisti? Riflettiamo senza pregiudiziali sulla storia mondiale
degli ultimi quarant’anni. Oggi le nazioni PIIGS subiscono sulla loro pelle i ‘piani di
aggiustamento di strutturale’ che i paesi del Sud del mondo hanno già sperimentato alla
fine degli anni Settanta, condannandoli alla miseria. Il dramma del debito pubblico e il
dibattito sulla sua legittimità, che fino a dieci anni fa vedeva protagonisti soprattutto nazioni
172
africane, oggi coinvolge i paesi mediterranei dell’Europa, in un futuro non troppo lontano
trascinerà con sé anche il resto del continente compresa l’orgogliosa Germania. E la
cronaca ci parla sempre più frequentemente di imprenditori e operai che si tolgono la vita
in conseguenza alla crisi, così come Vandana Shiva e altri testimoni ci hanno narrato i
suicidi dei contadini indiani.
In questa selezione economico-darwiniana, i ‘giovani’ paesi BRIC hanno sconfitto la
‘vecchia’ Europa nella sfida della crescita e quindi la super-classe di queste nazioni potrà
godersi l’effimero brivido dello stile di vita occidentale, prima del brusco risveglio dovuto
all’esaurimento delle risorse.
Rispetto all’Asia emergente, l’Africa esce come grande sconfitta e come tale dovrà pagare
un prezzo salatissimo. Molti paesi occidentali, insieme alla Cina, all’Arabia Saudita e alla
Sudcorea, al tradizionale saccheggio di materie prime hanno aggiunto anche
l’accaparramento di terreni agricoli (il cosiddetto fenomeno del land grabbing), a
proporzioni ormai tali da far sembrare presto una bazzecola il colonialismo ottocentesco.
Ha destato scandalo la dichiarazione di Lumumba Stanislaus Diaping, un delegato
sudanese alla Conferenza sul clima 2009 di Copenaghen, riguardo l’accordo finale
raggiunto: "È una soluzione basata sugli stessi valori che, secondo la nostra opinione,
hanno portato sei milioni di persone in Europa nelle camere a gas"201. In realtà mai
paragone fu più appropriato, perché le attuali strategie politiche mondiali sembrano
ispirate a una concezione inedita del Lebensraum, lo ‘spazio vitale’ hitleriano, dove la
brama espansionistica dei mercati si sostituisce alle ambizioni di gloria del Führer, dove la
crescita smisurata soprattutto dei due attori dominanti, vale a dire USA e Cina, diventa
ristrettezza mortale per una fetta sempre maggiore dell’umanità.
Forse un giorno, così come i gerarchi nazisti hanno dovuto rispondere della Shoah, un
futuro tribunale internazionale potrebbe perseguirci per aver favorito ‘involontariamente’ i
massacri attuali e la distruzione del pianeta: e noi consumatori occidentali, al pari
dell’impiegato di Auschwitz sulla via del patibolo, ci chiederemo sgomenti la ragione di
tanto accanimento nei nostri confronti. Anche solo la remota possibilità di questa
eventualità angosciosa dovrebbe convincerci a reagire.
Del resto abbiamo in comune con l’apatica popolazione della Germania nazista molto di
più di quanto non vorremmo ammettere: certo, ci vantiamo di celebrare il giorno della
Memoria, ma abbiamo oramai accettato con indifferenza, se non con favore, l’esistenza di
lager per gli immigrati e di campi di lavoro dove, nell’estremo oriente, bambini producono
201Adn Kronos, 16 dicembre, ore 16:58
173
merci per lo più inutili che consumiamo beandoci della loro economicità, come se non
conoscessimo le ragioni di tale risparmio. Ne consegue che basterebbero piccoli
accorgimenti per desensibilizzare ancora un pochino l’opinione pubblica. Più che un
fascismo ecologico, eventualmente adatto per il Sud del mondo, il rischio più grande è la
formazione un’espertocrazia di guru a cui la popolazione impaurita affidi in modo acritico la
salvezza del pianeta nel timore della catastrofe, un fatto che segnerebbe la fine completa
della politica. Mario Monti e Lucas Papademos rischiano di essere pericolosi antesignani
di figure ancora più sinistre e forse una volta tanto ha visto giusto Giulio Tremonti parlando
di “nazismo bianco”, a giudicare dai toni di alcuni intellettuali. Ecco ad esempio che cosa è
stato capace di scrivere Piero Ottone sul Corriere202, riferendosi al segretario della FIOM
Maurizio Landini:
Lui non accetta il mondo come è: un mondo dominato dalle leggi economiche della domanda e dell'offerta, e manipolato come sempre da personaggi poco raccomandabili: ieri i padroni delle ferriere, oggi i banchieri (con qualche Marchionne sparso qua e là). Gli altri sindacalisti lo accettano, il mondo com' è. E cercano di strappare nel suo ambito il massimo di benefici, per se stessi e per i loro seguaci. Landini è diverso. Anche se non lo dice esplicitamente, in realtà respinge il mondo esistente: vuole imporre un mondo diverso. Lui non parte dunque dalla globalizzazione, con tutte le conseguenze che sono all' origine della crisi attuale. Lui parte della Costituzione, che gli sta bene. La nostra Costituzione proclama che l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Quello è il punto di partenza: di globalizzazione, di concorrenza del Terzo Mondo, di America e Cina si parlerà dopo, in linea subordinata. Landini appartiene alla schiera di coloro che non accettano il mondo come è, ma vogliono cambiarlo: i rivoluzionari, insomma. Al centro del suo universo, quello in cui crede, campeggia il lavoratore, col pieno diritto, sacro e inviolabile, a un posto equamente retribuito, a una paga che gli consenta di mantenere se stesso e la sua famiglia, a una pensione quando non dovrà più lavorare. Questi sono i dati di partenza, i dati imprescindibili. La conseguenza è chiara (anche se un Landini non sente alcun bisogno di enunciarla in tutte lettere). Se il mondo in cui viviamo consente l'adempimento dei diritti di chi lavora, bene. Se non lo consente, dobbiamo cambiare il mondo in cui viviamo... A me sembra che l'impostazione sindacale di Landini, che parte dai princìpi (repubblica imperniata sul lavoro, diritto di ogni cittadino al lavoro) piuttosto che dalle leggi naturali (domanda, offerta, libero scambio) appartenga alla cultura di sinistra di quegli anni ormai lontani: che sia una scheggia di quel sindacalismo che prevaleva nell'Italia del dopoguerra, figlio dell'estremismo di sinistra
Il classismo spudorato di Ottone travalica ampiamente la tradizionale sfiducia del pensiero
liberale nei confronti dell’egualitarismo per sfociare nel più bieco darwinismo sociale,
condannando ampie fasce di popolazione in nome di presunte ‘leggi naturali’
202 Il freno della FIOM, 22 marzo 2012
174
dell’economia. E guarda caso erano proprio i nazisti – quelli ‘neri’ d’annata – a difendere lo
sterminio dei popoli ‘inferiori’ in nome di leggi naturali e di un ordine mondiale immutabile,
che travalicavano qualsiasi diritto creato dall’uomo.
Non servono ragionamenti particolarmente complessi per capire la situazione assurda che
stiamo vivendo. Non siamo giunti al disastro climatico ma ci accorgiamo che le stagioni
non sono più quelle di una volta, basta qualche temporale per trasformare la Liguria nel
Bangladesh, uno strano ometto perennemente con il maglione minaccia i suoi lavoratori di
rinunciare a tutti i diritti o rimanere disoccupati – una specie di Mr. Burns dell’automobile
considerato da Destra e Sinistra un genio delle relazioni aziendali – un ministro si
commuove in pubblico per la durezza dei suoi stessi provvedimenti e per finire un
professore della Bocconi, eletto da nessuno se non dalle ristrette élite della Trilaterale e
della Goldman Sachs, disquisisce di equità e sacrifici tartassando i redditi medio-bassi e
promettendo ritmi di crescita cinesi; il tutto legittimato da un presidente della repubblica
assurto al ruolo di monarca. In questo quadro, se apparteniamo al 99% della popolazione
già sacrificato o potenzialmente sacrificabile, che cosa ci spinge a non reagire a questa
follia disumana? La dedizione a un lavoro sempre meno garantito che rischiamo di
perdere da un momento all’altro? L’affetto verso una famiglia che rischia di assistere, se
non addirittura di essere protagonista, a eventi tra i più tragici della storia umana?
L’attaccamento allo stile di vita occidentale ci impedisce non solo di intravedere la
catastrofe ma anche le possibilità che si celano dietro il ridimensionamento di questa
mega-macchina infernale: una società meno frenetica dove il lavoro è distribuito, o
addirittura una società del non-lavoro, il vecchio sogno del comunismo, attuabile
ridefinendo l’utilizzo delle tecnologie labor saving; un ambiente più sano dove siano meno
frequenti malattie degenerative come i tumori; un mondo dove la guerra diventi veramente
un tabù. E se anche la catastrofe ecologica fosse oramai inevitabile e si potesse solo
contenerne gli effetti, un conto sarebbe vivere in un mondo contrassegnato da legami di
solidarietà e mutuo appoggio, ben altro sarebbe sopravvivere in un pianeta ridotto alla
sceneggiatura di film come Mad Max.
Tutte le preoccupazioni sull’invadenza delle lobby nei processi politici, sullo strapotere
economico delle corporation e del sistema bancario internazionale, con la relativa sfiducia
in ogni possibilità di cambiamento, si scontrano con un dato di fatto inoppugnabile: la
super-classe rappresenta qualche infima percentuale della popolazione umana che per
qualche strana ragione riesce a convincerci che il loro privilegio è condizione necessaria
del nostro benessere. Se noi ossia il 99%, come ricordano insistentemente i proclami di
175
Occupy Wall Street, riusciamo a levare il ‘velo di Maya’ – lo schermo che secondo
Schopenhauer ci fa apparire distorta la realtà – allora per loro è finita, non c’è
assolutamente partita e non potranno giustificare la loro prepotenza e il loro privilegio in
nessuna maniera. Ma per squarciare il velo dobbiamo imparare a non confondere le cause
con le conseguenze, a non personificare il male nel tale politico, nel tal imprenditore o in
quel partito o in quella azienda; dobbiamo pensare che il nostro vissuto locale si trova
all’interno di un contesto globale dove operano leggi economiche arbitrarie e del tutto
innaturali – con buona pace di Ottone – che in luoghi diversi si manifestano in modo
differente. Dobbiamo ‘staccare la spina’ del bombardamento mediatico e ragionare su
quello che è meglio per noi, destrutturare la retorica dei sacrifici chiedendoci quali siano le
nostre reali esigenze rispetto a ciò che ci viene imposto. E, con un processo inverso,
dobbiamo interrogarci su quanto il nostro tenore di vita materiale si debba alla miseria di
altri popoli e alla distruzione della natura.
Ma per arrivare a un tale livello di consapevolezza dobbiamo abbandonare l’egoismo, la
vera virtù capitalista, e riscoprire l’empatia verso i nostri simili e il nostro pianeta, senza
limitarsi a sterili proteste sulla sicurezza, sulla difesa del posto fisso, sul prezzo del
carburante o dei generi alimentari e di prima necessità. Va bene ‘lavorare il proprio
orticello’, ma senza paraocchi e ponendosi interrogativi importanti. Perché tante persone
emigrano dai loro continenti? Perché la gente protesta? Cosa ho in comune io con loro e
come reagirei se mi trovassi nella loro stessa identica situazione? Se non facciamo questo
sforzo empatico continueremo a essere sopraffatti dalla menzogna.
Non si tratta di assumere atteggiamenti particolarmente filantropici. Le correnti di pensiero
dominanti sono riuscite a veicolare l’idea che l’egoismo è connaturato all’uomo e
rappresenta il lato più vero della sua anima, ma questo quadro rispecchia solo chi vede
nel profitto il fine sociale più elevato, quindi per auto-assolversi pretende che il resto del
genere umano aderisca alla propria visione distorta del mondo e dei rapporti
interpersonali, teorizzando la figura dell’homo oeconomicus, del tutto amorale e teso alla
massimizzazione del proprio utile. Invece l’evidenza dimostra senz’ombra di smentita la
veridicità dell’idea aristotelica secondo cui l’uomo è innanzitutto un animale sociale.
Si pensi ad alcuni fenomeni violenti che definiscono se stessi attraverso la rabbiosa
opposizione nei confronti dell’Altro – estrema Destra nazionalistica, integralismo religioso,
ultras sportivi, gang di microcriminali. Schiere di sociologi hanno dimostrato come questi
gruppi, in contrasto al rifiuto violento della realtà esterna, al loro interno presentino forti
legami solidali e di mutua assistenza e accettazione (si pensi al cosiddetto ‘cameratismo’
176
dell’estrema Destra). In pratica, attraverso ideali distorti basati sull’antagonismo e
l’esclusione, si cerca di ricostruire un clima comunitario e non è un caso che molto spesso
tali gruppi raccolgano tra le loro fila chi è stato emarginato dai processi economici globali
(è il caso del nazionalismo e del fondamentalismo religioso) oppure dalla scuola, dal
mondo del lavoro e da altre dinamiche sociali. Detta in termini più poetici, è proprio vero
che l’odio è l’altra faccia dell’amore e la differenza tra l’estrema Destra e i gruppi
progressisti forse consiste nel fatto che, posti di fronte ai medesimi problemi, i primi si
limitano a contestare senza riconoscere responsabilità proprie e della società in cui
vivono; non ragionano assolutamente in modo 'sistemico'.
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il freddo cinismo della super-classe, la cui
massima espressione sono i famigerati CEO, mercenari del mercato mondiale che
perfettamente a loro agio si trasferiscono da nazione a nazione, da azienda ad azienda,
senza creare inutili legami, massimizzando il proprio utile attraverso l’efficienza finanziaria
dell’impresa, capaci di concepire esseri umani e ambiente naturale solo come pedine da
sfruttare.
Se bene o male tutti condividiamo, magari in modo confuso, un anelito di libertà, più
difficile è diventato rivendicare il diritto alla nostra autonomia. Se da una parte dobbiamo
umilmente riconoscere la nostra ignoranza e rigettare spiegazioni semplicistiche per
esaminare la complessità della realtà globale, dall’altra possiamo e dobbiamo reclamare
orgogliosamente il diritto a gestire la nostra vita rifiutando l’invadenza degli esperti e la loro
pretesa paternalista di sapere cosa sia meglio per noi, che casualmente coincide sempre
con ciò che è meglio per loro. E qui, probabilmente, si presenta il compito più improbo.
Nel periodo degli ‘anni di piombo’, molte persone di Sinistra definivano i brigatisti
‘compagni che sbagliano’. Oggi persone di tutti gli orientamenti parlano di ‘politici che
sbagliano’, ‘economisti che sbagliano’, ‘imprenditori che sbagliano’... tutto ciò è frutto di un
colossale abbaglio. Siamo convinti che sbaglino perché crediamo che loro operino nel
nostro interesse. Un ex dirigente di Goldman Sachs che, una volta nominato capo di
governo di una nazione europea in difficoltà, intraprende politiche fortemente recessive
allo scopo di favorire la svendita di beni pubblici a potentati privati stranieri non sta
sbagliando proprio nulla. L’Amministratore Delegato di FIAT che puntando all’acquisizione
del pacchetto azionario di Chrysler decide di chiudere impianti produttivi in Italia sta solo
facendo il suo lavoro e Marchionne ha perfettamente ragione quando lo fa notare con i
suoi modi burberi e sbrigativi. La presidente di Confindustria che si lamenta della severità
della sentenza Thyssen Krupp si sta solo comportando in modo coerente al suo mandato.
177
Tutti questi soggetti agiscono in modo assolutamente irragionevole ma del tutto razionale,
in ossequio alla razionalità economica e alla difesa del loro interesse. Quando Susan
George ha scritto Il rapporto Lugano, la novità principale non risiedeva tanto nei contenuti
dell’opera – abbastanza noti a chi seguisse le tematiche del movimento altermondista –
ma nell’aver assunto il punto di vista della super-classe in modo assolutamente realistico.
Gli estensori del Rapporto non sono ‘cattivi’, hanno scrupoli morali ma si rendono conto
che non sono compatibili con la razionalità del sistema, la quale impone scelte gravi ma
necessarie, quindi inevitabilmente ‘giuste’. ‘Quelli che sbagliano’ sono invece tutti coloro
convinti in buona fede che la razionalità economica coincida con l’interesse generale. Ogni
tanto capita che il potere getti la maschera e ammetta candidamente i propri scopi.
Il 27 marzo 2012, appena atterrato a Seul per degli incontri internazionali, il sempre
misurato premier Monti si è lasciato andare a uno sfogo rivelatore: “Se il Paese non si
sente pronto per un buon lavoro, non chiederò certo di continuare”. Questa dichiarazione
ricorda molto quella poesia satirica di Bertold Brecht sul regime della DDR, il quale
ammoniva che “il popolo non ha più la fiducia del governo”. Si è passati da un presidente
del consiglio populista, Silvio Berlusconi, che ambiva ad apparire la perfetta incarnazione
stereotipata dell’italiano medio, a uno che ci tiene a prendere le maggiori distanze possibili
dal suo stesso popolo, come del resto confermava nel prosieguo dell’intervista:
Nei miei incontri con i rappresentanti di India, Canada, Singapore, Turchia rivelo apprensione e incertezza su cosa potrebbe accedere dopo il 2013. Mi dicono: siamo pronti a investire nei vostri titoli, ma cosa succederà dopo le elezioni? Tornerà la politica tradizionale? Io li rassicuro, dico ciò che sta accadendo sta insegnando anche ai partiti che i cittadini italiani sanno essere responsabili e accettare senza eccessive reazioni sacrifici pesanti203.
Più che a un estratto del Corriere della Sera, sembra di trovarsi di fronte al verbale di una
seduta segreta dei Rettiliani, il popolo alieno che secondo il bizzarro opinionista David Icke
è giunto sulla Terra assumendo fattezze umane per dominare i terrestri. Cosa si può dire
altrimenti di una dichiarazione dove si afferma a chiare lettere che lo scopo del governo è
mutare antropologicamente gli Italiani in modo che non disturbino il manovratore anche se
questi impone sacrifici pesanti in favore di entità straniere?
Per tutte queste ragioni bisogna far proprio l’appello di Patel al conflitto e rigettare gli
appelli alla pace sociale – cioè alla passività - ispirati da strani concetti di ‘unità’ e
203Alberto Gentili, Monti avverte: «Se il Paese non è pronto il governo non tirerà a campare», Corriere della Sera, 27 marzo 2012
178
‘responsabilità’, quelli per cui si è distinto il presidente Napolitano, e insorgere per
modificare lo status quo. Certo fa paura pensare che le istituzioni politiche ed economiche,
contrariamente a quello che ci è stato insegnato fin da bambini, possano assumere
comportamenti auto-referenziali ed estranei al bene comune della società: la rivolta verso
un’autorità ingiusta, che tradisce gli scopi per cui è stata ufficialmente creata, non scioglie
il vincolo con il cittadino permettendo quel ‘diritto alla ribellione’ previsto da molte
costituzioni nazionali? E a quel punto diventano leciti atteggiamenti anti-sociali come
l’evasione fiscale e il rifiuto di sottostare alla Legge? E in quali casi e fin dove si può
tollerare il ricorso alla violenza politica? Chi boicotterà la legge e lo Stato in modo sincero
e chi si accoderà soltanto per tornaconto personale? A queste preoccupazioni, del tutto
legittime, si può solo rispondere che l’idea di libertà personale si fonda sull’assunto per cui
ognuno è in grado di distinguere il Bene dal Male assumendosi la responsabilità delle
proprie azioni, diversamente dall’irresponsabilità di chi ci governa decidendo delle sorti di
milioni di persone se non proprio dell’intero pianeta.
Per concludere, vorrei ricordare la scena centrale del film Matrix, quando Morpheus offre a
Neo la scelta tra la pillola blu – che gli farà scordare l’incontro con i ribelli e lo lascerà
vivere per sempre nell’universo virtuale generato dalla matrice – e la pillola rossa, che lo
risveglierà nel mondo reale: dopo una certa titubanza, Neo inghiotte coraggiosamente la
pillola rossa. Messi di fronte alla stessa scelta, noi la pillola rossa dovremmo invece
mandarla giù senza troppa esitazione, per il semplice motivo che non esiste alcuna pillola
blu che ci lascerà ipnotizzati in un mondo virtuale al riparo da sofferenza e dolore,
nonostante lo straordinario potere manipolatorio dell’industria dell’entertainment; e poi al
nostro ‘risveglio’, diversamente da Neo, non ci troveremo attaccati da macchine
fantascientifiche. Potrebbe capitare quanto accade a un personaggio di Novalis quando
decise di alzare il velo della dea di Sais, e cosa vide? Egli vide, miracolo dei miracoli, se
stesso.
179
SOMMARIO
Introduzione.....................................................................................................................4
PRIMA PARTE. SOLO UN BLUFF FINANZIARIO? LA LUNGA ORIGINE DELLA
GRANDE CRISI............................................................................................................... 9
Uno squarcio nel velo......................................................................................................16
La crisi di un pianeta svuotato.........................................................................................17
Una visione post-marxista per l’economia, la società e l’ambiente..................................23
SECONDA PARTE. DISTRUGGERE GLI IDOLI PROGRESSISTI................................26
Crescita economica.......................................................................................................27
La crudele dittatura del PIL .............................................................................................29
Crescita che impoverisce.................................................................................................32
L’interiorizzazione dell’ideologia della crescita.................................................................36
Crescita e politica energivora...........................................................................................39
Le sirene dell’ideologia della crescita: il consumismo......................................................43
Proseguire o svoltare?......................................................................................................46
Sviluppo sostenibile.......................................................................................................47
La IEA e lo Scenario 450..................................................................................................50
Non è tutto verde ciò che luccica......................................................................................53
Greenwashing e vera sostenibilità....................................................................................58
Uscire da qualunque crescita per salvare il pianeta.........................................................59
Una nostalgica utopia negativa: la socialdemocrazia................................................62
L’insostenibile ricostruzione socialdemocratica................................................................62
Il boom implode................................................................................................................67
Miopia e superficialità.......................................................................................................69
TERZA PARTE. DISFARE LA SINISTRA PER RIFARE LA POLITICA
…......................................................................................................................................73
Gli errori storici della Sinistra............................................................................................78
Il marxismo, croce e delizia..............................................................................................82
Oltre la lotta di classe verso nuove prospettive................................................................89
Le cinque caratteristiche di un radicale............................................................................93
QUARTA PARTE. USCIRE DAL GIGANTISMO PER UNA SOCIETÀ EQUA E
SOSTENIBILE.................................................................................................................96
Decrescita.......................................................................................................................99
180
Agroecologia....................................................................................... ........................105
Scienza, tecnologia ed economia...............................................................................109
Risparmio e conversione di modello energetico......................................................115
Quattro idee sparse per la società sostenibile.........................................................126
Democrazia deliberativa................................................................................................126
Reddito di cittadinanza..................................................................................................130
Open source: l’economia della condivisione.................................................................134
Welfare comunitario......................................................................................................138
QUINTA PARTE. CAMBIARE LA SOCIETÀ: TRA IL DIRE E IL FARE....................141
Crisi della democrazia: partire da se stessi per riscoprire la comunità..........................142
Pensiero e azione diretta: per un partito-movimento di base.......................................147
Un atteggiamento pragmatico: superare gradualmente lo Stato in favore dei beni
comuni...........................................................................................................................158
Decisioni imprescindibili.................................................................................................163
La doppiezza della Nuova Destra e il caso ungherese..................................................165
Superare la modernità per aprire una nuova era...........................................................167
IN CONCLUSIONE: INTRAPRENDERE LA SVOLTA RADICALE, OSSIA COLTIVARE
LA RAGIONEVOLEZZA SOGGIOGANDO IL RAZIONALISMO ECONOMICO..........172
Bibliografia...................................................................................................................182
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Igor Giussani (Milano, 1978) si è laureato in Lettere presso l’Università del Piemonte
Orientale e insegna Italiano e Storia nella scuola media secondaria di secondo
grado. Ha lavorato come traduttore free lance per Liberazione e ha partecipato alla
traduzione del Libro Meglio carcerati che carcerieri: i refuseniks israeliani raccontano
la loro storia (a cura di Peretz Kidron) edito da Manifestolibri. E' interessato ai temi
della società contemporanea e dal 2012 è iscritto al laboratorio politico Alternativa e
collabora con Decrescita Felice Social Network.
igorgiussani.blogspot.it
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