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Tascabili . Saggistica

Alberto Mario Cirese

All’isola dei Sardiper un anniversario

-

Il Maestrale

EditingGiancarlo Porcu

Grafica e impaginazioneNino MeleImago multimedia

© 2006 Edizioni Il MaestraleRedazione: via Monsignor Melas 15 - 08100 NuoroTelefono e Fax 0784.31830E-mail: [email protected]: www.edizionimaestrale.com

ISBN 88-89801-14-X

Mezzo secolo dopo

Fanno ormai cinquanta anni da che vidi per la primavolta l’«Isola dei Sardi». (Così, invece che col suo nomecorrente, l’Ulisse dantesco indicò la Sardegna nel rac-conto del suo folle volo; e con ciò dette alla terra didonno Michel Zanche e delle fiorenti donne di Barba-gia un netto spicco tra le altre isole che, come egli scris-se, «quel mare intorno bagna». Da sempre questa de-nominazione più intensa m’è rimasta ferma nel pensie-ro, ed ora qui mi piace farne aulico uso solenne, come siaddice, credo, alla irripetibilità di un proprio cinquan-tenario personale: chi mai potrà contarne due, per unostesso evento, nell’arco di una vita? tanto più poi sequella vita sta salendo proprio allora il suo ottantacin-quesimo gradino).

Quel mio primo arrivo in Sardegna fu per il VI Con-gresso nazionale delle tradizioni popolari che si tennedal al aprile del 1. I lavori cominciarono a Ca-

1 Una Sintesi delle sedute e dei viaggi del Congresso, con varie fo-tografie, fu pubblicata come n. dell’anno II, agosto , della ri-

e della sua amicizia); Diego Carpitella che nello scurirsidella sera, sul pullman che trasferiva fuori Nuoro noicongressisti più giovani rimasti esclusi dal Jolly, ad ognisobbalzante curva rideva sommesso rabbrividendo perun immaginato assalto dei briganti; Dessa, ossia JelkaRibaric del Museo etnografico di Zagabria, che quan-do giungemmo a Cala Gonone – che splendido regalofu non averci alloggiato al Jolly! – stupefatta gridava al-la luna vedendola levarsi enorme dal mare invece chetramontarvi, come nella sua Croazia (e fu amicizia conlei, poi a lungo durata negli anni)… Qui m’è caro ram-mentare di nuovo che l’amico Marcel Maget, etnografoe museografo francese di alta qualità, rimase anche luistregato: da New York, quattro mesi dopo, mi scrisse:«L’eloignement me fait apprecier davantage le charmede notre voyage en Sardigne»2; e nel : «Je me sou-vien de notre premier contact dans “La Lapa”. Et duvoyage en Sardaigne et de la fête de Sant’Efisio»3. Initaliano aggiunse: «Tempo fa!», ossia trent’anni4.

Poco dopo il Congresso, sempre nel , conseguiila Libera docenza: nulla a che vedere con la Sardegna,

gliari; e fu qui che, nell’Aula dell’Istituto di anatomia, il mattina tenni la mia relazione (oltre al testo, su cuitorno più oltre, me ne restano due foto: nell’Aula del-l’Istituto di anatomia, un tavolo di presidenza desolato;Angelo Monteverdi, nobile figura canuta, che vi siedecome aggrovigliato; Bianca Maria Galanti che, mentreparlo, sulla lavagna scrive: “Il pranzo ufficiale si terràoggi alle ore alla Sirenetta”). Il giorno dopo,

aprile – sostando a Isili, Laconi, Aritzo, Desulo, Tona-ra – ci trasferimmo in pullman a Nuoro dove il sisvolse la terza tornata. Il i lavori si conclusero a Sas-sari, e di lì passammo ad Alghero per pernottarvi. Ilgiorno – per Torralba, Nuraghe S. Antine, Oristano,Barumini – tornammo a Cagliari, e infine il primo mag-gio, dagli alti balconi privilegiati del Palazzo Civico,stupiti ci affacciammo sul lento solenne fiume proces-sionale di Sant’Efisio. Culmine d’un viaggio che fu tut-to di rara intensità e bellezza, e dopo mezzo secolo an-cora me ne durano le immagini: le rosse vesti delle don-ne di Desulo, allora ancora di uso quotidiano; MaxLeopold Wagner che lungo il viaggio mi spiegava l’ori-gine degli articoli determinativi logudoresi e campida-nesi (e che poi mi onorò della sua attenzione scientifica

2 «La distanza mi fa apprezzare di più il fascino del nostro viag-gio in Sardegna».

3 «Mi ricordo del nostro primo contatto in “La Lapa”. E delviaggio in Sardegna e della festa di Sant’Efisio».

4 Vedi i.

vista «La Gazzetta della Scuola», diretta da Petrusghi (pseudonimodi Pietro Ghiani-Moi di Isili). Gli Atti del Convegno comparverocome volume unico dell’anno XXII, , della rivista «Lares».

matografici di Fiorenzo Serra: poi li conobbi ambeduee divenimmo amici). Mi misi a studiare, però, e giàl’anno dopo, -, potei dedicare le lezioni (e quasitrecento pagine di dispense ciclostilate da cui poi nac-quero due libri) alla storia degli studi di poesia popola-re sarda, da un lato, e dall’altro alle mie prime analisimetriche: fu la scoperta, per me, dei vertiginosi mecca-nismi dell’arte del trobear e della lucida nitidezza deimutos e dei mutettus. E continuando subito a scavare,, Madao e La Marmora mi aprirono la strada ascoprire l’universo a disponibilità limitata dei beni di-segnato dalla logica soggiacente alla assegnazione col-lettiva delle sorti del gioco di Ozieri. Infine di lì a poco,felicità dello studio, ci fu l’incontro con i pani sardi ce-rimoniali, nel . Così, in quel lungo quindicennio epoi nei tanti e tanti anni seguenti, fino ad oggi, m’è ac-caduto di venir scrivendo più di mille pagine sarde,forse chi sa mille e cinquecento. Sparse come sono indecine di pubblicazioni, per qualche anno ho accarez-zato il sogno di ristamparle: presuntuoso pensavo che,sistematicamente riunite e rese più reperibili, potesse-ro servire a qualcuno o giovare a qualcosa. Non è statocosì, per incuria editoriale, e sopraggiunge invece lamalinconia degli anniversari. Mi si lasci addolcirla conla ristampa di tre scritti antichi e di cinque note più re-centi: un mondo sardo scomparso e il suo compianto.Pedanteria cronologica mi porta ad aggiungere, in ap-pendice, il testo di quella relazione congressuale che,

e tuttavia mi portò di nuovo nell’isola. Senza quel tito-lo, infatti, non avrei potuto ottenere quell’incarico perl’insegnamento di Storia delle tradizioni popolari chemi fu affidato nel dal Consiglio della Facoltà diLettere e Filosofia di Cagliari (a maggioranza: Giovan-ni Lilliu, Piero Meloni e Vincenzo Ussani contrari, eda favore Alessandro Perosa, Alberto Del Monte e Giu-seppe Petronio, mio patrono in quell’evento: tre con-tro tre, ma prevalse il voto del preside, Del Monte). Fucosì che sbarcai per la seconda volta in Sardegna il di dicembre del . All’attracco, ore di un limpidomattino, con grata sorpresa trovai Petronio ad aspet-tarmi sul molo: il grande italianista era venuto a gui-darmi amico fino alla Scala di Ferro, l’albergo, che nelgiardinetto antistante e nell’intrico dei corridoi poi miparve serbare l’eco dei passi degli illustri ospiti antichi,da David H. Lawrence a Vittorio Santoli; e poi su super l’impervia salita fino alla Facoltà che, buia, stavaallora in Via Corte d’Appello, quasi in cima a Castello.Cominciò così la mia pendolarità sarda, poi durataquindici anni a regolari settimane alterne (e Lilliu co-scienzioso venne a tutte le sedute della mia prima ses-sione di esami: ne nacque e fiorisce ancora una veraamicizia che tra i ricordi isolani è dei miei più cari).

Il primo corso di lezioni, -, fu di argomentonon sardo: non ne sapevo abbastanza (di Sardegnaavevo scritto poco più che le note del su Mieleamaro di Salvatore Cambosu e sui documentari cine-

TRE SCRITTI ANTICHI

come già detto più sopra, tenni a Cagliari il apriledel : non fu di argomento sardo, ma fu il mio pri-mo discorso di studioso nell’isola, e fu radice del miosuccessivo teorizzare cagliaritano sui dislivelli di cultu-ra5. Al tutto accompagno la lista delle più che cinquan-ta mie pubblicazioni isolane: rimaste disiecta membra,fin qui.

5 Il folklore come studio dei dislivelli interni di cultura delle socie-tà superiori, Università di Cagliari, dispense per il corso di Storiadelle tradizioni popolari, a.a. /, riprodotte anastaticamentenel (Edizioni 3T, Cagliari)e poi confluite nel volume Dislivel-li di cultura e altri discorsi inattuali, Meltemi, Roma .

Sardegna tra mito e realtà storica

A voler fare sul serio con le tradizioni sarde, bisognadar retta a un sardo come Giuseppe Dessí: lasciar daparte «i volantini reclamistici», diffidare di tutto ciòche presenti l’isola «come una riserva di pellirosse»,rendersi conto che la Sardegna che importa conoscere«non è quella dei costumi sgargianti che partecipa allecavalcate e alle parate di vario genere, ma quella vestitadi fustagno». E bisognerà corrispondere anche alla ri-chiesta, implicita ma evidente, di un altro sardo: diquell’anonimo che nel , nella prefazione alla suatraduzione manoscritta dello Sketch of the present stateof the Island of Sardinia del capitano britannico Wil-liam Henry Smyth, divideva gli osservatori non sardidelle cose sarde «in due classi»: quella dei «panegiristiche tutto viddero dietro un prisma magico», e quelladei detrattori, «per le cui prevenzioni questa nostraterra altro non è che un paese d’Ottentotti e d’Iroche-si». Occorre insomma rifuggire dal mito, quali che sia-no le sue forme, e ricondurre alla storia tutto quelloche il colorismo trivialmente «folkloristico» e l’esalta-

guaggio tecnico degli studi di storia e di morfologiaculturali – che fa sì che le tradizioni sarde presentinouna complessiva arcaicità e una compattezza internaassai superiori a quelle che ci offrono le altre regioniitaliane. Per questo così spesso s’è parlato e si parladella Sardegna come d’un mondo “fuori del tempo” equasi immobile in una sorta di “primordialità”. Ma leimmagini suggestive esprimono, al più, la sensazionesoggettiva della distanza storica; non possono guidarcia misurarla oggettivamente o a darne ragione. Diremoanzi che costituiscono un pericolo nella misura in cuiportano a trasformare i secoli in millenni, e a dare al ri-tardo storico sul mondo industriale moderno – di cuila generale arcaicità delle tradizioni sarde costituisceappunto il prodotto e l’espressione – un illusorio voltodi totale “antichità” o di “primitività” assoluta. Questatrasposizione si è verificata spesso nella vicenda deglistudi sulla Sardegna. Proprio all’inizio della riscopertamoderna dei modi di vita isolani, nell’ultimo trenten-nio del Settecento, Matteo Madao dava infatti pienosviluppo alle fantasie archeologiche già nate nel Cin-quecento e nel Seicento. Il gesuita sardo ebbe il meritonon piccolo di volgere una amorosa attenzione alle tra-dizioni isolane considerandole come monumenti e do-cumenti della storia patria; ma volle che tutte, dallapoesia al ballo, dalle corse dei cavalli alla musica, dallalingua alle fogge degli abiti, fossero discese per lineadiretta e ininterrotta dalla antichità greco-romana,

zione o il disprezzo – ambedue irrazionali – dell’arcai-co e del primitivo vorrebbero sottrarle. Occorre supe-rare l’inciampo che sempre oppone – o per il suo fasci-no a buon mercato o per la sua stucchevole retorica – ilromanticismo in ritardo che parla ancora di “anima” odi etnos, e guardare invece alle tradizioni sarde (comedel resto a tutte le tradizioni “popolari”) per ciò cherealmente sono: aspetti ed espressioni di una condizio-ne storica.

E per la Sardegna si tratta di una condizione che è diisolamento ma insieme di legami evidenti con la vicen-da culturale mediterranea dalla preistoria a oggi: ossia– per dire la stessa cosa in modo diverso – si tratta diuna condizione storica che si inquadra in una trama dirapporti esterni, ma che conserva una spiccata fisiono-mia a sé perché i modi di vita interni, la discontinuitàdelle relazioni con il mondo extraisolano, la mancata oritardata partecipazione a talune rivoluzioni culturalidecisive nella storia del continente, hanno dato all’iso-la un ritmo peculiare – autonomo o almeno solitario –di conservazioni, rielaborazioni e sviluppi.

Il “recupero” della Sardegna alla storia europea

Da questo isolamento nasce il carattere più evidentee tipico del mondo tradizionale isolano: quel caratterefortemente “conservativo” – come si suol dire nel lin-

arcaicità delle tradizioni sarde ed il loro altrettantoreale legame con la storia mediterranea. Alberto LaMarmora, che nella valigia aveva invece il teodolite egli altri strumenti del geografo e del naturalista, guar-dò anche lui al Mediterraneo antico; ma non inventòmiti. «Non fu né artista né poeta», gli rimproverò Va-lery (e cioè Anton Claude Pasquin, che pubblicò unVoyage sardo nel ); ma La Marmora giustamente sivantava di dare «un peso maggiore alla precisione co-scienziosa che agli effetti». Per questo il rapporto cheegli stabilisce tra le tradizioni sarde e il mondo anticosi configura cautamente come una serie di «punti diravvicinamento», e non come un salto immaginoso oun volo di retorica. E le pagine descrittive e comparati-ve del primo volume del Voyage en Sardaigne ()dedicate all’abbigliamento, ai giuochi, al ballo tondo,alle launeddas, al San Giovanni, alle usanze nuziali efunebri – pagine che oltre tutto furono migliorate e ar-ricchite nella edizione del – hanno una generalesaldezza storica che ancora oggi colpisce; e tanto piùquando le si raffronti con le rielaborazioni stilisticheche Bresciani spesso ne fece.

Certo era difficile allora, appena agli inizi della esplo-razione del mondo tradizionale sardo, mantenere lagiusta misura: riconoscere l’antico, ma non in tutto néad ogni costo; dar conto dell’arcaicità della condizionesarda, ma non cadere nell’illusione dell’immobilità neltempo. Del resto, come l’esaltazione romantica della

dalle civiltà del Vicino Oriente, e giù giù nel tempo ad-dirittura dai «più remoti secoli dell’età d’oro». «Lusin-ghe della fantasia»: così si espresse a proposito di Ma-dao il primo storico sardo moderno, Giuseppe Man-no. Ma che dire allora di tanta parte del libro celeberri-mo del padre Antonio Bresciani? Dei costumi dell’isoladi Sardegna comparati con gli antichissimi popoli orien-tali usciva nel : settant’anni dopo l’opera di Ma-dao, e più di vent’anni dopo la prima edizione dellemisurate pagine sulle tradizioni sarde di La Marmora.Ma viaggiando per l’isola con in capo Omero e la Bib-bia (e nella sacca, ma un po’ troppo nascosti, ancheMadao e La Marmora), Bresciani si lasciava andare alfascino dell’«antichità vivente». «Parrebbe d’essere intutto a trenta secoli addietro» scriveva «ed ora in sulTigri e sull’Eufrate, ora sul Giordano e sull’Oronte, infra i Babilonesi, gli Assiri, i Fenici, gli Armeni e quan-t’altri popoli abitarono primi quell’Oriente». E grida-va al miracolo («miracolo, sì nuovo, magno e stupendoche supera ogni credenza») all’idea che i «prischi abi-tatori» dell’isola avessero serbato «saldi per innumera-bili discendenze insino a’ dì nostri la natura, i modi, lepratiche, i riti domestici e pubblici de’ popoli primitivimigrati dall’Oriente». Così – ingenuamente romanticoa dispetto del suo antiromanticismo letterario – Bre-sciani si figurava un Oriente antico a immagine dellaSardegna ottocentesca, e una Sardegna a immagine bi-blica e omerica: dissolveva in figure retoriche la reale

del primo Ottocento (e ora che una giovane studiosasarda, Enrica Delitala, ha completato l’esplorazione si-stematica del lavoro dell’Angius quel quadro sarà piùcompiutamente utilizzabile); così anche il lavoro diraccolta documentaria che Grazia Deledda diciotten-ne fece per la «Rivista delle tradizioni popolari italia-ne» di De Gubernatis, tanto aderente alla realtà quoti-diana della vita nuorese dell’ultimo Ottocento. Si ve-drebbe pure come le notizie raccolte da La Marmora oBresciani vadano rimbalzando a lungo da libro di viag-gi a libro di viaggi, da compilazione a compilazione,finché non giungono, alla fine dell’Ottocento, raccogli-tori di prima mano sardi e non sardi, e poi, soprattuttonel nostro secolo, studiosi di netto impegno scientifi-co. In questo quadro si potrebbe anche controllare inche misura si leghino alle vicende degli altri studi sulletradizioni isolane le già meglio note fasi delle ricerchesulla poesia sarda tradizionale: da quella delle prime“antologie” e delle successive raccolte di Giovanni Spa-no, con la loro identificazione della “poesia popolare”con la “poesia sarda”, a quella della tarda accensioneromantica di Auguste Boullier; da quella così fecondae seria della fine dell’Ottocento che vide attivi VittorioCian, Egidio Bellorini, Pietro Nurra, Giuseppe Ferra-ro, Filippo Valla, Filippo Canepa ecc., a quella neo-ro-mantica e idealistica di Raffa Garzia. Si vedrebbe purequanto e come l’interesse per l’arte popolare sarda,espresso soprattutto dal volume di Arata e Biasi, si le-

poesia popolare fu il mezzo con cui la cultura europearuppe l’angustia di tanti suoi vecchi limiti aristocratici,così la fantasia archeologica fu, almeno in parte, il mo-do con cui si superò psicologicamente il dislivello cul-turale tra il continente e l’isola, ed il connesso “di-sprezzo” del primo per la seconda: si ritrovò la comu-ne origine nel mondo classico e pre-classico, e si nobi-litarono per la loro vetustà proprio quelle rozze vestidi pelliccia che invece fino ad allora – dai latrunculimastrucati di ciceroniana memoria alle dure espressio-ni di Giuseppe Maria Galanti – erano state oggetto diderisione o di condanna. Così, pur nei rispettivi limiti,Madao, La Marmora e Bresciani rappresentano in fon-do i tre diversi modi con cui avvenne questo “recupe-ro” della Sardegna alla storia europea: “patriottico”l’uno, “scientifico” il secondo, e “letterario-romanti-co” il terzo.

Attorno a queste sollecitazioni sarebbe possibile ri-costruire buona parte delle vicende degli studi sulletradizioni isolane. Nel quadro, ch’è ancora quasi tuttoda tracciare, prenderebbero rilievo lavori in apparen-za modesti e chiusi, ma documentariamente assai vali-di perché mossi da una carità patria nobile e contenutae alieni da pretese interpretative o da voli di fantasia:così ad esempio quello di Vittorio Angius che, con isuoi contributi al Dizionario geografico di GoffredoCasalis (-), ci dà un quadro ricco (ed esteso atutte le zone geografiche) della vita tradizionale sarda

modo particolare di essere nella storia mediterranea.Quella “preistoria vivente” di cui talvolta si parla èpiuttosto ciò che ancora oggi rimane di una condizio-ne pre-industriale che si è prolungata nel Settecento enell’Ottocento (e oltre), mentre invece nel resto d’Eu-ropa veniva scomparendo – anche dalle campagne –con ritmo più veloce. Madao, dopo aver proclamato lanobiltà delle «berrette di panno», dei «gabbani di sa-io», dei «clamidi di pellicce» in quanto «avanzi di ve-tuste usanze», auspicava «che anche la sarda (nazione)cominciasse a mettere a poco a poco in disuso quel pri-sco costume di vestire le pellicce, i colletti, i gabbani» eche «i sardi campagnuoli» adottassero «abiti uniformia simil gente abitatrice dell’Italia»; e perché ciò fossepossibile richiedeva che s’impiantassero in Sardegnaquelle “manifatture” che altrove già da tempo esiste-vano e che nell’isola invece continuarono a mancare.

A sua volta la condizione pre-industriale sarda, peranaloghe disparità di sviluppo imposte dalla condizio-ne geografica e dalla volontà politica dei dominatori,aveva caratteri più conservativi di quella coeva del re-sto del Mediterraneo: più tenacemente che altrove pro-lungava nell’età moderna forme che all’ingrosso dire-mo medievali, così come più tenacemente aveva con-servato nel Medioevo modi di vita precristiani, e nel-l’antichità caratteri protostorici. Quando Gregorio Ma-gno si accinse alla sua azione di conquista cristiana dei

ghi alla tradizione degli studi sardi e quanto dipendadagli orientamenti più o meno romantici in auge in Ita-lia tra le due guerre mondiali. E si potrebbe soprattut-to cogliere il modo con cui gli interessi archeologici,volti solo al Mediterraneo antico, si mutino in interessietnologici e più recisamente primitivistici, dando cosìorigine anche ai tipici miti post-romantici: da quellidella etnomusicologia – «La musica tradizionale (sar-da)» scriveva Fara, «resta quasi interamente primor-diale, preistorica, nel tema-musicale come nello stru-mento che la eseguisce» – a quelli mitico-letterari, almodo di David Herbert Lawrence.

Preistoria vivente?

“Preistoria”, “primordi”, “natura”, “non storicità”,“atemporalità”: espressioni, come si dice, belle; ma fi-no a qual punto vere? Gli etnologi e i sociologi che stu-diano le società un tempo dette “primitive” o “di natu-ra”, e cioè quelle che per centinaia o migliaia di annihanno vissuto senza contatti con la civiltà mediterra-nea e occidentale, riconoscono oggi che tutte le società«arcaiche» – a dispetto della loro apparente immobili-tà – sono vive nel tempo. E sottrarremo al tempo, ai le-gami esterni, al vivere interno un’isola che sta nel cuo-re del Mediterraneo? Il carattere conservativo della fi-sionomia isolana e il suo profilo arcaico non nasconoda una assenza di storia: sono invece il risultato di un

geva, e ha sempre ridimensionato e adattato ciò che ac-coglieva, producendo inoltre forme e sviluppi propri.Non è dunque possibile – e tutti gli studiosi più serisulle tradizioni isolane ce lo insegnano – appiattireogni cosa sul livello più arcaico, o considerare autenti-co, valido e degno d’interesse soltanto ciò che è (o ap-pare) tanto antico da potersi definire autoctono.

Stratificazioni storiche e relazioni esterne

Del resto la distanza storica che divide all’origineelementi oggi – o appena ieri – coesistenti si coglie, percosì dire, a prima vista: l’aratro a chiodo o il carro aruota piena vengono evidentemente da un tempo benpiù antico che non il cortile a patio o lolla; le launeddasindubbiamente precedono i gosos o goccius, e cioè icanti religiosi sei-settecenteschi legati ai gozos o goigsiberici; le fogge di abiti maschili – e in particolare labest’ ’e peddi e il collettu, di cui a lungo si è discussoquale continui la mastruca dell’antichità – sono certoassai più antichi della generalità dei costumi femminilispagnoleggianti; il vestito degli issocadores è certamen-te più moderno della maschera facciale, delle pelli edei campanacci dei mamutones che essi accompagna-no nella ormai famosa cerimonia carnevalesca di Ma-moiada; la processione spagnolesca del Corpus Domi-ni di Cabras, come mostra con tanta evidenza il bel li-bro di Pinna, Dessí e Pigliaru, è di un tempo e di un cli-

territori ex-romani e di quelli barbari, la resistenza inSardegna fu duplice: il fronte della battaglia tra vecchiae nuova religione passava non solo tra le zone più ro-manizzate e quei Barbaricini di cui, ad eccezione diOspitone, «nessuno era cristiano» e che «adoravano lepietre»; esso divideva in due anche la zona romanizza-ta, separando i nobiles e possessores, già cristianizzati,dai rustici e servi, tanto «ostinati» nella idolatria cheGregorio non esitava a chiedere che fossero o «gravaticon peso di tasse» o «castigati con frustate e tormenti».Così nei secoli decisivi per la formazione di tanta partedel volto folklorico europeo (quando cioè la diffusionedel cristianesimo ormai egemonico urta contro le resi-stenze periferiche dei vari “paganesimi”, e si genera ilnetto dislivello culturale tra la religione ufficiale e le re-ligiosità periferiche o “popolari”), l’isola viveva ancorain modi che spiegano perché il sincretismo pagano-cri-stiano, caratteristico della religiosità popolare di tuttoil Mezzogiorno, abbia in Sardegna toni ed aspetti in-confondibili e più arcaici.

Ma nulla è rimasto immutato nel tempo: ogni età haaggiunto qualche cosa e ne ha cancellata o trasformataqualche altra; i contatti esterni hanno portato di voltain volta nuovi elementi; la vita interna – caratterizzatada una forte comunanza di condizioni oggettive che siesprime anche in un forte e comune senso di distinzio-ne verso l’esterno – ha accolto o rifiutato ciò che giun-

no alternativamente strofette buone e cattive che se-gnavano il destino di ciascuna – si ritrova in Armenia,in Bulgaria, in Grecia, ed è testimoniato nel mondo bi-zantino del XII secolo.

Gli studiosi sardi e non sardi hanno già svolto un no-tevole lavoro di identificazione di queste stratificazio-ni storiche e di questi rapporti esterni. Ma, come è evi-dente, il compito è complesso e arduo; e per quanto lelinee generalissime vengano già emergendo, non di-sponiamo ancora di una ricostruzione stratigrafica checi mostri analiticamente e sistematicamente quanto sidebba alla protostoria e quanto all’età antica, quantoall’epoca bizantina e quanto a Pisa o Genova, Aragonao Catalogna e oltre. Da questo punto di vista – ancheper le particolari difficoltà documentarie e ricostrutti-ve che si incontrano nel campo dei fatti folklorici – lavisione delle vicende delle tradizioni isolane non haancora raggiunto l’ampiezza e la sistematicità di quellelinguistiche e archeologiche. La conoscenza stessa deifatti e della loro distribuzione nell’isola è lungi dall’es-sere completa: il materiale documentario è certamenteabbondante, e abbiamo descrizioni numerose e spessopreziose dei diversi aspetti della tradizione sarda,dall’attìtidu (pianto funebre) al ballo tondo, dalle lau-neddas al canto a più voci, dalle leggende di giganti odi janas alle maschere di Ottana e di Mamoiada, dal-l’àrdia di San Costantino ai Candelieri di Sassari, ecc.

ma culturale ben diversi da quelli della festa di SanFrancesco di Lula nel Nuorese. Anche gli apporti e irapporti esterni sono sovente riconoscibili non solo inmodo generico, ma per riscontri circostanziati e preci-si con fatti di zone e di tempi più o meno prossimi: leperdas fittas (pietre confitte nel suolo) in coppia sonodette su para e sa monza – il frate e la monaca pietrifica-ti dalla collera divina – esattamente come in Corsica; laricerca cerimoniale della sposa la nota pricunta gallu-rese – diffusa anche in altre zone dell’isola – trova ana-logie specifiche a Parenzo e a Pola; la pupattola in usonelle cerimonie dei San Giovanni ai tempi di Madao edi La Marmora ha riscontri in una bambola di SanGiovanni di Malta; la deghina, che è un componimen-to poetico semiculto di dieci versi, ha lo stesso schemametrico della décima che vive ancora nell’America La-tina e la stessa origine spagnola; la musca macedda ontaghedda (l’insetto fantastico che fa strage di bestia-me e di uomini), se certe testimonianze recenti sonovalide, nasce da un teschio così come l’analogo insettodistruttore del folklore romeno; le grandi mammelle,che le janas (fate) di Tortolì debbono gettarsi dietro lespalle perché non le intralcino nel lavoro, compaiononon solo in una fiaba di Giambattista Basile, ma anchein Francia, in Egitto, in Svizzera, in Finlandia; il giuo-co di sorte collettiva un tempo in uso al primo maggioa Ozieri – le ragazze deponevano oggetti personali inun cestello e poi li estraevano a caso mentre si cantava-

singolarità e della tipicità delle tradizioni sarde nonvanno ricercate in una improbabile autoctonia o inuna spesso incerta antichità. La fisionomia “sarda” na-sce invece dal modo di reagire agli apporti esterni, edalle capacità di sviluppo interno.

L’esempio più significativo ci è offerto forse dalleforme poetiche isolane.

In Sardegna la poesia – e vogliamo dire la produzio-ne di poesia – ha ancora un posto essenziale non solonella vita festiva, ma anche in quella quotidiana. È raroche il visitatore occasionale possa avvedersene: certogli accadrà di assistere a una gara di improvvisazionepoetica, per la festa di un santo o per quella di un gior-nale di sinistra; ma sarà difficile che gli capiti tra le ma-ni uno di quei quaderni, ancora tanto numerosi, neiquali i pastori o le ragazze di quasi ogni parte dell’isolascrivono i loro versi; e sarà quasi impossibile che possarendersi conto della tradizione stilistica o della tecnicache stanno alla base così delle gare degli estemporaneicome dei testi cantati da un cuncordu barbaricino, cosìdelle ninne nanne e degli attìtidos come dei mutos emuttetus. Si tratta di una tradizione di stile, e di unideale di abilità tecnica che si caratterizzano nettamen-te non solo nei confronti della odierna produzione cul-ta, ma anche nei confronti della poesia popolare tradi-zionale non isolana. Mutos e mutettus, per non parlaredi altre forme più complesse, sono assolutamente in-confondibili per la netta separazione tra la prima par-

Ma la parte maggiore dei documenti è stata raccolta al-la fine del secolo scorso, e mai secondo un programmadi rilevazioni che possa paragonarsi, per estensione eper sistematicità, a quelli seguiti dalle inchieste lingui-stiche o dagli scavi archeologici. Così troppo spessomancano gli elementi in base ai quali procedere a quel-le operazioni essenziali – analisi morfologiche precisedei diversi elementi e accertamento della loro distribu-zione areale – che sole possono consentire di uscire dalterreno delle impressioni soggettive e casuali, e di darefondamento scientifico ai tentativi di comparazione edi cronologia. Per una adeguata ricostruzione di que-sto aspetto così importante della storia isolana occor-rerebbe dunque affrontare una rilevazione estesa e si-stematica di dati che consentano la costruzione dellecarte areali, la distinzione delle zone etnografiche, laprecisazione delle analisi morfologiche. È questo uncompito al quale non possono assolvere le sparse forzeindividuali: esso richiede invece una larga collabora-zione di studiosi e una ampia disponibilità di mezziquali soltanto un “piano” organico, collegato con tuttele altre ricerche scientifiche sull’isola, potrebbe assicu-rare.

Forza dello sviluppo interno

Ma il notevole lavoro di ricerca compiuto dall’Otto-cento a oggi consente già di dire che le ragioni della

il treno. / Padrone del cuore / domanda ciò che vuoi /della persona mia]

Istranzor d’OthieriM’an cumbidád’a pprándereE m’ana dad’a bbíberei ssa tassa ’e ss’oro.

Istranzor d’Othieri.Ja m’accattan a ttieIn traghinor de sámbene,si m’apperin su coro.

[Stranieri di Ozieri / m’hanno invitato a pranzare. / em’hanno dato da bere / nella tazza d’oro. / Stranieri diOzieri. / Già trovano te / in ruscelli di sangue, /se miaprono il cuore]

Inintr’ ’e ss’apposentuChi m’ispargo sos pannosIssupra sa cadira: Lor manza ssa columba.

Inintr’ ’e ss’apposentu.I ssos tèneros annosMi ponet i ssa tumbaSu tuu pensamentu.

[Dentro la stanza / sciorino i panni / sopra la sedia: / li

te, costituita da immagini libere, e la seconda che, vice-versa, contiene l’intenzione o il sentimento:

S’angioneddu chi pascit Si papat su clavellu.

Juru chi no ndi nascit Unu coru prus bellu.

[L’agnello che pascola / mangia il garofano. / Giuro chenon nasce / un cuore più bello]

Bella vigu mmurisca A ispinas di oru.

Tottu s’arruga è ttristaCandu no passas, coru.

[Bel fico moresco / a spine d’oro. / Tutta la strada è tri-ste / quando non passi, cuore]

Oje sa forrofia Parti ddae NugòroFinas a Macumele.

Oje sa ferrubia.Padronu de ssu coroDimanda su chi cheresde ssa pessone mia.

[Oggi il treno / parte da Nuoro / fino a Macomer. / Oggi

Così ciò che era stato volutamente costruito comeasimmetrico, diviene simmetrico: non per uno svilup-parsi dei contenuti, ma per una variazione di forma giàpredisposta fin dall’inizio.

Ma questo è solo un esempio elementare dei com-plessi e difficili giuochi di versificazione della poesiasarda tradizionale. Gli elementi che vi concorrono nonsono, ciascuno per sé, esclusivamente sardi: il salto lo-gico tra prima e seconda parte ricorre talvolta neglistrambotti e si trova in Turchia o in Indonesia; le formedi “parallelismo” impiegate si ritrovano, almeno inparte, nella lirica delle origini romanze; le variazionidei versi sono quelle dei versus transformati della poe-sia latina medievale, della lirica gallego-portoghese,del mondo anglosassone ecc. Ma il concorso di questielementi, quale che ne sia la provenienza, ha prodottoin Sardegna qualche cosa che sta a sé, e che ha caratte-re così decisivo e dominante da escludere ciò che nediverge. Non è infatti un caso che nell’isola manchinole forme di canto lirico-monostrofico più familiari nelcontinente: strambotto e stornello; e soprattutto non èun caso che in questo mondo, in cui la poesia è conce-pita come un continuo ritornare su se stessa con ripeti-zioni variate di contenuti identici, la grande espansio-ne dei canti narrativi che ha abbracciato tutt’intornoSpagna, Francia e Italia non sia penetrata: essa ha in-fatti portato ad Alghero un gruppetto di canti narrativicatalani che però non si sono diffusi nel retroterra, ed

macchia la colomba. / Dentro la stanza. / Nei teneri anni /mi pone nella tomba / il tuo pensiero)

Poesia? Certamente anche poesia; ma quel che quipiù conta è la tradizione stilistica e tecnica entro cui es-sa si inquadra. Nella maggioranza dei componimentisardi i versi sono concepiti e costruiti come tasselli daincastrare l’uno nell’altro, secondo un ideale di equili-brio, metrico finale che va raggiunto in ogni modo, esoprattutto quando si parte da una struttura inizialeasimmetrica:

Dae santa MarinaFaco bist’a ssa lozaE bbio s’ammorada.

Dae santa Marina.Dorada foza e chima.

[Da Santa Marina / mi affaccio alla loggia / e vedo l’in-namorata. / Da Santa Marina. / Dorata foglia e ramo]

Le rime non sono tutte chiuse: la struttura è zoppa.Ma un verso è già costruito in modo che, variandolo eripetendolo, si dia equilibrio a ciò che era squilibrato:

Faco bist’a ssa loza.Dorada chima e foza.

E bbio s’ammorada.Chima e foza dorada.

Il mondo tradizionale isolanoe le sue specializzazioni culturali

Dal punto di vista delle tradizioni che si dicono “po-polari” la Sardegna costituisce una “zona conservati-va”, e deriva questa sua caratteristica dal fatto di esserequel che in termini di geografia linguistico-folklorica sichiama un’area “meno esposta alle comunicazioni”. Inparole più semplici ciò significa che l’isola ci offre (o cioffriva fino a tempi recentissimi) una densità e compat-tezza di fenomeni folklorici notevolmente superiore aquella attestataci da altre regioni, e che questo suo li-neamento trova origine nel fatto che per tempi assailunghi la Sardegna ha avuto contatti più radi e menodecisivi con le grandi correnti di comunicazione, scam-bio e trasformazione.

Nulla di mitico dunque in quella “arcaicità” delletradizioni sarde che tanto ha colpito così i primi viag-giatori ed etnografi ottocenteschi come molti visitatoricontemporanei: non “anima” o etnos e simili, ma soloil risultato di una vicenda storica che, a dispetto dellacollocazione dell’isola nel cuore del Mediterraneo, ha

ha introdotto nel mondo sardo – per vie ignote – unsolo testo, e per giunta adattato ai modi della ripetizio-ne parallelistica.

C’è un legame tra quei modi di poesia, tra quel conti-nuo trasformare i versi senza quasi mutare il contenu-to, e i lunghi vuoti di tempo e di solitudine da riempi-re? Tra quella assenza di narrazione, e la rarità del co-municare che per tanto tempo ha caratterizzato la vitaagricola e pastorale dell’isola? In ogni caso è certo chesi tratta di un lineamento proprio, storicamente co-struito e non etnico, della “patria” sarda e della suagente «vestita di fustagno».

[b]

aragonesi e spagnoli ecc.) o quella linguistica (i diver-si “super-strati”), ma direttamente e specificamente lestesse tradizioni di cui è spesso possibile riconoscerein modo abbastanza certo la connessione almenomorfologica con fenomeni di aree talvolta assai di-stanti nel tempo e nello spazio. Quanto poi alla “con-servazione” è del tutto evidente che non si tratta diimmobilità o di persistenze inalterate: e ciò non sol-tanto perché fenomeni di tal fatta non esistono nelcampo della storia (dove “immobilità” è soltantoun’iperbole per indicare quel che si muove a ritmi piùlenti di quello che abbiamo assunto come termine diriferimento e valutazione), ma anche perché la purscarsa documentazione diacronica sulle tradizioni iso-lane ci permette di cogliere fenomeni di scomparsa,trasformazione e invenzione.

Del resto, a smentire ogni pretesa assolutezza sia del-l’isolamento che della conservazione stanno anche ledifferenziazioni, non soltanto linguistiche, all’internostesso della Sardegna. Dall’esterno, infatti, e ad un ac-costamento superficiale può sembrare che le tradizio-ni sarde costituiscano un corpo indifferenziato da uncapo all’altro dell’isola; ma dall’interno e ad un esameappena un po’ più attento ci si avvede subito che le co-se stanno altrimenti: anche tralasciando i casi limitedella colonia catalana di Alghero e di quelle genovesidi Calasetta e Carloforte, la zona sassarese (che ha su-bìto più immediate influenze toscane, genovesi e cor-

fatto sì che, per esempio, le condizioni culturali precri-stiane durassero in Sardegna molto più a lungo chenon nel resto d’Italia, e che le condizioni preindustria-li restassero compatte e non scalfite fino ad oggi o qua-si. Basti qui ricordare che, ancora alla fine del VI seco-lo, Gregorio Magno doveva impiegare contro la «osti-nata» idolatria dei Sardi un’energia perfino superiorea quella che gli richiedeva il paganesimo degli Angli, eche negli ultimi anni del secolo XVIII il «prisco costu-me» dei «sardi campagnoli» di vestire «gabbani di sa-io» e «clamidi di pellicce» diventava strumento di po-lemica anti-sarda anche per Giuseppe Maria Galanti,la cui regione d’origine, il Molise, non era certo tra lepiù progredite d’Italia, e faceva sì che un sardo puramantissimo delle cose patrie, Matteo Madao, invo-casse la scomparsa di quelle vesti, certo nobili ma or-mai arcaiche, e ne addebitasse la persistenza al fattoche nell’isola continuavano a mancare del tutto quelle“manifatture” che viceversa altrove esistevano già datempo.

Analogamente non c’è nulla di assoluto nelle condi-zioni di isolamento della Sardegna e nel carattereconservativo delle sue tradizioni. Pur se più radi e di-scontinui, e pur nella mancata o ritardata partecipa-zione a talune rivoluzioni culturali decisive nella sto-ria del continente, i rapporti con l’esterno ci sonostati, come ci attestano non solo la storia delle vicen-de politiche (fenici e cartaginesi, romani e bizantini,

rente, la qualificazione di “sardo”. Ciò deriva ovvia-mente da un vasto concorso di fattori, stimoli ed indici(lingua, innanzitutto, e poi paesaggio, fisionomie, con-dizioni di vita, abitudini comportamentali, ecc.) chequi sarebbe troppo lungo analizzare; ma ciò deriva an-che, e non solo secondariamente, da certe caratteristi-che delle tradizioni stesse. In effetti, anche tralascian-do quella che abbiamo chiamato la loro densità, e cioèil loro permeare la vita quotidiana in modo del tuttoindipendente dagli sfruttamenti spettacolari e festiva-listici, c’è da notare che anche fatti e fenomeni che tro-vano immediato riscontro all’esterno appaiono spessoin Sardegna con una propria fisionomia, non solo per-ché incorporati in quel particolare contesto, ma so-prattutto perché in qualche loro modo rielaborati. Lascarsità e la discontinuità dei rapporti esterni, prolun-gatesi per tanti secoli, non potevano non avere un im-mediato corrispettivo di elaborazioni e innovazioni in-terne attuate in modalità necessariamente “proprie” oaddirittura autonome.

A ciò corrisponde anche un più o meno diffuso at-teggiamento soggettivo dei sardi nei confronti del pro-prio mondo tradizionale: un atteggiamento che oggi[] è assai meno pacifico e assai più critico e contra-stato di quanto non fosse qualche anno fa, ma che con-serva ancora un suo peso (positivo o negativo che losi voglia giudicare). L’espressione emblematica di que-sto atteggiamento può essere fornita dal titolo di Orto-

se) e quella gallurese (ripopolata da numerosi emigraticorsi) appaiono abbastanza diverse, anche in ciò cheriguarda il patrimonio folklorico, rispetto alle zone lo-gudorese e campidanese; né queste due ultime sonofolkloricamente identiche tra loro. Si aggiunga infineche il forte isolamento dei paesi, anche assai prossimil’uno all’altro, ha portato con sé un moltiplicarsi di va-rianti locali degli stessi temi: prova ne sia la molteplicediversità delle fogge di abiti, particolarmente femmini-li, che ogni visitatore può constatare nelle rievocazio-ni-celebrazioni di carattere spettacolare come la ca-gliaritana sagra di S. Efisio (o, ad altro livello, la sassa-rese Cavalcata Sarda).

Ma anche se ci liberiamo, come è doveroso, dal mitodella loro primordialità, autoctonia e immobilità neltempo; anche se rifiutiamo le varie fantasie archeologi-che o paletnologiche che – da Madao, Bresciani o Farafino alle riduzioni coloristiche di tante pubblicazioniodierne – hanno immaginato le tradizioni sarde comeimpossibili continuazioni dirette e conservazioni inal-terate dell’antichità classica, del mondo biblico e vici-no-orientale, dell’età nuragica; insomma, anche sepiantiamo saldi i piedi nella storia, le tradizioni isolanecontinuano ad apparirci nel loro complesso come for-temente peculiari, e cioè come accentuatamente diffe-renziate verso l’esterno e unitarie all’interno; il che ap-punto si esprime nella particolare carica connotativache assume ancor oggi, ed anche nel linguaggio cor-

tre regioni e che consiste nel “riconoscersi” in certicomportamenti giudicati “propri” e “distintivi” (qualeche poi ne sia la reale provenienza storica e sociale), enel contrapporli ai comportamenti “altrui”. Ci sononaturalmente delle buone ragioni oggettive per un si-mile atteggiamento soggettivo; e per quel che riguardale tradizioni si deve in effetti constatare che spesso unfatto o fenomeno che altrove è patrimonio distintivodei soli ceti periferici e subalterni, nell’isola mantieneo ha mantenuto fino a ieri una effettiva vitalità a tutti ilivelli sociali, uscendo dunque dal novero dei fatti chepropriamente si possono dire “folklorici” (dislivelli in-terni di cultura, e cioè concezioni e comportamenti al-ternativi rispetto a quelli dei gruppi egemonici e “uffi-ciali”) e collocandosi invece tra i fatti “regionali” o ad-dirittura “nazionali”. Tutto ciò nasce dal complessivoisolamento culturale, dai modi di sviluppo delle diffe-renziazioni sociali, e dalla ridotta distanza culturale travertici e basi all’interno dell’isola.

Ma ormai sarebbe meglio usare un tempo passato,giacché tra le caratteristiche più evidenti della situa-zione sarda odierna c’è proprio il disarticolarsi anchedrammatico della antica “comunità” culturale (emi-grazione massiccia, sviluppo delle città, nascita di zonedi avanzamento e di sacche di arretramento ecc. ), cuisi accompagna il configurarsi di atteggiamenti con-trapposti e contrastanti anche nel campo della valuta-zione del patrimonio tradizionale. Ci sono gruppi di

grafia sarda nazionale che più di cento anni fa Giovan-ni Spano dava a una sua opera sul dialetto logudorese:le peculiarità della lingua e della poesia sarde vi si con-figurano non come fatti “regionali” ma invece di “na-zione”, intesa come unità e autonomia di lingua, cre-denze, costumi appartenenti non ad una sola categoriao classe sociale ma a tutti i sardi in quanto tali, e sopra-vanzante anche le pur avvertite differenze tra le variezone interne (logudorese e campidanese, Capo di so-pra e Capo di sotto ecc.). Questa concezione di una“nazionalità” sarda (verticale, per così dire, e cioè sca-valcante le distinzioni di classe) ha naturalmente tro-vato il suo punto di riferimento essenziale nella linguae conseguentemente nella produzione poetica dei di-versi parlari sardi. Così per gran parte dell’Ottocento(e per la quasi totalità dei ricercatori sardi di quel pe-riodo) la nozione romantica di poesia “popolare” si ètradotta nella nozione di poesia “in dialetti sardi”, conovvia perdita di quella contrapposizione tra “popola-re” e “culto” che viceversa ha costituito uno dei cano-ni fondamentali della fase romantica degli studi di fol-klore, e che poi si è sviluppata nella più moderna e rea-listica nozione di una contrapposizione di culture chein buona misura coincide con le contrapposizioni diclassi o di categorie socio-economiche. Ma dalla linguae dalla poesia quel sentimento di “nazionalità sarda”s’è esteso anche al resto delle tradizioni locali, accen-tuando decisamente un fenomeno ch’è comune ad al-

stanza chiara la conseguenza che, per riuscire di unaqualche utilità reale, un panorama delle tradizioni iso-lane (come del resto quello di una qualsiasi altra regio-ne) non solo dovrebbe essere tematicamente esaurien-te, informando su tutti i settori in cui si sogliono classi-ficare i fatti folklorici (poesia, musica, religiosità ecc.),ma dovrebbe dar conto soprattutto delle loro dimen-sioni storiche, geografiche e sociali: antichità o meno,e comunque stratificazione cronologica di singoli fe-nomeni o di loro complessi; diffusione più o meno uni-forme all’interno dell’isola e rapporti genetici o morfo-logici con fenomeni attestati in zone esterne più o me-no distanti; appartenenza a questo o quello strato so-ciale; legami con il generale contesto socio-economico,e via dicendo. Ora è evidente che anche la semplice epiatta elencazione dei fenomeni che vengono giudicatipiù tipici o caratteristici richiederebbe da sola unospazio tre volte maggiore di quello che qui è concesso;e quanto al resto bisogna purtroppo riconoscere che,nostante l’esistenza di contributi importanti, mancaancora quel complesso di lavori sistematici che solopotrebbe consentire sicure ricapitolazioni sintetiche.

Quel che può tentarsi dunque, almeno in questa sede,è soltanto una sorta di campionamento che, prescin-dendo da ogni più banale curiosità coloristica, cerchi diesemplificare senza troppe pretese quei fenomeni diuniformità e differenziazione, isolamento e contatto,conservazione e innovazione di cui si è fatto cenno.

diversa collocazione socio-culturale (ora borghesi edora pastorili e contadini, ora “intellettuali” ed ora “im-prenditoriali”) che lo rifiutano con motivazioni chevanno dal desiderio di un più rapido inserimento nellasocietà dei consumi alle intenzioni o volontà rivoluzio-narie, senza che peraltro la differenza delle motivazio-ni coincida esattamente con le diverse appartenenzesociali; e di contro ci sono gruppi (anche questi social-mente e ideologicamente non omogenei) che li rivalu-tano con intenzioni altrettanto diverse e contrapposte:come mezzo per conservare una propria fisionomia(più o meno interclassista e comunque di tipo “regio-nale” ) nel quadro del livellamento consumistico, o in-vece come elemento di contrasto o di contraddizionenello sviluppo del sistema. Del che era necessario farealmeno una sommaria menzione proprio per quellestesse ragioni scientifiche, universalmente riconosciu-te, che ci impegnano a studiare i fatti folklorici comefatti della vita reale e non come spettacoli evasivi. E lavita reale non si riduce agli “usi e costumi”, anche segli usi e i costumi ne fanno parte, magari pure rilevan-te; né l’accrescersi delle utilizzazioni spettacolari e co-loristiche di più o meno tramontate tradizioni (sarde onon sarde) può farci dimenticare il groviglio di duretensioni socio-culturali (particolarmente sarde) ches’accompagna agli odierni processi di accelerata e di-suguale trasformazione.

Dalle considerazioni sin qui esposte discende abba-

per quelle forme poetiche davvero uniche che sono imutos logudoresi e i mutettus campidanesi. Anche inquesti casi le attestazioni certe sono tardo-settecente-sche, ma altri elementi morfologici sembrano rinviaremolto più addietro nel tempo, o in modo generico, co-me appunto accade per la tipologia del ballo tondo, oanche in modo più preciso, come avviene per le tecni-che metriche che trovano riscontro, anche terminolo-gico, nella poesia medio-latina e nella trattatistica pro-venzale. Così si resta forzatamente nell’impossibilità discegliere tra l’antichità suggerita da alcuni indizi e il si-lenzio delle fonti fino a tempi recentissimi.

Naturalmente vi sono anche casi in cui si possono as-segnare date certe o comunque contenute entro termi-ni notevolmente ristretti; ma si tratta in genere di fattiabbastanza recenti e per lo più da classificare nel nove-ro delle manifestazioni culte o semiculte e delle ceri-monie di tipo “ufficiale”. La cagliaritana sagra di S.Efisio quest’anno [] compie centosessantasei an-ni; la processione dei Candelieri di Sassari può ancheaver avuto antecedenti duecenteschi, peraltro abba-stanza generici, ma nella sua forma attuale risale almassimo alla metà del secolo XVII; i canti processio-nali in logudorese e campidanese detti gosos o goccius,ancor oggi in uso, vennero in buona parte composti dasacerdoti sette-ottocenteschi, ed altrettanto vale per itesti delle “passioni” corali celebrate da varie confra-ternite nella Settimana Santa; l’espressione in lira usa-

A dare subito la misura delle difficoltà che si incon-trano quando si vogliano affrontare le tradizioni sardecome fatti storici, gioverà segnalare che solo eccezio-nalmente le fonti scritte o iconografiche ci permettonodi risalire con certezza al di là dell’ultimo quarto delsecolo XVIII. Ed è appunto in questo periodo che, adesempio, si ha la prima sicura attestazione scritta del-l’esistenza di quel singolarissimo strumento musicale afiato campidanese che sono le launeddas, cui pure sisarebbe impressionisticamente tentati di assegnareun’alta antichità in forza della sua unicità e della con-giunta enigmaticità del nome. Vero è che Giulio Fara,con una congettura tanto debolmente argomentataquanto passivamente recepita, ritenne di riconoscerelo strumento sardo sette-novecentesco in un bronzettonuragico; ma a mezzo secolo di distanza la congetturadi Fara non ha trovato conferme, ed anzi mostra piùevidenti le sue crepe. In ogni caso, come spiegare cheuno strumento così singolare, e che si pretende cosìantico, sia sfuggito per millenni agli osservatori di cosesarde che pure dall’epoca romana a quella rinascimen-tale hanno notato altri particolari meno “tipici” del vi-vere isolano? Queste incertezze si ripetono per moltialtri fenomeni caratteristici: così è, ad esempio, per ilfamoso ballo tondo (che è tipologicamente simile a tut-te le danze in circolo largamente attestate ancor ogginell’Europa centro-orientale, e di cui si discutono irapporti con la sardana di Catalogna), e così è anche

nulla possono dirci sulle date di nascita o di apprododelle pratiche sarde. Viceversa sono molto eloquentiper quel che riguarda i rapporti di comunicazione conl’esterno.

Da questo punto di vista, e accantonando ogni pro-blema di datazione, i fatti folklorici sardi mostranoconnessioni assai evidenti con concezioni e pratichevastamente diffuse e spesso appartenenti a tipi cultura-li che appaiono ideologicamente “arcaici” (il che, ripe-tiamolo, non significa necessariamente che siano cro-nologicamente “antichi” in Sardegna o altrove). Tra ifenomeni che si collocano a maggiore distanza psicolo-gico-culturale stanno certamente le discusse tracce sar-de di “covata” (o “puerperio del marito”, il quale si la-menta per le doglie della moglie), recentemente con-fermate da un documento sardo ottocentesco solo oranotato, e ovviamente confrontabili, almeno quanto a ti-pologia generica, con la couvade del mondo etnologicoe di quello antico. Ma in questo campo comparativo gliesempi si affollano. Nella ormai famosa cerimonia pro-cessionale di Mamoiada, i personaggi centrali, e cioè imamutones, recano sul volto una maschera lignea, so-no rivestiti di pelli e cinti di campanacci che scuotonoal ritmo di un passo caratteristico; personaggi o ma-schere consimili si incontrano in tutta l’Europa (e se nepossono ritrovare attestazioni mediterranee orientalifin dal V-VI secolo, e cioè in zona ed età cui sembra do-versi assegnare la nascita di numerose costumanze poi

ta in Sardegna per designare una certa forma metrica èovviamente posteriore a Garcilaso de la Vega da cuiquella denominazione deriva, ecc.

Per sopperire al difetto di datazioni esplicite si ricor-re ovviamente alla comparazione morfologica con fattiextra-isolani, ma il procedimento richiede molte cau-tele. Talvolta ci si imbatte in riscontri morfologici assaipuntuali, e si è anche tanto fortunati da poter assegna-re una data abbastanza remota al corrispondente ex-tra-isolano. È questo il caso, ad esempio, di un tipico esingolare gioco di previsione e assegnazione collettivadelle sorti che si praticava cerimonialmente a Ozieriancora alla fine dell’Ottocento e che consisteva in unsorteggio di pegni accompagnato dal canto alternativodi strofette “buone” e “cattive”. Una identica proce-dura si ritrova non solo nell’Armenia e nella Greciamoderne ma anche nel mondo bizantino del XII seco-lo. Altre volte il riscontro morfologico con fatti esternidatabili è meno netto. Così avviene, tra l’altro, per il le-game suggestivo ma piuttosto generico che La Mar-mora, Bresciani e Frazer hanno voluto vedere tra i re-moti “giardini di Adone” e l’uso logudorese ottocente-sco dell’elme o nénniri, ossia del vaso di sughero con-tenente erbe cresciute al buio, adornato con una pu-pattola di pezza o di pasta, esposto su una finestra einfine infranto contro la porta di una chiesa per stabili-re il legame di comparatico tra giovani. Ma netti o ge-nerici che siano, questi riscontri con fatti extraisolani

Purtroppo non si è ancora in grado di riconoscere nel-l’isola una partizione in zone etnografiche che abbia lostesso grado di precisione raggiunto dalla identifica-zione delle zone linguistiche; né si è in grado di stabili-re (come viceversa avviene in campo dialettologico) unrapporto tra le diversità folkloriche e le diversità deicontatti che le varie zone sarde hanno avuto con i do-minatori extra-isolani. Il fatto è che la lingua costitui-sce un fenomeno unitario, mentre invece quel che si èsoliti chiamare folklore è un complesso di fatti e feno-meni di diversa natura che possono variare nel tempoe nello spazio ciascuno a suo modo. Perciò, se non sivogliano arbitrariamente istituire tante aree etnografi-che quante sono le variazioni di ogni singolo fenome-no (e cioè in numero spropositato) occorre riconosce-re gruppi concomitanti di variazioni e comunque spin-gere l’indagine a livelli soggiacenti. Naturalmente sihanno casi in cui le differenziazioni sub-regionali af-fiorano con immediata evidenza. Così è, ad esempio,per i tipi di abitazione, dallo stazzo gallurese di un soloambiente e con focolare centrale, alle costruzioni bal-conate delle zone montane, dalle abitazioni campida-nesi con patio o lolla, alle pinnettas agricole con basecircolare o alle baracche di falasco dei pescatori di Ca-bras, ecc. Abbastanza nettamente differenziati per zo-ne appaiono anche i modi poetico-metrici e quelli mu-sicali. Quanto ai primi è del tutto evidente la separa-zione significativa tra la zona logudorese-campidanese

irradiatesi per tutto il continente). Le diffusissime cre-denze sarde circa le janas o zanas, e circa le grotticelleprotostoriche dette appunto domus de janas, trovanolargo riscontro in consimili credenze e denominazionidi tutta Europa, a partire dalle medievali “società diDiana” fino alle zane albanesi ricordate a proposito diquelle sarde da una noticina di Antonio Gramsci. Ilpersonaggio fantastico denominato Lucia (o Giorgia)rajosa, noto in tutta l’isola, è talora concepito con mam-melle gigantesche con cui spazza il forno o che gettadietro le spalle quando si china a terra, e dunque ripeteun motivo favolistico diffuso dall’Egitto alla Finlandia.Per saltare poi a fatti di altro livello culturale e decisa-mente recenti, risulta abbastanza netto il rapporto tra i“candelieri” lignei della festa sassarese e le consimilimacchine processionali di origine rinascimentale pre-senti ancor oggi in varie parti d’Italia (i Ceri di Gubbio,i Gigli di Nola ecc.); e sono note le influenze spagnolerivelate da certe fastosità del ricchissimo abbigliamen-to festivo femminile, di talune processioni, e così via.Ma l’elencazione, qui neppure abbozzata, dovrebbecontinuare assai a lungo. Ci limiteremo perciò a dire,molto schematicamente e non senza ampie riserve, chebuona parte delle analogie morfologiche indirizza ver-so il Mediterraneo orientale di età bizantina o posterio-re e verso la Spagna tardo-medievale o moderna.

A queste connessioni esterne, più o meno dirette einequivoche, si accompagnano le articolazioni interne.

differenze tecniche e stilistiche. Ancor meno differen-ziati rimangono l’oreficeria tradizionale, le casse in le-gno famose, gli stampi da pane, le incisioni in osso,l’intreccio, la ceramica. Vale la pena di aggiungere chealle analisi su questo terreno fa ostacolo anche il fattoche l’approntamento di una adeguata attrezzatura mu-seografica è ancora in corso.

* * *

Il problema più arduo e complesso resta però quel-lo di stabilire razionalmente se ed in che cosa trovi og-gettivo fondamento l’impressione di peculiarità che ifatti tradizionali sardi suscitano anche quando se neconoscano i riscontri esterni e le variazioni interne. Èquel che si dice, con espressione in certa misura equi-voca, il problema del “senso” delle tradizioni sarde.Qui, come è ovvio, si fa gravissimo il rischio del mitoe della mistificazione (e poco importa poi se si tratti diesaltazione o invece di disprezzo). Per scansare lo sco-glio (e per evitare l’opposto errore che consiste nelconsiderare inesistente o irrilevante ogni fisionomiaregionale) bisogna naturalmente tenere assai saldo ilpunto che la peculiarità isolana, quale che essa sia, èfrutto di un concorso di fattori, e cioè di tutta interala vicenda politico-culturale dell’isola. Le tradizionidunque ne sono soltanto un aspetto assai parziale, an-che se appariscente, e spesso sono piuttosto riflessi

da un lato e quella sassarese e gallurese dall’altro. Lo-gudoro e Campidano conoscono un rigoglioso svilup-po di forme metriche basate su continue ripetizioni,variate o invariate, dei versi: mutos e muttetus, canzonia curbas e più in genere retroghe (che anche nel nomerichiamano le tecniche della retrogradatio medio-latinae della retrogradaciò provenzale), modas complicatissi-me degli improvvisatori, ecc. Viceversa la zona sassa-rese e la Gallura ignorano quasi completamente questetecniche costruttive ed hanno propri componimenti ti-pici quali appunto la góbbula sassarese ad andamentodistico e le ancor poco studiate filze di versi della Gal-lura. Quanto poi alla musica, anche a voler tralasciarela localizzazione esclusivamente campidanese delle lau-neddas, si hanno chiare differenze tra il canto del Cam-pidano, i concerti “polivochi” (borobòi e simili) dellaBarbagia, la tasgia gallurese che alle quattro voci bar-baricine ne aggiunge una quinta.

Talune differenze sub-regionali, che però restanomeno bene precisate, sono avvertibili anche per altrifenomeni: quelle, ad esempio, tra le denominazioni egli attributi dei numerosissimi esseri immaginari dellatradizione orale (ammuttadore, musca maghedda, boemuliache ecc.); quelle tra le date e le modalità di co-struzione, accensione, impiego rituale dei grandi falòcerimoniali ancora frequentissimi nell’isola; quelle trai tappeti e le coperte prodotti nelle varie zone, di cui sitratta di precisare non solo impressionisticamente le

ne, sono fatti propriamente sardi, senza specifico e in-tegrale riscontro. Né la conoscenza delle tecniche e lapratica di tali costruzioni verbali è affare di pochi spe-cialisti professionali; ancor oggi [] è affare, invece,delle comunità contadine e pastorili come tali, ivi com-prese le donne, anch’esse esperte nel torrare i mutos epadrone della ricca e articolata terminologia che sottil-mente distingue tipi di versi, forme di componimenti,modalità delle operazioni costruttive (così come delresto una ricca terminologia musicale distingue tipi dicanti e di danze).

Il secondo esempio è costituito da quell’arte plasticaeffimera che è la modellazione dei pani cerimoniali.Anche in questo caso non ci troviamo di fronte ad unuso esclusivamente sardo; ma anche in questo caso laSardegna ce ne offre uno sviluppo quantitativo e quali-tativo che non trova riscontro. Ed anche in questo casonon si tratta di opera eccezionale di pochi specialisti,giacché sino a ieri (e in buona misura ancora oggi) erainvece normale lavoro casalingo e femminile; ed anco-ra una volta alla perizia manuale si accompagna la ric-chezza terminologica che analiticamente distingue nonsolo i tipi ma anche le destinazioni cerimoniali: càbudesi chiama il tipo ritualmente spezzato sulla testa del ca-po di casa o del primogenito; affèlthas quello offertoalle donne della famiglia a Capodanno; “bastone diDio” quello modellato in stilizzate figure antropomor-fe. Acrobazie metriche e plastica effimera: isolate dal

che elementi determinanti: segni e indici di situazionie processi decisi da ben più rilevanti forze quali sonoappunto le dominazioni di rapina, le egemonie econo-miche, l’andamento dei contrasti di classe. Segni edindici, tuttavia, di particolare importanza, dato che inSardegna quelle tradizioni costituiscono, se non pro-prio la totalità, certo gran parte del patrimonio cultu-rale isolano dei tempi da poco trascorsi. E, per torna-re al punto della peculiarità, contano proprio perchérivelano in modo più o meno immediato, modalità erisultati di quel processo di scelte tematiche e di raffi-namenti elaborativi che in termini antropologici si chia-ma di “specializzazione culturale”. Basti qui la som-maria segnalazione di due esempi più immediatamen-te evidenti.

Il primo è costituito dai già ricordati mutos e mutet-tus e dalle numerose forme metriche consimili. Comes’è già accennato, le singole tecniche costruttive (divi-sione in due parti contenutisticamente incongruenti,ripetizioni variate o inalterate degli stessi versi ecc.)trovano separatamente riscontro in zone esterne allaSardegna e talora assai remote: non solo il mondo me-dio-latino o quello provenzale, ma anche la Russia eperfino l’Indonesia. Tuttavia lo sfruttamento di questetecniche, la loro unificazione culminante in giochiacrobatici di versificazione che “pareggiano” le rimemantenendo “dispari” gli enunciati, la costruzione dipoesie concepite come oggetti metrici di alta precisio-

Detrattori e panegiristi

Come ho già ricordato altrove, nel un anonimosardo – che si firmò X. Y., e che credo resti inedito – ri-tenne di poter caratterizzare gli interessi per le tradi-zioni isolane, da poco nati, dividendo gli osservatoridelle cose sarde «in due classi»: quella dei «panegiristiche tutto viddero dietro un prisma magico», e quelladei «detrattori, per le cui prevenzioni questa nostraterra (sarda) altro non è che un paese d’Ottentotti ed’Irochesi».

Pur se forse un po’ troppo rigida (dove collocare adesempio quel misurato primo volume del Voyage enSardaigne che La Marmora aveva pubblicato in secon-da edizione giusto un anno prima?), la dicotomia clas-sificatoria dell’anonimo X. Y. coglieva per altri versinel segno: l’illuminista molisano Giuseppe Maria Ga-lanti, ad esempio, “detrattore” della Sardegna in ra-gione delle sue arcaiche vesti contadine, e di contro ilgesuita sardo Matteo Madao, “panegirista”, della no-biltà che ai «clamidi di pellicce», (e simili) conferiva ilfatto d’essere testimoni inalterati di «vetuste usanze».

loro contesto reale, cosiffatte specializzazioni culturaliappariranno forse inutili o comunque irrilevanti (an-che se poi i minatori di Narcao versano il nuovo conte-nuto delle loro proteste sindacali e politiche nei vecchistampi metrici). Sarà allora da ricordare che analoghiprocessi di raffinamento sono riconoscibili in settori diassai maggiore incidenza quale è quello delle relazionidi solidarietà, contrasto, ospitalità, retto da un artico-lato complesso di norme (da quella della ricostituzionecollettiva del gregge di un danneggiato a quelle delladisamistade) che si lasciano esplicitare addirittura informa di “ordinamento giuridico” (come appunto hafatto Antonio Pigliaru per la “vendetta barbaricina” inquanto ordinamento di una intera comunità e non disuoi settori “delinquenti”, come invece è nel caso delleregole di mafia o di camorra). Ma soprattutto sarà daconsiderare le tradizioni per quel che sono, e cioè co-me segni di una situazione, e da augurarsi che, in quan-to tali, sollecitino a chiedersi, fuori di ogni pur incon-sapevole razzismo culturale, per quali ragioni (o re-sponsabilità) storico-sociali tante evidentissime poten-zialità umane abbiano dovuto scegliere di indirizzarsiverso queste e non altre mete.

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amplificata forza retorica e divulgante, padre AntonioBresciani: in Sardegna, scriveva, «parrebbe d’essere intutto a trenta secoli addietro, ed ora in sul Tigri e sul-l’Eufrate, ora sul Giordano e sull’Oronte, in fra i Babi-lonesi, gli Assiri, i Fenici, gli Armeni e quant’altri po-poli abitaron primi quell’Oriente». E gridava al mira-colo («miracolo sì nuovo, magno e stupendo che supe-ra ogni credenza») all’idea che i «prischi abitatori»dell’isola avessero serbato «saldi per innumerabili di-scendenze insino a’ dì nostri la natura, i modi, le prati-che, i riti domestici e pubblici de’ popoli primitivi mi-grati dall’Oriente».

Né qui si arresta l’affascinato mito di una Sardegnafuori del tempo, immutata “antichità vivente”. Anchea lasciar da parte il modo complesso con cui l’idea agìin Grazia Deledda, c’è almeno ancora l’etnofonia (pe-raltro importante) di Giulio Fara per il quale, già den-tro il nostro secolo, l’antichità di alcuni tratti culturali(«dall’aratro primitivo alla pelle di montone che coprele spalle del contadino» ecc.) è argomento sufficienteper concluderne che anche la «musica tradizionalesarda resta quasi interamente primordiale, preistorica,nel tema musicale come nello strumento che la esegui-sce». E pur se in modi profondamente mutati, tenden-ze polarizzanti (tutto in sardo, niente in sardo, peresempio) paiono affiorare qua e là anche nel dibattitorecente, peraltro ricco di ben più articolate motivazio-ni e argomentazioni.

Ma quali che fossero gli episodi che l’anonimo aveva inmente, l’annotazione ancora oggi colpisce in senso piùgenerale: par quasi identificare precocemente una ri-corrente e duratura tentazione o tendenza a polarizza-re o estremizzare per cui, in materia di tradizioni sar-de, tutto sarebbe esclusivamente autoctono o antichis-simo o compatto (e perciò, eventualmente, tutto daesaltare o da respingere, a seconda dei punti di vista); oinvece le cose starebbero in modo esattamente contra-rio (con ovvia inversione incrociata degli eventuali giu-dizi di valore).

Aveva cominciato (ma non senza antecedenti cinque-seicenteschi) Matteo Madao, appunto, sul finire del’: la sua opera, infatti, peraltro assai meritoria, eratutta tesa a tentar di dimostrare che ogni elemento del-le tradizioni isolane – dalla poesia al ballo, dalle corsedei cavalli alla musica, dalla lingua agli abiti – discende-va per linea diretta e immutata dalle antichità greco-ro-mane o da quelle del Vicino Oriente, ed anzi addirittu-ra dai «più remoti secoli dell’età d’oro». Diverso il casodi La Marmora, come s’è accennato: pensò anch’egli, egiustamente, al Mediterraneo antico; guidato però dalproposito di «dare un peso maggiore alla precisionecoscienziosa che agli effetti», La Marmora configurò ilrapporto tra le tradizioni isolane e l’antichità come unaserie di «punti di ravvicinamento» e non come unacontinuità-identità globale.

Sulla strada di Madao tornò invece subito dopo, con

re ogni dubbio in materia basterebbe, anche se fossesola, l’attenta opera di penetrazione critica e di motiva-ti ripensamenti che dal al Raffa Garzia eserci-tò sulla poesia popolare, sarda e non sarda, e che suiproblemi di antichità e autoctonia e unità o compattez-za delle tradizioni isolane disse cose che meriterebberodi non restare dimenticate (e qui ricorderò solo il pas-saggio che egli sperò dalla “antichità” alla “elementari-tà”: dalla durata nel tempo alla scaturigine dai livellidell’elementarmente umano).

Il fatto è che se in Sardegna sono più forti certe pola-rizzazioni o sovrabbondanze, più complesse e forti so-no anche le peculiarità caratterizzanti e distintive dellacultura tradizionale. Geograficamente isola, la Sarde-gna lo è stata anche storicamente, con le sue modalitàaccentuatamente specifiche: area meno esposta allecomunicazioni (ma non perciò meno esposta alle do-minazioni), e tuttavia per un verso collocata proprionel cuore di una potente centralità per millenni fecon-dissima d’innovazioni quale è il Mediterraneo, e peraltro verso dotata di una ampiezza territoriale e di unadelimitazione/apertura da ogni lato (il mare separa macontemporaneamente unisce, e viceversa) che la fannoben diversa da altre aree meno esposte quali, che so,valli sperdute e chiuse tra i monti. E perciò un con-giungersi e contrastare di componenti: isolamento ediscontinuità di contatti esterni, ma non mai totale as-senza; dominazioni politiche e imposizioni o influenze

Mette appena conto di dire, almeno per chi ne cono-sce la storia, che gli studi sardi e non sardi sulle tradi-zioni isolane sono ben lontani dal lasciarsi ridurre aduna successione di esorbitanze del tipo accennato; ed’altro canto ben al di là di questi limiti sta il valore del-l’opera di ciascuno degli autori fin qui ricordati (i qualianzi talora introducono correttivi, come ad esempioMadao che richiedeva per l’isola «manifatture, perchés’ammodernassero le fogge arcaiche»). D’altro canto ilfenomeno delle sovrabbondanze assolutizzanti non ècaratteristica esclusiva della Sardegna: ne ha goduto osofferto quasi ogni altra regione o area che abbia unaqualche sua consistenza di cultura tradizionale (pernon parlare poi di quanto è avvenuto in vari momenti,anche recenti o recentissimi, nel dibattito nazionale eitaliano in materia). Tuttavia pare che per l’isola, o nel-l’isola, le proporzioni del fatto siano comparativamen-te maggiori, e non solo ai livelli più facili e divulgati.Perché?

Sarebbe troppo agevole scappatoia ricorrere ad unaqualche diffusa carenza di senso critico. Sta anzi il fattoche rifiuti delle esorbitanze si sono espressi più volte,non solo in tempi recenti, né solo dall’esterno dell’iso-la: rifiuto era, ad esempio, già l’annotazione anonimada cui abbiamo preso le mosse; e rifiuto esprimeva ilprimo storico sardo moderno, Giuseppe Manno,quando giudicò dettate dalle «lusinghe della fantasia»le indiscriminate antichizzazioni di Madao. Ma, a fuga-

svolge nel tempo: da quello lunghissimo che va dallapreistoria ad oggi, a quello quasi infinitesimo dellaprocessualità quotidiana, con la conseguente mobilitàpiù o meno celere, o più o meno lenta, delle compat-tezze/articolazioni interne e delle connessioni/distin-zioni esterne.

Le sovrabbondanze – quelle alte ovviamente, e noni cascami di terza o quarta mano – le sovrabbondanzerammentate vengono allora a configurarsi in positivoe in negativo come sforzi o tentativi di ridurre ad uni-tà il molteplice, cogliendo sì facce o aspetti effettivi,ma in modo unilaterale; o, se si vuole, unilateralizzan-do, ma sulla base di aspetti effettivi. Tornerei allora,per ampliarla, ad una vecchia osservazione: che tantola misurata opera di La Marmora quanto le immagi-nose proiezioni di Madao o Bresciani furono a lorotempo, tre diversi modi attraverso cui si recuperò allacoscienza e alla conoscenza moderne la presenza del-la Sardegna: “patriottico” in Madao, “scientifico” inLa Marmora, e “letterario-romantico” in Bresciani.Le preferenze ovviamente vanno ai modi di La Mar-mora; e tuttavia anche gli altri (e quanto poi seguirà,nei prodotti alti di cui si diceva) si collocano, sia purecome esorbitanze, nel quadro della storia (ancora dascrivere, credo) dei modi con cui in Sardegna s’è ve-nuta riconoscendo/costruendo l’immagine-identitàdell’isola di fronte a se stessa ed agli altri. Una storia,a mio avviso, da prendere sul serio: scrivendo l’Orto-

culturali, ma non soggiogamento totale o estinzionedelle resistenze; lunghe o lunghissime persistenze dimodalità altrove già abbandonate e superate da tem-po, e insieme densità di un fitto e quotidiano elaboraree rielaborare in proprio; appartenenza linguistica al-l’area neolatina (il sardo non è il basco), e insieme se-paratezza (il sardo non è uno dei dialetti italiani); di-stinzioni o anche opposizioni interne per ceti o classi ovarietà linguistico-culturali (padroni e servi, contadinie pastori, logudorese e campidanese ecc.), e di contro,in qualche modo, o forse anche in molti modi, comu-nanze pur contrastive di vita e di storia (per secoli c’èstato molto più continuato comunicare tra dominantie dominati sardi che non tra dominati sardi e dominatidel continente).

Una situazione densa di complessità, anche se quisolo grezzamente accennate; o, per usare un’immagineschematica, una sorta di pietra sfaccettata in cui le nu-merose facce, anche se diametralmente opposte, pur-tuttavia fanno parte dello stesso oggetto, ed in cui perconverso l’unità complessiva dell’oggetto in sé, e la suaesterna distinzione da altri, è però costituita da facceche non possono in alcun modo giacere sullo stessopiano. Si aggiunga che, pur se con rilevatissimo profilosuo proprio, quello sfaccettato poliedro sardo non stasolo, nel deserto o nel vuoto: sta invece incastrato, se sivuole, e specifico ma tuttavia congiunto, in un più am-pio complesso, a sua volta molteplice. Il tutto poi si

monismo interno e del vittimismo verso l’esterno. Ne-gli studi, allora (non so se altrove) e quale che sia il ver-sante in cui ci si colloca, dovere comune ed essenzialediventa l’andar oltre (anche contro se stessi, se necessa-rio): distendere nel tempo, quel che l’urgenza dell’oggispingerebbe a raggrumare in un momento solo; dilata-re nello spazio quel che pare s’addensi in un solo pun-to; articolare per le dimensioni sociali quello che il clas-sismo (di maniera e no) vorrebbe fratturato, mentrenon lo è, e quello che l’anticlassismo (di maniera e no)vorrebbe inesistente, mentre invece c’è.

Un esempio, sardo, cui torno ad accennare. Nel seco-lo V dell’era cristiana, il papa Gregorio Primo, o Ma-gno, ebbe a che fare con i sardi, allora in gran parte re-nitenti al cristianesimo. Se male non ricordo (ma chipiù sa mi corregga), l’isola allora appariva divisa in dueparti a chi la osservasse dal di fuori, e con intenti di cri-stianizzazione: l’una parte più interna e (diciamo) bar-bara, in cui il solo cristiano era Ospitone; l’altra partedell’isola invece ormai modernizzata (diciamo) nel sen-so che almeno tutti i nobiles ac possessores erano cristia-nizzati: non così però i rustici e i servi. La proposizionedi Gregorio Magno era netta: i nobili di Sardegna do-vevano costringere i rustici ed i servi a farsi cristiani,eventualmente carcerando i secondi e tassando i primi,se renitenti.

Che dire? C’è quanto occorre per suscitare “prote-

grafia sarda nazionale, nel , Giovanni Spano forseesorbitava anch’egli in qualche modo, ma stava rico-noscendo e cercando di normare una lingua di fattoesistente, e non inventandola.

Il nodo è forse un altro (estremizzerò a mia volta, perbrevità, ovviamente parlando di studi e non d’altro). Èproprio vero che il riconoscimento delle articolazioniinterne (anche di ceti e classi) comporti di per sé la dis-soluzione della specificità della fisionomia isolana, o al-meno l’incapacità di coglierla? Di contro, ma sempresul solo terreno degli studi, è proprio vero che l’appli-carsi a riconoscere l’esistenza e i modi della peculiaritàisolana è di per sé negazione pregiudiziale delle artico-lazioni interne in ceti e classi? Sul piano dei fatti (o me-glio, sul piano degli studi, seri, effettivamente condot-ti), la risposta dovrebbe decisamente essere no: sareb-be difficile negare, ad esempio, il contributo che al ri-conoscimento delle specificità isolane hanno portatoindagini pur mosse nel quadro di una forte attenzioneai contrasti di ceti e di classi, nell’isola e fuori. Ma sulpiano delle impostazioni teoriche, e dei loro rischi difarsi ideologie nel senso negativo del termine, le cosestanno altrimenti. Se infatti si aspira alla totalità, alloranon c’è scampo; l’attenzione (orizzontale) alle classistermina ogni umana possibilità di riconoscere lo spe-cifico pulsare dei mille cuori storici; e l’attenzione (ver-ticale) alle peculiarità etniche o regionali o nazionaliinesorabilmente sbocca nella duplice finzione dell’ar-

mente di ristabilire i diritti-doveri dello studio: peresempio opporre a se stesso, se classista, l’esistenza del-le formazioni trans-classiste che verticalmente traver-sano tutte le classi o per natura (razze, sessi, livellid’età) o per storia (nazioni, regioni, etnie, lingue, reli-gioni), distinguendo adeguatamente tra fatti trans-clas-sisti e operazioni inter-classiste; ed opporre a se stesso,se etnicista, l’esistenza di ceti e classi che solcano o ta-gliano orizzontalmente le formazioni transclassiste.

Come da sempre, nessuna prospettiva di metodo,per gli studi, può mai essere assunta a modo di “pri-sma magico”. O altrimenti rischiamo di trovarci dinuovo inchiodati a quella alternativa tra panegiristi edetrattori di cui così sensatamente e criticamente par-lava ancor prima della metà dell’Ottocento l’anonimosardo X. Y.

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ste” da ogni lato: l’intervento (colonialistico?) di Gre-gorio; la collaborazione (o connivenza?) dei ceti diri-genti interni con l’intervento esterno; la resistenza o diaree geografico-culturali (i barbaricini, meno Ospito-ne) o di ceti popolari e dominati (i rustici ed i servi);l’uso della forza per ottenere il consenso, uso propostodall’esterno (Gregorio) e attuato dal suo braccio arma-to interno (i nobili e i possessori); e via dicendo. Manon accade poi che, pur se il cristianesimo fu introdot-to e imposto dall’esterno, oggi la religiosità popolareisolana profondamente cristiana o cristianizzata, costi-tuisce per l’etnicismo un elemento rilevante dell’iden-tità isolana? E di contro, per il classismo laico, e nemi-co di ogni attardamento culturale quale appunto sa-rebbe stato il permanere di religioni pre-cristiane, quelpesante intervento che sui ceti popolari isolani opera-no i dominanti interni in accordo con quelli esterni,non dovrebbe configurarsi come un sopruso o una so-praffazione, anche se ammodernizzante?

Si obbietterà che ci sono molte altre vicende dell’iso-la cui meglio si attagliano gli schemi dell’uno o dell’al-tro tipo. Certo: ma c’è (e in materia non proprio trascu-rabile o laterale) anche l’episodio di Gregorio Magno edei nobiles ac possessores; e se gli schemi non riescono adarne ragione, o li si cambia o si rinuncia a dichiarareche valgono per tutta la storia dell’isola. Quale che siala vicenda di ciascuno, quel che resta da fare ad unostudioso è di sforzarsi di mantenere saldi, ed eventual-

CINQUE NOTE PIÙ RECENTI

Isole, isolanità, isolamento

Isole. Un tema felice, felicemente nato da un’isola, ecioè da «un luogo che intorno ha per confine solo ma-re», come della sua Sardegna dice – di fronte alla «ba-bele inebriante» di un pezzo di Continente – il prota-gonista sardo dell’ultimo romanzo di Giulio Angioni,sardo. Indubbiamente esperti dunque, protagonista eautore, della complessa densità di atteggiamenti pen-sieri frustrazioni orgogli speranze che configuranol’insularità o che si legano all’isolamento. Ma, con laprofondità elementare dell’ovvio, protagonista e auto-re ne additano la radice nel fatto puramente fisico-geo-grafico che un’isola è anzitutto, e irriducibilmente,una terra che non confina con altre terre.

Ora è proprio delle isole intese in questo senso che sioccupa anzitutto la quinta Rassegna nuorese di docu-mentari etnografici dell’Istituto Etnografico di Nuoro:in altre parole l’ambito dei fatti culturali di cui dare im-magine viene determinato in base ad un dato naturale.Personalmente avverto in ciò uno scarto significativorispetto ad orientamenti tematici più abitudinari (ceri-

simi (non oso sperare che siano davvero astratti): li esi-ge, mi pare, l’argomento; e comunque non ho altromodo per tener conto del fatto che in una rassegna in-ternazionale come questa nuorese le isole coinvolte,reali o metaforiche che siano, non sono soltanto quelleche stanno nel Mediterraneo e nelle terre che vi si af-facciano.

Schematicamente, allora: le isole-metafora sono di-segnate da confini culturali e possono non avere nettedelimitazioni fisiche; le isole-natura sono disegnate daconfini fisici e possono non avere nette delimitazioniculturali. Molto diversi perciò sono gli ambiti di possi-bilità-necessità entro cui debbono agire i rispettivi at-teggiamenti culturali: in particolare quelli che riguar-dano mondi altri dal proprio e che, in prospettiva ge-nerale, possono collocarsi in un punto qualsiasi diquell’arco teorico di opzioni che va dalla integrazionetotale alla separazione altrettanto totale. Le differenzesi manifestano soprattutto nel tipo dei mezzi, mentalio materiali, che occorre mettere in opere per attuare lescelte, quali che esse siano.

Due sbrigativi esempi, estremizzati. La possibile as-senza di forti delimitatori fisico-geografici (monti, fiu-mi, mare) ha esposto o espone a più alto rischio la fi-sionomia specifica e peculiare delle isole linguistiche oetniche; e la scelta di mantenere e difendere quella fi-sionomia ha richiesto e richiede (muraglie cinesi a par-te) che si erigano ed eventualmente impongano forti

monialità, feste, rapporti sociali ecc.); orientamentiche sono senza dubbio importanti – anche se ormai ve-nati da crescenti rischi di profluvie inflattiva – ma chein ogni caso lasciano in ombra una faccia non seconda-ria della problematica etno-antropologica: quella cheappunto viene riportata alla mente (e, perché no, alcuore) dalla connessione tra isole-natura e isolani-cul-tura. Torna cioè, almeno accennato, il tema dei rap-porti che verticalmente si pongono tra la specie uma-na, nella sua interezza, e gli elementi naturali intesi nelsenso vetusto ma forse assoluto del termine: terra, ac-qua, aria, fuoco, come vuole il saldo inventario che damillenni ne ha colto la universale presenza e risonanzanell’agire, pensare e immaginare della totalità dellaspecie, pur nella varietà delle sue decine e decine di ar-ticolazioni etniche.

In verità il tema della Rassegna va oltre: abbracciaanche le isole in senso lato, ossia quelle linguistiche, et-nografiche o di consimili altri traslati. E queste isole ul-teriori stanno assai spesso anche in terre che confinanocon altre terre: sono cosa assai diversa, dunque, daquelle che per confine hanno soltanto l’acqua.

La dilatazione tematica forse vela un poco l’incisivitàdella impostazione iniziale e di fondo; ma quella stessadilatazione, mentre diluisce, anche accentua se, pren-dendo le cose sul serio, non si elude il confronto tra idue sensi del tema, quello proprio e quello traslato. Miprovo ad accennarne in termini volutamente generalis-

diversità sembra ben salda nel sentire comune e diffu-so, almeno per quanto riguarda il nostro orizzonteculturale. Miracolo è per noi lo scavalcamento del ne-cessariamente non, ossia la realizzazione di ciò che perla specie è impossibile (di là dalle inaccessibilità con-tingenti, legate alle specifiche condizioni tecnologichee ideologiche, restano inaccessibilità assolute, tran-sculturali e transtoriche, come l’eterna giovinezza, po-niamo, o il respirare nell’acqua coi soli polmoni). Per-ciò il felice esito di una scalata di difficoltà estremaavrà magari del miracoloso, come dice un’espressionecorrente, ma non è miracolo sovraumano. A far grida-re miracolo, invece, fu il fermo passo di Cristo sulleacque e quello, pur breve, dell’apostolo Pietro che poipericlitò, uomo di poca fede. O ci volle il mare che siaprì per non troncare la strada al popolo migrante: leacque, elemento esterno alla specie, si ritraggono per-ché il piede che cammina ritrovi la terra che sola gli èconnaturale.

Un’isola è dunque una terra dove (salvo miracoli)tutto intorno il camminare si arresta. Per andare oltreoccorre nuotare o navigare (a meno che non si possavolare). E si tratta di tecniche (del corpo e no) che han-no irriducibili specificità. Il nuoto non è una integra-zione o una specializzazione del camminare: è una tra-sposizione della capacità motorie ad altro elemento.Per i millenni che hanno preceduto le macchine a va-pore o i motori, ed anche oltre, le barche e le navi han-

sbarramenti mentali: norme, o pratiche che incorpora-no norme. Di contro, la necessaria presenza di quel de-cisivo delimitatore fisico-geografico che è l’acqua hacostituito o costituisce un duro ostacolo per isole realiche abbiano inteso o intendano annullare o ridurre laseparatezza; ed il raggiungimento di questo eventualeobbiettivo ha richiesto o richiede l’impiego di mezzimateriali quali barche, navi, aerei e magari ponti.

Come è evidente, un’isola linguistica o etnica può an-che essere circondata da acque; ed un’isola naturalepuò anche contenere una o più isole culturali. Ma, dalpunto di vista del rapporto con gli elementi, più stimo-lanti appaiono i casi di isole culturali che, pur non es-sendo circondate da acque, siano tuttavia chiuse all’in-torno da netti confini naturali: per esempio una linguaparlata solo all’interno di una cinta massiccia di monti.In tal caso la situazione oggettiva diviene molto simile aquella delle isole reali: un forte ostacolo alle comunica-zioni ed agli scambi, che in certe condizioni tecnologi-che può essere analogamente insuperabile, e che in cer-te configurazioni ideologiche può associarsi ad analo-ghi tabu, obblighi o divieti che siano.

Ma una decisiva differenza resta. Per impervi che sia-no, i monti sono pur sempre terra su terra: il che nonè cosa da poco, visto che la specie umana è terricola, eche il suo modo specifico di spostarsi nello spazio è ilcamminare. Con le acque le cose vanno altrimenti. Edanche se in modalità irriflesse, la percezione di questa

illimitato ed arbitrario, salvo che nell’immaginazione.Nella realtà i conti si fanno con le compatibilità realidegli elementi e dei loro equilibri interni ed esterni. Estiamo ora scoprendo drammaticamente i rischi cui laspecie sta esponendo se stessa per il fatto di usare le ca-pacità metalinguistiche e metastrumentali che le sonoproprie – parlare delle parole e fare strumenti che fan-no strumenti – soltanto per ottenere risultati e non an-che per misurare le conseguenze: un uso a metà, o sfre-natezza.

Così, ad assecondarne l’impulso concettuale, il temanuorese di quest’anno conduce lontano, e perciò con-nette con problemi profondi di oggi, se è vero che sia-mo sull’orlo di una svolta decisiva in quella storia natu-rale della specie umana che fu, all’origine, l’oggettoprimo dello studio etno-antropologico. Ma il più sa-ranno indubbiamente i documentari etnografici che leisole, reali e metaforiche, avranno sollecitato, ed i con-tributi conoscitivi che le immagini recheranno e checertamente saranno assai più illuminanti di quantonon siano le osservazioni generiche di questa mia nota.Avrei voluto renderla più pertinente e meno povera di-scorrendone nella consueta amicizia con Diego Carpi-tella, isolano di Pantelleria, oltre che parte così essen-ziale delle rassegne nuoresi. Non ce ne è stato il tempo,né ce ne sarà più ormai. Ma il suo segno ci resta.

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no richiesto estrema specializzazione di mestieri percostruirle muoverle e guidarle. Segno soltanto un par-ticolare, minimo, ma forse non senza rilievo per schia-vitù o servaggi, da un lato, e per imbarcazioni mitica-mente trainate, dall’altro: navigazione fluviale a parte,per barche e navi la forza motrice è stata o del vento edei motori, o invece di braccia dell’uomo ai remi: nondi animali.

Essenziale sembra poi un’altra specificità. Il mareper un verso divide, ma ha natura tale che per altroverso unisce: da sbarramento può trasformarsi in col-legamento, aprendo così un ampio arco di possibilitàculturali, libere o coatte. Un’isola può voltare le spalleal mare, ed un’altra farne mezzo d’irradiamento; perun’isola il mare può essere la strada da cui giunge e col-pisce il dominio altrui, e per un’altra può accadere l’in-verso.

Un largo ventaglio di possibili vicende storiche di-verse, pur nella sostanziale identità delle condizioni dibase. Il necessario rapporto della specie con l’invarian-za transculturale degli elementi non rende determini-stici i sistemi culturali, nel senso che da un certo statodi cose si possa sempre calcolare quale sarà necessaria-mente lo stato successivo. Contemporaneamente, pe-rò, quel rapporto stabilisce determinatezze, ossia op-portunità da un lato, e limiti dall’altro: non tutto èsempre e ovunque possibile, o con ogni elemento, eperciò il numero delle scelte culturali non può essere

Nascosta da veli mi guardi:un trintasex falso e vero

Cari amici di Ghilarza,purtroppo non ho potuto, ma con tutto il cuore avrei

voluto essere oggi con voi, a parlare di modas e ad ascol-tarne. Sarebbe stato un bel ringiovanire: un salto all’in-dietro nel tempo, agli ultimi Anni Cinquanta quando,appena giunto a insegnare nell’Università di Cagliari,scoprii e cominciai a studiare e ad amare l’arte del tro-bear, ossia l’altissima civiltà metrica della Sardegna.

Oltre al grande Max Leopold Wagner, che ebbi lafortuna di conoscere personalmente, fin dall’inizioebbi tre principali maestri in materia di poesia sarda:innanzi tutto Matteo Madau che per primo ne trattòalla fine del Settecento; poi Giovanni Spano con lasua Ortografia sarda nazionale del e con le suesuccessive raccolte di canzoni logudoresi e sassaresi;ed infine Raffa Garzia con l’Appendice alla sua tradu-zione dei Canti popolari della Sardegna di AugustoBoullier del e con la sua raccolta dei Mutettus ca-gliaritani del .

generare un senso dalla vertiginosa geometria dei me-tri. Ed il risultato ha spesso il sapore modernissimo dibellezza che talora assume l’arcaico.

Ho continuato a lungo ad occuparmi della fascinosaarte sarda del trobear. Ed anzi, in vecchiaia, m’è capita-to persino di cedere alla debolezza di cimentarmi in untrintases costruito secondo le regole di quello che Spa-no pubblicò nel . Stimolato da un incontro conMimmo Bua, che s’interessava appunto ai trintases, daun lato realizzai parzialmente un programma informa-tico che avrebbe potuto generarne qualcuno automati-camente, e dall’altro mi venne fatto di stendere una pe-sada o isterria o sterrimentu con nove parole-rima intre versi, naturalmente in italiano e non in sardo:

Nascosta da veli mi guardi,ma sfugge la faccia splendentee il fianco lo taglia la spada.Mimmo Bua, nel suo bel libro, ha poi sviluppato

questa pesada in due serie di strofe in novenari. Maanch’io lo feci in versi settenari, e ve ne allego una co-pia, in verità vergognandomi un poco della povertàdei miei stentati versi. Era ed è solo un modo per dir-vi quanto mi sia stato e mi resti caro quel vostro mon-do poetico sardo con cui m’incontrai ormai quasi cin-quant’anni fa.

E fu allora appunto che conobbi Giovanni Lilliu cuimi legano affetto e rispetto, e che mi ha onorato edonora con la sua amicizia. Dal vostro invito vedo che

Mi dedicai soprattutto allo studio di quelle straordi-narie forme liriche brevi che sono i mutos e i mutettus.Ma imparai molte cose anche sui “canti lunghi”, e sul-le gare poetiche e l’improvvisazione da palco di cui perprimo dette notizia uno scritto pubblicato da VittorioAngius nel -, mentre il primo a registrare la pa-rola «modas» credo sia stato Andrea Mulas nella suaraccolta di Poesie dialettali tissesi del .

Così nei mutos e mutettus come nei canti lunghi enelle modas mi affascinò, e continua ad affascinarmi,l’uso dei versi che nel latino medioevale si chiamavanotransformati e che in sardo si dicono trobeados, trava-dos, ’oltados, retrogados. Sono proprio questi versi, e leardite tecniche che essi richiedono, a fare inconfondi-bilmente diversi i mutos e i mutettus rispetto agli stor-nelli o rispetti del continente. E sono ancora questiversi a differenziare il mondo degli improvvisatori sar-di da quello dei poeti a braccio dell’Italia centrale.

Come ho scritto altrove, dietro i poeti a braccio staconsapevolmente il mondo epico-narrativo di Ariosto eTasso: il metro è il docile e armonico veicolo del senso,ed è considerato “poeta” chi quasi “parli in ottave” conlimpida scioltezza, al modo che Ariosto “pensava in ot-tave”. Invece dietro gli improvvisatori sardi sta quellastessa volontà di ardua versificazione che s’espressenella forma della canzone sestina da Arnaldo Daniello aDante Alighieri e a Francesco Petrarca: può quasi dirsiche nell’isola viene coronato “poeta” chi meglio sappia

Trintasex, come gran di spelta,germogliato per caso a Fregene

Nascosta da veli mi guardi,ma sfugge la faccia splendentee il fianco lo taglia la spada.

Dovunque mai tu vadastanno ridendo piano,con sussurro lontano,quelli della muraglia.

Il fianco la spada lo taglia.Nascosta da veli mi guardi,ma sfugge la faccia splendente

Il sole acceso abbagliae nasconde le stelle,sue tremule sorelle,e poi tramonta stanco.

La spada lo taglia il fianco.Nascosta da veli mi guardi,ma sfugge la faccia splendente

Rosso calore biancosulle pietre assolate.Perché non mi guardate,fanciulla mia ridente?

stasera anche lui è con voi: lasciate che idealmente loabbracci, assieme al suo e vostro mondo sardo che egliha studiato con tanta scienza e passione.

ma sfugge la faccia splendentee il fianco lo taglia la spada.

Sui tuoi candidi teliponi le belle membra:con sospir mi rimembrala tua ardente risposta.

Da veli mi guardi nascosta.Ma sfugge la faccia splendentee il fianco lo taglia la spada.

Dura pena mi costad’aver sempre speratoma mai d’aver trovatodel Trintasex la strada.

E il fianco lo taglia la spada

Fregene luglio

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Ma sfugge la faccia splendente.Nascosta da veli mi guardi,e il fianco lo taglia la spada.

Tu, triste mio perdente,piangi lacrime amare:ma non senti suonareil corno della caccia?

Ma sfugge splendente la faccia.Nascosta da veli mi guardi,e il fianco lo taglia la spada.

Tornata è la bonaccia:senza un soffio di ventoil cuore tace spento,e nostalgia mi strugge.

Splendente la faccia mi sfuggeNascosta da veli mi guardi,e il fianco lo taglia la spada.

Col tempo si distruggeogni memoria cara;resta la voglia amaradel fuoco di cui ardi.

Nascosta da veli mi guardi.ma sfugge la faccia splendentee il fianco lo taglia la spada.

Ma è sempre più tardi.Il tempo va velocee una rabbia ferocelampeggia nei cieli.

Nascosta mi guardi da veli,

Breve memoria di cibitra Abruzzo, Molise e Sardegna

Ricordo – cos’altro mai si fa, cogli anni, se non que-sto? – ricordo che il mio primo incontro col cibo cometema fu in Molise, metà Anni Cinquanta, quando midedicai a scrivere una parte della storia di quella terra.La memoria in verità andrebbe assai più indietro se sivolgesse al cibo come cibo, mangiato, cioè, e non soloparlato o pensato: le grandi fette di pane della miaMarsica nativa, di acqua e di farina e di patate, e quellegialle di uova a Pasqua, e dolci, sulle pendici del Mon-te Salviano, verso la Madonna di Pietraquaria; o an-che, negli stessi anni d’infanzia, le grandi tazze estivedi latte di capra; in Molise, e la pizza de rantìnie, la fo-caccia di farina di granturco cotta sotto la cenere nelcamino di nonna Rosina a Castropignano. Sotto la ce-nere, proprio come la focaccia detta appunto cinerìciadi cui più tardi lessi nelle pagine del grande illuministasettecentesco molisano Giuseppe Maria Galanti: vi sidiceva che quel cibo che mi era familiare dall’infanziaera dei poveri ed era nato per sfuggire alle tasse feudali

cerca: scoprii la bellezza incredibile dei pani modellatidi Sardegna. Ne nacque un fecondo lavoro collegiale –decine di donne nelle loro case, e di studenti e studen-tesse in esercitazioni e tesi – che produsse una splendi-da raccolta e il volume che Enrica Delitala, ChiarellaRapallo, Giulio Angioni ed io pubblicammo nel .Curata ed accresciuta per molti anni da Enrica Delita-la, quella raccolta di pani ora è qui, a Nuoro, nel Mu-seo dell’Isre cui Enrica ha voluto che fosse donata. Ione ho portato con me il molto che da quei pani ho im-parato: la loro «bivalenza o bifunzionalità o biplanari-tà», ossia il loro «essere per un verso alimento o sussi-stenza e per l’altro forma e segno». Di qui mi venne ingran parte l’associare “oggetti” e “segni”, discorrendodi musei; di qui l’idea della “segnicità” che, distinta maindivisibile, si associa alla “fabrilità”; di qui il tentativodi cogliere il nesso tra “il dire e il fare” nelle opere del-l’uomo. Può benissimo darsi che il valore effettivo diquesti concetti sia scarso, o addirittura nullo; resta cheove avessero una qualche validità il merito ne andreb-be alle abili mani delle artiste che hanno modellatoquei mirabili oggetti che inducono a riflettere su “ilpane come cibo e il pane come segno”.

Ripeto, lo so, cose già dette: colpa, chissà, degli anniche perciò dovrebbero saggiamente indurre, se nonproprio a tacere, almeno a parlar poco, lasciando spa-zio agli altri. Ed è ciò che ora faccio, cedendo il passoad un breve stralcio da due splendide pagine su gra-

sui forni. Vidi pure che quella pizza, con quel suo mo-do di cottura, torna altre volte negli scritti quasi a em-blema della miserrima vita del mondo popolare moli-sano, assieme però alla menzione delle grandi mangia-te in talune feste o in tempo di mietitura; onde nellasua bella inchiesta sulle condizioni economiche delBasso Molise, pubblicata nel , Errico Presutti acu-tamente assunse come «terribile indice di miseria» «lagrande elasticità» dello stomaco dei molisani che, «co-me quello di tutti i miseri», era capace di resistere così«al digiuno invernale», come «agli abbondanti pastidell’estate».

Questo accostamento iniziale al tema del cibo, inchiave “sociale”, non ebbe seguito, anche se mi è acca-duto di rammentarlo (con qualche commozione) quasiogni volta che sono tornato ad occuparmi di cose moli-sane. Ma debbo alla Sardegna un più durevole incon-tro con altri pani. Cominciò nel con un questiona-rio sui tipi e le denominazioni del pane che con EnricaDelitala distribuimmo agli studenti del corso di Storiadelle tradizioni popolari della Facoltà di Lettere di Ca-gliari. Le domande riguardavano soprattutto il pane inquanto cibo: tipi di farina e di lievito, modi di prepara-zione e di cottura e simili; ma ce ne erano anche relati-ve alle forme per le quali si chiedevano, se possibile,disegni o fotografie. E furono appunto le fotografie(primissime quelle dei pani di San Sperate procurateda Assunta Schirru) a dare tutt’altro indirizzo alla ri-

Sardegna, ieri e oggi

Non avevo un soldo di Giacomo Mameli è un tagliodell’oggi sull’operoso oggi di decine di centri dellaSardegna: un mondo che mi colpisce ed ammiro, ma difronte al quale sono assolutamente incompetente. Lamia Sardegna infatti, quella che ho studiato amato eper quindici anni anche pendolarmente vissuto, è or-mai antica, quasi da archeologia. Comincia, fuori del-l’isola, se non con la possente e oscena ingiuria logudo-rese che un compagno di scuola sardo m’insegnò nellaremota infanzia avezzanese, comincia con le pagineche scrissi dal al sugli attìttos logudoresi, suMiele amaro di Salvatore Cambosu e su tre documen-tari cinematografici di Fiorenzo Serra. Poi, il apriledell’anno appresso, ci fu la prima emozionata notte dinave da Civitavecchia, per il VI Congresso nazionaledelle tradizioni popolari che si svolse a Cagliari, Nuo-ro e Sassari/Alghero: soggiorno breve (fino alla Sagradi Sant’Efisio) ma affascinante per le soste che punteg-giarono i viaggi da un Capo all’altro. L’anno dopo,, cominciò l’insegnamento universitario a Caglia-

no, olio e vino, cuore della storia dei nostri cibi medi-terranei:

Il vino non è come il grano, che quando è ammassatonel suo magazzino è una duna d’oro, e ha solo bisognodi essere difeso dai diabolici punteruoli; e neppure ècome l’olio, che quando è uscito dalla notturna mola epoi dai fiscoli pressati, dorme quietamente negli orciantichi quanto il mondo. Il grappolo straziato dai rullisi accumula, col suo succo innocente e col suo graspoin fondo al tino, sale lentamente verso il bordo, e là sene sta spargendo il suo profumo, che è ancora il profu-mo di un fiore o di un frutto. Ma c’è, in quella massairidata, un Dio nascosto, perché non passeranno molteore, ed ecco un’orlatura violacea apparirà tutto lungo ilbordo: allora la massa si solleverà come in un respiro,perderà la sua innocenza, e rivelerà in un sordo gorgo-glio il fuoco che la divora.

È l’omaggio che da Il giorno del giudizio di SalvatoreSatta, nuorese, mi permetto di rendere alle giornatenuoresi sul cibo

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suale del , e così quasi se ne ridesta nel ricordo ilritmico rumore e si riaccende anche il rosso delle vestidelle donne di Desulo, dove pure sostammo, e torna lamemoria di Max Leopold Wagner, il grande studiosodella lingua sarda, che lungo il viaggio verso Nuoro mispiegò l’origine degli articoli determinativi logudoresie campidanesi, che in seguito mi onorò della sua stimascientifica e della sua amicizia, e di cui ora trovo ricor-dato nel libro di Mameli l’episodio del terribile arrostoche dovette mangiare a Urzulei. Una lettura più retro-spettiva che attuale, la mia, dunque; ma che si può maivolere da chi fu giovane niente di meno che “alla metàdel secolo scorso”, per dirla con una frase che suonadavvero terrificante quando non di storia si tratti ma dibiografia, anzi di autobiografia.

Annoto perciò un altro balzo all’indietro. La spintaviene dalle pagine in cui Mameli discorre degli assassi-ni ormai divenuti spesso duplici. Ultima innovazionedi una serie che è venuta cambiando le regole antichedel banditismo tradizionale isolano; e la prima scossaforse fu quella che si verificò alla fine degli anni Cin-quanta con l’uccisione della coppia di turisti inglesi, aOrgosolo mi pare. Nel marzo del , con una troupedella Rai e per il Centro di musica popolare dell’Acca-demia di Santa Cecilia, con il maestro Giorgio Natalet-ti, grande amico scomparso della Sardegna, fummo aregistrare musiche e canti a Olzai, Gavoi, Mamoiada,Fonni, Galtellì, Aggius. Ed a Mamoiada, con un pasto-

ri; e cominciò anche lo studio della poesia tradizionalelogudorese e campidanese, quello del gioco di Ozieri,e più tardi quello dei pani cerimoniali. Così, per venireal punto, la mia esperienza isolana s’è concentrata su-gli aspetti segnici (espressione e comunicazione) dellacultura sarda: sapere e fare poetico (mutos, mutettus,battorinas, trintasex, modas ecc.), sapere e fare sculto-rio (la modellazione dei pani). Ed è questa, oltre alladistanza cronologica, una ragione sostanziale della miaincompetenza di fronte al libro: il sapere e il fare di cuiMameli ci dice non è quello dei segni ma è quello inve-ce fabrile: produrre beni e ricchezza, ossia formaggi,oli, vini, birra ed anche pani, ma qui come cibi e noncome simboli o segni.

Ma allora perché cedo alla richiesta che Mameli mifa di scrivere qualcosa sul suo lavoro, e contravvengocosì alla regola, durata una vita, di non parlare di coseche non ho personalmente studiato? Mi ha lusingato,chissà, che la richiesta sia giunta totalmente al di fuoridegli addetti ai miei stessi lavori? Non so, ma nel contometterei da un lato la letizia che nasce dalla visionedella fattiva, serena e fruttuosa operosità isolana, pergiunta raccontata con intelligenza e scioltezza, e dal-l’altro il piacere sia pur malinconico dei ricordi che illibro riaccende.

Mi colpisce, ad esempio, trovare annotato che «neglianni ’ erano presenti a Isili circa telai»: mi colpi-sce perché Isili fu una delle tappe del viaggio congres-

ben può assumersi a etichetta o nome di quel più vec-chio tempo in cui m’hanno portato i ricordi; per con-verso, però, la frase vale anche come denotatore deitempi più recenti o dell’oggi: “meno poveri” se nonaddirittura “più ricchi”. Ed in effetti il mondo sardoche emerge dalle pagine di Mameli – o meglio cheemerge dalle operazioni e imprese di cui Mameli ci dàconto, e dalle parole dei protagonisti di quelle opera-zioni e imprese che testualmente ci riferisce – è unmondo operoso, fiducioso, in crescita e non in declino.Come spesso ho notato e ammirato nelle cose di Sar-degna, è del tutto assente quella che m’è parso di poterchiamare la componente querula del meridionalismo(e simili): le colpe stanno sempre altrove, e magari benvenga il terremoto così poi arrivano i soldi. Nel libroinvece si leggono formulazioni nette come questa cheviene da Carbonia: «Certe volte i colpevoli dei nostrifallimenti siamo noi, è inutile piangerci addosso» (epoco oltre si dichiara che «della tutela hanno bisogno ideboli non i forti»). Un mondo di iniziative e di fioren-ti capacità imprenditoriali: in positivo cioè, ossia e nonsolo e non tanto contro qualcuno, ma invece per qual-cosa, con l’ottimismo dell’intelligenza, libera e franca,oltre che della volontà. E confesserò che m’è venuto dapensare che la Sardegna che qui opera e parla è forseproprio quel glocal che ho sentito dire stia positiva-mente nascendo dal o nel deprecato global.

Ma prudenza vuole che io torni alla più sicura nic-

re intelligente, come ce ne è tanti, mi trovai a parlare diSardegna pastorile e colta: di Alberto Della Marmora edel suo famoso Voyage, e dei turisti uccisi. Lui disap-provò recisamente il delitto, e mi disse: «pastore onestosono: solo pecore ho rubato». Un mondo inghiottitodal tempo, così come persa nel nulla è ormai quellagiornata intensa che vivemmo nel paese dei mamuto-nes, accolti e guidati da Giovanni Crisponi che ne cura-va l’organizzazione (ed un suo figlio aveva dipinto unquadro di maschere danzanti e di nere finestre vuoteche acquistai ed è ancora al centro di una delle mie pa-reti, mentre la vena poetica s’è manifestata in altre per-sone di quella famiglia). Ma qui da un rimbalzo ne na-sce un altro, anche fuori del libro, perché dai mamu-thones il pensiero non può non andare a Raffaello Mar-chi, che primo li disvelò al mondo: e con lui fu una caraamicizia che mi commuove ricordare, così come micommuovono i nomi che nel libro di Mameli incontro ericonosco e qui alla rinfusa cito, vivi e non più, giovanie vecchi: Mario Ciusa Romagna e Peppino Fiori, Giro-lamo Sotgiu e Gonario Pinna, Francesco Masala, Gavi-no Ledda, Giulio Angioni allievo, poi collega e roman-ziere (ed altri narratori come Luciano Marrocu), Gio-vanni Lilliu rigoroso sapere ed affettuosa amicizia, Ma-ria Lai e due incontri romani in casa sua e mia stampatinella mente e nel cuore…

«Quando eravamo più poveri», dice a Siddi una del-le maestre nell’arte dei malloreddus; e l’espressione

Pani di Sardegna

Felice fu, davvero, quel momento in cui scoprii, sco-primmo, i pani sardi: bellezza, e non soltanto cibo, siapur prezioso.

Alla fine degli Anni Cinquanta, mezzo secolo fa, glistudi sulle tradizioni sarde erano certo già vivi anche inSardegna, ed anche con frutti egregi. Non c’era ancoraperò, nell’isola, un insegnamento universitario di Sto-ria delle tradizioni popolari: il primo venne attivato in-fatti a Cagliari, Facoltà di Lettere e filosofia, nel di-cembre del . Iniziò allora la mia pendolarità sarda,poi durata quindici anni. E subito mi parve che – fer-mo restando il carattere generale dell’insegnamento:tutte le tradizioni e non quelle sarde soltanto – l’incari-co imponesse anche un preciso dovere che dirò isola-no: progettare e realizzare rilevamenti e spogli siste-matici che, anche con l’impegno degli studenti, desse-ro basi documentarie più ricche e salde agli studi sulletradizioni sarde. Venne così configurandosi il progettoche chiamai Repertorio e Atlante Demologico Sardo, eche dal ebbe nel «Brads» il suo Bollettino. Stru-mento principe del Repertorio furono ovviamente i

chia dei ricordi. Verso la fine del mio quindicennio iso-lano venne con me in Sardegna mio figlio Eugenio, al-lora ancora studente, e partecipò a qualche lezione oseminario o dibattito. Ripartendo mi disse: «ho capitoquello che speri: il pastore sardo col calcolatore in ta-sca». Felice immagine, cui forse qualcuno o qualcosaoggi somiglia, con l’aggiunta magari dell’export.

Ma è proprio vero che l’esistente, solo perché tale, èun male?

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averla per anni curata ed accresciuta, Enrica Delitalaha infine donato al museo dell’Isre di Nuoro perché,fuori dagli stipi, goda della luce e dello spazio cui hadiritto.

Dal fervore della scoperta nacque anche un libro, Pla-stica effimera in Sardegna: i pani, che Enrica Delitala,Chiarella Rapallo, Giulio Angioni ed io pubblicammonel con la cura grafica di Tonino Casula: quasi cin-quanta bellissime immagini di pani, splendidi. E perquel libro (ristampato poi nel ma ormai, credo, in-trovabile) scrissi una nota, Per lo studio dell’arte plasticaeffimera in Sardegna, che cronologicamente si trova acoincidere con il chiudersi della mia pendolarità sarda.Ma, in sé e nel mio itinerario di studio, quella nota nonchiuse: aprì. Di lì a poco la ristampai – Arte plastica effi-mera: i pani sardi, – e in un Poscritto dissi di quella«bivalenza o bifunzionalità o biplanarità» che i pani diSardegna mi avevano rivelato con il loro «essere per unverso alimento o sussistenza e per l’altro forma e segno».E furono proprio questi concetti che, riverberandosisulle considerazioni museografiche, mi portarono adassociare gli «oggetti» e i «segni» fin nel titolo stesso dellibro in cui ristampai la nota: Oggetti segni musei. Ed inappresso altrettanto avvenne, nei contenuti oltre chenel nome, sia negli scritti dedicati a Segnicità fabrilitàprocreazione, tra il e il , sia in quelli che, nel, Pier Giorgio Solinas e gli altri amici senesi riuni-rono in Il dire e il fare nelle opere dell’uomo.

questionari, avviati fin dal con naturale varietà dioggetti. Tra gli altri ci fu anche il pane: un tema che al-l’inizio fu presente per ragioni sistematiche e non persuo proprio spicco o rilevanza; inoltre il questionario –redatto nel ed intitolato Tipi e le denominazionidel pane – considerò il pane soprattutto in quanto pro-dotto fabrile e in quanto cibo: tipi di farina e di lievito,modi di preparazione e di cottura, e simili. Tuttavia su-bito ci si impose, senza però che ce ne avvedessimo,quella che poi ebbi a chiamare la «biplanarità» dei pa-ni, e cioè il loro valere ed agire come segno oltre checome alimento. Nel questionario infatti ci furono an-che domande sulle “forme”, passando così all’altrafaccia: dal pane che nutre al pane che dice. Ovviamen-te, per documentare le forme, il questionario chieseche i rilevamenti fornissero anche fotografie e disegni.E furono appunto le fotografie – primissime quelle deipani di San Sperate procurate da Assunta Schirru epubblicate in parte nel primo numero del «Brads», – che dettero alla ricerca una decisiva svolta: inpura levità di forme, i pani di Sardegna ci abbagliaro-no, il tema divenne centrale, e prese il via un fervido la-voro collegiale, donne nelle loro case a dar vita all’arte,e studenti e studentesse in esercitazioni e tesi. Così ne-gli angusti armadi a vetri del nostro corridoio, in Fa-coltà, cominciarono ad allinearsi, prima, ed a stiparsipoi, le trine, i merletti, i trafori, i dischi, i rami, i pasto-rali, le croci di pane: una raccolta preziosa che, dopo

trobear, come ebbi a chiamarla: mutos e tutto il restopresentati a un pubblico vasto di lettori in modi che neconsentissero la più viva e immediata godibilità. Mapoi non ne fu nulla. E credo che ormai continuerà così:da parte mia per legge di natura, e da parte altrui permanco d’amore:

Ventanas funti tristes,birdieras in dolu…

Ma qualche malinconia viene anche dal poi, se è veroche, per far eseguire pani nell’antico stile, talvolta è oc-corso mostrare alle panificatrici il nostro libro del .La demagogia degli agit-prop – credo si debba dura-mente dirlo contro le dimenticanze – quella demago-gia, allora, accusò noi e i nostri musei demologici di faropera di rapina e spoliazione culturale ai danni del ‘po-polo’. Oggi è chiaro che fummo proprio noi, i rapinato-ri, a salvare nei grigi corridoi della Facoltà memorie cheperfino il popolo ha poi perduto. Ma qui mi fermo: dicontinuazioni, scomparse, riprese ed oblii so assai po-co (e mi si stringe il cuore al pensiero che il mondo chefu nostro muoia anche negli aspetti di umanità e amoree dolcezza di cui ci nutrimmo). Perciò non mi azzardo atoccare il tema, e mi rifugio nel mondo cui appartenni,dei pani antichi: cui dedico appunto due foto.

La prima è una composizione che realizzai nel ,quando ferocia esterna e connivenze nostrane mi spin-

Tornando oggi su queste remote cose, mi accade diconsiderare che la mia parabola sarda, -, si aprì esi chiuse con l’incontro (anzi la scoperta, per me) di duesingolari e affascinanti specializzazioni culturali del-l’isola. La prima fu quella del lucido gioco metrico dimutos, muttettus, trintasex, chimbantachimbe ed al-tro, su cui tanto felice tempo spesi fin dai miei primigiorni sardi. La seconda fu poi quella del nitido svaria-re dei pani in plastiche forme che tanto mi colpì in ap-presso. Versificazione e modellazione, l’impasto e leparole: due mondi espressivi tra loro affini oltretuttoperché sono ambedue del tutto “inutili”: che è il pro-prio, appunto, della bellezza. Civiltà assai alta, dunque,e tanto più per il fatto d’essere fiorita da così aspre du-rezze di vita.

Ma ai ricordi lieti si accompagna anche il rammaricoper cose non fatte. Due altri specifici modi isolani dicreare bellezza mi parvero allora strettamente affini aiversi e ai pani, ed altrettanto ricchi: il ballo e i tappeti(iteranti anch’essi, come i mutos e i pani). Ma li sfioraiappena, da lungi. Ancor più debbo dolermi per un pro-getto che, pur se tracciato, non ebbe poi vita. Dedicaiallora alla logica dei metri sardi tempi lunghi di studio,faticosi ma felici. A fianco però di queste analisi che mi-ravano a cogliere e capire il fascino del costruire metri-co sardo c’era l’abbandono alle immagini: al loro fasci-no in sé. E così progettai (ed un editore continentale,importante, accettò l’idea) una antologia dell’Arte del

Il transetto della foto è a Sassari, i due pani sono almuseo dell’Isre di Nuoro, vittoriosi ancora, lo spero,contro le ingiurie del tempo. È invece in casa mia, aRoma, ed in stato di conservazione fino a poco fa per-fetto, il pane raffigurato nell’altra foto che unisco.Opera delle felici mani di Peppina Solinas, questo pa-ne mi giunse da Simaxis, Oristano, per il tramite diMaria Teresa Mazzella quando discusse a Roma la suatesi sui pani sardi, nel : buon lavoro il suo, e par-tecipazione estrema, la mia, a quei lavori del Reperto-rio sardo che ormai erano da anni così ben guidati daEnrica Delitala (che per l’occasione, è caro ricordar-lo, da Cagliari venne a tenere di persona la sua corre-lazione).

Quel pane di Simaxis è durato a lungo indenne, er-meticamente chiuso com’era (ed è) nella scatola di ve-tro in cui lo stivò in soffice coltre l’autrice. Cosicchéogni volta, religiosamente aprendo la teca agli occhiamici, per gloriarmi di così raro oggetto e per gioire distupefatti sguardi, trovavo sempre al loro perfetto po-sto, librati, i lieti rami con uccelli e fiori che con tantoraffinata levità quel pane finge. Finché poi una volta,or fa tre anni, mi venne idea di condividerne l’immagi-ne con altri, ed in assenza di più adeguati mezzi, stoli-damente usai lo scanner, poggiando la fragile sculturaa faccia in giù sul vetro. L’esito fu per un verso quasidisastroso e per l’altro entusiasmante. Una prima im-magine riuscì assai bella e il pane superò la prova in-

sero a riprendere l’uso di quegli auguri natalizi che dadecenni avevo abbandonato. A tema scelsi una somi-glianza che da tempo mi aveva stupito: quella tra la cro-ce che la luce disegna sul muro di una chiesa sarda e lacroce in cui furono foggiati tanti pani isolani. Così aduna foto dell’Oculo del transetto destro della chiesasassarese di Santa Maria di Corte affiancai quelle didue pani, l’uno di Mores e l’altro di Siurgus: architettu-ra pani croci. Nascono curiosità: la quasi identità diforme è un caso? o c’è stato un comune modello? o so-no le forme che per propria misteriosa forza erompo-no? Ma, transetti e fantasie a parte, viene da chiedersi,importuni, se i pani di Sardegna non avrebbero merita-to che qualcuno, magari tra i suoi figli, le studiasse davicino, quelle forme, critico o storico d’arte, demologoo che so mai altro.

A conclusione del lieto e triste e forse vano divagarevalga l’augurio che, umile e intensa, la bellezza dei pa-ni di Sardegna trovi occhi e cuore, ancora, in chi vieneappresso.

Roma, novembre

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denne. Ma in quella foto era persa la verticalità della sa-goma arborea, ed il pane sembrava piuttosto raffigura-re qualcosa di orizzontale come, che so, un’aiuola. Vo-levo invece, ed era giusto, che la verticalità dell’alberonon scomparisse, e ripetei perciò l’operazione cam-biando la collocazione della scultura sul vetro. Mutatigli equilibri, però, il pur lieve peso del pane ne spezzòdue rametti. Disastro, appunto; ma la sorte mi fu, comealtre volte, amica: i rametti si disposero con grazia aipiedi della pianta, staccati dalla brezza e non stroncatidall’uragano. L’immagine tutta, poi, come ben mostrala foto, risultò morbida e lieve, quasi aggiungendo va-lenze all’originale.

APPENDICE

Gli studi demologicicome contributo alla storia della cultura

Il vario interesse che, ben oltre i limiti dello speciali-smo tradizionale, si è manifestato in questo dopoguer-ra per il mondo popolare e per le ricerche che lo riguar-dano, costituisce di certo un elemento non trascurabile(e talvolta tra i più appariscenti e divulgati) nel panora-ma culturale degli ultimi anni1. Vero è che esso nonsempre ha avuto quel rigore e quella chiarezza di inten-ti che erano richiesti dalla vivacità delle sollecitazionidi rinnovamento di cui, soggettivamente o oggettiva-mente, è stato una delle manifestazioni; tuttavia apparechiaro che nelle motivazioni di buona parte delle ricer-che e delle discussioni erano in causa talune questioniessenziali nella nostra vita culturale. La rinnovata at-tenzione dedicata al mondo etnologico o dei “primiti-vi” (che ha avuto evidenti connessioni con i problemidello studio del mondo popolare) è apparsa per buonaparte animata dalla determinazione di rompere certi

Come ho già scritto nell’introduzione, agli otto scritti sardi con cui segno ilcinquantenario del mio primo viaggio in Sardegna aggiungo, per pedante-ria cronologica, un testo che non fu di argomento sardo ma che – letto a Ca-gliari nella seduta del aprile del VI Congresso nazionale delle tradi-zioni popolari e poi pubblicato in «Lares», XXII, , pp. - – «fu ilmio primo discorso di studioso nell’isola, e fu radice del mio successivoteorizzare cagliaritano sui dislivelli di cultura». Quella stessa pedanteria –assieme allo sgomento che m’invade per il lunghissimo arrogante silenzioche ha circondato i tragici eventi ungheresi dello stesso anno – mi porta adannotare che non è questa la prima volta in cui segno ricordi – scientifici enon politici – relativi al . Venti anni fa infatti, novembre , fui porta-to a farlo proprio per il trentennale della tragica invasione sovietica del-l’Ungheria. Gli organizzatori del Convegno Il 1956 e la sinistra italiana:un’occasione mancata? mi chiesero infatti di parlare degli studi demoetno-antropologici italiani in quell’anno. E così – prima al Convegno e poi inProblemi del socialismo (, n. , pp. -) – mi accadde di notare cheil forte «ancoraggio specialistico e settoriale» che ebbero allora gli studi dicui mi occupo forse spiegava perché il che al Convegno interessava –«quello drammatico del XX Congresso del Partito Comunista Sovietico,quello sanguinoso e ingiustificabile dell’invasione sovietica dell’Ungheria equello degli applausi servili dei comunisti italiani a quella invasione» – nonavesse avuto «echi diretti e immediati negli studi di etnologia e folklore (ne-gli studiosi invece sì, ove né sordi né ciechi: uno dei demo-etnologi del tem-po, Tullio Seppilli, fu tra i firmatari del documento [di protesta] dei co-munisti sull’Ungheria; e altri tra noi, di sinistra non comunista, esprimem-mo in altri modi il nostro dissenso)». Non potevo rammemorare le poverevicende del mio di studioso in Sardegna senza far parola di così tragicieventi coevi : il silenzio sarebbe stato connivenza.

1 Vedi la Nota in calce al presente scritto.

tici che si annidano in siffatti ritorni “alle sorgenti”quando essi non si accompagnino alla coscienza checultura nuova si fa solo al culmine delle conquiste giàmaturate, e non con la ricaduta ingenua ed acritica inprospettive di cui la storia abbia già fatto giustizia. E sipotrebbe continuare; ma gli esempi accennati appaio-no già sufficienti a dirci che la natura delle motivazioniche hanno agito in questa “ripresa”, e l’intrecciarsi dipropositi moderni e vivi con toni più tenui o “minori”,richiedono a chi si occupi in modo specialistico delmondo popolare di identificare le sollecitazioni più va-lide e di cogliere i reali legami tra il rinnovato interesseed i problemi culturali generali del nostro periodo: inaltri termini sollecitano a stabilire la collocazione odier-na delle indagini demologiche nel quadro attuale deglistudi e degli interessi culturali. Qui appunto si vorreb-bero accennare alcune possibili linee di questa colloca-zione.

Naturalmente non si tratta, a mio parere, di porre inrilievo ancora una volta l’apporto di nozioni e di co-gnizioni che l’esercizio tecnicamente qualificato diqueste ricerche può fornire e fornisce non solo al ge-nerale patrimonio delle conoscenze acquisite ma an-che a talune discipline specifiche: è questo un dato in-discusso, ed ognuno sa quale contributo abbia dato odia alla linguistica, ad esempio, o alla storia delle reli-gioni l’identificazione di questo o di quel comporta-mento, di questa o di quella costumanza. Neppure si

schemi ideologici che hanno a lungo dominato la no-stra cultura; di contro le più serie perplessità sollevateda campi diversi miravano a fare avvertiti dei forti ri-schi di irrazionalismo che quel fervore pareva, e pote-va, comportare. Gli accostamenti talvolta prospettatitra il mondo etnologico e il mondo “popolare” (o dei“volghi” dei popoli “civili”) sono stati sollecitati dallaintenzione di registrare anche sul piano della ricercascientifica le più o meno sostanziali convergenze stori-che che si sono verificate tra i popoli coloniali e le plebicontadine; e, di contro, le opposizioni a questi ravvici-namenti troppo immediati hanno mirato a ristabilire,al di là delle affinità formali e generiche, il punto incon-trovertibile delle differenze storiche. Il tentativo diidentificare nel nostro Mezzogiorno un complesso so-cialculturale omogeneo ed autonomo – una vera e pro-pria “civiltà contadina” – è derivato in buona parte dalproposito di individuare gli scompensi e le fratture in-terne della società nazionale anche per la via specificadi una indagine nel settore delle concezioni e dei com-portamenti; e, di contro, le obbiezioni hanno miratonon a contestare l’esistenza dei dislivelli ma a riaffer-mare che le differenze esistono “all’interno” di una co-mune circolazione culturale. L’appello al parlare quoti-diano, al dialetto, alle scritture degli illetterati è stato,come già altre volte, sollecitato dal desiderio di rinno-vare e di rinvigorire l’espressione artistica e letteraria; ele obbiezioni hanno mirato a fare avvertiti dei rischi mi-

tempo, è certo tuttavia che lo sviluppo pieno dell’inte-resse per il mondo popolare, il momento culminante eaddirittura passionale della attenzione per il patrimo-nio poetico dei “volghi” fu raggiunto nel secolo deci-monono, ed in stretto rapporto con il romanticismo,con lo sviluppo delle coscienze nazionali, con l’affer-marsi dello storicismo. L’amore e la ricerca della poesiae delle costumanze tradizionali ebbero allora forza e si-gnificato, costituirono allora un lineamento essenzialee caratterizzante dell’epoca, proprio perché partecipa-rono del comune slancio innovatore, si inserirono perla loro parte in un giro di problemi culturali e politicivivacissimi. Furono anch’essi tra le forze che spezzava-no l’astrattezza della raison raisonnante, demolivanol’accademismo classicistico, frantumavano gli anciensrégimes, schiudevano un mondo nuovo, il mondo delpopolo sovrano.

E se, in un momento successivo, lo svolgimento dellericerche ha trovato ancora vaste energie e fornito nuovie positivi risultati, ciò è stato ancora una volta in forzadel rapporto consapevole con i problemi culturali ge-nerali che appassionarono e mossero la nuova epoca.Ci fu il vivace proposito di nuove e “scientifiche” siste-mazioni del sapere articolato in settori allora scoperti,ci fu la speranzosa fiducia in metodi e criteri che parve-ro allora risolutivi; a questa vivacità ed a queste speran-ze gli studi positivistici di tradizioni popolari dettero illoro contributo qualificato, traendone insieme vigore e

tratta di provarsi a configurare ancora una volta la fi-sionomia e la funzione scientifica di queste indaginisoltanto sulla base di partizioni e sistemazioni internein settori, i quali – quattro o quattordici che siano –sono indubbiamente giovevoli, e talvolta indispensa-bili, per l’ordinamento e la classificazione delle que-stioni e dei documenti, ma assai poco servono quandosi tratti della generale incidenza culturale del com-plesso delle indagini. Di tale incidenza, e cioè della ca-pacità di avvertire le domande che la società e la cul-tura oggi propongono e di dare ad esse risposte ade-guate, non si può decidere soltanto entro l’angusto gi-ro dei problemi tecnici interni. Vale anche in questosettore di ricerche l’avvertimento generale che, se nonsi alimenta alle fonti di una tematica vasta e moderna,esso resta fatalmente esangue e senza sbocchi, divieneesso stesso fenomeno di attardamento culturale, ri-schia ad ogni passo la caduta nella erudizione minore,ed autorizza implicitamente ogni dilettantismo.

Del resto a ciò ammonisce la storia stessa di questistudi: essa ci avverte appunto che la nascita e lo svilup-po dell’attenzione per il mondo popolare sono stati instretto rapporto con vasti movimenti di cultura di cuifurono parte rilevante e talora caratterizzante. Per nu-merosi che siano gli antecedenti remoti ed i precorri-menti, quali che siano state le curiosità più o meno am-pie e sistematiche che si possono rintracciare nella let-teratura o nelle opere storiche e geografiche di ogni

C’è un dato reale nella condizione strutturale e cultu-rale della nazione, ed è l’esistenza di profondi dislivellidi cultura, l’esistenza di “periferie” che solo molto me-diatamente si legano al movimento del mondo cultura-le ufficiale o egemonico. E c’è quindi un problema rea-le nella storia della cultura della nazione, ed è il proble-ma del riconoscimento delle modalità effettive con cuidi volta in volta si sono stabiliti e si stabiliscono i rap-porti di cultura tra centro e periferie, tra mondo diri-gente e mondo diretto. Nell’esistenza oggettiva di que-sto dato e di questo problema sta dunque, a mio avviso,la giustificazione di fondo della odierna ripresa di ri-cerche e di studi sul mondo popolare: ad essi spetta ap-punto di recare consapevole e qualificato contributoalla conoscenza della storia e della condizione culturaledella nazione attraverso l’accertamento di un momen-to specifico, e sin qui costante, di questa storia: verifi-cando alla periferia la capacità o la incapacità penetra-tiva di moti culturali centrali, ed esaminando al centrole ripercussioni della vitalità o della inerzia marginale.Si tratta dunque di un lavoro di natura essenzialmentestoriografica e, naturalmente, non nel senso di una col-locazione cronologica dei fatti e dei documenti, ma nelsenso più proprio di individuazione dei momenti e del-le zone di stasi e di moto nel giro di una vasta circola-zione culturale; di riconoscimento, per la parte chespecificamente compete, della espansione e della vita-lità, della limitazione e della decadenza, degli attarda-

capacità penetrativa, sia che si trattasse, ad esempio,della identificazione degli strati etnici, sia che si miras-se alla filologica documentazione di stadi di sviluppodelle forme poetiche, sia che si lavorasse ad accumula-re l’infinito materiale documentario che parve alloraindispensabile per una storia totale ed esaustiva.

Una analoga constatazione dobbiamo fare per la ri-presa odierna: le prove migliori, quelle cioè che piùhanno contribuito al progressivo chiarimento delleimpostazioni (anche di metodo e di tecnica) della ri-cerca, sono ancora una volta i libri e gli scritti che, spe-cialistici o non, si sono mossi sotto la spinta di solleci-tazioni culturali ampie, alla ricerca di prospettive vali-de per la cultura in generale.

Ma quale è oggi la sollecitazione di fondo? A me pa-re che la rinascita odierna dell’interesse per il mondopopolare sia anch’essa una manifestazione del moder-no bisogno di allargare oltre i limiti abituali la cerchiadegli interessi culturali, di farli più consapevoli dellearticolazioni e delle differenziazioni interne della vitanazionale, più capaci cioè di cogliere e di identificare ilsuo reale modo di essere, la sua reale condizione. Daquesto punto di vista l’interesse per il mondo popolarepartecipa dello slancio che ha animato in questi annialtri settori di riflessione e di studio, che ha sollecitatoaltre inchieste e ricerche attraverso le quali la nazione,dopo anni di retorica ignoranza delle proprie condi-zioni, è venuta riprendendo contatto con se stessa.

prospettiva che non isoli artificialmente astratte auto-nomie di settori o di manifestazioni, e contemporanea-mente non dissolva e confonda i settori ed i livelli inuna reductio ad unum che è fallace o perché è determi-nistica o perché è evasiva in una irreale ed amorfa indif-ferenziazione. La distinzione culturale della nazione(grosso modo in moti centrali di alta consapevolezza ein “tradizione popolare”) è soltanto un aspetto dellacomplessiva differenziazione storica; ma se è condizio-nata dalle strutture economico-sociali e dalle vicendestorico-politiche, non per questo non è a sua volta ele-mento fornito di una dinamica interna che condizionaper la sua parte e strutture e vicende: non è dunque ne-cessario soffermarsi a lungo sulla piena correttezza diuna indagine al livello di manifestazioni dialetticamen-te attive nel processo storico. Qualche precisazionemaggiore sembra invece richiedere la determinazionedella validità del “punto di vista”, dell’angolo prospet-tico “periferico”: qui assai più facilmente possono veri-ficarsi, e si sono verificati, errori di impianto più o me-no consapevoli.

È accaduto che ci si sia prospettato il mondo popola-re come un mondo organico ed autonomo, chiuso in sée sviluppatosi per sola forza interiore, senza contatti dirilievo con un più vasto e consapevole agitarsi di idee edi problemi: ed è l’errore, o il mito, della “civiltà conta-dina”. Ma è anche accaduto che ci si fermasse soltantoalla negazione di principio, generale ed astratta, di que-

menti, della estraneità reciproca o del sincretismo diistituti e di concezioni, di stili e di comportamenti nelvivo corpo umano della nazione.

Evidentemente il rapporto centro-periferia, più checostituire un oggetto specifico di un singolo settore diricerche, è un problema che si propone a qualsiasi stu-dio della realtà storica, ed è un “modo” di guardare aquella realtà, quale che sia il particolare campo dell’in-dagine. Per giunta, il riconoscimento complessivo del-la natura e dei modi di quel rapporto, che ha aspettimolteplici e complessi, richiede varietà di studi storico-politici, economici e sociali. Sarebbe dunque fuori del-la realtà (ed in ogni caso sproporzionata al reale livelloraggiunto dalle ricerche in questo settore) ogni pretesadi fare degli studi demologici il luogo unico, risolutivoed “autonomo” dello studio della circolazione cultura-le. Tuttavia mi sembra che gli studi di tradizioni popo-lari (proprio perché si pongono da un angolo prospet-tico particolare, che è quello della “periferia”, e pro-prio perché della interna differenziazione nazionaleesaminano non gli elementi strutturali, economico-so-ciali, ma quelli culturali) siano in grado di fornire uncontributo specifico, qualificato e necessario alla co-struzione del quadro generale della storia della cultura.Ambedue le delimitazioni, sia quella dell’angolo visua-le “periferico”, che quella del piano culturale, o sovra-strutturale, come sovente si dice sembrano legittime egiustificate quando ci si disponga chiaramente in una

ogni caso conserva una serie peculiare di lineamentiche vanno dalla semplice contrapposizione oggettivadi certi modi di vita e di certe concezioni ad altri modi ead altre concezioni che restano “estranei”, fino alla piùo meno dichiarata consapevolezza della contrapposi-zione e della estraneità.

I contadini del Mezzogiorno, ed il loro mondo ideo-logico, non sono mai stati “fuori” della storia e dellacircolazione culturale della nazione; eppure sono stati“dentro” questa storia e questa circolazione in modopeculiare. Mi sia consentito ricordare anche qui l’altogrado di isolamento in cui la porzione meridionale del-la penisola e le isole si sono trovate per lunghi secoli;l’assenza, in molte zone, di centri rilevanti di vita loca-le che agissero efficacemente come redistributori peri-ferici e capillari della vita culturale centrale; la forte re-clusione della vita locale entro i problemi di ogni sin-golo centro contadino; il fatto che la funzione di guidalocale sia stata assunta da un clero che aveva assai spes-so le stesse origini e gli stessi orizzonti culturali dellamassa da cui emergeva. In un ambiente così marginalerispetto alla circolazione culturale maggiore è evidenteche grande rilievo dovessero assumere gli apporti chegiungevano attraverso minori e più popolari vie di co-municazione e di scambio (del resto così congenialicon l’ambiente, e per le modalità di trasmissione e perla qualità stessa del materiale trasmesso), costituite dapastori o girovaghi o pellegrini o “scampati dal turco”

sta estraneità dal circolo culturale e storico della nazio-ne; e si sono così chiusi gli occhi dinanzi alla esistenzareale, e talora drammaticamente emergente, della dif-ferenziazione, di fronte alla presenza reale di un corpocomplesso e vastamente esteso di concezioni, di istitu-ti, di comportamenti che non sono immediatamente ri-solubili nella storia centrale dei grandi movimenti cul-turali né identificabili dal solo angolo visuale della sto-ria “centrale”. Lo sviluppo storico delle campagne,certamente, non è mai stato senza rapporto con quellodelle città, né è intelligibile senza la comprensione diquesto costante legame; e tuttavia la storia delle cam-pagne non è immediatamente risolubile in quella dellecittà; per indagarla occorre infatti identificare non solole relazioni che la hanno di volta in volta avvinta alle cit-tà, ma anche le concezioni ed i problemi strutturali etradizionali che essa di volta ha posto in campo. Analo-gamente quel complesso che provvisoriamente e gene-ricamente diciamo “mondo popolare”, “vita culturalepopolare”, quale che sia il grado di organicità e di omo-geneità interiore, non è comprensibile senza la conti-nua coscienza dei suoi variati ma costanti rapporti con imoti culturali di diversa origine e di più consapevolenatura; ma non è neppure risolubile integralmente nel-la storia “centrale” di quei moti: giacché essa talvolta liaccoglie e talvolta li rifiuta, ed ora si modifica in sensoche sommariamente possiamo dire “moderno”, ora in-vece accentua le proprie modalità più arcaiche, ed in

mancherebbe di forza giustificativa, non sancirebbe ilpassaggio di stato, la nuova condizione, l’unione o ildistacco. Esisteva certamente in precedenza un mo-mento sacramentale culminante diverso dall’attuale,che teneva il luogo che oggi occupa la cerimonia catto-lica, e se ne trovano anche talune evidenti tracce; maoggi il centro sacramentale è un altro; e se da un puntodi vista archeologico, per così dire, ci interessa racco-gliere con cura estrema tutte le più tenui tracce dellaantica serie rituale un tempo autonoma, da un puntodi vista più generale registriamo la perdita di questaautonomia, e dunque la partecipazione ad una circola-zione culturale più ampia, il contatto, il contrasto, ilrapporto tra due livelli, e le modificazioni reciproca-mente inflitte o subite. E nessuno infatti vorrà sostene-re, almeno in linea generale, che le cerimonie rituali esacrali originarie da cui discendono tante feste e tantispettacoli “popolari” che sono ormai soltanto un leva-men nel duro giro dell’anno, abbiano avuto in sé, nellapropria intrinseca natura, la forza di sboccare in festedissacrate e, per così dire, laiche; il processo di trasfor-mazione si è certamente verificato per il decisivo in-flusso di moti culturali più ampi, siano essi il cristiane-simo o l’illuminismo, il romanticismo o il socialismo. Èdunque evidente che questo mondo non è comprensi-bile senza la coscienza costante dei suoi più o menomediati rapporti.

E tuttavia questo “mondo” costituisce una zona con

o albanesi e slavi dell’altra sponda adriatica. Né puòdimenticarsi che in questo mondo gli uomini hannopur “vissuto”, per tanti secoli, e cioè non solo hannoconservato quel che possedevano di concezioni e diistituti, ed hanno raccolto ciò che più o meno organi-camente giungeva loro da diverse o più alte culture,ma debbano anche aver fatti propri sia le eredità chegli apporti, e debbono averli elaborati in qualche mo-do, nel loro isolamento, e in qualche modo fatti pro-gredire in direzione connaturale con i problemi che illoro mondo isolato proponeva e con i mezzi particola-ri di cui disponevano.

Questo mondo dunque non è “autonomo”. Le ricer-che di tradizioni popolari vi ritrovano con facilità nu-merose osservanze rituali che testimoniano di conce-zioni radicalmente diverse da quelle che oggi sono ege-moniche; per le nozze o per il lutto, ad esempio, è pos-sibile anche ricostruire una serie abbastanza completadi atti che compongono un organico rito di passaggio.Ma non occorre grande acume per avvedersi che que-ste successioni di atti rituali e folklorici trovano oggi illoro centro di appoggio in una cerimonia o in un ritoniente affatto folklorici, e invece del tutto liturgici edufficiali: l’atto essenziale di tutto il cerimoniale dellenozze o dei funerali, il momento senza del quale tuttigli altri, pur tanto rispettosamente osservati, non avreb-bero alcun valore, è pur sempre il rito religioso ufficiale,cattolico: senza di esso tutto il resto delle cerimonie

locale, ha dietro di sé uno schema tradizionale di com-posizione (e cioè certi tipi metrici, certi procedimentitecnici, certi orientamenti di gusto), e dinanzi a sé unavvenimento nuovo e peculiare: il suo lavoro elementa-re (elementare soprattutto perché in gran parte incon-sapevole) sta nell’adeguare quello schema al nuovocontenuto, ma soprattutto nel filtrare il contenuto nuo-vo attraverso lo schema: nel contenerlo entro i tipi me-trici, i procedimenti tecnici e gli orientamenti di gustoche gli sono familiari. Il movimento è duplice, ma è so-prattutto forte nel secondo elemento; e si crea cosìquella uniformità e quella “aria comune” (se si vuole,quella anonimia interiore, artigianale) che sono appun-to un livello di gusto e di cultura, periferico, tenue, infondo incapace di innovazioni sostanziali, ma comun-que dotato di vitalità. Ancora più evidenti apparireb-bero le modalità di questa limitata ma effettiva vitalitàse potessimo soffermarci ad esaminare il rapporto tra-dizione-innovazione nei lamenti funebri, ove la filtra-zione del doloroso avvenimento individuale attraversoil modulo melodico-ritmico tradizionale, e la dilatazio-ne del modulo sino a ricomprendere ed a modellare en-tro un gusto letterario ed una ideologia della morte ab-bastanza definiti l’avvenimento individuale, presenta-no aspetti almeno in parte riconoscibili anche sul pianotecnico, ed ove la stessa obbligatorietà rituale della la-mentazione costituisce un indice di rilievo per porre inrapporto concezioni e stili, ideologia ed espressione

caratteri suoi: lo dice la stessa condizione di equilibrioraggiunta tra le osservanze rituali arcaiche e le più re-centi. Il matrimonio o i funerali non sono concepibilisenza il momento liturgico cristiano; ma, a differenzadi quanto avviene ad altri livelli culturali, non sonoconcepibili neppure senza il resto delle osservanze ce-rimoniali e rituali precristiane. E c’è di più: la stessaconcezione cattolica si è sovente sostanziata di elemen-ti magici e precristiani, mentre le osservazioni ritualiprecristiane e magiche, a loro volta, si sono spesso ali-mentate di componenti cristiane: e ne sono scaturiteconcrezioni e giustapposizioni, sincretismi e contami-nazioni che, genericamente ma non inesattamente, siindicano come religiosità, o cattolicesimo, “popolare”.E se volgiamo lo sguardo ad un altro campo di manife-stazioni, se guardiamo ai canti (e non solo ai tipi ed aigeneri più noti, ed ai testi di più antica tradizione, giàda tempo sottoposti alla elaborazione ed alla stilizza-zione popolare, ma ai tipi ed ai generi minori, qualiquelli della satira locale o della lamentazione funeraria,ed ai testi nati più di recente, quasi sotto i nostri occhi)riconosciamo ancora l’esistenza di un orizzonte cultu-rale configurabile anche in termini di “stile”, di “gu-sto” di “scuole” e, magari, di “poetiche”, e possiamoaddirittura misurare la vitalità interna di questo mondoe di questo orizzonte ideologico-letterario. L’anonimomolisano, ad esempio, che mette in circolo una nuovastroscia, una nuova satira su questo o quel pettegolezzo

hanno invece generato adattamenti reciproci di nuovee vecchie concezioni, con soluzioni proprie e peculiari,talvolta destinate all’improduttività, e talvolta invecedotate di vigore vitale, talora vegetanti marginalmente,e talora capaci di reagire attivamente: in ogni caso talida condizionare più o meno positivamente tutta interala circolazione culturale. Ed il contributo che alla storiadella cultura può e deve fornire chi si applichi agli studidi tradizioni popolari è quindi quello di indagare que-sta particolare articolazione (o meglio questa serie diparticolari articolazioni) della storia comune: di coglie-re come si siano venuti atteggiando (e cioè conservan-do, modificando, dissolvendo) idee, stili, comporta-menti, in un certo ambito che diciamo “popolare”, i cuiconfini non sono astrattamente identificabili ma che haestensione e caratteristiche a volta a volta storicamentedeterminabili.

In questa prospettiva – sia lecito ridurre qui ad unaccenno una questione che richiederebbe viceversa unben più ampio approfondimento – i termini di “popo-lo” e di “popolare” possono uscire, almeno in parte,dalla genericità, dalla polivalenza, dall’equivoco: siprofila la possibilità che essi assumano significato pre-ciso perché collocati ogni volta entro uno o altro mo-mento storico. Costante rimarrà (ma naturalmente inmodalità varie, ancora una volta storicamente deter-minate) il loro designare ogni volta il contrario di éli-tes, di gruppi dirigenti ed egemoni: qualificheranno

letteraria, entro un orizzonte del tutto diverso da quel-lo della cultura egemonica e “moderna”.

Si tratta dunque di una zona, di un livello, di un“mondo” non autonomo ed avulso dalla comune cir-colazione culturale, non etnologico, e tuttavia non pre-vedibile meccanicamente attraverso un esame pura-mente “centralistico” delle correnti culturali.

In una prospettiva unitaria del processo storico diformazione culturale della nazione, di cui non si spezzila circolarità ma di cui non si annullino nell’indistinzio-ne i momenti ed i lineamenti particolari, trova dunquela sua corretta collocazione quel livello culturale chedenominiamo mondo o tradizione popolare. E come intanti campi di ricerca si identificano “secoli”, “corren-ti”, “scuole”, “zone”, insomma momenti ed ambientisociali, ideologici, stilistici, non come distinzioni cate-goriche ed astratte, ma come modi concreti di indagareil diverso atteggiarsi dell’unitario svolgimento storico,di riconoscere gli elementi di cui si è fatta l’unità, e dirinvenire l’unità negli elementi, di cogliere storicamen-te il nascere e il dissolversi degli istituti e delle conce-zioni, e del dar nascimento da sé, per filiazione o percontrasto, per ampliamenti e per riduzioni, a istituti econcezioni che li superano o li negano; così si può iden-tificare ed esplorare quel livello in cui cristianesimo, il-luminismo, romanticismo non hanno prodotto rotturee trasformazioni definitive, salti qualitativi netti, pas-saggi radicali quali sono riscontrabili ad altri livelli, ed

Palermo, Roma, Catania (), sarebbero da ricordare al-meno la creazione in Roma () del Centro Nazionale Stu-di di Musica Popolare (Rai-Accademia di Santa Cecilia); lastabile sistemazione del Museo di Arti e Tradizioni Popolari(); la ripresa di riviste già esistenti, quali Folklore (dal) e Lares (dal ), e la nascita di nuove, quali Tesaur(dal ), La Lapa (dal ), Annali del Museo Pitrè (dal); i Congressi come il V e il VI di Tradizioni popolari aTorino e in Sardegna ( e ) e quelli di Studi Etnogra-fici italiani (Napoli, ) e di Etnografia e folklore del mare(Napoli, ), cui vanno aggiunti il Convegno di studi etno-grafici ed il Convegno per il film etnografico (Roma, ).

Tra le iniziative editoriali più importanti andrebbe ricor-data almeno la “collana viola” di studi religiosi, etnologici epsicologici dell’editore Einaudi in cui sono comparsi, per ri-cordare solo qualcuna delle opere che più da vicino ci riguar-dano, la Storia del folklore in Europa di Giuseppe Cocchiara() e le Origini del teatro italiano di Paolo Toschi (); e,dello stesso editore, la serie di volumi di fiabe, di cui l’ultimo,Fiabe italiane a cura di Italo Calvino (), fa quasi da pen-dant alla antologia di Canti del popolo italiano (Guanda,) di Pier Paolo Pasolini.

Ma neppure un cenno si può fare qui delle numerose pub-blicazioni più strettamente specialistiche per alcune dellequali, oltre alle indicazioni analitiche delle bibliografie delleriviste specializzate più sopra indicate, si possono vedere lerassegne cumulative comparse in «Letteratura» (, n. )e in «Paragone» (, n. ). In cima alla serie delle pubbli-cazioni “meridionalistiche” con dichiarati interessi per ilmondo popolare si colloca, e non solo per ragioni cronologi-

ogni volta il complesso delle classi strumentali e diret-te, ed il patrimonio che esse – appunto per la loro posi-zione politicamente e culturalmente marginale – con-servano come “proprio” (e cioè non più comune, ingran parte, con i gruppi politicamente e culturalmenteegemoni), anche se all’origine fu “di tutti” ed ebbe ma-gari nascita “culta”. “Popolo” e “popolarità” possonodunque prospettarsi non come determinazioni astrattee generiche, ma come termini di un rapporto storica-mente vario, che non sarà tanto da descrivere secondotipologie sociologiche quanto da identificare volta pervolta nello spazio e nel tempo. Quegli stessi caratteri dielementarità, di ingenuità, di anonimia interiore, chesovente vengono assunti come componenti di una“mentalità” popolare sempre in rischio di configurarsiin modo astorico e mitico, escono dalla serie dei “tipi”o degli “archetipi” e si rinvengono concretamente al-l’interno della storia stessa come momenti forse identi-ci “formalmente”, ma in realtà sostanziati ogni volta dicontenuti storicamente diversi.

Nota

Non è qui possibile una analisi, sia pure sommaria, della ri-presa di interessi per il mondo popolare che si è verificata neldecennio che ci divide dalla fine della guerra.

Si può appena accennare che, in campo più strettamentespecialistico, oltre alla istituzione di cattedre universitarie a

«Società» (v. l’Indice decennale, p. , e, per rinvii a scritticomparsi su altri periodici, cfr. il n. del , p. , della ri-vista); quella su studi etnologici e storicismo in «La Lapa»(, nn. e ); quella su folklore e crocianesimo («La La-pa», , p. ; , pp. , , ; «Lo Spettatore Italia-no», aprile e luglio ; «Belfagor», , n. ; «Società»,, p. ; «Nuovi Argomenti», , n. ; «Lares», ,fasc. -), che si è legata all’altra sugli studi meridionalisticicon particolare riferimento alla indagine culturale sul mon-do popolare e sulla “civiltà contadina” («Nord e Sud», ,p. ; «Cronache meridionali», , p. ; «Nuovi Argo-menti», , n. , ecc.); quella sulla musica popolare («No-tiziario Einaudi», , nn. -).

Ma è inutile continuare una così arida elencazione; la ma-teria meriterebbe invece di essere distesamente trattata conl’ampiezza analitica che qui non è consentita2.

che, il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (); ma sa-rebbero da ricordare poi almeno gli scritti “lucani” di Erne-sto De Martino e quelli “sardi” di Franco Cagnetta in «So-cietà» e in «Nuovi Argomenti», fino a Contadini del Sud diRocco Scotellaro (), per dire solo delle cose più note.

Ed a riprova dell’interesse generale per siffatti argomentiandrebbe rammentata l’assegnazione di premi letterari, ol-tre che all’opera di Scotellaro (Viareggio), agli Indovinellipopolari siciliani di Vann’Antò (Viareggio, ) e alle Tradi-zioni popolari in Lucania di Giovanni Bronzini (Mezzogior-no, ). Ma si dovrebbero poi aggiungere gli interessi perl’architettura cosiddetta “spontanea” o “popolare” da partedi riviste come «Comunità», «Casabella-Continuità», «Ur-banistica», che si aggiungono agli studi più tecnici di archi-tettura rustica promossi da Renato Biasutti.

Come si vede da questi sommari ed incompletissimi ac-cenni l’elencazione non sarebbe breve; e di molto si allun-gherebbe se poi si dovesse dar conto specifico degli interessiper la poesia dialettale che in qualche modo si collegano allaattenzione per il mondo popolare tradizionale (si ricordinoqui, oltre alla Poesia dialettale del Novecento di Mario del-l’Arco e Pier Paolo Pasolini, le inchieste di «il Belli», la rivi-sta di poesia dialettale diretta da Mario dell’Arco, e della«Lapa»), o della pubblicazione di autobiografie contadine odi scritture di illetterati (particolarmente in «Nuovi Argo-menti»).

E più complessa diverrebbe l’elencazione se ci si accinges-se a riferire anche sommariamente le diverse discussioni chesi sono variamente intrecciate: anche tralasciando il dibatti-to su Gramsci e il folklore (cfr. «Lares», ; «Società», ,n. ) sarebbe da ricordare quella sul mondo contadino in

2 Dopo il sono poi tornato più volte sulla storia dei nostristudi in quegli anni. Oltre a Cultura egemonica e culture subalterne(Palumbo, Palermo e ristampe) vedi tra l’altro Il Canzoniereitaliano: Pasolini studioso di poesia popolare (In: Lezioni su Pasolini,a cura di Tullio De Mauro e Francesco Ferri, Sestante, Ripatranso-ne , pp. -), Italo Calvino studioso di fiabistica (in Inchie-sta sulle fate. Italo Calvino e la fiaba, a cura di Delia Frigessi, Lubri-na, Bergamo , pp. -), Per Rocco Scotellaro: letizia, malinco-nia e indignazione retrospettiva (in «SM Annali di San Michele», ,, pp. -).

Scritti sardi -

Le lettere minuscole (a, b, c…) aggiunte alla cifra della data, anche seapparentemente discontinue e casuali, corrispondono con sistematicitàalla collocazione che gli scritti trovano nella bibliografia a stampa curatada Eugenio Testa (vedi a) e nelle sue continuazioni informatiche.

zh Miele amaro [di Salvatore Cambosu], «La La-pa», -, pp. - [firmato a.m.c., su: S. Cam-bosu, Miele amaro, Firenze ]

zi Documentari cinematografici sulla Sardegna [diFiorenzo Serra], «La Lapa», -, pp. - –[firmato a.m.c.]

b Introduzione allo studio della poesia popolare inSardegna, Università di Cagliari, dispense per ilcorso di Storia delle tradizioni popolari, a.a./

b Alcune questioni terminologiche in materia di poe-sia popolare sarda: mutu, mutettu, battorina, taja,«Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia e diMagistero dell’Università di Cagliari», , ,pp. - [Poi in appendice alla ristampa ana-statica di c, e successivamente incluso in

Usi della mietitura (h); Usi e credenze legatial primo giorno di maggio (i); Termini metri-ci sardi (d); Cerimonie e credenze tradizionaliper S. Giovanni Battista (in collaborazione conEnrica Delitala, b) [poi anche in «Bollettinodel repertorio e dell’atlante demologico sardo»,m]; Tipi e denominazioni del pane (e);Nenneri, nenniri, erme, elme (in collaborazionecon Enrica Delitala, v); Narrativa tradiziona-le sarda (in collaborazione con Enrica Delitala(a)

c Poesia sarda e poesia popolare nella storia deglistudi, Gallizzi, Sassari [poi in ristampa ana-statica, Edizioni T, Cagliari ]; con l’aggiun-ta di indici; riproduce il testo già pubblicato in«Studi sardi», , /, pp. -

a L’assegnazione collettiva delle sorti e la disponibi-lità limitata dei beni nel gioco di Ozieri e nelleanaloghe cerimonie vicino-orientali e balcaniche,in Atti del Congresso di studi religiosi sardi, Ca-gliari - maggio , CEDAM, Padova ,pp. - [fotocopiato in b; ristampato inFolklore e analisi differenziale di cultura, a cura diDiego Carpitella, Bulzoni, Roma , pp. -; poi parzialmente in: Vincenzo Padiglione,L’amicizia. Storia antologica di un bisogno estra-niato, Savelli, Roma , pp. -; riprodottoin a]

a con qualche adattamento e col titolo Que-stioni terminologiche: mutu, mutettu, battorina,taja]

f Notizie etnografiche sulla Sardegna del ’700 nel-l’opera di Matteo Madao, «Rivista di etnografia»,, , pp. - [poi in «Bollettino del reper-torio e dell’atlante demologico sardo», (),pp. -, con note aggiornate, e di lì fotocopia-to in b]

b Un gioco cerimoniale del primo maggio in Sar-degna: tentativo di analisi, «Nuovo bollettinobibliografico sardo», , [Versione ampliatadella comunicazione Essai d’analyse d’un jeu cé-rémoniel du premier mai en Sardaigne: ‘cantare sumaju’ inviata al VI Congresso internazionale del-le scienze antropologiche ed etnologiche tenuto-si a Parigi (vedi Actes du VIe Congrès ecc.,Parigi, , v. ., to. ., pp. -). Il testo del venne riprodotto in a]

c Nenneri, Questionario dattiloscritto, Universitàdi Cagliari [poi in «Bollettino del repertorio edell’atlante demologico sardo», (); comin-cia qui una serie di questionari ciclostilati o dat-tiloscritti di cui segue l’elenco: Primo sondaggiointorno ai canti narrativi profani (d); Primosondaggio intorno ai canti religiosi di caratterenarrativo (e); Riti tradizionali e credenze pers. Giovanni Battista, f; Tipi metrici (g);

sarda, «Bollettino del repertorio e dell’atlante de-mologico sardo», , , pp. -

l Considerazioni sul mondo tradizionale sardo, inSardegna, Electa, Milano , pp. - [poianche in «Bollettino del repertorio e dell’atlantedemologico sardo», , (/), pp. - e inGiannetta Murru Corriga (a c. di), Etnia linguacultura, EDES, Cagliari , pp. -]

e I fatti demologici: ricerca storica o analisi struttu-rale?, in Ricerca scientifica e mondo popolare, At-ti del Convegno di studi demologici Aspetti eprospettive della ricerca demologica in Italia, Mes-sina - gennaio , Manfredi, Palermo ,pp. -

f Grazia Deledda e il mondo tradizionale sardo,«Problemi», /, , pp. -, [poi inConvegno nazionale di studi deleddiani, Fossata-ro, Cagliari , pp. -; in «Bollettino delrepertorio e dell’atlante demologico sardo»,

(/), pp. -, col titolo Grazia Deledda el’integrazione del mondo sardo nella cultura delcontinente; e infine in a, pp. -, col titoloGrazia Deledda: rappresentatività isolana e inte-grazione del mondo sardo nella cultura ufficialedell’Italia unita]

h Per lo studio dell’arte plastica effimera in Sarde-gna, in z, pp. - [pubblicato anche in

b Sardegna: folklore. Mito e realtà storica, in Tutti-talia. Enciclopedia dell’Italia antica e moderna,, , pp. - [ristampato in d]

a Struttura e origine morfologica dei mutos e deimutettus sardi, Gallizzi, Sassari [già in «Stu-di sardi», (/), pp. -; poi in ristam-pa anastatica (Edizioni T, Cagliari ) assie-me a b, e successivamente incluso in a]

e ‘Su ussertu’: un appuntamento con il folklore del-la Sardegna. Balli, antichi cori e canti del mattinodi un mondo musicale ancora ignoto, «Radiocor-riere», , , p.

d Le suggestioni della poesia tradizionale dietro lamaschera di un gioco ardito, Intervista a cura diMario Ciusa Romagna, «Unione sarda», otto-bre

l Presentazione del BRADS, Bollettino del Reperto-rio e dell’Atlante Demologico Sardo, «Bollettinodel repertorio e dell’atlante demologico sardo»,, , pp. -

p Gli Aggius: Coro del Galletto di Gallura, presen-tazione di copertina del disco DS / CL, “I Di-schi del Sole”, Edizioni del Gallo, Milano

x Per una storia degli studi di musica tradizionale

b1 Dal gioco di Ozieri al numerus clausus dei Beatidanteschi: tentativo di tipologia ideologica. Ap-punti , in b. Rielaborazione in italiano deltesto francese presentato al Simposio internazio-nale Strutture e generi delle letterature etniche,Palermo [vedi f]

d Le pubblicazioni folkloriche di Grazia Deledda ela lettera del a ‘Vita Sarda’, «Bollettino del re-pertorio e dell’atlante demologico sardo», ,, pp. - [ristampato in a, pp. esgg.]

a Intellettuali, folklore, istinto di classe. Note suVerga, Deledda, Scotellaro, Gramsci, Einaudi, To-rino

a Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine,Einaudi, Torino [ristampa: , “PiccolaBiblioteca Einaudi Nuova Serie”]

a1 Arte plastica effimera: i pani sardi, in a, pp.- [riproduce h con l’aggiunta di un Po-scritto]

c Struttura e origine morfologica dei mutos e deimutettus sardi, Edizioni 3T, Cagliari [rist.anast. di a eb]

f Formalisation et typologies idéologiques: du jeu desort d’Ozieri au numerus clausus des bienheureux

«Bollettino del repertorio e dell’atlante demolo-gico sardo», (/), pp. - e ristampatocon aggiunte e titolo cambiato in a; ripro-dotto parzialmente col titolo Il pane e la poesia inPani e dolci in Marmilla, Mostra e catalogo a cu-ra di M.G. Da Re, STEF, Cagliari , p. ]

z Plastica effimera in Sardegna: i pani, a cura di Al-berto Mario Cirese, Enrica Delitala, Giulio An-gioni, Chiarella Rapallo, Tonino Casula, Assesso-rato all’Industria della Regione Autonoma dellaSardegna, Cagliari [poi in ristampa anastati-ca col titolo Pani tradizionali. Arte effimera inSardegna, EDES, Cagliari ]

n [Intervento su Grazia Deledda], in Convegno na-zionale di studi deleddiani, Fossataro, Cagliari, pp. -

r Presentazione del disco Is Launeddas: ricerca suuno strumento musicale sardo condotta sul cam-po da A.F. Weis Bentzon nel - e , in“I Dischi del Sole”, DS /, Milano , Edi-zioni del Gallo, (alle pp. - del fascicolo diaccompagnamento al disco) [anche in BRADS,/, n. , p. ]

b Materiali per il seminario sulle analisi formal-strutturali e di tipo semiologico, Università di Ro-ma, dispense per il corso di Antropologia cultu-rale I, a.a. / e /

des moyens de production dans les sociétés euro-péennes’, Aix-en-Provence -//)

a Ragioni metriche. Versificazioni e tradizioni orali,Sellerio, Palermo

c Giochi in cielo e in terra, «Mondo operaio», ,, pp. - [stesura rivista di f]

b Dal gioco di Ozieri al numerus clausus dei beatidanteschi. Tentativo di tipologia ideologica, «Bol-lettino del repertorio e dell’atlante demologicosardo», , , pp. - [f]

d Isole, isolanità, isolamento, in Isole. V rassegnainternazionale di documentari etnografici e an-tropologici. Nuoro, - ottobre . Catalogo acura di Paolo Piquereddu, Nuoro , pp. -; alle pp. - la traduzione in inglese col tit.Islands, insularity, isolation [ristampato in a,pp. -]

e Il pane cibo e il pane segno, In L’Uomo, , ,pp. -, e in Il pane, a c. di Cristina Papa, Elec-ta, Milano , pp. - [ristampato in a,pp. -]

h Lettera a Tonino Cau, in Tonino Cau, Versos decuncordia. Storia e canzoni del Coro di Neoneli,Condaghes, Sassari , pp. -

de Dante, in Atti del simposio internazionale, Pa-lermo - aprile , Flaccovio, Palermo ,pp. -, -; altri interventi alle pp. ,, -, , -, , [vedi: b,n, c, b, c]

l Raffa Garzia e la poesia popolare, «Bollettino delrepertorio e dell’atlante demologico sardo», ,, pp. - [fotocopiato in b]

b Mondo culto e mondo popolare dal ’400 all’ ’800,Università di Roma, dispense per il corso di An-tropologia culturale I, a.a. /, a cura di San-dra Puccini

c La cultura popolare della Sardegna: una chiave dilettura, in La Sardegna, a cura di Manlio Briga-glia, Della Torre, Cagliari , vol. , pp. -

a Il gioco di Ozieri e altre analisi formali, Universi-tà di Roma, dispense per il corso di Antropologiaculturale I, a.a. /

a Il gioco di Ozieri: quadro preliminare, in a[stralcio da e]

e [Interventi sul Gioco di Ozieri] alle pp. , ,, , -, - di Ethnologie française,/, (Atti del Colloquio della Sociétéd’Ethnologie française ‘Loterie, jeux de hasardet assignation aléatoires des biens, des sorts et

d Tra cosmo e campanile. Ragioni etiche e identitàlocali, a c. di Pietro Clemente, Gianfranco Mol-teni, Eugenio Testa. Postfazione di AlessandroMancuso, Protagon, Siena

g Introduzione, in Giacomo Mameli, Non avevo unsoldo. La Sardegna di ieri. La Sardegna operosa dioggi, CUEC, Cagliari , pp. -

i Ricordo di Marcel Maget, in Marcel Maget, Il pa-ne annuale. Comunità e rito della panificazionenell’Oisans. A cura di M. L. Meoni, Carocci, Ro-ma , pp. -

c Pani di Sardegna, in Pani. Tradizione e prospetti-ve della panificazione in Sardegna, Ilisso, Nuoro, pp. - [riproduce a con una premes-sa che è datata «Roma, settembre » ed è illu-strata con due fotografie]

c Du jeu d’Ozieri au numerus clausus des Bienheu-reux de Dante. Essai d’une typologie idéologique,«L’Homme», , , pp. - [per il testo initaliano vedi a]

a Il dire e il fare nelle opere dell’uomo, con prome-moria bibliografico degli scritti dell’Autore a c. diE. Testa, Bibliotheca, Gaeta (Athenaeum, .Università degli Studi di Siena, Pubblicazioni delDipartimento di Filosofia e Scienze Sociali, )

a1 Dal gioco di Ozieri al numerus clausus dei beatidanteschi. Tentativo di tipologia ideologica, ina [trad. it. di c]

z Nascosta da veli mi guardi: un trintasex falso e ve-ro, inedito: testo inviato al Convegno “Modas:storie, forme e contesti dei canti lunghi dellapoesia popolare isolana” tenutosi a Ghilarza il dicembre

l Breve memoria di cibi tra Molise e Sardegna, inCibo. XI rassegna internazionale di film etnogra-fici. Nuoro, - dicembre . Catalogo a curadi Paolo Piquereddu. Nuoro , pp. - [al-le pp. - la traduzione in inglese col tit. Briefmemories of food between Molise and Sardinia;poi anche in L’Apollo buongustaio. Almanaccogastronomico per l’anno 2004, Nuova serie, [s.e.],Roma , pp. -

INDICE ANALITICO

abiti, , , , , , , ,

Adone,

affèlthas,

Aggius, ,

Alghero, , , ,

ALIGHIERI DANTE, , ,

ANGIONI GIULIO, , , ,,

ANGIUS VITTORIO, , ,

ARATA GIULIO,

ARIOSTO LUDOVICO,

Aritzo, Armenia, ,

arte del trobear, ,

Assiri, ,

attìtidu, attìttu, , ,

Babilonesi, ,

ballo tondo, , , ,

Barbagia, barbaricini, , ,, ,

Barumini, BASILE GIAMBATTISTA,

bastone di Dio,

battorina, , ,

BELLORINI EGIDIO,

BENTZON ANDREAS F. W.,

berrette di panno,

best’ ’e peddi,

BIASI GIUSEPPE,

BIASUTTI RENATO,

Bibbia,

bizantini, , , ,

borobòi,

boe muliache,

BOULLIER AUGUSTE, ,

BRADS, , , ,

BRESCIANI ANTONIO, , ,, , , ,

DELEDDA GRAZIA, , , ,,

DELITALA ENRICA, , , ,, , ,

DELLA MARMORA ALBERTO,, , , , , , , ,, ,

DEL MONTE ALBERTO,

DE MARTINO ERNESTO,

DE MAURO TULLIO,

DESSÍ GIUSEPPE, ,

Desulo, ,

disamistade,

Dischi del Sole, ,

domus de janas,

elme, erme, ,

Eufrate, ,

Europa, , , , ,

FARA GIULIO, , , ,

Fenici, ,

FERRARO GIUSEPPE,

FERRI FRANCESCO,

Finlandia, ,

FIORI GIUSEPPE,

Fonni,

FRAZER JAMES GEORGE,

Fregene, ,

FRIGESSI DELIA,

gabbani, ,

GALANTI BIANCA MARIA,

GALANTI GIUSEPPE MARIA,, , ,

Galletto di Gallura,

Gallizzi, ,

Galtellì,

GARZIA RAFFA, , , ,

Gavoi,

GHIANI-MOI PIETRO,

Ghilarza, ,

Gigli di Nola,

giochi, , , , , , ,, , , , , ,, ,

Gioco di Ozieri, , , ,, , ,

Giordano, fiume, ,

Giorgia rajosa,

goccius, goigs, gosos, gozos,,

GRAMSCI ANTONIO, , ,

Grecia, ,

GREGORIO MAGNO, , ,,

Gubbio,

in lira,

BRIGAGLIA MANLIO,

BRONZINI GIOVANNI,

BUA MIMMO,

Bulgaria,

Cabras, ,

càbude,

Cagliari, , , , , , ,, , , , , ,, , , , ,

CAGNETTA FRANCO,

Cala Gonone, Calasetta,

CALVINO ITALO, ,

CAMBOSU SALVATORE, ,,

Candelieri di Sassari, , ,

CANEPA FILIPPO,

cantare su maju,

canti narrativi profani e reli-giosi, ,

canzone sestina,

canzoni a curbas,

Capo di sopra e Capo di sot-to,

Capodanno,

Carbonia,

Carloforte,

CARPITELLA DIEGO, , ,

CASALIS GOFFREDO,

Castello,

Castropignano,

CASULA TONINO, ,

Catalogna, ,

CAU TONINO,

Cavalcata Sarda,

Centro Nazionale Studi diMusica Popolare,

Ceri di Gubbio,

chimbantachimbe,

CIAN VITTORIO,

cinerìcia,

CIUSA ROMAGNA MARIO, ,

clamidi, , ,

CLEMENTE PIETRO,

COCCHIARA GIUSEPPE,

collettu,

Condaghes,

Corpus Domini,

Corsica,

couvade, covata,

CRISPONI GIOVANNI,

cuncordu,

DANIELLO ARNALDO,

deghina,

DE GUBERNATIS ANGELO,

DE LA VEGA GARCILASO,

musca macedda, maghedda,ntaghedda, ,

musica, , , , , , ,, , , , , , ,

mutettus, , , , , , ,, , , ,

mutu, , , , , , ,, , , , , , ,

Napoli,

Narcao,

narrativa tradizionale,

NATALETTI GIORGIO,

nenneri, nénniri, , ,

New York, nobiles, , ,

numerus clausus, , ,

Nuoro, , , , , , , ,, , , ,

Nuraghe S. Antine, NURRA PIETRO,

oltados,

Olzai,

Orgosolo,

Oristano, ,

Oronte, ,

Ospitone, , ,

Ottana,

Ottentotti, ,

Ozieri, , , , , , ,, , ,

pane, pani, , , , , ,, , , , , , ,, , , , , ,, ,

PAPA CRISTINA,

parallelismo, ,

Parenzo,

PASOLINI PIER PAOLO, ,,

Pasqua,

PASQUIN ANTON CLAUDE,

patio, ,

pellicce, , ,

perdas fittas,

PEROSA ALESSANDRO,

pesada,

PETRARCA FRANCESCO,

PETRONIO GIUSEPPE,

PETRUSGHI,

PIGLIARU ANTONIO, ,

PINNA GONARIO, ,

pinnettas,

PIQUEREDDU PAOLO, ,

pizza de rantìnie,

Pola, 26

Indonesia, ,

Isili, ,

Irochesi, ,

Isre, , ,

issocadores,

isterria,

janas, , ,

LA MARMORA ALBERTO, ,, , , , , , , ,

Laconi, LAI MARIA,

latrunculi mastrucati,

launeddas, , , , , ,

LAWRENCE DAVID HERBERT,,

LEDDA GAVINO,

LEVI CARLO,

LILLIU GIOVANNI, , ,

Logudoro,

lolla, ,

Lucia rajosa,

Lula,

MADAO MATTEO, , , ,, , , , , , , ,, ,

Madonna di Pietraquaria,

MAGET MARCEL, ,

malloreddus,

Malta,

MAMELI GIACOMO, , ,, , ,

Mamoiada, , , ,

MANCUSO ALESSANDRO,

MANNO GIUSEPPE, ,

MARCHI RAFFAELLO,

Marmilla,

MARROCU LUCIANO,

Marsica,

MASALA FRANCESCO,

mastruca, ,

MAZZELLAMARIATERESA,

MELONI PIERO,

metrica sarda, , , , ,, , , , , , , ,, , , ,

mietitura, ,

modas, , , , ,

Molise, , , ,

MOLTENI GIANFRANCO,

Monte Salviano,

MONTEVERDI ANGELO,

Mores,

MULAS ANDREA,

MURRU CORRIGA GIANNET-TA,

travados, trobeados,

trintases, trintasex, , ,, ,

trobear, ,

Turchia,

Ulisse, Urzulei,

USSANI VINCENZO,

ussertu,

VALERY,

VALLA FILIPPO,

VANN’ANTÒ,

versus transformati,

Via Corte d’Appello,

Vicino Oriente, , ,

vino,

WAGNER MAX LEOPOLD, ,,

zanas,

Zanche Michele,

possessores, , ,

PRESUTTI ERRICO,

pricunta,

primo maggio, , , ,

PUCCINI SANDRA,

Rai, ,

RAPALLO CHIARELLA, , ,

retroga, retrogradatio, retro-gradaciò, ,

RIBARIC JELKA,

Russia,

rustici, , ,

San Costantino,

San Francesco di Lula,

San Giovanni, festa, , ,

San Sperate, ,

Sant’Efisio, , , , ,

Santa Cecilia, Accademia,,

Santa Maria di Corte,

SANTOLI VITTORIO,

sardana,

Sassari, , , , , ,

SATTA SALVATORE,

Scala di Ferro,

SCHIRRU ASSUNTA, ,

SCOTELLARO ROCCO, ,,

SEPPILLI TULLIO,

SERRA FIORENZO, , ,

servi, , , ,

Settimana Santa,

Siddi,

Simaxis,

Sirenetta, Siurgus,

SMYTH WILLIAM HENRY,

Società di Diana,

SOLINAS PEPPINA,

SOLINAS PIER GIORGIO,

SOTGIU GIROLAMO,

SPANO GIOVANNI, , , ,,

stazzo,

sterrimentu,

stroscia,

taja, ,

tappeti, ,

TASSO TORQUATO,

TESTA EUGENIO, , ,

Tonara, Torralba, torrare,

Tortoli,

TOSCHI PAOLO,

INDICE

INDICE

All’isola dei SardiPer un anniversario-

Mezzo secolo dopo

TRE SCRITTI ANTICHI Sardegna tra mito e realtà storica () Il mondo tradizionale isolano

e le sue specializzazioni culturali () Detrattori e panegiristi ()

CINQUE NOTE PIÙ RECENTI Isole, isolanità, isolamento () Nascosta da veli mi guardi:

un trintasex falso e vero () Breve memoria di cibi

tra Abruzzo, Molise e Sardegna () Sardegna, ieri e oggi () Pani di Sardegna ()

APPENDICE Gli studi demologici come contributo

alla storia della cultura ()

Scritti sardi -

Indice analitico