tendenze e stili della moderna gastronomia: come comunicano i migliori chef del mondo!

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Generi e stili della moderna gastronomia Per concludere questo capitolo sulla semiotica del gusto vorrei cercare di riprendere e allargare a questo campo il ragionamento fatto da Floch sulle ideologie pubblicitarie. Marrone, parlando di questo autore, sottolinea come sia necessario distinguere generi e stili. Parlando di cucina: una cosa è il «genere» culinario, altra cosa «lo stile» personale che ogni cuoco, così come ogni pubblicitario, adopera nel costruire la propria declinazione e l’esperienza gustativa di cui si fa enunciatore (Marrone 2001; Floch 1992). Un altro interessante punto di vista è come i diversi generi e stili possano essere usati per classificare tutti gli elementi del mix di comunicazione che, nel nostro caso, diventano: la struttura del ristorante, il menù, i servizi per l’apparecchiatura, la carta dei vini, il servizio in sala.

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Page 1: Tendenze e Stili della moderna gastronomia: come comunicano i migliori Chef del Mondo!

Generi e stili della moderna gastronomia

Per concludere questo capitolo sulla semiotica del gusto

vorrei cercare di riprendere e allargare a questo campo il

ragionamento fatto da Floch sulle ideologie pubblicitarie.

Marrone, parlando di questo autore, sottolinea come sia

necessario distinguere generi e stili. Parlando di cucina: una

cosa è il «genere» culinario, altra cosa «lo stile» personale

che ogni cuoco, così come ogni pubblicitario, adopera nel

costruire la propria declinazione e l’esperienza gustativa di

cui si fa enunciatore (Marrone 2001; Floch 1992).

Un altro interessante punto di vista è come i diversi generi

e stili possano essere usati per classificare tutti gli elementi

del mix di comunicazione che, nel nostro caso, diventano:

la struttura del ristorante, il menù, i servizi per

l’apparecchiatura, la carta dei vini, il servizio in sala.

Page 2: Tendenze e Stili della moderna gastronomia: come comunicano i migliori Chef del Mondo!

Sarebbe importante perciò capire se un genere enunciativo

possa portare alla coerenza di ogni elemento nella

manifestazione per raggiungere un discorso culinario che

restituisca un’unità di senso compiuto. In questo capitolo ho

già cercato di spiegare per quali ragioni la cucina sia un

grande e importante fenomeno semiotico, comunicativo e di

significazione, all’interno del quale ruota una dimensione

enunciativa. Un tipo di cucina, come una pubblicità, può

avere come scopo principale una funzione rappresentativa,

tesa a dar luce alle proprietà e ai gusti delle materie prime,

con un effetto di oggettivazione, oppure può far leva su una

funzione costruttiva che metta in secondo piano le materie

prime utilizzate, per esaltare un’idea o un discorso

(Marrone, Mangano 2013).

Il quadrato semiotico di Floch ci permette di arricchire

queste due posizioni, derivanti l’una da un tipo di linguaggio

referenziale, l’altra da uno strutturalista, con le posizioni

intermedie dei subcontrari: la prima volta a mostrare e far

vivere la sostanza del piatto, per come viene percepita dai

sensi, l’altra che porta invece alla scomparsa vera e propria

della materia prima, che viene elaborata per costruire

qualcos’altro da sé, instaurando una strettissima relazione

con il destinatario di questo «gioco» di mascheramento.

Possiamo quindi proporre un quadrato semiotico che, a

partire dalle ideologie pubblicitarie proposte da Floch e dal

discorso sui generi di marca di Marrone, vada a indagare

quale possano essere i «generi culinari» che danno origine

a differenti idee sul gusto. Cercherò in seguito di inscrivere

in questo quadrato che vorrei rendere il più possibile

dinamico, continuativo e definito nelle sue infinite maglie

intermedie, un «mapping» utile a descrivere ulteriori

sfaccettature del discorso. Infine, con il solo scopo

esemplificativo, collocherò all’interno di questo strumento

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alcuni dei più importanti e premiati chef del mondo (the

world’s best 50 reastaurant) e le loro filosofie di cucina per

delineare, a grandi linee, le principali tendenze culinarie dei

maestri della ristorazione dei nostri tempi più recenti

(2013).

Ovviamente in cucine così complesse sarà ancora più

evidente ciò che Jakobson (1966) ha detto sui testi

comunicativi. Le dimensioni discorsive (pragmatica,

passionale, cognitiva ed estetica) saranno tutte presenti

all’interno di un enunciato; è perciò sbagliato pensare alle

posizioni del quadrato come esclusive, ma lo scopo è quello

di individuare l’intento comunicativo dominante che uno

chef, proveniente da una certa cultura, società, percorso

individuale e professionale, vuole esprimere. Capire gli

obiettivi comunicativi principali di una cultura culinaria è

utile ad inquadrarla in relazione alle altre e ritrovare i

significati profondi che la muovono. Ogni cultura per

Lotman si definisce proprio in base ai discorsi e ai valori che

pone come dominanti (1985). Partire da questi valori è utile

per risalire in superficie attraverso un percorso generativo

che si manifesterà nell’espressione culinaria.

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Fi

g. 26 Ipotesi di quadrato semiotico sui «generi culinari», sul

modello di J. M. Floch 1992

Fig. 27 Ipotesi di quadrato semiotico iscritto nel mapping sui

«generi culinari», unendo il mapping semiotico di A. Semprini

1997 e il quadrato semiotico di J. M. Floch 1992

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La cucina referenziale potrebbe essere definita

oggettivante perché vuole mostrarci il piatto nella sua

essenza, dimostrandoci cosa «sanno» e possono fare le

materie prime che lo compongono. Queste vengono

esaltate nella loro essenza, restando sempre naturali senza

essere trasformate o mascherate da processi come la

liofilizzazione.

Tipico della cucina tradizionale, potremmo ritrovare in ogni

occorrenza caratteristiche consolidate, isotopie radicate e

prevedibili, realizzate a regola d’arte. Gli elementi saranno

sensorialmente percepibili sul piano dell’espressione e

rimanderanno ad una dimensione culturale e sociale. Ma il

messaggio non sarà di tipo poetico o emozionale, ma di

valori pratici. Il cuoco enunciatore sarà praticamente

assente nel processo di enunciazione, delegando ad una

terza persona il ruolo di narratore. Diventerà piuttosto un

fotografo reporter di una realtà. La cucina è qui un’arte

pragmatica che userà per lo più materie prime «di qualità»,

sane, naturali, sicure, affidabili, salutari, nutritive, digeribili,

leggere, equilibrate nel piatto, ecosostenibili, biologiche, a

chilometro zero. La forma di vita che questo chef evoca è

quella di una persona immersa nella sua quotidianità, nel

proprio contesto d’uso.

Questa cucina neo-realista crea un’esperienza gustativa

tesa a trasportare l’enunciatario in un mondo fatto di

situazioni reali e valori concreti che costui può riconoscere

come propri. Saranno ben descritti i piatti già dal menù

(magari anche in maniera iperbolica), evitando effetti

sorpresa, costruzioni complesse, o dispersioni in profondità;

le articolazioni spazio-temporali non verranno mai forzate e

l’attorializzazione degli alimenti cercherà di essere lineare

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nel proporre una fruizione chiara che farà leva sul concetto

comunicativo espresso (Marrone 2007; Floch 2006;

Landowsky 2000; Manetti 2006; ).

Si afferma nella cucina referenziale, tramite il processo di

implicazione (non y implica x), la cucina sostanziale.

Altrettanto concreta nel vivere immersa nelle materie e

nell’essenza degli ingredienti, ha però una forte tendenza al

dinamismo e all’innovazione nel cercare di costruire

un’esperienza polisensoriale.

Lo chef cercherà quindi in primo luogo di esaltare la

piacevolezza dell’assaggio, gratificare l’occhio attraverso

un’estetica raffinata e riempire tutti gli altri sensi per far

vivere fino in fondo il piatto. Ritroviamo in quest’ambiente

la «nouvelle cuisine» e l’influenza dello chef Bocuse, che si

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contrappongono alla «cuisine classique» per la volontà di

stimolare tutte le percezioni e principalmente gratificare la

vista. E’ il mondo delle qualità materiche, della fisicità, dei

sensi, del corpo che vive un’esperienza tutt’altro che

onirica o immaginaria. Al centro del piatto non ci sono idee,

costruzioni, valori, ma consistenze, colori, odori, sapori,

luci, materie e suoni. Il corpo propriocettivo scopre tutto

ciò, mettendosi in relazione con quell’oggetto e facendolo

percepisce se stesso. Per realizzarlo lo chef avrà bisogno di

materie prime particolarmente evocative dal punto di vista

delle sensazioni che richiamano. Il piatto sensibile e le

materie prime scelte sono il vero eroe di questa esperienza

di degustazione. Lo chef, che prima ancora è esploratore e

biologo (alla ricerca di piante e aromi particolari) delega alla

sua creazione il compito prima di dividere e frammentare,

poi di ricongiungere l’individuo fisico con il mondo naturale

o culturale e quindi con se stesso.

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Negare il regno dei bricoleur che si basa sul pensiero

concreto, sensibile, corporeo, che è già presente nel

significato e nella funzione delle cose, significa entrare nel

regno degli chef ingegneri.

Grignaffini in questo senso parla di cucina concettuale.

L’ingegnere è l’artista che progetta il suo piatto a tavolino;

per lui le materie e le creazioni hanno senso solo se è lui a

darglielo. Non si tratta quindi di trasformare,

risemantizzare, attualizzare, modificare, ma piuttosto

costruire qualcosa che vada ad esplorare nuove frontiere,

concezioni, idee di gusto. Siamo nell’ambito della

dinamicità, dell’esplorazione, della rivoluzione che parte

dalla mente. La tendenza è quella alla realizzazione di se

stessi, al tentativo di piegare la vita alle proprie esigenze

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celebrali. Questi geni della creazione si muovono tra logica

pura, matematica e delirio creativo e poetico. Lo stesso

Bottura, chef pluristellato del ristorante «Osteria

francescana» di Modena, ha come scopo quello di guardare

in maniera critica alle tradizioni per poi cercare di superarle

e rivoluzionarne i sapori.

Fig.28 “L’agnello di Dio” dello chef simbolista e avanguardista Mas

simo Bottura.

Questo avverrà negando ogni praticità e concretezza, creando

enigmi da risolvere all’interno del piatto, fili da districare,

labirinti da sciogliere, giochi di mascheramento, investigazioni

da compiere. Se questa cucina ha una filosofia prettamente

egoriferita, non possiamo dire però che non attribuisca un

ruolo fondamentale al destinatario. Questi è parte attiva di

questo processo fatto dall’esperienza non più solo gustativa,

ma soprattutto cognitiva. La sanzione finale che il piatto

enunciatore decreterà sarà quella di un «saper fare», essere

stati in grado di trovare «il bandolo della matassa». Non

mancano in questo gioco di trucchi e indizi alcuni richiami,

citazioni colte e metalinguaggi, di fronte ai quali l’enunciatario

deve compiere un altrettanto difficile sforzo cognitivo di

completamento, di preparazione preliminare sull’idea di cucina

dello chef, di completamento interattivo laddove viene

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chiamato in carico. Il valore di questa «cucina obliqua» sta nel

fatto che chi la sperimenta deve riuscire a coglierne le sottili

vene intellettuali assumendone una prospettiva e un punto di

vista inusuale. È questo il regno della gastronomia molecolare

di Ferren Adrià, chef basco considerato il capostipite del

genere, e del suo desiderio di provocare, sorprendere e

deliziare con contrasti continui di sapori, temperature e colori.

Il cliente ideale del suo precedente ristorante El Bulli «non vie

ne per mangiare, ma per provare un’esperienza» (Adrià 2009),

che lui stesso ha architettato nel suo laboratorio di Barcellona

«El Taller».

Fig. 29 Laboratorio creativo “El Taller” di Barcellona guidato da

Ferran Adrià

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Negante la cucina sostanziale, contraria a quella

referenziale e implicata dalla cucina obliqua, è infine la

gastronomia mitica. Questa rappresenta l’arte di

costruire un’esperienza emozionale gastronomica: si

prefigge di trasportare il cliente in un mondo immaginario

che gli permetta di riconoscere la propria identità, storia,

ma anche di condividere sogni e desideri. L’astrattezza e la

massima virtualità da una parte, la sinestesia che trasforma

la materialità dell’esperienza corporea in viaggio mentale,

in mood, ma anche la tendenza al controllo (possiamo

ritrovare qui gran parte della «cucina del ritorno»)

dall’altra. Il piatto diventa un pretesto per far rivivere un

mondo fatto di sogni e ambizioni che lo chef può

condividere con il suo pubblico traghettandolo, attraverso i

sapori, verso un percorso passionale canonico. Come per

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seguire una sirena costui si sgancerà dall’istanza

enunciativa spazio-temporale, dall’ àncora fornita dal

proprio corpo fisico, per abbandonarsi ai piaceri della

mente, delle sensazioni, dell’amore per la famiglia o per

l’innamorato. Le rime, l’enfasi, lo stupore che ammanta, il

mistero che avvolge tutto, a differenza della cucina

referenziale, sono improntati a dare al piatto ciò che

fisicamente non possiede, per riempirlo di valore aggiunto,

di passione.

Abbiamo finora parlato di generi culinari che racchiudono

alcuni tratti comuni, insiemi valoriali, operazioni di

produzione che portano alla costruzione di ideali sociali di

cucina. Se questi delimitano degli ambiti, delle cornici

comunicative entro cui spaziare, è proprio a partire da essi

che ogni grande chef muove per ridisegnare e ritagliarsi un

proprio stile discorsivo e riuscire così ad esprimere se

stesso mettendosi in relazione con un pubblico che apprezzi

e riconosca quella particolare sensibilità.

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Esponente straordinario della cucina referenziale è per

esempio lo chef svedese Magnus Nilsson del ristorante

Fäviken Magasinet. Facente parte della generazione dei

giovani chef che la critica internazionale ha ribattezzato

come «l’onda del nord», lui definisce la sua cucina come

«Rektun food» (cibo vero), fortemente radicata alla sua

terra, alle tecniche naturali di conservazione e artigianato

alimentare, alla natura e ai prodotti che offre. Il rispetto

degli ingredienti nella loro forma base, spesso frutto di una

ricerca e di una caccia che compie lo stesso cuoco nei

boschi delle lande sperdute e rigide a nord di Stoccolma, si

aggiunge alle conoscenze tecniche straordinarie, utili per

massimizzare il potenziale delle materie prime.

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L’autore di questa cucina artigianale e rurale, rifiuta tutto

ciò che è folklore o moda, sostenendo sempre e solo il

prodotto, rispettato nei suoi tempi e spazi, mai sottomesso

alle leggi del mercato o alle esigenze umane. Le mani

diventano quindi lo strumento d’arte di questa cucina

iperrealista che manipola ingredienti «salvati dalle

intemperie» (scrive lo stesso chef) per metterne in luce

l’essenza pura; mani quindi che si sostituiscono appunto

alle siringhe, tipiche della cucina molecolare.

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Fig. 30 Capesante “Ur skalet i elden” (dal guscio nel fuoco) dello

Chef svedese Magnus Nilsson del ristorante Fäviken Magasinet:

legna di betulla per creare la brace, rami di ginepro fresco e

muschio sono le basi per creare questa apparentemente semplice

ricetta naturale di cucina referenziale.

Fig. 31 Fäviken Magasinet, 12 esclusivi coperti nei boschi remoti del

Nord della Svezia

Ferren Adrià, padre della cucina d’avanguardia creativa, usa un

approccio opposto a quello dello chef svedese. La sua arte

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celebrale rispecchia i temi della cucina obliqua nell’utilizzo di

tecniche ricercatissime e innovative di laboratorio che

muovono allo scopo di scomporre il piatto nei singoli elementi

per poi riassemblarlo attraverso nuovi stampi creativi. I

paragoni con il cubismo non tardano ad arrivare, chiaramente,

e con questi gli sviluppi di nuove tecniche (frutto di importanti

investimenti nella ricerca) che creano mondo nuovi. Gli

strumenti utilizzati sono principalmente quelli della chimica e

della fisica, mentre il prodotto, smaterializzato, deve proiettare

il pubblico in mondi diversi e pieni di magia ad ogni portata.

L’interazione, la comunicazione sul cibo e sulla vita, la

riflessione, il gioco dinamico e attivo è ciò a cui il cliente non

può non partecipare.

Riprendendo gli archetipi elaborati da Y&Rchetypes, saremmo

così passati da un guerriero-guardiano della natura svedese a

un mago-creativo basco.

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Nella prossima tappa, a cavallo tra i generi citati, troviamo

il massimo esponente della cucina brasiliana: Alex Atala,

capace di portare in cucina la biodiversità dell’Amazzonia

per svelare alimenti fin’ora inesplorati, contribuendo alla

ricchezza culturale, sociale di alcune zone produttrici

(fornendo una nuova fonte di reddito) e naturale. La sua

cucina potrebbe essere sintetizzata dal tipo di cottura che

usa prevalentemente: la putrefazione (stadio intermedio tra

crudità e cottura secondo Lévi-Strauss).

Stare a metà strada tra queste due cotture significa

attingere dalla natura, dal locale, dall’indigeno che non è

stato contaminato dalla modernità, che non ha bisogno di

ingredienti di lusso, per poi lavorarli con tecniche moderne

ed estrarne tutto il potere seduttivo. Allo stesso tempo

significa stare a metà strada anche tra una cucina

referenziale per alcuni aspetti materiali e sociali e una

obliqua, costruendo un ponte tra un mondo di sapori e gusti

inesplorati e una cultura moderna occidentale che ha

bisogno di nuovi elementi per arricchirsi e continuare a

crescere.

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Fig. 33 Crema di barbabietola refrigerata, mandarino, priprioca,

foglie dell’Amazzonia con calamari freddi; ingredienti della

tradizio-ne come la priprioca ed esplorazione di luoghi vergini al

servizi di una cucina innovativa e divertente. Tutto questo al

D.O.M di San Paolo, Brasile di Alex Atala.

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Lo chef sostanziale per eccellenza non poteva che essere il

maestro giapponese Narisawa, famoso per le sue creazioni

polisensoriali, gli accostamenti tra opposti gustativi (dolce e

salato) e l’estetica avvolgente. Anche la sua filosofia è una

sintesi straordinaria tra il mondo tradizionale orientale,

svincolato dalle pesanti restrizioni, ma riempito di tempi,

colori, silenzi propri e la cucina d’autore europea.

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I temi della natura (terra, acqua, fuoco, foreste e carbone)

ed il rapporto con le materie prime e le stagioni,

trasportano l’individuo in un mondo bello e malinconico. I

sensi, che vengono esaltati uno per uno, permettono di far

rivivere nel piatto la natura delle cose che l’uomo stesso ha

ucciso per poi riassorbirne la forza vitale, promuovendo così

anche il concetto di sostenibilità.

Fig 34. Uno spettacolo di gusto. Il "Suzuki" è una spigola di mare

con cavolo, asari e vongole avvolta in un sacchetto e aperta di

fronte agli occhi del cliente, lasciando sprigionare il calore e

profumo intenso; un minuto di spiegazione approfondita da parte

del personale e voilà, la magia dei sensi è servita.

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Tra un esploratore carioca e un saggio samurai della cucina

della percezione, potremmo collocare uno chef bistronomo

spagnolo, Azpitarte, maestro culinario in un locale

minimalista Parigino. Diversamente dagli altri grandi chef

stellati come lui, il suo progetto è certamente meno

ampolloso, viene ricercato l’impatto immediato del gusto e

della creatività, al cui servizio troviamo materie prime

sceltissime. Tecnica, precisione ed essenzialità, idee

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complesse rese con semplicità e chiarezza sono le carte

vincenti di questo laboratorio creativo, tutto teso a far

innamorare il proprio pubblico già dal primo sguardo. Ciò

che ricrea l’autore in quasi ogni piatto è un viaggio, uno

schema passionale tipico della tradizione folkloristica, ma

allo stesso tempo anticonformista rispetto all’attuale

modello prevalente. Due sapori principali, due schemi

valoriali, che prima si scontrano dando vita ad una

battaglia, ad un’esplorazione dinamica e contrastante, per

poi ritrovarsi, capirsi, innamorarsi dentro la mente

dell’assaggiatore e infine venire sanzionati nell’unione tipica

del matrimonio. È una cucina che fa sognare e per questo

innamorare del suo romanticismo (altro archetipo

jungiano), connotandosi principalmente come mitica.

Fig. 35 «Agnello bietole e shizo» (ingrediente giapponese):

questa una delle creazioni di Iñaki Aizpitarte chef «bistronomo»

de Le Chateaubriand Paris, France

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Padre autorevole (ultimo archetipo) della cucina nordica è il

pluripremiato «chef vichingo» Redzepi. Amante della

propria terra cerca di farla rivivere in ogni portata; anzi,

nella scelta del piatto stesso che diventa un contenitore o

«ciotola» trovata nell’artigianato locale dei luoghi stessi dai

quali provengono le materie prime. Da una cultura quindi

che viene da lontano, fatta di coltivazioni naturali e

genuine, freschezza (anzi freddo, visto che stiamo parlando

della Scandinavia), aria pungente, messe al servizio di un

talento raffinato e un’anima volta alla sperimentazione.

L’omaggio delle sue creazioni è alla terra e al mare, madri

dei frutti che lo chef serve. Autore di una cucina mitica,

vuole riportarci alle origini, in quei paesaggi, quelle

tradizioni e quei suoli.

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Fig.36 «Asparagi e abete rosso»: creazione con firma di René

Redzepi. L'uomo dietro il menu del Noma di Copenaghen in una

delle più semplici ed evocative ricette del suo ristorante.

Quadrato semiotico iscritto nel mapping dei

principali stili culinari

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