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TERZA PARTE: CASE-STUDY

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I nuovi mendicanti: accattonaggio ed elemosina nella società post-industriale

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"Il povero sostenti il ricco con le fatiche,

il ricco sostenti il povero con la limosina"

Giovanni Piero Pinamonti, da La causa de' ricchi, ovvero il debito ed il frutto della limosna,

Bologna, 1697.

I nuovi mendicanti: accattonaggio ed elemosina nella società post-industriale di Walter Nanni e Laura Posta

I. FONDAMENTI TEORICI E PREMESSE CONCETTUALI

1. Premessa Le definizioni tradizionali di accattonaggio reperibili nei dizionari della lingua italiana fanno

riferimento ad una situazione che appare ormai superata dalla realtà dei fatti. Ad esempio, il dizionario Zingarelli,1 alla voce "Accattone", cita: "chi vive mendicando abitualmente lungo le strade". In tale definizione, la limitazione dell’accattonaggio alla sola presenza su strada è limitativa rispetto alle attuali caratteristiche del fenomeno, che di fatto si estende oltre la dimensione della strada, spingendosi in luoghi diversi, anche non aperti al pubblico, fino ad introdursi in spazi familiari e domestici. Inoltre, il riferimento al “vivere mendicando” lascia intendere una concezione di mendicità come modalità primaria di sopravvivenza, mentre allo stato attuale sono individuabili tutta una serie di situazioni in cui l’accattonaggio è praticato assieme ad altre forme di lavoro e di occupazione, anche irregolare e occasionale.

La semplice osservazione delle moderne configurazioni del fenomeno dell’elemosina dimostra come il fenomeno si sia nel tempo estremamente diversificato, assumendo caratteri complessi, spesso al confine con altre specifiche situazioni di devianza e disagio sociale. Anticipando alcuni dei temi che verranno trattati all’interno del presente capitolo, possiamo affermare che l’accattonaggio di tipo tradizionale, fondato sulla semplice richiesta di un’offerta di denaro senza alcun tipo di contropartita, non è la forma più diffusa di elemosina, dato che con una certa frequenza si stanno diffondendo nuove tipologie di elemosina, attuate da soggetti appartenenti a gruppi sociali molto diversi tra di loro, attraverso metodologie e strategie che tengono conto di una serie di elementi caratteristici del territorio di riferimento (cultura locale, grado di tolleranza della cittadinanza, tendenza alla repressione da parte delle forze dell’ordine, mentalità e valori locali sulla dimensione del lavoro e della produttività, ecc). Per questo motivo, non è possibile definire un unico modello di accattonaggio valido per tutto il territorio nazionale, in quanto tale pratica va comunque analizzata in riferimento ad una serie di variabili: l’identità del soggetto protagonista, il carattere legale o meno dell’atto, l’erogazione di beni o servizi, l’introduzione di forme di baratto, ecc.

In questo capitolo, dopo un veloce excursus su alcune dimensioni concettuali del fenomeno tratte dalla letteratura disponibile, presenteremo un nostro modello descrittivo del fenomeno

1Il nuovo Zingarelli, Zanichelli, Bologna 1983.

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dell’accattonaggio, approfondendo alcune tipologie particolarmente diffuse o innovative e che presentano allo stesso tempo dei particolari tratti di interesse dal punto di vista sociale, economico, culturale, ecc. Nella terza parte del capitolo verranno presentati i risultati di un case-study sul campo, realizzato in otto diocesi italiane, e che costituisce un esempio pressoché unico di ricerca empirica sul tema in questione. 2. L'accattonaggio nei recenti contributi di ricerca delle scienze sociali

2.1 La città nuda: accattonaggio ed elemosina nelle vie della città

Ad una prima ricerca bibliografica nell’ambito delle scienze sociali, desta una certa sorpresa l'assenza di indagini e ricerche sul campo relative al fenomeno dell'accattonaggio. In effetti, tale argomento non figura come intestazione di parola-chiave o di soggetto in nessuna biblioteca o catalogo di pubblicazioni scientifiche italiane. Allo stesso tempo, se si tengono in considerazione gli studi realizzati su fenomeni più generali, quali il barbonismo, la povertà, la condizione di vita degli immigrati o delle popolazioni nomadi, è possibile individuare alcuni (pochi) riferimenti alla pratica dell’elemosina, che non viene comunque mai analizzata come fenomeno sociale dotato di dignità propria.

In tempi recenti, gli studi condotti sul tema hanno privilegiato, oltre ai fattori di natura prevalentemente economica, i mutamenti in atto anche in altri ambiti, primi fra tutti il sistema dei valori, i modelli di relazioni umane tra i residenti, le condizioni di integrazione sociale dei diversi gruppi. Secondo questa posizione, il peso crescente dei fattori soggettivi e relazionali nella produzione di fenomeni di disagio sociale ha determinato l'inclusione nella fascia di rischio socio-economico di fasce di popolazione tradizionalmente estranee a tale fenomeno. Più precisamente, mentre in passato la povertà economica poteva considerarsi una realtà sostanzialmente omogenea, che nasceva da cause tutto sommato omogenee tra di loro e si sviluppava su percorsi abbastanza uniformi, allo stato attuale le situazioni di povertà e disagio sociale che segnano i contesti urbani si caratterizzano per la presenza di elementi fortemente eterogenei.

Tale peculiarità ha determinato un importante elemento di novità relativamente alla morfologia del fenomeno povertà e alla sua distribuzione sulla dimensione urbana. Come osserva Luisa Sciallero, ai luoghi tradizionali di povertà e di degrado, un tempo facilmente individuabili e separati dal resto della città, si aggiungono sedi e luoghi invisibili di povertà economica, difficilmente individuabili negli agglomerati urbani contemporanei.2 Tale situazione di "invisibilità" della povertà contemporanea costituisce un rovesciamento di quanto era stato accertato dagli studi della sociologia urbana classica, che aveva dedicato un grande sforzo nello studio dei quartieri-ghetto, ossia di quelle aree urbane dove era possibile accertare la presenza “visibile” di un forte degrado fisico e di un livello sostanzialmente omogeneo di emarginazione sociale.3 Così, mentre un tempo non era difficile localizzare in un contesto urbano dei quartieri caratterizzati per una "etichetta" negativa, in quanto aree circoscritte di disagio sociale, attualmente le diverse forme di disagio urbano si diffondono nel tessuto cittadino senza rispondere a logiche di collocazione privilegiata, frantumandosi e sparpagliandosi sul territorio, in funzione di specifiche e irripetibili esperienze familiari o individuali.4

La caratteristica dell'invisibilità sociale che caratterizza alcune situazioni contemporanee di povertà economica, mantiene un suo peso anche nel caso delle forme più "visibili" di povertà e di indigenza, come è il caso dell'accattonaggio e dell'elemosina su strada. In questo senso, anche se l'elemosina rappresenta una delle forme più "visibili" di povertà economica, la possibilità di

2 SCIALLERO, L., La città, un caleidoscopio della povertà, in CARLINI, G. (a cura di), Materiali per una ricerca su

povertà e nuove povertà a Genova, ECIG, Genova 1995, pp. 117-136. 3 WILSON, W.J., The Ghetto Underclass: Social Science Perspectives, in: "The Annals", January, 1989. 4 GUIDICINI, P., Degrado e povertà umana nella città post-razionalista, in GUIDICINI, P., PIERETTI, G., La residualità

come valore. Povertà urbane e dignità umana, Franco Angeli, Milano 1993.

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determinare e individuarne le radici e i principali fattori di rischio viene meno nel momento in cui il protagonista del fenomeno rientra nel suo mondo vitale originario, mimetizzandosi nella apparente situazione di "normalità" sociale che caratterizza i quartieri satellite delle periferie, le aree marginali dei centri storici, le enclavi insospettabili delle aree residenziali della media periferia. Tale situazione era stata intuita già negli anni '70 dal sociologo Franco Ferrarotti, quando osservava che la distruzione e successiva "rimozione" dei baraccati romani avrebbe determinato nel tempo una diffusione sotterranea della povertà, anche in contesti apparentemente privi di stigma negativo: "L'appartamento del condominio è certo più sano della baracca, ma è lontano dal centro, è più che mai periferico, tagliato fuori, ed è silenzioso, muto, come una 'tomba'".5

Detto in altri termini, il mendicante che non appartiene a determinati gruppi socialmente visibili (senza fissa dimora, nomadi, immigrati extracomunitari, ecc.), può essere individuato dai cittadini e dagli stessi servizi, solamente nel momento della manifestazione esterna dell'atto, mentre una volta terminata la richiesta pubblica di denaro la sua situazione personale è inghiottita nell'alveo dei sistemi di relazione del contesto urbano. Le probabilità che i servizi siano in grado di identificare il soggetto in difficoltà, una volta terminata la fase di manifestazione esterna del disagio, dipendono comunque da una serie di caratteristiche del lavoro sociale messe in atto dal servizio pubblico: il grado di conoscenza del territorio, la tradizione di un lavoro in rete con attori sociali privati (chiese locali, volontariato, associazionismo, privato sociale, ecc.), la capacità di investire risorse umane ed economiche nell'attuazione di un sistema informativo fondato su fonti informative e metodologie di rilevazione innovative, ecc.

2.2 Uno sguardo alle ricerche più recenti

Attualmente, la più vasta mole di informazioni e riferimenti bibliografici disponibile sul tema dell'accattonaggio è contenuta in una serie di studi e ricerche effettuate sulla povertà estrema, con particolare riguardo al barbonismo e alle condizioni di vita delle persone senza dimora. In particolare, gli studi e le statistiche prodotte su questi fenomeni evidenziano il particolare peso che la colletta di beni materiali e denaro detiene all'interno dei modelli di sopravvivenza delle persone che vivono sulla strada. Le informazioni a disposizione sulla vita quotidiana delle persone senza dimora hanno evidenziato infatti l’esistenza tra tali soggetti di un repertorio consolidato di strategie e modelli di sopravvivenza, attuati sia per soddisfare bisogni primari che di identità e di relazione6.

L’accattonaggio risulta da tutti gli studi a disposizione come la forma più diffusa tra le persone senza dimora per il reperimento delle risorse economiche. I dati forniti nel 1991 dalla Commissione nazionale di indagine sulle povertà estreme indicano una quota del 43,3% dei soggetti senza dimora che pratica l’accattonaggio7, mentre altre indagini locali, tra cui la rilevazione condotta nel 1989 a Torino da Luigi Berzano8, presenta dei valori superiori, pari al 68,4% del campione considerato.

Per questi soggetti, la fonte privilegiata per l’esercizio dell’accattonaggio è costituita dagli istituti religiosi e dalle parrocchie, a cui le persone senza dimora si rivolgono seguendo le indicazioni fornite da altri soggetti emarginati o sulla base di “liste di accattonaggio” elaborate sulla base di conoscenze ed esperienze personali. Sempre nel citato studio condotto a Torino da Berzano, si evidenziano una serie di espedienti e forme alternative di reperimento delle risorse economiche, che dipendono dalla fantasia e dalle capacità psichiche dei soggetti: la vendita di santini o immagini sacre di fronte alle chiese, la richiesta di spiccioli presso le fermate di autobus, metropolitane, stazioni ferroviarie, macchinette distributrici di bevande, ecc., la vendita di beni reperiti nei centri di

5 FERRAROTTI, F., Vite di periferia, Mondadori, Milano 1981. 6 GUI, L., NANNI, W., Persone senza fissa dimora: condizioni di vita, prospettive e proposte di intervento, in CARITAS

ITALIANA, Gli ultimi della fila. Rapporto 1997 sui bisogni dimenticati, Feltrinelli, Milano 1998. 7 COMMISSIONE DI INDAGINE SULLA POVERTÀ E L'EMARGINAZIONE, Rapporto sulle "povertà estreme" in Italia, Roma 1991. 8 BERZANO, L., Aree di devianza. Dallo sfruttamento all'esclusione: i nuovi rischi del vagabondaggio, del carcere, del non lavoro, del disagio mentale, Il Segnalibro, Torino 1992.

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assistenza (indumenti, alimenti vari, ecc.), il baratto tra emarginati, pattuito in funzione del grado di urgenza del bisogno sottostante, ecc. Non va inoltre sottovalutata la presenza di attività illegali, tra cui la firma falsa su assegni rubati, i furti nei negozi e nei supermercati, i furti di automobili e di motorini e i furti tra “pari”.

Nel merito del bisogno di denaro, tale aspetto rappresenta una delle variabili che condiziona con maggiore peso l’organizzazione della vita quotidiana delle persone senza dimora. In alcuni casi, la ricerca di risorse economiche non è finalizzata in modo prioritario al soddisfacimento dei bisogni fondamentali (alimentazione, ricovero, salute, ecc.) quanto al reperimento di altre categorie di bisogni, tra cui prevale la ricerca di beni voluttuari, quali alcool e sigarette. Va sottolineato, a questo proposito, come non sia più rispondente a verità la considerazione generale secondo cui le persone senza dimora versino tutte in condizioni di disoccupazione cronica. In realtà, le esperienze di ricerca offrono un quadro piuttosto differenziato di situazioni, secondo valori e categorie di condizione lavorativa estremamente difformi. Nella generalità, la disoccupazione è molto diffusa, interessando quote di utenza comprese tra il 20% e il 68% dei casi, nelle diverse rilevazioni disponibili, mentre la quota di persone senza fissa dimora che dichiara di svolgere un’occupazione oscilla intorno a valori medi del 6-11%, per quanto si riferisce al lavoro regolare, e a valori leggermente superiori per quanto si riferisce a tipologie di lavoro irregolare, saltuario e non garantito.

Altre interessanti informazioni si traggono dall'indagine nazionale sulle persone senza dimora condotta nel 2000 dalla Fondazione "E. Zancan" per conto della Commissione di indagine sull'esclusione sociale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si tratta della prima indagine quantitativa condotta a livello nazionale sul fenomeno della homelessness nel nostro paese, ed è stata realizzata attraverso l'applicazione del metodo americano "S-night" (la S sta per shelter e street), che prevede una discesa notturna sul campo (blitz), effettuata in modo simultaneo in diverse aree selezionate a campione. L'indagine è stata realizzata nel marzo del 2000 e ha consentito di raccogliere una grande mole di informazioni su oltre duemilacinquecento soggetti in situazione di senza dimora.9

La modalità di sostentamento maggiormente indicata dalle persone senza dimora intervistate nel corso del blitz notturno è proprio quella corrispondente alla voce "Accattonaggio" (46%), seguita a breve distanza dalla voce "Lavoro", con il 30% del totale.

La presenza di una quota certamente significativa di soggetti senza fissa dimora che hanno dichiarato di trovare il principale mezzo di sostentamento nel lavoro può destare una certa sorpresa. Tuttavia, bisogna considerare che in molti casi, le attività lavorative a cui fanno riferimento le persone che hanno risposto all'intervista si caratterizzano per un'estrema precarietà, al margine del mercato del lavoro regolare. Proprio per questo motivo, alla luce delle risposte aperte fornite da un certo numero di persone, è stata creata ex-post una specifica categoria denominata "Lavori saltuari", nella quale sono state ricondotte indicazioni del tipo: "Lavoretti", "Pulisco i vetri dei negozi", "Mi arrangio a fare il posteggiatore", "Lavoro ai mercati generali", ecc. Il totale di tale categoria di attività lavorative è risultato pari al 4,8% del campione. Tale categoria va distinta da quella definita "Espedienti", all'interno della quale sono state fatte confluire situazioni accidentali e meno strutturate di attività, che non prevedono necessariamente l'erogazione di una prestazione in cambio di un rendiconto economico (es.: "vendo oggetti trovati nella spazzatura", "faccio il gioco delle tre carte", "prendo gli spiccioli lasciati nei distributori automatici", "aiuto le signore a prendere il carrello della spesa al supermercato", ecc.). Tutte le altre modalità di sussistenza previste dalla domanda hanno riscosso valori nettamente inferiori.

9 La ricerca è stata parzialmente pubblicata in: PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI; COMMISSIONE DI INDAGINE

SULL’ESCLUSIONE SOCIALE, Rapporto annuale sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, anno 2000, Roma 2000.

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Distribuzione delle persone senza fissa dimora per mezzi di sostentamento

Frequenza Percentuale

valida

Accattonaggio, elemosina 460 37,2Lavoro 371 30,0Sussidi da enti pubblici 62 5,0Pensione sociale 60 4,9Altro 60 4,9Pensione da lavoro 17 1,4Pensione invalidità 49 4,0Sussidi e offerte da enti privati 44 3,6Espedienti 8 ,6Prostituzione 16 1,3Lavori saltuari e occasionali 59 4,8Aiuto da familiari, amici 17 1,4Risparmi propri 13 1,1Totale validi 1.236 100,0Mancante di sistema 1.432Totale 2.668Fonte: Commissione Nazionale di indagine sull’ esclusione sociale, 2000.

3. Modelli di accattonaggio 3.1 Premessa

Se da un lato il fenomeno dell'accattonaggio può essere considerato come un elemento che caratterizza in modo significativo alcune forme di povertà estrema, dall’altro è anche vero che non tutte le persone in situazione di povertà estrema ricorrono all'accattonaggio come strumento per risolvere i problemi legati alla sopravvivenza quotidiana. Allo stesso modo, vi sono delle situazioni in cui l'accattonaggio si spinge oltre il suo senso originale di "strumento per la sopravvivenza", a favore di una interpretazione che tende a classificare tale forma di comportamento nei termini di una vera e propria "condizione di vita". In questo senso, una caratteristica strumentale del soggetto diventa un vero e proprio elemento di attribuzione di status sociale. Un possibile e esempio chiarificatore è quello riferito agli immigrati extracomunitari. Ad esempio, un immigrato extracomunitario può ricorrere in diversi momenti della sua permanenza all’estero a forme di accattonaggio o di ambulantato di entità irrisoria, spesso al margine della mendicità. Ciò nonostante, l'attribuzione di status dominante per il soggetto rimane quella di "immigrato extracomunitario", mentre l'accattonaggio è considerato alla stregua di una semplice modalità di sopravvivenza. In altri casi, la definizione di "accattone" supera per capacità definitoria le altre caratteristiche sociali del soggetto, al punto che la persona è definita in base alla caratteristiche di "vivere sulla strada, chiedendo denaro".

L'accattonaggio in quanto strategia di sopravvivenza o comunque di arrotondamento delle proprie entrate, è un fenomeno trasversale che interessa diverse categorie di soggetti e di situazioni sociali. Ad una prima ricognizione e in riferimento alla situazione rilevabile nei grandi contesti metropolitani, è possibile evidenziare almeno quattro grandi tipologie di accattonaggio, in relazione a due principali variabili dicotomiche: elemosina contrattualistica/non contrattualistica ed elemosina legale/illegale. L'incrocio delle due variabili contribuisce a definire quattro raggruppamenti o "tipologie di accattonaggio", ciascuna delle quali si distingue per una serie di caratteristiche derivate dalla combinazione delle modalità delle due variabili in questione.

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La prima variabile che costruisce il nostro modello si riferisce alla divisione della mendicità in forme "contrattualistiche" vs. "non contrattualistiche". Nel primo caso, l'accattonaggio prevede l'erogazione di un servizio (spesso non richiesto dal "fruitore") o la cessione di un bene in contropartita di una somma di denaro erogata a titolo di offerta.

Nelle città italiane, nell'immediato secondo dopoguerra, la presenza di soggetti impegnati in lavoretti e prestazioni economicamente marginali era una caratteristica piuttosto diffusa. Nel corso degli anni, tale forma di accattonaggio è andata progressivamente scomparendo, a favore di modalità di elemosina fondate sulla semplice richiesta di denaro, che non prevedono una contropartita in termini di prestazione d’opera o di cessione di beni.

Recentemente, con la comparsa di nuovi ceti sociali marginali e underclass, esclusi dal sistema delle garanzie sociali (immigrati clandestini e irregolari, senza fissa dimora, nomadi, malati di mente, soggetti anziani in classi di età centrale senza copertura assicurativa, donne sole con figli a carico), le diverse tipologie di accattonaggio contrattualistico sono andate gradualmente ricomparendo, anche se in forme e modalità rinnovate rispetto al passato. In questo senso, la presenza di forme larvate di attività economica anche nell’accattonaggio si adatta ad una mentalità diffusa, di stampo liberistico-produttivistico, secondo cui l’elemosina “passiva” sarebbe moralmente inaccettabile, mentre vi sarebbe una parziale comprensione verso coloro che, pur richiedendo un’elemosina, dimostrano una seppur minima volontà di impegno e di produttività.

La seconda variabile del modello da noi proposto distingue tra forme legali di mendicità e altre forme che, in modi diversi e secondo differenti livelli di gravità, costituiscono delle violazioni alle norme di legge.

Come ricordiamo, la sentenza n. 35 della Corte Costituzionale del 28 dicembre 1995 ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 670 del codice penale, stabilendo che la mendicità non invasiva, che riflette una mera richiesta di aiuto, non può essere perseguita penalmente. Di fatto, l'ipotesi di "mendicità non invasiva", la quale, cioè, non reca lesione alla sfera della personalità dell'altro, era una figura di reato desueta già al momento in cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo che le prevedeva [art. 670, 1° cod. pen.]. La sentenza della Corte Costituzionale, escludendo la natura di reato di tale forma di mendicità non disturbante, è andata incontro alla situazione di disagio che gli organi statali a ciò preposti provavano nel perseguire una richiesta di aiuto così compostamente manifestata. Come è possibile leggere nella sentenza in questione, occorre considerare il “mutamento della coscienza collettiva che induce la società civile, con l'apporto non secondario delle organizzazioni di volontariato, a rivalutare il valore costituzionale, oltre che religioso, della solidarietà”. Altro discorso è stato invece fatto per il secondo comma dello stesso articolo 670 che prevede varie figure di mendicità invasiva che, coartando lo spirito naturale di solidarietà, vogliono, fraudolentemente, forzare l'altrui pietà. In questo caso, secondo il pronunciamento della Corte, il reato rimane.

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Tipologie di accattonaggio

Forme border-line - con frode (finti religiosi,

assicuratori, volontari, ecc.) Elemosina legale Elemosina coatta/illegale Non contrattualistica

- in strada, semplice richiesta o anziani o adulti o nomadi, soli o in gruppo,

con gravidanza esibita o mutilati/invalidi o famiglie intere o immigrati adulti o giovani con/senza cani

- pendolari (parrocchie, negozi, treni, ecc.)

- stazionari presso parrocchie, cimiteri e luoghi di culto

- stagionali (fiere, cimiteri, feste di piazza, ecc.)

- nel corso di riunioni pubbliche (lezioni universitarie, ecc.)

- forme invasive (tossicodipendenti, persone con problemi psichici,

- soggetti con segni particolari, porta a porta, ecc.)

- portatori di certificati (attestanti richieste di operazioni/interventi sanitari vari)

- sfruttamento di minorenni (italiani, nomadi, immigrati)

Contrattualistica (con

prestazione

d'opera/servizio)

- lettori della mano (stabili e itineranti)

- distributori di santini e immagini sacre

- orientatori/facilitatori in uffici pubblici, biglietterie, distributori automatici, ecc.

- piccoli aiuti (carrelli supermercati, sacchetti-spesa, mercati rionali)

-

- lavoratori abusivi presso self-service di carburante

- sordomuti (con rilascio di oggetto)

- posteggiatori abusivi

Forme borderline

- artisti di strada (buskers, madonnari, statue viventi) - suonatori ambulanti

- venditori di libri/oggettistica di pseudo-associazioni di volontariato

- venditori di rose presso locali pubblici, pub, ecc.

- pulitori di parabrezza

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La sentenza della Corte costituzionale che ha depenalizzato la mendicità non invasiva non ha fatto altro che legittimare una ormai consolidata prassi di tolleranza da parte delle Forze dell'Ordine nei confronti dei comportamenti di tali forme di comportamento. Tuttavia, oltre alle fattispecie di reato indicate nel secondo comma dell'art. 670 e nel successivo articolo 671, che proibisce l'utilizzo dei minori nell'accattonaggio, sono evidenziabili in Italia una miriade di forme di mendicità che vengono attuate secondo forme e modalità illegali. In molti casi, tali forme irregolari di accattonaggio riguardano immigrati e il traffico di esseri umani da paesi extra-Unione Europea, oltre che a situazioni quasi sovrapponibili con altre tipologie di reato (truffa, estorsione, abuso della credulità popolare, ecc.).

3.2 L'elemosina “pura”, non-contrattualistica e legale

La prima delle quattro macro-tipologie di accattonaggio individuate nel modello, definita nei termini di "elemosina legale non contrattualistica” (primo riquadro in alto a sinistra), contempla tutte quelle situazioni di pura richiesta di denaro senza contropartita e che non costituiscono in sé una violazione di particolari norme penali. Vanno quindi escluse da questa prima tipologia di mendicità tutte le forme di sfruttamento e di induzione all'accattonaggio e qualsiasi tipo di mendicità che preveda l'erogazione di un servizio o la cessione di un bene economico (anche se di valore economico trascurabile).

Rientrano a pieno diritto nella presente tipologia le forme più tradizionali di mendicità, che possono tuttavia essere differenziate al loro interno rispetto ai tempi, ai luoghi e agli attori coinvolti. Accanto ad una serie di differenziazioni basate sulle caratteristiche anagrafiche del soggetto (soggetti anziani, minorenni, giovani, ecc.), sulla provenienza sociale o etnica (nomadi, extracomunitari, soli o in gruppo), sulle determinazioni naturali o acquisite di status (mutilati, invalidi, donne in cinta, persone con segni particolari, ecc.), vi sono delle differenziazioni che si fondano sui tempi e i luoghi del mendicare. Accanto a soggetti stazionari, in prossimità di luoghi di transito o comunque aperti al pubblico (di fronte e parrocchie, santuari e luoghi di culto, in prossimità di stazioni di servizio, fermate dell'autobus, metropolitane, grandi magazzini, vie ad alta densità di traffico pedonale, ecc.), sono individuabili soggetti con una spiccata propensione alla mobilità territoriale. Rientrano in questa tipologia quei soggetti che si spostano periodicamente sul territorio, visitando parrocchie, negozi, treni, ecc.

Nello schema abbiamo segnalato come forme “borderline” alcune tipologie di richiesta di denaro che si pongono a metà strada tra l’accattonaggio e altre forme di attività, tra cui l’ambulantato, l’esibizione artistica, ecc. In particolare, una questione interessante si riferisce alla tipologia degli artisti di strada. In quale misura è possibile assimilare ed omologare la presenza di buskers e suonatori di strada, che secondo alcuni possono essere considerati animatori fantasiosi ed eredi dell'antica tradizione di giullari e trovatori, al fenomeno dell'accattonaggio e della mendicità?

In realtà, i due fenomeni sembrerebbero essere determinati da istanze e dinamiche sociali affatto diverse, nel senso che la motivazione di fondo dell’artista di strada, pur mossa da esigenze di tipo primario, non è quella di muovere a pietà le persone quanto quella di presentare la propria arte ad un pubblico (e infatti non è rara la vendita di CD musicali registrati dallo stesso artista).

Recentemente, alcune associazioni di artisti e suonatori di strada hanno segnalato la tendenza di alcuni comuni italiani a reprimere ed ostacolare tutte le forme di espressione artistica che si svolgono sulla strada Il motivo di tale divieto è ricondotto dalle amministrazioni locali in vecchi ordinamenti, tra cui una Legge di Pubblica Sicurezza del 1931 (art. 121 del T.U. 18.06.1931 n°773), secondo il quale l'esibirsi in strada può essere associato al reato di accattonaggio e di disturbo della quiete pubblica. Raccogliendo l'appello di numerosi artisti per una legittimazione della loro attività, alcuni comuni italiani si sono dichiarati aperti a tali forme di arte su strada, anche attraverso provvedimenti di tipo amministrativo. E’ il caso dell'Associazione Pro loco della cittadina piemontese di Pennabilli, che in occasione dell'edizione 1998 della manifestazione "Artisti in Piazza", si è fatta promotrice di una delibera comunale e di un apposito regolamento, con i quali la

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città piemontese è entrata a far parte di una rete di città italiane che esplicitamente dichiarano di consentire la libera espressione artistica in strada, con la "speranza che la legislazione nazionale venga presto riveduta per allinearsi a quella di molte altre nazioni del mondo dove l'arte di strada è riconosciuta come patrimonio culturale da tutelare e valorizzare".

3.3 L'elemosina non contrattualistica e illegale

3.3.1 Premessa

La seconda tipologia individuata grazie all'incrocio delle due variabili è quella che pur svolgendosi in forme non contrattualistiche, si caratterizza tuttavia per la presenza di modalità illegali di esecuzione (riquadro in alto a destra).

Possono essere comprese in questa tipologia quelle forme invasive di mendicità messe in atto da soggetti tossicodipendenti, da persone con evidenti problemi psichici oppure da soggetti con segni particolari che possono provocare disgusto nelle persone (è il caso di quei soggetti mutilati o con segni di grandi ustioni che si avvicinano ai passanti evidenziando oltre ogni misura i segni della propria invalidità).

Tali forme di accattonaggio sono sanzionate in modo specifico dal secondo comma dall'art. 670 del codice penale, che prevede la pena dell'arresto da uno a sei mesi per "coloro che mendicano in luogo pubblico o aperto al pubblico, se il fatto è commesso in modo ripugnante o vessatorio, ovvero simulando deformità o malattie, o adoperando mezzi fraudolenti per destare l'altrui pietà". L'art. 670 fa rientrare in questa categoria anche quelle persone che simulano deformità o malattie, come è il caso di quei soggetti che esibiscono certificati medici di dubbia autenticità, testimonianti malattie, richieste di ricovero, prescrizioni di farmaci salvavita, ecc. Vi sono infine delle tipologie di accattonaggio che sono attuate in forma particolare, e che prevedono la messa in atto di comportamenti che costituiscono di per sé una violazione di alcuni reati di natura penale: frode (art. 640 c.p), sostituzione di persona (art. 494 c.p.), usurpazione di titoli e di onori (art. 498), ecc. Possono costituire un esempio di questo tipo di accattonaggio quelle situazioni nelle quali dei soggetti, spacciandosi per religiosi, missionari, volontari, ecc., raccolgono delle offerte a favore parrocchie, movimenti religiosi, missioni od opere nel Terzo Mondo.

3.3.2 Lo sfruttamento dei minorenni in attività di accattonaggio

Una forma di mendicità illegale, sanzionata dall'art 671 del codice penale, proibisce l'impiego di minorenni nell'accattonaggio. E' importante sottolineare che lo sfruttamento di minori per l'accattonaggio avviene spesso attraverso forme di mendicità che prevedono la vendita di piccoli oggetti ai semafori, il lavaggio del parabrezza delle automobili, ecc., per cui alcune di queste situazioni di sfruttamento illegale di dei minori possono essere fatte rientrare in una tipologia di accattonaggio su cui ci soffermeremo più avanti (si tratta della cosiddetta "mendicità contrattualistica e illegale”).

Le forme attraverso le quali i minorenni sono utilizzati nell'accattonaggio su strada sono molteplici. I minori coinvolti nell'accattonaggio sono spesso nomadi o stranieri soli (generalmente albanesi) fatti entrare in Italia per vie illegali da parte di organizzazioni criminali che ne pianificano l'inserimento in attività organizzate di elemosina e accattonaggio ai semafori. Vi è poi una presenza significativa (anche se segnalata in diminuzione) di "ragazzi di strada" di provenienza maghrebina, soli o accompagnati da un familiare adulto, il cui ingresso in Italia non è legato in modo esclusivo a forme di avviamento diretto nell'accattonaggio su strada, in quanto tale attività viene utilizzata come strumento alternativo/sostitutivo di sopravvivenza, in assenza di forme migliori di lavoro (è infatti piuttosto frequente che i ragazzi maghrebini passino con una certa facilità attraverso forme legali e illegali di lavoro, associando la vendita ambulante ai piccoli furti, allo spaccio, all'accattonaggio).

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E’ invece meno frequente imbattersi in episodi di sfruttamento di minorenni italiani in situazioni di accattonaggio, anche se tale pratica non può dirsi completamente assente.

I minori nomadi e la pratica del manghel

Come abbiamo detto, una fetta cospicua delle situazioni di sfruttamento dei minorenni in forme di elemosina riguarda bambini di etnia nomade.

Mentre nel caso di minori di altra provenienza etnica (Albania, Marocco e alcuni paesi dell’ex-Jugoslavia), si sono riscontrati episodi di traffico ed introduzione illegale di adolescenti e bambini destinati all’accattonaggio (manghel), per quanto si riferisce ai bambini zingari sembra smentita l’esistenza di organizzazioni strutturate al di fuori del gruppo familiare, per cui il fenomeno sembrerebbe limitato al contesto della famiglia “estesa" e gestito secondo modalità e consuetudini che dipendono della variabile geografica ed etnica.

Dato che non tutte le comunità zingare presenti in Italia hanno lo stesso tipo di tradizioni in ordine alla pratica della mendicità, è opportuno introdurre alcuni elementi generali del fenomeno, prima di soffermarci in modo particolare sulla situazione dei minorenni.

Secondo gli studi condotti dall'antropologo Leonardo Piasere sulla tradizione dell'accattonaggio in una particolare comunità Rom (quella dei Xoraxané Romà di Verona), la mendicità è considerata come una forma di servizio a persone religiose o caritatevoli che traggono benefici morali facendo l'elemosina.10 Sempre all’interno della stessa comunità dei Xoraxané Romà (uno dei gruppi più diffusi in Italia), la distinzione di sesso o di età non ha molta importanza. Ciò che muta sono invece le modalità con cui viene praticato l'accattonaggio, diverse per uomini, donne e bambini. In sintesi, possono essere individuate le seguenti modalità:

a. donne

� si fermano raramente a mendicare da sole, in genere sono accompagnate dai bambini; � prediligono i marciapiedi, gli angoli delle strade, in zone chiuse al traffico dei centri

storici, oppure davanti alle chiese nei giorni festivi; � dedicano all'accattonaggio la mattina, per tornare al campo nel pomeriggio per svolgere i

lavori domestici (circa 25-30 ore a settimana); � guadagno giornaliero medio-alto (più alto di quello degli uomini).

b. uomini

� mendicano da soli, solo a volte accompagnati da un bambino; � simulano infermità o altre situazioni di patologia psico-fisica; � mendicano porta a porta; � utilizzano documenti attestanti condizioni di indigenza, recanti timbri apposti da autorità

locali; � possono dedicare all'accattonaggio anche l'intera giornata ma nel complesso sono meno

attivi delle donne (circa venti ore a settimana); � guadagno giornaliero inferiore a quello delle donne.

Vi sono infine delle modalità di accattonaggio comuni ad entrambi i sessi:

� predilizione per i periodi delle grandi feste (Natale, Pasqua, feste patronali). Alcuni gruppi vengono in Italia appositamente per sfruttare al meglio le feste di Natale.

� l'area dello sfruttamento delle risorse non include tutta la città di residenza: per non creare situazioni di tensione con gli autoctoni, in genere i Romà non mendicano nel quartiere dove sono accampati;

� dato che una città non offre risorse illimitate per periodi illimitati, le comunità Romà attuano una sorta di sfruttamento a rotazione del territorio, spostandosi su altre zone e lasciando "riposare" i territori appena battuti.

10 PIASERE, L. (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, Liguori, Napoli 1995, p. 347.

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� lo spostamento sul territorio è effettuato con i mezzi pubblici (anche per questo motivo le donne, se si spingono lontano dal campo sono costrette ad interrompere l'attività e tornare al campo prima dell'oscurità).

� non esiste una routine o una periodicità quotidiana, ma l'accattonaggio è praticato quando si ha bisogno di denaro.

� il numero di ore dedicate al manghel per settimana non è mai superiore alle 20-25 ore; tale quota è invece superata dai gruppi Rom stagionali che si spostano dalla Ex-Jugoslavia appositamente per attività intensive di accattonaggio (es.: durante le feste di Natale).

Negli ultimi anni, l’arrivo di un gran numero di Rom della ex-Jugoslavia è stato vissuto dagli

zingari già presenti sul territorio italiano come una minaccia, anche in termini di concorrenza e conflittualità nella mendicità con quelle famiglie zingare italiane (in particolare di origine Sinti) che hanno fatto dell’accattonaggio o della piccola vendita “porta a porta” la principale fonte economica e di sostentamento.

E' difficile produrre una stima sul numero di minorenni nomadi coinvolti nell'accattonaggio. Secondo alcuni autori, dei circa 15 mila minori rom presenti in Italia gran parte sperimentano (o hanno sperimentato in passato) questo tipo di attività. Nello specifico, sarebbero tre o quattro mila i minori Rom-Korakanè che svolgono il lavoro del manghel a tempo pieno o nel tempo libero dalla scuola.11

Sull'entità dei profitti ricavabili con l'accattonaggio le testimonianze sono poche e non sufficientemente confortate da riscontri empirici. Secondo alcune dichiarazioni degli operatori della Caritas diocesana di Reggio Calabria e degli assistenti sociali della Giustizia Minorile, il guadagno per una giornata di accattonaggio praticato da un minore nomade è piuttosto elevato, in genere superiore alla 100.000 lire quotidiane per bambino, con punte di 500.000 lire al giorno nei centri più sensibili alla presenza di bambini mendicanti. In ogni caso, il margine di guadagno è tale da rendere possibili spostamenti anche significativi sul territorio, a volte anche da regione a regione. Ad esempio, nel contesto di Reggio Calabria, sono segnalati numerosi minorenni nomadi slavi, di etnia Rom, dediti all’accattonaggio, che giungono giornalmente dalla Sicilia, utilizzando le normali corse dei traghetti e rientrando a Messina in tarda serata (evidentemente il profitto ricavato da una giornata di accattonaggio rimborsa ampiamente i costi sostenuti per l’attraversamento dello Stretto).

In termini generali, come confermato dagli stessi Rom, l’elemosina rende di più rispetto ad altri lavori, anche autonomi, come il commercio ambulante.12 Se quindi per un gran numero di nomadi il manghel è comunque causa di vergogna e di disagio psico-fisico, specie la prima volta che si va a chiedere,13 esso viene ritenuto preferibile ad altri lavori perché rende maggiormente e anche perché in questo modo si conserva quella libertà personale a cui i Rom tengono in modo particolare. Il rifiuto del lavoro dipendente è infatti una caratteristica forte dell’identità Rom, come espresso efficacemente in una affermazione di un Rom di messina: “Lavorare per un altro è come stare in carcere. Se lavoro per me è un’altra cosa” (Rom Khorakhané, 26 anni).14 Inoltre, se da un lato vi sono famiglie che effettuano dei risparmi e sanno amministrare bene le proprie entrate, altre

11 Dati riportati in "Aspe-Notizie", 8 giugno 1995. 12 CAMMAROTA, A.; MANGANO, A., “Messina: la città e i Rom”, in: BRUNELLO, P. (a cura di), L’urbanistica del

disprezzo. Campi Rom e società italiana, Manifestolibri, Roma 1996, pp. 167-177. 13 Non tutti i Rom della ex-Jugoslavia avevano praticato l’elemosina prima di giungere in Italia, per cui l’avvio a tale pratica può costituire un momento di difficoltà, da superare nei termini di vero e proprio “rito di iniziazione”: “Un uomo appena arrivato dalla Serbia nell’autunno del 1992 chiede ad una famiglia di “nomadi”, come li chiama lui, sistemati sotto il cavalcavia e da parecchio tempo in Italia, dove può presentarsi per essere aiutato. Un ragazzino lo accompagna a chiedere l’elemosina a un semaforo. L’uomo si vergogna. E’ la prima volta. Prima di cominciare viene accompagnato in un bar a bere un “Vecchia Romagna”. Il ragazzino gli procura un cartello che l’uomo non sa leggere.”, in BRUNELLO, P., “Fraintendimenti”, in: BRUNELLO, P. (a cura di), L’urbanistica del disprezzo, cit., p. 54. 14 Ibidem, p. 175.

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vivono alla giornata, e rimangono inchiodate ad un semaforo per l’intera giornata riuscendo unicamente a procurarsi il denaro necessario per la spesa quotidiana.

Sia nell’accattonaggio, nella vendita ambulante che, con minore frequenza, nei furti d’appartamento, è confermato l’uso strumentale di minorenni nomadi in stato di gravidanza, a volte anche avanzata. L’utilizzo di giovani donne incinta nelle attività di accattonaggio è motivato dalla convinzione delle famiglie che esse riescano a produrre, in virtù del loro stato, un maggiore volume di profitti. Inoltre, coinvolgendo donne incinta, si spera di ottenere maggiore clemenza nell’atteggiamento delle forze dell’ordine e delle autorità giudiziarie.

Sulle dinamiche motivazionali e le modalità di coinvolgimento dei minori nomadi nell’accattonaggio e in altre attività illegali, varie indagini hanno accertato uno spettro piuttosto ampio di situazioni e possibili interpretazioni del fenomeno, spesso in antitesi tra di loro e non sempre confortate da elementi oggettivi di riscontro. Per questo motivo, prima di procedere ancora nella trattazione ci sembra necessaria una premessa generale, per definire e specificare meglio il concetto di “devianza minorile” utilizzato nell’ambito delle comunità nomadi.

Secondo l’accezione nomade, sono considerati devianti tutti quei comportamenti che non sono accettati dal gruppo e che implicano violenza fisica sul minore. In questo senso, la partecipazione del minore all’economia familiare, anche se attraverso modalità illegali dal nostro punto di vista, è considerata in genere come un fatto normale, accettato dal gruppo e condiviso dagli stessi ragazzi. Anche in questo specifico, non si può comunque generalizzare, in quanto esistono in Italia almeno una ventina di etnie tra Rom e Sinti, e non tutte hanno lo stesso atteggiamento nei confronti della partecipazione del minore all’economia familiare. Ad esempio, mentre tra i Rom tale consuetudine appare piuttosto diffusa, altrettanto non si può affermare per i Sinti circensi e giostrai, tra i quali il peso delle attività illegali appare piuttosto ridotto ed è più consolidata la frequenza scolastica dei minori.

Da un punto di vista antropologico, all'interno delle comunità Rom, il manghel - l'elemosina, la raccolta di denaro, alimentari e vestiti - detiene vera dignità di lavoro e tradizionalmente i bambini aiutano le loro madri in questa attività. Non è tuttavia tollerato dalla comunità Rom il bambino che pratica il manghel da solo, in quanto tale pratica è considerata come una forma di sfruttamento e, per questo, condannata. Nascono, però, da questo lavoro delle donne alcune forme spurie, giustificate nella comunità Rom dalla difficoltà di vivere. Una forma è quella del lavoro dei ragazzini pre-adolescenti ed adolescenti che, in vari modi, passano dal manghel allo scippo. Un’altra forma di attività è quella della vendita di fiori, praticata in genere da donne adulte (gli uomini accompagnano e controllano) e da ragazzine di 8-15 anni. Si tratta in quest’ultimo caso di ragazze rom che partecipano alla costruzione del bilancio famigliare recandosi la sera in pizzerie, alberghi, ristoranti, night club a vendere rose. I fiori, acquistati all'ingrosso, vengono confezionati al campo o in casa da tutta la famiglia (bambine comprese).

La presenza di gruppi e comportamenti devianti, al di fuori delle regole del gruppo familiare, è determinata storicamente da una serie complessa di processi socio-economici e culturali di trasformazione ed impoverimento progressivo delle comunità nomadi. In particolare, l’emarginazione dei capifamiglia e la situazione di disagio economico dei nuclei hanno prodotto nel tempo una serie di comportamenti contrari alla tradizione dei Rom, come l’utilizzo di donne incinta e il crescente consumo di alcol e di psicofarmaci tra i maschi e le donne adulte, a differenza di quanto è accaduto in altri paesi di più antico insediamento nomade quali, ad esempio, la Germania, dove invece è abbastanza raro che si verifichino atti di questa natura (i Rom residenti in Germania sono stati stimati nell’ordine di 500.000 unità, contro le scarse centomila presenze italiane).

Un esempio nel contesto regionale italiano è quello delle realtà abruzzesi, Pescara ed Avezzano in testa, dove la progressiva sedentarizzazione dei gruppi e il loro collocamento in case popolari si è accompagnato ad un disfacimento dell’unità familiare e dei modelli culturali ed educativi tradizionali. In questi luoghi, l’aumento considerevole della tossicodipendenza tra le nuove generazioni, è stato facilitato da condizioni sociali sfavorevoli, come la presenza di “gruppi

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deboli”, la vicinanza alle realtà metropolitane e l’infiltrazione di microcriminalità e di manovalanza delinquenziale esterna, registrata in particolare nell’ambito del traffico degli stupefacenti.

Fatte queste premesse, una prima questione segnalata da alcuni Tribunali per i Minorenni riguarda l’esistenza, all’interno delle comunità nomadi, di una struttura organizzata, gerarchica, che curerebbe per tutto il campo, e a volte per più insediamenti, l’organizzazione dell’attività illegale dei minori.

L’esistenza di una struttura associativa con queste caratteristiche, sarebbe stata accertata in alcuni campi nomadi di etnia Rom nella città di Roma, in seguito ad indagini condotte nel 1993, congiuntamente da Procura minorile e Procura ordinaria della Repubblica, sotto la direzione investigativa del Magistrato Simonetta Matone. Seguendo per un periodo di 2-3 mesi i minori nella loro giornata-tipo, e con l’aiuto di appostamenti fotografici e telecamere nascoste, si accertò che i bambini venivano radunati la mattina con una sorta di appello nominativo all’interno del campo, dopodichè venivano portati in gruppi di 30 alla Stazione Trastevere, accompagnati dalle donne del campo che, in questo tipo di struttura organizzativa piramidale, svolgono una funzione intermedia tra gli adulti maschi e i minori. Alla Stazione di Trastevere, i bambini venivano poi divisi ulteriormente in gruppetti di 5 ed affidati ad un maschio maggiorenne, che li controllava a distanza nel corso della giornata. La responsabilità materiale del reato, in genere scippi e borseggi a danno di turisti in prossimità di luoghi turistici o sui mezzi di trasporto pubblico, era di solito assegnata al bambino più piccolo, sia per le doti di furbizia e di velocità che per potersi valere, in caso di fermo di Polizia, della non imputabilità concessa ai minori infraquattordicenni. Secondo le conclusioni dell’indagine, una struttura di questo tipo si configurerebbe a tutti gli effetti come una “associazione a delinquere di stampo mafioso”, in quanto ne presenterebbe tutte le caratteristiche: struttura piramidale, gerarchizzata, verticistica, con una definita divisione dei compiti e una supremazia maschile ai vertici della struttura.

L’operazione investigativa condotta dalla Procura di Roma resta unica nel suo genere e non trova riscontri di pari entità presso altre Procure minorili del paese. Sia gli operatori della Giustizia minorile che le diverse realtà dell’associazionismo cattolico e laico impegnate nell’ambito dei nomadi, confermano lo sfruttamento dei minori in attività illegali, anche se con modalità di coinvolgimento diverse da quelle segnalate dalla procura di Roma. Secondo le testimonianze raccolte, la presenza di una struttura piramidale, organizzata e trasversale rispetto ai nuclei familiari, sarebbe opposta alla cultura nomade, dove la famiglia estesa, composta dai genitori, dai figli sposati e non sposati, dai generi, ecc., tende a gestire in modo autonomo la propria economia familiare, basandosi su vincoli di sangue e non su strutture e regole organizzative.

In talune situazioni specifiche, le condizioni in cui sono tenuti i minorenni utilizzati per chiedere l'elemosina o anche solamente presenti in prossimità del luogo di accattonaggio, evidenziano un livello di trascuratezza tale da far ipotizzare oltre la contravvenzione specifica di impiego di minore nell'accattonaggio anche reati ben più gravi, quali la riduzione in schiavitù o il maltrattamento in famiglia. A questo riguardo, si osserva tuttavia un diverso grado di tolleranza delle forze dell’Ordine e un comportamento spesso non omogeneo degli stessi organi di Giustizia. E’ il caso ad esempio della sentenza della Corte di Cassazione del febbraio 1998, che ha stabilito che il portare con sé un bambino in tenera età durante la pratica dell’elemosina non costituisce una violazione dell'articolo 671 del codice penale, in quanto, recita la sentenza:

"premesso che la 'ratio' delle incriminazioni di cui all'art. 671 cod. penale (impiego di minori

nell'accattonaggio) è di impedire l'impiego di minori in una attività che li sottrae all'istruzione

e all'educazione, avviandoli all'ozio ed esponendoli al pericolo di cadere nel vizio e nella

delinquenza, deve ritenersi che pur non essendo richiesta, ai fini della configurabilità del reato,

la consapevolezza da parte del minore della natura dell'attività in cui viene coinvolto, occorre

comunque che egli sia in grado di recepire gli stimoli negativi da essa dipendenti ed abbia,

quindi, raggiunto l'età della coscienza".

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Sulla base di questo ragionamento, e dovendo operare una decisione sulla fattispecie di accattonaggio posto in essere tenendo in braccio un infante, la Corte ha stabilito che non fosse ravvisabile la contravvenzione in questione, ma, semmai, quella di mendicità mediante mezzo fraudolento volto a destare l'altrui pietà. Anche altre recenti sentenze evidenziano il disagio dei giudizi nel leggere queste condotte, oltre che la capacità dei genitori di utilizzare a proprio vantaggio le zone d'ombra rilevabili all'interno di determinate norme del codice penale. Ad esempio, una sentenza emessa dal Tribunale di Torino del 3 novembre 1998 non ha ritenuto provato il reato di maltrattamento in famiglia da parte di due padri zingari i cui figli chiedevano l'elemosina congiuntamente ai genitori presso un incrocio stradale di Torino. La situazione descritta nel verbale della sentenza è esemplificativa di un certo modello di accattonaggio famigliare "in gruppo" che si sta diffondendo in modo particolare nei luoghi di maggiore transito dei grandi centri urbani.

(…) "Più precisamente Tizio veniva visto sdraiato in un'aiuola adiacente all'incrocio tra corso

Regina Margherita e corso Svizzera mentre il figlio di dieci anni esercitava la questua tra le

autovetture in transito unitamente alla figlia di cinque anni. I Carabinieri evidenziavano come

in entrambi i casi i bambini fossero vestiti con abbigliamento non commisurato alla stagione

attuale."15

I giudici del Tribunale di Torino, pur ravvisando la violazione dell'art. 671 del codice penale e affidando i minori ad un istituto, non hanno ritenuto l'esistenza del reato di maltrattamenti (art. 572 del codice penale), in quanto tale delitto deve essere integrato da "ripetuti comportamenti, attivi od omissivi, che ledono l'integrità fisica, la libertà o il patrimonio morale della persona offesa sottoponendola a sofferenze fisiche e/o psichiche e rendendo abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni con il soggetto attivo, comportamenti che debbono essere accompagnati da consapevolezza e volontarietà delle loro conseguenze sulla persona offesa".

Anche se dal punto di vista giuridico la sentenza può risultare ineccepibile, possono comunque destare delle riserve alcune osservazioni di carattere psicologico e sociologico al margine della sentenza, relativamente alla presenza o meno di alcune situazioni di deprivazione psicologica e sociale dei minorenni coinvolti nell'accattonaggio su strada. Ad esempio, gli autori del commento alla sentenza, osservano che non appare sufficiente di per sé che "per il semplice fatto di essere portato agli incroci cittadini a chiedere l'elemosina alle auto che passano, un bambino possa sempre e comunque derivarne sofferenza fisica e /o morale tale da poter essere considerato maltrattamento agli effetti penali. Qualora ciò avvenga in un contesto di armonia ed affetto famigliare - da valutarsi quest'ultimo anche alla luce di cultura, tradizione e condizioni di vita del nucleo familiare medesimo - in assenza di violenza fisica o morale o nell'ambito di uno sforzo comune di sopravvivenza, il minore ben potrebbe vivere il proprio accattonaggio senza quella sofferenza che la sola idea dello stesso provoca invece al normale cittadino italiano".

Il concetto di maltrattamento sottinteso nel commento alla sentenza del Tribunale di Torino sembra fare riferimento alla sola condizione fisica, mentre resterebbe in secondo piano il livello di abuso psicologico del minore. A questo riguardo non sembra condivisibile l'affermazione secondo cui il minore, "in assenza di violenza fisica o morale e nell'ambito di uno sforzo comune di sopravvivenza, possa vivere una situazione di accattonaggio su strada senza percepire la sofferenza che la sola idea dello stesso provoca invece al normale cittadino italiano". Gli studi condotti sugli effetti sociali della devianza dimostrano invece il contrario, ossia che l'interiorizzazione di uno stigma negativo prodotto dalla popolazione di una comunità nei confronti di un soggetto "trasgressivo" è in grado di innescare potenzialmente una serie di processi di autoidentificazione nel

15 Stralcio del verbale dell'ordinanza citato in Quando i bambini zingari chiedono l'elemosina, in "Minori Giustizia", 2/1998.

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ruolo di deviante, con effetti estremamente negativi sul piano dell'autoimmagine e della costruzione adulta della personalità.

Anche dal punto di vista della psicologia dell'età evolutiva, è stato dimostrato che l'inserimento del bambino in un contesto (setting) ambientale negativo (come è il caso del semplice coinvolgimento passivo in situazioni socialmente riprovevoli, quali l'accattonaggio su strada), è in grado di produrre delle conseguenze psicologiche negative sullo sviluppo della personalità del minore.16

Tale meccanismo, ampiamente dimostrato, assume toni specifici di incidenza nelle diverse fasi del processo di socializzazione e può essere in parte riferito anche ai lattanti e ai bambini nella prima fase dello sviluppo, coinvolti loro malgrado in situazioni che prevedono una componente di sanzione sociale (si pensi ai bambini tenuti in braccio dalle madri durante l'accattonaggio o trascinati per mano nella questua su strada da parte degli adulti a cui sono stati affidati). E' infatti accertato che anche nelle fasi iniziali del processo di socializzazione, in piena età evolutiva, il bambino è in grado di percepire l'intensità degli stimoli negativi emessi nei suoi confronti da parte dell'ambiente circostante.

Un esempio riferito a situazioni frequentemente rilevabili nei contesti metropolitani può dare un'idea del tipo di situazione a cui ci stiamo riferendo. Negli ultimi anni, la metropolitana di Roma è diventata uno dei luoghi della città con il più elevato tasso di concentrazione di situazioni di accattonaggio. In genere, i soggetti protagonisti di tali attività salgono sui convogli alle fermate e procedono alla questua approfittando delle fermate successive per cambiare vagone e procedere con la colletta fino al termine del treno. Una semplice osservazione consente di rilevare tipologie e situazioni estremamente diversificate:

a) donne sole di origine slava o di paesi dell'ex-Jugoslavia che affermano di provenire da località della Bosnia o del Kosovo, denunciando situazioni famigliari segnate da lutti, malattie, vedovanze, ecc. Tali affermazioni possono essere accompagnate dall'esibizione di documenti che testimoniano l'origine etnica del soggetto (passaporti, in originale o fotocopiati, documenti di identità, visti consolari, tessere Caritas, ecc.);

b) donne con le stesse caratteristiche della tipologia precedente accompagnate da bambini in tenera età, a volte anche lattanti o non deambulanti;

c) uomini di origine slava o di paesi dell'ex-Jugoslavia con bambini al seguito impegnati in brevi esibizioni musicali, a cui il bambino partecipa, in genere attraverso strumenti a percussione o comunque di facile esecuzione (tamburello, organetto, flauto dolce, ecc.);

d) uomini di provenienza latinoamericana impegnati in esecuzioni musicali, in genere con l'accompagnamento di chitarra o di altri strumenti del folklore andino;

e) piccoli gruppi di persone (da 2 a 4), di origine slava o di paesi dell'ex-Jugoslavia, che formano delle vere e proprie bande musicali;

f) soggetti giovani (tossicodipendenti, malati di Aids, con evidenti segni di patologie psichiatriche), che si rivolgono ai passeggeri, in genere individualmente, richiedendo delle offerte in denaro;

g) altre situazioni meno frequenti (anziani, immigrati di provenienza extraeuropea, malati che richiedono un contributo per spese mediche, ecc.).

Nel caso di presenza di bambini nomadi (tipologie b e c), un'osservazione attenta è in grado di

cogliere la particolare situazione di conflittualità emotiva dei passeggeri, evidentemente combattuti tra i sentimenti "naturali" di simpatia e solidarietà affettiva rivolti ai bambini e l'esigenza di conformità al ruolo socialmente previsto in tali situazioni (dai passeggeri testimoni di tali episodi ci si attende che non manifestino atteggiamenti, gesti ed espressioni di simpatia sia verso gli adulti che i bambini coinvolti). La conseguenza di tale situazione è che, a livello generale, data la riprovazione

16 BOWLBY, J., L'attaccamento alla madre, Boringhieri, Torino 1972; ID., La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino 1975. CESA BIANCHI, M.; BREGANI, P., Psicologia generale e dell'età evolutiva, Editrice La Scuola, Brescia 1980, pp. 225-226.

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sociale di cui sono oggetto i nomadi nel nostro sistema socio-culturale, i bambini nomadi non sono oggetto di manifestazioni di simpatia come invece può avvenire nel caso dei loro coetanei italiani.

Tale particolarità era stata rilevata e approfondita già negli anni Cinquanta, nell'ambito di una serie di studi di psicologia sociale che avevano come oggetto la persistenza dei pregiudizi nei confronti delle comunità nere d'America. Restano estremamente attuali, a questo proposito, le conclusioni delle analisi condotte negli anni '50 dagli psicologi sociali H. Hyman e P. Sheatsley, secondo cui, "se il pregiudizio e la discriminazione contro un altro gruppo sono una norma, allora l'espressione manifestata dal pregiudizio e l'assunzione di comportamenti discriminatori tendono a sollecitare l'approvazione degli altri membri. Viceversa, l'espressione di un atteggiamento amichevole verso i membri del gruppo di minoranza o l'incapacità di adottare comportamenti discriminatori loro confronti viola la norma del pregiudizio e comporta costi quali la disapprovazione sociale e altri tipi di sanzioni applicate dai membri del gruppo.”17

In fasi più avanzate dello sviluppo psico-fisico del minore, entrano in gioco processi di tipo sociale e culturale che contribuiscono a stabilizzare il giovane nel ruolo di deviante. In questo campo, gli studi e i contributi empirici di sociologia della devianza sono in grande numero. Nell'analizzare la strutturazione del comportamento trasgressivo nelle società contemporanee, il sociologo americano Howard Becker, in uno studio classico sulla devianza giovanile18, ritiene che uno dei momenti più decisivi nel processo di costruzione di un modello stabile di comportamento deviante è rappresentato dall'esperienza di essere pubblicamente etichettato come deviante. Afferma Becker: "In ogni caso, il fatto di essere preso e definito come deviante implica conseguenze importanti per la successiva partecipazione sociale e per l'immagine di sé di una persona. La conseguenza più importante sta nel cambiamento drastico nell'identità pubblica dell'individuo. Il fatto di commettere l'atto improprio e quello di essere pubblicamente sorpreso a farlo lo pongono in un nuovo status: si è rivelato come un tipo di persona differente da quella che si supponeva fosse. Sarà quindi etichettato come 'checca', 'drogato', 'matto' e trattato di conseguenza".

Il meccanismo descritto da Becker può venire ulteriormente rafforzato nel momento in cui il soggetto deviante appartiene a determinati status sociali tenuti in cattiva considerazione, indesiderati e indesiderabili. Il semplice fatto di possedere in modo "anticipato" una caratteristica di tali gruppi (il colore della pelle, l’abbigliamento, ecc.), fa sì che la gente sia automaticamente portata a pensare che il possessore di tale caratteristica (ad esempio il minorenne nomade) detenga anche tutte le caratteristiche indesiderabili associate al gruppo di appartenenza (ladro, accattone, ecc.). A lungo andare, il minore nomade, anche se è vissuto in un contesto sub-culturale dotato di norme proprie, spesso antagoniste con quelle del sistema sociale dominante, non potrà non risentire del flusso di etichettamento negativo diretto verso la sua persona, al punto che il trattamento di esclusione sociale a lui riservato lo porterà a sviluppare ulteriormente consuetudini "illegittime" e atteggiamenti di non-appartenenza e segregazione dal resto della società.

Il processo di esclusione sociale che colpisce i bambini di origine nomade o appartenenti ad altri gruppi sociali coinvolti in situazioni di devianza non rimane senza conseguenze. Anche se non è possibile disporre di un appropriato bagaglio di studi longitudinali sul tema, l'opinione di un gran numero di psicologi è che l'esperienza della condanna sociale può determinare una serie di conseguenze negative sul piano dello sviluppo della personalità e dell'insorgere di stati patologici nel soggetto in età matura. Secondo lo psicologo Paolo Bonaiuto, l'appartenenza a gruppi minoritari oggetto di rifiuto da parte di gruppi sociali più ampi può rappresentare una condizione di frustrazione per l'individuo, anche in età adulta19. L'esempio fornito dall'autore è quello delle popolazioni di colore degli Stati Uniti d'America, che a causa delle multiple e intense frustrazioni

17 HYMAN, H.H.; SHEATSLEY, P.B., The Authoritarian Personality: a Methodological Critique, in CHRISTIE, R.; JAHODA, M. (eds.), Studies in the Scope and Method at the Authoritarian Personality, Glencoe, New York 1954, pp. 50-122. PETTIGREW, T.F. Social Psychology and Desegregation Research, in "American Psychology", XVI/1961, pp. 105-112. 18 BECKER, H.S., Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987. 19 BONAIUTO, P., Note e appunti di psicologia, Edizioni Kappa, Roma 1970.

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sociali cui vengono precocemente sottoposti nel loro tentativo di inserirsi nella società dalla quale i bianchi li respingono possono sviluppare reazioni non adeguate (o patologiche), agli stimoli sociali negativi a loro diretti.

In base a quanto detto, è più facile comprendere come la semplice partecipazione di un minore nomade ad atti e comportamenti ritenuti socialmente accettabili dal punto di vista della cultura di origine ma devianti rispetto ai valori della società più vasta, sia in grado di produrre nel medio-lungo periodo fenomeni di esclusione, sofferenza psicologica e ripetizione intergenerazionale della marginalità, anche se tali comportamenti non sono attuati secondo finalità di sfruttamento o modalità psicologicamente o fisicamente abusanti. 3.3.3 Accattonaggio e traffico di immigrati: smuggling e trafficking

Un discorso complesso e separato rispetto a quanto è stato già detto si riferisce al fenomeno dello sfruttamento degli immigrati a scopi di accattonaggio. Tale prassi illegale, confermata da numerose testimonianze e avvallata dagli sviluppi di alcuni procedimenti giudiziari, è un fenomeno di recente introduzione, che coinvolge in modo particolare le persone provenienti da paesi dell'ex blocco dell'Unione Sovietica e altri gruppi nazionali dell'Est europeo.

L'illustrazione delle diverse tipologie di sfruttamento degli immigrati a scopi di accattonaggio non può non essere subordinata ad una premessa specifica. La letteratura competente sul tema mantiene una importante distinzione tra il favoreggiamento organizzato dell'immigrazione clandestina (smuggling) e la tratta delle persone (trafficking). Nel primo caso, le organizzazioni criminali si limitano a fornire un servizio specifico a migranti che scelgono volontariamente di emigrare e, non disponendo delle conoscenze, dei mezzi e del capitale necessari per affrontare l'intero viaggio, si rivolgono ad organizzazioni criminali che ne favoriscono l'ingresso nel paese di emigrazione. Nel secondo caso, il migrante (soprattutto giovani donne e minorenni), è sostanzialmente costretto a lasciare il proprio paese, con la violenza, il ricatto e l'inganno, al fine di essere successivamente sfruttato per fini economici nei mercati illeciti della prostituzione, dell'accattonaggio e dell'economia sommersa. Mentre nel primo caso l'organizzazione illegale si limita ad organizzare il viaggio, nel secondo caso è possibile evidenziare un disegno criminale più esteso, che comprende una specifica struttura organizzativa differenziata e segmentata a diversi livelli di competenza, e che si fa carico dell'inserimento del migrante nell'attività illegale.

In alcuni casi, le testimonianze a disposizione dimostrano che tali forme di sfruttamento sono attuate in grande scala, in forma sopranazionale, attraverso canali di immigrazione clandestina e di traffico di esseri umani controllai dalle stesse organizzazioni che sono impegnate nel contrabbando di sigarette e nello sfruttamento della droga e della prostituzione. La sovrapposizione di più canali di immigrazione (ad esempio, quello rivolto allo sfruttamento sessuale e quello per fini di accattonaggio/ambulantato) è dimostrata da un certo numero di procedimenti giudiziari, che hanno stabilito la stretta connessione esistente i diversi tipi di traffico. Ad esempio, nel giugno del 1999, a Milano, otto cittadini albanesi furono arrestati sotto l'accusa di sfruttamento di cinque ragazze (di cui due minorenni) fatte giungere in Italia per prostituirsi, e quattro ragazzini, obbligati a chiedere l'elemosina agli automobilisti. Le persone finite in carcere dovettero rispondere di introduzione di clandestini sul territorio italiano, riduzione in schiavitù, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. I minori furono affidati a istituti di accoglienza. Attraverso la sovrapposizione dei diversi traffici (sigarette, accattonaggio, prostituzione, droga), le organizzazioni criminali attuano una vera e propria "economia di scala", che consente di guadagnare in breve tempo ingenti profitti economici, scaricando l'intero onere economico del trasporto sugli immigrati.

In altri casi, i canali di immigrazione clandestina a scopi di sfruttamento nel racket dell'accattonaggio sembrano seguire percorsi autonomi rispetto a quelli della prostituzione e vengono attuati coinvolgendo soggetti vulnerabili e con caratteristiche tali da renderli particolarmente redditizi sul mercato dell'elemosina (minori, malati, handicappati, disabili, donne in cinta, ecc.). Ad esempio, nel 1998 furono arrestati con l’accusa di sequestro di persona a scopo di estorsione sei cittadini russi che sfruttavano circa 200 sordomuti bielorussi, costretti a elemosinare

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nei ristoranti e sulle spiagge offrendo gadget di metallo o peluche. L'organizzazione messa in piedi dagli arrestati contava su un “esercito” di circa 200 sordomuti sparsi fra la Toscana, la Liguria, la Lombardia e l’Emilia-Romagna. L’operazione di Polizia, denominata “Brelok” (peluche) era partita circa un anno prima, quando alcuni sordomuti si confidarono con i carabinieri di Prato sulla loro situazione di sfruttati. Secondo gli investigatori, la banda faceva arrivare in Italia i sordomuti dalla Bielorussia e li costringeva, anche con la violenza, ad offrire ai clienti dei ristoranti o ai bagnanti sulle spiagge, gadget di metallo o di peluche in cambio di un’offerta che non era mai inferiore alle tremila lire. Il giro di affari era notevole e tutto l’incasso, tolte le spese per vitto e alloggio, finiva all’organizzazione di sfruttatori.

Nel nostro paese, il traffico di stranieri da impiegare nell'accattonaggio riguarda in modo prevalente minorenni di nazionalità albanese, fatti giungere clandestinamente in Italia tramite il racket dei clandestini che si svolge nel tratto di mare che separa l'Albania dall'Italia.

Il più antico riscontro giudiziario di questo tipo di attività illegale risale al 1985, allorquando si individuò un gruppo di adulti, sia italiani che slavi, che avevano “preso in affitto” dei minori jugoslavi, acquistandoli dalle famiglie per somme variabili, comprese tra 2 milioni e mezzo a tre milioni lire a testa, e destinandoli ad attività di accattonaggio. In quell’occasione, la Magistratura di Milano poté individuare tutti i responsabili del traffico e realizzare i primi processi in Italia per il reato di “induzione in schiavitù”. A partire dal "grande sbarco" del 1991, il traffico di minori albanesi tra i due paesi è stato segnalato con crescente frequenza, anche se i minorenni provenienti dall'Albania e introdotti illegalmente nel nostro paese, sono risultati spesso coinvolti in attività criminali di entità più grave (rapine, lesioni, reati contro la persona, tentato omicidio, porto d’armi e addirittura induzione in schiavitù a danno di ragazze albanesi sfruttate a scopi di prostituzione).

Nel 1995, un'inchiesta dalla Magistratura di Brindisi evidenziò la presenza di un traffico di minorenni tra Italia e Albania. In quell'occasione fu possibile accertare che nel corso di circa tre mesi, oltre settanta minorenni albanesi erano arrivati in Italia su navi di linea, al fianco di adulti che si spacciavano per genitori, con documenti e permesso di soggiorno falsificati. Una volta sbarcati sul territorio italiano, i genitori facevano perdere le loro tracce e i ragazzi venivano impiegati direttamente da bande di connazionali in attività di accattonaggio su strada o altre attività illegali. L'indagine poté inoltre stabilire che i trafficanti che si spacciavano per genitori dei ragazzi percepivano un compenso fisso di 2 milioni per ogni ragazzo trasportato. I ragazzi sbarcati a Brindisi furono successivamente rintracciati in diverse città italiane, in condizioni miserevoli di vita.

Nel luglio 1996, le indagini della Questura di Roma accertarono la presenza di un racket composto da adulti albanesi che sfruttava dodici bambini connazionali per scopi di accattonaggio, imponendo un guadagno di 150-200 mila lire a testa. Secondo quanto accertato dagli inquirenti, gli sfruttatori, dopo aver comprato i bambini nel paese d’origine, li facevano entrare clandestinamente in Italia, dalle coste pugliesi, smistandoli successivamente in direzione di Roma o di altre città del Nord. Fu inoltre accertato che, allo scopo di non destare eccessivi sospetti e creare un allarme sociale nelle zone dove i minori praticavano l’accattonaggio, i bambini venivano trasferiti periodicamente e spostati di città in città.

Al di là di questi specifici episodi, che comunque possono aiutare a definire i contorni di un più vasto fenomeno sociale, i resoconti delle autorità di Pubblica Sicurezza consentono di descrivere in termini abbastanza precisi l'attuale meccanismo di funzionamento del traffico di esseri umani in atto tra Albania e Italia. Le zone di sbarco sono principalmente due: la fascia costiera adriatica compresa tra Brindisi e Bari (privilegiata dai contrabbandieri di sigarette, in quanto più vicina al Montenegro, dove sono presenti dei latitanti italiani che coordinano da diversi anni le attività dei magazzini illegali di stoccaggio di sigarette) e la zona a Sud di Brindisi fino a S. Maria di Leuca (privilegiata dai trafficanti di esseri umani). La traversata è compiuta in gommoni cosiddetti "oceanici", di grande potenza motrice e con capienza fino a 30/40 persone ciascuno.

Una volta a terra, i clandestini vengono ricevuti e smistati dai referenti delle organizzazioni albanesi presenti in territorio pugliese, individuabili sia in cittadini italiani che in albanesi già

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residenti in Italia a loro collegati, che possono essere vicini ad ambienti criminali associati ovvero riuniti in aggregazioni, a volte occasionali o familiari, di modesto livello criminale. Dopo alcuni giorni, gli immigrati vengono condotti nelle stazioni ferroviarie di piccoli paesi o, nella peggiore delle ipotesi, consegnati direttamente ai "committenti" (nel caso delle giovani prostitute) o ai rappresentanti di organizzazioni criminali etniche.

In tempi recenti, il fenomeno dello sfruttamento per l'accattonaggio dei minori albanesi è stato accertato da diverse operazioni investigative. Nello specifico, la Direzione Investigativa Antimafia (Dia) ha pubblicato nell’ottobre del 1999 un Rapporto sulle diverse forme di criminalità organizzata gestite da comunità straniere in Italia. All'interno del Rapporto viene evidenziato in modo chiaro come la presenza di un gran numero di cittadini extracomunitari clandestini o irregolarmente presenti nel nostro paese gioca a tutto favore della criminalità organizzata straniera, in quanto la precarietà della condizione di tali persone, spesso senza legami, senza conoscenza di usi, costumi e lingua, alla ricerca disperata della sopravvivenza, li rende facile preda delle organizzazioni criminali. Sul tema specifico dell'accattonaggio, gli osservatori della Dia affermano che i criminali dediti allo sfruttamento dei minori per l'accattonaggio e delle donne per la prostituzione sono veri e propri schiavisti. Le città che più risentirebbero di tale traffico sono Milano, seguita a distanza da Brescia, Bergamo e Varese. Nello specifico, la mafia albanese viene segnalata per l'alto grado di violenza esercitato sui bambini e sulle donne. Osserva il Rapporto Dia:

"I piccoli vengono in genere ceduti ai trafficanti dalle famiglie e diventano schiavi: vengono tenuti a

gruppi in tuguri, nutriti al minimo, e vestiti di stracci, un po' per risparmio e molto per attirare la pietà e,

quindi, l'elemosina. Se alla fine della giornata non hanno raccolto il minimo previsto, sono minacce,

percosse, torture. Alcuni bambini mangiano e vestono meglio: sono quelli destinati ai pedofili".

Altre informazioni di un certo rilievo provengono dalla "Relazione sul traffico di esseri umani", approvata dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni similari in data 5 dicembre 200020. Data l'autorevolezza della fonte e l'importanza dei contenuti esposti, ci sembra utile riportare per intero la sezione della relazione dedicata al fenomeno dello sfruttamento dell'accattonaggio.

"L'accattonaggio rappresenta un mercato illecito nel quale sono sfruttati soprattutto i minori di

origine slava e albanese, provenienti da famiglie molto numerose ed estremamente disagiate.

La lettura di rassegne stampa specifiche sull'argomento, ha permesso al Comitato di constatare

come costantemente il ruolo dello sfruttatore sia rivestito da persone della stessa cittadinanza

dei bambini sfruttati (albanesi, slavi, rumeni). Questi ultimi, privati dei loro elementari diritti,

costretti a vivere molto spesso all'interno di baracche situate nelle periferie delle città, questi

piccoli bambini sono costretti all'esercizio dell'accattonaggio nelle stazioni delle grandi città o

agli incroci di strade particolarmente trafficate. Il loro compito è quello di guadagnare

quotidianamente una determinata somma, richiedendo un'elemosina ai passanti ovvero

cercando di attuare nei loro confronti il furto del portafoglio, della borsa o di un oggetto di

particolare valore. Il mancato raggiungimento della somma prestabilita, così come qualsiasi

tentativo di fuga o di ribellione ai propri sfruttatori, viene punito in maniera violenta, in modo

tale che il reo ed i suoi compagni capiscano il senso della sanzione e abbandonino qualsiasi

tentativo di ricerca della libertà. Probabili sono le possibilità che questi minori, oltre ad essere

oggetto di compravendita o di scambi tra diversi sfruttatori21

, siano sottoposti ad abusi sessuali

e, con il passare degli anni, impiegati all'interno di altri mercati illeciti nello svolgimento di

attività criminali più evolute. Indagini svolte dal Comando Regionale Carabinieri della Regione

20 COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA SUL FENOMENO DELLA MAFIA E DELLE ALTRE ASSOCIAZIONI SIMILARI, Relazione sul traffico di esseri umani, relatore senatrice Tana De Zulueta, Camera dei Deputati, Senato della Repubblica, Roma, 5 dicembre 2000. 21 Cfr. Resoconto stenografico dell'audizione del dottor Federico Frezza, sostituto procuratore presso la Direzione distrettuale antimafia di Trieste, svolta il 16 marzo 2000 al Comitato di lavoro sulla criminalità organizzata internazionale.

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Basilicata hanno avuto modo di accertare che i minori sono utilizzati per finalità legate alle

adozioni illegali. nel corso del 1998 e 1999, infatti, sono stati liberati sette bambini albanesi e

un bambino bielorusso oggetto di questo turpe traffico22

".

Data la natura sommersa e illegale del fenomeno, non sono disponibili dati sul numero di

minorenni albanesi coinvolti nel traffico dell'accattonaggio o di altre forme di sfruttamento. A livello internazionale, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), stima in 120 milioni il numero di bambini di età compresa tra i 5 e i 14 anni costretti a forme di lavoro forzato e denuncia l'esistenza di sistemi di vendita e di commercio di minori, condotti da organizzazioni criminali internazionali.

Nel contesto italiano, il traffico di minorenni a scopo di accattonaggio sembra riguardare quasi esclusivamente i ragazzi di nazionalità albanese. In questo senso, un dato indiretto che può fornire un'idea di massima sull'entità del fenomeno si riferisce alle statistiche sugli sbarchi di immigrati clandestini di varie nazionalità sulle coste pugliesi, presentate nel dicembre del 2000 dalla Commissione parlamentare sulla mafia. I dati della Commissione, forniti dalla Direzione Centrale per la Polizia Stradale, ferroviaria di Frontiera e Postale, evidenziano un totale di 14.157 persone sbarcate nel periodo 1° gennaio-30 settembre 2000 (nel 1999, il totale di persone sbarcate in Puglia era stato di 46.481 soggetti, di cui 15.843 minorenni). Di queste, 4.711 erano di nazionalità albanese (33,2% del totale). I minorenni albanesi sbarcati sulle coste pugliesi sono stati 573, su un totale di 2.330 (24,6%).

Immigrati sbarcati in Puglia distinti per uomini, donne e

minori e nazionalità. Valori assoluti e percentuali.

Periodo 1° gennaio - 30 settembre 2000 (prime dieci nazionalità)

Nazionalità Uomini Donne Minori Totale % Sul Totale

Albania 3.598 540 573 4.711 33,28 Iraq-Curdi 1.575 257 422 2.254 15,92 Jugoslavia-Kosovo 580 463 869 1.912 13,51 Turchia-Curdi 1.357 77 124 1.558 11,01 Iraq 996 108 193 1.297 9,16 Turchia 913 33 73 1.019 7,20 Cina 353 130 12 495 3,50 Pakistan 207 0 1 208 1,47 Afghanistan 134 10 9 153 1,08 India 74 1 0 75 0,53 Fonte: Commissione Parlamentare Antimafia

In altri casi, tali forme di sfruttamento avvengono in dimensioni più ridotte e coinvolgono

nuclei familiari allargati, appartenenti a determinate etnie e nazionalità a rischio. L'esperienza di lavoro dimostra che l'intervento con i ragazzi albanesi è difficile attuazione.

Anche quando i ragazzi vengono individuati e portati in comunità, il più delle volte scappano per tornare da chi li ha ridotti all'accattonaggio.

Da diversi anni le forze dell'ordine hanno sviluppato un'attenzione particolare alla lotta alle organizzazioni criminali su base etnica. In particolare, a partire dal disfacimento del blocco sovietico e la crisi dei Balcani, il dipartimento della Pubblica Sicurezza ha potenziato le attività di analisi sui fenomeni criminali in tutte le loro espressioni, allo scopo di monitorarne costantemente l'evoluzione, di prevederne e prevenirne i possibili sviluppi. In tale contesto, a ciascun "referente 22 COMANDO REGIONE CARABINIERI BASILICATA, Fenomeno dell'immigrazione clandestina, riduzione in schiavitù

finalizzata allo sfruttamento della prostituzione e del lavoro minorile nel territorio della Regione Basilicata. Attività di

contrasto dell'Arma, Potenza, 3 dicembre 2000.

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nazionale" delle Forze di Polizia è stata assegnata, in via principale, un'area di specifica competenza. Nello specifico, alla Polizia di Stato è stato assegnata la competenza sul traffico di autoveicoli rubati, l'immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani.

I ragazzi di strada del Maghreb: l'utilizzo di giovani nordafricani nel mercato dell'elemosina

A partire dai primi anni '90, le città italiane hanno osservato il costante e progressivo aumento di minorenni nordafricani dediti all'ambulantato irregolare e alla pratica dell'elemosina in prossimità dei crocevia stradali. Tale fenomeno va letto e interpretato tenendo conto di alcune variabili importanti, tra le quali vanno annoverate i modelli di economia famigliare della cultura di origine, i percorsi migratori che caratterizzano l'ingresso in Italia delle popolazioni provenienti dai paesi del Nord Africa e i modelli di inserimento lavorativo di tali gruppi nazionali (principalmente algerini, tunisini e marocchini) nel contesto produttivo locale.

E' noto che da oltre un ventennio, la difficile fase di transizione storico-politica del Maghreb, lo scarso sviluppo dell'economia e i suoi effetti negativi sull'occupazione hanno determinato una situazione di instabilità nei principali paesi del Nord-Africa. Tale situazione di difficoltà, aggravata dall'esplosione demografica che caratterizza tali paesi (nel Maghreb, durante gli anni '90, l'aumento medio annuo della popolazione si è collocato su valori compresi tra l'1,7% e il 2,3%) e dal differenziale di benessere tra i paesi delle opposte rive del Mediterraneo, ha determinato un processo di migrazione i cui riflessi hanno progressivamente interessato anche l'Italia, inizialmente poco coinvolta dall'emigrazione maghrebina.

La comunità marocchina all'estero rappresenta una delle collettività di migranti più numerose e capillarmente distribuite in tutto il continente europeo. Nel 1993, un rapporto curato dal Centre

d'Etudes et de Recherches du Maroc stimava che l'insieme dei marocchini residenti all'estero nel 1990 (comprese le presenze irregolari), si avvicinasse al milione e mezzo di persone. Al 31 dicembre 1998, secondo dati ufficiali del Consiglio d'Europa, gli immigrati di origine maghrebina nell'Unione Europea erano 1.639.181, così ripartiti: 676.198 marocchini, 674.716 algerini e 288.267 tunisini. E' chiaro che le statistiche ufficiali si riferiscono agli immigrati che non hanno ancora acquisito la cittadinanza del paese di accoglienza. Inoltre, le statistiche ufficiali non sempre sono in grado di registrare la presenza dei minorenni, in quanto la legislazione sull'immigrazione di alcuni paesi dell'Unione Europea (tra cui l'Italia) non richiede un permesso di soggiorno autonomo per i minorenni (in molti casi, i figli sono registrati sul permesso di soggiorno dei genitori, sfuggendo così alle statistiche ufficiali).

Per molti anni, l'inserimento degli immigrati di origine maghrebina nel nostro paese si è caratterizzato inizialmente per una presenza marginale nel mondo del lavoro, con impiego prevalente nel campo del commercio ambulante. Almeno fino alla seconda metà degli anni '80, i cittadini di nazionalità marocchina e tunisina che sono giunti in Italia hanno avuto un’età media piuttosto alta, superiore ai 30 anni; si trattava in genere di giovani e adulti soli, senza famiglia al seguito, dediti principalmente ad attività di ambulantato.

A questo riguardo, un'analisi storica del fenomeno migratorio nel nostro paese dimostra che sin dall'inizio di tale esperienza, è stata rilevata una sorta di "segregazione occupazionale in base al genere", per cui mentre alcune nazionalità, a composizione femminile assolutamente prevalente, erano occupate quasi esclusivamente nei lavori domestici, altre, a prevalente composizione maschile, erano occupate prevalentemente nei lavori precari soprattutto agricoli oltre che nel piccolo commercio ambulante. Nel nostro caso, la presenza di immigrati nord-africani in Italia si è sempre distinta per una forte prevalenza della componente maschile, elemento che ha determinato nel tempo una serie di conseguenze negative sul modello di inserimento e sul grado di propensione alla devianza e al comportamento irregolare. E' noto infatti che l'incidenza dei fenomeni di criminalità e devianza all'interno dei gruppi a prevalente composizione femminile sia piuttosto modesta, mentre il tasso di comportamento irregolare cresce all'aumentare del peso della componente maschile sul totale dei residenti di uno stesso gruppo nazionale.

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Dal 1987, dopo quasi vent'anni di immigrazione nordafricana adulta e maschile, si sono cominciati a registrare alcuni segnali di arrivo di adolescenti soli, non accompagnati, provenienti da zone particolarmente povere e depresse della Tunisia e del Marocco. La presenza di tali giovani sul territorio italiano si è rivelata sin dall'inizio piuttosto problematica, in quanto, a differenza di altri gruppi nazionali, l'arrivo degli adolescenti non era determinato da esigenze di ricongiungimento familiare quanto da scopi di sfruttamento in attività illegali. Tale fenomeno di inclusione nella devianza dei minorenni del Maghreb è confermato dalle statistiche ufficiali della Giustizia minorile, che dimostrano come già all'inizio degli anni '90, una componente significativa della devianza minorile fosse rappresentata dagli adolescenti nordafricani, prevalentemente tunisini e marocchini, segnalati in prevalenza nelle aree centro-settentrionali del paese, imputati per spaccio di sostanze stupefacenti, reati contro la proprietà, accattonaggio e ambulantato irregolare.

Su questo fenomeno sono state condotte diverse esperienze di ricerca e sono disponibili dati da più fonti statistiche. Le informazioni provenienti dai centri della Giustizia Minorile evidenziano che per quanto riguarda le tipologie di reato, è necessario operare delle distinzioni per le due nazionalità prevalenti (Tunisia e Marocco). Mentre i ragazzi tunisini, se devianti, risultano quasi tutti coinvolti in attività di spaccio di sostanze stupefacenti, i giovani del Marocco si dividono tra l’ambulantato irregolare, l'accattonaggio, lo spaccio e i piccoli furti.

Inoltre, dalle informazioni raccolte nel corso di un'indagine nazionale sulla devianza minorile condotta dalla Caritas Italiana nel 1996,23 si accertò che lo spaccio e i reati contro il patrimonio erano tipologie di reato che riguardavano prevalentemente giovani nordafricani residenti nei grandi centri urbani del Centro-Nord - Genova, Torino, Milano, Roma, Bologna - mentre l’ambulantato era presente diffusamente anche in provincia e nei piccoli centri. In questo specifico, già in una precedente ricerca della Caritas Italiana sul minore immigrato in Italia24, era stata segnalata, in modo particolare nella provincia piemontese, una consistente presenza di minori nordafricani dediti all'ambulantato, all'elemosina e a varie attività di lavoro precario "sulla strada"; secondo le informazioni a suo tempo raccolte, era stato possibile appurare che la maggior parte dei minorenni proveniva dall'area metropolitana torinese, dove delle reti locali di sfruttamento, o gli stessi parenti, ne organizzavano la distribuzione capillare nelle varie realtà della regione. Come veniva segnalato dagli operatori Caritas di Ivrea, Biella, Casale Monferrato ed altri centri del Piemonte, l'intervento nei confronti di questa categoria di giovani si poneva estremamente arduo, in quanto i ragazzi non erano residenti in zona e alla sera ritornavano a Torino, da cui l'impossibilità di organizzare forme di assistenza e di risocializzazione. L'invisibilità di questi giovani immigrati rendeva particolarmente difficile l'intervento degli operatori sociali nello stesso capoluogo di Regione, dove i minori risiedevano solamente nelle ore notturne, al di fuori di ogni vigilanza e controllo istituzionale, privi di scuola, assistenza sanitaria e familiare.

L’arrivo quasi improvviso di minorenni di origine maghrebina e il loro progressivo utilizzo nell'ambito dell'economia sommersa va ricondotto a diversi fattori e in ogni caso è possibile evidenziare tipologie e modelli diversi di arrivo nel nostro paese. A livello generale, uno dei motivi che avrebbero contribuito all'arrivo degli adolescenti sarebbe riconducibile al cambiamento di politica delle autorità tunisine e marocchine, che fino al 1987 avevano sempre impedito il rilascio del passaporto e l’uscita dal paese dei minorenni, in modo particolare se privi di accompagnamento.

Allo stesso tempo, il processo di migrazione dei giovani minorenni va letto in riferimento ad una serie di elementi culturali e strutturali interni ai paesi di provenienza. In particolare, il percorso di insediamento nel territorio e di "avvio al lavoro" di tali giovani è descritto in modo puntuale da Rachid Kouchih, mediatore culturale preso l'Ufficio minori extracomunitari del Comune di Torino)25, all'interno di un contributo che può aiutare a comprendere meglio i percorsi di

23 CARITAS ITALIANA, Ragazzi al margine. Emergenze ed aree a rischio nella devianza minorile, LDC, Leumann (TO) 1998. 24 CARITAS ITALIANA, Il minore immigrato in Italia, Caritas Italiana, Roma 1996. 25 KOUCHID, R.; BOUCHARD, M., I ragazzi stranieri di strada, dialogo sui ragazzi maghrebini, in: “Minori giustizia”, 3/1996, pp. 86-101.

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immigrazione di tali giovani e il forte legame esistente tra i modelli di economia famigliare delle famiglie di provenienza e la pratica dell'accattonaggio/ambulantato.

Come osserva Kouchih, un gran numero di ragazzi di strada del Maghreb proviene da famiglie povere della zona agraria di Khouribga (Marocco), presso le quali la partecipazione dei bambini all'economia famigliare è un fatto culturalmente consolidato. In conseguenza delle situazioni di depressione economica in Marocco, e in considerazione degli scarsi controlli alle frontiere del nostro Paese, un gran numero di famiglie povere di questa zona del Marocco ha accettato l’idea che il figlio minorenne potesse emigrare con un parente o un vicino di casa fattosi poi spacciare in Italia per padre o zio del minore (all'adulto accompagnatore è comunque destinato un compenso da parte della famiglia del ragazzo, a titolo di risarcimento per i rischi e le responsabilità assunte nelle false dichiarazioni di generalità).

Di norma, tutti i minorenni marocchini entrati in Italia secondo la modalità esposta precedentemente, sono stati impiegati in forme particolari o miste di ambulantato/accattonaggio. Il carattere misto di tale comportamento deriva dal fatto che in alcuni casi l'elemosina costituisce una sorta di comportamento associato alla vendita su strada ("ti vendo qualcosa e in ogni caso ti chiedo una offerta"), mentre in altri casi può essere definito come una conseguenza derivata dal calo dei profitti su strada ("non vendo più niente e comincio a chiedere l'elemosina").

All'arrivo in Italia, i ragazzi vengono alloggiati in appartamenti già occupati dai connazionali e per una quindicina di giorni vengono condotti nei punti prescelti per la vendita ambulante in veste di semplici "osservatori". Successivamente, i ragazzi vengono avviati alle attività vere e proprie, il cui ricavato viene in parte utilizzato per il pagamento del risarcimento all'adulto accompagnatore. Secondo diverse testimonianze, questo tipo di sistema sembra essere in progressiva diminuzione, a causa delle quote sempre inferiori di guadagno ricavabili da questa forma di attività: con il passare degli anni, gli italiani si sono dimostrati sempre meno disponibili ad impietosirsi, probabilmente perché, da un lato, si sono stancati di dover pagare il tributo economico "sostitutivo" dell'acquisto della merce e anche perché è cresciuta la consapevolezza fra gli italiani che l'offerta di un'elemosina o l'acquisto di un bene produce il consolidamento dello sfruttamento. Come osserva Kouchih, è su questa "crisi economica" dell'ambulantato irregolare che si è innestato il passaggio per molti ragazzi provenienti da Khouribga dalla vendita ambulante allo spaccio di sostanze stupefacenti.

E' importante sottolineare che non tutti i minorenni nordafricani coinvolti in fenomeni di devianza giungono nel nostro paese con un chiaro progetto di inserimento nella criminalità organizzata. In questo senso, si possono distinguere quei casi nei quali l’arrivo del minorenne è stato organizzato da gruppi di adulti, quasi sempre connazionali, che ne curano successivamente l’inserimento nell’attività criminale, da altri percorsi migratori, nei quali il ragazzo arriva da solo in Italia e dopo un periodo più o meno breve di permanenza, nel corso del quale si sforza di lavorare onestamente, sperimentando svariate attività lavorative irregolari, si inserisce poi, o viene fatto inserire, nel racket della droga o dei furti. Non sempre le autorità di Polizia e la magistratura sono riuscite a determinare con chiarezza la struttura organizzativa delle reti criminali che manovrano la manovalanza immigrata minorenne. In genere, come accade anche nel caso degli italiani coinvolti nella criminalità organizzata, l’appartenenza al racket è stata dedotta dalla tipologia del reato e dalle modalità con il quale è stato effettuato; dall’eventuale ricorso ad avvocati di reputazione incerta; dalla presenza di adulti che si qualificano come parenti o anche come genitori, esibendo documenti di dubbio valore (è accaduto che uno stesso adulto si sia qualificato in dibattimenti diversi come genitore di più ragazzi della stessa età).

Tale elemento conferma quanto già rilevato dall'indagine della Caritas Italiana del 1996, secondo cui la grande maggioranza dei minorenni nordafricani segnalati dalle autorità giudiziarie e sottoposti a provvedimenti penali fosse costituita da adolescenti soli, privi di documentazione regolare, senza famiglia al seguito, oppure in compagnia di un adulto di cui veniva segnalata la presenza dagli stessi ragazzi, ma che di solito viveva in un’altra città. Dai racconti dei ragazzi, l’adulto veniva di solito definito come uno “zio” o un parente prossimo, anche se l’assenza di documentazione regolare ha sempre reso impossibile l’accertamento del legame di parentela.

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Anche se non in modo stabile, l'accattonaggio dei minorenni maghrebini può riguardare anche ragazzi accompagnati dai propri genitori. In questo caso il ricorso all'elemosina va ricondotto alle difficoltà economiche della famiglia di origine e alla necessità di integrare il salario dei genitori attraverso forme di ambulantato e di elemosina. Ad esempio, tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, l'attività ambulante degli adulti in Marocco è diventata sempre meno remunerativa, al punto che diversi genitori hanno deciso condurre con sé i figli adolescenti perché contribuissero al reddito familiare. E' importante ribadire che in questi casi, alla base di tali comportamenti, non è rintracciabile una logica di sfruttamento da parte dei genitori, dato che nella cultura di origine appare piuttosto scontato che il figlio sia tenuto a contribuire in qualche forma all'economia famigliare.

Dato il carattere sommerso del fenomeno, non è possibile determinare in modo rigoroso il numero di minorenni nord-africani, soli o accompagnati, coinvolti nella vasta area della devianza che comprende anche l'accattonaggio e il commercio ambulante su strada.

3.3.4 Accattonaggio ed utilizzo di animali

Un’ultima tipologia di accattonaggio non contrattualistico e illegale su cui vorremmo soffermarci è quella messa in atto da soggetti accompagnati da cani e altri animali domestici, una forma di mendicità che si sta diffondendo in modo crescente, soprattutto nei grandi contesti urbani, laddove è segnalata la comparsa di soggetti, tendenzialmente di nazionalità non italiana, che praticano l'accattonaggio accompagnati da animali di tipo domestico o da compagnia (in genere cani e gatti).

Per sua natura, l'accattonaggio non invasivo di soggetti accompagnati da animali domestici non costituirebbe una violazione delle norme penali. Tuttavia, sulla spinta delle associazioni ambientaliste, che hanno denunciato in più occasioni le pessime condizioni in cui sono di norma tenuti tali animali (non è raro l'utilizzo di animali in stato di avanzata gravidanza, di intere cucciolate o di animali vecchi o in cattive condizioni igienico-sanitarie), alcune amministrazioni locali hanno cominciato ad emanare delle ordinanze di controllo e limitazione di tale fenomeno.

E' interessante osservare come nessuno dei provvedimenti di cui sopra sia stato motivato dalla necessità di contenere la mendicità invasiva definita dal secondo comma dell'art. 670 c.p., mentre più frequentemente tali ordinanze sono state motivate da esigenze provenienti dall'ambito ambientalista e del decoro urbano.

Esempi di questo tipo di provvedimenti sono rintracciabili in contesti urbani di medie e piccole dimensioni (es., Ferrara, Terni) e in tutte le città di dimensioni maggiori (Milano, Torino, Roma). Quasi sempre, l'ordinanza di divieto di accattonaggio con animali è stata promossa dagli uffici ambientali degli enti locali e non da quelli della pubblica sicurezza o dell'assistenza sociale. Ad esempio, nella città di Torino, il divieto di accattonaggio con uso di animali è stato sancito nel 1998 da una ordinanza dell'assessore per l'ambiente e lo sviluppo sostenibile Questo atto amministrativo è stato fatto rientrare in un programma già avviato di tutela degli animali che la Città di Torino persegue in collaborazione con le associazioni animalistiche del territorio (Enpa, Lega Nazionale Difesa Cane, Lav, Lida, Oipa, Lac, Lega Difesa Gatto) e ha fatto seguito a numerose segnalazioni con cui è stata denunciata la presenza in città, soprattutto nel periodo estivo, di "persone che a scopo di accattonaggio utilizzano animali venendo così meno ai principi di rispetto e dignità dei medesimi".

In particolare, con questa ordinanza l'ufficio ambiente e sviluppo ha inteso "salvaguardare il benessere dei cuccioli lattanti o in via di svezzamento, delle femmine gravide o in periodo di allattamento e comunque di ogni animale che si trova in stato d'incuria o di denutrizione e che risulti sofferente a causa delle condizioni ambientali in cui è costretto a vivere". Secondo quanto stabilito dall'ordinanza, gli animali ritrovati in queste condizioni verranno immediatamente presi in carico dal Corpo di Polizia Municipale, dalle Guardie zoofile dell'Enpa e dagli altri organismi preposti alla loro tutela. Gli stessi verranno quindi ricoverati presso il canile sociale dell'Enpa

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oppure, nel caso di animali esotici, presso strutture adeguate che provvederanno a curarli e vaccinarli. L'ordinanza del comune di Torino prevede delle sanzioni pecuniarie, che vanno da minimo di 50 mila lire a un massimo di 600 mila lire per i casi più gravi.

L'ordinanza del Comune di Milano che vieta di "esibire durante la pratica dell’accattonaggio animali con cuccioli lattanti, da svezzare o animali comunque in stato di incuria, denutrizione, in precarie condizioni di salute o sofferenti per le condizioni ambientali in cui vengono esposti o tenuti in condizioni tali da suscitare l’altrui pietà", è stringente e riflette istanze protezioniste e animaliste ancora più decise. L'ordinanza rileva che "sul territorio comunale è in aumento il fenomeno dell’utilizzo di animali allo scopo di raccogliere elemosine od altre utilità facendo leva sulla sensibilità dei cittadini e che gli animali impiegati per questo tipo di attività sono spesso cuccioli o femmine in avanzato stato di gravidanza e che comunque risultano custoditi in condizioni non consone al benessere degli animali, alla tutela della salute pubblica e alla profilassi delle malattie infettive". Il divieto dell'accattonaggio con animali è motivato in riferimento specifico ad una serie di norme nazionali e regionali relative alla protezione degli animali (nessuna menzione è invece fatta a proposito degli att. 670 e 671 del codice penale). La violazione all'ordinanza è punita con la sanzione amministrativa da lit. 100.000 a lit. 600.000 e con contestuale sequestro amministrativo degli animali impiegati per l’attività di accattonaggio e ricovero degli stessi presso strutture della Asl o altre strutture autorizzate. 3.4 L’elemosina contrattualistica, legale e illegale

Le ultime due tipologie di elemosina a cui facciamo riferimento si caratterizzano per il fatto che la richiesta di denaro è accompagnata da una prestazione d’opera o dal rilascio di un bene, in genere di nullo o scarso valore economico. Per la precisione, è necessario sottolineare che alcune di tali forme di elemosina vengono attuate in modo misto, dai protagonisti di alcune delle situazioni già affrontate nel paragrafo precedente (minori stranieri, nomadi, ecc.).

L’aumento più significativo di forme contrattualistiche di elemosina si è avuto a partire dall’arrivo di immigrati extracomunitari, che negli ultimi anni hanno provveduto a rivitalizzare settori di attività di economica marginale che sembravano ormai scomparsi oppure limitati a specifici contesti territoriali.

Sul versante legale del fenomeno si collocano una serie di molteplici situazioni: i lettori della mano (stabili e itineranti, spesso di origine nomade); i distributori di santini e immagini sacre presso santuari, cimiteri, ecc.; i cosiddetti orientatori/facilitatori in uffici pubblici, in genere anziani, di nazionalità italiana, che offrono informazioni sull’ubicazione di uffici o sulle modalità di svolgimento di particolari iter amministrativi, chiedendo in cambio una piccola offerta in denaro; coloro che si posizionano presso biglietterie e distributori automatici, illustrando il funzionamento di tali meccanismi in cambio di una offerta; o presso gli ingressi di supermercati o centri commerciali, offrendo aiuto per il prelievo dei carrelli, per il trasporto dei sacchetti della spesa fino all’automobile, ecc.

Ad un gradino di complessità di poco più elevato si collocano coloro che espletano delle prestazioni che assumono una forma semi-professionale e stabile. E’ il caso dei lavoratori abusivi presso self-service di carburante (quasi sempre di origine extracomunitaria), o dei posteggiatori abusivi, una categoria quest’ultima molto diffusa, specialmente in alcune regioni italiane, con particolare riguardo al Lazio, alla Campania e ad alcune località centri di attrazione turistica. Secondo le testimonianze degli operatori di giustizia, nell’area metropolitana di Napoli e in altri contesti meridionali, il lavoro dei posteggiatori abusivi è in gran parte controllato e gestito dalla camorra e dalla criminalità organizzata.

Una situazione molto particolare, e di recente diffusione sul territorio italiano, si riferisce infine a quelle persone che dichiarano di essere sordomute e che sui treni o presso i locali pubblici cedono un piccolo oggetto (portachiavi, bamboline, ecc.), in cambio di un’offerta economica minima. Secondo le informazioni disponibili, si tratta quasi sempre di persone originarie dell’Est

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Europeo, di sesso prevalentemente maschile, effettivamente colpite da problemi di sordità e/o mutismo, e che arrivano in Italia attraverso l’intermediazione di gruppi criminali, che organizzano su vasta scala il loro sfruttamento. In alcuni casi le indagini condotte dalle Forze dell’Ordine hanno consentito di accertare che queste persone vengono prelevate direttamente nel paese di origine, presso istituti residenziali di cura, ospizi, ospedali, con la promessa di un periodo di facile guadagno all’estero. Dato che alcune Caritas diocesane hanno segnalato la presenza sporadica di questi soggetti, che frequentano in modo apparentemente libero da controlli esterni, mense e altre strutture di erogazione di beni primari, sembrerebbe possibile affermare che il controllo dei gruppi criminali su tali soggetti sia di breve durata, e limitato comunque ad una fase iniziale della loro permanenza sul territorio italiano.

4. La repressione e il controllo del fenomeno Sulla scia di una serie di misure prese nel marzo 2000 dal governo laburista inglese di Tony

Blair, si sono cominciate a diffondere anche in Italia delle tendenze e proposte di legge repressive del fenomeno. Come ricordiamo, l'annuncio della "tolleranza zero" contro il fenomeno dell'accattonaggio di donne nomadi con bambini al seguito per le strade della City di Londra, è stata data in televisione da Paul Boateng, sottosegretario inglese agli Interni, che ha fatto riferimento all'incompatibilità della cultura e della legislazione britannica con consuetudini e stili di vita che prevedono l'accattonaggio invasivo e l’uso strumentale di bambini. Su questa decisione del governo inglese, si è registrata immediatamente una spaccatura dell'opinione pubblica. Da un lato, le associazioni della solidarietà hanno paragonato le politiche decise dal governo con le numerose leggi contro poveri, mendicanti e vagabondi emanate nei secoli scorsi dai sistemi assolutistici per controllare la diffusione della povertà nelle città e nelle campagne. Sull'altro versante, i più diffusi giornali popolari hanno appoggiato le misure anti-accattonaggio, dando ampio risalto al processo contro una zingara accusata di avere aggredito e gettato a terra una vecchietta che non aveva accettato di pagare.

In Italia, alcune forze politiche hanno accolto positivamente la notizia di un provvedimento legislativo deciso a contrastare i fenomeni di accattonaggio. Ad esempio, nel marzo 2000, in un comunicato stampa, il Responsabile degli Enti Locali della Lega Lombarda ha annunciato l'impegno a presentare un disegno di legge di iniziativa popolare sul modello britannico. La Lega denuncia nel suo documento il disagio derivato dal rischio che "zingari e lavavetri petulanti costituiscono per il traffico cittadino nei loro bivacchi a crocevia", ipotizzando la sussistenza del reato di "intralcio al traffico" e di "omissione d'intervento" per quelle autorità di polizia che non prestano adeguata attenzione al fenomeno.

Sempre su questa linea di intervento, si era espressa pochi giorni prima l'agenzia stampa Agepadania, che dava la notizia di una interrogazione urgente presentata il 5 marzo 2000 al ministro dei Trasporti dal senatore della Lega Nord Elia Manara, all'interno del quale si evidenziava la necessità di "intervenire con la massima urgenza per porre fine all'incivile ed indecente comportamento di accattoni, zingari, tossicodipendenti, extracomunitari che, con sistematica puntualità, salgono nei treni in sosta nelle stazioni ferroviarie di Milano e di Roma ad elemosinare". Nell'interrogazione, il senatore leghista riferiva inoltre che "tali forme di accattonaggio anziché attenuarsi tendono ad assumere dimensioni inaccettabili, mettendo in notevole difficoltà i viaggiatori e suscitando soprattutto in quelli stranieri una legittima reazione improntata a indignazione".

Anche se meno frequenti rispetto alle ordinanze relative allo sfruttamento degli animali per fini di elemosina, di cui abbiamo già dato nota, alcuni comuni ed enti locali italiani hanno deliberato degli atti di indirizzo e divieto dell'utilizzo strumentale dei minori durante l'accattonaggio. Ad esempio, l'assemblea regionale siciliana, con ordine del giorno approvato il 22-23 dicembre 1998, constatando che gli episodi di sfruttamento minorile per attività di accattonaggio sono "lungi dall'essere episodi isolati" e che anche nel territorio della Regione siciliana "non è difficile

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imbattersi in piccoli mendicanti che, a tutte le ore del giorno, chiedono l'elemosina suscitando un comprensibile senso di sgomento in tutti quelli che incontrano", e considerato che in "nessuna società, anche la meno civile, è tollerabile qualsiasi tipo di sfruttamento minorile, soprattutto quando a questo si aggiungono torture e sevizie", impegna il governo della regione ad "adottare tutti i provvedimenti necessari affinché si levi alta una protesta che, con un atto di accusa senza alcun tipo di attenuante, condanni qualsiasi tipo di sfruttamento minorile e sensibilizzi le istituzioni preposte e le Forze dell'ordine ad una maggiore vigilanza sul territorio, volta a debellare, una volta per tutte, tale inqualificabile fenomeno". A questo scopo, la Regione si impegna a promuovere una conferenza di servizi tra Presidente della Regione, prefetti, questori ed Arma dei Carabinieri per adottare una strategia comune nella lotta contro lo sfruttamento dei minori.

A livello comunale, sono diverse le amministrazioni comunali che hanno avvertito l'esigenza di pronunciarsi sull'argomento. E' possibile citare, a titolo di esempio, l'ordinanza del sindaco di Ferrara, emessa nel maggio 1999, che, "considerata la necessità di intensificare l'attività di vigilanza in materia di impiego dei minori nell'accattonaggio per le strade e agli incroci della città, e l'uso di mezzi fraudolenti per destare la pietà dei cittadini", ordina al Corpo di Polizia Municipale di "vigilare, al fine di prevenire e far cessare l'impiego di persone minori di anni 14 per mendicare in luogo pubblico o aperto al pubblico, nonché le forme di accattonaggio che fanno uso di mezzi fraudolenti per destare l'altrui pietà, nel rispetto delle norme in materia".

Va comunque osservato che sono poche le amministrazioni comunali che hanno evidenziato un interesse concreto nel segnalare e perseguire il fenomeno. In alcuni casi, è possibile invece segnalare delle situazioni di conflitto e di divergenza di opinioni sulla natura e presenza del fenomeno tra le amministrazioni comunali e le diverse realtà del volontariato e del privato sociale. Un esempio di questo tipo di conflitto è quello che si è avuto pochi anni fa a Bologna, laddove la Caritas diocesana aveva segnalato la presenza di un certo numero di “ragazzi di strada”, in gran parte minorenni di origine maghrebina impegnati nell’accattonaggio e nella pulizia dei parabrezza ai semafori. Anche di fronte a testimonianze intangibili, le autorità municipali si sono rifiutate per anni di accettare l’esistenza del fenomeno sul territorio (o ne riducevano fortemente l’entità numerica rispetto al reale stato dei fatti).

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II. LA RICERCA SUL CAMPO

1. Struttura dell’indagine

Il case-study presentato in questa sede costituisce l’unica ricerca specifica sul tema dell’accattonaggio disponibile attualmente nell’ambito delle scienze sociali italiane. In effetti, mentre sono disponibili diversi studi su fenomeni connaturati (barbonismo, sfruttamento dei minorenni, condizioni di vita delle popolazioni nomadi, ecc.), non sembra siano stati prodotti contributi di ricerca empirica sull’accattonaggio, in quanto fenomeno sociale dotato di proprie e specifiche determinazioni e caratteristiche.

La realizzazione sul campo di una ricerca specifica sul tema dell’accattonaggio trova una serie di ostacoli metodologici, organizzativi e di carattere operativo, riconducibili alla complessità del fenomeno, alla pluralità dei soggetti e dei contesti sociali chiamati in causa, alla trasversalità delle condizioni sociali degli interessati (minori, stranieri, nomadi, anziani, ecc.), alla contiguità di molte forme di accattonaggio con situazioni di illegalità e devianza, alla relativa invisibilità sociale dei protagonisti, ecc. L’approccio di tipo quantitativo allo studio del fenomeno si scontra inoltre con la difficoltà a mettere in atto strategie di ricerca di tipo campionario, in quanto la non conoscenza dell’entità dell’universo di riferimento determina l’impossibilità di pervenire ad un campione statisticamente rappresentativo del fenomeno a livello nazionale o locale. Allo stesso tempo, il costo elevato e la difficile realizzazione pratica di metodologie sperimentali, di stima numerica del fenomeno, quali il metodo s-night e altre metodologie simili, applicate raramente in Italia, rende particolarmente difficoltoso realizzare una indagine su vasta scala territoriale.

Per questi motivi, dato il carattere di trasformazione continua del fenomeno dell’accattonaggio in Italia, che negli ultimi anni ha visto affacciarsi nuovi protagonisti e nuovi modelli di richiesta di denaro, si è ritenuto opportuno privilegiare una metodologia di carattere qualitativo, orientata all’approfondimento delle situazioni e alle carriere biografiche dei diretti interessati, attraverso la tecnica dell’intervista semi-strutturata, con taglio ermenutico e biografico.

Nel dettaglio, sono state intervistate 21 persone che praticano l’accattonaggio, appartenenti a diverse tipologie sociali, in riferimento ad una differenziazione di aree territoriali ritenute disomogenee tra di loro (Nord-Centro-Sud, città grandi medie piccole, zone ad alta-media-bassa densità urbana).

Il reperimento delle persone da intervistare è stato possibile grazie alla collaborazione di otto Caritas diocesane, che hanno acconsentito a svolgere un fondamentale ruolo di trait-d’union tra le persone dedite all’accattonaggio e gli intervistatori. Tale ruolo è di fondamentale importanza in quanto è stato dimostrato che l’approccio diretto di un intervistatore con persone in situazione di emarginazione grave “su strada” non è sempre produttivo, in quanto si innescano dinamiche di sospetto oppure, sul versante opposto, di interesse utilitaristico alla realizzazione dell’intervista.

La ricerca si è sviluppata secondo le seguenti fasi operative:

Prima fase (settembre-dicembre 2001): completamento della mappa concettuale del fenomeno e della definizione dei suoi principali tratti qualitativi. Metodologia: interviste con testimoni privilegiati. Interviste con responsabili di centri di ascolto, centri di assistenza, Caritas diocesane, ecc. La scelta delle Caritas diocesane da coinvolgere ha tenuto conto anche dell'effettiva presenza del fenomeno nel territorio di riferimento (Bolzano, Padova, Vicenza, Albano, Latina, Napoli, Pozzuoli, Reggio Calabria). Seconda fase (dicembre 2001-gennaio 2002): ricostruzione di percorsi biografici e carriere di povertà. Metodologia: interviste con 30 persone dedite all’accattonaggio segnalate da centri di ascolto e altre strutture di assistenza delle chiese locali. Terza fase (febbraio 2002): lettura e analisi delle interviste qualitative (redazione del Report) Quarta fase (in corso): elaborazione di un sussidio per le comunità locali. La Caritas Italiana, in base a quanto rilevato sul territorio, prevede di elaborare un documento contenente informazioni

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quantitative, una rassegna di esperienze locali e possibili linee-guida per l'attività di animazione sul territorio. Il testo dovrebbe anche prevedere anche alcune riflessioni biblico-pastorali. Il sussidio verrà messo a disposizione delle Caritas diocesane e delle comunità parrocchiali, secondo modalità da definire.

2. Cronache dalla strada: percorsi biografici di accattonaggio

2.1 Premessa La ricerca ha avuto come oggetto la ricostruzione dei possibili fattori attraverso cui si

sviluppano le traiettorie biografiche che conducono all’accattonaggio, fenomeno tipicamente legato a situazioni di esclusione sociale e di povertà. Nello studio del fenomeno acquistano uno spazio rilevante sia le caratteristiche socio-anagrafiche dei soggetti ma soprattutto i comportamenti attivi che questi mettono in atto. La ricostruzione di eventi e circostanze mostrano una diversità di situazioni apparentemente simili e permettono di risalire a fattori microsociali che contribuiscono a disegnare il destino degli individui. Il lavoro si è posto, infatti, l’obiettivo di ricostruire la forma delle traiettorie, individuando le successioni degli eventi e il ruolo giocato dai fattori di contesto attraverso il racconto della propria esperienza soggettiva.

2.2 Gli intervistati

Sono state realizzate 21 interviste biografiche, nel periodo compreso tra novembre 2001 e febbraio 2002; 6 al Nord Italia tra Padova e Bolzano, 5 al Centro (Latina e Aprilia, area sub-metropolitana della capitale, situata nella diocesi di Albano), 10 al Meridione, tra Napoli, Pozzuoli e Reggio Calabria. Il reperimento delle persone da intervistare è stato possibile grazie alla collaborazione di alcune Caritas diocesane, che hanno acconsentito a svolgere un fondamentale ruolo di trait-d’union tra le persone che praticano l’accattonaggio e gli intervistatori.

Tutti gli intervistati hanno praticato almeno una volta forme di accattonaggio. Le 21 persone appartengono a diverse tipologie sociali: immigrati, senza fissa dimora, donne sole, adulti disoccupati, anziani senza copertura assicurativa. Queste le principali caratteristiche anagrafiche:

• la maggioranza sono uomini (16 su 21); cinque le donne tra cui una minorenne di 15 anni; • l’età media è 44 anni. La più giovane ha 15 anni, il più anziano 64; • il 38% (8 su 21) sono separati; il 19% (4 su 21) coniugati mentre il restante 57% (9 su 21) è

celibe o nubile; • tutti gli intervistati hanno un livello basso o nullo di istruzione; • il 66% (14 su 21) è di nazionalità italiana, il restante 33% (7 su 21) è di nazionalità straniera

(Austria, Ghana, Jugoslavia, Marocco, Polonia, Turchia, Tunisia). Questi alcuni degli elementi osservati durante l’intervista, relativamente all’aspetto esteriore

degli intervistati: abbigliamento; aspetto fisico; condizioni igieniche; comprensione delle domande; capacità espressiva; atteggiamento verso l’intervista. La cura per il proprio aspetto è apparsa trascurata da 6 intervistati su 21 totali. Si tratta in tutti i casi di persone senza fissa dimora o che vivono in alloggi privi di servizi igienici. Sono 5 uomini e una donna, la metà di essi è composta da immigrati.

La capacità di comprensione delle domande è buona nel 76% dei casi (16 su 21); il linguaggio utilizzato è semplice e presenta con molta frequenza inflessioni dialettali. I racconti sono lineari e coerenti. Per i 5 intervistati con scarsa capacità di comprensione delle domande, si evidenzia anche la difficoltà a ricordare chiaramente eventi, date e circostanze di vita attraversate. Quattro sono immigrati e con conoscenze nulle o quasi dell’italiano.

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Indipendentemente dalle caratteristiche anagrafiche e sociali, tutti hanno mostrato un atteggiamento di apertura e una buona disponibilità a farsi intervistare. In alcuni casi le persone sono state intervistate direttamente sul loro luogo di vita, la strada.

2.3 Dimensioni indagate L’intervista realizzata è di tipo semistrutturato, non contiene formulazioni esplicite di

domande ma solamente alcune indicazioni generiche sui temi da trattare. Le domande fanno riferimento a tre macro-aree problematiche: 1. caratteristiche biografiche e sociali; 2. risorse attuali; 3. difficoltà e strategie di accattonaggio.

In riferimento a ciascuna area problematica sono stati poi evidenziati alcuni sotto elementi di

interesse: dati strutturali, biografia, utilizzo e conoscenza di servizi, relazioni familiari, amicali, ecc.

1. CARATTERISTICHE DEMOGRAFICO - SOCIALI

Dati strutturali

• Cittadinanza/Nazionalità • Luogo e anno di nascita • Sesso • Stato civile Biografia

• I genitori: in vita/non in vita Istruzione Eventuale adozione (o altre forme di accoglienza in famiglia) Professione • Istituzioni: collegi, servizi sociali, ecc. • Scuole frequentate/Esperienze lavorative • Migrazioni: motivo della presenza/variazioni • Eventi traumatici: Malattie/separazioni/licenziamenti/carcere/ospedalizzazione/violenza/perdita • Carriera di povertà (ingresso temporaneo o no, evoluzione..) 2. RISORSE ATTUALI

• Abitative • Economiche: sussidi, offerte, elemosine • Lavoro • Da servizi (conoscenza, uso e valutazione): pubblico e privato-sociale • Relazionali (famiglia, amici, ecc.) 3. DIFFICOLTA’ E STRATEGIE DI ACCATTONAGGIO

• Strategie di accattonaggio: inizio, percorso, tempi, luoghi, modalità, anzianità e carriera, variazioni, problemi e difficoltà

• Indicare una giornata tipo (se pratica accattonaggio) • Relazioni: con altri mendicanti Con le forze dell’ordine Con i servizi pubblici (comune, ASL, ecc.) Con la famiglia Con operatori sociali, parrocchie, ecc. Con persone “comuni” • Meccanismi di uscita/prospettive per il futuro • Atteggiamenti/motivazioni dell’accattonaggio

La prima sfera è quella della biografia degli individui e della famiglia di provenienza. Ci si è

soffermati su una serie di elementi che rimandano alla ricostruzione del tessuto familiare, culturale, lavorativo ed economico per comprendere quali eventi e circostanze hanno portato i soggetti ad un indebolimento del proprio quadro di vita. L’interesse che ha guidato l’intera ricerca infatti, non è stato solo quello di capire la situazione attuale dell’intervistato e i modelli di accattonaggio di cui è

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portatore, ma soprattutto ricostruire le fasi e le condizioni attraverso cui ognuno di loro è giunto alla condizione di esclusione e alla pratica dell’accattonaggio.

La seconda sfera è quella delle risorse attuali di cui il soggetto dispone. Si tratta del campo delle risorse economiche, abitative e delle reti di protezione disponibili: la famiglia, gli amici, le istituzioni, tutti quei canali attraverso cui circolano le risorse materiali e affettive. La terza sfera è quella più propriamente legata al fenomeno dell’accattonaggio; si indaga sulle strategie utilizzate, sui comportamenti messi in atto, sulle aspettative e prospettive per il futuro.

La scelta di approfondire il tema dell’accattonaggio solo dopo aver ricostruito il percorso di vita, rimanda alla volontà di leggere il fenomeno in un'ottica temporale: è importante ricostruire le circostanze in seguito alle quali ognuno degli intervistati è giunto, anche se per una sola volta, a chiedere soldi a persone estranee alla rete famigliare/amicale. La delicatezza dell’argomento non ha sempre consentito di raccogliere informazioni dettagliate sulle strategie di accattonaggio; alcuni intervistati hanno negato in prima battuta di averlo mai praticato, altri hanno mostrato disapprovazione per chi sceglie di “chiedere l’elemosina”, altri ancora hanno affermato di servirsene ma solamente in cambio di un servizio; alcuni infine si sono limitati ad affermare di farsi

aiutare dagli amici, anche se le informazioni in nostro possesso erano di tagli diametralmente opposto. 2.4 I livelli di analisi

La natura complessa del fenomeno determina la necessità di una lettura multidimensionale, che sia in grado di cogliere in modo adeguato la ricchezza e l’eterogeneità del disagio, che non è soltanto di tipo economico (elemento tradizionale nello studio della povertà) ma si caratterizza per una serie di elementi di tipo sociale. Per questo motivo appare più adeguato inscrivere il fenomeno dell’accattonaggio nel più vasto ambito dell’esclusione sociale, una complessa fenomenologia che solo in parte si sovrappone alla povertà economica.

L’analisi delle interviste si snoda tra due livelli: uno macro e uno micro. Con il primo abbiamo cercato di individuare alcuni dei fattori sociali che producono le

principali forme di segmentazione sociale e che pertanto determinano una frattura della popolazione in gruppi con diseguale accesso alle risorse. In tal senso ricoprono una certa importanza alcune variabili: le risorse culturali ed economiche del soggetto e del contesto familiare di provenienza, il lavoro e i consumi.

Il secondo livello di analisi è quello micro, e si riferisce alla dimensione individuale e del nucleo familiare. L’analisi spinta a questo livello permette di ricostruire i percorsi di vita degli intervistati e di cogliere gli eventi significativi che li hanno condotti, con intensità e forme diverse, verso stati di esclusione. Come vedremo meglio più avanti, in alcuni casi, il fattore scatenante dell’esclusione sociale è stato l’avvento di una malattia degenerativa, a cui hanno fatto seguito altri eventi quali la perdita del lavoro, della casa, l’esaurimento dei risparmi, la necessità di cure e l’impossibilità fisica di continuare a lavorare; in altri casi, la difficoltà di trovare un lavoro regolare è stata aggravata dalla condizione di essere immigrato, senza titolo di studio e permesso di soggiorno.

2.5 Il quadro sociale: analisi dei fattori strutturali L’analisi delle interviste e la ricostruzione dei percorsi di vita permette di individuare, a

livello macro, alcuni dei fattori che, in modo singolo o concomitante, hanno operato sui soggetti in termini di esclusione sociale. Due sono le sfere principali rispetto alle quali operano i meccanismi di produzione dell’esclusione sociale a livello macro: il capitale culturale e il lavoro.

a) il capitale culturale

L’assenza di un capitale culturale nella famiglia di provenienza è la prima sfera in cui tra gli intervistati, operano i meccanismi di esclusione. La possibilità che si inneschino meccanismi di

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trasmissione intergenerazionale della condizione di esclusione dai genitori ai figli, più volte descritta in molti studi e ricerche, viene confermata nella maggior parte delle interviste. E’ questo forse l’aspetto più inquietante dell’intera indagine, in quanto dimostra che la possibilità di essere esposti al rischio è più forte e frequente in contesti familiari con uno scarso capitale culturale, sociale ed economico. La famiglia di origine, quindi, riveste un ruolo importante non soltanto per l’aspetto affettivo ma anche perché può contribuire in modo determinante ad esporre al rischio di privare i propri componenti di alcuni fondamentali strumenti di promozione sociale, quali l’istruzione e il lavoro.

La maggior parte degli intervistati proviene da famiglie numerose con madre casalinga e padre operaio o contadino. In tutte, il livello di istruzione è nullo o scarso; molti di loro hanno i genitori semi-analfabeti. Ugualmente, i figli non hanno accresciuto il proprio capitale culturale; la maggior parte dispone a mala pena della licenza elementare; alcuni, per una serie di circostanze di vita, non hanno terminato il ciclo primario di scuola. Altri hanno conseguito la licenza media ma questo avviene solo per pochi (5 su 21). Solo uno è riuscito a diplomarsi presso un istituto professionale. Due immigrati dicono invece di aver frequentato la scuola per lunghi periodi di tempo (undici e tredici anni) ma non sono in grado di ricordare se sono in possesso di un titolo superiore di istruzione.

Molti degli intervistati riconoscono che se avessero avuto un titolo di studio la loro vita sarebbe stata diversa, con meno difficoltà e con più possibilità di trovare un lavoro; chi di loro ha figli ha preferito sacrificarsi per farli studiare in modo da garantirgli un futuro migliore.

Vincenzo26 di Aprilia (provincia di Roma) ha 58 anni, ci racconta la persona che da qualche tempo si prende cura di lui. Ha quattro figli tutti sistemati e con un lavoro; “ho sposato i miei figli

con il sangue mio”. Angela di Latina appartiene ad una famiglia zingara italiana di origine Sinti. Sia lei che il marito hanno a mala pena concluso la quinta elementare ma per i loro tre figli vogliono fare il possibile; i più grandi hanno concluso la terza media ed oggi sono iscritti ad un corso di informatica.

b) il lavoro

La seconda sfera principale, a livello macro, rispetto alla quale operano i meccanismi di esclusione è quella del lavoro e dei consumi. Per la maggior parte degli interessati, l’accesso al lavoro è stato negato o relegato a ruoli marginali. Le attività lavorative di cui gli intervistati hanno avuto esperienza si caratterizzano per un’estrema precarietà; gli uomini si sono sempre arrangiati con lavoretti a giornata come fare il giardiniere, raccogliere pomodori in campagna, pulire le cantine, fare traslochi, lavori di imbianchini o qualsiasi altro lavoro di manovalanza semplice. Le donne, invece, sono state impegnate soprattutto come collaboratrici domestiche. Da molte interviste si evidenzia come causa scatenante dell’esclusione l’instabilità e la precarietà del lavoro, a cui è legata a sua volta la scarsità delle risorse economiche, con relativa perdita della casa, della salute e anche degli amici.

La condizione di esclusione dal lavoro regolare si aggrava quando diventa cronica o quando chi la subisce è immigrato e senza regolare permesso di soggiorno. Infatti, i sette immigrati intervistati sono accomunati dal fatto di non aver mai avuto un regolare permesso di soggiorno o di non averlo potuto rinnovare a seguito della perdita di un lavoro regolare. Questi alcuni stralci di racconto tratti da alcune delle loro interviste.

Matteo ha 36 anni, è celibe e proviene dalla Polonia. Dice di aver frequentato 13 anni di scuola, presumibilmente dovrebbe avere un diploma superiore. Vive in Italia da 7 anni ed è a Napoli da cinque. Le sue esperienze lavorative sono state sempre connotate come attività a nero e saltuarie. Ha fatto assistenza ad un anziano, il guardiano notturno e altro. Attualmente vive in una casa abbandonata; chiede soldi o aiuto a persone di sua conoscenza. Racconta di aver fatto accattonaggio con altri connazionali, soprattutto chiedendo soldi ai semafori. Oggi riceve l’aiuto della Caritas per

26 Tutti i nomi originali degli intervistati sono stati modificati per rispetto della privacy personale.

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un pasto caldo e capi di vestiario. Alla domanda “quali prospettive per il futuro” risponde di desiderare una situazione lavorativa migliore, ma non sa come muoversi per cambiare la sua situazione.

Allo stesso modo Adamo, che decide di lasciare il suo paese, la Turchia, in cerca di un futuro migliore, è da 16 anni in Italia ma non è ancora riuscito a trovare un lavoro regolare. Anche lui ha cambiato numerosi lavori. Dal 1985 al 1993 ha avuto un regolare permesso di soggiorno, non rinnovato per la mancanza di un lavoro stabile. Adamo sottolinea la difficoltà che incontra un immigrato nella ricerca di un lavoro e osserva come molto spesso sia riuscito a trovare lavoro tramite amici connazionali. Attualmente non lavora, fa il parcheggiatore al porto di Mergellina. Anche lui riceve l’aiuto della Caritas e di qualche amico. I suoi connazionali versano più o meno nella stessa situazione. Malgrado la durezza della vita che conduce in Italia non sembra intenzionato a voler tornare in Turchia. Anche lui, come Matteo, vorrebbe trovare un lavoro ma non sa come mettere in atto questo progetto.

Più fortunato è Rudy, originario del Ghana. L’arrivo in Italia a soli 17 anni è stato mosso dal desiderio di “venire in Europa e fare qualcosa di più”. Proviene da una famiglia numerosa che non ha mai avuto problemi economici. Ci tiene a sottolineare che non ha lasciato il suo paese per motivi legati alla povertà. Giunto in Italia lavora come commesso in un negozio di Roma, con regolare contratto di lavoro per ben 5 anni. Conduce quindi una vita assolutamente normale: ha una casa, un lavoro e amici italiani. E’ anche un musicista, suona con altri ragazzi, tutti italiani, in alcuni locali di Roma e nelle feste di partito. La perdita del lavoro nel 1990 segna l’inizio di un declino economico e conseguentemente fisico che lo porta verso un percorso di povertà estrema. Le condizioni peggiorano nel 1998 quando trovare un lavoro saltuario diventa anch’esso un problema. Inizia a vivere alla giornata e spesso si trova senza soldi per mangiare. Le difficoltà si acuiscono nel dicembre 2000. Inizia a vivere grazie agli aiuti di alcuni benefattori, soprattutto di un ragazzo italiano. Non avendo più un posto dove stare, si ritroverà a dormire nel pianerottolo del palazzo del suo amico, all’ultimo piano, in modo che nessuno possa vederlo. Le condizioni di salute cominciano a peggiorare, non ha più le forze di cercare un lavoro e ben presto anche la speranza di potercela fare si affievolisce. Racconta di aver provato la sensazione di lasciarsi andare. La sua paura più grande è stata quella di perdere la ragione e di diventare un barbone. La sua situazione però cambia volto, grazie al contatto con la Caritas, dove viene accolto e soccorso. Oggi Rudy è uscito dal tunnel della povertà. Dal mese di febbraio di quest’anno vive nel centro di accoglienza della Caritas ad Aprilia; non possiede ancora un’abitazione propria ma ha l’intenzione di prendersi in affitto un appartamento. Il centro Caritas lo ha aiutato a trovare un lavoro. Attualmente fa l’operaio in una società che vende mobili per ufficio.

Da questi pochi stralci e dalle altre interviste si evidenzia che la condizione di occupazione iregolare, quando assume un carattere cronico, diventa un elemento che espone i soggetti al rischio

di esclusione da tutta una serie di diritti fondamentali e naturalmente anche di prestazioni, tra cui quelle previdenziali.

La situazione degli immigrati è di fatto maggiormente connotata dall’esclusione sociale. Indipendentemente dalla cittadinanza, nessuno di loro può infatti contare su un lavoro retribuito e regolare che permetta l’accantonamento di contributi previdenziali a fini pensionistici. Il più anziano degli intervistati (64 anni), con alle spalle più di 30 anni di lavoro regolare, potrebbe tornare a condurre una vita normale se solo potesse beneficiare della pensione che ancora non percepisce a causa di mancati versamenti da parte del datore di lavoro. Questo è l’unico caso, tra quelli presi in considerazione, in cui l’attuale stato di povertà dell’intervistato non sia legato a fattori macro-sociali di esclusione (povertà del contesto economico-sociale di provenienza; disoccupazione cronica), in quanto il fattore scatenante è stato in questo caso l’avvento di una malattia grave, che lo ha reso di fatto inabile al lavoro. Se da una parte tale elemento scatenante è di origine individuale e quindi riporta l’attenzione su una sfera micro-sociale, d’altra parte esso può essere fatto rientrare in un’ottica macro-sociale, in quanto dalla storia narrata si evidenzia una

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sostanziale mancanza dell’intervento pubblico, in termini di prestazioni pensionistiche o assistenziali.

“ La società per la quale lavoravo non mi ha versato gli ultimi nove anni di contributi.

Sono passati 3 anni da quando ho smesso di lavorare; dopo una causa durata anni,

sono stato riconosciuto invalido al 67 %. Spero di poter prendere tra Marzo e Aprile

del nuovo anno la liquidazione e gli arretrati della pensione dal 1998 ad oggi”.

In questo caso specifico il sistema del welfare non ha contribuito ad evitare l’esclusione. Per ritornare all’analisi della sfera lavorativa, è difficile capire se è la povertà culturale che ha reso gli intervistati più vulnerabili ad una povertà economica o se è quest’ultima che li ha deprivati dei diritti di cittadinanza. In altri termini, il problema è dato dall’impossibilità di spiegare il fenomeno dell’esclusione sociale e ricondurlo ad una unica causa scatenante. Indubbiamente le due dimensioni sono tra loro connesse ma non possiamo individuare in nessuna delle due realtà l’unica causa di un percorso di esclusione; piuttosto, dalle biografie degli intervistati emerge che la scarsità di risorse economiche o culturali non costituisce condizione né necessaria né sufficiente per determinare una situazione di esclusione sociale. E’ qui che entra in gioco l’importanza del secondo livello di analisi, quello micro-sociale, relativo alla sfera individuale e familiare. E’ grazie a quest’ultimo elemento che è possibile ricostruire i percorsi di vita degli intervistati e di cogliere gli eventi significativi che li hanno condotti, con intensità e forme diverse, verso stati e dinamiche di esclusione sociale.

2.6 La biografia degli individui: i fattori individuali Dall’analisi delle interviste e dalla ricostruzione delle biografie degli individui, si individuano

alcuni eventi traumatici che hanno portato gli intervistati verso un percorso che li ha condotti all’esclusione sociale.

La rottura dell’unità coniugale è l’evento individuale che più frequentemente è stato vissuto come un dramma tanto da accompagnarsi, il più delle volte, ad una perdita dell’equilibrio psichico. A questo proposito riportiamo alcuni stralci tratti da 2 interviste condotte nel Nord Italia: la prima a Padova, la seconda a Bolzano.

Giacomo è divorziato ed ha 58 anni; originario di Chioggia attualmente vive a Padova. Non ha concluso il ciclo delle elementari, ha frequentato sino alla terza classe. Proviene da un contesto familiare modesto: il padre faceva il muratore, la madre la casalinga. Tutto – racconta - ha avuto inizio con il trauma del ritrovamento della moglie nel proprio letto con un amante e sotto gli occhi del figlio in tenera età:

“ Era lì nel letto e il bambino era lì vicino…. Chiamai la signora di fronte, era una in

carrozzella. Signora mi fai da testimone? E lei “ Sì, sì.. era tanto che volevo dirtelo ma

non riuscivo”. In quindici giorni sono andato dall’avvocato… al tribunale di Venezia

ma non per fare la separazione proprio il divorzio.. e dopo non sono andato più a

lavorare.. dopo io andavo di qua e di là.. bevi di qua e bevi di là.. dormivo in spiaggia..

sono stato ricoverato in ospedale perché andavo via con la capoccia”.

In seguito alla separazione violenta dalla moglie, Giacomo vagabonda per diverso tempo e sperpera tutti i risparmi in donne e alcool, da cui l’impossibilità a lavorare. Oggi è un “senza fissa dimora”, si appoggia al dormitorio della Caritas di Padova.

Questo caso evidenzia in modo chiaro la natura del fattore scatenante che ha innescato la catena di eventi e comportamenti sfociati poi nell’esclusione sociale.

Allo stesso modo è esemplare la storia di Pino, che fa trapelare come fattore scatenante la perdita dei legami sentimentali. Divorziato, ha 49 anni. Possiede il titolo di quinta elementare. Originario di Molfetta (BA) si è spostato tra Mantova, Modena e la Puglia e infine a Bolzano dove

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vive attualmente. Gli eventi traumatici della sua vita sono legati alla chiusura delle sue due principali relazioni sentimentali: la separazione con la moglie e la rottura delle relazioni con la compagna convivente. Prima di questi eventi Pino racconta di aver condotto una vita regolare. Attualmente vive sotto un ponte insieme ad altri tre senza fissa dimora. Ognuno di loro ha un letto e dei fornelli per cucinare. Racconta la sua storia e in riferimento alla moglie dice “quando ho chiuso

con lei ho preso destinazione per Modena e poi anche lì altra legnata e altro dispiacere.. queste

cose che piano piano ti distruggono il cuore. Quello che da fastidio è che uno fa dei sacrifici e poi

alla fine sono dei sacrifici che non servono a niente. Non mi trovo niente, dormo sotto un ponte”.

Sul legame con la seconda donna, dopo la moglie, dice “ pur di non vederla ho preferito

andarmene da Modena e così me ne sono venuto a Bolzano”.

Il secondo fattore micro-sociale rintracciabile dalle interviste è l’avvento di un problema grave di salute o di tossicodipendenza. Anche in questo caso si tratta del fattore scatenante a cui hanno fatto seguito per effetto cascata una serie di eventi la cui successione è più o meno identificabile con chiarezza: perdita del lavoro, della casa, vagabondaggio e accattonaggio. Questi alcuni stralci tratti da 2 interviste; la prima condotta nei dintorni di Roma, ad Aprilia, la seconda a Napoli.

Pasquale di Aprilia (RM) ha 64 anni. Proviene da una famiglia media; il padre era ispettore dell’azienda tranviaria napoletana; la madre, invece, ha sempre fatto la casalinga. Non hanno mai avuto problemi economici. L’evento traumatico che ha cambiato la sua vita è stato la scoperta della malattia che lo costringe a 16 ore al giorno di ossigeno e, fin da subito, a lasciare il lavoro. Per circa un anno è riuscito a vivere con i risparmi accumulati; si arrangiava a fare qualche “lavoretto” ma le condizioni fisiche peggioravano di giorno in giorno, al punto che brevi periodi di miglioramento si alternavano a lunghi periodi di degenza in ospedale. Le spese mediche, unite ad altri tipi di spese, hanno inciso in breve tempo sulla capacità di mantenersi autonomamente. La mancanza di disponibilità economica lo porta a perdere la casa, ponendolo in breve tempo in una situazione di difficile sopravvivenza. Dal mese di giugno del 2001, Pasquale vive nel centro di ascolto della Caritas ad Aprilia e racconta: “ l’avvento di una malattia grave nel 1998, mi ha costretto nel giro

di poco tempo, ad abbandonare il lavoro. Ho un enfisema polmonare e necessito di 16 ore di

ossigeno al giorno per vivere. Racconta di non aver mai avuto problemi economici prima di quell’anno; il lavoro da camionista, benché duro, gli ha consentito di condurre una vita senza problemi.

Gino di Napoli ha 43 anni, è coniugato ed ha due figlie di 16 e 10 anni. Proviene da una famiglia media; il padre, già impiegato statale e professore di applicazioni tecniche, ha poi avviato un’officina meccanica per garantire una vita migliore alla famiglia; la madre invece era casalinga “. Con la morte di mio padre si è rovinato tutto…. Vabbè questi poi so problemi miei che io mi so

drogato e ho contribuito molto a sfasciare la famiglia, ho cominciato una ventina di anni fa tra il

’77 e il ‘78”. L’inizio del consumo di droga coincide con la fuoriuscita da casa; dorme da parenti o amici, a volte per la strada. Per motivi di spaccio vive l’esperienza del carcere. Sembra aver smesso di drogarsi. Vive in una casa presa in affitto, con la moglie e le figlie. Non ha un lavoro regolare ma ben presto comincerà con la vendita di un giornale. Fino a pochi mesi fa racconta di aver tirato avanti vendendo pillole di morfina prese in farmacia con la ricetta di un medico compiacente.

Per altri, tutto ha inizio con la perdita di un genitore o l’allontanamento da un figlio. Di nuovo, è una separazione dai legami più significativi ad innescare un meccanismo che li ha condotti all’esclusione. Questi alcuni stralci di racconto tratti da alcune interviste realizzate al sud e al nord d’Italia.

Lena, 64 anni è nubile e vive a Reggio Calabria. I suoi genitori sono morti quando aveva solamente cinque anni; da quel momento la sua vita ha percorso un binario fatto di esclusioni continue. Lena è semi-analfabeta perché gli zii, presso i quali viveva, non l’hanno fatta andare a scuola. Fin da piccola è stata costretta a lavorare in campagna. A 12 anni scappa di casa perché maltrattata e sfruttata dagli zii. Per 14 anni lavora come domestica da una signora ma alla sua morte si ritrova senza casa e senza lavoro. Per la seconda volta è sempre un evento di morte a segnare la

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sua vita. I lavori successivi sono saltuari, a nero e spesso non pagati. Oggi vive solo di elemosina e dell’aiuto della Caritas. Non vuole andare in uno dei centri di accoglienza della città, se non quando non sarà più in grado di sopportare le deprivazioni della vita di strada. Da anni, ormai, conduce una vita ai margini della sopravvivenza. La storia di Lena evidenzia un percorso di povertà che si sviluppa già dall’infanzia, momento nel quale la scomparsa di un certo tipo di risorsa affettiva (ci riferiamo alla morte di entrambi i genitori) non viene compensata dal sostegno di cura da parte degli zii che se ne sarebbero dovuti assumere la crescita. Questi, infatti, la sfruttano e la maltrattano. Il percorso di esclusione al quale è sottoposta non si riferisce semplicemente al possesso insufficiente di risorse, ma investe principalmente l’identità sociale della protagonista. Lena si sente esclusa da sempre; questo l’ha portata ad agire di conseguenza tanto che oggi rifiuta qualsiasi aiuto concreto (come quello offertole più volte dalle Caritas diocesana, disposta ad ospitarla in uno dei centri di accoglienza). L’unica forma di aiuto che è disposta a ricevere non va al di là di un pasto caldo o qualche soldo per affrontare la giornata.

La storia di Herbert, 52 anni di origine austriaca è un altro caso significativo che abbiamo scelto di raccontare perchè mostra il legame che esiste tra un evento che appartiene alla sfera individuale e lo sviluppo di traiettorie biografiche che conducono all’esclusione. La condizione della famiglia di appartenenza non mostra elementi di esclusione; il padre faceva l’elettricista, la madre invece era casalinga. Herbert dice di aver frequentato, dopo la scuola dell’obbligo, una scuola professionale per tre anni. Dopo la separazione dalla moglie ha viaggiato molto, trovando sempre da lavorare. Non è chiaro quando ha inizio il suo percorso di povertà.

Probabilmente, anche in questo caso, è la rottura di un legame significativo aggravato dalla perdita di un figlio ad aver portato Herbert a lasciarsi andare fino ad indebolire completamente il suo rapporto con la società circostante. Vive da circa 10 anni per la strada, dorme sotto un albero ed è identificabile come un barbone. Lui più di Lena rifiuta qualsiasi aiuto, vive in estrema solitudine. Ha contatti solo con altri barboni e con i volontari di strada che distribuiscono i pasti per la sera. La sua è una storia che rivela un grande isolamento da tutto ciò che lo circonda; appare completamente rassegnato ma chiede rispetto per la sua scelta.

La storia di Linda è un chiaro esempio di “povertà femminile” aggravata dalle violenze subite nel corso della vita. Linda ha 40 anni, ha la licenza elementare e alle spalle un percorso lavorativo fatto di esperienze marginali (cameriera, collaboratrice domestica, aiuto cuoca). I suoi genitori erano di origine contadina, non sono più in vita. Linda è nubile ma ha 3 figli avuti da una relazione con un uomo che più volte le ha rivolto violenza. Ciascuno di loro è stato dato in affidamento ad una famiglia, perché incapace di poterli mantenere. Il più grande oggi ha 10 anni. Saltuariamente va a trovarli. Dell’uomo con cui ha avuto la relazione, non ha alcuna notizia. Dalla sua storia emerge la negatività della sua esperienza dell’affido che, insieme alle violenze che è stata costretta a subire, l’hanno portata ad un indebolimento di personalità tanto da avere un forte crollo psicologico che l’hanno condotta in ospedale per una cura psichiatrica. Probabilmente, da questo momento in poi, la sua capacità di reagire agli eventi ha subito un’involuzione portandola alla completa esclusione. Per impedirle di avere ulteriori gravidanze ha subito la chiusura chirurgica delle ovaie. Per lungo tempo ha vissuto sulla strada, finché un uomo caritatevole si è preoccupato di segnalarla ad un istituto di accoglienza dove attualmente vive.

2.7 Lo sgretolarsi dei legami

Le storie di vita dei 21 intervistati, tutte con varie intensità di esclusione e con alla base diverse cause, vengono accomunate dall’impoverimento della fondamentale rete di relazione familiare. In effetti, in pochi tra gli intervistati hanno rapporti con la famiglia di origine. I legami con i figli o con i fratelli sono perlopiù sporadici e prevalentemente telefonici. Questo anche se non sempre i figli vivono lontani e infatti quello che rattrista di più è sapere che, anche quando sono vicini, in alcuni casi anche nella stessa città, i rapporti sono ugualmente deboli e superficiali. Non è stato sempre possibile approfondire i motivi che hanno portato ad un allontanamento di questa portata. Molti degli intervistati hanno preferito non approfondirlo, anche se dai loro volti si

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evidenziava un’estrema sofferenza ad affrontare l’argomento. Quasi tutti preferiscono vivere il proprio stato di difficoltà in estrema solitudine; dicono di non voler recare disturbo e preoccupazioni, in realtà la maggior parte di loro preferisce per dignità non far sapere in quali condizioni è costretto a vivere. Per gli immigrati è la lontananza a spiegare la debolezza dei legami e l’orgoglio di dimostrare che tutto sta andando per il meglio; altri, invece, lasciano trasparire l’intenzione di proteggere i propri familiari da notizie così devastanti. Quando hanno potuto far ritorno al loro paese lo hanno fatto.

Per pochi, il fatto di non avere legami diventa una scelta e lo è soprattutto per coloro che vivono completamente ai margini, come gli intervistati senza fissa dimora; per queste persone, il non avere legami con i familiari diventa un fatto normale; molti non hanno più i genitori in vita, altri, se hanno fratelli o sorelle, non ne hanno più notizie già da molti anni. La storia di Herbert è in questo senso significativa; fino alla morte del figlio ha condotto una vita comune, in seguito ha preferito una condizione di isolamento totale. Gli amici invece, malgrado le situazioni, quando erano di vecchia data hanno continuato ad essere un appoggio su cui poter contare.

Gino ha alcuni amici, per lo più compagni di scuola, su cui può contare. I suoi problemi cominciano dalla morte del padre a cui si unisce un’estrema difficoltà a trovare un lavoro regolare. Gli amici lo hanno aiutato anche economicamente nei periodi di inattività. In altri casi, invece, quelli che si ritenevano amici si sono quasi dileguati e i rapporti si sono indeboliti. Significativo, a questo proposito, il caso di Rudy, l’immigrato del Ghana che suonava con alcuni ragazzi da lui ritenuti amici. Questi, per lungo tempo non lo hanno più cercato benchè a conoscenza della situazione di crisi che stava attraversando. In sostanza, possiamo individuare nell’instabilità delle relazioni sociali più significative un ulteriore elemento unificante le diverse storie di vita.

3. Modelli di accattonaggio

3.1 Premessa

Analizzate le caratteristiche e a grandi linee le traiettorie di vita degli intervistati, l’analisi dei materiali si è poi focalizzata ad individuare, sulla base delle informazioni raccolte, le strategie di accattonaggio più frequentemente utilizzate dagli intervistati.

L’eterogeneità delle condizioni sociali dei soggetti ha portato ad individuare diverse tipologie di accattonaggio. In riferimento al modello teorico proposto, l'elemosina contrattualistica e non-contrattualistica legale sono risultate le due tipologie più diffuse. Non mancano casi di elemosina contrattualistica illegale. Una sola strategia di accattonaggio può invece essere inquadrata nel modello di elemosina non contrattualistica illegale.

Nello schema della pagina seguente sono riportate le tipologie di accattonaggio emerse durante le 21 interviste.

Tipologie di accattonaggio verificate nel corso dell’indagine

legale: 12 casi coatta/illegale: 1 caso

Non

contrattualistica

Semplice richiesta: - in strada; - davanti alle chiese; - a preti o a suore; - alla stazione o sul treno; - ai semafori; - ad amici e conoscenti.

- vendita di false cartoline del WWF insieme ad un amico.

legale: 5 casi coatta/illegale: 3 casi

Contrattualistica

(con prestazione

d'opera/servizio)

- piccoli lavoretti; - vendita di santini e calendari; - piccola vendita porta a porta; - vendita di oggetti risistemati.

- posteggiatori abusivi.

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3.2 L'elemosina “pura”, non-contrattualistica e legale Il 57% degli intervistati (12 su 21) ottiene le risorse economiche per vivere attraverso la pura

richiesta di denaro. Questa tipologia di accattonaggio è definita nei termini di "elemosina legale non contrattualistica” (primo riquadro in alto a sinistra). L’elemosina come pura richiesta di aiuto è una pratica utilizzata prevalentemente dagli intervistati che vivono al Nord Italia (5 casi su 6) e meno frequentemente da quelli del Sud (5 casi su 10). Di questi, 2 su 5 sono esclusivamente orientati all’elemosina verso amici e conoscenti. Nel Centro Italia troviamo 2 soli casi, su un totale di 5 intervistati, che almeno una volta hanno fatto richiesta pura di aiuti; uno dei due casi (la persona immigrata dal Ghana), non ha mai fatto richiesta di soldi ma ha comunque ricevuto aiuti spontanei da parte di amici italiani, in un periodo buio della sua vita. Oggi il soggetto in questione è uscito dalla condizione di emarginazione e ha un lavoro, ottenuto grazie agli aiuti della Caritas.

Tale forma di mendicità si differenzia per la scelta dei soggetti a cui rivolgersi, i tempi e luoghi del mendicare. Tre intervistati su 12 raccontano di richiedere o ricevere aiuti esclusivamente da amici e conoscenti ai quali sta a cuore la loro situazione; non provano vergogna se l’aiuto si manifesta in questi termini. Al contrario, il richiedere soldi o aiuti a gente estranea viene considerato un fatto troppo umiliante; nessuno dei tre infatti, lo ha mai preso in considerazione. Questo è il caso di Antonio, napoletano, che da quando perde i genitori fa continuamente riferimento ai vecchi compagni di scuola per un aiuto economico o di Rudy, l’immigrato originario del Ghana che, grazie all’aiuto spontaneo di un conoscente italiano, entra in contatto con il centro di ascolto della Caritas di Aprilia, proprio nel momento in cui trovatosi senza lavoro, casa e in pessime condizioni di salute, stava ormai lasciandosi andare. Anche Matteo preferisce rivolgersi ad amici e conoscenti per avere una mano a tirare avanti; ammette con difficoltà di aver qualche volta fatto richiesta di soldi ai semafori assieme ad amici connazionali.

Per i restanti 9 intervistati che, durante l’intervista, dichiarano di avere fatto ricorso all’elemosina “pura” senza contropartita, le differenze si riferiscono ai luoghi del mendicare:

- Chiede aiuti per la strada o davanti alle chiese: 2 intervistati su 12 totali; - Chiede aiuti a preti o a suore: 4 intervistati su 12 totali; - Chiede aiuti alla stazione o sul treno: 2 intervistati su 12 totali; - Chiede aiuti ai semafori: 1 intervistato su 12 totali.

In una sola intervista, realizzata a Reggio Calabria, abbiamo appreso non direttamente

dall’intervistato ma dal referente Caritas che ci ha permesso di incontrarlo, che non è l’interessato a praticare direttamente l’elemosina ma sono altri accattoni a farlo per lui. Herbert vive a Reggio Calabria da molto tempo ed ha ottenuto da quanti vivono sulla strada un particolare rispetto. Abbiamo già avuto modo in precedenza di raccontare alcuni eventi della sua storia, che subisce un forte stravolgimento a seguito della morte del figlio.

Per i sei intervistati che vivono esclusivamente grazie alle offerte di estranei o al massimo di preti e suore, questa forma di richiesta di aiuto è una pratica quotidiana. Per gli altri sei che dispongono anche di altre risorse economiche provenienti da lavori saltuari, l’elemosina diventa una pratica meno frequente. I 12 soggetti raccontano di rivolgersi alla Caritas o generalmente alla chiesa per ottenere un aiuto che il più delle volte si concretizza sotto forma di vitto in una delle mense della città, alloggio nei locali dei centri di accoglienza, regalo di abiti e dono di generi di prima necessità. Un ’intervistata a Bolzano, fa riferimento ad aiuti provenienti anche da un’altra realtà del privato sociale che si occupa di fornire assistenza a donne in difficoltà. Nessuno degli intervistati che praticano l’elemosina “pura” senza contropartita riceve aiuti da strutture pubbliche di assistenza; alcuni hanno provato a fare richiesta di una casa popolare ma sono ancora in attesa; nel frattempo si dorme dove capita sotto un ponte, in baracche costruite o in roulotte decadenti.

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3.3 L’elemosina non contrattualistica illegale

Un caso isolato è quello di Gino, napoletano di 43 anni che racconta di essere ricorso insieme ad un amico, quando era tossicodipendente, a questa forma di accattonaggio spacciando come vere la dotazione di cartoline del WWF in cambio di un aiuto economico. Si rivolgeva prevalentemente ai negozianti e non ai semplici passanti, perché provava vergogna. Racconta di esserne stato costretto perché bisognoso di soldi per drogarsi. Nella sua attività non ha mai avuto problemi con le forze dell’ordine.

3.4 L’elemosina contrattualistica legale La tipologia di elemosina a cui facciamo riferimento si caratterizza per il fatto che la richiesta

di denaro è accompagnata da una prestazione d’opera (1 caso su 5) o dal rilascio di un bene (4 casi su 5), in genere di nullo o basso valore economico.

L’unico che sostiene di accompagnare la richiesta di aiuti ad una prestazione d’opera è un italiano di 58 anni, divorziato e con un’istruzione nulla (ha frequentato fino alla terza classe elementare) la cui situazione di vita è precipitata in seguito alla scoperta di essere stato tradito dalla moglie sotto gli occhi del figlio di due anni e mezzo.

Racconta di fare diversi lavoretti e di ricevere in cambio aiuti economici: “ Quando vado in stazione, la stazione di Padova, lì c’è un giornalaio… io vado lì e gli faccio

le commissioni, vado in banca, gli faccio un po’ di cose”, dopo c’è Suor Giovanna… a lei ho messo

a posto tutto il giardino… mi piace fare giardinaggio, poi ho pitturato tre bagni dalle suore”.

In tre casi la richiesta di aiuti si accompagna al rilascio di un bene; in due casi è più appropriato parlare di “piccola vendita”.

Gedo, intervistato a Reggio Calabria, non svolge alcun tipo di lavoro, nemmeno occasionale. Le risorse economiche di cui dispone provengono dall’attività di accattonaggio che pratica quotidianamente e con dignità come se fosse un vero lavoro. Gedo vende santini e calendari davanti ad una libreria cattolica, non distante dalla sede della Caritas diocesana. Racconta di provare vergogna a chiedere l’elemosina ma preferisce far questo piuttosto che andare a rubare.

Nelle altre due situazioni di elemosina contrattualistica legale, l'accattonaggio si spinge oltre il suo senso originale di "strumento per la sopravvivenza", a favore di una interpretazione che tende a classificare tale forma di comportamento nei termini di una vera e propria "condizione di vita", che va a definire l’identità del soggetto e della sua famiglia. E’ questo il caso di Anita e la figlia, intervistate a Latina. Angela appartiene ad una famiglia zingara italiana di origine Sinti che ha fatto della piccola vendita “porta a porta” la principale fonte economica e di sostentamento, soprattutto per la stagione invernale; in estate, invece, le loro giornate si trasformano. Inizia il lavoro da giostrai. Si riuniscono con la famiglia del marito e cominciano a girare dalle parti di Caserta, Cassino, Gaeta. Non hanno delle giostre di proprietà ma aiutano i parenti che li pagano in base all’andamento degli affari. Angela vende biancheria a domicilio; l’acquisto è ad “offerta”. Non sempre le signore che visita sono disposte a comprare; in alcuni casi, riceve viveri o vestiario.

Questa è una sua “tipica” giornata invernale: Si alza alle 7.30 del mattino, prepara la colazione e porta il bambino più piccolo a scuola.

Torna in roulotte, prende la merce e comincia a girare. Ogni giorno sceglie un posto diverso, tutti comunque nei dintorni di Latina. Ha capito che non può recarsi dalle stesse persone più di una volta al mese, rischierebbe di non ricevere nulla. Fa generalmente ritorno a “casa” quando ha “rimediato

il giusto necessario per fare la spesa e mettere la benzina” ; a volte, racconta, fa ritorno senza aver guadagnato nulla. Il marito lavora a giornata ma non sempre. Fa trasporti, pulisce le cantine, si arrangia come giardiniere. Al momento non svolge nessun tipo di attività lavorativa.

Per quattro di loro, l’accattonaggio come sopra descritto è un’attività quotidiana. Per tutti, l’appoggio degli operatori della Caritas è un ammortizzatore di estrema importanza; vi si rivolgono per ricevere aiuti di diversa natura (cibo, abiti, assistenza, conforto, ecc.).

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3.5 L’elemosina contrattualistica illegale Rientrano in questo modello coloro che espletano delle prestazioni che assumono una forma

semi-professionale e stabile. Nei 3 casi individuati, tutti fanno riferimento all’attività di posteggiatore abusivo. Sono immigrati (provengono dal Marocco, dalla Turchia e dalla Tunisia) e vivono a Pozzuoli, in provincia di Napoli.

Questi alcuni stralci di racconto tratti dalle interviste. Pasquale arriva in Italia nel 1989 e lavora con regolare permesso di soggiorno fino al 1994.

Successivamente non riesce più ad ottenere il rinnovo del permesso e questo segna l’inizio delle difficoltà lavorative. Trova lavori saltuari e spesso mal pagati. Come tiene a sottolineare: “gli

italiani tendono a sfruttare gli stranieri o a trattarli male”. Quando non riesce a trovare nulla, racconta di fare il parcheggiatore vicino alla stazione di Campi Flegrei soprattutto nei fine settimana e di spostarsi in estate vicino ad un ristorante. Il suo desiderio più grande è quello di trovare un “lavoro vero” , altrimenti sarà costretto a tornare in Tunisia.

Allo stesso modo Nouredine, giovane marocchino di 24 anni, fa il parcheggiatore quando ha bisogno di soldi. Anche lui è soggetto al lavoro discontinuo e precario. Ha lavorato nei campi per la raccolta dei pomodori e ha fatto le pulizie in un lido marittimo di Napoli. E’ in Italia senza un regolare permesso di soggiorno.

Adamo è di origine turca, ha 35 anni ed è separato. Vive in Italia da 16 anni, ha cambiato numerosi lavori e attualmente non svolge alcuna attività se non quella di parcheggiatore per tirare avanti; l’alternativa sarebbe andare a rubare. Non ha un regolare permesso di soggiorno.

I tre intervistati affermano di ricevere aiuti da parte dei centri della Caritas. Nessuno di loro è a conoscenza né si è rivolto ad altre realtà del privato-sociale. Dalle persone comuni dicono di ricevere poca solidarietà. Il desiderio di un futuro migliore si manifesta nella gran parte delle interviste. Trovare un lavoro e una casa sono i due bisogni fondamentali che emergono in modo forte. In tutte e tre le situazioni, caratterizzate da estrema esclusione sociale, si evidenzia una totale assenza di progettualità per il futuro. Questo atteggiamento si comprende perché sono situazioni in cui si è rassegnati e/o abituati a condurre una vita di stenti.

3.6 Le fila del discorso L’analisi dei materiali raccolti dalle interviste ha permesso di leggere il fenomeno

dell’accattonaggio alla luce di un percorso di esclusione sociale. Risultato interessante, che rimanda ad una prospettiva analitica di tipo dinamico, nella quale è centrale la dimensione temporale dello sviluppo dello status di esclusione: non importa capire solamente la situazione attuale in cui versa l’escluso ma anche e soprattutto le esperienze attraverso le quali si giunge a tale condizione. La ricostruzione delle biografie degli individui, secondo un’opinione ormai condivisa dai ricercatori più attenti, si caratterizza come una delle direzioni di ricerca più interessanti da sviluppare e da affiancare agli studi sulla povertà condotti dalle grandi agenzie nazionali, basati in gran parte su dati di reddito o di consumo. La scarsità delle risorse materiali al di sotto di una certa soglia è la variabile con la quale si individuano i poveri; da questa prospettiva riusciamo a misurarne la portata e a rispondere alla domanda “quante sono le persone povere?” ma non riusciamo a capire nulla di come quella condizione sia stata raggiunta né per quanto tempo è stata vissuta. L’approccio utilizzato in questa ricerca, d’altra parte, non permette di quantificare il fenomeno ma certamente di individuare attraverso quali circostanze ed eventi si determinano tali percorsi per i singoli intervistati. Dalle analisi dei materiali raccolti emergono sia i fattori scatenanti, sia le condizioni attuali di vita; questa ricostruzione ha permesso di indagare anche le strategie di accattonaggio utilizzate ed eventuali prospettive per il futuro.

L’eterogeneità dei percorsi biografici, per diversità degli intervistati e per varietà delle traiettorie, evidenzia, anche se con intensità differente, un importante elemento in comune, consistente nella condizione di isolamento sociale dei soggetti, in termini di scarsità e instabilità delle relazioni sociali, familiari, parentali e amicali. Infine, l’analisi delle informazioni ottenute

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sulla pratica dell’accattonaggio ha permesso di individuare le specifiche caratteristiche di ciascuna tipologia.

Emergono inoltre alcuni elementi di un certo interesse ai fini della programmazione di servizi e di interventi di protezione sociale rivolti alle persone che praticano forme di mendicità e accattonaggio. a) la doppia invisibilità sociale; Un primo punto si riferisce al fatto che, come è stato messo in evidenza dalla ricerca sul campo, l'universo delle persone che praticano forme varie di accattonaggio è sostanzialmente parallelo alla realtà dei servizi di assistenza messi in atto dalle Caritas diocesane e, molto probabilmente, anche se tale ambito non è stato adeguatamente sondato, dagli stessi enti locali. Tale aspetto è stato messo in evidenza in modo piuttosto chiaro laddove, in determinati contesti territoriali, e in presenza di una cospicua quota di persone sulla strada, l'individuazione delle persone da intervistare è stata oggettivamente difficoltosa, a causa della mancanza di contatti e relazioni previe tra i soggetti individuati e gli operatori delle Caritas diocesane. Tale fenomeno non è della medesima entità in tutti i luoghi dove è stata condotta l'indagine, anche se non è sempre facile evidenziare le variabili discriminanti che favoriscono un contatto tra i due mondi. In primo luogo, la mancanza di contatti è più frequente in presenza di tipologie emergenti di accattonaggio, oppure in quelle dove il fenomeno è sostanzialmente contiguo alla sfera della criminalità. Ad esempio, in quasi nessun caso le Caritas diocesane hanno affermato di avere dei contatti con alcune tipologie emergenti di elemosina, quali i venditori di rose, le persone affette da sordomutismo impegnate in accattonaggio sui treni, ecc. Quasi del tutto assenti anche i contatti con quei giovani della vasta area punk-anarchica, che sembrano poter fare tranquillamente a meno dell'intervento sociale, pubblico e privato. La mancanza di contatti tra tali soggetti e i servizi ecclesiali non è comunque del tutto assente, in quanto gli stessi operatori non escludono che alcune delle persone dedite all'accattonaggio su strada siano le stesse che poi fruiscono di alcuni servizi offerti dalle Caritas, soprattutto nel settore dell'erogazione dei beni primari (docce, mense, ostelli notturni, ecc.). In ogni caso, se di contatto si può parlare, esso non avviene certamente nel merito di un intervento specifico sulla condizione di mendicità quanto su quello dell'assistenza sociale di base. Tale elemento dovrebbe far riflettere i servizi di stampo ecclesiale sull'importanza di sviluppare una specifica modalità di approccio e primo contatto, soprattutto nell'ambito delle strutture di bassa soglia. Tra l'altro, va sottolineata la quasi totale assenza di servizi di strada, l'unica tipologia di servizio che potrebbe consentire di stabilire una forma di contatto privilegiato e anticipato con i protagonisti del fenomeno. b) elemosina o racket? Non è stato possibile intervistare persone coinvolte in situazioni di accattonaggio illegale, da noi inquadrate all’interno di una specifica tipologia. Le considerazioni esposte nella prima parte del presente capitolo sull’esistenza di organizzazioni malavitose dedite allo sfruttamento dell’accattonaggio non sono state quindi sottoposte a debita verifica. Dalle interviste realizzate, anche in aree territoriali contrassegnate da una forte presenza di delinquenza organizzata (provincia di Napoli, Reggio Calabria), sembra di poter affermare che anche in tali contesti possono sussistere delle forme di mendicità non inquadrabili all’interno di sistemi organizzati di sfruttamento, ma che si riconducono piuttosto a situazioni soggettive di emergenza economica. Tale considerazione è importante, sia allo scopo di non porre sullo stesso piano fenomeni di natura diversa ma soprattutto per evitare una facile generalizzazione, con rischi di etichettamento e di stigmatizzazione nei confronti dei protagonisti del fenomeno. A questo proposito, la maggiore visibilità dell’accattonaggio in determinate aree del Mezzogiorno sarebbe in parte riconducibile non ad una maggiore presenza di organizzazioni di sfruttamento ma alla diverse sensibilità popolare e al maggiore grado di tolleranza del fenomeno dei cittadini residenti (e delle stesse forze dell’Ordine, impegnate in attività di contrasto di comportamenti criminali di maggiore gravità).

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c) gli eventi critici Un terzo aspetto si evidenzia nella presenza di determinati momenti critici della biografia individuale, da cogliere tempestivamente, ai fini di attivare specifici interventi di protezione e cura. In altre parole, le persone intervistate non sono mai dei mendicanti di professione, ed in questo senso che va letta la difficoltà e l'evidente imbarazzo di quasi tutti gli intervistati ad ammettere il ricorso all'accattonaggio, mentre tra coloro che hanno fatto della mendicità il principale strumento di sopravvivenza, impostando e organizzando tempi e luoghi di vita in base a tale attività, è più facile che se ne riconosca l'utilizzo. Se questo è vero, allora è importante comprendere l'importanza di cogliere sullo stato nascente determinati processi di deriva sociale, in occasione di particolari momenti critici, quali la perdita del lavoro, la separazione, il divorzio, l'uscita dal carcere, ecc. Tutte le situazioni appena citate sono facilmente monitorabili e individuabili, in quanto a ciascuna di esse corrisponde un atto o un procedimento di tipo amministrativo di cui è possibile seguire l'attuazione. La presenza di tali atti di natura giuridico-burocratica, dovrebbe facilitare l'attivazione di un servizio di sostegno e accompagnamento alla persona e alla famiglia, da offrire alle persone a rischio, favorendo così la possibilità di cogliere sul nascere i percorsi di impoverimento, anche in considerazione della invisibilità sociale che caratterizza poi, in uno stadio più avanzato, la condizione di vita dei nuovi mendicanti. d) una diffusa irregolarità nelle carriere lavorative. Infine, un ultimo punto che ricorre con allarmante frequenza risiede nella precarietà e irregolarità delle carriere lavorative pregresse degli intervistati. Ad esempio, se osserviamo con attenzione le storie di vita delle persone intervistate, in quasi tutti i casi la situazione di indigenza che determina la necessità di chiedere del denaro sopravviene dopo alcuni di anni di anticamera in un sostrato di socialità disagiata, in cui il lavoro non è del tutto assente. Si evidenzia infatti una diffusa irregolarità nel versamento dei contributi sociali, la presenza di lavoro in nero, di licenziamenti senza giusta causa non adeguatamente tutelati dal punto di vista giuridico, ecc. Le testimonianze raccolte nel corso della ricerca ci aiutano a dire che attualmente, l'aver maturato un'esperienza lavorativa, anche per lunghi periodi e in settori e comparti professionali di un certo livello, non è più un elemento che può garantire di per sé una protezione certa dalla caduta in uno stato di povertà. A questo riguardo, e in considerazione della crescente diffusione nel mercato del lavoro italiano di condizioni lavorative non stabili, apparentemente inquadrate in una cornice di legalità (si pensi alle forme di “lavoro elastico”, al lavoro interinale, alle posizioni lavorative di collaborazione e consulenza che non godono in modo compiuto di tutte le garanzie sociali previste invece nel caso di contratto a tempo indeterminato), non è del tutto errato prevedere nel prossimo futuro una certa diffusione di situazioni di povertà anche per tali categorie di persone. Di grande utilità potrebbe essere l'attivazione, all'interno o accanto agli Osservatori sulle dinamiche del lavoro già esistenti, di un'attività di studio e monitoraggio sul "destino sociale" dei "lavoratori elastici", in modo da determinare il reale grado di esposizione al rischio di povertà ed esclusione di tali soggetti.