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1
INDICE
Abstract p. 3
Abstract (versione inglese) p. 4
Elenco delle abbreviazioni utilizzate p. 5
INTRODUZIONE p. 9
1. Una riflessione incompiuta p. 9
2. Il contesto ermeneutico p. 12
3. Lo stato della ricerca p. 13
4. Struttura della ricerca p. 14
5. Un percorso personale p. 15
CAPITOLO PRIMO
L'ESSERE AL MONDO
1.1. Il problema dell'accesso al mondo p. 17
1.1.1. La presenza del mondo, motore di tutte le ricerche p. 17
1.1.2. La fede percettiva, certezza preriflessiva indimostrabile p 19
1.1.3. La percezione, lo snodo primario p. 22
1.1.4. Il mondo come oggetto p. 29
1.1. 5. I rapporti tra la coscienza e il mondo p. 32
1.1.6. Rimparare a vedere il mondo: il ritorno alle cose stesse p. 34
1.2. Le tappe di un itinerario fenomenologico p. 39
1.2.1. Il ruolo della filosofia p. 41
1.2.2. L'io e il mondo p. 52
1.3. Il problema della percezione e l’approfondimento del senso dell’essere
del soggetto che percepisce p. 53
1.3.1. Il corpo proprio p. 56
1.3.2. La Reversibilità p. 61
2
CAPITOLO SECONDO
L'INTERCORPOREITA'
2.1. La presenza dell'altro p. 65
2.1.1. Il contesto filosofico e i primi confronti di Merleau-Ponty
sul tema dell’altro p. 65
2.1.2. Le impostazioni concettuali da superare p. 70
2.1.3. Verso un nuovo lessico dell’ipseità p. 79
2.2. Il superamento del solipsismo p. 86
2.3. L'intercorporeità p. 98
2.4. La carne p. 105
CAPITOLO TERZO
L’INTERSOGGETTIVITA’ COME CHIASMA DI PAROLA
3.1. Lo sguardo interrogativo p. 113
3.2. L'originario come fonte di senso p. 115
3.2.1. Dal senso percettivo al senso langagier p. 124
3.2.2. Percezione e linguaggio come mezzi dell'espressione p. 134
3.2.3. Parola e linguaggio p. 137
3.2.4. Il Logos verticale p. 150
3.2.5. La fatticità del mondo p. 157
3.3. Le implicazioni intersoggettive del linguaggio p. 160
3.4 L'istituzione e lo stile p. 177
Conclusioni p. 183
Bibliografia p. 193
3
ABSTRACT
Il concetto di intersoggettività non compare con preminenza nell’opera di Merleau-
Ponty, forse anche per la brusca interruzione all’apice del suo sviluppo. Ciononostante, esso
corrisponde a una tematica per niente marginale nell’economia della sua filosofia, in quanto si
situa al crocevia delle grandi problematiche ivi affrontate. Questa ricerca si è proposta di
rilevarne il ruolo dal punto di vista ontologico, ripercorrendo le tappe dialettiche che ne
giustificano la presenza e l’importanza. L’ecceità del mondo e la considerazione della
soggettività in termini di “corpo proprio” permettono l’accesso all’altro, al livello
dell’intercorporeità. Grazie alla riconsiderazione del linguaggio come chiasma di corporeità
della lingua e pre-senso originario, di dicibilità e indicibilità, diventa possibile la “deiscenza”
all’altro. Nel quadro generale di un’ontologia che si arricchisce delle caratteristiche
dell’“Essere verticale” o “selvaggio”, a cui fanno riferimento il non-sapere e il non-essere, la
trama carnale che lega tutti gli enti non può fare a meno dell’intersoggettività, intesa come
relazione costitutiva dell’essere umano incarnato e innestato nel mondo. I confini identitari e
narcisistici del soggetto vengono ridefiniti nel rapporto di reciprocità che avviene ancor più al
livello comunicativo che a quello corporeo. Merleau-Ponty riesce, dunque, nell’intento di
mostrare il coinvolgimento dell’intersoggettività nell’ontogenesi, sulla base della costitutiva e
dinamica apertura degli enti nella carne dell’Essere.
4
ABSTRACT
(English version)
The inter-subjectivity concept does not feature as predominant in Merleau-Ponty’s
work, perhaps also because of the sudden interruption at the apex of his work.
Nevertheless, it corresponds to a topic that is not marginal in the general economy of
his thought, as it is situated at the crossroads between the great philosophical
problems he deals with. This work aims to discover its role from an ontological point
of view, by retracing the dialectical phases that justify its presence and its importance.
The haecceity of the world and thinking the subjectivity in terms of “body-subject”
allow the access to the other, throughout intercorporeity. By considering the language
as a chiasm between corporeity of the language and original pre-sense, between
speakable and unspeakable, the dehiscence towards others becomes possible. In the
general framework of an ontology that is enriched by the characteristics of the
“vertical being” or “savage”, to which the non-knowledge and non-being refer, the
bodily network that bonds all the beings cannot give up intersubjectivity, seen as a
constitutive relationship of the embodied human being which is grafted into the world.
The identity-making and narcissistic boundaries of the subject are redefined through a
reciprocity link that takes effect more on a communication level than a bodily one.
Hence, Merleau-Ponty succeeds in his purpose to show the role of intersubjectivity in
ontogenesis on the bases of the constitutive and dynamical opening of the beings in
the flesh of the Being.
5
ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI UTILIZZATE
BA Les relations avec autrui chez l’enfant, Corso di psicologia infantile
tenuto alla Sorbona, anno accademico 1950-51, e pubblicato dal Centre
de documentation universitaire, Paris 1951 (II ed. 1962), poi Cynara,
Grenoble 1988, poi ripubb. in Psychologie et pédagogie de l’enfant, Cour
de Sorbonne 1949-1952, Verdier, Lonrai 2001, pp. 303-396; tr. it di G.
Goeta, Il bambino e gli altri, Armando Editore, Roma 1993.
CR Christianisme et ressentiment, “La Vie Intellectuelle”, 7, nouvelle série, t.
XXXVI, 1935, pp. 278-306, ripreso in Parcours 1935-1951, Verdier,
Lagrasse 1997, pp. 9-33.
EA Étre et avoir, “La Vie Intellectuelle”, 45, nouvelle série, t. XLV, 1936,
pp. 98-109, ripreso in Parcours 1935-1951, Verdier, Lagrasse 1997, pp.
35-44.
EF Éloge de la philosophie, Lezione inaugurale tenuta al Collège de France
il 15 gennaio 1953, Gallimard, Paris 1953 e 1960; tr. it. a cura di C. Sini,
Elogio della filosofia, SE, Milano 2008.
ENTRETIENS Causeries 1948 (conversazioni radiofoniche con G. Charbonnier),
édition établie et annoté par Stéphanie Ménasé, Seuil, Paris 2002; tr. it. di
Federico Ferrari, Conversazioni, SE, Milano 2002.
FP Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945; tr. it. di A.
Bonomi, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003.
LSN Résumés de cours. Collège de France 1952-1960, Gallimard, Paris 1968;
tr. it. a cura di M. Carbone in Linguaggio Storia Natura. Corsi al Collège
de France, 1952-1961, Bompiani, Milano 1995.
6
N La nature. Notes. Cours du Collège de France, établi et annoté par D.
Séglard, Seuil, Paris 1995; tr. it. di M. Mazzocut-Mis e F. Sossi, La
natura, Lezioni al Collège de France 1956-1960, Cortina, Milano 1996.
OS L’oeil e l’esprit, Gallimard, Paris 1964; tr. it. di A. Sordini, L’occhio e lo
spirito, SE, Milano 1989.
PAR I Parcours. 1935-1951, Verdier, Lagrasse 1997.
PAR II Parcours deux. 1951-1961, Verdier, Lagrasse 2000.
PM La prose du monde, texte établi et présenté par C. Lefort, Gallimard,
Paris 1969.
POF Notes de cours 1959-1961, Gallimard, Paris 1996; È possibile oggi la
filosofia? Lezioni al Collège de France 1958-1959 e 1960-1961, edizione
italiana e Introduzione di M. Carbone, Prefazione di C. Lefort, testo
stabilito da S. Ménasé, traduzioni di F. Paracchini e A. Pinotti, R.
Cortina, Milano 2003.
PP Le primat de la perception et ses conséquences philosophiques précédé
de Projet de travail sur la nature de la perception (1933) et La nature de
la perception (1934), Cynara, Grenoble 1989, pp. 15-38; tr. it. di F. Negri
e R. Pezzo, Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche
(1946), seguito da La natura della percezione (1934), Medusa, Milano
2004, pp. 75-93.
S Signes, Éditions Gallimard, Paris 1960; tr. it. di G. Alfieri, a cura di A.
Bonomi, Segni, Il Saggiatore, Milano 1967.
SC La structure du comportement, datato 1938, PUF, Paris 1942.
SNS Sens et non-sens, Nagel, Paris 1948; tr. it. di P. Caruso, Introduzione di E.
Paci, Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 2004.
7
UN INEDIT Un inédit de Merleau-Ponty, datato 1952, a cura di M. Gueroult,
pubblicato sulla «Revue de Mètaphysique et de morale», a. LXVII, 4,
1962, pp. 401- 409; tr. it. di G. D. Neri, “Aut Aut”, Autopresentazione,
232-233, 1989, pp. 5-12.
VI Le visibile et l’ invisible, testo stabilito da C. Lefort, Gallimard, Paris
1964, tr. it. di A. Bonomi, nuova edizione italiana a cura di M. Carbone e
Postilla di Claude Lefort, Il visibile e l’ invisibile, Bompiani, Milano
1993, 1999.
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INTRODUZIONE
L’enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile (OS, p. 18.)
1. Una riflessione incompiuta.
La riflessione sulla tematica dell’alterità impegna moltissime menti a partire
soprattutto dalla prima metà del Novecento. Merleau-Ponty (1908-1961)1 non si sottrae a
1 Maurice Jean Jacques Merleau-Ponty nasce il 14 marzo 1908 a Rochefort-sur-Mer, una cittadina portuale
sull'Atlantico, nel Sud-Ovest della Francia. La perdita del padre in guerra, nel 1914, non gli impedisce di vivere in famiglia un'infanzia felice, “incomparabile” e dalla quale, come confidò a Sartre, “non guarì mai”. Terminati gli studi secondari, un precoce e determinato entusiasmo per la filosofia lo porta a trasferirsi a Parigi per frequentare, dal 1926 al 1930, l'Ecole Normale Supérieure. L'influenza teorica determinante in questi anni di formazione gli viene indubbiamente dalla lettura assidua di Bergson; il neokantiano Léon Brunschvicg, il più stimato tra i professori normalisti del tempo, diviene invece il bersaglio filosofico privilegiato nelle discussioni tra Merleau-Ponty e Sartre, quale rappresentante di un criticismo intellettualista di matrice kantiana – “pensiero di sorvolo” - da superarsi in direzione di un radicale “ritorno al concreto”. Nel febbraio del 1929 Merleau-Ponty è tra il pubblico delle conferenze di Husserl alla Sorbona su L'introduzione alla fenomenologia trascendentale che nel 1931 verranno pubblicate in francese - notevolmente ampliate - come Méditations Cartésiennes. Il confronto con la fenomenologia husserliana - nei modi dell'adesione, della radicalizzazione e della critica - avrà un ruolo determinante per lo sviluppo del pensiero filosofico del pensatore francese, e in misura sempre crescente, ma solo a partire dal 1934. Nel suo primo progetto di ricerca per il dottorato, del 1933, non c'è alcun riferimento alla fenomenologia. Egli lavora a questo progetto mentre si trova a Beauvais, una città d'arte (poi semidistrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale) nel Nord della Francia, nel cui liceo è chiamato a insegnare nel 1931, dopo l'Agregation e un anno di servizio militare. Per sviluppare la sua indagine “sulla natura della percezione”, in questi primi anni '30 si dedica a uno studio assiduo dei più recenti esiti sia metodici sia sperimentali della psicologia, intorno ai temi della percezione e del corpo proprio: la sua attenzione si rivolge in primo luogo alla Gestalttheorie, ma anche al behaviorismo, alla psicoanalisi e ad alcuni studi di neurologia e psicopatologia. Il compito filosofico che si propone, nella sua prima formulazione, è quello di arrivare a una comprensione di tali risultati scientifici, nella loro connessione e nel loro senso profondo, tale da compromettere una volta per tutte e alla radice i presupposti intellettualistici del trascendentalismo filosofico “classico”. Dopo un breve trasferimento a Chartres nel 1935 può finalmente fare ritorno a Parigi dove resterà Agrégée-répétiteur alla Normale fino allo scoppio della guerra. Dopo aver partecipato alla breve avventura bellica della Francia, durante l'occupazione tedesca riprende a insegnare in alcuni licei di Parigi e partecipa alle iniziative di un gruppo di intellettuali della Resistenza, Socialismo e Libertà", approfondendo il legame con Sartre. Nei secondi anni '30 assorbe tutti quegli influssi eterogenei di pensiero che andranno a confluire nella sua prima opera edita, La struttura del comportamento (datata 1938, anche se pubblicata solo nel '42): partecipa - subendone profondamente l'influenza - alle famose lezioni di Kojéve sulla Fenomenologia dello spirito; legge Marx, studia contemporanei come Scheler e Marcel - al centro delle sue prime pubblicazioni (Christianisme et ressentiment, e Étre et avoir; inoltre, approfondisce ulteriormente le sue competenze in campo psicologico e legge Der Aufbau des Organismus, l'opera teorica del biologo organicista tedesco Kurt Goldstein il cui contributo al pensiero merleau-pontyano non sarà mai sovrastimato. Una generica suggestione per il “cammino dialettico” della coscienza hegeliana, dunque, unita alla profonda comprensione della “fenomenologia organicista” (sic) di Goldstein e a una radicalizzazione filosofica delle acquisizioni dei teorici della Gestalt vanno a confluire ne La struttura del comportamento quali tre motivi principali dell'opera; su queste eterogenee influenze ne domina una quarta: quella dell'Husserl di Idee I, con cui egli sviluppa un confronto ancora acerbo - responsabile della sostanziale debolezza teoretica dell'opera - che oscilla peculiarmente tra critica radicale ed altrettanto radicalmente acritica adesione. Con la fine della guerra e il libero riprendere della vita, il 1945 ritrova il filosofo francese in piena attività: in primo luogo
10
questa sollecitazione intellettuale e le dedica un ruolo significativo nella sua filosofia. Ad un
primo sguardo, l’analisi del problema dell’accesso all’Altro e dell’intersoggettività non
occupa molto spazio nelle sue opere. Ciononostante, alcuni esegeti hanno sottolineato la
rilevanza di una visione che non ha, malauguratamente, sviluppato pienamente.
Andando a ritroso nel tempo per ripercorrere le tappe che hanno segnato l’itinerario
della riflessione di Merleau-Ponty si ha, infatti, la sorpresa di scoprire che le origini della sua
“vocazione” filosofica coincidono con la nascita della sua attenzione alla problematica
dell’altro. Ne sono testimoni le parole stesse del filosofo che, nell’intervista rilasciata pochi
anni prima della sua morte a G. Charbonier2, ricorda che al momento del suo incontro con
l’interrogazione filosofica ai tempi del liceo gli si è presentato un quesito:
era la domanda sugli altri uomini, sui rapporti con l’altro, domanda che fino a quel momento non era
affatto in primo piano nell’insegnamento e neanche nella filosofia di allora, (…) avevo subito visto un
ostacolo all’idealismo nell’esistenza dell’altro, di conseguenza avevo la volontà di chiarire, sin da quel
momento, le relazioni dello spirito e del corpo, come due spiriti possono incarnarsi in due corpi, e come
uno spirito può conoscere un’altro spirito attraverso il corpo visibile che esprime quest’ultimo, ecco i
quesiti che sin da quel momento mi apparvero come urgenti speculativamente, allora mi sono
immediatamente unito al genere di ricerche che erano focalizzate su questi interrogativi3
l'imponente Fenomenologia della percezione, la sua opera più importante, può finalmente venire pubblicata divulgando le sue riflessioni sul corpo, la percezione, la spazialità, il linguaggio, l'intersoggettività e così via. Posizioni interessanti ma talvolta criticate dagli addetti ai lavori per l'enorme sforzo di conciliazione, pare non sempre riuscito, fra varie correnti filosofiche. La struttura del comportamento e La fenomenologia della percezione rappresentano le elaborazioni in vista del conseguimento del dottorato di ricerca: la finalità accademica mette l’impronta sullo stile e sulla struttura dell’esposizione. Sempre nel 1945, tra le varie iniziative in campo editoriale, assume la direzione della rivista "Les Temps Modernes" insieme all'inseparabile Sartre. Si inaugura così un periodo di intenso impegno politico, anche se più teorico che concreto (per la concretezza ci pensava Sartre), caratterizzato da un avvicinamento al marxismo, del quale le migliori testimonianze saranno Umanismo e terrore (1947) e la raccolta di saggi Senso e non senso (1948). Nel 1945 comincia altresì l'insegnamento universitario prima a Lione e poi, dal 1949 al 1952, alla Sorbona, anni segnati da un peculiare interesse per la psicologia e la pedagogia. Dal 1953 sarà Ordinario di Filosofia al Collège de France. E' l'inizio di un periodo per molti aspetti nuovo. Lascia "Les Temps Modernes", i rapporti con Sartre si incrinano (l'interesse per il marxismo si trasforma in una critica radicale, vedi Le avventure della dialettica del 1955) ed emerge il suo nuovo interesse per la linguistica di Saussure; interesse che lo porterà a progettare un'opera rimasta incompiuta: La prosa del mondo. Ma il lavoro filosofico di Merlau-Ponty, fra i più irrequieti ed imprevedibili del Novecento, non si ferma a questo, aprendosi a prospettive che, attraverso l'elaborazione di concetti e un lessico sempre più originali, l'ulteriore radicalizzazione della critica a Husserl, una meditazione storico-filosofica intorno a Hegel e a Schelling e un importante avvicinamento al “secondo” Heidegger, lo porterà alla stesura dell'opera capitale alla quale inizia a lavorare dal 1958, Il visibile e l'invisibile. Un lavoro di grande peso filosofico poi successivamente approfondito in ulteriori saggi e nei consueti corsi universitari. Un percorso che l'avrebbe forse portato ad altri approdi filosofici ma che fu interrotto dall'improvvisa morte, il 4 maggio 1961, a soli 53 anni, nel pieno della sua fecondità creativa e didattica. (Cfr. I. Aguilar, Biografia di Merleau-Ponty, in “Il giornale di filosofia”, rivista telematica http://www.giornaledifilosofia.net/it).
2 ENTRETIENS. 3 Ibid, (tr. n.).
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Risulta, dunque, interessante notare il legame stabilito dal filosofo tra il rinnovamento
della posta in gioco filosofica in generale e il tema dell’altro. Si tratta di una questione che si
presenta all’autore sia come punto di partenza per un esame critico della tradizione filosofica,
sia come base di un rinnovato interrogarsi sugli aspetti più concreti dell’esistenza.
Per quanto costituisca una tappa importante nella Fenomenologia della percezione,
questo argomento prende ancora più peso nelle riflessioni successive, come dimostrano il
contenuto dei corsi tenuti alla Sorbonne e al Collège de France, gli appunti intorno a questi
corsi e ai libri in preparazione, gli articoli, le conferenze, gli inediti, le opere pubblicate fino
all’anno della sua morte e quelle postume. Gli anni ’50 permettono a Merleau-Ponty di
spaziare tra diverse inquadrature dell’umano: dal punto di vista psicologico, biologico,
sessuale, linguistico, pittorico, musicale, cinematografico, sociologico, antropologico,
politico, senza rinnegare gli ambiti prettamente scientifici. Il tessuto del pensiero merleau-
pontyano rivela una filosofia applicata a spazi umani e a spazi di pensiero diversi, che non
vede alternative tra essa e queste forme di sapere4. Grazie a questi prismi, il suo sguardo
filosofico si arricchisce notevolmente e la sua analisi, che si indirizza sempre di più in
direzione del versante ontologico, promette nuovi sviluppi del concetto di intersoggettività.
Ne sono testimoni le righe mirabilmente redatte dell’opera accantonata tra il 1951 e il 1952,
La prosa del mondo, così come lo sono le note di lavoro a Il visibile e l’invisibile.
Il disegno di una filosofia che offrisse un più ampio spazio alla maturazione di questo
concetto era prevista sin dalla presentazione alla candidatura al Collège de France, nel 1952,
in cui Merleau-Ponty accenna ai lavori che ha in cantiere, che “vorrebbero mostrare in che
modo la comunicazione con l’altro e il pensiero riprendano e oltrepassino la percezione che ci
ha iniziati alla verità”5.
4 Ricordando i suoi primi approcci con Simone de Beauvoir, Merleau-Ponty afferma di essere rimasto colpito
dalla capacità di mescolare letteratura e filosofia, che la giovanissima pensatrice gli dimostrava possibile. Nei primi anni da studente all’Ecole Normale, Merleau-Ponty aveva della filosofia una visione rigorosa, che ha mantenuto negli anni, ma anche “un’idea ristretta, una sorta di razionalismo straordinario” (“Mi piaceva l'ordine razionale delle idee, nel quale non trovare crepe”) per la quale “tutto quello che non era espresso in concetti mi sembrava subordinato”. Nel tempo, grazie forse anche all’influenza della De Beauvoir, ha maturato un pensiero più malleabile alle contaminazioni tra gli ambiti della conoscenza: “Ora non penso più che ci siano confini tra filosofia e letteratura”. (ENTRETIENS). Merleau-Ponty non crede in un rapporto conflittuale per la supremazia tra le sfere del sapere e la filosofia, né ritiene debba esserci una chiusura corporativa tra di esse. Al contrario, se gli stessi sociologi, antropologi, psicologi, volessero andare oltre le domande che si fanno, oltre l’ambito di un dominio epistemico molto circoscritto, e si domandassero dell’essenza delle questioni che stanno studiando, allora essi farebbero filosofia e non ci sarebbe più bisogno della figura del filosofo strictu sensu.
5 UN INEDIT, p. 5.
12
I progetti filosofici di Merleau-Ponty prevedevano, dunque, un’evoluzione del
concetto in chiave ontologica alla quale sarebbe stata consacrata un’opera probabilmente
successiva a Il visibile e l’invisibile. Su questi sviluppi è possibile formulare delle ipotesi
basate sulla produzione dell’ultimo Merleau-Ponty, una serie di scritti e appunti impregnati di
un velo spesso di “non-detto”, di “non-pensato”, “che è interamente suo, e che però mette
capo a qualcosa d’altro”6.
2. Il contesto ermeneutico
L’opera di Merleau-Ponty racchiude una delle filosofie più feconde di intersezioni
teoriche e teoretiche: essa subisce svariati influssi ed è caratterizzata da una notevole vitalità e
capacità di reinterpretarsi. Questa ricchezza degli approcci, unita ad uno stile espressivo molto
personale, rende difficile la lettura delle diverse fasi di crescita del pensiero merleau-
pontyano. Molti dei suoi primi esegeti ne hanno dato un’interpretazione di frammentarietà,
individuando due o tre periodi produttivi: il primo, prettamente fenomenologico,
comprenderebbe il concepimento delle opere iniziali, La struttura del comportamento e la
Fenomenologia della percezione, e coprirebbe gli anni dal 1933 al 1945; per alcuni critici si
potrebbe individuare un periodo intermedio, per la decina di anni successiva, nel quale si
attesta un interesse prevalente per la riflessione politica e nel quale si gettano le basi
concettuali per il “grande cambiamento di rotta”; infine la cosiddetta “svolta” ontologica,
testimoniata dagli scritti apparsi per lo più postumi, Il visibile e l’invisibile, in primo luogo.
Nel pensiero merleau-pontyano dell’epoca immediatamente anteriore alla morte
avviene, effettivamente, un mutamento di registro concettuale e terminologico: il filosofo
sente l’esigenza di cambiare le lenti per posare in maniera nuova lo sguardo sul mondo, sugli
uomini, sull’Essere, tanto che lo slittamento dall’interesse fenomenologico a quello
ontologico ha indotto alcuni interpreti a vedere una frattura tra un “primo” e un “secondo”
Merleau-Ponty.
6 Il filosofo e la sua ombra, in S, p. 212. Righe toccanti lascia il filosofo francese in questo articolo elogiativo
dedicato a Husserl, il pensatore che più lo ha stimolato intellettualmente. La delicatezza che occorre avere nell'abbordare la meditazione altrui permetterebbe di rispettare sia ciò che è stato affermato positivamente, sia ciò che è stato tralasciato o non ancora detto, una trama che lega le idee espresse. “Noi non lo graveremo dei nostri commenti inopportuni, non lo ridurremmo avaramente a ciò che di lui è attestato oggettivamente, se anzitutto egli non fosse là per noi, non già con l’evidenza frontale di una cosa, ma insediato trasversalmente nel nostro pensiero, occupando in noi, come un altro noi stessi, una regione che appartiene a lui solo”. (p. 211) Questo pensiero, formulato nel 1959, a pochi anni dalla sua dipartita, potrebbe suonare come un invito a avvicinarci allo stesso modo alla sua opera.
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Questo clima ermeneutico si arricchisce col tempo anche di altre posizioni, più inclini
ad una lettura unitaria e organica dell’opera del pensatore francese. Uno degli uditori ai corsi
del filosofo al Collège de France, lo studioso Tillette, afferma che, sulla base dell’impronta
diretta lasciata dalla sua filosofia, sarebbe più coerente con lo spirito di Merleau-Ponty una
lettura della continuità, dell’approfondimento e della maturazione, in quanto l’ontologia che
era in cantiere “resta un’ontologia fenomenologica”7.
Dello stesso avviso sono anche altri critici, quali Mancini, Invitto e Barbaras.
Quest’ultimo scrive in proposito: “Ci sembra che i lavori precedenti acquistino coerenza e
consistenza proprio alla luce de Il visibile e l’invisibile, in modo che non possiamo leggerli
che attraverso la ripresa alla quale essi danno finalmente luogo. La filosofia di Merleau-Ponty
si confonde con la sua ontologia, e i testi che la precedono ci sembra che debbano essere
richiamati come il cammino che conducono ad essa”8.
Sembra, dunque, che le analisi e le riflessioni di stampo fenomenologico abbiano
avuto una parabola convergente nei testi di matrice ontologica. Il pensatore rimane
effettivamente fedele alle tematiche che hanno popolato la sua speculazione e, perciò, si può
seguire il loro decorso lungo un tragitto impervio di difficoltà e aporie.
La tesi dell’unitarietà della filosofia merleau-pontyna è quella che cercheremo di
percorrere in queste pagine, che tenteranno di tener conto delle implicazioni della raison e
della déraison, che le sue opere trasmettono. E’ altrettanto rilevante il peso che il non-detto e
l’impensato hanno nella dimostrazione esplicita del divenire delle problematiche da lui
esposte.
3. Lo stato della ricerca
La tematica dell’intersoggettività è rimasta a lungo alla periferia dell’esegesi merleau-
pontyana, essendo spesso sorpassata da questioni più di attualità, come la rivalutazione
epistemologica della percezione, il tentativo di superamento del dualismo soggetto - oggetto,
il ruolo della filosofia, il rapporto coscienza - mondo e così via. Negli ultimi anni, invece,
7 X. TILLIETTE, Merleau-Ponty en route vers l’être, in «La prosa del mondo. Omaggio a Maurice Merleau-Ponty», atti del convegno svoltosi nei giorni 21-23 aprile 1988, a cura di Anne-Marie Sauzeau Boetti, Edizioni Quattro Venti, Urbino 1990, p. 101. 8 R. BARBARAS, De l’être du phénomène. Sur l’ontologie de Merleau-Ponty, Million, Grenoble 1991, 12, (tr. n.).
14
questa problematica è tornata alla ribalta, impegnando più di un critico nell’arduo tentativo di
scorgerne le tracce nei testi di non facile lettura del filosofo.
Lo stile di Merleau-Ponty, dal lessico innovativo, si caratterizza per la sua capacità di
rimanere rigoroso e letterario, sostanzioso e agile, complesso e immediato allo stesso tempo.
Queste peculiarità, aggiunte alla dinamicità interna della scrittura e delle tematiche e alla
plurivocità delle accezioni proposte, rendono l’analisi del pensiero merleau-pontyano
“ambigua” e piena di “pieghe” di senso. Ciononostante, i testi del filosofo francese si
propongono ad una lettura quasi melodica, trasportando con leggerezza il lettore in
un’argomentazione dotta e dialetticamente fondata.
La difficoltà della trama concettuale e stilistica delle opere di Merleau-Ponty avevano
dissuaso molti critici dall’intraprendere una ricerca su un’idea così dispersivamente affrontata,
come quella dell’intersoggettività.
Studi più recenti, come quelli di Bonan e Commerci, hanno proposto un’analisi
cronologica dell’evoluzione del concetto, dimostrando la presenza di questa tematica lungo
tutto il suo percorso filosofico. Da queste ricerche si evince l’importanza e il ruolo fondante
che questa nozione svolge nell’equilibrio interno della filosofia merleau-pontyana:
l’intersoggettività emerge come concetto chiave di ogni tappa della riflessione sia che serva
allo smarcarsi definitivamente dalle impostazioni dicotomiche della filosofia classica e del
pensiero scientifico, sia che aggiunga peso ermeneutico alla tematica della corporeità, sia che
integri i ragionamenti politici, psicologici o sociologici, sia che si inserisca nel complesso
concettuale della sua nuova visione ontologica.
4. Struttura della ricerca
In questo lavoro, abbiamo optato per un percorso diverso: un percorso tematico che
segua la genesi e lo sviluppo del tema dell’intersoggettività dal punto di vista ontologico,
esplicitando il suo fondamento dialettico e la relazione di reciprocità che intrattiene con le
altre nozioni.
Intendiamo, pertanto, iniziare dal rapporto che l’uomo ha con il mondo e illustrare in
che modo questo apra la strada all’apparizione dell’altro. Quello che si intende dimostrare nel
primo capitolo è che il rapporto al livello percettivo che l’uomo ha di primo acchito con il
mondo permette non solo di superare, grazie alla reversibilità, la scissione soggetto-oggetto,
ma anche di ridimensionare le pretese identitarie dell’io. Per mezzo della nozione di “corpo
15
proprio”, il filosofo riesce a cambiare le prospettive dell’interiorità e dell’esteriorità e rendere
labili i confini della percezione dal e verso il mondo. La duplice caratteristica dell’atto
percettivo, quella di rendere il soggetto allo stesso tempo percipiente e percepito, offre la
misura dell’apertura corporea verso gli altri enti.
Sulla base di queste acquisizioni, il secondo capitolo prenderà in analisi la possibilità
di superamento delle aporie classiche che si opponevano all’accesso all’altro. Verranno
affrontate, precisamente, le difficoltà del solipsismo, ma anche quelli che il filosofo considera
fraintendimenti empiristici e idealistici. La soluzione proposta da Merleau-Ponty è quella di
utilizzare la caratteristica del corpo proprio di essere correlativo della cosa come possibilità di
apertura verso il mondo e verso l’altro. L’accesso all’altro diventerà possibile come
intercorporeità, grazie alla reciproca apertura e riconoscimento degli esseri umani.
Il guadagno più rilevante avviene però a livello del linguaggio, al quale sarà dedicato
l’ultimo capitolo. La riflessione sul senso preteoretico insito nel mondo e sulle distinzioni che
opera tra “lingua parlata” e “lingua parlante”, gli permetteranno di offrire la garanzia
dialettica per un incontro con l’altro non solamente a livello corporeo. L’altro, infatti, è
riconosciuto anche come persona, in grado di recepire e trasmettere significati e di rispondere
empaticamente a comportamenti e linguaggi non verbali.
Nel seguire l’evoluzione del tema dell’intersoggettività, affrontato da un punto di vista
ontologico nel pensiero di MP, la nostra ricerca propone un percorso ermeneutico particolare:
una lettura che passa in rassegna i punti nodali della sua riflessione, in base a dei concetti
integrati in una filosofia unitaria in cui l’intersoggettività si relaziona organicamente.
5. Un percorso personale
Nello spiegare “il gusto” che ha per lui la filosofia, Merleau-Ponty ricorda che essa gli
è “apparsa da subito come qualcosa di estremamente concreto”, di opposto alla costruzione di
concetti o di sistemi, “come espressione, chiarimento, delucidazione di quello che viviamo,
tutti, di ciò che di più concretamente viviamo”9.
Nell’affrontare questa ricerca ho sentito di condividere pienamente questa idea,
vivendola giorno per giorno: una filosofia vissuta che permette di fare un percorso, di seguire
il divenire di una ontogenesi, nel senso olistico del termine merleau-pontyano, una filosofia
che dimostra di non avere “nulla di drammatico”, ma di consistere nel “tentativo di
9 ENTRETIENS
16
espressione rigorosa di far passare nelle parole ciò che normalmente non è parola, che
appartiene all'ordine dell'inesprimibile”10.
Per descrivere questo percorso ermeneutico devo parafrasare il mio autore: invece di
mutilare il suo pensiero con quello che ha fatto pensare agli altri e invece di operare una
meditazione camuffata da dialogo, in cui ci si pone da soli le domande e allo stesso modo si
danno le risposte, ho cercato di trovare una via di mediazione in cui il filosofo del quale parlo
e io che parlo siamo insieme presenti, “benché sia impossibile, anche in linea di diritto,
distinguere a ogni istante ciò che appartiene a ciascuno”11.
Il punto di partenza di questo itinerario attraverso l’universo filosofico merleau-
pontyano ha coinciso per me con quello stato che il pensatore francese descriveva come
caratteristico di molti giovani a lui contemporanei: la fretta di diventare adulti e il sentirsi in
difficoltà con se stessi. Mi sono riconosciuta nell’“orrore dell’improvvisazione” del giovane
Merleau-Ponty che rimandava sempre a più tardi quello che considerava un lavoro definitivo
e sentiva che tutto quello che faceva gli appariva come provvisorio in attesa di un lavoro che
sarebbe arrivato: “era l'esigenza di un rigore assoluto che non mi aveva portato lontano”12.
Il rigore richiesto dall’analisi dello studio merleau-pontyano si trasforma in uno sforzo
di autosupermento dei propri limiti concettuali per riuscire a seguire il divenire delle idee: da
quella che attesta “che noi apparteniamo allo stesso mondo”, a quella che definisce lo
“scambio tra me e il mondo” senza che ci sia la “rivalità io-l’altro, ma co-funzionamento”
come “un corpo unico”13. Per seguire la “dimensionalità”14 che “inizia al mondo”15 introdotta
da Merleau-Ponty, risulta necessario operare una torsione su se stessi che permetta una chiara
mediazione tra esprimente e l’espresso. L’intersoggettività non risulterà, perciò, solamente un
concetto dimostrato dal punto di vista ermeneutico, ma anche una conquista personale.
10 Ibid. 11 Il filosofo e la sua ombra, in S, pp. 211-212. 12 ENTRETIENS 13 VI, p. 229. 14 Ivi, p. 231 15 Ivi, p. 232.
17
CAPITOLO PRIMO
L'ESSERE AL MONDO
l'idios kosmos si apre, attraverso la visione, su un koinos kosmos, insomma che la medesima
cosa è laggiù, nel cuore del mondo, e qui, nel cuore della visione (OS, p. 24)
1.1. Il problema dell'accesso al mondo
1.1.1. La presenza del mondo, motore di tutte le ricerche
Per giungere a porre la domanda ontologica sulla relazione con l’altro, l'io inizia a
muoversi dal quesito sulle sue relazioni con il mondo. L'interrogazione sul mondo costituisce
una costante nel pensiero merleau-pontyano, che si sforza reiteratamente di individuarne il
senso specifico a partire dalla constatazione della sua immediata presenza come elemento
della nostra vita spontanea.
Sin dalle sue prime opere, il principale scopo teorico di Merleau-Ponty è quello di
realizzare una genealogia della coscienza, incominciando da una descrizione fenomenologica
dell’esperienza corporeo-percettiva del mondo. La riflessione sul mondo rappresenta perciò il
fondamento sul quale si sviluppano tutte le altre analisi correlate, da un punto di vista
prettamente fenomenologico, in una prima fase, e con un indirizzo più ontologico in quella
finale. Si potrebbe affermare che l'indagine sul mondo costituisca, nel pensiero dello studioso
francese, il raccordo speculativo tra il cosiddetto periodo fenomenologico e quello ontologico.
Si tratta di un nodo cruciale della filosofia di Merleau-Ponty: il mondo visibile in cui si
inscrivono tutte le relazioni si colloca all’incrocio di tutti gli aspetti dell’Essere.
Il mondo, nella visione merleau-pontyana, è l’ambiente in cui si svolgono le
esperienze e le azioni degli uomini e che si dona come un sempre “già là”, che avvolge tutto,
inclusa la coscienza che lo tematizza. Il fatto che sia il mondo ciò che vediamo16 significa che
l'uomo parte in maniera immediata da una constatazione della presenza del mondo come
percepibile ed evidente.
16 Cfr VI, p.31.
18
La spinta iniziale di ogni riflessione e di ogni esperienza è rappresentata dal fatto che
“l'uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce”17.“È così, e nessuno può farci niente”18,
afferma con leggera ironia, Merleau-Ponty. Infatti, la percezione di una cosa, dell'ambiente in
cui si trova, così come la relazione percettiva che intercorre tra il soggetto percipiente e la
cosa nel mondo alimentano la certezza del soggetto di abitare il mondo. Prima di qualsiasi
veduta scientifica, un mondo si dispone attorno a noi e comincia ad esistere per noi in una
dimensione originaria che non solo è anteriore a quella della conoscenza e non in contrasto,
ma è sostegno e fondamento per le costruzioni dell'intelletto e, generalmente, della
dimensione del vissuto.
Secondo il filosofo francese, dunque, tutte le riflessioni che l'uomo fa prendono avvio
dal presupposto che il mondo ci sia. Le cose percepite dai sensi creano la base sia di una
certezza antecedente a qualsiasi pensiero, sia del contenuto del pensiero stesso. Questo
supporto che si dona ai sensi e all'interpretazione dell'uomo risulta “già là”19 al momento in
cui l'uomo si relaziona ad essa.
Il mondo come oggetto della riflessione si fonda su un c'è preliminare e l'obiettivo di
Merleau-Ponty è di rendere conto, a livello filosofico, della presenza di questo mondo, del
fatto che c'è (il y a) qualche cosa. Che tale obiettivo fosse preminente nell'ultima fase della
vita del filosofo, lo testimonia anche il seguente passo de L'Occhio e lo Spirito, datato luglio-
agosto 1960 e pubblicato nel 1961:
È necessario che il pensiero scientifico – pensiero di sorvolo, pensiero dell'oggetto in generale – si
ricollochi in un “c'è” preliminare, nel luogo, sul terreno del mondo sensibile e del mondo lavorato così
come sono nella nostra vita, per il nostro corpo (...)20.
Il pensiero della scienza, della filosofia e della riflessione generale deve ristrutturarsi,
secondo il filosofo francese, in un quadro più ampio che includa il sensibile e la certezza
dell'esistenza del mondo che caratterizza tutti gli uomini. Ne Il visibile e l'invisibile, egli
ritorna su questi temi sottolineandone l'importanza e ponendo perfino come obiettivo quello di
“dimostrare che queste nozioni [pregnanza, Gestalt, fenomeno] rappresentano una presa di
contatto con l'essere come puro c'è”21. Le nozioni che hanno popolato la sua prima fase di
17 Fp, Premessa, p.19.1818 18 VI, p.32. 19 FP, Premessa, p.15. 20 OS, p. 15. 21 VI, nota di lavoro del settembre 1959, p. 221.
19
creazione, e che approfondiremo in seguito, vanno riformulate in un'ottica ontologica, che ha
come punto di partenza il c'è preliminare. Il concetto merleau-pontyano di c'è (il y a) designa
il sentire quale coscienza originaria non tematizzata, in quanto si pone come semplice
presenza del mondo prima di ogni categorizzazione operata dall'intelletto.
1.1.2. La fede percettiva, certezza preriflessiva indimostrabile
Interrogarsi sul mondo significa, per Merleau-Ponty, ricollegarsi ad un sostrato
profondo di “opinioni” mute implicate nella nostra vita. Il già là del mondo esprime una fede
percettiva, comune sia all’uomo naturale che al filosofo, ma che non rende più agevole
l'accesso conoscitivo ad esso.
I metodi di prova e di conoscenza, che un pensiero già installato nel mondo inventa, i concetti d’oggetto
e di soggetto che esso introduce, non ci permettono di comprendere che cos’è la fede percettiva, proprio
perché essa è una fede, cioè un’adesione che si sa al di là delle prove, non necessaria, intessuta di
incredulità, in ogni momento minacciata dalla non-fede.22
Fede, dunque, e non ragione: Merleau-Ponty prende in prestito questo concetto dalla
religione per spiegare in che modo l'uomo accetta il suo vissuto intriso, dell'esistenza del
mondo come evidente e non confutabile, se non successivamente. L'ecceità del mondo non è
inizialmente oggetto della ragione che, invece, può ritornare a metterla in dubbio
(cartesianamente). Pertanto si tratta dell'esperienza della presenza percettiva del mondo, “più
vecchia di qualsiasi opinione”, in quanto si tratta della situazione in cui nasciamo credendo di
“abitare il mondo con il nostro corpo”. “Tanto l'idea del soggetto quanto quella dell'oggetto
trasformano in adeguazione di conoscenza il rapporto con il mondo e con noi stessi che
abbiamo nella fede percettiva”23. Il filosofo sente la necessità di delucidare questi rapporti
sulla base della contraddittorietà dei risultati delle ricerche che si fondano su tali presupposti.
Il fatto di cogliere in maniera immediata il mondo non costituisce un assunto privo di
problematicità, ma si dimostra “un labirinto di difficoltà e di contraddizioni”24. Il vissuto
dell'uomo potrebbe sembrare l'universo confuso dell'immediato, lontano dalla pretesa di verità
22 Ivi, p.53. 23 VI, p. 49. 24 Ivi, p. 31.
20
e sospettabile di rimanere legato a delle “antinomie insolubili”25. La problematicità del mondo
inizia dalla constatazione dell'impossibilità di una spiegazione razionale completa a partire
dalla sua ecceità. Egli riprende più volte il paragone con il concetto del tempo in
sant'Agostino: “che esso è perfettamente familiare a ognuno, ma che nessuno di noi può
spiegarlo agli altri, va detto del mondo”26. Questo passo de Il visibile e l'invisibile proviene dal
paragrafo iniziale dedicato alla fede percettiva, che si appresta a fare una descrizione della
presenza bruta del mondo e a restituire l'essere percepito in quanto oggetto delle nostre
interrogazioni, quindi a definire una presenza interrogativa. Si tratta, dunque, di prendere in
analisi quello che rappresenta il mondo stesso, il sensibile colto dalla nostra percezione che si
sviluppa in noi come una certezza, come una fede nella sua presenza, nonostante il mistero e i
dubbi conoscitivi che comporta.
Merleau-Ponty denomina questa certezza dell'esistenza del mondo anche fede
primordiale, opinione originaria e, parafrasando Husserl, Urglaube, Urdoxa. Nello stesso
periodo questo tema viene ripreso anche nel contesto dei corsi tenuti presso il Collège de
France. Infatti, nel corso intitolato La filosofia oggi, del 1958-59, Merleau-Ponty annota:
Allo stesso modo dialettica di atteggiamento naturale e trascendentale – L'atteggiamento naturale
superato e conservato- La Weltthesis come Urdoxa, Urglaube. Un contatto con l'essere che è prima
della theoria – La filosofia è questa theoria che scopre il pre-teoretico. Un contatto con l'essere che è
Verborgenheit tanto quanto aletheia.27
L'incontro originario dell'uomo con il mondo rappresenta la sua prima fonte di
conoscenza, quella, semplicemente, di esserci, di abitarlo, di poterlo percepire e
successivamente esplorare, ma tale apertura verso il sensibile, che il filosofo chiama
atteggiamento naturale, va sia riscoperta e rivalutata dall'intelletto, sia preservata durante le
fasi della ricerca. L'atteggiamento naturale è in realtà il mistero di una Weltthesis che precede
tutte le tesi, di una fede primordiale, di un'opinione originaria (Urglaube, Urdoxa) non
traducibili in termini di sapere chiaro e distinto e che ci danno non una rappresentazione del
mondo, ma il mondo stesso. La concezione husserliana dell’Urdoxa viene ripresa da Merleau-
Ponty nel momento in cui intende sottolineare il punto di partenza di ogni indagine
fenomenologica, cioè la prima percezione, il primo sguardo dell’individuo che pone il mondo
25 Ivi, p. 41. 26 Ivi, p.31. 27 POF, p. 40.
21
e non abbandona più questa certezza preriflessiva e indimostrabile che poggia sulla fatticità
del mondo.
Il primo atto percettivo sancisce l’adesione al patto primordiale che presiede alla vita
preriflessiva e che non può mai ed in nessun modo essere revocato in dubbio filosoficamente,
perché precede la coscienza tetica ed è trascendentale rispetto alla riflessione filosofica. Esso
è l’oggetto di una fede originaria ed incrollabile nel mondo, l’Urdoxa, a cui la percezione
rimanda continuamente, e che nella sua dimensione anonima, prepersonale ed atemporale,
assume il ruolo di un a priori dell’esperienza, inscritto nel corpo come retaggio ancestrale
della preistoria del soggetto28. Questa riflessione pervade le analisi dell'ultimo periodo, come
risulta anche dalle Note dei corsi:
Bisogna forse passare dalla doxa all’épistéme, o dalla doxa all’Urdoxa, alla doxa primordiale? Se la
filosofia comincia con l’atteggiamento naturale, uscirà mai da esso, e se ne esce, perché ne esce? Sono
queste le domande che assillano Husserl e che spiegano le posizioni contraddittorie che egli prende sulla
costituzione della Natura.29
L'atteggiamento naturale che si traduce nella fede percettiva rappresenta il punto
iniziale della conoscenza e non si risolve in un punto morto della ricerca dell'uomo. Merleau-
Ponty riprende gli interrogativi sollevati da Husserl, cercando una nuova soluzione, in base a
dei concetti originali, esplicitati in seguito.
La fede percettiva nella verità del mondo è allora il momento genetico che precede
ogni posizione tetica del mondo come oggetto di pensiero, è per l’appunto fede e non sapere
su questo mondo; e questo perché, secondo il filosofo, c’è sempre “un germe di non-verità
nella verità”30. In effetti, è proprio la messa in questione della tradizionale distinzione logico-
metafisica di realtà e apparenza, di vero e falso, che il filosofo vuole qui impostare.
Il vero non è né la cosa che io vedo, né l'altro uomo che parimenti vedo con i miei occhi, né infine
quell'unità globale del mondo sensibile e, al limite, del mondo intelligibile31.
L’interrogazione ontologica della fede percettiva mira, infatti, a evidenziare quella
‘fragilità’ del reale che egli considera come costitutiva dell’essere del mondo32. 28 Cfr S.FRANZESE, Ripensare la “normalità”. La nozione strutturale di normalità in Merleau-Ponty in “Segni
e comprensione”, Università di Lecce, a. XVI n.s., n.45, 2002, p. 46. 29 N, p. 118. 30 VI, p. 53. 31 Ivi, p. 41.
22
Il mondo e la ragione non costituiscono un problema; diciamo, se si preferisce, che sono misteriosi, ma
questo mistero li definisce, e non c'è motivo di dissiparlo con qualche «soluzione»: esso è al di qua delle
soluzioni33.
L'enigmaticità con la quale viene colto il mondo non costituisce un vero problema
dialettico in quanto “la fenomenologia ha il compito di rivelare il mistero del mondo e il
mistero della ragione”34. Quasi la riflessione, nel semplice accostarsi alla fede percettiva, ne
guastasse irrimediabilmente la genuinità. In tal senso, simmetriche e opposte, le soluzioni
proposte dalla scienza e dalla riflessione filosofica si rivelano entrambe fallimentari.
Rispetto alla prima fase del suo pensiero, in cui la percezione è vista come ciò che “ci
da fede in un mondo, in un sistema di fatti naturali rigorosamente collegato e continuo”35 nel
quale si può incorporare tutto, perfino “la percezione che ci ha iniziati a esso”, nell'ultima fase
Merleau-Ponty sviluppa un'altra concezione che intende superare l'idea che “gli isolotti di
«psichismo» fluttuanti qua e là”36 siano perennemente connessi al suolo della natura. La
filosofia ha il compito di ristabilire l'equilibrio tra il mondo percepibile e il mondo invisibile.
La filosofia, dunque, deve interrogare la fede percettiva senza sperare di ottenere da
questa una risposta valida nella sua auto-evidenza, poiché essa stessa non può aspirare al
disvelamento di una verità del mondo, che nel pensiero troverebbe il suo fondamento ultimo.
L’unica “verità” che la fede percettiva può svelare è, piuttosto, quella secondo la quale, come
qualche pagina addietro il filosofo aveva sottolineato, “il mondo esistente esiste nel modo
interrogativo”37.
1.1.3. La percezione, lo snodo primario
La percezione gioca un ruolo fondamentale nel nostro rapporto con il mondo. La tesi
del primato della percezione è forse la più famosa del pensiero merleau-pontyano. Essa si
basa sulla convinzione che l’unica via d’accesso verso le cose e verso il mondo sia quella data
32 Cfr. A. FIRENZE, Il primato ontologico della percezione in Merleau-Ponty, in “Isonomia”, rivista
dell'Istituto di Filosofia “Arturo Massolo”, 2008 p.26. 33 FP, Premessa, p. 30. 34 FP, Premessa, p. 31. 35 VI, p. 52. 36 Ibid. 37 Ivi, p. 140.
23
ad ogni uomo dalla propria particolare configurazione fisica, cioè dalle proprietà dei sensi e
dalla posizione che ha nel mondo. Abitare il mondo tramite la propria corporeità significa
essere costantemente in un rapporto di implicazione reciproca.. Da questo punto di vista, il
concetto di percezione si arricchisce di nuove potenzialità: percepire è, quindi, ciò che ci
mette in relazione con, è sempre un percepire qualche cosa e ci consegna una realtà
trascendentale. Tramite l'apertura a quel che c'è, all'il y a, donazione di un'esistenza esteriore,
l'uomo si situa perennemente in una dimensione dialogica con il mondo. Non si può concepire
la percezione senza necessariamente prevedere una dimensione sensibile, tramite la quale l'io
rileva un'esistenza effettiva.
Il concetto di percezione si trovava in una posizione secondaria nella filosofia idealista
dominante all’epoca, che aveva la tendenza a considerarlo come un’intellezione confusa,
anche se l’idealismo trascendentale francese cercava, in qualche misura, di riabilitarla, forse
in funzione di un certo eclettismo38. Il superamento dei determinismi scientifici e ideologici
apriva la via ad un pensiero dialettico dell’originario, per disporsi sia sul piano
fenomenologico, che su quello ontologico. Tutto lo sforzo di Merleau-Ponty è proteso a
ricondurre le varie forme della vita alla concretezza originaria. In questa direzione tenta di
lasciarsi alle spalle tutti i dualismi del pensiero moderno, generati da tentativi di spiegare il
mondo secondo schemi intellettualistici, e si propone di descrivere un’esperienza del mondo,
un’esperienza che precede ogni pensiero sul mondo. Il pensatore francese rimprovera alla
filosofia tradizionale e alla psicologia classica di aver misconosciuto il senso della percezione,
attraverso il quale non solo il mondo si presenta come organizzato e relazionale, ma anche
dove il sapere trova la sua fondazione nell'evidenza sensibile colta dall'atto percettivo.
È il filosofo stesso a darne una descrizione esauriente:
La percezione non è una scienza del mondo, non è nemmeno un atto, una presa di posizione deliberata,
ma è lo sfondo sul quale si staccano tutti gli atti ed è da questi presupposta. Il mondo non è l'oggetto di
cui io posseggo nel mio intimo la legge di costituzione, ma è l'ambiente naturale, il campo di tutti i miei
pensieri e di tutte le mie percezioni esplicite. La verità non «abita» soltanto l'uomo interiore, o meglio,
38 Un esempio eloquente in questo senso è rappresentato dalle Réflexions sur l’activité spirituelle constituante di Pierre Lachièze-Rey, le quali non corrispondono all’immagine caricaturale di un intellettualismo sprezzante nei confronti della sfera del sensibile, nella misura in cui esse contengono l’analisi della motricità e del corpo come mediatore della conoscenza e che attraverso l’intenzione di un ritorno ad una certa forma di realismo, sottolineano “dei fattori estranei allo spirito” (Pierre Lachièze-Rey, Réflexions sur l’activité spirituelle costituante, 1933-4, ripreso in Le Moi, le Monde et Dieu, Aubier, Parigi, 1950, p. 153. (tr. n.)
24
non v'è uomo interiore. Quando ritorno in me a partire dal dogmatismo del senso comune o dal
dogmatismo della scienza, io trovo non un nucleo di verità intrinseca, ma un soggetto votato al mondo39.
La percezione, dunque, si configura come la condizione umana per eccellenza in cui il
soggetto dispiega tutte le sue possibilità di interazione con le cose del mondo, non in maniera
duale ma come un intero integrato in un quadro più ampio. E’ in questo senso che Merleau-
Ponty contesta la posizione di Descartes, la quale non si spinge a integrare la conoscenza della
verità con la prova percettiva della realtà.
Nell'ottica di Merleau-Ponty, la percezione si distingue sia dal sentimento, la cui
specificità riguarda gli stati di se stessi, autoreferenziali, sia dalla conoscenza, che non
comporta alcuna dimensione sensibile. L'approccio merleau-pontyano si fonda sull'analisi
dell'atto percettivo. La conclusione delle riflessioni portate avanti soprattutto nei primi scritti
si può riassumere, da un lato, nell'idea che l'esperienza percettiva coglie la separazione tra la
“qualità del sensibile” e l'oggetto che essa presenta, ma dall'altro lato, questa separazione non
può essere netta. Infatti, i due elementi non possono essere distinti se non da una
decomposizione astratta dell'esperienza percettiva.
Per sviluppare la sua indagine sulla natura della percezione, in questi primi anni ’30,
Merleau-Ponty si dedica ad un assiduo studio dei più recenti esiti sia metodici sia sperimentali
della psicologia40 relativamente ai temi della percezione e della corporeità: la sua attenzione si
rivolge in primo luogo alla Gestalttheorie41, ma anche al behaviorismo, alla psicoanalisi e ad
alcuni studi di neurologia e psicopatologia. Il filosofo francese crede che i risultati della
psicologia potrebbero illuminare di una nuova luce anche alcune posizioni e nozioni
filosofiche che non sono riuscite a trovare un posto concettualmente significativo. Il compito
che egli sembra proporsi, nella sua prima formulazione, è quindi di arrivare ad una
39 FP, Premessa, p. 19. 40 L'interesse di Merleau-Ponty per la psicologia risale al periodo immediatamente successivo all'incontro con l'opera husserliana, testimoniato anche dai lavori come La struttura del comportamento(1942), La fenomenologia della percezione (1945), nei saggi Il metafisico nell’uomo (contenuto nella raccolta di saggi Senso e non senso elaborati nello stesso periodo) e Il bambino e gli altri (il cui pensiero è stato raccolto dagli uditori del corso tenuto alla Sorbonne nel 1949 sull'infanzia e la pedagogia). Infatti, fra il 1949 e il 1952 Merleau-Ponty occupa la cattedra di Psicologia e Pedagogia. Tale incarico gli ha fornito la possibilità di approfondire lo studio scientifico di questi ambiti, apportando novità interpretative tuttora attuali in alcune branche della psicologia (Gestalt, Costruttivismo, correnti di psicologia post-moderna legate alla fenomenologia e alla sociologia, ma anche nelle evoluzioni delle neuroscienze e delle psicologie cognitive). 41 Tra il 1933 e il 1934, all’età di 25 anni, Merleau-Ponty, intento alla preparazione della Struttura del comportamento (1942), si avvicina alla Gestaltpsycologie che matura nella stessa epoca. Anche il recepimento del freudismo gli permette di rendere più chiaro il rapporto tra una dialettica umana e una dialettica vitale.
25
comprensione di tali risultati scientifici, nella loro connessione e nel loro senso profondo, in
modo da poter confutare i presupposti intellettualistici del trascendentalismo filosofico.
Vista l'idea di fondo che muove la ricerca di Merleau-Ponty, questa attenzione alle
scienze umane e in particolare alla psicologia offre un valido terreno di ripresa di alcune
categorie e nozioni in chiave nuova. Ad esempio, il concetto di comportamento, assorbito
principalmente dal behaviorismo watsoniano, viene interpretato all'interno di un esperienza
che non è né soggettiva né oggettiva: “la psicologia, divisa tra il «metodo oggettivo» e
l'introspezione, finisce per trovare il suo equilibrio nell'idea di una forma del comportamento,
afferrabile dal di fuori come dall'interno”42. Il comportamento si mostra come un'unità che non
può essere scissa tra un “interno” inaccessibile all'osservazione e un “esterno” misurabile:
esso non rappresenta una realtà né materiale né psichica, quanto una struttura da intendere in
senso olistico, come un tutto che non può essere diviso in parti o ricomposto e giustapposto.
Il nuovo metodo, che Merleau-Ponty intravvede nella Psicologia della Forma, prevede una
considerazione delle esperienze come “insiemi che non sono la pura manifestazione di una
coscienza reggitrice”43 e di un procedimento che va dal tutto alle parti. Il comportamento,
dunque, deve essere interpretato come una totalità, come una forma (Gestalt) di
organizzazione complessa44, irriducibile alla dicotomia soggetto-oggetto. Esso non si può
ridurre, infatti, né a un fenomeno fisico né a un fenomeno eloquente solamente
dell'espressività interna, ma si deve considerare come una proiezione esteriore all'organismo
di una possibilità che gli è interna. Il mondo che l'uomo abita non rappresenta una sua mera
rappresentazione, ma un ambiente che condivide con gli altri uomini e animali. La percezione
del mondo attesta la presenza di quest'ultimo tramite il comportamento, in quanto orizzonte
percettivo comune. Rispetto alla psicologia classica - alla quale Merleau-Ponty rimprovera di
essere profondamente dualista, scindendosi tra un polo empirista e un altro intellettualista,
portando così la percezione a rapportarsi in maniera separata al corpo e al mondo - la
psicologia della forma si appressa al percepito considerandolo sempre in mezzo ad altre cose,
come parte di un campo fenomenico.
42 Il metafisico nell’uomo, in SNS, p. 111. 43 Ibid. 44 Il filosofo francese cerca di superare le impostazioni del comportamentismo e della riflessologia, come i lavori di Gelb e Goldstein, pur rifacendosi spesso alle loro analisi sulle lesioni corticali e sulle modalità di compensazione sviluppate dagli organismi superiori. Infatti, i risultati delle ricerche sull'afasia, aprassia o sulle persone affette da disturbi psico-motori portano alla luce un'incapacità di percepire e di concepire una figura (intesa come un insieme coerente di elementi) su uno sfondo. La proposta interpretativa innovativa consiste in un mutamento della prospettiva meramente fisiologica e il recupero della dimensione qualitativa della malattia in grado di rendere conto della struttura d'insieme. Il significato complessivo della malattia viene inteso come comportamento da comprendere e non più da spiegare.
26
La psicologia della forma sostiene la concezione di una totalità dell'uomo, visto che
si proponeva da un lato di descrivere le forme privilegiate della condotta umana e dall'altro di
determinare le condizioni che ne suscitano la comparsa. Il ritorno alla descrizione, il richiamo ai
fenomeni come fonte legittima di cognizioni psicologiche vietavano in linea di principio di intendere la
forma come una realtà minore o derivata e di conservare ai processi lineari e alle sequenze isolabili il
privilegio che lo scientismo conferisce loro45.
La forma non è qualcosa di dato e di naturale: è un movimento che tende ad un
compimento, un movimento che tende a sorpassare se stesso, che non si ferma mai nel segno,
ma va oltre il segno, perché cerca di raggiungere una totalità sempre più concreta e più
comprensiva dei rapporti tra gli uomini e degli uomini col mondo. Merleau-Ponty intende per
forma ciò che possiede proprietà originali rispetto a quelle delle parti in cui può essere
smembrata, anche se esse sono in uno stato di equilibrio totale, determinato dalla loro
reciproca implicazione. La percezione non ha il compito di condurre ad un’idealità pura né al
coglimento di un dato sensibile grezzo, ma di raggiungere una forma come un tutto in una
sintesi pratica.
La Gestaltpsycologie sembra fornire un’alternativa ai temi classici del giudizio e
dell’interpretazione che elevavano il percepito al rango di conosciuto nella psicologia
classica. In effetti, tramite la definizione di “un’organizzazione spontanea del campo
sensoriale”46, l’attività costitutiva dello spirito perde il suo privilegio, o almeno la sua
esclusività, nell’ambito della sintesi. La percezione non viene più descritta come un
riempimento di una forma tramite una materia eterogenea, ma come la comparsa di strutture
particolari che si distaccano dallo sfondo sul quale sono percepite in funzione di fattori
indipendenti dalla volontà o dall’intelligenza. Il risultato di questa visione delle cose è che
l’oggetto della percezione è soprattutto un sistema di relazioni prima che un termine isolato.
Queste relazioni, per quanto visibili, non sono sussumibili alle categorie intellettuali e di
conseguenza non risultano congrue. La percezione rileverà un insieme di fenomeni con
struttura di questo tipo, di cui, il più comune nella visione naturale, è la percezione della
profondità e dell’organizzazione del campo visivo.
Una simile ipotesi presupporrebbe un ridimensionamento dello statuto del sensibile, ma,
in realtà, come fa notare Merleau-Ponty, la Gestaltpsycologie non lo realizza veramente.
45 Il metafisico nell’uomo, in SNS, pp. 108-109. 46 PP. p. 25.
27
L’obiezione del filosofo francese consiste nel fatto che lo studio delle organizzazioni del
campo percettivo operata dalla Psicologia della Forma non è considerato che come un
versante positivo di una fenomenologia della percezione. Egli propone, perciò, un cambio di
impostazione le cui conseguenze sul problema dell’altro saranno determinanti in quanto gli
permetteranno di orientarsi in una direzione definita come “molto diversa”47 rispetto a quella
nella quale si muoveva la stessa Psicologia della Forma48.
Un tratto specifico della filosofia di Merleau-Ponty è il suo entusiasmo per
l’orientamento scientifico a lui contemporaneo, nel quale intravedeva dei progressi nel
rinnovamento dei metodi e dello statuto dei loro oggetti, pur restando costantemente deluso
dalla loro mancanza di audacia filosofica. Nonostante i suoi importanti contributi, la
Gestalttheorie mostra delle falle lungo il percorso e perciò manca l'obiettivo: “invece di
suscitare una revisione della metodologia e dell'ideale scientifico che avevano a lungo
mascherato la realtà della «forma», si è sviluppata solo nei limiti in cui permetteva di
rianimare questa metodologia insufficiente”49.
Nel saggio Il metafisico nell’uomo, il filosofo francese specifica ulteriormente che, pur
avendo dimostrato una certa superiorità metodologica rispetto alle precedenti correnti
psicologiche,
la Scuola di Berlino è indietreggiata di fronte a queste conseguenze: ha preferito affermare, con un puro atto
di fede, che la totalità dei fenomeni apparteneva all'universo della fisica affidando solamente ad una fisica e
ad una fisiologia più avanzate il compito di farci capire come le forme più complesse poggino, in ultima
analisi, sulle più semplici. (...) Ha voluto ad ogni costo la precisione delle formule, salvo a trascurare un po'
le forme più complesse che interessano la personalità intera (...)50.
La Gestalt, dunque, si è accontentata di descrivere i fenomeni senza che la sua ricerca
fosse accompagnata da una revisione teoretica dei principi e dei metodi, privilegiando il fisico
sullo psichico e la ricerca delle cause su quella delle motivazioni.
Per quello che concerne lo statuto della percezione esteriore, dunque, le
presupposizioni della psicologia tedesca non risultano sufficienti per Merleau-Ponty,
nonostante gli apporti importanti ai fini di gettare le basi per una nuova impostazione dei
47 Ivi, p. 34. 48 Risulta tuttavia degno di nota il fatto che essa non sia l’oggetto di una deduzione esplicita nei suoi primi scritti; sono piuttosto i suoi primi articoli pubblicati che ne sottolineano di più l’importanza. 49 Il metafisico nell’uomo, in SNS, p. 108. 50 Ivi, pp. 108-109.
28
rapporti dell’intelligenza e della conoscenza sensibile. Agli occhi del filosofo francese, la
psicologia non riesce a concettualizzare la natura della percezione, in quanto si concentra
maggiormente sulla patologia51, come versione macroscopica e analitica della normalità,
iscrivendosi in una specie di circolo vizioso della spiegazione del normale attraverso il
patologico, la cui intelligibilità invece si basa sulle nozioni della psicologia normale52.
Questa visione per nulla tenera nei confronti dei territori che più gli hanno fornito un
punto d’appoggio iniziale per la sua rinnovata ricerca sulla percezione, si traduce in una
critica53 ad ampio raggio di tutti gli psicologismi intesi come una stigmatizzazione dei
presupposti filosofici di cui è intrisa la psicologia della percezione.
Se invece vogliamo definire senza pregiudizio il senso filosofico della psicologia della forma,
bisognerebbe dire che, rivelando la «struttura» o la «forma» come ingrediente irriducibile dell'essere, essa
rimette in questione la classica alternativa fra «esistenza come cosa» e «esistenza come coscienza»,
ristabilisce una comunicazione come un miscuglio di oggettivo e soggettivo, e concepisce in maniera
nuova la conoscenza psicologica, che non consiste più nel decomporre questi insiemi tipici ma piuttosto
nello sposarli e nel comprenderli rivivendoli54.
Sembra, perciò, che l’esigenza di un nuovo metodo abbia guidato i primi passi del
giovane Merleau-Ponty fino all’incontro con la fenomenologia55. Quest’ultima avrebbe fornito
51 Criticando anche il pregiudizio meccanicistico che riduce la relazione organismo-ambiente al semplice nesso
stimolo-risposta (in riferimento soprattutto a Pavlov), che chiama anche “una dissociazione patologica” (SC, 86), Merleau-Ponty contrappone una prospettiva olistica in grado di concepire il sistema nervoso centrale come il posto in cui viene elaborato una visione totale dell'organismo, sulla base di una circolarità tra l'organismo e l'ambiente circostante (Umwelt) in cui i due elementi cercano l'equilibrio.
52 Queste accuse si potrebbero muovere anche nei confronti delle dottrine di Goldstein e Gelb, che, d’altro canto, mettono di più in rilievo il nuovo rapporto tra lo psichico e il corpo, abbandonando in una posizione secondaria l’ipotesi riduttrice delle localizzazioni cerebrali. 53 Ne Il visibile e l'invisibile Merleau-Ponty esplicita il suo disappunto per i risultati non soddisfacenti, dal suo punto di vista, ai quali hanno portato le ricerche della Psicologia della Forma. Sulla base della convinzione di aver trovato “la propria stabilità”, di aver costituito “il suo dominio di oggettività”, la Scuola di Berlino ha fatto affidamento su una “accumulazione di scoperte che l'avrebbe confermata nel suo statuto di scienza”. Nel tentativo di dimostrare perennemente la sua scientificità, la psicologia discosta lo sguardo dall'obiettivo principale e “oggi, quarant'anni dopo gli inizi della Gestaltpsychologie, si ha di nuovo l'impressione di essere al punto morto (…) non si ha mai l'impressione di avvicinarsi ad una scienza dell'uomo” (pp. 46-47) 54 Il metafisico nell’uomo, in SNS, pp. 109-110. 55 La fenomenologia così intesa sembrava corrispondere, per Merleau-Ponty, alle esigenze speculative del momento, in quanto rappresentava la cornice appropriata per la ricerca di un’alternativa al criticismo fondato su una filosofia trascendentale e, allo stesso tempo, permetteva lo sviluppo di una critica dello psicologismo tramite l’accentuazione della differenza tra l’atteggiamento naturale e quello trascendentale. La nuova concezione di percezione non mira a sostituire l’approccio psicologico, al contrario, ne vivifica i metodi servendosi della distinzione fondamentale tra il metodo eidetico e quello induttivo. Sin dal 1934 Merleau-Ponty cerca di individuare le basi di un terreno d’intesa tra una psicologia ed una fenomenologia della percezione e l’unità del tema ne fornisce l’orizzonte di una possibile sintesi tra i due approcci. E’ possibile che in queste condizioni l’uso che Merleau-Ponty fa della Gestaltpsycologie non si possa comprendere sennò come una vera e propria dimensione comune di una filosofia e di una psicologia rivolte alla percezione. A questa convergenza pensa
29
alla filosofia la possibilità di accogliere il concetto di percezione senza inciampare in alcuni
pregiudizi ingenui, ma pieni di conseguenze sul piano dialettico: “persino una psicologia che
si preoccupa di mostrare l’unità di coscienza, come la psicologia della forma, è considerata da
Husserl come una psicologia insufficiente”56.
1.1.4. Il mondo come oggetto
Una delle tematiche che ha sollecitato Merleau-Ponty sin dalle prime opere è stata
quella del dimostrare i limiti di metodo che è possibile riscontrare nelle scienze positive, e in
particolar modo nella biologia e nella psicologia. La critica all'approccio operato dalla scienza
riguarda le sue premesse: “il pensiero scientifico si muove nel mondo e lo presuppone più di
quanto lo assuma come tema”57. Il fine che il filosofo si propone non è quello di screditare i
risultati scientifici58, ma di mostrare che l'essere-oggetto e l'essere-soggetto non costituiscono
un'alternativa a una possibile visione che superi le antinomie legate al mondo percepito.
La scissura del «soggettivo» e dell'«oggettivo», grazie alla quale la fisica definisce inizialmente il
proprio dominio, e la psicologia, correlativamente, il proprio, non impedisce, anzi esige, che essi siano
concepibili secondo la medesima struttura fondamentale: sono in definitiva due ordini d'oggetti, da
conoscere nelle loro proprietà intrinseche, attraverso un pensiero puro che determina ciò che essi sono
in sè59.
Il rigido dualismo frena l'acquisizione di un'ottica ampia che permetta di riconsiderare
il rapporto coscienza-mondo senza la necessità di introdurre contrapposizioni. L'invito di
Merleau-Ponty riguarda “la revisione della nostra ontologia, al riesame delle nozioni di
«soggetto» e «oggetto»”60.
ancora il filosofo quando nel 1952, ne La Fenomenologia e le scienze umane, considera lo studio dell’approccio husserliano della psicologia, per stabilire in quale maniera quest’ultima, “presa nel senso del suo sviluppo spontaneo e non nella sua lettera espressa, ci permette di sbloccare la sua convergenza con la fenomenologia”(BA, p.339). Questo spiega anche perché l’atteggiamento di Merleau-Ponty rispetto alla scuola tedesca sia sempre critico soprattutto per le sue tentazioni naturalistiche e per l’assenza di una filosofia della forma veramente esplicita. 56 Merleau-Ponty à la Sorbonne, Rèsumés des cours, Ed. Cynara, Grenoble, 1988, p. 405. 57 VI, p. 53. 58 L’interesse di Merleau-Ponty per gli approcci filosofici che non risultano avversi alle contaminazioni degli ambiti scientifici è rimasto un tratto caratteristico della sua opera e ne diventa sempre di più l’oggetto, dopo essere stato semplicemente un elemento del suo stile. 59 VI, p 46. 60 VI, p. 49.
30
La scienza classica, diversamente da quella contemporanea, “conservava il senso
dell'opacità del mondo, ed era il mondo che intendeva raggiungere con le sue costruzioni:
ecco perché si riteneva in obbligo di cercare per le sue operazioni un fondamento trascendente
o trascendentale”61. Il senso di opacità del mondo non andrebbe combattuto sotto l'effige della
sua totale trasparenza, pur nell'ambito di una sfera intellettiva. “Dire che il mondo è per
definizione nominale l'oggetto X delle nostre operazioni, significa assolutizzare la situazione
conoscitiva dello scienziato, come se tutto ciò che fu o che è non fosse mai esistito se non per
entrare in laboratorio”62. Merleau-Ponty sostiene che il disvelamento del mondo non può
essere mai completo e che “se ritroveremo un equilibrio fra scienza e filosofia, fra i nostri
modelli e l'oscurità del «c'è», dovrà essere un equilibrio nuovo”63. Quello che egli auspica è
una sorta di riconquista del sensibile. A questo scopo intraprende l'analisi del funzionamento
del pensiero positivo, in particolar modo del pensiero scientifico paragonandolo con quello
fenomenologico.
Lo sviluppo del concetto di percezione aiuta Merleau-Ponty a creare i presupposti per
una filosofia dalle caratteristiche olistiche che si vuole discostare da una “metafisica ridotta
dal kantismo al sistema dei principi di cui la ragione fa uso nella costituzione della scienza o
dell'universo morale”64. La critica al concetto di metafisica non porta il filosofo francese ad
una sua totale abiura, bensì ad un ridimensionamento della sua portata. Ad esempio, persino
le scienze dell'uomo, che hanno vantato la pretesa di una scientificità assoluta, in base ad un
principio di oggettività, si possono riconsiderare in maniera metafisica in quanto si
impegnano a farci riscoprire quella dimensione che l'uomo è spontaneamente portato a
dimenticare, vale a dire il suo inserimento “naturale” nel mondo.
Secondo alcuni esegeti, la posizione di Merleau-Ponty potrebbe essere interpretata da
un certo punto di vista come empiristica, mentre, per altri aspetti, come critica di “un tipo di
empirismo che non si fonda su una percezione diretta ma che «costruisce», senza rendersene
conto, l'esperienza stessa secondo una teoria astratta o la deduce da una teoria”65.
Ciò che il pensatore francese cerca di ottenere è una posizione né realistica né
idealistica, tutte e due considerate delle mere astrazioni, vale a dire una filosofia che
rivendichi il modo d'essere in cui il soggetto e l'oggetto non sono separabili. In questa ottica il
soggetto non può essere un osservatore assoluto, distaccato dal mondo e l'oggetto non 61 OS, p. 13. 62 Ivi, p. 14. 63 OS, p. 43. 64 Il metafisico nell’uomo, in SNS, p. 107. 65 E. PACI, Introduzione, in SNS, p. 10.
31
rimanda ad un quadro trascendente, come una figura separata dallo sfondo. Questo stato delle
cose è confermato dalla percezione che le rende confuse, ambigue, nel senso che si spalma sia
sul piano soggettivo, che su quello oggettivo: ogni attività umana include sia l'esperienza
soggettiva, che ha in sé l'oggetto, sia l'apparire di un oggetto che risulta costituito da
operazioni soggettive. Lo sguardo dell'osservatore, infatti, non è mai in partenza neutro, ma
orientato da una molteplicità di fattori, spesso oscuri allo stesso ricercatore.
Per il filosofo francese, invero, la scienza a lui contemporanea non è in grado di
accedere in profondità alla relazione tra la coscienza e la natura perché si propone di afferrarla
in termini di rappresentazione e di oggettivazione. Da una parte la psicologia prende come
oggetto del suo studio la coscienza come cosa, perdendo di vista il fatto che essa è
principalmente un flusso di vissuti, dall'altra parte la biologia tenta di cogliere gli elementi
determinanti della vita degli organismi naturali in maniera quantitativa, il che costituisce un
sapere che per definizione non può risalire alla coscienza. Il fallimento delle scienze consiste
in un impoverimento della vita in cristallizzazioni inerti, in quanto non considera il senso dei
fenomeni così come essi appaiono all'osservatore.
Fondamentalmente ostile alla filosofia come pensiero in contatto, il pensiero operazionale ne ritroverà
il senso per l'eccesso della propria disinvoltura, ossia quando, avendo introdotto ogni sorta di nozioni,
che per Cartesio appartenevano alla sfera del pensiero confuso – qualità, struttura scalare, solidarietà fra
l'osservatore e l'osservato – si accorgerà all'improvviso che non si può sommariamente parlare di tutte
queste cose come di constructa. Nell'attesa, la filosofia si mantiene viva contro il pensiero operazionale,
s'immerge in quella dimensione del composto di anima e di corpo, del mondo esistente, dell'Essere
abissale, che Cartesio ha dischiuso e immediatamente rinchiuso. La nostra scienza e la nostra filosofia
sono conseguenze fedeli e infedeli del cartesianesimo, due mostri nati dal suo smembramento66.
Secondo Merleau-Ponty, dunque, la scienza sembra aver rifiutato sia le giustificazioni,
sia le restrizioni del campo d'indagine che Cartesio le imponeva e non pretende più di dedurre
dagli attributi di Dio i modelli che inventa. “La profondità del mondo esistente e quella del
Dio insondabile non vengono più ad aggiungersi alla banalità del pensiero «tecnicizzato»”67.
In questo senso, l'esordio della Premessa alla Fenomenologia della percezione è
categorico: l'impostazione descrittiva della fenomenologia comporta inevitabilmente la
sconfessione della scienza, in particolare delle scienze dell'uomo, psicologia, sociologia,
biologia, le quali fanno dell'uomo stesso, del suo corpo, del suo psichismo, il risultato di 66 OS, p.41.. 67 Ibid.
32
molteplici causalità. La scienza si propone come metodo l'esperimento, guidato dalla
preliminare riduzione dell'essere alla sua forma matematico-quantitativa, e come fine la
spiegazione del mondo e dell'uomo, intesi come dati di fatto, come effetti, di cui si deve
rendere conto cercandone le cause efficienti. In questa prospettiva, poiché la mia esistenza
dovrebbe fondarsi su quella dei miei antecedenti, su quella del mio ambiente fisico, sociale, io
stesso non potrei che essere compreso se non come il prodotto di circostanze e di fatti che mi
hanno preceduto. Così operando, tuttavia, la scienza esibisce necessariamente un senso
d'essere derivato; la sua radicalità, il suo cercare spiegazioni definitive, il suo voler dire
l'ultima parola sull'uomo e sul mondo sono in realtà una forma di ingenuità e di ipocrisia. La
sconfessione della scienza non significa, tuttavia, il rinnegamento dei suoi risultati ma
sconfessione della sua pretesa di attingere la verità del mondo. Il mondo che la scienza
esibisce è un mondo costruito e la sua verità è analoga a quella della mappa geografica
rispetto al paesaggio, rappresentata attraverso simboli convenzionali.
1.1.5. I rapporti tra la coscienza e il mondo
Nei paragrafi precedenti si è visto come la riflessione può partire da una fede
percettiva nel mondo considerato come già là prima di ogni formulazione teorica. La nostra
più naturale vita di uomini è imbastita di nozioni provenienti, più che da un atteggiamento
teorico, dal nostro atteggiamento innato che attinge dall'esperienza del mondo, afferma
Merleau-Ponty nel saggio del 1959, Il filosofo e la sua ombra68. Il reale è un tessuto solido,
non attende i nostri giudizi per annettere i fenomeni più sorprendenti e per respingere le
nostre immaginazioni più verosimili. Il credo stesso della fenomenologia consiste nel fatto
che “il reale è da descrivere, e non da costruire o costituire”69. Ne Il visibile e l'invisibile, egli
riprende questo tema:
Non è una sintesi, ma una metamorfosi in virtù della quale le apparenze sono istantaneamente destituite
di un valore che esse dovevano unicamente all'assenza di una vera percezione. Così la percezione ci fa
assistere al miracolo di una totalità che supera quelle che crediamo essere le sue condizioni o le sue
68 S, p.216. 69 FP, Premessa, p. 19.
33
parti, che le tiene da lontano in suo potere, come se esse non esistessero che sulla sua soglia e fossero
destinate a perdersi in essa70.
Il mondo, per Merleau-Ponty, “c'è” prima di ogni analisi che il soggetto possa fare.
Ciò significa che non si dovrebbe assimilare la percezione alle sintesi che appartengono
all'ordine del giudizio, degli atti o della predicazione. Il giudizio è un atto, un'operazione
mentale, che trova la sua espressione esplicita nella proposizione. Per Kant, è la
rappresentazione dell'unità della coscienza di rappresentazioni distinte. È un'operazione
soggettiva che costituisce un'unità oggettiva, dal momento che non si fonda sull'associazione
psicologica delle rappresentazioni, ma sull'appercezione, che è la funzione logica unificatrice
della coscienza in generale. Le sintesi della percezione non sono di quest'ordine, non
appartengono all'attività unificatrice delle rappresentazioni del soggetto, ma sono sintesi
passive.
In ogni momento il campo percettivo è riempito di “riflessi”, di “scricchiolii”, di
fugaci impressioni tattili che il soggetto non è in grado di connettere in modo preciso al
contesto percepito, e che tuttavia sono poste immediatamente nel mondo, senza mai
confonderle con l’immaginazione. Sognare sulle cose, o creare nella mente oggetti o persone
comporta una presenza che non è incompatibile con il contesto perché non si mescola al
mondo, ma è oltre il mondo. Se fosse fondata solo sulla coerenza intrinseca delle
“rappresentazioni”, la realtà della percezione dovrebbe essere sempre esitante71, essendo
costretta a reintegrare fenomeni contraddittori alle congetture del reale già sintetizzate.
Merleau-Ponty accoglie il suggerimento husserliano di esaminare l'intera correlazione
intenzionale soggetto-oggetto e, dunque, di prendere in considerazione tutto lo “sfondo” o il
“campo”72 in cui si dà la percezione. Parlare di campo percettivo significa fare interagire la
dimensione del vissuto con quella della ricettività fisiologica, la sfera della sensazione con
quella dell’azione significativa che il corpo intrattiene con essa. Ciò che la psicologia della
Gestalt ha il merito di aver compreso è che la struttura del campo psichico, immanente ad
esso, è intrinsecamente intelligibile e non è riconducibile a un accumulo quantitativo di
esperienza.
Il mondo percepito non si costituisce, non è una fonte caotica di stimoli sensoriali che
l'attività dell’intelletto deve organizzare ed oggettivare. Così la percezione non è un'attività
70 VI, p.35. 71 Cfr. FP, pp.18-19. 72 FP, p. 19.
34
strumentale e subalterna alla conoscenza, ma convive con essa e la nutre in profondità.
Limitare la percezione a semplice constatazione è un'operazione intellettiva che misconosce la
propria relazione costante con il mondo tramite la percezione.
Ridurre la percezione al pensiero di percepire, con il pretesto che solo l'immanenza è certa, significa
assicurarsi contro il dubbio, assicurazione che comporta oneri maggiori della perdita di cui deve
indennizzarci: significa infatti rinunciare a comprendere il mondo effettivo e passare a un tipo di
certezza che non ci restituirà mai il «c'è» del mondo73.
1.1.6. Rimparare a vedere il mondo: il ritorno alle cose stesse.
Per il filosofo francese, la caratteristica dell'uomo consiste nell'essere “da parte a parte
rapporto al mondo”74. La relazione con il mondo è, dunque, costitutiva dell'uomo e, perciò,
diventa problematico concepire in quale maniera si possa recuperare il contatto originario con
esso. L'ecceità del mondo pone il problema dell’accesso che l'io può avere, nei termini di un
ritorno alle cose stesse. Ciò non significa conferire una particolare attenzione alle cose che
circondano gli esseri umani, né lasciarli completamente immersi nella quotidianità, bensì, al
contrario, attuare una rottura della nostra relazione familiare con il mondo. Questa inversione
di rotta della direzione abituale del pensiero ha come scopo il “vedere”, o re-imparare a
vedere il mondo, nel senso di prendere possesso della sua presenza come tale. Il mistero del
fatto che esista qualche cosa si infittisce allorquando si pone il problema del significato di
questo c'è (il y a), di questa pura presenza del mondo, del suo senso autoctono, che
presupponiamo e lasciamo cadere nell'oblio della sua troppa evidenza. Il movimento di
ripresa della visione sul mondo ha l'intento, perciò, di ricondurci alla nostra esperienza
propriamente detta e alla realtà che essa restituisce; in breve, al sapere sensibile. Al contrario
del platonismo, la filosofia merleau-pontyana non mira al raggiungimento dell'intelligibile,
bensì al riacquisto del sensibile.
Questa rivendicazione dell'esperienza va intesa nell’ottica della critica
all'atteggiamento del naturalista o dello scienziato, che consiste nella convinzione ingenua,
secondo Merleau-Ponty, che i concetti della scienza siano lo specchio della realtà e che questo
metodo dischiuda la verità delle cose. Non si tratta di un ritorno idealistico alla coscienza, ma
73 VI, p. 61. 74 FP, p. 22.
35
è l’esigenza di una descrizione pura che esclude sia il procedimento dell’analisi riflessiva, che
quello della spiegazione scientifica.
Il senso dell'esperienza non viene da sé: definire la filosofia come tentativo di vedere il
mondo presuppone definire che significa “noi, che cos'è vedere e che cos'è cosa o mondo” 75.
Ma se questo ritorno al vedere acquista valore contro un pensiero che ha tentato di sostituirsi
al mondo, ciò non comporta la sua coincidenza con un'entità positiva, nel senso che vedere
non significa raggiungere una realtà nella sua localizzazione oppure nell'in sé, dimenticando
l'apporto dell'io. Il fatto che il soggetto veda il mondo implica altresì, che il mondo sia ciò che
il soggetto vede, in quanto dato come tale. L'apparizione del mondo per l'io rappresenta la
misura del suo essere. In questa ottica, pensare l'esperienza come una coincidenza con il reale
sta a significare che si tratta di operare sull'esistenza assoluta del mondo, invece di
interrogarsi sul suo modo di donarsi e di ricostruire l'esperienza come un contatto oggettivo
della coscienza con l'oggetto.
Questo è il luogo proprio dove, secondo Merleau-Ponty, deve essere ricondotta la
riduzione fenomenologica proposta da Husserl. La necessità di ritornare alle cose stesse,
secondo il suggerimento husserliano, comporta un rinnovamento della riflessione filosofica
sul problema del comportamento come articolazione tra la coscienza e la natura. Non si tratta
di ritorno alla coscienza trascendentale di fronte alla quale si dispiega un mondo
assolutamente trasparente, quanto di scoprire che il cogito è sempre in situazione, sempre
incarnato in una natura, sempre essere-al-mondo.
L’idea di riduzione fenomenologica, che ha come compito sostanziale il far apparire il
legame intenzionale essenziale tra la coscienza ed il mondo, relazione che resta velata
nell’atteggiamento naturale, ha interessato, come è noto, anche altri filosofi quali Heidegger e
Sartre76. Il movimento che la coscienza compie è qui inteso alla luce del concetto di riduzione
fenomenologica dell’ultimo Husserl, che il nostro filosofo considera come la rivelazione della 75 VI, p. 31. 76 Uno dei massimi esegeti di Merleau-Ponty, Thévenaz, ricostruisce il suolo concettuale sul quale si dispiega la posizione del nostro filosofo a proposito della riduzione fenomenologica ideata da Husserl. Difatti, Husserl traeva dalla riduzione “l'evidenza apodittica dell’Io, così come la nozione di un mondo-fenomeno intenzionato attraverso questa coscienza trascendentale”, mentre Heidegger in un primo tempo iscrive la relazione della coscienza e dei suoi obiettivi su un piano ontologico, facendo separare il senso trascendentale della riduzione a vantaggio di un'interrogazione dalle nuove implicazioni del senso dell’essere che si svela attraverso l'apertura che realizza il Dasein; Sartre invece mantiene l’ego come risultato della riduzione, ma ne nega la realtà personale e trascendentale. Solo la sua intenzionalità rimane valida ed effettiva. “Sartre fa rompere l’io”, ma con l’intenzione di “recuperare meglio la coscienza husserliana contro Heidegger”. Situando la realtà dell’io del tutto fuori, nel movimento stesso della trascendenza, Sartre modifica profondamente le finalità della fenomenologia poiché non può più trattarsi di svelare un senso nascosto del mondo, anteriore a tutti gli intenti, ma di creare liberamente dei valori. Cfr. P Thévenaz, Qu’est-ce que la phénoménologie?, « Revue de théologie et de philosophie » 1952, I, 9-30, II, 126-140, 294-316 (tr. n.).
36
costituzione del mondo reale nella sua specificità quale atto proprio dell’esperienza originaria
resa possibile dalla percezione77. Il vero senso della riduzione fenomenologica husserliana
consiste, secondo Merleau-Ponty, nell’impossibilità di una riduzione completa: per vedere il
mondo e coglierlo come paradosso occorre rompere la nostra familiarità con esso, e questa
rottura non può insegnarci altro che lo scaturire immotivato del mondo. Ecco perché Husserl
continua a interrogarsi sulla possibilità della riduzione.
La percezione, dunque si eleva a processo di comprensione di quello status
preriflessivo e preoggettivante che la ragione può operare con la sua sintesi. Ecco perché
“l'inizio della ricerca, e in un certo senso, l'intera ricerca” è costituito da un “ritorno in noi
stessi”, una “riduzione fenomenologica”78. Il mondo che percepiamo, non è mai fatto di una
somma di oggetti, a meno che non se ne debba fare l'inventario. Merleau-Ponty pensa che il
mondo percepito si regga da sé, che cioè sia un mondo e non una collezione di oggetti, grazie
ai riflessi, alle ombre, ai diversi piani di profondità, agli orizzonti fra le cose. Le ombre, i
piani di profondità ecc. non hanno la fissità e la consistenza delle cose, eppure senza di essi le
cose non sarebbero nel mondo.
Per evitare che l'interpretazione di questo tema si riduca all'unilateralità
dell'operazione idealistica volta a privilegiare la dimensione coscienziale, il filosofo francese
ne identifica due aspetti distinti. La riduzione fenomenologica si può proporre come
superamento dell'atteggiamento naturale, ma, in quanto atto del ritorno alle cose stesse,
rimane pur sempre un correlato della coscienza. È possibile, invece, anche un altro tipo di
approccio, in cui la riduzione non si limiti al solo superamento, ma anche, paradossalmente,
alla conservazione del mondo intero dell'atteggiamento naturale. La coscienza impegnata
nell'epoché deve esibire un senso, che una riflessione centrata sulla bidimensionalità del
rapporto soggetto-oggetto non è in grado di cogliere. In effetti, la riduzione porta alla
scoperta di una terza dimensione, più fondamentale, a cui sia l'oggettivo che il soggettivo
attingono il loro senso e in base alla quale la loro stessa distinzione si fa problematica.
La riduzione fenomenologica husserliana era stata interpretata in senso idealistico79 per
cui il mondo si dispiega in maniera assoluta davanti al cogito, ma ciò rende paradossale
77 Cfr. SC, p. 236. I problemi della riduzione fenomenologica, della percezione eidetica, della costituzione di
regioni ontologiche e della stessa intenzionalità appartengono tutti a questa dimensione originaria dell'analisi filosofica. Merleau-Ponty si concentra, infatti, sulla messa in luce di intuizioni e abbozzi compresi nell'opera di Husserl, soprattutto negli allora inediti di Lovanio, allo scopo di chiarirne il vero senso, di mostrarne l'articolazione con la situazione ontologica originaria dell'uomo, quella dell'essere-al-mondo. 78 Cfr. Il filosofo e la sua ombra, in S, p. 215. 79 Secondo Merleau-Ponty, il trascendentale di Husserl non è quello di Kant: Husserl rimprovera a Kant di fare una filosofia mondana perché utilizza il nostro rapporto al mondo, che è il motore della deduzione
37
l’esistenza dell’altro. Se si parte dal presupposto che l’uomo può affermarsi solo come essere
al mondo, come “soggetto destinato al mondo”, allora per poter dire che l'uomo è destinato
agli altri, bisogna servirsi del valore profondo della riduzione fenomenologica, che è quello di
rivelare il significato intersoggettivo della tesi del mondo. Solo in una prospettiva
fenomenologica il mondo, l’io e l’altro trovano una dimensione raggiungibile:
Il mondo che distinguevo da me come somma di cose o di processi legati da rapporti di causalità, lo
riscopro «in me» come orizzonte permanente di tutte le mie cogitationes e come una dimensione in
rapporto alla quale non cesso di situarmi. L’autentico Cogito non definisce l’esistenza del soggetto per
via del pensiero che questi ha di esistere, non tramuta la certezza del mondo in certezza del pensiero del
mondo e infine non sostituisce al mondo stesso il significato mondo. Esso riconosce invece il mio
pensiero stesso come un fatto inalienabile ed elimina ogni sorta di idealismo scoprendomi come «essere
al mondo»80.
La nuova visione filosofica di Merleau-Ponty intende spostare i limiti del naturalismo,
il quale mantiene la dicotomia soggetto-oggetto, così come del trascendentalismo dell'Io puro
e dell'ontologia delle cose pure, intesi come risultato di un'assolutizzazione dell'atteggiamento
teorico e idealizzante. La verità dell'atteggiamento naturale ha in sé la luce ambigua, il
chiaroscuro dell'opinione, la fragile perentorietà della fede, ma nessun sapere chiaro e distinto
può superarla e sostituirsi ad essa. La pretesa originarietà della coscienza teorica nulla può di
fronte all'originarietà definitiva della nostra esistenza81. È quell'essere grezzo, ambiguo,
selvaggio che la fenomenologia scopre e dal quale nel contempo viene inesorabilmente
limitata, quell'essere che svela la vera natura della riduzione, il suo senso profondo, quello di
essere non operazione costitutiva del mondo ma stupore di fronte al mondo, di fronte allo
scaturire delle trascendenze, rottura della nostra familiarità col mondo, disorientamento di
fronte allo scaturire immotivato del mondo. Per cui, come scrive Merleau-Ponty nella
Premessa, il più grande insegnamento della riduzione è l'impossibilità di una riduzione
completa. Se noi fossimo lo spirito assoluto, la riduzione non sarebbe problematica. Ma
poiché noi siamo al mondo, poiché anche le nostre riflessioni prendono posto nel flusso
temporale che cercano di captare, non vi è pensiero che abbracci tutto il nostro pensiero. Per
trascendentale, e fa il mondo immanente al soggetto, anziché stupirsene e concepire il soggetto come trascendenza verso il mondo. 80 FP. 22. 81 Per Merleau-Ponty, la riduzione fenomenologica è una filosofia esistenziale: “l’In-der-Welt-sein” di Heidegger non appare che sullo sfondo della riduzione fenomenologica” (FP, p. 23).
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questo il filosofo è un eterno principiante e la filosofia, un'esperienza rinnovata del proprio
cominciamento.
Questa considerazione del vero concetto husserliano di riduzione, molto lontano da
ogni suggestione idealistica, porta allora ad un'affermazione che contraddice quanto detto
sopra circa la relatività della Natura allo spirito. Mentre la res extensa, nella sua essenza, non
contiene nulla che richieda una coscienza, nessuna coscienza reale può davvero fare a meno
della materialità, del corpo. È una contraddizione apparente, che mostra la distanza della
fenomenologia da ogni impostazione tradizionale del problema del rapporto uomo - mondo e
ne determina nello stesso tempo il télos. La fenomenologia non è, in fin dei conti, né
materialismo, né filosofia dello spirito. La sua operazione propria è quella di svelare lo stato
preteorico, precategoriale, in cui le due idealizzazioni trovano il loro diritto relativo e in cui
sono superate.
Questa serrata analisi da parte di Merleau-Ponty del concetto di riduzione, che si
conclude nell'individuazione dello strato del precategoriale, apre all'interno della
fenomenologia tutto un ambito problematico tale da portare ad un ripensamento di tutti i suoi
concetti fondamentali. In che modo gli atti della coscienza assoluta si coniugheranno con
questo strato primordiale, che ne è della noesi, del noema, dell'intenzionalità riferite non più
all'Io puro, ma ad un cogito incarnato, un io in situazione? Che succede delle essenze allorché
non possono prescindere dall'esistenza? Su questi punti, secondo Merleau-Ponty, Husserl ha
lasciato molto di impensato. L'ecceità della natura attira Husserl tanto quanto il vortice della
coscienza assoluta, ma, a differenza di quest'ultima, della prima non ci lascia pensieri ben
definiti, analisi compiute, ma solo abbozzi, spunti, allusioni.
Le predatità, che sono per noi già da sempre costituite o mai completamente costituite,
in rapporto alle quali, cioè, la coscienza è sempre in ritardo o in anticipo, mai contemporanea,
e verso le quali si dirige un'intenzionalità diversa da quella degli atti noetici, sono irriducibili
nel loro senso al possesso intellettuale di un noema. Merleau-Ponty opera quindi una
sospensione delle assunzioni soggettivistiche e oggettivistiche e ritorna, seguendo il motivo
husserliano, alle “cose stesse”, alle “cose meramente cose” (blosze Sachen), cioè a quel
mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei confronti del quale ogni
determinazione scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del
paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato o un fiume. Questo
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movimento è assolutamente distinto dal ritorno idealistico alla coscienza, e l’esigenza di una descrizione
pura esclude sia il procedimento dell’analisi riflessiva che quello della spiegazione scientifica 82.
Si tratta, dunque, di indirizzare la filosofia alla visione di un mondo come “presenza
inalienabile, una filosofia tutta tesa a ritrovare quel contatto ingenuo con il mondo per dargli
infine uno statuto filosofico”83.
1.2. Le tappe di un itinerario fenomenologico
La filosofia nella visione merleau-pontyana, dovrebbe, dunque, ricongiungersi a
questo c'è , svelare “appunto l'Essere che abitiamo”84. Un compito nuovo assegnato al
pensiero è quello di riprendere a vedere il mondo e di ricondurre i propri passi sulla via che
conduce alla nostra esperienza propriamente detta e alla realtà che essa porta, al sapere
sensibile.
Il rapporto al mondo, così come si pronuncia instancabilmente in noi, non è qualcosa che possa essere
reso più chiaro da un’analisi: la filosofia può solo ricollocarlo sotto il nostro sguardo, offrirlo alla nostra
constatazione85.
Si prospetta, quindi, per la filosofia un compito di rinnovamento della metodologia (la
riduzione fenomenologica) e un cambiamento dell'ottica sull'essere e sugli enti. “La vera
filosofia consiste nel rimparare a vedere il mondo”86, diceva già nella Fenomenologia della
Percezione, prefissandosi di descrivere un’esperienza del mondo, un’esperienza che precede
ogni pensiero sul mondo. Sin dai primi scritti, infatti, Merleau-Ponty ha intrapreso la via della
reinterpretazione del problema del nostro accesso al mondo, ponendo l'accento sul fatto che
82 FP, p. 17. 83 FP, p. 15 84 Prefazione, in S, p.36. 85 FP, Premessa, p. 27. 86 Ivi, p.30.
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sarebbe artificioso derivarlo da una serie di sintesi che collegassero le sensazioni, e successivamente gli
aspetti prospettici dell’oggetto, mentre le une e gli altri sono appunto prodotti dell’analisi e non
debbono essere realizzati prima di essa87.
Questa impostazione del suo pensiero rimane una costante durante tutte le fasi della
sua riflessione, come dimostra anche il postumo Il visibile e l'invisibile nel quale si appresta a
fare una descrizione della presenza bruta del mondo e a restituire l'essere percepito in quanto
oggetto delle nostre interrogazioni, quindi a definire una presenza interrogativa.
Il proposito del pensatore francese è operare una vera e propria riconquista del
sensibile. Questo percorso, le cui basi sono state poste soprattutto con la Fenomenologia della
Percezione, ha cercato di rivendicare un nuovo significato dell'esperienza tramite la
percezione. In quest'opera, Merleau-Ponty parte dalla circoscrizione della fenomenologia in
quanto “filosofia trascendentale che pone tra parentesi, per comprenderle, le affermazioni
dell'atteggiamento naturale”88, ma anche in quanto filosofia per la quale “il mondo è sempre
«già là» prima della riflessione, come una presenza inalienabile, una filosofia tutta tesa a
ritrovare quel contatto ingenuo con il mondo per dargli infine uno statuto filosofico”89, per
giungere a percepire l'Essere in maniera diretta, senza l'interposizione del nulla, quindi
riconoscergli una dimensione di negatività.
Il fermo mantenimento dell'ambito tematico sembra condurre Merleau-Ponty a
confrontarsi, anche nell'orizzonte di una “nuova ontologia”, con gli esiti delle proprie indagini
fenomenologiche e con le formulazioni della tradizione filosofica. Gli interrogativi classici
del pensiero universale riprendono vita nella visione merleau-pontyana per dischiudersi in
nuove forme e prospettive, cambiando persino la teleologia interna della filosofia. Le
problematiche emerse finora ci permettono già di soffermarci sull'ottica innovativa proposta
dal filosofo francese a riguardo.
87 Ivi, p. 18. “Così facendo la riflessione rimuove se stessa e si ricolloca in una soggettività invulnerabile, al di qua dell’essere e del tempo. Si tratta di un’ingenuità o di una riflessione incompleta che perde la coscienza del proprio cominciamento”. 88 Ivi, p.15. 89 Ibid.
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1.2.1. Il ruolo della filosofia
Forse il punto iniziale del pensiero di Merleau-Ponty coincide con quello finale ed è
rappresentato dal ruolo della filosofia. L'alfa e l'omega della riflessione del filosofo francese
potrebbero consistere nel cercare di riabilitare e di rivalutare la portata del pensiero: “Pensare
non è possedere oggetti di pensiero: è circoscrivere, mediante questi ultimi, un campo da
pensare, che dunque non pensiamo ancora”90. Il filosofo francese è convinto di non poter
possedere pienamente e nella completa trasparenza il pensiero, che comporta sempre anche un
“non-pensato”91 o un “non ancora pensato”92, come afferma, parafrasando Heidegger93. Il
filosofo francese si appresta dunque a preservare l'autenticità ed il valore del pensiero che è
caratterizzato dalla presenza di
certe articolazioni tra le cose dette, riguardo alle quali non esiste dilemma dell'interpretazione oggettiva
e di quella arbitraria, perché non sono oggetti di pensiero, perché, come l'ombra e il riflesso, esse
verrebbero distrutte se fossero sottoposte all'osservazione analitica o al pensiero isolante, e perché non
si può rimanere fedeli a esse e ritrovarle se non pensando di nuovo94.
La convinzione che il pensiero vada protetto da limitazioni o circoscrizioni teoretiche
va di pari passo con la tendenza da parte della filosofia di accogliere se stessa, di
comprendersi, di compiere una auto-riflessione e di determinare la propria verità: “La
filosofia contiene se stessa se vuole essere assoluta”95. L'aspirazione della filosofia alla
totalità, la sua vocazione all'universalità si esprime nell'idea di verità, intesa come “verità di
tutti da sempre”96, una verità integrale in cui siano incluse tutte le cose, ivi compresa la
filosofia stessa che le conosce e che ne ricerca la verità97.
Questa necessità costitutiva della filosofia di autocomprendersi pone, dunque, il
problema della sua stessa possibilità alla quale è riconducibile una grande parte dell'ultima
riflessione merleau-pontyana, come lo testimoniano i riassunti dei corsi dal 1958 al 1960.
90 Il filosofo e la sua ombra, in S, p. 212 91 Ibid. 92 Ibid. 93 MARTIN HEIDEGGER, Il principio di ragione, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2004, p. 125. 94 Il filosofo e la sua ombra, in Segni, p. 212 95 VI, nota del gennaio 1959, Origine della verità, p.185. 96 PM, p.111. 97 Cfr. L'essere a due facce. Filosofia e ontologia nell'ultimo Merleau-Ponty, Mimesis, Milano 2002, p.13.
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Per Merleau-Ponty, interrogarsi sul senso e la legittimità della filosofia in un tempo di
“non-filosofia”98, vale a dire della sua problematizzazione, messa in questione o addirittura
contestazione della sua presa di verità, risulta essere perciò un'esigenza epocale99. Nel tempo,
l'aspirazione della filosofia di raggiungere ad una verità totale e assoluta non ha compreso del
tutto la riflessione critica su se stessa e perciò ha alimentato la diffidenza del pensiero comune
e di quello scientifico nei suoi confronti:
[Il filosofo si trova continuamente] costretto a rivedere e a ridefinire le nozioni meglio fondate, a
crearne delle nuove, con parole nuove per designarle, a intraprendere una vera riforma dell'intelletto, al
termine della quale l'evidenza del mondo, che sembrava la più chiara delle verità, poggia sui pensieri
apparentemente più sofisticati, in cui l'uomo naturale non si riconosce più e che vengono a rianimare il
malumore secolare contro la filosofia, il rimprovero che le è sempre stato fatto di capovolgere le parti
del chiaro e dell'oscuro [e di pretendere di far vivere l'umanità in stato d'alienazione, nella più completa
alienazione; il filosofo pretende infatti di comprenderla meglio di quanto essa comprenda se stessa.]100
Quello a cui si oppone Merleau-Ponty è un'impostazione filosofica che non riesce a
includersi nello stesso spettacolo che contempla e rende il filosofo uno spettatore
disinteressato, un kosmotheoros. Il fenomenologo francese utilizza a più riprese questo
termine, preso in prestito dall'Opus postumum101 di Kant, per caratterizzare quella che
significherà la sua soluzione filosofica del paradosso dell'autocomprensione della filosofia.
Infatti, in quest'ottica il kosmotheoros è “capace di costruire o ricostruire il mondo esistente
attraverso una serie indefinita di operazioni sue, essendo ben lungi dal dissipare le oscurità
della nostra fede ingenua nel mondo”102 La posizione del kosmotheoros dunque conferisce il
“potere di contemplare, un puro sguardo che fissa le cose nel loro posto temporale e locale e
le essenze in un cielo invisibile”, “giacché dal loro posto esse partecipano tutte ai medesimi
98 POF, p. 38.
99 Nel corso del 1958-1959 intitolato La filosofia oggi, Merleau-Ponty schematizza la situazione odierna della filosofia: “Vi è uno stato dell'umanità, in cui siamo, e che è 1) distruttore della filosofia nel senso ordinario e classico; 2) [che] tuttavia richiede in sommo grado presa di coscienza filosofica – la “fenice” di Husserl. Ne deriva 1) decadenza della filosofia esplicita, ufficiale; 2) carattere filosofico della letteratura, dell'arte, ecc. La mia tesi: questa decadenza della filosofia è inessenziale; è quella propria di una certa maniera di filosofare (secondo sostanza, soggetto-oggetto, causalità)”. POF, p. 7. 100 VI, pp. 31-32.
101Cfr. KANT, Opus postumum; Passaggio dai principi metafisici della natura alla fisica, ed. it. a cura di V. Mathieu, Zanichelli, Bologna, 1963, p. 256. 102 VI, pp. 41-42.
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significati”, per cui “si è indotti a concepire, trasversale a questa molteplicità piatta, un'altra
dimensione, il sistema di significati senza località né temporalità”103.
Il riferimento all'iperuranio platonico si ripete più volte e serve a Merleau-Ponty nella
contrapposizione tra una tradizione filosofica che si è allontanata dal mondo visibile,
rifugiandosi in una riflessione che si vuole “pura o assoluta”104, e le esigenze dell’epoca
contemporanea che avverte “una sensazione di discordanza profonda, di un mutamento nei
rapporti fra l'uomo e l'Essere”105. Ciò non significa che egli misconosca l'importanza del
pensiero occidentale in cui, anzi, si annida “lo sforzo di concepire, il rigore del concetto”106,
anche se non esaurisce ciò che esiste. Tuttavia, il merito di aver “inventato i mezzi teorici e la
pratica di una presa di coscienza, ad avere aperto il cammino della verità” non scagiona
“l'Occidente [...] dal giustificare il suo valore di «entelechia storica» con nuove creazioni”107.
Una revisione radicale dei concetti fondamentali della tradizione filosofica comporta
una riflessione della filosofia su se stessa, una sua autocomprensione resa necessaria dalla sua
vocazione alla verità e dalla sua esigenza di una comprensione totale e assoluta. Nell'ottica
merleau-pontyana, occorre dunque attuare, secondo l'espressione che doveva originariamente
intitolare Il visibile e l'invisibile, una genealogia del vero, rintracciando l'origine dell'idea di
verità108.
Sarebbe evidentemente il caso di descrivere precisamente il passaggio dalla fede percettiva alla verità
esplicita quale si incontra al livello del linguaggio, del concetto e del mondo culturale. Contiamo di
farlo in un lavoro consacrato all'Origine della verità109.
Per giungere a questi risultati, l'ultimo Merleau-Ponty si serve di due categorie che
sembrano essere riassuntive delle dicotomie che attraversano e caratterizzano la tradizione
filosofica occidentale: la visibilità e l'invisibilità. Questi concetti acquistano valenze nuove
rispetto alla loro dote filosofica. Infatti, la “visibilità” non è la somma delle cose visibili, “ma
comprende altresì le dimensioni, le linee di forza, gli scarti che essi obliquamente
suggeriscono in quanto alone di invisibile, il quale risulta così non assenza assoluta, ma
103 VI, p. 132.
104 Ovunque e in nessun luogo, in S, p.185. La citazione completa dice: “La filosofia pura o assoluta, in nome della quale Hegel esclude l'Oriente, esclude anche buona parte del passato occidentale. Anzi: applicato rigorosamente questo criterio risparmierebbe, forse, il solo Hegel”. 105 OS, p. 46. 106 Ovunque e in nessun luogo, in S, p.185. 107 Ibid. 108 Cfr. L'essere a due facce, op. cit., p.16. 109 Il metafisico nell’uomo, in SNS, p.162, nota 28.
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assenza «quasi presente»”110. Di conseguenza, la filosofia stessa può essere considerata una
forma di visione in quanto rende visibili le cose, includendo il proprio sguardo su se
medesima, vale a dire il presunto luogo invisibile in cui avviene. Volendo vedere tutto, la
filosofia deve dunque vedere anche se stessa, rinunciando all’invisibilità dello spettatore
estraneo, del soggetto che si rivolge al mondo come oggetto111. La riflessione filosofica
mantiene, perciò, l'enigmaticità, così come la visione ha un necessario punto cieco che non
riesce ad illuminare.
Ciò che essa non vede è ciò che in essa prepara la visione del resto (come la retina cieca nel punto in cui
si diffondono in essa le fibre che permetteranno la visione). Ciò che essa non vede è ciò che fa sì che
essa veda, è il suo vincolo con l'Essere, è la sua corporeità, sono gli essenziali in virtù dei quali il
mondo diviene visibile, è la carne112 in cui nasce l'ob-jectum113.
Nel tentativo di vedersi, la filosofia ridiventa invisibile; il filosofo vuole rendersi
visibile senza perdere la peculiarità di vedente e questo paradosso fa permanere l'enigma della
filosofia. “Il vedente-invisibile non riesce a coincidere con il visibile, in quanto alla visione
sfugge necessariamente qualcosa ancora da vedere, un residuo di invisibilità cioè la
propria”114. Nella prospettiva del filosofo francese, l’invisibile è una presenza, un orizzonte
che ci rende consapevoli della complessità del visibile, del suo manifestarsi nel tralucere di
vari piani, che permette di andare oltre il piatto fenomeno empirico, di coglierlo in una
ricchezza di rinvii in un intreccio di solidarietà intersoggettive.
Per soddisfare, perciò, la vocazione filosofica della ricerca della verità, Merleau-Ponty
trova due soluzioni: quella della filosofia tradizionale e quella della non-filosofia. La
soluzione filosofica “classica” intende risolvere il paradosso della visione a favore
dell'invisibile, dissolvendo totalmente il visibile nell'invisibilità dello sguardo filosofico, del
soggetto riflettente. Negando tale partecipazione alla visibilità, la sua stessa visione si rende
inautentica, ma può essere svelata prendendo coscienza della propria originaria condizione di
filosofo riflettente, di sguardo trascendentale, di coscienza costituente, di kosmotheoros115.
110 C. LEFORT, Postilla, in VI, p. 291. 111 Cfr. L'essere a due facce, op. cit., pp. 13-14. 112 Concetto sul quale ci si soffermerà in seguito. 113 VI, nota di lavoro del maggio 1960 Cecità (punctum caecum) della “coscienza”, p. 260. 114 Cfr. L'essere a due face, op. cit. p.17. 115 Cfr. Ivi, p. 20.
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Alla filosofia riflessiva è quindi essenziale ricollocarci, al di qua della nostra situazione di fatto, in un
centro delle cose, da cui noi procedevamo, ma in rapporto al quale eravamo decentrati, è essenziale
rifare, partendo da noi, un cammino già tracciato da questo centro a noi: lo sforzo stesso verso
l'adeguazione interna, l'impresa di riconquistare esplicitamente tutto ciò che noi siamo e facciamo
implicitamente, significa che ciò che siamo infine come naturati, noi lo siamo dapprima attivamente
come naturanti, che il mondo è il nostro luogo natale solo perché, come spiriti, noi siamo
originariamente la culla del mondo116.
La riflessione ritrova nel mondo solamente ciò che vi aveva introdotto in precedenza:
una visione assoluta racchiude anticipatamente la totalità del visibile.
La fenomenologia è qui riconoscimento del fatto che il mondo teoricamente completo e pieno della
spiegazione fisica non è tale, e che quindi si deve considerare come ultimo, inesplicabile, e quindi come
mondo per se stesso, l'insieme della nostra esperienza dell'essere sensibile e degli uomini. Mondo per se
stesso: i.e., occorre tradurre in logica percettiva ciò che la scienza e la psicologia positiva trattano come
frammenti absque praemissis dell'In Sé117.
La fenomenologia è, come si è visto, la via di ritorno ai fenomeni del mondo percepito
e di conseguenza supera gli impedimenti dei due “pregiudizi classici” della metafisica, cioè
l'empirismo e l'intellettualismo, che si presentano come “vestiti di idee”, Ideenkleiden,
secondo l'espressione husserliana. Il filosofo francese si distacca, dunque dagli schemi classici
della gnoseologia e intraprende un percoso genetico. E’ questo il motivo per cui molti esegeti
hanno messo in luce il fatto che la centralità della fenomenologia di Merleau-Ponty non sia
eidetica, ma piuttosto genetica.
Egli rifiuta la soluzione di quella che chiama “la filosofia riflessiva”, appellandosi al
primato della vita irriflessa, la quale precede necessariamente il ritorno riflessivo
all'originario. Visto che il compito della filosofia risulta quello di guardare nuovamente il
mondo dandogli la possibilità di esprimersi in ombre e scarti, non solo in luce tenue, allora
bisogna che ci sia la possibilità che questo sguardo rinnovato penetri nel mondo.
Prima della riflessione, e per renderla possibile, è necessaria una frequentazione ingenua del mondo, e
che il Sé al quale si ritorna è preceduto da un Sé alienato o in e-stasi nell'Essere. Si dirà altresì che il
mondo, le cose, ciò che è sono di per sé senza comune misura con i nostri pensieri118.
116 VI, p. 58. 117 Ivi, p.268. 118 Ivi, p. 76.
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Abbracciando questa visione della “vera totalità”,119 giunge ad una soluzione non-
filosofica che mira a ricondurre ad una vita prima della riflessione, all'ingenua frequentazione
del mondo anteriore alla scissura riflessiva, a “quel non-sapere iniziale che non è un
niente”120. Collegandosi alle conclusioni alle quali era arrivato Husserl, l'ultimo Merleau-
Ponty afferma la necessità di comprendere che il movimento di ritorno in noi stessi è in
qualche modo “lacerato” da un movimento inverso che esso suscita. Husserl, difatti, riscopre
quella identità del “rientrare in sé” e dell' “uscire da sé”, che per Hegel definiva l'assoluto.
Riflettere, dice egli in Idee I, è svelare un irriflesso che è a distanza, poiché noi non siamo più,
ingenuamente, questo irriflesso, e di cui non possiamo però dubitare che sia raggiunto dalla riflessione,
poiché ne abbiamo nozione grazie a quest'ultima121.
Di conseguenza non è l'irriflesso a contestare la riflessione,
ma è la riflessione a contestare se stessa perché il suo sforzo di ripresa, di possesso, di interiorizzazione
o di immanenza non ha senso, per definizione, se non rispetto a un termine già dato, il quale si ritira
nella sua trascendenza sotto lo sguardo stesso che va a cercarvelo122.
Ecco spiegata anche la nozione di trascendenza che trova il suo significato
nell'irriflesso, nel “superamento risoluto del mens sive anima (...) superamento della
soggettività nel senso di contro-trascendenza e di immanenza”123. Per cui, pensare alla
trascendenza della cosa “costringe a dire che essa non è pienezza se non essendo inesauribile,
ossia non essendo tutta attuale sotto lo sguardo – ma questa attualità totale essa la promette, in
quanto è qui...”124 .
Già dalla Fenomenologia della percezione egli aveva proposto questa soluzione per
validare un nuovo modo di appressarsi al mondo senza sublimarlo:
119 Ivi, p. 97. 120 Ivi, p.73. 121 Il filosofo e la sua ombra, in S, p. 214. 122 Ibid. 123 VI, p. 189. 124 Ivi, p.207.
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La riflessione non si ritira dal mondo verso l’unità della coscienza come fondamento del mondo, ma
prende distanza per veder scaturire le trascendenze, distende i fili intenzionali che ci collegano al
mondo per farli apparire, essa sola è coscienza del mondo perché lo rivela strano e paradossale125.
Seguendo la traccia marcata da Husserl nella direzione di una rottura della nostra
relazione familiare con il mondo, rottura che ha lo scopo di vedere, vale a dire di prendere
possesso della sua presenza come tale, Merleau-Ponty sviluppa la sua riflessione a partire
dalla fede percettiva.
Ma la filosofia non è un lessico, non si interessa ai “significati delle parole”, non cerca un sostituto
verbale del mondo che vediamo, non lo trasforma in cosa detta, non si installa nell'ordine del detto o
dello scritto, come il logico nell'enunciato, il poeta nella parola o il musicista nella musica. Sono le cose
stesse, dal fondo del loro silenzio, che essa vuole condurre all'espressione. [...] Per la filosofia
l'interrogazione è l'unico modo di accordarsi con la nostra visione di fatto, di corrispondere a ciò che, in
essa, ci dà da pensare, ai paradossi di cui essa è fatta [...]126.
Questo passo de Il visibile e l'invisibile proviene dal paragrafo iniziale dedicato alla
fede percettiva che si appresta a fare una descrizione della presenza bruta del mondo e di
restituire l'essere percepito in quanto oggetto delle nostre interrogazioni, di definire una
presenza interrogativa.
Si tratta perciò di ripensare la filosofia classica sin dalla formulazione ontologica del
pensiero greco, specialmente quello platonico, dove il problema del rapporto tra mondo
sensibile e verità viene impostato in termini di distinzione radicale fra visibile e invisibile.
Contrastando questa impostazione (sulla quale si è fondata la metafisica occidentale),
Merleau-Ponty cita topos noetos – il “mondo intelligibile” i cui caratteri sono contrapposti da
Platone a quelli del visibile:
quando vogliamo esprimere fortemente la coscienza che abbiamo di una verità, noi non troviamo niente
di meglio che invocare un topos noetos che sia comune agli spiriti o agli uomini, come il mondo
sensibile è comune ai corpi sensibili127.
Il riferimento a questa separazione appare anche nella pagina precedente de Il visibile e
l'invisibile:
125 FP, p.22. 126 VI, p.32. 127 Ivi, p.40.
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E' secondo la struttura e il senso intrinseci che il mondo sensibile è «più vecchio» dell'universo del
pensiero, poiché il primo è visibile e relativamente continuo, mentre il secondo, invisibile e lacunoso, a
prima vista non costituisce un tutto e non ha la sua verità se non a condizione di appoggiarsi sulle
strutture canoniche dell'altro128.
L'intento del filosofo risulta essere dunque quello di rovesciare l'impostazione
platonica che afferma la derivazione del mondo sensibile da quello intelligibile. Tuttavia il
semplice rovesciamento non è sufficiente a garantire il rigore filosofico di questa posizione
che tende a mostrare il rapporto tra il visibile e l'invisibile come di reciproca implicazione.
Il fatto che ci sia qualche cosa, non significa che ciò che c'è sono le cose, degli oggetti
determinati, ma piuttosto che il nulla non c’è:
I fatti e le essenze sono astrazioni: ciò che c'è, sono dei mondi e un mondo e un Essere, non somma di
fatti, o sistema di idee, ma impossibilità del non senso o del vuoto ontologico, come lo spazio e il tempo
non sono somma di individui locali e temporali, ma presenza e latenza dietro ciascuno di essi di tutti gli
altri e, dietro questi ultimi, di altri ancora, di cui noi non sappiamo cosa sono, ma di cui sappiamo per lo
meno che in linea di principio sono determinabili129.
Il nulla non produce gli esseri ma, nella visione di Merleau-Ponty, è un concetto
impossibile se non come momento interno dell'Essere nel quale siamo avvolti. Di
conseguenza, dato che l'Essere non deve superare un nulla precedente, non possiede la
positività della cosa pura, ma comporta una distanza e un'indeterminazione che viene espressa
proprio nell'affermazione che c'è qualche cosa. “Il nostro punto di partenza non sarà: l’essere
è, il nulla non è, - e nemmeno: c’è solo dell’essere -, formula di un pensiero totalizzante, di un
pensiero di sorvolo, ma sarà: c’è essere, c’è mondo, c’è qualcosa (…)”130. Se il mondo, così
come ci appare, include una dimensione di negazione131, essa non riguarda un non-essere
pregresso bensì la positività dell'oggetto puro: la presenza del mondo, il suo spessore
ontologico non permette di concepirlo come un insieme di oggetti o di confonderlo con una
128 Ivi, p.39. 129 Ivi, pp. 135-136. 130 Ivi, p.109.
131 Nel Visibile e l'invisibile Merleau-Ponty si proponeva espicitamente di “descrivere questa esperienza del non-essere qualificato” (p.197) perché “prima dell'altro, le cose sono simili non-essere, scarti” (ibid) e “dire che c'è trascendenza, essere a distanza, equivale a dire che l'essere (nel senso sartriano) è talmente gonfiato di non-essere o di possibile che esso non è solamente ciò che è” (VI p.197-198).
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Natura. “Il “Mondo” è quell'insieme in cui ogni “parte, quando la si prende per se stessa, apre
di colpo delle dimensioni illimitate, - diviene parte totale” 132.
Non abbiamo mai a che fare con delle cose circoscritte, bensì con un Mondo, vale a
dire con una Totalità aperta che avvolge tutto quello che può avvenire, che non è né un
Oggetto di per sé, né la somma degli esseri, ma il loro elemento comune, il fondo dal quale
essi emergono e nel quale sono contenuti:“Al di là del «punto di vista dell'oggetto» e del
«punto di vista del soggetto»”, ciò che evoca un nucleo comune che è il «serpeggiamento»,
l'essere come serpeggiamento, (quello che ho chiamato «modulazione dell'essere al
mondo»)”133. Merleau-Ponty spiega inoltre che:
(…) si deve infine ammettere una specie di verità delle descrizioni ingenue della percezione: εΐδωλα o
simulacra ecc., la cosa che offre spontaneamente delle prospettive ecc. Semplicemente, tutto ciò si
effettua in un ordine che non è più quello dell'Essere oggettivo, che è l'ordine del vissuto o del
fenomenico che si tratta appunto di giustificare e di riabilitare come fondamento dell'ordine oggettivo.
Si può affermare che l'ordine del fenomenico è secondo in rapporto all'ordine oggettivo, non ne è che
una provincia, quando si considerano solo relazioni intramondane degli oggetti134 .
La sua ontologia mira alla restituzione di una dimensione nel cui seno l'oggettività,
l'essenza, il senso, da un lato, e la fatticità, il puro esserci del mondo, l'immotivato scaturire
delle trascendenze, dall'altro, non costituiscano più un'alternativa, un insanabile dualismo. La
filosofia è anche e soprattutto - come si può vedere nel saggio Il filosofo e la sua ombra -
(oltre che delucidazione ed espressione dell'esperienza) riconoscimento di un irriflesso, di un
inassimilabile, di una parte di non filosofia, che la determina come appartenente all'universo
stesso che essa interroga, il riconoscimento di un radicamento insuperabile che è ciò stesso
che la costituisce.
Al termine della Premessa alla Fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty aveva
strettamente connesso filosofia ed esperienza, scrivendo che l'esperienza anticipa una
filosofia, così come la filosofia, nella sua essenza, è esperienza delucidata. In effetti, tutto il
suo pensiero può essere letto come la realizzazione di un compito, quello di portare
l'esperienza muta all'espressione del proprio senso.
L'impensato di Husserl, che il filosofo francese porta alla luce, va in questa direzione.
La subordinazione del mondo fenomenico all'essenza - rischio presente nel pensiero di 132 Ivi, Nota di lavoro del novembre 1959 I “Sensi” - La Dimensionalità - L'Essere, p. 232. 133 Ivi, Nota di lavoro del 20 maggio 1959, (Bergson) La trascendenza – l'oblio – il tempo, p.210 134 Ivi, Nota di lavoro del settembre 1959, p. 224.
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Husserl, mai completamente scongiurato, nemmeno dal riconoscimento della Lebenswelt
come terreno di tutte le produzioni ideali (anche nella Crisi, infatti, Husserl mantiene la
necessità di una seconda riduzione che riconduca il mondo precategoriale alla vita della
soggettività trascendentale) - è ancora un modo ontico di determinare l'Essere, in quanto la
sua apertura avviene nuovamente a partire dall'ente. Riportare il fenomeno all'essenza
significa inoltre scambiare per il fondamento dell'esperienza ciò che, in realtà, non ne è che
una produzione e che, per sua stessa natura, non può riassorbirne l'opacità.
Merleau-Ponty procede ad una rivalutazione del sensibile, senza tuttavia rinunciare
alla comprensione del senso dell'oggettività. La sua ontologia sviluppa una critica radicale
dell'oggettività, ma tale critica non apre l'abisso del non-senso, dell'irrazionale, ma mette capo
ad una genesi dell'universo oggettivo. Il mondo, da cui l'universo oggettivo procede, è mondo
per l'oggettività. Si potrebbe dire che il percorso archeologico, l'individuazione di un terreno
fondante e originario, ha senso solo nella misura in cui si accompagni al riconoscimento di
una teleologia.
È la nozione di atteggiamento naturale, coniata dalla riflessione, che genera
fraintendimenti e nasconde il senso vero del nostro rapporto al mondo, il quale non è mai
sempre e solo costituito da un insieme di atti, di comportamenti attivi, di donazioni di senso.
Il nostro essere al mondo diventa atteggiamento naturale solo alla luce del pregiudizio
naturalistico già operante, le cui tesi esplicite e riduttive nascondono il fatto che nell'irriflesso
si danno già da sempre sintesi primordiali. Non solo le convinzioni della vita quotidiana o le
affermazioni delle scienze positive, allora, sono dotate di un senso derivato, ma anche quella
che sembrava un'acquisizione ultima dell'analisi filosofica, la pura correlazione fra soggetto
ed oggetto, rimandano ad uno strato di senso nodale.
Le analisi de La Fenomenologia della percezione si spingono solo fino alla definizione
della sintesi percettiva che crea l’accesso ad una forma di trascendenza e di esteriorità nella
misura in cui la cosa, che ha il ruolo di correlato, si sveste del nostro possesso, in quanto reale
e non immaginaria ed in quanto termine di altre sintesi percettive; la realtà della cosa, così
come la sua unità, non è il risultato di una proiezione intellettuale, né quello di un incontro
puramente esteriore dell’oggetto, né la convergenza di attività spirituali, ma l’equivalente
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esteriore di un’unità interiore senza concetto dello schema corporale135. “Rapporto io-mondo,
io-io, io-l'altro, è questo scivoloso rapporto di trascendenza”136.
Tutto avviene come se il mio potere di accedere al mondo e quello di rinchiudermi nei
fantasmi della mia immaginazione si implicassero vicendevolmente. Come se l'accesso al
mondo non fosse che l'altra faccia di un ritiro. Il mondo è ciò che percepisco, ma la sua
prossimità assoluta, dacché la si esamina e la si esprime, diviene anche, inspiegabilmente,
distanza irrimediabile. Con ogni probabilità, a percepire non è tutto il mio corpo: io so
soltanto che esso può impedirmi di percepire; nel momento in cui giunge la percezione, il
corpo si cancella di fronte ad essa, ed essa non lo coglie mai nell'atto di percepire. Se è già
difficile dire che la mia percezione va alle cose stesse, è addirittura impossibile accordare alla
percezione degli altri l'accesso al mondo. La cosa percepita dall'altro si sdoppia: c'è quella che
egli percepisce e c'è quella che vedo io, fuori dal suo corpo, e che chiamo cosa vera, come
egli chiama cosa vera il tavolo che egli vede, mentre rinvia alle apparenze quella che vedo io.
I suoi colori, il suo dolore, il suo mondo, proprio in quanto suoi, come potrei concepirli se non
in base ai colori che vedo, ai dolori che ho patito, al mondo in cui vivo?
E' la cosa stessa che mi apre l'accesso al mondo privato dell'altro. E' dunque ben vero
che i mondi privati comunicano, che ciascuno di essi si da al suo titolare come variante di un
mondo comune. La certezza rimane, tuttavia, assolutamente oscura; non possiamo viverla,
non possiamo né pensarla, né formularla, né erigerla a tesi. Ora, questa certezza
ingiustificabile di un mondo sensibile che ci sia comune è in noi il sostrato della verità.
Costituisce la nostra fede percettiva.
La nostra certezza di essere nella verità fa tutt'uno con quella di essere nel mondo. E'
lo stesso mondo che contiene i nostri corpi e i nostri spiriti, a condizione che si intenda per
mondo non solo la somma delle cose che cadono o potrebbero cadere sotto i nostri occhi, ma
anche il luogo della loro compossibilità, lo stile invariabile che esse rispettano, che collega le
nostre prospettive, permette la transizione dall'una all'altra e ci da il sentimento di essere
testimoni capaci di sorvolare lo stesso oggetto vero. Quando si tratta del visibile, al di la della
divergenza delle testimonianze, è spesso facile ristabilire l'unità e la concordanza del mondo.
Non appena si accede al vero, all'invisibile, sembra che gli uomini abitino ognuno il proprio
isolotto, senza che ci sia transizione dall'uno all'altro.
135 In BONAN, Le problème de l'intersubjectivité dans la philosophie de Merleau-Ponty. La dimension commune. Volume 1, L'Harmattan, Paris 2001, p.134. 136 POF, p. 18.
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Il filosofo è un eterno principiante, in quanto non considera acquisito nulla di ciò che
gli uomini credono di sapere. La filosofia, dunque non deve ritenersi acquisita in ciò che ha
potuto dire di vero. Essa è un’esperienza rinnovata del proprio cominciamento, che consiste
interamente nel descrivere questo cominciamento. La riflessione radicale è coscienza della
propria dipendenza nei confronti di una vita irriflessa la quale è la sua situazione iniziale,
costante e finale.
1.2.2. L'io e il mondo
La convinzione della presenza del mondo, insieme alla sua localizzazione come spazio
esplorabile tramite la percezione diventano problematiche nel momento in cui l'io osserva che
si tratta di una percezione propria. “Tutto ciò che so del mondo, anche tramite la scienza, io lo
so a partire da una veduta mia o da una esperienza del mondo senza la quale i simboli della
scienza non significherebbero nulla”137. La riflessione inizia da un irriflesso e non può
ignorare se stessa come evento, quindi essa appare ai suoi stessi occhi come un’autentica
creazione, come un mutamento della coscienza. Questa illusione dell'io riflettente si basa sulla
convinzione che il mondo è dato al soggetto perché il soggetto è dato a se stesso. Per questo
motivo, quando ritorna in se stesso cominciando dal dogmatismo del senso comune o dal
dogmatismo della scienza, l'io trova non un nucleo di verità intrinseca, ma un soggetto votato
al mondo.
È nel gesto inaugurale di dar nome al mondo che si manifesta, per Merleau-Ponty,
l’espressione eccedente dell’esistenza umana sull’essere naturale. Il soggetto vive il suo
essere nel mondo nel senso che “il mondo è campo, e a questo titolo sempre aperto”138. L’io e
il mondo sono legati in un’unica avventura ambigua e compromettente, che nessuna filosofia
riflessiva potrà risolvere o portare a termine.
Tuttavia nel momento stesso in cui il soggetto prende coscienza di abitare il mondo,
realizza anche che questa convinzione è combattuta, in quanto si tratta di una propria visione.
Questo doppio movimento del rientrare in sé e di posizionarsi nel confronto del mondo
verranno affrontate in questo capitolo al fine di spianare la strada della comprensione della
presenza dell'altro.
137 FP, pp. 16-17. 138 VI, Nota di lavoro del marzo 1959, p. 202
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Nella sua impostazione della filosofia tradizionale, la soggettività viene sempre
distinta da un'oggettività, alla quale si rapporta per lo più in ambito conoscitivo. Merleau-
Ponty fa capire come, già da Husserl, questo rapporto inizi ad incrinarsi. Quello che viene
messo in crisi è la concezione che la riflessione si insedi in un ambito chiuso e trasparente,
che renda immediato il passaggio dall'”oggettivo” al “soggettivo”. L'io che si fa
“indifferente”, puro “conoscitore”, per cogliere senza residui, dispiegare davanti a sé,
“oggettivare” tutte le cose e raggiungerne il possesso intellettuale, corrisponde allo scienziato
che aspira a un “atteggiamento teorico” puro di ritrovare le “cose meramente cose” (blosze
Sachen), spoglie di ogni predicato prassico e di ogni predicato di valore. “Sin da Idee II la
riflessione husserliana elude questo star di fronte del soggetto puro e delle pure cose, cerca al
di sotto il fondamentale”139. L'io non ha una coscienza che fa disporre il mondo intorno a se
stesso e lo fa esistere per sé. L'esistenza del soggetto lo colloca in un ambiente fisico e sociale
che, però, essa stessa sostiene:
giacché sono io che faccio essere per me (e dunque essere nel solo senso che la parola possa avere per
me): questa tradizione che scelgo di riprendere o questo orizzonte la cui distanza da me – non
appartenendogli come proprietà – si eclisserebbe se io non fossi là a percorrerla con lo sguardo140.
1.3. Il problema della percezione e l’approfondimento del senso dell’essere del soggetto
che percepisce
Husserl è il primo ad assegnare alla percezione il ruolo di fonte di conoscenza in
quanto intuizione donatrice originaria e la sottrae in questo modo alla subordinazione rispetto
alla sensazione o all’intellezione, prendendo così le distanze al contempo dall’empirismo e
dall’intellettualismo. La percezione husserliana è un darsi per adombramenti (Abschattungen)
nella quale l’oggetto supera l’adombramento stesso, “non vi si riduce e prescrive dunque un
decorso regolato di nuovi adombramenti”141. La percezione si dà, dunque, come
adombramento che non si annulla a favore dell’oggetto, ma, ricoprendolo, si presenta come
assenza. Questa struttura di donazione non è l’effetto di un’intellettualista mancanza di potere
della nostra conoscenza, ma una determinazione eidetica della percezione. Con la teoria del 139 Il filosofo e la sua ombra, in S, p. 215. 140 FP, p.17. 141 R. BARBARAS, La Percezione. Saggio sul sensibile, a cura di Giacomo Carissimi, Mimesis, Milano 2002, Prefazione all’edizione italiana, p. 7.
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darsi per adombramenti, Husserl riconosce che la peculiarità della cosa è l’esteriorità rispetto
alla coscienza, e la percezione offre tale trascendenza aprendosi alla cosa.
Dal momento che la cosa è per essenza ciò che mi trascende e dal momento che, dall’altra parte, noi
abbiamo esperienza delle cose, non deve esserci alternativa fra esperienza e trascendenza, tra coscienza
ed esteriorità: la percezione designa proprio quest’unità fra un possesso e uno spossessamento, perciò il
problema della percezione non consiste che nel modo d’unità o di conciliazione fra queste due
dimensioni apparentemente antagoniste, quella dell’immanenza e quella dell’esteriorità142.
Essendo l’oggetto dell’intuizione un essente il cui essere è da parte a parte
presentazione, bisogna concludere che per l’intuizione “trovarsi riempita non è un accidente,
ma una definizione”143. Dire che l’essente intuito ha quale proprio essere la presentazione è
come dire che esso ha realtà solo per e nell’essente che è suscettibile di accogliere una
presentazione, ossia di rappresentare la coscienza. L’intuizione afferma l’identità dell’oggetto
e del suo essere-visto o del suo essere-saputo (bewusst-sein), il che comporta determinare
l’essere come coscienza. Di conseguenza “la determinazione della presenza intuitiva come
presentazione della cosa stessa e la sua costituzione all’interno di una coscienza, dove in
definitiva risiede il suo essere, sono i due aspetti di un medesimo gesto”144. Da ciò si deduce
che sia possibile creare un conflitto tra la determinazione della presenza e i tratti eidetici del
percepito, in quanto, se il riempimento dell’intuizione non è un accidente, ma una definizione,
l’intenzione a vuoto che corrisponde agli aspetti non percepiti dell’oggetto e, in definitiva,
dell’oggetto stesso come totalità, lungi dall’essere irriducibile, non può ricoprire che l’assenza
provvisoria di ciò che deve poter essere presentato.
In questa ottica l’assenza costitutiva dell’oggetto percepito all’interno
dell’adombramento risulta, però, una forma di imperfezione che rinvia alla possibilità di una
donazione adeguata. In questo modo la trascendenza del percepito è compromessa attraverso i
presupposti fondamentali della fenomenologia husserliana, proprio quando tale trascendenza
142 Ivi, p. 8. Premesso che per Husserl, nell’esperire qualcosa che si da a noi come eccedente, la donazione non riguarda il contenuto bensì ciò che eccede ogni contenuto, non appena queste due dimensioni intervengono nella nostra esperienza il problema si sposta sul soggetto della percezione in quanto luogo in cui esse sono tutt’uno. Alcuni esegeti hanno ipotizzato a riguardo che Husserl non abbia raggiunto una concezione del soggetto adeguata ai tratti eidetici del percepito ma che invece ci sia lo scarto tra la descrizione del percepito e la teoria della costituzione che si presume corrispondere a questa descrizione, almeno nella sua forma canonica espressa nell’Ideen I. Sembra che ci sia una tensione tra il metodo intuizionistico soggiacente all’approccio trascendentale e i tratti descrittivi del percepito e perciò la peculiarità della presenza dal punto di vista della teoria dell’intuizione è di non avere senso che come presentazione della cosa stessa. 143 G. GRANEL, Le sens du temps et de la perception chez Husserl, Gallimard, Paris 1968, p. 144. 144 R. BARBARAS, La Percezione, op. cit., p. 10.
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era stata riconosciuta sul piano della descrizione. Perciò l’esegeta conclude che “solo
rinunciando a definire il soggetto della percezione come coscienza si potranno rispettare i
tratti descrittivi del percepito”145.
Infatti, è proprio da tale specificità del percepito che si sviluppa il pensiero di
Merleau-Ponty, che sembra sia interamente incentrato a cercare l’unità tra questi tratti
apparentemente incompatibili. A partire dalla “Premessa” di Fenomenologia della percezione
e successivamente, con ancora più forza, ne Il visibile e l’invisibile, Merleau-Ponty critica la
sottomissione della fenomenologia husserliana all’intuizione eidetica, che la conduce a
scindere il senso della sua iscrizione spazio-temporale, a dividere la forma dalla materia. Il
filosofo francese rivolge uno sguardo critico pure alla prospettiva trascendentale, in quanto
essa tradisce l’essere del soggetto e non chiarisce il rapporto del soggetto trascendentale con
la sua dimensione empirica. La soluzione trovata è quella di affrontare la questione della
percezione a partire dal corpo proprio che ne è il vero soggetto.
La psicofisiologia della Gestalt viene a confermare questo nuovo indirizzo preso
dall’analisi fenomenologica, che si appresta a superare i pregiudizi del pensiero oggettivo,
mettendo in evidenza una coscienza incarnata che “si confonde col proprio movimento di
sfuggimento verso il mondo, che non si ignora più di quanto si conosca e che manifesta
un’intimità confusa con l’oggetto più profonda del rapporto di rappresentazione”146. Ciò
significa che l’oggetto percepito non è più concepito come determinabile, incarnato in una
materia dove la sua trasparenza si oscurerebbe. In quanto correlativa al corpo proprio, la cosa
percepita implica un’opacità che non è il rovescio di una trasparenza possibile. Essa si dà solo
come trattenuta in una materia che, pertanto, non è la negazione di ciò che appare, ma appunto
la condizione della sua apparizione. “Nessuno meglio di Merleau-Ponty è riuscito a restituire
completamente il suo senso all’idea husserliana del darsi per adombramenti e a trarne tutte le
conseguenze” 147.
Ne Il visibile e l’invisibile, il filosofo francese arriva addirittura a rinunciare alla
categoria stessa di coscienza: l’invisibilità non è la promessa di un’altra visibilità, ma la
distanza o la profondità necessaria all’apparizione del visibile stesso, e tale idea di una
visibilità che circonda un’invisibilità costitutiva rappresenta la formulazione più rigorosa della
145 Ivi. p. 11. 146 Ivi. p. 12. 147 Ibid.
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concezione husserliana della trascendenza percettiva: “vedere è sempre vedere più di quanto
si veda”148.
Nonostante questa inequivocabile conquista teoretica, alcuni critici149 sottolineano le
“falle” della concezione merleau-pontyana del soggetto della percezione che sembra non
essere sviluppato allo stesso modo della sua concettualizzazione del percepito, raccolta nei
concetti di “dimensione”, “livello” o “raggio di mondo”, in modo tale che manca una teoria
della soggettività percipiente che sia adeguata alle strutture del campo fenomenico.
1.3.1. Il corpo proprio
L'uomo e il mondo compaiono non “bell’è fatti”, ma nelle loro fatticità. “Noi siamo il
composto di anima e corpo, bisogna dunque che ne esista un pensiero (..)”150. La relazione
percettiva stabilisce l'identità individuale e il collocamento nel mondo, soggetto esposto alla
rilevazione sensibile da parte di altri:
Diciamo che un uomo nasce nell'istante in cui ciò che in fondo al corpo materno era solo un visibile
virtuale si fa visibile per noi e, insieme, per se stesso. La visione del pittore è una nascita prolungata151.
Una cosa e un uomo sono entrambi nello spazio, ma in modo molto diverso. L'uomo
si muove in un orizzonte, mentre la cosa no. Un tavolo si dà nello spazio, occupa uno spazio,
è semplicemente qui. I suoi confini coincidono col suo esser-qui e, in tale coincidenza, il
tavolo manifesta ed esaurisce interamente la propria spazialità. All'esser-qui dell'uomo,
invece, appartiene per essenza l'essere-sempre-rapportato-a-qualcosa, l'essere sempre, cioè,
ontologicamente oltre il qui in cui risiede, apertura al mondo proprio in quanto essere-al-
mondo, punto di convergenza del mondo.
Curiosamente, dire che il corpo è vedente non significa altro che: esso è visibile. Quando cerco che cosa
voglio dire dicendo che è il corpo a vedere, io non trovo altro che: esso è «in qualche luogo» (dal punto
148 VI, p. 259. 149 Renaud Barbaras ha ampiamente sviluppato questa critica al pensiero merleau-pontyano. 150 OS, pp. 40-42. 151 Ivi, p. 26.
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di vista dell'altro – o: nello specchio per me p.e. Nello specchio a tre facce) visibile nell'atto di guardare
-152.
Il fatto che il corpo si presenti “sempre dallo stesso lato” non indica una
resistenza fattuale del fenomeno corpo: essa ha una ragion d'essere: la presentazione unilaterale del
corpo è condizione perché il corpo sia vedente i.e. perché non sia un visibile fra i visibili. Esso non è un
visibile mozzo. È un visibile-archetipo, e non potrebbe esserlo se fosse sorvolabile153.
È chiaro che tale condizione mette fuori gioco ogni concetto tradizionale di causalità.
Il corpo-soggetto, il corpo fenomenale, nella terminologia merleau-pontyana – il corpo
proprio -, viene a riprendere il concetto husserliano di Leib, usato nella sua elaborazione
sistematica dell’ambiguità corporea. La novità del Leib consiste nel fatto che non rappresenta
una semplice macchina che funziona sulla base dell’equazione stimolo-risposta e che
trasmette i risultati alla coscienza annessa, come se la mia coscienza avesse una relazione con
una locomotiva, tale per cui se il serbatoio di questa è pieno, la prima, cioè la coscienza prova
la sensazione di appagamento. Le sensazioni che la corporeità recepisce, come nel caso degli
animali, non comportano di per sé la presenza di una coscienza analizzatrice.
Se nella Fenomenologia della percezione, il corpo è nel mondo come il cuore
nell’organismo e mantiene continuamente in vita lo spettacolo visibile, ne Il visibile e
l’invisibile esso è presenza dell’Essere. È il corpo soltanto che ci unisce a tutti gli esseri presi
nella loro profondità, poiché coesiste con essi nel medesimo mondo. Il corpo è annoverabile
fra le cose, è presente nel tessuto del mondo e la sua coesione è quella della cosa: “il mondo è
fatto della stessa stoffa del corpo”154.
Bisogna dunque ripartire da questa unità preliminare io-mondo, per dare l’avvio alla
ricerca di tutte le forme di vita in cui il legame corpo-coscienza permane in una condizione di
ambiguità, escludente ogni presa riflessiva: è un processo dialettico che porta in sé l’unità
dell’Essere lungo tutto il percorso che va dalla percezione dell’io alla storia. In altri termini,
ogni espressione della realtà è investita dalla contingenza radicale dell’Essere, ma anche dalla
valenza ontologica dell’Essere. “Il mondo visibile e quello dei miei progetti motori sono parti
totali del medesimo Essere”155. Anche il corpo esprime questa unione diretta con le cose
152 VI, p. 284. 153 Ivi, p. 283. 154 OS, p. 19. 155 Ivi, p.17.
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in virtù della sua ontogenesi, saldando l'uno all'altro i due abbozzi di cui è fatto, le sue due labbra: la
massa sensibile che esso è e la massa del sensibile in cui nasce per segregazione, e alla quale, come
vedente, rimane aperto156.
La percezione ha creato i legami con un mondo con il quale il soggetto interagisce:
Ma l'umanità non è il prodotto delle nostre articolazioni, dell'impianto dei nostri occhi (e ancor meno
dell'esistenza degli specchi, che comunque sono gli unici a rendere visibile per noi il nostro corpo
intero)157.
Il movimento che l'io fa non è una decisione dello spirito, un fare assoluto che stabilirebbe,
dal fondo di una soggettività ritiratasi in se stessa, qualche mutamento di luogo
miracolosamente realizzato nell'estensione.
Il mio movimento è il proseguimento naturale e la maturazione di una visione. Io dico che una cosa è
mossa, ma il mio corpo si muove, il mio movimento si dispiega; non avviene nell'ignoranza di sé, non è
cieco a se stesso, s'irradia da un sé...158.
Il corpo, dunque, per percepire, si muove nel mondo: “Per comprendere tali
transustanziazioni, bisogna ritrovare il corpo operante ed effettuale, che non è una porzione di
spazio, un fascio di funzioni, che è un intreccio di visione e di movimento”159. L'essere visibili
e la mobilità fanno realizzare i legami costitutivi dell'io con il mondo:
Visibile e mobile, il mio corpo è annoverabile fra le cose, è una di esse, è presente nel tessuto del
mondo e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si muove, tiene le cose in cerchio
intorno a sé, le cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno
parte della sua piena definizione, e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo160.
Il corpo, le cose, il mondo fanno parte del medesimo tessuto ontologico. Il movimento
che l'io osserva intorno a sé si abbina al proprio movimento corporeo, che non è totalmente
incosciente, ma si manifesta come un irradiazione verso il mondo.
156 VI, p. 152. 157 OS, p.19. 158 Ivi, p. 18. 159 Ivi, p.17. 160 Ivi, p.19.
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Corpo e cosa sono presi in un unico tessuto intenzionale, due poli inseparabili della
stessa vicenda ontologica. Accogliere le cose in carne ed ossa è un'espressione che va presa
alla lettera. La carne del sensibile è quell'universo ontologico speciale, che arresta la mia
esplorazione, esistenza singolare, che non permette al mio sguardo di penetrarla
completamente e che, tuttavia, anzi, proprio per questo, concede infinite ed inesauribili
esperienze. Certo, un'intenzionalità intesa come coglimento da parte della coscienza di un
significato dato in essenza manifesta tutta la sua inadeguatezza. La stessa nozione di essenza
va ripensata alla luce di questa nuova ontologia. Il Wesen è sempre fondato nel Dasein.
Quando voglio recarmi in un luogo o prendere un oggetto, non c'è una coscienza pura
che sposterebbe il suo corpo, frammento di estensione, in conformità con la rappresentazione
che essa ha dello spazio da percorrere e del gesto da compiere: è il corpo stesso che, in un
modo insieme cieco e ispirato, compie il gesto o il movimento.
Il rapporto non è più quello dell'io penso, che si stabilisce fra il cogito e il mondo, ma
quello più coinvolgente e fondamentale dell'io posso. Il corpo non è mai semplicemente posto
di fronte agli oggetti, il mondo per lui non è uno spettacolo da contemplare, la sua prospettiva
non è il sorvolo, come quella del cogito. Il suo potere gli deriva da un innesto intimo con il
mondo, dall'essere sì una cosa, ma dotata di uno statuto speciale, in quanto è una cosa in cui
io risiedo, dall'avere sì un luogo, ma un luogo dal quale vede. È soggetto, pertanto, ma non è
estraneo alle cose. È un “qui”, ma la sua spazialità non è quella relativa ed estrinseca delle
cose, ma quella assoluta dell'origine di tutte le distanze, ici absolu.
L'io posso non mette in campo un rapporto a senso unico, non si esaurisce nella
bidimensionalità della correlazione noesi - noema, ma si pone come origine, come
fondamento mai completamente assimilabile, vincolo dell'io e delle cose. Le idee di cosa,
mondo, io, soggetto, sono rovesciate da questa prospettiva, che Merleau-Ponty giustamente
definisce come riabilitazione ontologica del sensibile.
Da un lato lo studio della psicologia della forma, che mette in evidenza una relazione
dell'organismo con il suo ambiente non riducibile alla causalità meccanica, dall'altro,
l'attenzione prestata all'esperienza vissuta conducono Merleau-Ponty a porre in primo piano il
corpo vissuto, il corpo nel suo essere-fenomeno, assunto come realtà originaria e irriducibile,
“terzo modo d'essere” tra il soggetto e l'oggetto.
In effetti, il mio corpo non è una cosa del mondo che intrattiene con questo una
relazione reale; esso si trova “dalla mia parte” e io non posso farne il giro, collocarlo a
distanza. L'incarnazione non è un accidente della soggettività, ma la sua definizione più
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propria. Essere soggetto, allora, significa aprirsi al mondo tramite il corpo, essere nel mondo
in un modo non oggettivo; significa, cioè, “essere al mondo”.
Le nostre percezioni e i nostri gesti naturali sono testimonianza di una “coscienza” del
mondo da parte del corpo, la quale non è sapere o rappresentazione, bensì apertura,
connivenza, rapporto come una presenza, piuttosto che come un dato.
Così, la soggettività, in quanto incarnata, sfugge nella misura in cui si possiede, e si
possiede nella misura in cui sfugge: se essa trapassasse nel suo corpo oggettivo, niente
apparirebbe, per mancanza di una distanza dal mondo, ma se il suo rapporto con il mondo
non passasse per la sua incarnazione, se essa non avesse percezioni a partire dal centro stesso
del mondo, niente apparirebbe e, per mancanza di un'affinità tra il soggetto e il mondo,
quest'ultimo si annienterebbe in una rappresentazione vuota.
La soggettività non è identica dell'essere e dell'apparire, pura presenza a sé. La si deve
caratterizzare come data a se stessa, piuttosto che come coincidenza con sé. Essa non si
definisce tramite la pura immanenza, bensì nella non-ignoranza di sé, la non-indifferenza. La
soggettività non gode di una trasparenza che le permetta di somigliarsi e di esistere come “io”,
di conquistare una pura identità: è per questo che Merleau-Ponty parla di una soggettività
“anonima”, “prepersonale”, che non può essere colta nella prospettiva dell'opposizione tra io e
non-io, che è se stessa soltanto divenendo altra da se stessa nel mondo o meglio, come
mondo.
Con la scoperta di un'incarnazione costitutiva della soggettività, il significato del
mondo si trova trasformato. In quanto mondo offerto a un corpo, esso non potrebbe essere
compreso come puro oggetto, come unità di senso che si riduce a ciò che appare a una
coscienza pura.
Poiché l'immanenza della coscienza trova il suo compimento solo come corporeità,
vale a dire come progetto di mondo, il fenomeno del mondo non deve più significare il
riassorbimento del mondo nel suo senso, bensì l'apparizione del mondo stesso, l'offrirsi di una
trascendenza come trascendenza. Così il mondo non appare di fronte alla coscienza, ma si
offre “di lato” al corpo proprio, lo circonda, lo circuisce. Il corpo abita un mondo che resta
lontano, inesauribile, a causa della sua stessa familiarità.
Merleau-Ponty rifiuta dunque l'opposizione fra il soggetto trascendentale e l'ego
empirico: il dispiegarsi del mondo per la coscienza è sinonimo dell'appartenenza “carnale”
della coscienza al mondo. La descrizione husserliana deve essere contestata, o almeno
invertita: non è perché gli scorci prospettici si confermano, cioè riempiono un'unità di senso,
61
che io posso stabilire la realtà dell'oggetto; è perché l'oggetto è immediatamente vissuto come
presente, come faccia-a-faccia con il mio corpo, che io ho la sicurezza che esso mi offrirà dei
profili concordanti.
Non dobbiamo più distinguere la materia del fenomeno dalla sua forma; l'oggetto non
si costituisce come un'entità distinta dai suoi scorci prospettici: questi devono essere piuttosto
compresi come dimensioni totali, in cui una sola e identica realtà contemporaneamente si
presenta e si nasconde. In quanto presenza della cosa stessa, gli aspetti comunicano allora tra
di loro: presenza stessa del frutto, taglio operato nella sua massa, il giallo del limone che ne
rivela la polpa, l'acidità e la freschezza.
1.3.2. La Reversibilità
Ne Il visibile e l'invisibile Merleau-Ponty ritorna sul ruolo del toccare nella
costituzione del corpo proprio, ruolo messo in evidenza da Husserl nel volume II di Ideen.
Nel momento in cui io tocco la mia mano sinistra con la mia mano destra, essa può apparire
all'inizio come un oggetto qualunque dotato di qualità tattili specifici (caldo,
morbido).Tuttavia, spostando l'attenzione sulla mano sinistra che fungeva da oggetto accade
qualcosa singolare: essa stessa diventa sensibile, sente la mano destra che la tocca allo stesso
momento in cui essa è toccata. Il corpo proprio è dunque caratterizzato dal fatto di essere
sensibile a se stesso e che tramite questa sensibilità si costituisce e si prova come incarnato: il
corpo percepisce se stesso.
Questa concezione non si limita, però, a considerare il corpo come un semplice
frammento di materia dotato della proprietà di essere conscio di se stesso, ma sottolinea il
fatto che questa dualità si trova mescolata. Dire che in ogni punto di se stesso il corpo può
essere indifferentemente toccante e toccato significa riconoscere che l'essenza del sentire è di
essere incarnata, oppure che il corpo non è tale se non in quanto dà luogo ad una soggettività.
Di conseguenza l'esperienza del toccare, così come l'esperienza in generale, non ha, nella
visione merleau-pontyana, come fine il superamento della propria iscrizione nel mondo, la
negazione della propria incarnazione. Al contrario, l'esperienza non può cogliere nulla del
mondo se non grazie al fatto che essa nasce in un corpo.
In quest'ottica, l'incarnazione non rappresenta più un limite, ma una condizione per
provare l'esistenza del mondo. La conclusione alla quale arriva Merleau-Ponty è che il
62
soggetto non può fare l'esperienza di un mondo se non a condizione di essere fatto della
medesima stoffa, per essergli di fianco. Il fatto che non sia mai possibile vedere senza essere a
propria volta visti, ossia inseriti, coinvolti nello spettacolo che mettiamo in scena, porta in
filosofo a mettere in primo piano la struttura reversibile della nostra sensibilità e a
caratterizzare il rapporto con il mondo nei termini di un rapporto di reciprocità in cui si
rinnova continuamente lo scambio tra dentro e fuori, tra il soggetto e il mondo, tra attività e
passività.
Siamo in presenza di un corpo umano quando, fra vedente e visibile, fra chi tocca e chi è toccato, fra un
occhio e l'altro, fra una mano e un'altra mano, avviene una sorta di reincrociarsi, quando si accende la
scintilla della percezione sensibile, quando divampa questo fuoco che non cesserà di ardere finché un
accidente corporeo non avrà disfatto quel che nessun accidente avrebbe potuto fare...161.
In effetti è proprio a partire dall’esperienza del proprio corpo, contemporaneamente
soggetto e oggetto, toccante e toccato, che si sperimenta quella reversibilità tra attività e
passività che è la chiave per capire il nostro rapporto con noi stessi e con gli altri. La portata
della scoperta della reversibilità sensibile del toccare sul corpo proprio è tale da ammettere
che non c'è esperienza se non a condizione che il soggetto faccia parte di ciò di cui fa
esperienza, che sia situato dalla stessa parte.
Se la mia mano sinistra tocca la mano destra, e se di colpo io voglio cogliere, con la mano destra, il
lavoro della sinistra intenta a toccare, questa riflessione del corpo su se stesso abortisce sempre
all'ultimo istante: nel momento in cui sento la sinistra con la destra, io cesso nella stessa misura di
toccare la destra con la sinistra. Ma questo fallimento dell'ultimo istante non spoglia di ogni verità quel
presentimento che io avevo di potere toccarmi toccante: il mio corpo non percepisce, ma è come
costruito attorno alla percezione che si fa strada attraverso di esso; grazie a tutto il suo assetto interno, ai
suoi circuiti senso-motori, alle vie di ritorno che controllano e rilanciano i movimenti, il mio corpo si
prepara, per così dire, a una percezione di sé, anche se non è mai lui che esso percepisce o se non è lui a
percepirlo162.
Allo stesso modo si può dire che non c'è visione se non ammettendo che il vedente è
visibile, in quanto una visione che non proviene da un corpo non vedrebbe nulla.
161 Ivi, p.20. 162 VI, p.36.
63
L'enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile. Guarda ogni cosa, ma può anche
guardarsi, e riconoscere in ciò che allora vede «l'altra faccia» della sua potenza visiva. Si vede vedente,
si tocca toccante, è visibile e sensibile per se stesso. E' un sé, non per trasparenza come il pensiero, che
può pensare una cosa solo assimilandola, costituendola, trasformandola in pensiero – bensì un sé per
confusione, narcisismo, inerenza di colui che vede a ciò che vede, di colui che tocca a ciò che tocca, del
senziente al sentito – dunque un sé che è preso nelle cose, che ha una faccia e un dorso, un passato e un
avvenire...163.
Claude Lefort commenta in nota questo passaggio dell'opera coeva L'occhio e lo
spirito, sottolineando che si tratta di proprietà riflessive, che non vanno intese alla lettera.
La situazione in cui il soggetto « si vede vedente » è concepibile solo se si introduce, fra il primo e il
secondo termine della coppia, la mediazione dello specchio. (...) Ma l'immagine speculare «rinvia
ancora ad un originale del corpo che non è laggiù, fra le cose, ma dalla mia parte, al di qua di ogni
visione» e quindi ...io non riesco del tutto a toccarmi toccante, a vedermi vedente, l'esperienza che io ho
di me percipiente non va al di là di una semplice imminenza, termina nell'invisibile...164.
Nella tradizione filosofica il soggetto acquistava la sua corporeità solo in maniera
accidentale e riusciva ad esperire il mondo solo grazie ad una sorta di analogia ontologica con
ciò a cui si rapportava. La ricerca di una terza via tra poli opposti, in alternativa alle filosofie
dualiste, pone qui Merleau-Ponty nella condizione di concepire un elemento di mediazione,
una dimensione comune, che in questo caso prende la forma dello specchio, che permette di
dare la conferma della veridicità della visione di se stessi, inserendosi tra quello che
tradizionalmente era distinto in percezione e coscienza di sé.
Ma l'umanità non è il prodotto delle nostre articolazioni, dell'impianto dei nostri occhi ( e ancor meno
dell'esistenza degli specchi, che comunque sono gli unici a rendere visibile per noi il nostro corpo intero
)165.
Il fatto che il corpo si presenti sempre dallo stesso lato potrebbe mettere in difficoltà
la teoria merleau-pontyana della reversibilità, come ammette il filosofo stesso166, ma l'enigma
sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile.
163 OS, p.18. 164 VI, p. 283. 165 OS p.19. 166 VI, p. 283, “in linea di principio: infatti ciò è apparentemente contrario a reversibilità”.
64
Il concetto reversibilità rimarrà un concetto centrale anche nella fase finale della
filosofia di Merleau-Ponty, nella quale diventerà il perno intorno al quale ruoteranno tutte le
altre tematiche. In maniera significativa, il testo redatto de Il visibile e l’invisibile si
interrompe con l’affermazione che la reversibilità “è verità ultima”167. Questa idea, invero,
diventa decisiva nella descrizione delle valenze dialettiche della nozione di chiasma, sulla
quale ci soffermeremo in seguito. La reversibilità è, per il filosofo francese, “il principio
regolatore del chiasma, in quanto rivela la dialettica interna dei suoi due poli e scandisce la
deiscenza stessa dell’essere carnale”168.
Questi concetti formano la base ermeneutica per l’introduzione del concetto di
intercorporeità sul quale verte il prossimo capitolo.
167 VI, p. 170. 168 S. MANCINI, L’ontologia indiretta dell’ultimo Merleau-Ponty, in G. INVITTO, A. BONOMI, Merleau-Ponty, filosofia, esistenza, politica, Guida editori, Napoli 1982, p. 81.
65
CAPITOLO SECONDO
L'INTERCORPOREITA'
“l’uomo è specchio per l’uomo” (OS, p. 27)
2.1. La presenza dell'altro.
2.1.1. Il contesto filosofico e i primi confronti di Merleau-Ponty sul tema dell’altro.
Il primo capitolo ha messo in evidenza alcuni concetti basilari nel pensiero merleau-
pontyano che permettono ora di affrontare il problema dell'alterità in maniera differente
rispetto alla filosofia a lui precedente.
La riflessione filosofica, infatti, soprattutto nell'età contemporanea169, al di là di tutte le
differenze e le opposizioni, si è soffermata spesso sul problema dell'altro. In molti casi si è
trattato di una reazione al lungo primato del Cogito, accentuata dal suo sviluppo nelle
impostazioni idealistiche e in certi esiti solipsistici, oppure dall'esasperazione del principio di
“interiorità”, nello sforzo di allontanarsi dalle radici platoniche e dall'equilibrio
dell’agostinismo. A questo ha contribuito, in più, la concezione moderna, di ascendenza
empiristica, secondo cui l’“oggetto” diretto della conoscenza sarebbero non tanto le “cose in
sé”, ma le loro “impressioni”, da cui una riproposizione del problema del passaggio dalle
“impressioni” alle loro “cause” o “cose in sé”.
Nel ricordare170 l’atmosfera filosofica che ha nutrito le sue idee, Merleau-Ponty si
sofferma sul fiorire della tematica dell’altro, che si radica nelle posizioni di Kant, Descartes e
Hegel. Quello che risulta insufficiente per i pensatori della prima metà del Novecento sembra
essere la visione che pretende un’assoluta giustificazione filosofica e la perfetta comprensione
e condivisione della riflessione sistemica. “In effetti Kant non percepisce affatto come un
problema il passaggio tra ciò che è vero per la mia coscienza e ciò che è vero per tutte le
169 Un'interessante analisi in questo senso è proposta da Santino Cavaciuti Alle radici del dialogo: l’“altro” (Ed.
Bastogi, Foggia 2004), in cui si approfondisce il tema del passaggio dal Cogito all’intersoggettività, con una esemplificazione concreta di questo emergere del tema dell’“altro” nella filosofia contemporanea.
170 PAR II, pp. 256-258 e ENTRETIENS.
66
coscienze, dal momento che non pone come situati né l’altro né l’io”171. Merleau-Ponty
imputa a questi filosofi di dare per scontato che la ragionevolezza del proprio discorso può e
deve rifarsi in maniera identica in ogni altra persona. In queste concezioni il problema
filosofico dell’altro rischia di trasformarsi in semplici questioni psicologiche: “l’altro è solo
un problema di contenuto, non un problema trascendentale di struttura”172. È a partire da
Hegel che, secondo il nostro filosofo, si inizia a porre il problema della storia e della
complessità dei rapporti umani senza postulare necessariamente che quello che è vero per me
è vero anche per l’altro. Le impostazioni concettuali di matrice cartesiana hanno talmente
purificato l’oggetto ed il soggetto da non avere più la possibilità di rappresentarsi qualcosa
come l’altro, che dovrebbe essere soggetto-oggetto. La difficoltà, dunque, per una simile
filosofia consiste nel dover rendere conto di una rappresentazione che non resiste alla
riflessione.
Infatti, se si cerca di mostrare al filosofo che riflette che questi oggetti-soggetti fanno comunque parte
della nostra esperienza, come, questi dirà, qualche cosa che non ha senso può far parte della nostra
esperienza? (…) Se vogliamo confrontarci in modo positivo con il problema del mondo, senza postulare
un infinito che offra la soluzione di ogni problema, dobbiamo pensare allora il paradosso che gli è
inerente, in particolare il paradosso dell’altro173.
Le prime proposte alternative alle filosofie considerate ormai obsolete e prive di
soluzioni che possano giustificare una visione olistica del mondo e la presenza dell’“altro” si
sviluppano già in Francia, preparando il terreno sul quale fiorisce il pensiero merleau-
pontyano. Nella filosofia francese spicca la posizione adottata da Maine de Biran, il quale,
senza rinnegare integralmente l'idea del cogito, ne modella l’esito conoscitivo in termini
volitivi: l’io (che “vuole”) non è “solo” con il suo “pensiero” o con il suo “volere”, ma è in
immediato contatto e riconoscimento del proprio corpo, mediante il principio della resistenza
che il corpo oppone all’azione volitiva dell’io. Si tratta della volizione-azione di “muovere”
liberamente il proprio corpo. Si crea così la possibilità di raggiungimento dell’altro, anche se
non in maniera certa e immediatata, ma si guadagna, comunque, la “esteriorità”, che ne è il
presupposto.
171 L'expérience d'autrui (Résumé de cours 1949 – 1952); tr. it. A. Pardi e L. Distaso, L'esperienza dell'altro
(Riassunto dei corsi 1949-1952), in L'esperienza dell'altro “Kainos” rivista telematica di critica filosofica, 2. 172 Ibid. 173 Ibid.
67
Merleau-Ponty osserva, sin dai primi scritti174, che nella filosofia tradizionale l’atto
della percezione non è considerato in termini di intelligibilità, alla stregua del fatto di avere un
corpo o di essere in rapporto con un altro. Risulta, quindi, difficile da giustificare in termini
filosofici l’avere a che fare con un altro corpo piuttosto che con un altro spirito.
Nella diversità degli interessi mostrati da Merleau-Ponty tra il 1933 e il 1936 si può
trovare un comune denominatore nell’orientamento “verso il concreto”175 nel quale viene
espressa una convergenza delle tematiche che hanno interessato Gabriel Marcel e Max
Scheler, in un progetto generale nel quale “tentare un riconoscimento, una descrizione
dell’esistenza sotto tutte le sue forme”, come “atto stesso del filosofo”176. Per Merleau-Ponty
la necessità di sovvertire le categorie classiche della filosofia significa mettere i concetti alla
prova del sensibile, cercare di cambiare l'ottica delle costruzioni dello spirito. Questa esigenza
porta il nostro filosofo a ridefinire il terreno sul quale si radicheranno i valori, facendo
economia del riferimento alla fondazione trascendente in un duplice senso: sia eliminando i
confronti ad una dimensione separata e superiore, sia ricercando le forme di normatività
all’interno della relazione regolata. Questa visione conduce, in un primo momento, ad un
certo nominalismo suscettibile di svuotare di senso le costruzioni dell’idealismo.
In questa critica di fondo, si può riconoscere una lettura del cartesianesimo attraverso
le cosiddette “filosofie del concreto” (principalmente Marcel e Scheler) che colgono bene il
dualismo classico, mettendo l’accento sulla separazione tra anima e corpo. L’interesse di
Merleau-Ponty riguardo a queste filosofie è dimostrato anche dai corsi che tiene tra il 1947 e
il 1948 presso l’Ecole Normale Supérieure177. Nonostante l’esplicito riconoscimento del
valore della filosofia di Descartes, Merleau-Ponty fa notare che, in quanto premette
un’identificazione del pensiero allo Stesso (all’Io) e del corpo all’Altro, questo dualismo fa sì
che l’atto del percepire sia descritto come un pensiero della vista, piuttosto che una vera e
propria irruzione del sensibile nell’anima, che invece, nel cartesianesimo, sembra interferire
solo con le realtà consostanziali. In alternativa a questa visione, Merleau-Ponty ricorre al
concetto rinnovato di coscienza come intenzionalità.
174 In particolare CR e EA. 175 Espressione ultilizzata da Merleau-Ponty prendendo spunto dalla prefazione a Vers le concret di Jean Wahl
(CR, p. 305). 176 Ibid. 177 Gli appunti di Merleau-Ponty e dei suoi allievi sono stati raccolti nel L'union de l'âme et du corps chez
Malebranche, Biran et Bergson, Notes prises au cours de Maurice Merleau-Ponty à l'École Normale Supérieure (1947-1948), recueilles et rédigées par Jean Deprun, Vrin, Paris, 2002.
68
Gabriel Marcel, contemporaneo di Merleau-Ponty, rappresenta, secondo molti
interpreti178, una figura seminale nello sviluppo di fenomenologia esistenziale francese in
quanto getta le basi per la fondazione di quello che Merleau-Ponty ed altri chiameranno più
tardi la fenomenologia della percezione. Marcel abbraccia, infatti, l'idea dell’incarnazione e
quella della centralità del corpo proprio all’interno dell’esistenza. Criticando la separazione,
di origine cartesiana, tra soggetto ed oggetto179, che ha portato l’uomo a pensare ingiustamente
di poter dominare il mondo, egli afferma che è necessario recuperare l'unità fra soggetto ed
oggetto, partendo dall'Io e dal corpo, che non è altro da me, in quanto io sono il mio corpo180.
Per Marcel, l'atto di nascita della riflessione è dato dalla percezione di un io anteriore al “me”,
ossia anteriore alla dualità di soggetto pensante e di oggetto pensato. L'io, pertanto, non si può
definire nella sua splendida solitudine, ma soltanto nella sua continua tensione verso l'essere,
grazie al quale noi esistiamo.
Merleau-Ponty condivide alcuni temi ricorrenti in Marcel: il filosofo non deve
concepire se stesso come un distaccato spettatore della realtà, ma situato, in qualità di
partecipante; il soggettivo è prima di tutto intersoggettività; la conoscenza del corpo, e in
particolare quella del mio corpo, è irriducibile a quella delle cose. Merleau-Ponty imputa,
tuttavia, a Marcel una mancanza di necessità interna che rende poco fondati anche gli sviluppi
successivi di tali idee e fa diventare indistinguibile l’intuizione dall’illusione181.
L’irrazionalismo, al quale si espone una filosofia tentata dal panpsichismo e dallo
spiritualismo, rende meno solide le radici di una teoria dell’intersoggettività che, basata
sull’amore costitutivo delle individualità, perde perciò il senso trascendentale o
fenomenologico. Nonostante parta da una filosofia dell’incarnazione, l’altro viene incontrato
solo sul piano spirituale, grazie al concetto di mistero che però fa a meno della riflessione: in
questo modo, secondo Merleau-Ponty, si fanno troppe concessioni all’idealismo e si
reintroduce una forma di dualismo.
Nella filosofia contemporanea, il problema dell’altro è stato presentato, a volte, come
problema cognitivo, religioso e morale, nella misura in cui dà luogo a analisi sulle relazioni
178 Cfr. P. RICOEUR, Gabriel Marcel et Karl Jaspers: philosophie du mystère et philosophie du paradoxe,
Editions du Temps Présent, Paris 1947, p. 37. 179 Egli tenta di scardinare il dualismo cartesiano di anima e corpo, di res cogitans e res extensa: ognuno è un
corpo vivo, in rapporto con il mondo tramite la percezione. 180 Merleau-Ponty si sofferma ampiamente su questo argomento nella conferenza La philosophie de l’existence
pronunciata nel 1959 nella Maison canadienne de la cité universitarie de Paris, pubblicata in “Dialogue”, v. V, 3, 1966, pp. 307-322, e ripresa in PAR II, pp. 247-266. In questa occasione fa riferimento al Journal métaphysique di Gabriel Marcel, sul quale si era soffermato anche in EA.
181 Cfr. EA, p. 108.
69
tra spirito e corpo oppure sull’idea della dignità umana percepita attraverso l’amore cristiano.
Quest’ultima accezione comporta la questione dei valori e della difficoltà di una loro
fondazione senza l’implicazione dell’esistenza di una sfera spirituale autonoma.
Nell’impostazione che, ad esempio, Max Scheler dà alla dimensione dei valori, la vita
emozionale acquista la capacità di orientarsi assiologicamente e dunque di essere motivata da
un senso. Di questa maniera è possibile pensare allo stesso tempo l’immanenza dei rapporti
umani e l’esistenza autonoma dei valori, a condizione, tuttavia, di tenere conto
dell’intenzionalità specifica della coscienza e soprattutto, attraverso di essa, dell’immanenza
dei contenuti della coscienza all’espressione che li rende visibili: l’esistenza delle esperienze
interne, dei sentimenti intimi ci è rivelata dai fenomeni dell’espressione. Quest’idea
dell’espressione scheleriana rimarrà sempre ispiratrice per Merleau-Ponty. Essa ha, in effetti,
il triplice vantaggio: quello di far sparire una dicotomia troppo marcata tra l’interiorità della
coscienza e ciò che di essa è visibile; quello di attenuare, se non neutralizzare, una troppo
netta separazione di ciò che è naturale e di ciò che è culturale presso l’uomo, nella misura in
cui l’espressione delle emozioni non è realmente acquisita; quello di rinviare al livello
dell’immanenza ciò che non aveva senso se non nella trascendenza e di ritrovare delle
manifestazioni di senso al livello della semplice affettività.
Scheler è convinto, con Husserl, del carattere intenzionale della coscienza umana (la
coscienza umana è sempre coscienza di qualche cosa: non c’è coscienza senza oggetto): con
Husserl concorda anche nel sostenere che gli atti intenzionali della coscienza sono
sottoponibili ad un’analisi fenomenologica che riguardi le loro essenze, e nell’ammettere
l’irriducibilità reciproca degli atti intenzionali. Il modo del darsi delle cose alla coscienza è
determinato dalle cose stesse. Max Scheler situa l’élan vital all’origine di tutte le
manifestazioni della coscienza, individuata come la corrente nella quale attinge l’essenziale
delle sue forme ed è immediatamente collocata in secondo piano rispetto alla dimensione
condivisa del sensibile in quanto risulta necessario rendere conto della connivenza essenziale
e muta delle forme vitali.
Allo stesso modo, agli slanci idealisti di Gabriel Marcel che sopradeterminano la
persona dell’altro nella figura quasi-mistica del Tu, Merleau-Ponty preferisce la ricerca delle
condizioni di possibilità dell’incontro dei soggetti nella dimensione sensibile iniziando dalla
loro incarnazione.
L’orientamento verso il concreto determina, dunque, sia la critica delle categorie
tradizionali del pensiero, sia la lenta trasmutazione del problema dell’altro in problema
70
dell’intersoggettività, nella misura in cui persino la separazione tra l’io e l’altro appare come
una dicotomia astratta e, con essa, la costellazione completa delle sue conseguenze.
Nel periodo precedente alla stesura della Struttura del comportamento, Merleau-Ponty
rielabora in chiave propria la lettura kojèviana della filosofia di Hegel182 e si lascia ispirare
soprattutto dalla concezione della coscienza e del suo rapporto con l’altro prospettata dal
pensatore di origine russa. La problematica della costituzione delle soggettività nella tematica
della lotta a morte per il riconoscimento risulta determinante nella riflessione merleau-
pontyana sull’intersoggettività, in quanto gli permette di sviluppare una dialettica
dell’ambivalenza che recupera il significato culturale e simbolico del lavoro, come attività
portatrice di un superamento nel senso della temporalità aperta e della negatività. Il lavoro
permette all’uomo di istituire sensi nuovi attraverso gli oggetti d’uso e di impregnare la
propria cultura tramite un atto di appropriazione anteriore ad ogni giudizio, in cui il gesto
precede il pensiero e l’atto pratico prepara quello teorico. Il tentativo kojèviano di umanizzare
lo Spirito hegeliano si riflette in Merleau-Ponty anche nell’adozione di un metodo in cui la
dialettica raggiunge l’ambiguità della coscienza, riformando la nozione di soggetto, al di là
della scelta, riassunta genericamente dall’autore, tra empirismo e intellettualismo.
Di conseguenza, lungi dal utilizzare passivamente una filosofia del soggetto, il
pensiero di Merleau-Ponty tenta di trovare i mezzi di esprimere l'indifferenziazione soggettiva
che precede ogni soggettività e che costituisce il suolo sul quale si appoggiano tutti i processi
di individuazione e tutte le manifestazioni di senso.
2.1.2. Le impostazioni concettuali da superare
Questa riflessione, doppiata da un particolare utilizzo della Gestalttheorie, creano un
terreno fertile per cercare di delimitare lo stato del problema dell’altro e quello
dell’intersoggettività. In questo senso avviene la ripresa dei dati della Psicologia della Forma:
la sola descrizione dei rapporti del mondo e del soggetto incarnato in termini di intelligibilità
o di semplici dati di senso non permette di sviluppare una riflessione allo stesso livello di ciò
che va indagato. Il rapporto di questa coscienza e del mondo si rivela solamente nella
percezione e deve essere descritto nei termini di una filosofia della percezione che resiste alle
182 Nel 1935, di ritorno a Parigi, Merleau-Ponty segue con assiduità le famose lezioni su Hegel che Alexandre
Kojève tiene tra il 1933 e il 1939.
71
tentazioni intellettualiste, come a quelle dell'empirismo. In tal senso riutilizza la terminologia
gestaltiana della strutturazione spontanea del campo percettivo nell'attività percepita.
Difatti, per l'empirismo, il mondo sembra totalmente trascendente allo spirito (il ché ne
costituisce l’estraneità), mentre per l'idealismo esso sembra immanente alla sua attività di
costituzione (questo sarà vero fino a Husserl) ma nei due casi ritroviamo una forma di
eterogeneità radicale del mondo. L'idealismo, come in Kant, rapporta il fenomeno ad una cosa
inconoscibile che sfugge per natura allo spirito. In questo modo l'unica vera alternativa a
questa tradizione si trova nell'affermazione di un'omogeneità della coscienza e dei suoi
oggetti. Ma ciò implica il ritorno critico su ogni forma di dualismo così come la creazione di
categorie filosofiche capaci di esprimere questa origine comune.
Nel realizzare una filosofia della percezione che non esisteva negli approcci positivi
della Gestalttheorie, Merleau-Ponty rende libero il campo dell’intersoggettività primordiale,
in modo tale da utilizzarlo come paradigma all’incrocio dei temi fenomenologici. Tuttavia,
invece di prendere in prestito le vie aporetiche dell’idealismo (che condurrebbero al
solipsismo), o dall’empirismo (che non giunge mai a unificare la percezione), il filosofo va a
cercare una via intermediaria, in base al suo metodo di doppia confutazione senza sintesi.
Sin dai primi scritti Merleau-Ponty sembra aver visto nel problema dell’altro una delle
maniere migliori di confutare sia l'idealismo sia il realismo e questo doppio rifiuto,
caratteristico soprattutto degli albori della sua opera, riposa in grande parte su questo tema
che anima tutto il suo pensiero. Il punto verso il quale si sta muovendo il fenomenologo
implica che si cessi di definire la coscienza attraverso la trasparenza e attraverso la
padronanza che può avere di se stessa, ma che si raffiguri che una parte della sua vita sfugga
al senso nel quale la rete di intenzioni che essa è in realtà deve essere vissuta piuttosto che
conosciuta, vale a dire tentare di avvicinare la vita intenzionale al suo proprio livello.
Ciò implica che si debba trovare un'alternativa alle filosofie della rappresentazione
dando un senso originale alla trascendenza della coscienza, il ché Merleau-Ponty tenta di fare
ritornando verso l'esperienza percettiva ed installandosi nelle condotte percettive, in modo che
mostri che persino la vista dall’interno la coscienza non può essere un puro per sé.
Il nostro filosofo indaga l'opposizione di una concezione del sensibile (come
dimensione della partecipazione e della comunione intersoggettiva e come referente di una
soggettività incarnata) ad una concezione del pensiero trasparente a se stesso. La confutazione
viene avanzata tramite una certa idea del sensibile come dimensione comune alla quale non
sarebbe possibile accedere tramite le posizioni cartesiane o kantiane. L’aiuto fornito dalla
72
filosofia di Husserl che rimane in una logica trascendentale, ma fa posto ai dati
dell’intersoggettività, diventa prezioso e offre l’opportunità di salvare la fenomenologia dalla
critica radicale di Merleau-Ponty.
Il pensatore francese vede nella percezione il luogo di questa alleanza originaria.
Alcune categorie classiche sono svuotate del loro senso e ripensate: la trascendenza, ad
esempio, non è considerata più in una prospettiva di eterogeneità ma come quel “movimento
grazie al quale l'esistenza riprende il suo conto e trasforma una situazione di fatto”183, dunque
una forma di ripresa dell'immanenza. E’ qui all’opera una sovversione dei dualismi. Pensare
la trascendenza o l'immanenza separate l’una dall'altra significa far riapparire il loro contrario,
di modo che non si possa scegliere tra l’una e l’altra. Risulta necessario invece ritornare al-di-
quà della loro opposizione, alla loro dimensione comune: “la soluzione di tutti i problemi di
trascendenza si trova nello spessore del presente preoggettivo, dove troviamo la nostra
corporeità, la nostra socialità, la preesistenza del mondo”184.
Merleau-Ponty prende le distanze dal concetto di mondo oggettivo di cui parla la
scienza nell'illusione della separazione totale dal suo oggetto e propone una filosofia che è
“volontà di afferrare il senso del mondo o della storia allo stato nascente”185 e di conseguenza
il mondo ne è la vera culla. Si tratta di un mondo percepito che è solamente per noi senza
ridursi alla percezione che ne abbiamo, nell’esatta misura in cui ogni coscienza lo reclama a
ogni altra coscienza in un riferimento comune. La trascendenza del mondo e quella dell’altro
si illuminano a vicenda. Se si parte dal presupposto che l’uomo può affermarsi solo come
essere al mondo, come “soggetto destinato al mondo”, allora per poter dire che l'uomo è
destinato agli altri, bisogna servirsi del significato profondo della riduzione fenomenologica
che è quello di rivelare il significato intersoggettivo della tesi del mondo.
La pretesa preferenza segreta di Merleau-Ponty per il decorso idealistico si spiega
semplicemente pensando che se l'empirismo venisse letto come una filosofia che parte dal
postulato di “dedurre i dati di ciò che è fornito dagli organi di senso”186, ne conseguirebbe che
la conoscenza deve rimanere sempre fuori portata. L’empirismo soffre di “cecità mentale”187
perché viene considerato il sistema meno in grado di esaurire l’esperienza rivelata. Da questo
punto di vista l’idealismo rappresenta un progresso nella misura in cui identifica l’ego
183 FP, p. 197. 184 Ivi. p. 495. 185 Ivi. p. XVI. 186 FP, p. 39. 187 Ibid.
73
trascendentale con il luogo dove si realizza l'avvenimento della percezione che l'empirismo ha
ridotto ad un soggetto x.
Tuttavia, i due percorsi sono sistematicamente accantonati come eccessivi. Tutti e due
mancano il loro oggetto: l’empirismo è incapace di afferrare la connessione interna
dell’oggetto e dell’atto che lo scatena; l'idealismo non può rendere conto della contingenza
degli oggetti del pensiero; entrambi, infine, passano sotto silenzio la costituzione dell'oggetto,
prendono per oggetto l’analisi del mondo oggettivo, si distanziano dalla percezione e si
iscrivono alla fine nell’atteggiamento naturale o dogmatico. C’è una doppia filosofia
dell’empirismo e dell’idealismo, così come c'è n’è una che riguarda ogni dottrina della
comprensione: essa consiste nel mettersi sia al livello della nostra condizione di fatto, sia al
livello trascendentale, allorquando si tratta di restituire la dinamica di questo strato
intermediario tra la pura fatticità e l’attività del soggetto costituente.
Merleau-Ponty intende, perciò, trovare una terza via tra l’empirismo e l’idealismo.
Questa battaglia contro il dualismo è cominciata per il filosofo francese fin dall’inizio, a
partire dalle sue prime ricerche filosofiche, cioè dalle due tesi di dottorato, rispettivamente La
struttura del comportamento (1938-1942) e La fenomenologia della percezione (1945). Si
tratta di due testi strettamente connessi: secondo alcuni interpreti addirittura complementari,
secondo altri pars destruens e pars construens di un progetto unitario. Tuttavia è necessario
tenere presente un evento decisivo della vita filosofica di Merleau-Ponty, che si colloca
proprio tra la prima e la seconda tesi: la lettura, a Lovanio, nel 1939, degli inediti di Husserl
sottratti alle grinfie dei nazisti da Padre Von Breda, una lettura che influenza fortemente il suo
pensiero.
Un’altra coordinata importante che emerge con molta forza in questo quadro
problematico è, dunque, l’integrazione della fenomenologia husserliana188, soprattutto per
quello che riguarda la posizione della coscienza e le sue conseguenze teoretiche sul piano
dell’esperienza dell’altro.
Già Husserl aveva fatto notare che l'analisi riflessiva ignora in realtà il problema
dell’altro e del mondo situando la verità al livello di un universale che le soggettività
raggiungono indipendentemente le une dalle altre. La via indicata da Husserl è quella di
188 La bibliografia indicata ne La Struttura del Comportamento menziona più opere che Husserl pubblicò tra gli
anni 1913 e 1931. La conoscenza della problematica husserliana dell’intersoggettività avviene per gradi: durante la stesura del suddetto libro Merleau-Ponty non aveva ancora letto gli inediti husserliani, che invece diventano determinanti per la concezione de La Fenomenologia della Percezione. Anche dopo quest’opera il filosofo francese continua lo studio di altri inediti, per lo più gli ultimi redatti, che mantengono la tensione speculativa soprattutto per quello che riguarda le problematiche del linguaggio e dell’intersoggettività.
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ritrovare il significato di questi problemi: l'individuazione del senso della soggettività e il
ritorno alle cose stesse. “Il Cogito deve scoprirmi in situazione, e solo a questa condizione la
soggettività trascendentale potrà, come dice Husserl, essere un’intersoggettività”189.
Riprendendo l’idea di una coscienza trascendentale davanti alla quale il mondo si
dispiega in una trasparenza assoluta, l'ultimo Husserl trasforma il significato dell’idealismo e
ritrova il senso dell'incarnazione dei soggetti. La loro visibilità, per essi e per gli altri, apre la
filosofia al senso dell’alterità e della storicità, non permettendo più di identificare la
donazione di senso e l'attività pura dell'ego:
Il mondo fenomenologico non è essere puro, ma il senso traspare all’intersezione delle mie esperienze e
all’intersezione delle mie esperienze e di quelle altrui, grazie all’innestarsi delle une sulle altre: esso è
quindi inseparabile dalla soggettività e dall’intersoggettività, le quali realizzano le loro unità mediante
la ripresa delle mie esperienze passate nelle mie esperienze presenti, dell’esperienza altrui nella mia190.
Non bisogna dimenticare che si tratta pur sempre di una scoperta effettuata dal cogito,
vale a dire di una conquista della riflessione, e di conseguenza diventa necessario rivelare il
significato concreto dell’intersoggettività. Risulta perciò importante ritornare a compiere
realmente questo movimento che, agli occhi di Merleau-Ponty, definisce la fenomenologia
come filosofia e che consiste nel ricollocare le essenze nell'esistenza e di ritrovare il contatto
col mondo. Questo contatto era stato perso dalla filosofia classica, ma la fenomenologia
merleau-pontyana ne fa accuratamente la critica attraverso l’analisi di alcuni pregiudizi
caratteristici, come quelli legati alle nozioni di attenzione, di giudizio, di associazione e di
proiezione dei ricordi o delle sensazioni. Dal punto di vista di Merleau-Ponty tutti questi
filosofismi, che segnano dalla filosofia di Cartesio all’idealismo kantiano, passando malgrado
tutto per Bergson191, così come per la psicologia associazionista anglosassone e francese,
189 Ivi. 21. Qui Merleau-Ponty fa riferimento alla terza parte della La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale, inedita all’epoca, nella quale Husserl affronta in particolar modo il tema del mondo della vita. Il filosofo francese sembra fare allusione al § 54 b nel quale Husserl ritorna sulla funzione costitutiva dell’ego in rapporto agli orizzonti degli altri egos trascendentali come “co-soggetti della soggettività trascendentale che costituiscono il mondo” (E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore Tascabili, Milano 2008. p. 209). Husserl vi insiste sull’indeclinabilità del ego e sull’errore che consiste nel saltare immediatamente nell’intersoggettività. In effetti “dal punto di vista metodologico, è solamente i partire dall'ego e dalla sistematicità delle sue funzioni e prestazioni trascendentali che possono essere esibiti l’intersoggettività trascendentale e la sua comunanza trascendentale. (p. 211).
190 FP, p 29. 191 Il legame con Bergson si sviluppa lungo tutto il periodo della sua riflessione: egli rappresenta l’interlocutore
ideale con il quale si confronta a più riprese. Nel 1952 ottiene (succedendo a Lavelle) una cattedra al Collège de France, la stessa che fu di Bergson. L’atteggiamento verso Bergson si concretizza in due scritti importanti:
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possono essere considerati come altrettante modalità di mancare il fenomeno della
percezione192.
Un altro passo di distacco Merleau-Ponty lo fa anche nei confronti di Kant, che si
rapporta all’esperienza dell’altro nei contenuti a posteriori193 e rivendica qui una confusione
dal punto di vista trascendentale e dal punto di vista psicologico, nella misura in cui l'unica
maniera di comprendere che l'intersoggettività possa giocare il ruolo di struttura a priori è di
descrivere un’esperienza costitutiva della coscienza infantile aperta allo spettacolo del
comportamento dell’altro ed introdotta subito al mondo umano194.
Per il fenomenologo francese la critica all’idealismo passa attraverso lo studio di
Pierre Lachièze-Rey, il quale fa riferimento a Descartes solo per aumentarne la distanza dalla
sua interpretazione del cogito, illuminata dalla filosofia di Kant. Il filtro delle interpretazioni
di questo idealismo da parte dei contemporanei francesi permette di osservare l’originale,
molto più sfumato, che Merleau-Ponty ammira per la sua finezza e per la sua umanità, al
quale essi si rifanno ingrandendolo. L’idea di coscienza come “io costruttore” incompatibile
con ogni localizzazione spazio-temporale e che ritrova il suo mondo “nell’ultima analisi per
una comunione interiore con l'operazione della divinità”195, permette al nostro filosofo di porre
il problema dell'unità della coscienza in quanto, se l'empirismo non permette di costituirla,
l’idealismo cade visibilmente nell'eccesso inverso di postularla in tal misura che ogni apertura
al mondo diventa totalmente inintelligibile. La trascendenza dell'ego viene negata da Merleau-
Ponty come anche la sua intenzionalità, così che, per rendere conto della conoscenza come
ogni valore obiettivo delle idee, questo idealismo afferma l’atemporalità dello spirito.
Elogio alla filosofia (1953) e Divenire di Bergson, letto nella seduta di omaggio a Bergson alla fine del Congresso Bergson, 1959, in S., pp. 239-250. In questi testi, nella quale si può rilevare una certa continuità, Merleau-Ponty afferma di non rilevare alcuna significativa torsione teoretica dopo l’avvicinamento di Bergson al cristianesimo. Uno dei meriti che Merleau-Ponty gli riconosce è di aver introdotto nella filosofia delle categorie psicologiche, come l’intuizione e la percezione.
192 Cfr. FP, p. 22. 193 In questa cornice l’altro è ridotto a “una nozione derivata per la quale io coordino certi aspetti dell'esperienza
esterna”, SC, p. 186. 194 “Cronologicamente, la coscienza infantile, conquista la sua autonomia attraverso l'acquisizione del
linguaggio, considerato prima come elemento di impregnazione dell'ordine del umanità, così come attraverso l'osservazione dell'uso degli oggetti di uso ed il loro uso diretto (ciò che implica la percezione di posizioni corporali e la loro riproduzione), infine per la percezione di una natura obiettiva che non è abbordata dunque mai come puro ambiente naturale fisico. È in questo senso che l’intersoggettività precede la soggettività e che la vita della coscienza precede e trabocchi l'esercizio del giudizio che è il supporto della rappresentazione. Come dire che l'intersoggettività primitiva è più vissuta che pensata, più presupposta che esplicitata, ciò che rende conto della sua relativa occultazione quando, in un atteggiamento naturale, si tenta di ritrovare le grandi tappe del formazione della coscienza”.
195 Pierre Lachièze-Rey, Le Moi, e Monde et Dieu, Aubier, Paris, 1950, p. 51.
76
In realtà il chiarimento del sensibile, la conquista delle idealità e di sé, devono essere
iscritti perfettamente in una temporalità consostanziale al io penso che trova in questa
dimensione l'unico campo della sua espressione come il solo modo di procedere ad una
qualsiasi riflessione. L'affermazione del carattere soggettivo del tempo o se si vuole del
carattere temporale della soggettività non ha senso che in relazione a questa volontà di
restituire uno “spessore temporale”196 al cogito, vale a dire in fin dei conti, di assicurargli
un’apertura su altro che se stesso.
Difatti per Merleau-Ponty, il vero dibattito sullo statuto della soggettività non è quello
che oppone solamente un soggetto concepito come sostanza assoluta (cogito metafisico) ad un
soggetto concepito solamente come istanza fondatrice (cogito criticista), ma quello che
oppone una concezione del soggetto che in qualche modo non fa altro che conoscere se stesso,
persino nella sua trascendenza, ad un altro che lascia ampio spazio all’esteriorità, dunque alle
vere forme di alterità. In questo senso la critica delle filosofie della rappresentazione, che
promuovono una “coscienza costituente per principio unico e universale”197, è condotta
essenzialmente sulla base delle esigenze dell'intersoggettività, le stesse che rendono
inintelligibile l'esistenza di una molteplicità di assoluti che pretende di salvare la coerenza
“trasferendo” il senso della soggettività di vicino in vicino.
La critica ai pregiudizi classici del corpo e del mondo percepito e la presentazione di
un loro nuovo statuto sul quale si incentra la Fenomenologia della Percezione trova il suo
vero orizzonte in una filosofia dell’intersoggettività198. Difatti, se la sensazione è comunione,
coesistenza o accoppiamento, se le cose stesse si definiscono in qualche modo per il loro
comportamento, questo è perché l'intenzionalità stessa è compresa come un atto di
partecipazione a questa dimensione sensibile della verità che è il mondo comune preoggettivo
che prescrive il suo scopo alla conoscenza.
Questa teleologia della coscienza che secondo un'espressione propria di Husserl, fa
della coscienza un “progetto del mondo”, sposta l'accento dell'analisi fenomenologica in tale
maniera che i temi dell’intersoggettività e dell’essere-al-mondo diventano indissociabili e
rivelano la loro primordialità: “Noi siamo mescolati al mondo e agli altri in una confusione
inestricabile”199.
196 FP, p. 456. 197 Ivi. p. 428. 198 Rif anche a Barbaras che sottolinea la permeabilità del tema dell’intersoggettività sia al livello lessicale che
a quello concettuale in tutta la Fenomenologia. (De l’etre du phenomene, op. cit.) 199 FP, p. 518.
77
Nell’economia dell’opera di Merleau-Ponty il tema dell’intersoggettività inizia a
giocare da questo punto in poi il doppio ruolo di guida trascendentale dell’intero percorso
filosofico e di elemento di specificità dello stile fenomenologico di Merleau-Ponty. Il
significato profondo del primato dell’intersoggettività viene alla luce seguendo questa doppia
prospettiva tra l’intricarsi dei temi del “mondo” come “ambiente naturale”, delle percezioni e
dei pensieri, da una parte, e del “corpo” come “punto di vista sul mondo” ma soprattutto come
“soggetto della percezione”, dall’altra.
Merleau-Ponty promuove una concezione del sensibile che non può essere ridotta
all’approccio scientifico che lo considera come effetto immediato di uno stimolo esterno. In
un mondo materiale puramente esteriore, nel quale il corpo sarebbe incaricato di segnalare la
presenza allo spirito come un semplice trasmettitore di messaggi, la definizione stessa di
sensazione diventa difficile.
Tutti gli strumenti delle analisi fisico-matematiche sono dichiarati inoperanti a
vantaggio di un “altro tipo d’intelligibilità”200 che si rapporta ad un ambito preoggettivo come
luogo naturale del sentire. Ritrovare il contatto con questo strato preoggettivo può significare
anche donarsi i mezzi per rintracciare le strade della costituzione della soggettività,
parzialmente ignorati dalla scienza che “costruisce solamente una parvenza di soggettività”201,
nella misura in cui la taglia radicalmente dalle sue origini.
Questa operazione ritorna a privilegiare il determinato sull'indeterminato, il logico
sull'espressivo, come nel caso dell’empirismo che definisce la sensazione sulla base della
qualità e si rifiuta di considerarla come valore espressivo.
Nel tentativo di oggettivare tutto lo scibile viene mancato il proprio del percepito, che
sta nell’ammettere una forma di ambiguità e soprattutto di comportare un significato
immanente e in qualche modo aderente. Il grande pregiudizio del pensiero classico, come
quello della scienza, è di considerare come radicalmente separati, da una parte, un mondo in
sé privo di senso e, dall’altra, una coscienza costruttrice e donatrice di senso, un soggetto
acosmico. La percezione è sempre rapportata all’attività intellettuale di questo io assoluto, il
che riconcilia perfettamente idealismo ed empirismo, nella misura in cui l'istanza percipiente
non produce senso, se non a partire da un materiale informe. Questo spiega anche perché la
critica della concezione classica del soggetto passa attraverso quella di una teoria della
percezione. La Psicologia della Forma, riconsiderata da un punto di vista fenomenologico,
200 VI, p. 279. 201 Ibid.
78
non è valutata da Merleau-Ponty come l’approccio più fedele ai fenomeni. Essa separa il
senso del percepito dall’attività centrifuga della coscienza per attribuirla alla struttura del
sensibile stesso: “il significato del percepito, lungi dal risultare da un'associazione, è al
contrario il presupposto in tutte le associazioni”202; il senso si precede sempre a se stesso.
L'anteriorità di senso è la vera condizione di riconoscimento che la psicologia classica
postula all’origine della conoscenza, in quanto “percepire non è ricordarsi”203 ma “vedere
sgorgare da una costellazione di dati un senso immanente senza il quale nessun appello ai
ricordi è possibile”204. Il mondo, per l'empirismo come per l'idealismo, è letteralmente
incomprensibile poiché estraneo ed paradossale, composto a partire da puri stimoli o
ricostruito a partire da ricordi di cui non si comprende l’origine. Radicalmente altro o riflesso
dell'io, il mondo del filosofia e della scienza è disumano o “chiuso tanto quanto quello della
follia” 205. Di conseguenza il solo mondo reale di cui bisogna rendere conto, è questa “patria
dei nostri pensieri”206, mondo naturale o culturale nel quale si assiste infine all'incontro dello
spirito e delle cose, che peraltro era stato sempre presupposto.
Si deve sottolineare che questa equivalenza data qui come evidente è la chiave della
comprensione di questa filosofia dell’intersoggettività che è anche e in principio una filosofia
del corpo. Il corpo è umano perché è un trasformatore generale: “ è la definizione del corpo
umano di appropriarsi in un serie indefinita di atti discontinui di noccioli significativi che
superano e trasfigurano i suoi poteri naturali”207. Questo potere espressivo trasforma dunque la
natura in cultura, il gesto in significato, il sensibile in intelligibile, il proprio in comune, e
queste operazioni risultano reversibili. La cultura diventa natura attraverso il corpo che integra
delle abitudini; il significato non è compreso che in ultima istanza, allorquando ritrova,
attraverso il corpo il suo senso gestuale; l'idea non ha senso se non attraverso il suo
radicamento sensibile e l’altro mi è giustamente accessibile attraverso la percezione del suo
corpo. Il simbolo concreto di queste trasformazioni è la struttura reversibile del corpo proprio
e in particolare quella dell’apparato visivo.
Come ogni critica radicale di una tradizione, quella di Merleau-Ponty riesce a mostrare
l'unità profonda delle posizioni filosofiche apparentemente divergenti. Di conseguenza questo
ricade sul significato di certe nozioni, come quello di trascendenza o di immanenza che
202 SC. pp. 22-23. 203 Ivi. p. 30. 204 Ibid. 205 Ivi. p. 31. 206 Ivi. p. 32. 207 Ivi. p. 226.
79
diventano sempre più oggetto di interrogazione filosofica ne La fenomenologia della
percezione: “l’interiore e l’esteriore sono inseparabili. Il mondo è tutto dentro e io sono tutto
fuori di me”208.
2.1.3. Verso un nuovo lessico dell’ipseità
Un altro quesito riguarda la presentazione di questa logica vissuta che non rende conto
di se stessa contrariamente a quella pensata che si rinchiude nella sua padronanza formale.
Come accettare l'idea di un significato immanente che “non è chiaro per se stesso” e “si
conosce solamente grazie all'esperienza di certi segni naturali”209, contro quella che risulta da
un giudizio puro? Bisogna sottolineare con forza la novità dell’analisi di Merleau-Ponty che si
trova nelle pagine introduttive de La fenomenologia della percezione nelle quali il filosofo
tenta di abbandonare il vocabolario della filosofia dell’ipseità210 a vantaggio di quello della
sua origine preriflessiva ma soprattutto intersoggettiva, fluente e strutturale. “Se il soggetto è
in situazione, se anzi non è altro che una possibilità di situazioni, è perché non realizza la sua
ipseità se non essendo effettivamente corpo ed entrando nel mondo tramite questo corpo”211.
Quest’opera, infatti, descrive il radicamento effettivo dell’ego nel mondo attraverso il corpo,
in modo da ridefinire in maniera adeguata la possibilità della coscienza propria e di quella
altrui, al fine di superare i limiti della razionalità moderna e permettere una reale apertura
all’altro. In altri concepimenti contemporanei, Merleau-Ponty constata che la dimensione più
consona a tale ricerca sia quella esistenziale, in quanto l’altro non si offre in un rapporto
logico, bensì uno “d’esistenza”, poiché “l’io potrà raggiungere l’altro approfondendo
l’ esperienza vissuta”, che permetterà di “congiungere la nozione stessa di ipseità a quella di
situazione” 212.
L’identità personale si differenzia dall’ipseità classica, il cui raggiungimento risulta
impossibile, in quanto si presenta come un iato che tiene aperte le presunte totalità del
soggetto e dell’oggetto: è l’appartenenza al mondo tramite il corpo proprio che impedisce
all’io di consolidarsi entro le mura di un’ipseità autotrasparente.
208 FP, p. 522. 209 Ivi. p.61. 210 Alcuni esegeti, come Bonan, contestano il risultato di questo tentativo, in quanto Merleau-Ponty continua a
utilizzare molti termini di tale filosofia, pur modificandone la portata concettuale. 211 FP, p. 522. 212 BA, p.45.
80
L’esperienza pura è ancora muta perché anonima nel doppio senso in cui essa
appartiene più a me che all’altro e che è il risultato dell’incontro del percepire e del percepito
nella dimensione comune del campo fenomenale che possiede le proprie leggi originali di
organizzazione.
La struttura del comportamento aveva tentato di liberare queste leggi sfruttando i
risultati della Psicologia della Forma, ma non aveva spinto abbastanza lontano la ripresa
filosofica di questa teoria che rimane tentata dall’ideale della psicologia esplicativa, vale a
dire da una forma di realismo. In realtà “è necessaria tutta una riforma della comprensione”213
per descrivere adeguatamente le relazioni della coscienza incarnata e del mondo e al-di-quà di
questa distinzione, i fenomeni di superficie che determinano il campo fenomenale, senza
corrispondere agli atti di posizione esplicita della coscienza. Ad esempio, l’opposizione
classica nella Psicologia della Forma, della figura e dello sfondo, è interpretata dalla
psicologia stessa come una segregazione del campo anteriore ad ogni significato, ma
posteriore alla costituzione del soggetto percipiente che rimane a distanza da questo effetto di
campo; al contrario, per Merleau-Ponty l’opposizione della figura e del fondo è uno degli
effetti differenziali che appaiono spontaneamente al soggetto percipiente che è preso nel
campo fenomenale e che è anch’esso indeterminato. Questi sono evidentemente gli effetti che
gli forniranno l’opportunità di differenziarsi in quanto soggetto della percezione nello stesso
tempo in cui il percepito si distingue come tale.
La Psicologia della Forma214 si dimostra, agli occhi di Merleau-Ponty, come una forma
di realismo perché proietta nell’organizzazione del campo fenomenale le determinazioni che il
behaviorismo descriveva come inerenti all’organismo. Nei due casi le condizioni materiali
dell’apparizione del riflesso o della percezione sono dati in anticipo e con esse la distinzione
del soggetto e del mondo. Bisogna constatare che la ripresa delle nozioni della Gestalttheorie
è estremamente selettiva e basata su solidi criteri. La nozione centrale di campo che designa,
nel vocabolario della Psicologia della Forma, quel campo organizzato della percezione, che
funge da cornice all’apparizione delle forme percepite e che non è orientato né verso il
rapporto reciproco di queste forme, né tanto meno verso la posizione del soggetto che fa parte
del campo, interessa il filosofo fino a quando essa manifesta la segregazione del soggetto
213 FP. p.60. 214 Per la Psicologia della Forma, il problema fondamentale rimane un problema di oggettività: esso consiste nel
determinare la costellazione fisica di eccitanti che corrisponde ad ogni forma percepita, e le variazioni della prima che modificano la struttura della seconda. Per Merleau-Ponty il problema fondamentale consiste inversamente nel sottrarre la percezione della forma ad ogni schema causale e di giungere a descriverla come un fenomeno di “motivazione” inteso, come nella fenomenologia, come un concetto “fluente”.
81
stesso come effetto del campo. Il pensiero di Merleau-Ponty ritorna sulle tematiche affrontate,
le fa evolvere sottoponendole a vagli critici, dando, così, un impronta di dinamismo al suo
pensiero. Il concetto di campo fenomenale, infatti, viene rivisitato costantemente. Se ne La
struttura del comportamento esso comportava uno spettacolo per lo spettatore estraneo, nella
Fenomenologia della percezione indica la superficie dove si rivela lentamente il soggetto al
contatto col mondo e con gli altri, lo spazio della soggettivazione o la culla
dell’intersoggettività mondana dove attecchisce ogni coscienza separata. Persino l’ego che
medita non è mai indipendente da una prospettiva particolare del fatto “che non può
sopprimere la sua inerenza ad un soggetto individuale”215 situato in maniera consostanziale nel
campo.
Riguardo al concetto di soggettività innestato nel campo fenomenale, Merleau-Ponty
non si esprime in maniera univoca: il soggetto stesso è definito come l’essere che possiede le
caratteristiche del campo e che non riceve la sua unità che dalla sua coerenza concreta: “io
sono un campo, io sono un’esperienza”216; l’uomo “è un campo di presenza, -presenza a sé,
all’altro e al mondo, - e (…) questa presenza lo getta nel mondo naturale e culturale a partire
dal quale egli si comprende”217. Tuttavia l'identificazione del soggetto e del campo equivale
innanzitutto all'affermazione della sua natura intersoggettiva: “io sono tutto quello che vedo,
sono un campo intersoggettivo non a discapito del mio corpo e della mia situazione storica,
ma al contrario essendo questo corpo e questa situazione e tutto il resto attraverso di essi”218.
Questa citazione riassume perfettamente tutta l'impresa de fenomenologia merleau-pontyana
di portare al livello dell'espressione l'esperienza della coscienza impegnata e situata attraverso
il proprio corpo in un mondo che la precede sempre e nel quale c'è quasi altrettanta distanza
tra il soggetto e se stesso che tra il soggetto e gli altri soggetti. Sempre ne La fenomenologia
della percezione afferma: “Il fenomeno centrale, che fonda la mia soggettività e in pari tempo
la mia trascendenza verso l’altro, consiste in ciò: che io sono dato a me stesso”219. Di
conseguenza si tratterà di rendere manifesto dovunque il tessuto intenzionale che costituisce il
nostro sentire compreso come “questa comunicazione vitale col mondo che ce lo rende
presente come luogo familiare della nostra vita”220.
215 FP, p. 74. 216 Ivi., p. 465. 217 Ivi., p. 515. 218 Ibid. 219 Ivi., p. 466. 220 Ivi., pp. 64-65.
82
Un altro obiettivo individuato dalla riflessione merleau-pontyana consiste nel prendere
di nuovo la misura della nostra passività in questa relazione primordiale, in un senso che non
l'oppone più alla spontaneità e che permetterà di considerare la reversibilità delle relazioni
intersoggettive e di quelle autoconstitutive. Bisognerà anche ritrovare il senso di quella foi
originaire, fede originaria, presupposta e poi dimenticata dalla scienza, ma che anima “la tesi
muta della percezione” nella quale si concatenano, si incastrano e si articolano le une sulle
altre, le esperienze individuali e le esperienze di uno sulle esperienze degli altri. Merleau-
Ponty sente la necessità di rendere conto ad ogni livello della maniera in cui “l’esperienza in
ogni istante può essere coordinata con quella dell’istante precedente e con quella dell’istante
seguente, la mia prospettiva con quella delle altre coscienze”221.
Se il problema della percezione venisse ad aggiungersi semplicemente ad una
concezione classica della coscienza, tutta la problematica dell’intersoggettività si ridurrebbe
ad uno studio dei fattori sociologici di acculturazione degli individui, ma nei termini di una
vera filosofia dell’intersoggettività, si ritiene dunque che “come testimone di un
comportamento io non sono una pura coscienza”222, che lo spettacolo della condotta dell’altro
coinvolge la coscienza percettiva nella dimensione della coesistenza nello stesso tempo in cui
la rende umana.
Lungi dal dover affrontare lo spaventoso spettacolo di un mondo grezzo, la
percezione, quella del bambino in particolare, si trova accolta in un elemento umano sin dal
suo sorgere in quanto ha come oggetto primitivo le azioni degli altri soggetti223. L’innovazione
della nuova concezione di percezione porta sul piano dell’intersoggettività una nuova
possibilità di cogliere il soggetto percepente al livello sensibile ben prima che della
comprensione logica. Merleau-Ponty supera in questo senso la posizione di Scheler che
proponeva un’anteriorità dell’affettivo sul cognitivo nella prospettiva della quale
l’individuazione permane nel mistero e propone un’anteriorità dell’espressivo
intersoggettivo224 e del simbolico sul cognitivo puro.
Tirando le somme delle sue riflessioni sulle posizioni valutate in precedenza, siano
quelle di Marcel, Scheler o Kojève oppure della Gestalttheorie, Merleau-Ponty giunge ad
abbozzare una terza dialettica, al di là di quella fisica e vitale e prendere in considerazione il
221 Ivi. p. 66. 222 SC, p. 138. 223 Ivi. p. 179. 224 Merleau-Ponty trova nella psicologia del bambino e nella psicopatologia una base scientifica per la
dimostrazione che la percezione non raccoglie semplicemente i dati in un mondo di potenziali stimoli ma recepisce in maniera pratica e antepredicativa i significati-cose. Cfr. SC, pp. 98, 188.
83
significante intersoggettivo degli “oggetti d’uso”, di cui si costituisce l'ambiente naturale delle
coscienze percipienti: gli altri sono presenti immediatamente nel comportamento che li fa
essere al mondo, ma anche indirettamente per tutto quello che hanno potuto creare e istituire o
più semplicemente provocare.
Dal punto di vista metodologico, nelle prime opere, si attesta una certa esitazione tra
una fenomenologia di ispirazione criticista ed un’altra più puramente fenomenologica che
aprono ad una doppia filosofia dell’alterità e dell’intersoggettività. Una prima direzione è
tracciata nel tentativo di verificare se la posizione criticista riesca o meno a rendere
intelligibile l’esperienza dell’altro che incontra le difficoltà classiche della costituzione della
coscienza estranea; invece il secondo indirizzo ha come premessa un rapporto intersoggettivo
anteriore alla costituzione della soggettività e si muove verso una problematica originale della
genesi della coscienza infantile che però deve superare il rischio di ridurre la filosofia
dell’intersoggettività ad una semplice sociologia della conoscenza. Merleau-Ponty non
presenta queste vie né divergenti né distinte, ma nella sua ricerca di ridisegnare i rapporti fra
coscienza e natura si affaccia ad un’atteggiamento trascendentale compreso come “una
filosofia che tratta ogni realtà concepibile come un oggetto della coscienza”225.
A questo livello sorge però l’interrogativo sulla possibilità dialettica per
l'atteggiamento trascendentale di rendere conto dell’esperienza dell’altro considerandolo in
quanto oggetto della coscienza. Il rischio è quello di cozzare contro l'ostacolo solipsistico o se
non anche di affondare in un monadismo. Lo scivolamento della prima alla seconda via non
può comprendersi se non nella misura in cui si prende in calcolo la volontà di sorpassare gli
ostacoli che sorgono sempre nelle filosofie del soggetto nel momento in cui si tratta di
abbandonare la prospettiva egologica e si sta per abbordare quella pluralista.
L’alterità delle coscienze non si determina direttamente in questo contesto, come si è
visto anche nel caso dell’alternativa che Merleau-Ponty aveva trovato alla posizione kojèviana
della lotta per il riconoscimento alla quale aveva sostituito il riferimento comune delle
coscienze incarnate capaci di comportamenti simbolici attribuiti ad un mondo comune
attraverso la parola scambiata. “(…)il mondo si frantuma in una molteplicità di
rappresentazioni del mondo e non può più essere che il senso che esse hanno in comune
oppure l’invariante di un sistema di monadi”226.
225 SC, p. 217. 226 Ivi. p. 137.
84
Nel dialogo tra i soggetti, l’ambiente dell’organismo vivente si sublima in mondo
vero, come sfondo di un’irrealizzabilità227. Il riferimento merleau-pontyano è qui allo statuto
dell’immagine in quanto ciò che viene percepito dall’altro soggetto (alter ego) è solamente un
insieme di comportamenti (un esempio ne è la parola fondata su una gestualità in quanto
fenomeno dell’espressione). La coscienza dell’altro non è percepita come pura interiorità ma
attraverso uno spettacolo che essa esprime. In quest’ottica la struttura ego-alter ego è
immediatamente assimmetrica poiché “la supposizione di una coscienza estranea riporta
subito il mondo che mi è dato alla condizione di spettacolo privato”228.
Si può notare che i termini di questa problematica dell’esperienza dell’altro sono quelli
di una filosofia che fa ancora posto all’idea di interiorità. Lungi dall’essere il semplice residuo
di una filosofia del soggetto ancora all’opera, possiamo vedere la conseguenza inevitabile del
rifiuto della negatività e soprattutto della critica delle concezioni meccanicistiche del
comportamento. Se la coscienza non è un puro potere di negazione, essa deve avere uno
spessore229.
In questo modo, al livello vitale l’interiorità è già largamente conquistata al punto da
confondersi con quella della coscienza. Merleau-Ponty riprende l’idea hegeliana secondo la
quale la vita è un’apparizione dell’interno all’esterno per poter procedere all’identificazione
dell’interiorità dell’organismo che possiede un’unità di senso e quella della coscienza che
detiene il senso dell’interiorità. Questa posizione non sembra essere in contraddizione con il
rifiuto di descrivere una dialettica della Natura in quanto solo l’interiorità cosciente è ciò che
assume le strutture psichiche e vitali nella propria dialettica e diventa una coscienza incarnata.
Di conseguenza, nella prospettiva dell’incarnazione l’interiorità rappresenta il grado più
elevato dell’integrazione dell’unità delle strutture inferiori, o meglio, il concetto di corps
propre si avvicina a quello dell’Io al quale si devono rapportare tutte le rappresentazioni.
“Corpo vivo” è il sintagma che traduce attualmente il tedesco Leib, che notoriamente
Merleau-Ponty rende come “corpo proprio”. L’obiettivo centrale è dunque il
superamento del platonismo della percezione sensibile. In altre parole, Merleau-Ponty
rivendica la verità della percezione del mondo: siamo, appunto, un corpo nel mondo. Tuttavia
questa impostazione, come sottolinea soprattutto ne Il visibile e l’invisibile, risulta ancora
infiltrata dal dualismo, in quanto pensa ancora in termini di corpo (sia pure non cartesiano) 227 Ibid. 228 Ibid. 229 Lo stesso se l’organismo non è la somma dei circuiti prefissati che descrivono la riflessologia, esso deve
avere un versante interiore; in realtà, l'interiorità esiste fin dalla forma fisica descritta come una “unità interiore iscritta in un segmento di spazio (…) la forma fisica è un individuo”. (SC, p. 148).
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relazionato con il mondo. Secondo la prospettiva merleau-pontyana, si tratta di un altro modo
di pensare il soggetto: un soggetto incarnato e incorporato, però ancora considerato in
relazione con il mondo, che tuttavia resta altro rispetto al soggetto stesso. In questo senso
anche l’esperienza dell’altro può essere recepita al massimo come un’esteriorità che manifesta
un’interiorità nascosta: “Non c’è dunque un comportamento che attesta una coscienza pura
dietro di sé e l’altro non mi è mai dato come esatto equivalente di me stesso che penso”230.
È anche in questa cornice che si può intuire il carattere centrale della percezione
compresa come “atto che ci fa conoscere delle esistenze”231: è per essa che, in effetti, la
coscienza accede “alle cose stesse”232, nell’esatta misura in cui l’atto percettivo non coglie dei
dati grezzi, delle sensazioni che si tratterebbe di metter assieme, bensì delle strutture
significative, dei “significati di cose”233, colti in un movimento naturale della coscienza. E’ in
questo senso che Merleau-Ponty contesta la posizione di Descartes che non si spinge a
integrare la conoscenza della verità con la prova percettiva della realtà.
Il movimento che la coscienza compie è qui inteso alla luce del concetto di riduzione
fenomenologica dell’ultimo Husserl ed è compreso dal filosofo francese come il rivelamento
della costituzione del mondo reale nella sua specificità come atto proprio dell’esperienza
originaria resa possibile dalla percezione234. In questo modo il filosofo francese riesce a
concepire la percezione umana come irriducibile alla dialettica vitale dell’organismo e del suo
ambiente e come apertura ad una dimensione intersoggettiva. Difatti, les choses mêmes (le
cose stesse) alle quali la percezione da accesso non sono elementi di natura puramente fisica,
bensì cose che rivelano una “natura sociale”, di conseguenza degli oggetti culturali di cui fa
parte pure il comportamento dell’altro. Questa visione accoglie la possibilità di ammettere
significati interindividuali.
Merleau-Ponty legittima l’inserimento dialettico all’interno di una filosofia della
coscienza costituita del concetto di percezione come mezzo di risoluzione di un processo di
costituzione e di determinazione: “più in generale non si potrà giustapporre semplicemente da
una parte la vita della coscienza fuori da sé (…) e di un universo (…), in termini hegeliani: la
coscienza in sé e la coscienza in e per sé. Il problema della percezione è tutta interamente in
questa dualità”235.
230 Ivi. p. 137. 231 Ivi. p. 240. 232 Ivi. p. 236. 233 Ivi. p. 215. 234 Ivi. p. 236. 235 Ivi. p. 191.
86
2.2. Il superamento del solipsismo
In uno dei suoi corsi al Collège de France sull'esperienza dell'altro riassume le due
posizioni filosofiche che intende superare:
Il problema di cui ci occupiamo esiste in forma chiara da cent’anni. Perché? Per alcune filosofie non
esiste un problema dell’altro. Empirismo assoluto. – Per una tale filosofia l’io si riduce ad una serie
interna di stati di coscienza che io colgo in me stesso; l’altro costituisce un’altra serie di stati psicologici
distinti dai miei ed inaccessibili: la sua posizione apparirà dunque come inconcepibile. Ma per un
empirismo consequente non si può affermare l’io più di quanto si possa affermare l’altro, dal momento
che si ha esperienza solo di una serie di stati che si succedono, e non dell’io. D’altronde una tale
filosofia non pone nessuna certezza, ed ogni filosofia che si voglia empirica viene a trovarsi
costantemente in difficoltà. Concezione puramente riflessiva. – Lo spirito è capace di cogliersi con
certezza assoluta; io scopro me stesso come un soggetto assolutamente attivo, l’io è pura coincidenza
con se stesso, non può essere ridotto in nessun caso all’individualità di un singolo in una situazione
locale e temporale; lo spirito si definisce attraverso la coscienza di sé. L’io passa così sotto il dominio
del valore. L’altro non risiede nel suo corpo, dal momento che questo asserto è incompatibile con la
nozione di spirito, e d’altra parte lo spirito, per definizione, non può vedersi all’esterno (l’io può
incontrare se stesso ma solo all’interno della sua esperienza), quindi in una tale filosofia ciò che
chiamiamo l’esperienza dell’altro è puramente e semplicemente priva di senso. Ritengo che l’altro è per
sé ciò che io sono per me stesso (Descartes, Meditazioni)236.
La riabilitazione ontologica del sensibile com'è finora emersa, non si può esaurire nel
rapporto corpo-mondo, dal momento che risulta assente tutta la dimensione ontologica
dell'altro, dell'intersoggettività. Le cose del mondo, cose per il mio corpo, sembrano in un
primo momento solipsiste. Esse rendono ancora ragione alla riduzione fenomenologica: non
sono ancora le cose stesse, in quanto solo la costituzione dell'altro le può rendere davvero tali.
L'altro diventa in Merleau-Ponty un problema sia al livello epistemologico che
ontologico. La nostra esperienza mondana comporta innanzitutto l’interazione con gli altri
grazie all'azione, al desiderio, al linguaggio. La relazione con l’altro è immediata e la sua
esistenza sembra ovvia. Tuttavia, come il tempo in Agostino, questa esperienza è tanto
oscura, quando si tenta di pensarla, quanto essa è chiara quando viene vissuta.
Nella filosofia contemporanea l'altro è stato spesso descritto come un alter ego, come
un’estensione dell’io, un analogo di me stesso. Quello che è risultato difficile era rendere
236 L'esperienza dell'altro. Riassunto dei corsi 1949-1952 di Maurice Merleau-Ponty, Traduzione dal francese di Aldo Pardi e Leonardo Distaso http://www.kainos.it/numero2/sezioni/disvelamenti/mponty.html
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conto della distinzione dall’io senza che ciò comportasse la sua negazione in termini
conoscitivi. Se l'io può essere caratterizzato dall'identità del suo essere e del suo apparire,
come ciò che è soltanto per sé, rimane da decifrare in che modo può offrirsi a un altro, in che
modo l'ego, in quanto pura immanenza, può essere altro, cioè comportare un'esteriorità che lo
espone a me.
L’analisi si svolge, solitamente, attorno ai concetti di interiorità ed esteriorità. “La
relazione con l'altro esige un'inclusione dell'io nell'Essere, una dimensione d'essere che va al
di là della pura interiorità e sembra contraddire la trasparenza della coscienza nei confronti di
se stessa”237. Apparentemente l’esteriorità si caratterizza per l’io come mondo, altri uomini,
oggettualità. La costruzione dell’identità dell’ego sembra far leva, dunque con la
contrapposizione all’oggetto. Per una certa impostazione filosofica l’oggettività dell’altro e
dell’esteriorità in generale impedisce che una coscienza si possa manifestare come
contemporanea all’altro. L’alterità dell’alter ego esige la sua collocazione in una posizione di
inaccessibilità e allora cessa di essere ego. Volendo salvare l’ego dell’altro, si rischia
dall’altra parte di ritrovarsi in una condizione epistemologica di sovrapposizione e di non
distinzione, mancando perciò l’alterità.
Le filosofie che hanno affrontato questa tematica si sono trovate solitamente di fronte
a un bivio: o la strenua difesa dell’identità della coscienza che comporta l’esclusione delle
altre coscienze, oppure l’accettazione dell’esistenza degli altri nella forma dell’identità
circoscritta.
La prima posizione si nutre dei residui concettuali dell’idealismo e conduce a un
solispsismo esacerbato: l’impossibilità di fondare l’affermazione dell’esistenza degli altri
comporta una solitudine di principio della coscienza. Evidenziamo brevemente le aporie alle
quali convoglia il solipsismo.
Per enunciare questa filosofia e per rendere conto della sua esistenza effettiva come
indirizzata ad altri, il solipsismo si colloca in un orizzonte di intersoggettività. Un solipsismo
consapevole sarebbe impossibile, perché dovrebbe negare l'esistenza appunto degli altri, e
quindi affermare in ipotesi ciò che nega in tesi, rivelando indirettamente un legame
primordiale con gli altri da cui l'ego si differenzierebbe solo a posteriori. Per poter giustificare
la propria esistenza, un solipsismo conseguente non dovrebbe neppure essere formulato.
L’espressione stessa della solitudine ha senso soltanto sullo sfondo di una relazione originaria
con gli altri. “Essere soli significa entrare in relazione con l'altro nella forma della lacuna o
237 R. BARBARAS, Autrui, Quintette, 1989; tr. it. di L. Andreotti, L'Altro, Episteme, Milano 1996, p. 5.
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dell'assenza”238. Prima di poter dire “io” quindi, si è già immersi in una generalità anonima, in
un “si” primordiale239. La definizione stessa di individualità dell’io si rifà necessariamente ad
una situazione di ambiguità. Viceversa l’affermazione di se stessi è parallelamente
l’affermazione degli altri.
Merleau-Ponty applica queste concezioni anche alla psicologia infantile240. Osservando
ad esempio il comportamento dei bambini può notare, infatti, come dapprima essi vivano una
sociabilità “sincretica”, cioè uno stato di precomunicazione in cui non c'è ancora distinzione
tra l'io e l'altro, confusi in una situazione comune: a questo livello non ci sarebbero né io, né
altri, proprio per l'assenza di qualsiasi diaframma tra noi. Verso i tre anni, nel periodo della
costituzione dell’ego, avviene una frattura che non è tra la solitudine e il dialogo, ma tra uno
stato di indistinzione e di confusione e un sistema articolato io-altri.
La solitudine è per definizione correlata al concetto di altri: la sua affermazione
rispecchia una mancanza.
Dire che l’ego «prima» dell’altro è solo, è già situarlo in rapporto a un fantasma dell’altro, o per lo
meno concepire un mondo circostante in cui potrebbero esserci altri. La vera solitudine trascendentale
non è questa: essa ha luogo solo se l’altro non è nemmeno concepibile, e ciò esige che non ci sia
neppure un io per rivendicarla. Noi siamo veramente soli unicamente a condizione di non saperlo, la
nostra solitudine è questa stessa ignoranza. Lo «strato» o la «sfera» chiamata solipsistica è senza ego e
senza ipse241.
Il solipsismo torna, dunque, a affermare ciò che negava, visto che fonda la sua ipotesi
su presupposti contraddittori. Solo in un mondo in cui l’io sarebbe l’unico abitante senza la
conoscenza della possibilità di esistenza d’altri è accettabile un vero solipsismo.
La seconda alternativa comporta anch’essa delle difficoltà, in quanto essa prende
avvio dall’esigenza di porre il fondamento dell’esistenza della coscienza in se stessa. Nel
prendere atto dell’esperienza originaria di coesistenza essa giunge, così, ad affermare
l'esperienza effettiva degli altri come pluralità di coscienze “insulari”.
La filosofia tradizionale non incontra il problema dell'altro finché ignora il punto di
vista della coscienza e subordina l'essere alle condizioni della nostra coscienza. La natura
dell’io è definita in quanto essenza e in quanto appartenente ad una specie che comporta per
238 Ivi, p. 6. 239 Su questo concetto si ritornerà nel prossimo capitolo. 240 Cfr. BA. pp. 128-132 e L’institution, la passivité, pp. 63-77. 241 Il filosofo e la sua ombra, S, p. 228.
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principio una pluralità di esemplari. Tuttavia, dal momento in cui la filosofia si allontana da
questo punto di vista metafisico e tenta (già con Cartesio) di accedere all'essere a partire
dall'esperienza, vale a dire dalla coscienza, essa non può evitare di domandarsi quale sia il
fondamento del suo affermare l'esistenza dell'altro.
Il quesito che ne consegue riguarda la modalità di conoscere un essere che, in quanto
pura interiorità, è per principio inaccessibile. Una conoscenza di questo genere può essere
soltanto indiretta. L’unica possibilità di attestazione della presenza dell’altro sembra potersi
fondare unicamente su ciò che di tale essere mi può apparire, cioè sul suo corpo. L’operazione
conoscitiva si basa, dunque, su un'inferenza analogica. La somiglianza oggettiva tra il mio
corpo e quello dell'altro e la relazione vissuta tra la mia coscienza e il mio corpo, che assicura
la reciproca appartenenza, permetterbbe la presenza di una coscienza “in” quest'altro corpo.
Dal momento che il mio corpo è associato a una coscienza, ogni corpo che gli somiglia sarà
corpo di un'altra coscienza.
L’ostacolo dialettico che questa impostazione deve affrontare è duplice, conoscitivo e
ontologico. L’accertamento percettivo della presenza di un altro corpo da parte dell'io e
l’estensione della compresenza dei corpi agli spiriti devono trovare un fondamento. Quello
che si va cercando non è un rapporto di “cinestesi”242, ma la giustificazione “del passaggio dal
solus ipse all’altro, dalla cosa «solipsistica» alla cosa intersoggettiva”243.
Sono stati Max Scheler e, successivamente, Merleau-Ponty a mettere in evidenza i
problemi posti da un ragionamento di questo tipo. Il nostro filosofo ha sottolineato, infatti,
che se volessimo adottare il “metodo del pensiero isolante”, in cui, come fa, a suo avviso
Husserl, si separa l’esperienza del pensiero e il soggetto costruito, “il solus ipse dagli altri e
dalla Natura”244, allora ci troveremo di fronte a un insieme frammentato, discontinuo.
Anche dal punto di vista psicologico risulta difficile operare una simile analogia, in
quanto lo studio dell’età evolutiva fa notare che il neonato non è in grado di effettuare una
simile inferenza. Il bambino che intrattiene inizialmente una relazione con gli altri e
soprattutto con la madre, comprende immediatamente le espressioni umane. Questa capacità
di capire tramite il linguaggio gestuale, al di là dell’esattezza delle sue conclusioni, precede e
fonda il suo rapporto con una natura umana oggettiva. Egli percepisce delle espressioni
umane e l'uso del ragionamento, più tardi, permetterà soltanto di approfondire il significato di
queste espressioni. Oltre all'attitudine al ragionamento, al infante manca la comparazione su 242 Ivi, p. 227. 243 Ibid. 244 Ibid.
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cui si fonda l'analogia: il bambino non dispone immediatamente di un'immagine oggettiva del
proprio corpo (“lo «strato solipsistico» è anche transitivismo e confusione dell’io nell’altro” 245), per via del suo “egocentrismo” e se anche la possedesse, essa attesterebbe soltanto una
debole somiglianza rispetto al corpo dell'adulto.
Questa visione univoca si complica ulteriormente se vista nella sua reciprocità:
Il bambino che chiede alla madre di consolare lui dei dolori che essa soffre è pur sempre volto verso se
stesso. (…) il bambino che dà per scontati la devozione e l’amore attesta la realtà di questo amor,
dimostra che egli lo comprende e che, nel suo modo debole e passivo, vi svolge la propria parte. Nello
star di fronte del Füreinander c’è un accoppiamento di amore ed egoismo che cancella i loro limiti, una
identificazione che va oltre il solipsismo, tanto in colui che domina quanto in colei che vive nella
dedizione. Egoismo e altruismo si trovano su uno sfondo di appartenenza allo stesso mondo, e voler
costruire questo fenomeno a partire da uno strato solipsistico significa renderlo impossibile (…)246
L'ipotesi dell'inferenza richiede, dunque, prima di tutto che una comparazione possa
essere effettuata. La mia percezione del corpo dell'altro, però, è essenzialmente visiva, mentre
la percezione del mio corpo è assai lacunosa sul piano della visione: essa è caratterizzata dal
fatto che io non posso “farne il giro”. Del mio corpo, io ho un sentimento interiore del tutto
particolare, che gli psicologi chiamano cinestesi247. La difficoltà che sorge ora riguarda la
possibilità di stabilire una comparazione tra un corpo conosciuto visivamente e un corpo
vissuto interiormente. Il mio corpo e quello dell'altro si offrono secondo modalità talmente
differenti, da impedire una relazione oggettiva. Pur ammettendo che io possa riconoscere una
somiglianza, questa mi permetterebbe di inferire soltanto la mia presenza della mia coscienza
nell'altro, ma in nessun modo quella di un'altra coscienza. Siccome l'affermazione nell'altro è
fondata su un ragionamento, essa viene ricondotta a una proiezione della mia coscienza in lui
e non alla scoperta di un'altra esistenza. Così l'ipotesi del ragionamento per analogia non può
in nessun caso rendere conto della nostra esperienza dell'altro.
Al livello razionale l'altro si presenta a me in prima istanza come corpo oggettivo, ma
ciò non è sufficiente per offrire la certezza dell'esistenza di una coscienza: potrebbe sempre
darsi che io avessi a che fare con un manichino estremamente sofisticato.
245 Ivi, p. 228. 246 Ivi, pp. 228-289. 247 Si tratta di una sensazione generale che sta alla base della cosiddetta “immagine del corpo” o “schema corporeo” e, per suo tramite, della “coscienza di sé” e delle funzioni dell'Io. La cenestesi inoltre, per le sue polarità fondamentali di benessere e di malessere, è la sorgente primordiale del tono affettivo, cioè dell'umore e costituisce quindi un fattore psicodinamico della massima importanza.
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A rigore, io non potrei mai pensare il pensiero dell'altro: posso pensare che egli pensa, costruire, dietro
questo manichino, una autopresenza sul modello della mia, ma è ancora me stesso che io metto in lui, e
allora c'è veramente « introiezione»248.
Il corpo dell'altro non si presenta come il segno, da interpretare, di un'altra coscienza,
bensì immediatamente come presenza dell'altro. Infine, il ragionamento per analogia
presuppone ciò che pretende di fondare, perché non si può inferire un'altra coscienza a partire
da un corpo, salvo il caso in cui questo corpo si presenti immediatamente come corpo
dell'altro.
L’ipotesi di una coscienza autotrasparente e dai confini circoscritti non permette, per
principio, di accendere a un'altra coscienza e, se ciò avvenisse, la mia coscienza confluirebbe
quella dell'altro, costituendo un'unica coscienza, cosicché parlare dell'altro sarebbe privo di
senso. Sembra dunque che l'esperienza dell'altro, lungi dall'essere un'esperienza tra le altre,
metta in discussione l'opposizione tra soggetto e oggetto, che Merleau-Ponty cerca di
superare. Prendere atto della certezza dell'altro significa allora riconoscere un modo di essere
che sfugge tanto all'immanenza della coscienza, quanto all'esteriorità pura della cosa.
L'esperienza dell'altro è dunque quell'esperienza che ci invita a interrogare il senso stesso
dell'esperienza e ad approfondire la nozione di coscienza al di là della pura interiorità
attraverso la quale essa è stata inizialmente definita. Invece di affrontare il campo
dell'esperienza a partire da una definizione preliminare del cogito, bisogna recuperare le
categorie di coscienza e di oggetto, a partire dall'esperienza stessa, sulla base di questo altro io
che essa ci svela. Soltanto una filosofia che vuole essere totalmente fedele all'esperienza, nel
modo in cui questa viene effettivamente vissuta, può pretendere di rendere conto
dell'apparizione dell'altro. E' questa la via imboccata dalla fenomenologia.
Occorre che io sia la mia esteriorità e che il corpo dell'altro sia lui stesso. Questo
paradosso e questa dialettica dell'Ego e dell'Alter Ego sono possibili solo se l'Ego e l'Alter
Ego vengono definiti dalla loro situazione e non liberamente da ogni inerenza, cioè se la
filosofia non si conclude con il ritorno all'io e se con la riflessione io scopro non solo la mia
autopresenza ma anche la possibilità di uno “spettatore estraneo”, cioè ancora se, nel
momento stesso in cui esperisco la mia esistenza, e sino a questa punta estrema della
riflessione, io manco ancora di quella densità assoluta che mi farebbe uscire dal tempo e
248 S, pp. 222-223.
92
scopro in me una specie di debolezza interna che mi impedisce di essere assolutamente
individuo e mi espone allo sguardo degli altri come un uomo fra gli uomini.
Non vi è dunque alcuna appresentazione analogica in senso stretto, bensì
un'espressione immediata dell'altro nel suo corpo e come suo corpo, un'espressione
corrispondente alla mia propria incarnazione. Se l'altro deve poter apparire, non può farlo nel
modo di una faccia, cioè di un oggetto in cui si appresenterebbe una coscienza – nel corpo
non può essere indicato questo altro assoluto – ma in forma indiretta, mediante il suo
comportamento.
L'altro non è davanti a me e nemmeno si confonde con la mia coscienza: egli è dalla
mia parte come prolungamento del mio “decentramento”. Se è vero che egli non si confonde
con me, resta tuttavia vero come aveva visto Sartre, che io non posso guardarlo di fronte,
senza farne una cosa del mondo: l'altro è piuttosto quella linea di fuga indicata dalla
profondità del mio paesaggio, una sorta di complice estraneo e familiare al tempo stesso, che
partecipa alla mia connivenza con il mondo, ma verso cui io non mi posso voltare.
Così il mio rapporto originario con l'altro è dell'ordine del “con”: non ci siamo io e
l'altro, uno di fronte all'altro nel mondo, ma un essere-insieme inerente al fatto che ciascuno di
noi è apertura al mondo.
Se si dice che si muore da soli, non si può dedurre da questa affermazione che si vive da soli, e se solo il
dolore e la morte sono consultati quando si tratta di definire la soggettività, allora la vita con gli altri e
nel mondo sarà per essa impossibile249.
Il mondo mi annuncia la presenza degli altri o, meglio, la mia compresenza con gli
altri, esattamente come l'utensile reca in sé un complesso di possibilità anonime. Più che
essere io a farne uso, è il martello che mi sollecita, a partire dall'uso di cui esso è la
concretizzazione; esso è ciò di cui ci “si” serve (“on” ), cosicché una compresenza con gli altri
è inerente alla sua utilizzazione. Nell'uso dello strumento, e più in generale nella percezione e
nell'azione, io sono proiettato fuori di me, cioè sono un si (“on” ) anonimo, piuttosto che un
“io”; sono perciò situato originariamente in una dimensione intersoggettiva.
Si deve concepire non già un’anima del mondo o del gruppo o della coppia, di cui saremmo strumenti,
ma un Si primordiale che ha la sua autenticità, che del resto non viene mai meno, che sostiene le più
grandi passioni dell’adulto, e di cui ogni percezione rinnova in noi l’esperienza, poiché, come abbiamo
249 Ivi, p. 229.
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visto, a questo livello la comunicazione non costituisce un problema, e diviene problematica solo se io
dimentico il campo di percezione per ridurmi a ciò che la riflessione farà di me250.
E' per questo che la solitudine dell'io non deve essere compresa per definizione, bensì
come una modalità carente del suo rapporto con gli altri, come presenza all'intersoggettività
originaria secondo la modalità della mancanza e dell'assenza. Una filosofia solipsistica non è
una filosofia conseguente, bensì una filosofia che ignora il radicamento di ogni coscienza,
anche teorica, in un universo di coesistenza.
Il limite di una tale prospettiva potrebbe apparire se la dualità io-altro, a partire dalla
quale l'altro produce senso, venisse relegata solo nell’ambito dell'anonimato percettivo. Il Si
primordiale rischia di inghiottire la differenza tra l’io e l’altro in un anonimato indistinto.
Nello sforzo di raggiungere l’altro l’io rischia snaturare la propria identità: In che misura
l'altro può essere qualificato come altro, se io posso coglierlo soltanto rendendomi altro da me
stesso?
Alcuni esegeti251 hanno criticato, invero, questa idea dell’indifferenziazione originaria
in cui si tende ad assorbire i termini della relazione io-altro su cui poggia, rendendola una
coesistenza pura, in cui gli esseri umani comunicano ma senza avere un nome. Il rischio,
invero, è di dissolvere l'armonia in una “genericità in cui nessuno incontra più nessuno,
perché ognuno non riconosce neppure se stesso. L'armonia esige termini da conciliare e
l'esperienza dell'altro, se anche non può esaurirsi nell'esperienza dell'alienazione, deve tuttavia
poter includere la dimensione del conflitto, cioè fondarsi su una differenza”252.
In realtà, il fenomenologo Merleau-Ponty, preoccupato di rimanere fedele
all'esperienza, giunge alla conclusione che se l'esperienza dell'altro deve essere possibile,
bisogna rinunciare all'opposizione immediata tra soggetto e oggetto, e ricercare
un'intersoggettività che non sia relazione tra pure soggettività.
Se «a partire» dal corpo proprio io posso capire il corpo e l’esistenza dell’altro, se la compresenza della
mia «coscienza» e del mio «corpo» si prolunga nella compresenza dell’altro e di me, è perché l’«io
posso» e il «l’altro esiste» appartengono fin d’ora allo stesso mondo, perché il corpo proprio è
250 Ibid. 251 Renaud Barbaras, uno dei massimi studiosi della filosofia merleau-pontyana, si è soffermato sovente su
questo punto di criticità della teoria dell’intercorporeità. Tuttavia, come si vedrà in seguito, il nostro filosofo è riuscito a gettare le basi per un incontro tra i soggetti in cui si prospetta un reciproco riconoscimento delle identità e delle differenze, al livello del linguaggio. Barbaras stesso riconosce che la prematura scomparsa dell’autore di Il visibile e l’invisibile abbia interrotto il progetto di approfondimento del tema dell’intersoggettività.
252 BARBARAS, op.cit. p. 64.
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premonizione dell’altro e l’Einfühlung eco della mia incarnazione, perché un bagliore di senso li rende
sostituibili nella presenza assoluta delle origini253.
È la percezione, non il pensiero che determina la costituzione d'altri: è un percipiente
che “pone” l'altro, una cosa della percezione ciò che viene colto, un percipiente ciò che viene
“posto”. Allora il solipsismo del corpo proprio e del mondo è, in realtà, apertura all'altro,
perché il corpo proprio è, come abbiamo sopra ricordato, sempre fuori di sé nel mondo.
Merleau-Ponty riesce a sottrarsi al pericolo di una posizione solipsistica che il
permanere nelle strutture concettuali di una filosofia della rappresentazione comporterebbe.
Al contrario egli non considera l’Io sede di rappresentazioni ma di intenzioni, così che il
rapporto tra l’interiore invisibile e l’esteriore visibile può essere pensato in una logica diversa
da quella del significante e del significato254. In questa ottica, l’interiorità della coscienza
estranea non è più un ostacolo all’esperienza dell’altro poiché possiamo avere particolarmente
la percezione interna degli altri uomini, per quanto consideriamo il loro corpo come il campo
di espressione delle loro esperienze interne, dei loro sentimenti intimi.
Questa direzione consente di avviare una filosofia dell’esperienza dell’altro verso una
vera e propria filosofia dell’intersoggettività nella misura in cui il rapporto con l’altro non è
più uno di imitazione né di analogia, in base al quale l’esperienza della coscienza estranea
sarebbe possibile per evocazione delle proprie esperienze interne, bensì lo si concepisce come
un’appercezione che è anteriore alla coscienza e contribuisce a compiere la sua costituzione.
In quest’ottica le coscienze incarnate possono confermarsi reciprocamente nel fatto stesso che
la loro base corporale le offre la possibilità di materializzare un’interiorità che rimarrebbe
inaccessibile altrimenti. Il solipsismo viene aggirato grazie al concetto di corpo che introduce
le coscienze umane nella dimensione comune del sensibile. Merleau-Ponty pensa che
nell'esperienza dei comportamenti, l'io superi effettivamente l'alternativa del per sé e dell'in
sé.
La dimensione comune del sensibile si propone dunque allo stesso tempo come
intermediaria, ambigua e trascendente. Merleau-Ponty cerca di superare anche il monadismo,
che intende la percezione come operazione del soggetto pensante che si trova, senza uscire
dalla sua propria sfera il segno che esprime le altre sostanze pensanti, in un rapporto reciproco
regolato in anticipo in ogni sostanza dell'universo. Nella visione leibniziana l’incontro
253 Il filosofo e la sua ombra, in S, p. 229. 254 Sembra che Merleau-Ponty abbia ripreso, in un primo momento, la riflessione di Max Scheller riguardante il rapporto simbolico e non causale dell’espressione con l’espresso.
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dell’altro si fa su un piano mondano, nella trascendenza e, in una certa misura,
nell’oggettività. Il collocamento tra parentesi del mondo, nella riduzione, comprometterebbe
totalmente in queste condizioni l’esperienza dell’altro. Per soggettiva che sia, la percezione ci
apre ad un mondo comune che sembra essere l’unica cornice possibile per un’esperienza
dell’intersoggettività. “Ho coscienza di percepire il mondo, e, preso in lui dei comportamenti
che mirano il mondo stesso numericamente uno”255.
Quando Merleau-Ponty afferma che “il mondo è ciò che noi percepiamo”256 bisogna
prendere alla lettera questo noi in quanto il rapporto col mondo non è singolare o solipsistico.
La percezione che lo rende effettivo è un fenomeno generale che viene emanato da una
struttura ancora anonima, da una base corporale la cui presa sul sensibile non è individuale ma
individuante.
La fenomenologia merleau-pontyana rappresenta, da questo punto di vista,
l'esplorazione minuziosa di questo trascendentale intersoggettivo e antepredicativo al quale
partecipiamo prima tramite il nostro corpo che ci apre poi a questo mondo percepito dove il
senso è anteriore ad ogni costituzione e che è sempre già là quando spunta la soggettività. Ad
ogni livello l’intersoggettività prende un senso originale; essa è di prima intercorporeità, poi
intersensorialità e infine vero mondo della cultura.
Ciò implica una reale conversione metodologica, perché non si tratta di ricadere nei
presupposti delle filosofie che considerano l’intersoggettività al massimo come una pluralità
problematica di coscienze che non possono uguagliare la loro riflessione a quello che esse
ricevono realmente le une dalle altre, tanto la loro genesi è trascurata e la loro trasparenza a se
stesse o la loro inconsistenza, affermate come i postulati indiscutibili.
Alla staticità o alla mobilità di queste filosofie, la fenomenologia merleau-pontyana
contrappone un singolare dinamismo nel quale verranno riprese e ripensate le nozioni
husserliane, bergsoniane e scheleriane le più “fluenti”, vale a dire tutte quelle nozioni che
mostrano la percezione allo stato nascente, la sintesi in marcia, la storicità della soggettività,
la partecipazione della coscienza ingenua e non tetica all'elemento del sensibile compreso
come l'immediato intersoggettivo che precede il mediato soggettivo ed individuale.
In questo modo questa filosofia dell’intersoggettività è anche una filosofia che riabilita
la passività257 come forma di trasgressione del solipsismo contro l'attività pura della coscienza
come forma di costituzione acosmica del mondo e di sé, dunque una filosofia che, non 255 SC, p. 137. 256 FP, p. 24. 257 "Con il problema del sentire noi riscopriamo quello della passività e dell'associazione.", FP, p. 65.
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abbandonando per niente l'esigenza di razionalità, smette di credere che la spiegazione del
mistero del mondo richieda una riflessione del semplice cogito o della sua esperienza
individuale del mondo, un stile cartesiano o humiano, ma che si installa ne “il sistema Io-
altri-cose allo stato nascente”258 per portare all'espressione pura del suo proprio senso
l'esperienza muta del monde
L'abbandono della tesi identitaria259 comune all'idealismo ed all'empirismo è la vera
chiave delle critiche formulate da Merleau-Ponty, soprattutto nella Fenomenologia della
percezione. Si tratta di comprendere diversamente la promozione della coscienza, che non
possiede il pieno significato dei suoi oggetti contro quella che ne padroneggia il senso
costruendolo per le sue sintesi.
Abbandonando dunque definitivamente il punto di vista dello spettatore imparziale che si cala
dall'alto nel mondo, la filosofia deve assistere al sorgere della ragione piuttosto che
considerarla come data. In funzione di questo bisognerà affrontare il mistero dell'immanenza
del senso che il pensiero classico aveva eluso attribuendo alla coscienza tutti i poteri della
sintesi e della costituzione. Questo implica che nel ritorno al mondo la prima delle esperienze
sarà, evidentemente, quella del corpo e delle cose, vale a dire quella del significato aderente,
ed immediatamente colto, di una condotta e di un significato, di un viso e di un’espressione,
di una firma e di una personalità, di un attrezzo e di una praxis umana: il psichismo altrui
diventa un oggetto immediato come insieme impregnato di un significato immanente.
In questa logica di campo, l'interno e l'esterno appariranno due versanti tardivamente
distinti di un'esperienza unica e prima; l'introspezione, il senso “privato” di un'esperienza,
l’ineffabilità di una sensazione saranno considerati come gli effetti perversi di un approccio
solipsistico o egologico (egoico) del campo che ha in realtà la vocazione di essere prospettato
intersoggettivamente.
258 Ivi. p. 69. 259 Questa tesi potrebbe anche essere chiamata ipseista in quanto consiste nel delimitare a priori o a posteriori la coscienza separandola dai suoi contenuti e dalle altre coscienze. In questo modo “la coscienza percettiva per esempio è confusa con i termini esatti della coscienza scientifica e l'indeterminato non rientra nella definizione dello spirito” (FP, p. 36). La percezione, invece, è interpretata come un’intellezione confusa (Cfr. Ivi, p. 48), il corpo proprio è confuso col corpo anatomico, la “mia prospettiva” sul mondo è totalmente separata da quella delle altre coscienze, inferite solamente e percepite in primo luogo come degli automi (Cfr. Ivi, p.68). L’ipseismo è un dualismo solipsista e positivista. Merleau-Ponty gli oppone un concezione “fluente” della soggettività che implica per esempio il considerare un rapporto di alterità di sé a sé attraverso gli atti di sintesi temporale. Il pensiero stesso è definito come una forma di ripresa, “il passaggio dell’indeterminato al determinato, questa ripresa ad ogni istante della propria storia nell’unità di un senso nuovo, è il pensiero stesso” (Cfr. Ivi. p. 39). L'intersoggettività serve qui ancora da guida trascendentale: la ripresa può e deve essere anche quella dell’altro, non è esclusiva del pensiero dell’altro, inestricabilmente legato alla mia fino alle sue proprie condizioni di esistenza.
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Nell’intento di diminuire la distanza tra l'approccio soggettivista, o solipsista, e quello
oggettivista del mondo, la nozione di campo acquista il valore di luogo della ripresa di un
sintesi già tentata da Merleau-Ponty anche nei suoi lavori anteriori, quella della nuova
psicologia e della nuova fenomenologia260. Tutte le dimensioni fondamentali si radicano nel
campo di presenza e prendono un senso nella struttura che esso delimita, le cui nervature sono
i nostri sensi, e che è dunque abitata dal nostro corpo. “Che cosa abbiamo dunque in
principio? Non un multiplo dato con una apercezione sintetica che lo percorre e lo attraversa
di parte in parte, ma un certo campo percettivo sullo sfondo del mondo”261. I sensi sono dei
campi: “la visione, è un pensiero assoggettato a un certo campo ed è lì che lo chiamiamo
senso”262. L’applicazione del corpo al suo campo di presenza è la vera sintesi da cui risultano
lo spazio, il tempo, il movimento, in virtù stessa del carattere profondamente diacronico della
differenza figura-sfondo nella quale ciò che è effettivamente percepito dipende da ciò che non
può esserlo (il visibile dell’invisibile), come da ciò che non lo è attualmente.
Allo stesso modo, la struttura orizzonte-presenza è una struttura trans-temporale o
trans-spaziale, il crogiolo di queste dimensioni, almeno nella misura in cui “la percezione del
mondo è solamente una dilatazione del mio campo di presenza”263. Lo spazio ed il movimento
traggono dunque il loro fondamento dal potere dello sguardo e dal suo ancoraggio nella
percezione localizzata: “la relazione dal mobile al suo fondo passa attraverso il nostro
corpo”264. Probabilmente più importante risulta essere il carattere profondamente immanente
della struttura del campo. La trascendenza e l’alterità sono delle astrazioni in rapporto a
questo suolo originario, compresa anche l’alterità degli altri.
La nozione di campo premette così di definire il terreno per incontro effettivo dei
soggetti, il luogo dell’articolazione delle loro prospettive uniche, la cornice nella quale
l’intersoggettività sarà prima di tutto intercorporeità, il mondo intermondo. Nel ritorno al
flusso intersoggettivo, attingendo al potere di aprirmi alle temporalità che non vivo,
l’orizzonte solipsista si trasforma in orizzonte sociale, poiché due temporalità non si
260 In questo senso va interpretata anche l’opposizione topica, nella Psicologia della Forma, tra la figura e lo sfondo che viene accostata alla nozione husserliana di “struttura d’orizzonte”: “quando la Gestalttheorie ci dice che una figura su uno sfondo è il dato più semplice che possiamo ottenere, non si tratta di un carattere contingente della percezione di fatto, si tratta della definizione stessa del fenomeno percettivo, quel senso in cui del fenomeno non si può dire percezione. Il “qualche cosa” percettivo è sempre in mezzo a qualcos’altro, fa sempre parte di un campo”. (Ivi. p. 10). 261 Ivi. p. 279. 262 Ivi. p. 251. 263 Ivi. pp. 350-351. 264 Ivi. p. 322.
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escludono come due coscienze. In questo contesto la libertà degli uni risulta da quella degli
altri al posto di trovarne i suoi limiti, come un campo che si allarga265.
I differenti livelli di questa logica di campo permettono di seguire gradualmente le
conquiste che essa permette di fare sul piano dell’intersoggettività.
2.3. L'intercorporeità
In questa prospettiva si attenuano le difficoltà che l'esperienza dell'altro opponeva alla
riflessione. Come oggetto per un soggetto puro, come oggetto che si confonde con ciò a cui in
esso ci si rivolge, il mondo escluderebbe l'apparizione dell'altro; quest'ultimo
corrisponderebbe al sorgere di un altro potere costituente, per opera del quale il primo
soggetto diventerebbe paradossalmente oggetto costituito: “quando dico che il mio corpo è
vedente, c'è, nell'esperienza che io ne ho, qualcosa che fonda e annuncia la veduta che ne ha
l'altro o quella che ne dà lo specchio”266. Merleau-Ponty usa spesso la metafora dello specchio
come analogia della reversibilità dell'apparizione dell'altro: “Quanto allo specchio, esso è lo
strumento di una magia universale che trasforma le cose in spettacoli e gli spettacoli in cose,
me stesso nell'altro e l'altro in me stesso”267.
Il concetto di reciprocità del percepire viene a confermare la presenza dell'altro:
La mia mano destra assisteva all'avvento del tatto attivo nella mia mano sinistra: non diversamente si
anima davanti a me il corpo altrui, quando stringo la mano di un altro uomo o quando soltanto lo
guardo. Apprendendo che il mio corpo è «cosa senziente», che è eccitabile (reizbar) – il mio corpo, e
non solo la mia «coscienza» -, mi sono preparato a comprendere che esistono altri animalia e
possibilmente altri uomini. Si deve pur riconoscere che in ciò non c’è né comparazione, né analogia, né
proiezione o «introiezione». Se, stringendo la mano dell'altro uomo, io ho l'evidenza del suo esserci, è
perché essa si sostituisce alla mia mano sinistra, perché il mio corpo si annette il corpo dell’altro in
quella «specie di riflessione» di cui è paradossalmente la sede. Le mie due mani sono «compresenti» o
«coesistono» in quanto sono le mani di un sol corpo: l’altro appare per estensione di questa
compresenza, lui e io siamo come gli organi di un’unica intercorporeità268.
265 Cfr. Ivi. p. 500. 266 VI, p. 284. 267 OS, p. 27. 268 S, p 221.
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Ora, in realtà, il mondo è per una coscienza, ma per una coscienza che non è altro che
apertura al mondo e che ne preserva la trascendenza nel movimento stesso tramite il quale
essa lo fa apparire. In quanto appartenente a un corpo, a un soggetto pre-personale, la
presenza del mondo non esclude che esso si dia ad altri e che di conseguenza l'altro vi faccia
la sua apparizione: “tutto ciò che è vero è mio, ma anche tutto ciò che è mio è vero e rivendica
come testimone non solo me stesso in ciò che ho di limitato, ma ancora un altro X e, al limite,
uno spettatore assoluto”269.
La percezione scopre il mondo secondo una dimensione di spessore tale da contenere
di che nutrire altre percezioni, oltre la mia. In realtà, non bisogna dire che io vedo il mondo,
ma che la mia visione cristallizza una visibilità generale in cui si può iscrivere una pluralità.
C'è una forma che mi assomiglia, occupata in compiti segreti, posseduta da un sogno
sconosciuto. Improvvisamente un barlume appare nei suoi occhi, lo sguardo si leva e viene a
prendere le stesse cose che vedo io. Dico che c'è un uomo, non un manichino, così come vedo
che qui c'è la tavola e non una prospettiva o una parvenza della tavola.
Io e il mondo non formiamo più una sfera chiusa nella quale l'altro non avrebbe posto;
si produce uno scarto minimo, in cui l'altro può inserirsi.
Le cose che il corpo percepisce sarebbero veramente l'essere solo se io sapessi che sono viste da altri,
che sono presuntivamente visibili per ogni spettatore degno di questo nome. Pertanto, l'in sé apparirà
solamente dopo la costituzione dell'altro; ma le fasi consecutive che ancora ce ne separano sono affini
allo svelamento del mio corpo, si valgono, come vedremo, di un universale che esso ha già fatto
apparire270.
Il ritorno alle cose stesse, (blosze Sachen) propone una dimensione “prima ogni
riflessione”271 che pure nella quotidianità, “nella conversazione, nell'uso della vita, teniamo un
“atteggiamento personalistico”272 che ci fa capire che “la nostra più naturale vita d'uomini si
protende verso un ambito ontologico diverso da quello dell'in sé”.
Io vivo il mondo come ciò che mi circonda, mi travalica, sebbene io lo possieda, come
ciò che, frequentato da una corporeità, piuttosto che posseduto nell'immanenza, può offrirsi
allora ad altri corpi. Prima di essere intesa come un legame degli spiriti, come
un'intersoggettività, l'esperienza d'altri è estesiologica, percezione di un'altra sensibilità, su cui
269 PM, p.139 (tr. n.). 270 S, p. 221. 271 Ivi. p.216. 272 Ibid.
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si fonda l'altro uomo e l'altro pensiero. Essere l'uno per l'altro significa che l'uno appaia
all'altro, significa che l'uno e l'altro abbiano un'esteriorità, anzi, che siano, ognuno, la propria
esteriorità.
Siamo in presenza di un corpo umano quando, fra vedente e visibile, fra chi tocca e chi è toccato, fra un
occhio e l'altro, fra una mano e un'altra mano, avviene una sorta di reincrociarsi, quando si accende la
scintilla della percezione sensibile, quando divampa questo fuoco che non cesserà di ardere finché un
accidente corporeo non avrà disfatto quel che nessun accidente avrebbe potuto fare...273.
Che l'altro uomo veda, che l’io condivida il mondo (il mio mondo sensibile è anche il
suo) viene confermato “incontestabilmente” dal fatto che “assisto alla sua visione, essa si
vede nella presa dei suoi occhi sullo spettacolo”. La visione e il pensiero nella reciprocità si
dissipano decentrandosi “vicendevolmente”:
Tutto ciò che dalla mia parte si fonda sull'animale di percezioni e di movimenti, tutto ciò che potrò mai
costruire su di esso – anche il mio «pensiero», ma come modalizzazione della mia presenza al mondo –
cade di colpo nell'altro274.
Tuttavia, non è il sorgere imperioso della soggettività dell'altro a produrre lo scarto tra
me e il mondo, facendogli dono di una profondità nuova, come avviene in Sartre: l'essere-al
mondo si troverebbe allora degradato al rango di oggetto. E' invece perché il soggetto
trascendentale è per essenza un soggetto incarnato, che l'altro può apparire o, meglio, che il
soggetto deve essere originariamente definito come relazione con l'altro. Così,
se in virtù della riflessione io trovo in me stesso, con il soggetto percipiente, un soggetto pre-personale,
dato a se stesso; se le mie percezioni rimangono eccentriche in rapporto a me come centro di iniziative e
di giudizi; se il mondo percepito rimane in uno stato di neutralità – né oggetto verificato, né sogno
riconosciuto come tale – allora tutto ciò che appare nel mondo non è subito dispiegato di fronte a me, e
il comportamento dell'altro può figurarvi275.
Se la mia coscienza ha un corpo, il mondo cessa di essere un puro oggetto senza vita e
vi sono dei corpi che possono avere delle coscienze. Resta il fatto che l'altro deve apparire.
273 OS, p.20. 274 S, p. 223. 275 FP, p. 458.
101
Ora, io non posso esigere da lui ciò che io stesso non sono: è dunque come corpo che l'altro
apparirà; l'intersoggettività sarà dunque “intercorporeità”.
Non si tratta di capire in che modo un corpo-oggetto possa rivelare l'esistenza di una
coscienza (cosa che sarebbe assolutamente impossibile), ma di riconoscere che l'altro, al pari
di me, non si dà mai come corpo oggettivo. L'altro si manifesta come un comportamento.
Quando egli fa un gesto di collera, io non inferisco il sentimento della collera, per analogia
con il mio, sulla base di un mutamento oggettivo: la collera si legge nel suo gesto, coincide
con esso. Il gesto non è un segno della collera, esso “è” collera, e accade che i miei sentimenti
mi siano rivelati dai comportamenti a cui essi “danno luogo”. L'esperienza dell'altro deve
allora essere descritta come relazione interna tra comportamenti.
Ora, in virtù del nostro punto di partenza, questa relazione non pone problemi; se il
corpo è eccentrico a se stesso, se il soggetto non è mai propriamente identico a se stesso, può
sdoppiarsi: il gesto dell'altro è allora colto come gesto dell'altro in quanto richiama una
possibilità corporale che, anonima, non è mai stata soltanto mia. Il gesto dell'altro avanza la
pretesa di inserirsi nel mio comportamento come una possibilità che, pur essendo altra, resta
ancora “mia”, cioè rivela un sé, e questo avviene proprio nella misura in cui il mio
comportamento non è propriamente mio, ma esce dai confini di se stesso. Così il gesto di chi
si protegge dal sole è immediatamente vissuto al livello del mio corpo come risposta di ciò
che, al pari di me, è esposto alla luce, o piuttosto come il prolungamento di un abbaglio che
rimane anonimo.
Non c'è dunque un corpo abitato da una coscienza e, di fronte ad esso, un corpo
dell'altro; vi è invece un'unica corporeità generale, in seno alla quale alcuni comportamenti
possono richiamarsi a vicenda. Il mio corpo
percepisce il corpo dell'altro e vi trova come un prolungamento miracoloso delle proprie intenzioni, una
maniera familiare di trattare il mondo. Ormai, come le parti del mio corpo formano insieme un sistema,
così il corpo altrui e il mio sono un tutto unico, il rovescio e il diritto di un solo fenomeno; l'esistenza
anonima, di cui il mio corpo è in ogni momento la traccia, abita contemporaneamente questi due
corpi276.
Il principio della soluzione sta dunque nella scoperta di come la coscienza incarnata
sia esterna a se stessa. In questa prospettiva, l'intersoggettività non può essere rigorosamente
276 Ivi. p.459.
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circoscritta a livello della relazione tra me e l'altro: in un certo senso, essa è in gioco già a
livello del corpo-proprio.
Il rapporto con l'altro rappresenta dunque soltanto un'estensione del rapporto del corpo
con se stesso: altra rispetto a se stessa, in grado di possedersi soltanto nell'atto di essere
spossessata da se stessa, la soggettività incarnata può aprirsi ad altri.
Dallo sguardo, siamo passati all'espressione, nel senso in cui si dice di un volto che
esso ha un'espressione di sorpresa. L'altro non è una faccia; è la presenza di un'esistenza, di
un'altra percezione; ma in quanto essere-al-mondo, e non pura soggettività, egli non è più uno
sguardo e, dunque, continua ad apparire nel mondo.
E' vero che, quando l'altro appare, egli non spunta di fronte a me sulla superficie del
mondo, ma da ciò non si deve trarre la conclusione che la condizione della relazione che ho
con lui è che egli si assenti dal mondo: la sua faccia sfuma dietro la sua fisionomia, diviene
“parlante”, espressiva, e il mondo si supera in essa, trovando l'accesso a una nuova capacità di
significare. L'altro è espressione, non nel senso che certi gesti oggettivi rimanderebbero a un
vissuto psichico, ma perché ciò che è espresso non si distingue dalla propria espressione:
facendosi corpo, l'altro fa sì che il corpo sia significante.
Il desiderio è la massima testimonianza di questa intercorporeità e impedisce di
concepire la relazione con l'altro sul piano dell'ego. Desiderare non significa rappresentarsi il
corpo dell'altro in funzione dei suoi organi sessuali o, per associazione, come collegato a una
speranza di piacere. Si tratta invece di un rapporto immediato che non appartiene all'ordine
della rappresentazione: il corpo mira al corpo dell'altro non nel modo in cui una conoscenza
pone un oggetto, ma secondo una relazione implicita e tuttavia orientata, a cui risponde il
corpo dell'altro come desiderabile, abitato da una torbida atmosfera.
Il rapporto io-l'altro da concepire (analogamente al rapporto inter-sessuale con le sue sostituzioni
indefinite cfr. Schilder (...) come funzioni complementari nessuna delle quali può essere svolta senza
che lo sia anche l'altra: mascolinità implica femminilità ecc. Polimorfismo fondamentale che fa sì che io
non abbia da costituire l'altro di fronte all'Ego: egli è già qui, e l'Ego è colto su di lui. Descrivere la pre-
egologia, il «sincretismo», l'indivisione o transitivismo. Che cosa c'è a questo livello? C'è l'universo
verticale o carnale e la sua matrice polimorfa277.
277 VI, pp. 234-235.
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Il desiderio si produce dunque nel mondo, piuttosto che in me, esso unisce un corpo
con un altro corpo secondo una modalità specifica, che non è né relazione oggettiva, come
quella tra uno stimolo e una reazione, né conoscenza pura, bensì sollecitazione sorda.
L'occulto in psicoanalisi (l'inconscio) è di questo tipo (cfr. una donna che per strada sente che si
guardano i suoi seni e che verifica il vestito. Il suo schema corporeo è per sé-per altri. - È la cerniera del
per sé e del per altri – Avere un corpo significa essere guardati (non è soltanto questo), significa essere
visibili – Qui impressione di telepatia, d'occulto = vivacità nella lettura fulminea dello sguardo altrui278.
Nel desiderio io sono letteralmente fuori di me: percepisco l'altro come ciò che mi
spossessa; è in questo modo che io lo raggiungo come altra esistenza ed è per questo che tento
di possederlo.
Rimane il fatto che questa descrizione colloca la relazione con l'altro sul piano della
corporeità e ci permette, dunque, di comprendere soltanto come si effettua la scoperta di
un'altra percezione, di un altro comportamento. Il quesito che si affaccia a questo livello
riguarda la modalità in cui avviene la percezione dell'altro come alter ego come coscienza.
All'interno di quale esperienza mi è possibile accedere alla vita privata dell'altro?
Questa analisi alla fine ci riconduce al nostro punto di partenza. Dal momento che non
metteva in questione l'opposizione tra soggetto e oggetto, Sartre era costretto a rinunciare a
una presentazione dell'altro nel mondo. Ora, questa presentazione ha indubbiamente luogo e
Husserl ne aveva dato la descrizione attraverso la nozione di appresentazione analogica. Solo
che in lui permaneva una tensione tra il riconoscimento di un rapporto “carnale” e immediato
con l'altro, da un lato, e il quadro teorico della costruzione trascendentale, dall'altro.
Ma Husserl conosceva bene tali difficoltà, che sono quelle della comunicazione tra gli “ego”, e non ci
lascia indifesi di fronte ad esse. Io mi attingo all'altro, lo costruisco con i miei propri pensieri: questo
non è uno scacco della percezione dell'altro, bensì la percezione dell'altro. Noi non lo graveremo dei
nostri commenti importuni, non lo ridurremmo avaramente a ciò che di lui è attestato oggettivamente, se
anzitutto egli non fosse là per noi, non già con l'evidenza frontale di una cosa, ma insediato
trasversalmente nel nostro pensiero, occupando in noi, come un altro noi stessi, una regione che
appartiene solo a lui279.
278 Ivi. pp. 205-206. 279 Il filosofo e la sua ombra, in S, p. 211.
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La decisione di Merleau-Ponty consiste nel ridurre questa tensione, nell'esplicitare le
reali condizioni dell'appresentazione analogica e nel fondare di conseguenza quell'esperienza
che Husserl non poteva collocare in modo coerente nel quadro idealistico da cui era partito.
Questa impostazione, tuttavia, sembra non essere esente da problemi, alcuni tali da
assumere il rilievo di insuperabili aporie. Come si passa dall'intercorporeità
all'intersoggettività? La soggettività dell'altro è per me allo stesso modo che la mia per me?
Come può un corpo animato costituire un'altra coscienza? Questi problemi, in realtà, nascono
da fraintendimenti naturalistici o, ma è la stessa cosa, idealistici del problema della
costituzione. La costituzione d'altri è sempre la costituzione di un uomo da parte di un altro
uomo, perché ciò che mi appare è un uomo e non il suo pensiero. La costituzione d'altri, in
realtà, è un fatto della percezione, non del pensiero, dato che un'altra corporeità si articola nel
mio mondo, agisce in esso.
Il problema si deve chiarire alla luce di questa semplice ma radicale differenza: una
cosa è se io dico dell'altro “io penso che tu pensi” ed un'altra se dico “io vedo che tu vedi”.
Quando l'altro mi appare, mi appare subito come uomo, con tutte le sue possibilità, che io, in
quanto essere incarnato, immediatamente attesto.
La riflessione sull'intercorporeità ha condotto inevitabilmente a un piano ontologico in
quanto la dimensione della co-appartenenza richiede un'analisi più approfondita delle sue
proprietà: “Bisogna che insieme al mio corpo si risveglino i corpi associati, gli “altri”, che
non sono semplicemente miei congeneri, come dice la zoologia, ma che mi abitano, che io
abito, insieme ai quali abito un solo Essere effettuale presente, come mai animale ha abitato
gli animali della sua specie, il suo territorio o il suo ambiente”280.
2.4. La carne
Per Merleau-Ponty questo è uno snodo fondamentale: la visione si ignora in quanto
incarnata, si vive come trasparente a se stessa e per questo motivo risulta capace di portarsi
sull'oggetto a distanza, di sfuggirsi verso il mondo. Questa è la ragione per la quale la visione
era stata scelta anche dalla metafisica tradizionale come metafora privilegiata della
conoscenza. Merleau-Ponty, nel suo tentativo di confronto e superamento di questa tradizione
280 OS, p.15.
105
e di “non dimenticare una metà della verità”281, mantiene questa metafora, pur mutandone i
connotati, e ne eleva l’importanza al punto da riservarle un posto nel titolo dello scritto in cui
questo rinnovamento è di più all’opera.
L’analisi del toccare gioca qui il ruolo di una riduzione della visione e di tutte le forme
di intuizione, compresa quella intellettuale. Non c’è esperienza o conoscenza se non a partire
da un conoscente che abita inglobato dal contenuto di cui tenta di appropriarsi. La doppia
condizione del soggetto – contemporaneamente ciò che fa apparire il mondo e ciò che vi è
iscritto – non risulta paradossale bensì diventa, nella filosofia merleau-pontyana, la
definizione stessa dell’esperienza. Di conseguenza la nostra stessa maniera di pensare deve
essere riformata dall’esperienza così intesa.
Il doppio rinvio o avvolgimento, vale a dire l’iscrizione del soggetto nel registro del
mondo tramite il suo corpo e del mondo nel registro del soggetto grazie alla stoffa, carne
comune di cui fanno entrambi parte, viene chiamata da Merleau-Ponty con le nozioni di
trama o chiasma. Parlare di riabilitazione ontologica del sensibile significa molto di più di
quanto detto finora. Se il corpo, in quanto vincolo dell’io e delle cose, trasforma il cogito in
soggetto incarnato, neanche il mondo rimane indifferente a questa radice ambigua. La carne
del sensibile riflette la mia incarnazione. La carne del mondo accoglie il mio corpo e la
rappresentazione che io ho di esso grazie al rapporto chiasmatico che c'è tra il visibile e il
vedente.
Dato che il vedente è tale in base alla sua visibilità da parte degli altri e di se stesso
allo specchio, esso si costituisce sempre in una relazione di reciproca implicazione. Allo
stesso tempo, il desiderio di comprendere questo fenomeno fa sì che l'argomento si sposti a
livelli di generalità: il mio corpo
è visibile per me in linea di principio o per lo meno appartiene al Visibile di cui il mio visibile è un
frammento. I.e. in questa misura il mio visibile si rivolta su di sé per “comprenderlo” - E come posso
sapere ciò se non perché il mio visibile non è affatto “rappresentazione” mia ma carne? I.e. capace di
abbracciare il mio corpo, di «vederlo» - È anzitutto grazie al mondo che io sono visto o pensato282.
Nella retorica il chiasma (letteralmente dal greco “struttura a croce di chi greca”) si
riferisce a una figura in cui si crea relazione incocciata tra due coppie di parole. Come si è
visto, Merleau-Ponty inizia ad utilizzare questo termine per descrivere la complessa relazione
281 Il filosofo e la sua ombra, in S, p. 214. 282 VI, p. 284.
106
tra il corpo e il mondo. In effetti i quattro termini implicati sono: la soggettività percepente (il
toccante, per esempio), il suo corpo (il toccato), il mondo come contenitore del corpo e il
mondo come appare al corpo. La giustificazione dell'utilizzo di questa categoria concettuale
in questo contesto arriva dalla relazione di reciprocità che sussiste tra gli elementi: c'è un
chiasma in quanto il mio corpo è situato dal lato del mondo, nella sua profondità, in modo che
il mondo che appare si inserisce tra la mia coscienza e il mio corpo. In virtù di questo
chiasma, o trama, o intreccio di natura ontologica tra il mio corpo e il mondo, il movimento
tramite il quale la mia coscienza si incarna è inverso rispetto a quello tramite il quale il mondo
accede alla fenomenalità. La mia percezione, in quanto esige la mia incarnazione, è sia un
evento del mondo che una mia iniziativa. Dunque, grazie al concetto di chiasma che il mio
corpo può essere rappresentato come un momento della Carne come essere del percepito.
Nella filosofia tradizionale questo concetto non trova un corrispondente:
Un cartesiano non si vede nello specchio: vede un manichino, un «fuori», e ha tutte le ragioni per
pensare che gli altri lo vedano allo stesso modo, ma questo manichino non è carne, né per lui né per gli
altri283.
Il concetto di Carne risulta dunque basilare nella costruzione della nuova ontologia.
Come si è visto, Merleau-Ponty prende ispirazione dal Leib husserliano, nel senso di corpo sia
vivente che vissuto, vale a dire non nella concezione del corpo oggettivo. Tuttavia, Merleau-
Ponty utilizza questa nozione nella sua ultima produzione in un senso che eccede quello del
corpo proprio, dandogli dunque un ruolo ontologicamente centrale. In effetti, la natura del
corpo proprio rivela una struttura originale del mondo di cui è in qualche modo il testimone
ontologico: il fatto di avere un corpo nella quale si mescola la dualità della coscienza e
dell'oggetto significa che il mondo di cui fa parte esiste anche esso in una maniera particolare,
che Merleau-Ponty chiama carne. A questo concetto viene assegnato il significato di suolo di
ogni apparizione, compresa quella del corpo stesso. Infatti la carne comporta una dimensione
di effettività che la situa al-di-qua del senso: in quanto non sviluppato nell'oggettività questo
suolo sorpassa il piano della pura fatticità ed emana un senso. La carne designa l'essere stesso
del visibile, in quanto non riposa sulla positività di un senso e comporta dunque una
costitutiva parte di invisibilità.
283 OS, p. 30.
107
La carne non è materia, non è spirito, non è sostanza. Bisognerebbe, per designarla, il vecchio termine
di «elemento», nel senso in cui lo utilizzavano per parlare dell'acqua, dell'aria, della terra e del fuoco,
vale a dire nel senso di una cosa generale, a metà via dall'individuo spazio-temporale e l'idea, un sorta
di principio incarnato che importa uno stile d'essere ovunque se ne trovi un frammento284.
La concezione di relazione intenzionale, vale a dire dell'apparire, come atto di una
coscienza, pure incarnata, si trova allora rimessa in questione. Infatti, affermare che il sentire
è essenzialmente incarnato, vale a dire che esso è un avvenimento del mondo, di cui il mio
corpo fa parte, e non più un atto di una coscienza. La conclusione alla quale si arriva è che il
mondo viene a manifestarsi nel corpo o meglio che non si può fare la distinzione tra il sentire,
di cui il corpo è soggetto, e il movimento dell'apparizione del sentire, di cui il “soggetto” è il
mondo, tra il divenire-corpo del mio sentire e il divenire-fenomeno del mondo.
Si tratta, nella visione merleau-pontyana, di un solo avvenimento, quello della
fenomenizzazione, caratterizzato da un'unità profonda dell'attività e della passività. A questo
livello Merleau-Ponty ha sicuramente abbandonato la filosofia della coscienza per entrare in
un'ontologia del sensibile. Se si volesse seguire a titolo propedeutico il passaggio attraverso
questa incarnazione del sentire per accedere all'essenza del fenomeno, la verità consisterebbe
nell'apparire sensibile che è l'opera dell'Essere e nel soggetto incarnato non è che una sorta di
mediatore di questa apparizione. La nostra corporeità, scrive Merleau-Ponty in un inedito,
“non è che il cardine del mondo, la sua pesantezza non è che quella del mondo. Essa non è
che potenza di un lieve scarto in rapporto al mondo”. E' appunto questo scarto che apre la
distanza – che è allo stesso tempo identità - dal fenomeno e dal mondo che vi appare: “non
siamo noi a percepire, è la cosa che a percepirsi laggiù”285.
Il fatto di cogliere visivamente un tavolo, la cui densità arresta lo slancio dello
sguardo, così come visualizzare mentalmente il ponte della Concorde, sono visioni o quasi-
visioni che attestano all'io l'inserimento nel mondo naturale e storico, con tutte le tracce
umane di cui è fatto286. Merleau-Ponty usa il termine di visibile per definire il mondo dalla
prospettiva dell'io.
Tutto dipende dal fatto che il tavolo, quello che in questo istante il mio sguardo percorre e di cui
interroga la trama, non appartiene a nessuno spazio di coscienza, ma si inserisce altrettanto bene nei
circuiti di altri corpi, che i nostri sguardi non sono atti di coscienza, ognuno dei quali rivendicherebbe
284 VI, p.184. 285 Ivi. 202. 286 Cfr Ivi. p. 32.
108
una indeclinabile priorità, ma apertura della nostra carne immediatamente riempita dalla carne
universale del mondo; in tal modo i corpi viventi si chiudono sul mondo, si fanno corpi vedenti, corpi
toccanti, e a fortiori sensibili a se stessi, poiché non si potrebbe toccare o vedere senza essere capaci di
toccarsi e vedersi. Tutto l'enigma è nel sensibile, in questa tele-visione che, nella nostra vita più privata,
ci rende simultanei con gli altri e con il mondo287.
Seguendo uno spostamento radicale, siamo passati da un essere-al-mondo, portato da
un corpo, alla potenza fenomenizzante del mondo stesso, che viene a costituire il corpo come
corpo percepente. E' proprio questa potenza che Merleau-Ponty chiama carne: il nostro corpo
proprio, in cui si mescolano corporeità e soggettività, diventa testimone ontologico di un
Essere che è la sua propria fenomenalizzazione, che è l'unità di se stesso e del suo apparire.
La percezione non procede più da un soggetto che porterebbe l'essere all'apparire, essa si
radica in una percettibilità, una visibilità intrinseca che è sinonima dell'Essere: “La carne del
mondo è qualcosa di Essere-visto, i.e. è un Essere che è eminentemente percipi, e grazie a
essa si può comprendere il percipere” 288. La corporeità percepita e percepibile risulta
consostanziale del mondo in cui è innestata:
Ciò significa che il mio corpo è fatto della medesima carne del mondo (è un percepito), e che inoltre, di
questa carne del mio corpo è partecipe il mondo, esso la riflette, il mondo sopravanza su di essa ed essa
sopravanza sul mondo (il sentito saturo di soggettività e al tempo stesso di materialità), essi sono in
rapporto di trasgressione o di sopravanzamento”289.
In questo modo si ritorna alle conclusioni alle quali conduceva la sospensione del
nulla. Principalmente, per la tradizione filosofica, l'incarnazione è una dimensione
contingente e non costitutiva del soggetto: se è vero che essa ci separa dall'Essere-vero, se
l'iscrizione nel mondo che essa comporta ci impedisce di fare il giro dell'oggetto, il principio
di un possesso adeguato del vero, di una determinazione esaustiva della cosa non è rimessa in
questione. La finitezza è pensata in maniera negativa, come ciò che viene a limitare una
conoscenza perfetta, possibile di diritto; da lì la serie di distinzioni che strutturano il pensiero
classico, come quelle tra l'opinione e la verità, tra l'apparenza e l'essenza, tra l'inautenticità e
l'autenticità.
287 S, Prefazione, p.39. 288 VI, p. 262. 289 Ivi. pp.260-261.
109
L’essere incarnati definisce l'essenza del nostro rapporto con l'Essere. L'incarnazione
non è più ciò che viene a compromettere un rapporto con l'Essere regolato dall'ideale
dell'adeguatio, ma è ciò che lo fonda. L'iscrizione del soggetto nel mondo attraverso il suo
corpo e l'apparire del mondo come tale, lungi dall'accadere alternativamente, bensì sono due
espressioni della stessa situazione ontologica. In quest'ottica risulta priva di senso l'idea di un
modo della conoscenza più completo, in cui il mondo sarebbe in qualche maniera spogliato
dalla sua veste di apparenza allo stesso modo in cui la coscienza lo sarebbe del suo corpo. C’è
reciprocità tra l’Essere e il soggetto incarnato: l’Essere si dona a distanza in base ad un corpo,
ma anche il il soggetto è incarnato proprio perché è specifico dell'Essere di donarsi a distanza,
come mondo.
La nostra finitezza ha un senso positivo, non in funzione della sua capacità di accedere
all’Essere vero, bensì come la condizione in base alla quale c'è qualche cosa. Non solo il
soggetto perde la sua presunta trasparenza intellettuale, ma neanche si può presumere di
accedere alla nettezza diamantina dell'oggetto. In questo modo si può considerare una
distanza costitutiva in ciò che appare, una negatività di qualche cosa, anche se non in
alternativa alla sua positività fenomenica, alla sua presenza.
Lo specifico di ciò che appare è di donarsi in una “Profondità irriducibile”, in una
sorta di “Distanza” che non è il contrario di una “prossimità” possibile. Per la cosa che appare
la trascendenza non è un tratto estrinseco. Il percepito non può essere considerato senza la sua
distanza in quanto ciò è la forma del suo apparire: la cosa non è là perché è a distanza da me,
ma al contrario è a causa della sua distanza da me che è là, che appare. A questa concezione si
riferisce Merleau-Ponty quando inizia a caratterizzare la visibilità grazie alla sua invisibilità
intrinseca. L'invisibilità non è negazione ma sinonimo di visibilità: vedere è sempre vedere di
più di quel che si vede.
Merleau-Ponty è certamente il primo filosofo a pervenire al pensiero del sensibile
come tale, vale a dire a cogliere il senso d'essere proprio e a dedurne un'ontologia, al posto di
concepirlo come quella realtà contemporaneamente evidente ed impenetrabile di cui non si
potrebbe dire nulla:
Il sensibile è appunto quel medium un cui può esserci l'essere senza che esso debba essere posto;
l'apparenza sensibile del sensibile, la persuasione silenziosa del sensibile è l'unico mezzo per l'Essere di
manifestarsi senza divenite positività, senza cessare di essere ambiguo e trascendente”290.
290 Ivi. p. 228.
110
Che il sensibile sia caratterizzato dalla distanza non significa che non ne possiamo
affermare nulla. Determinando l'Essere come essenza, la metafisica è costretta a pensare la
sua apparizione come attualizzazione: la presenza si confonde allora con la puntualità del
fatto. Inversamente, nella misura stessa in cui il percepito sfugge alla positività dell'essenza,
esso non può essere definito dalla pura fattualità; che il “qualche cosa” risieda al di là
dell'essenza significa che si situa più in alto dell'ordine del puro fatto e che la sua
indeterminazione non ritorna all'assenza pura e semplice di determinazioni.
Tutto lo sforzo di Merleau-Ponty consiste, precisamente, nel situare il percepito su un
piano che sfugge alla biforcazione, finalmente astratta, del fatto e dell'essenza. In effetti la
critica del modello dell'oggetto ha come contropartita il riconoscimento del fatto che ogni
cosa è cosa del mondo. Lungi dal chiudersi in termini di localizzazione spazio-temporale, la
cosa percepita non è certamente fuori dallo spazio e dal tempo, ma, in quanto è più di una
semplice attualizzazione di un'essenza, essa non possiede un collocamento unico, essa è
altrove essendo qui, futura e passata essendo presente.
Il fatto che l'uomo è sempre in mezzo ad altri uomini e nel mondo è un dato sottinteso
e le diverse modalità che questo ha per realizzarsi comporta uno studio che deve essere
considerato originario rispetto a qualsiasi costruzione del pensiero ed anche rispetto a
qualsiasi categoria scientifica.
Il fantasma dello specchio trascina fuori la mia carne, e contemporaneamente tutto l'invisibile del mio
corpo può investire gli altri corpi che vedo. D'ora in poi il mio corpo può comportare dei segmenti
prelevati sul corpo degli altri, come la mia sostanza passa in loro: l'uomo è specchio per l'uomo291.
La metamorfosi del vedente e del visibile rappresenta la cifra della nostra carne. Nello
specchio i pittori hanno riconosciuto “la metamorfosi del vedente e del visibile, che è la
definizione della nostra carne e quella della loro vocazione”292. La metafisica allora non potrà
più essere lo studio di una regione che sia “al di là” del mondo e dell'uomo, ma rappresenterà
la nostra realtà presente nella sua temporalità. Questa realtà complessa è percepita, sì, a partire
da un livello soggettivo ma si riferisce sempre ad un contesto intersoggettivo. “Ciò vuol dire
che nessuna conoscenza vale per me in quanto è percepita da un altro, ma soltanto in quanto
291 OS, p. 27. 292 Ivi. p. 28.
111
la percepisco io direttamente o posso percepirla direttamente se un altro me la espone”293.
Poiché noi abbiamo l'esperienza dell'altro, bisogna cogliere la soggettività a livello del corpo-
proprio, della “carne”, che allora non può essere più caratterizzata come l'ambito
dell'appartenenza. In essa viene piuttosto abolita l'opposizione del proprio e del non proprio.
La “carne” non ottiene la sua identità che dal permanere fuori di sé, dall'essere
originariamente articolata con il mondo, e quindi con gli altri.
La reversibilità chiasmatica della carne non consente una positività piena
dell’individuo di fronte al mondo sensibile, quindi, l’ipseità viene inglobata all’interno del
movimento teleologico di radicamento dell’uomo nell’Essere. In questo processo, l’ipseità
non raggiunge una sostanzializzazione del sé, tale da motivarne il distacco dal sensibile: “il Sé
da comprendere non come qualcosa, ma come unità di trasgressione o di sopravanzamento
correlativa di «cosa» e «mondo»”294.
293 Ibid. 294 VI, p. 216.
113
CAPITOLO TERZO
L’INTERSOGGETTIVITA’ COME CHIASMA DI PAROLA
Il visibile altrui è il mio invisibile (VI, p. 230)
3.1. Lo sguardo interrogativo
Nel percorso esposto finora, si è rilevato il continuo evolversi delle preoccupazioni
teoretiche e dei concetti fondamentali della filosofia di Merleau-Ponty, dalla ricerca intorno al
sensibile a quella dell'intersoggettività. L'interrogazione filosofica ha trattato le connessioni
tra l'uomo e il mondo, evidenziando la necessità di scoprire lo strutturale intreccio che sta al
fondamento delle costruzioni concettuali e culturali e, nella stessa misura, le relazioni tra gli
uomini, presentando la loro costitutiva interdipendenza nel momento della descrizione
dell'identità, che viene considerata da Merleau-Ponty solo intersoggettiva. Ora, tale
domandare filosofico si sofferma sui nessi di senso che legano tutti gli elementi della realtà. Il
cercare di evitare “la semplice attesa di un significato che verrebbe ad appagarla”295 comporta
per la filosofia un ulteriore sforzo coraggioso nella sua ricerca mai soddisfatta delle proprie
certezze. Indagare sul significato dell'essere, sull'essere del significato e sul posto del
significato nell'Essere implica volgere su se stesso l'interrogare filosofico, perché le domande
si dirigono verso l'Essere grazie al loro essere domande. “Oggi come una volta, la filosofia
comincia con la domanda: cos'è pensare? E dapprima vi si assorbe”296, scrive nel 1960.
Merleau-Ponty considera inesauribile il nesso indagatore che si instaura tra noi e il
mondo, perché è innestato sul nostro vincolo indistruttibile con lo spazio e il tempo297 rilevati
costantemente nel vissuto. L'io e il noi ineriscono al collocamento occasionale o strutturale in
cui si ritrovano, ma questo comporta una continua rielaborazione e analisi dell'intreccio di
implicazioni che si creano. Per il filosofo, l'interrogare stesso rappresenta un rapporto ultimo
all'Essere oppure un organo ontologico. La risposta che la filosofia cerca potrebbe consistere
nella comprensione dell'esigenza umana di indagare le essenze298 e i fatti, ma soprattutto di
295 VI, p. 138. 296 Prefazione a S, p. 36. 297 Su questi argomenti ritorneremo negli ultimi paragrafi di questo capitolo. 298 Merleau-Ponty tenta una definizione di tale concetto nel capitolo Interrogazione e intuizione de Il visibile e
l'invisibile: “Le essenze sono questo senso intrinseco, queste necessità di principio, a prescindere dalle realtà
114
andare oltre, più in alto dei “fatti” e più in basso delle “essenze”, vale a dire “nell'Essere
selvaggio in cui essi erano indivisi e in cui, dietro o sotto le scissure della nostra cultura
acquisita, continuano a esserlo”299.
Interrogare l'Essere selvaggio significa cercare di disoccultare ciò che è nascosto e
torna sempre ad adombrarsi e a celarsi in lacune, scarti, pieghe che si formano tra il visibile e
l'invisibile. “Il senso è invisibile, ma l’invisibile non è il contrario del visibile: il visibile ha
esso stesso una membratura di invisibile, e l’in-visibile è la contropartita segreta del
visibile”300, scrive Merleau-Ponty in una nota di lavoro del novembre 1959. Nel corso dello
stesso anno afferma inoltre che “L'invisibile d'idealità, la Vernunft, non è mai altro che la
membratura delle cose e dell'Essere, l'intersezione di quanto noi prendiamo di mira, il vero
rilievo del nostro paesaggio”301. La logica della visione è allusiva, nel senso che io vedo di più
di quanto mi comunica la visione di un certo momento e che io analizzo: nella percezione la
cosa si offre con i suoi lati visibili e con quelli latenti, invisibili, ma che mi permettono di
costruire un'immagine tridimensionale. Il visibile, il profilo della cosa attualmente esperito,
non è un dato totalmente positivo in quanto si appoggia su altro da sé, emerge da uno spessore
di invisibilità. Nel rapportarsi al mondo, l'io è in una relazione chiasmatica con tutti gli aspetti
di visibilità e di invisibilità di se stesso e delle cose esperite. “Il sentire che sentiamo, il vedere
che vediamo, non è pensiero di vedere o di sentire, ma visione, sentire, esperienza muta di un
senso muto”302. Questa esperienza che precede qualsiasi pensiero o parola, sostenuta da un
senso muto, è un'esperienza primaria, che coglie la realtà del mondo come immediata. Il
modo di interrogarsi intorno all’Essere non è dunque quello della conoscenza, ma quello
dell’esperienza del mondo: “Non è solamente la filosofia, ma anzitutto lo sguardo a
interrogare le cose”303, afferma Merleau-Ponty in Il visibile e l'Invisibile. Nel contesto in cui
cerca di dare peso al suo approccio ontologico, come si è visto nei capitoli precedenti, il reale
non si mostra nella sua presunta pienezza, ma dispone vuoti304, fessure, figure e sfondi, un alto
in cui esse si mescolano e si confondono (senza che del resto le loro implicazioni cessino di farvisi valere), unico essere legittimo e autentico, che ha pretesa e diritto all'essere e che è affermativo di se stesso, giacché esso è sistema di tutto ciò che è possibile allo sguardo di un puro spettatore, la proiezione o il disegno di ciò che, a tutti i livelli, è qualcosa: qualcosa in generale, o qualcosa di materiale, o qualcosa di spirituale, o qualcosa di vivente” (p. 127).
299 Ivi, p. 140. 300 Ivi, p. 230. 301 Corso “Il concetto di Natura, 1959-1960. Natura e Logos: Il corpo umano”, in N, p. 329. 302 VI, p. 261. 303 Ivi, p. 123. 304 Un passo delle note di lavoro de Il visibile e l'invisibile risulta particolarmente chiarificatore in merito: “Ma
ciò che è bello è l'idea di prendere alla lettera l'Erwirkeen del pensiero: è veramente un che di vuoto, di invisibile – Tutto l'armamentario positivistico dei “concetti”, dei “giudizi”, delle “relazioni” è eliminato, e lo
115
e un basso, un presente e un passato: la relazione tra gli uomini e il mondo segue la
caratteristica che gli accomuna, il potere di articolazione e di differenziazione.
Nell’ambito di questa indagine intorno all'Essere selvaggio e alle sue articolazioni e
differenziazioni, alle sue manifestazioni in “pieghe” di visibilità e invisibilità, di senso latente
e presente, si inserisce la riflessione merleau-pontyana sulla parola e sul linguaggio. Il
pensiero e la sua espressione si situano nell'Essere: “la notte del pensiero è abitata da un
bagliore dell'Essere”305, afferma poeticamente il filosofo nel tentativo di sottolineare la
reciproca implicazione dei due termini. L'esplorazione di questo ambito dalla prospettiva
dell'Essere verticale svela numerose ramificazioni nella sua trama carnale. Alcuni di questi
aspetti risultano importanti nel dipanamento del filo conduttore di questa ricerca sul concetto
di intersoggettività, che si intreccia, in ultima istanza, con il tema del linguaggio.
Ripercorrendo alcune delle tappe significative dello sviluppo di questa problematica, si
vorrebbe proporre una dimostrazione della rilevanza che Merleau-Ponty conferisce
all'intersoggettività dal punto di vista ontologico.
3.2. L'originario come fonte di senso
Come si è mostrato sin dal primo capitolo, la tematica del mondo e della relazione che
l'io ha con esso a livello percettivo, grazie al corpo proprio, si basa sulla possibilità del ritorno
all'originario. La rivalutazione dello statuto del sensibile, sulla quale si è concentrato durante
tutta la sua opera, va di pari passo con una lettura della corporeità in chiave ontologica. Il
filosofo intende “studiare l'inserimento di tutte le dimensionalità nell'Essere, - studiare
l'inserimento della profondità nella percezione, e quello del linguaggio nel mondo del
silenzio”306. Per Merleau-Ponty ci sono, in realtà, degli strati dell'Essere selvaggio: quello del
corpo umano in cui si coglie un “pre-sapere; un pre-senso, un sapere silenzioso”307; quello del
senso della percezione del mondo, degli altri, della vita, l'orizzonte non esplicitato del
linguaggio.
spirito sgorga come l'acqua nella fenditura dell'Essere – Non ci sono da cercare delle cose spirituali, ci sono solo delle strutture del vuoto – Semplicemente, io voglio conficcare questo vuoto nell'Essere visibile, mostrare che esso ne è il rovescio, - in particolare il rovescio del linguaggio” (p. 248).
305 Prefazione, S, p. 37. 306 VI, p. 249. 307 Ivi, p. 195.
116
Nella prima fase della produzione merleau-pontyana, la corporeità è considerata come
fondante delle sue successive manifestazioni. Infatti, il filosofo pensa il rapporto tra corpo
oggettivo e corpo fenomenico in termini di subordinazione, in quanto il primo viene visto
come una mera astrazione teorica del secondo, dal quale si origina. In particolare, il corpo
proprio, quale sostrato prepersonale dell'io, si presenta come condizione di possibilità di
qualsiasi operazione espressiva e razionale e perciò si propone come il presupposto costitutivo
dell'intersoggettività. Nell'ultima fase della sua riflessione, invece, Merleau-Ponty giunge alla
conclusione che quello su cui si dovrebbe focalizzare la ricerca filosofica non è la singola
soggettività incarnata nel corpo umano, bensì l'Essere come essere della Lebenswelt. L'intento
di occuparsi dell'essere della Lebenswelt come tema della filosofia viene ripetutamente
ribadito sia nel testo redatto de Il visibile e l'invisibile, sia nelle note di lavoro che lo
accompagnano. “Fra la Lebenswelt come Essere universale e la filosofia come prodotto
estremo del mondo non c'è rivalità o antinomia: è la filosofia che disvela la Lebenswelt” 308,
afferma in una nota di lavoro del gennaio 1959. L'ottica ontologica predilige, infatti, un
orizzonte più ampio del corpo proprio rispetto alla sua ipostasi fenomenologica, la quale lo
considera per lo più su un piano percettivo. Il concetto di Lebenswelt significa, infatti, nella
Fenomenologia della percezione, il sostrato primordiale dal quale nascono le cose e le idee,
dove nulla è tematizzato e l'ordine del soggettivo e dell’oggettivo non si sono ancora
contrapposti: esso è il campo dell'esperienza dell'io, non il suo oggetto. La prospettiva limitata
del corpo vissuto - che si presenta sempre dallo stesso lato, senza che l'io possa farne il giro -
non risulta il punto in cui si arena l'esplorazione dell'Essere, bensì una sorta di trampolino di
lancio verso tutte le altre determinazioni della soggettività: il Cogito, l'esistenza, l'essere-al-
mondo, l'intersoggettività.
Nell'ultima fase della sua produzione, Merleau-Ponty trova come risposta alla
domanda sull'essere di Lebenswelt il concetto di carne: come abbiamo osservato nel capitolo
precedente, l'Essere grezzo del mondo della vita è carne; si manifesta, tramite la reversibilità,
come il polimorfismo primordiale di un'originaria indivisione. L'ontologia merleau-pontyana
parte dall'esigenza di un superamento della tematizzazione della Lebenswelt309, vale a dire
dell'impostazione dell'essere in sé, oggettivo, della soggettività incarnata del corpo umano che
non fa riferimenti allo psichico, oppure alle blosse Sachen, nel senso del semplice ritorno
all'originario. La necessità di questo sorpasso si giustifica grazie all'insufficienza descrittiva,
308 Ivi, p. 188. 309 Cfr. VI, p. 184.
117
dal punto di vista ontologico, dell'intersoggettività come semplice relazione corporea basata
sul ritorno alle cose stesse oppure come un colloquio tra monadi, tra solipsismi aporetici.
Merleau-Ponty è convinto che “in realtà tutte le analisi particolari sulla Natura310, sulla vita,
sul corpo umano, sul linguaggio ci faranno via via entrare nella Lebenswelt e nell'essere
«selvaggio»311 in cui Lebenswelt è un concetto rinnovato, ampliato nella prospettiva
ontologica.
Il riferimento alla Lebenswelt è, ne Il visibile e l'invisibile, allo stesso tempo un punto
di partenza e un punto di arrivo: si inizia dalle basi offerte dal precategoriale, dal corpo
vissuto e si elabora pian piano la visione del soggetto incarnato nella carne dell'Essere.
L'esplorazione fenomenologica della corporeità e del mondo vissuto hanno svelato il senso
autoctono del mondo, l'Urdoxa, come si è visto nel primo capitolo. La contingenza radicale
dell'io e del mondo è assunta a statuto ontologico della loro realtà: “il mondo è già qui, nella
sua trascendenza oggettiva, prima di questa analisi, ed è il suo senso stesso che sarà
esplicitato come senso”312. Questa contingenza, colta dalla fede percettiva, non è priva di
senso: al contrario, un senso muto pervade tutto il reale e, nell'ottica merleau-pontyana, la
filosofia deve imparare a riconoscerlo e a valorizzarlo. Scrive Merleau-Ponty nelle prime
pagine de Il visibile e l'invisibile:
Ciò che ci importa è appunto conoscere il senso d’essere del mondo; in proposito noi non dobbiamo
presupporre nulla, né dunque l’idea ingenua dell’essere in sé, né l’idea, correlativa, di un essere di
rappresentazione, di un essere per la coscienza, di un essere per l’uomo: sono tutte nozioni che vanno
ripensate a proposito della nostra esperienza del mondo, contemporaneamente all’essere del mondo313,
310 Il concetto di Natura, come si è visto precedentemente, acquista valenze ontologiche nell'ultimo Merleau-
Ponty: “La Natura come foglio o sostrato dell'Essere totale – L'ontologia della Natura come via verso l'ontologia – via che qui preferiamo perché l'evoluzione del concetto di Natura è una propedeutica più convincente e mostra con maggior chiarezza la necessità di una mutazione ontologica”.(N, pp. 297-298.) L'importanza di questo concetto nel contesto della ricerca su cui si incentra questo capitolo è data dalla sua capacità di aumentare gli orizzonti significativi rispetto alla nozione di mondo e di reale: “natura è ciò che ha un senso, senza che questo senso sia stato posto dal pensiero. È l'autoproduzione di un senso. La Natura è dunque diversa da una semplice cosa; ha un interno, si determina dal didentro (…). E tuttavia la Natura è differente dall'uomo; non è istituita da quest'ultimo, si oppone al costume, al discorso” (ibid. p. 4). La Natura rappresenta un punto di partenza, data la sua capacità di germogliare un senso antepredicativo, per cui “resta da studiare il corpo umano come radice del simbolismo, come unione della physis e del logos, perché il nostro scopo è la serie physis-logos-Storia” (ibid. p. 292).
311 VI, p. 185. 312 Ivi, p. 190. 313 Ivi, p. 34.
118
L'interrogazione filosofica porta in primo piano l'essere, ma, alla luce degli acquisti
fenomenologici sulle potenzialità espressive del sensibile, nessuna idea può essere utilizzata
come preconcetto.
L'ipotesi di partenza, come si è visto, consiste nella possibilità dell'io di rapportarsi al
mondo tramite la percezione. Essa non tematizza l'oggetto di questo rapporto, ma presuppone
la sua ripresa e ricostituzione in quanto esperienza originaria in cui si trovano sedimentati i
saperi del passato. L'anonimato è stato considerato, sin dall'inizio, l'aspetto decisivo della
percezione: il corpo vissuto abita una sensibilità prepersonale in un ambito di generalità che la
precede e la segue. Perciò, secondo Merleau-Ponty non si deve dire “io percepisco” bensì “si
percepisce in me”. Il mondo del Si presuppone una sedimentazione e una simultaneità della
percezione314. Il Si primordiale, l'indivisione della vita anonima prepersonale, viene rinnovato
dalla percezione intesa come il “vinculum” tra l'Etre brut (l’Essere grezzo) e il corpo. La
generalità anonima, la sensibilità prepersonale, che viene colta dalla percezione del corpo
proprio, mantiene, nella concezione merleau-pontyana, sia le differenze che le identità.
Inoltre, sin dal principio, si presenta come detentrice di un senso latente rilevato come stile,
vale a dire come senso unitario di tutte le possibili relazioni del corpo proprio con il mondo. Il
ritorno alle cose stesse comporta un'implicazione corporea che è anche intersoggettiva, come
afferma Merleau-Ponty nel saggio Il filosofo e la sua ombra315 e prevede l'assorbimento di
quei “nuclei di significato intorno ai quali gravitano il mondo e l'uomo”316.
La produzione concettuale affonda le sue radici nel silenzio della dimensione
preriflessiva permeata da un senso latente. Questo “suolo”, che sottostà al mondo, alla cosa e
all'io, costituisce il fondo pregno di senso da cui si originano idee e riflessioni. La fede
percettiva, l'Urdoxa, consente l'incontro con l'originario e lo fa operare in noi. Essa esprime la
certezza di abitare il mondo sensibile tramite il corpo e perciò rappresenta una sorta di sapere
proprio della percezione, un sapere che è anche non-sapere, data l’impossibilità intrinseca di
essere concettualizzata. Proprio grazie alla sua sedimentazione del sapere e del non-sapere
essa viene considerata come sostrato della verità. “Ora, questa certezza ingiustificabile di un
314 Scrive in proposito Merleau-Ponty: “Noi espliciteremo la coesione del tempo, quella dello spazio, quella
dello spazio e del tempo, la “simultaneità” delle loro parti (simultaneità letterale nello spazio, simultaneità in senso figurato nel tempo), l’intreccio dello spazio e del tempo e la coesione del diritto e del rovescio del mio corpo, la quale fa sì che, visibile e tangibile come una cosa, sia proprio il corpo ad avere questa veduta di se stesso, questo contatto con se stesso, in cui esso si sdoppia e si unifica, cosicché corpo oggettivo e corpo fenomenico ruotano l’uno attorno all’altro o sopravanzano l’uno sull’altro” (Ibid, p. 136).
315 Cfr. Il filosofo e la sua ombra, in S, p. 216. 316 Ibid, p. 218.
119
mondo sensibile che ci sia comune è in noi il sostrato della verità”317 dice Merleau-Ponty,
continuando più avanti “(...) la nostra certezza di essere nella verità fa tutt'uno con quella di
essere nel mondo”. Nel paragrafo intitolato La fede percettiva e la riflessione, oltre a
osservare l'apparente fragilità della fede percettiva, proprio per il fatto di essere
continuamente minacciata dall'incredulità, e perciò essere un miscuglio di verità e di non
verità, Merleau-Ponty constata che essa si presenta come
(...) la nostra esperienza, più vecchia di qualsiasi opinione, di abitare il mondo mediante il nostro corpo,
la verità con tutti noi stessi, senza che ci sia da scegliere e nemmeno da distinguere tra la certezza di
vedere e quella di vedere il vero, poiché essi sono per principio una medesima cosa, - fede, dunque e
non sapere, perché il mondo non è qui separato dalla nostra presa su di esso, perché, più che affermato,
esso è assunto come ovvio e, più che svelato, è non-dissimulato, non confutato318.
Nascere e, dunque, rapportarsi al mondo che ci circonda comporta una certa presenza,
una certezza che si mostra alla stregua di una fede, forse la più radicata di tutte: la fede in
questa nostra presenza al mondo e del mondo a noi. “Fede, e dunque non sapere”, dice il
filosofo, per sottolineare l'importanza di questo suolo sul quale si possono costruire le
architetture di pensiero più diverse; una certezza che non è conoscenza oppure non è ancora
sapere. Come illustrato in precedenza, il non sapere, l'invisibile di possibilità ha pari valore
del sapere già dispiegato. Queste idee, ribadite anche altrove, confermano la volontà del
filosofo francese di porre l’accento sulla coincidenza a livello di fede percettiva del sapere e
del non-sapere, di certezza opinabile e verità.
Il passaggio dalla percezione al pensiero è istantaneo, dato che l'esperienza percettiva
“piena o attuale” è già pensiero di percezione: “il reale diviene il correlato del pensiero”319.
L'irriflesso si è presentato da sempre nella filosofia di Merleau-Ponty come la condizione di
possibilità del pensiero stesso: “poiché non c'è più un originario e un derivato, la riflessione e
l'irriflesso hanno una relazione reciproca, se non simmetrica, e in cui la fine è nell'inizio
quanto l'inizio nella fine”320. Infatti la riflessione conserva tutto della fede percettiva
rielaborandola, ma rimanendo pur sempre collegata ad essa.
317 VI, p. 38. 318 Ivi, p. 54. 319 Ivi, p. 55. 320 Ivi, p. 60.
120
Non si tratta di sostituire alla riflessione la fede percettiva, ma viceversa di tener conto della situazione
totale, che comporta il rinvio dall'una all'altra. Ciò che è dato non è un mondo massiccio e opaco, o un
universo di pensiero adeguato, bensì una riflessione che si volge sullo spessore del mondo per
rischiararlo, ma che, a cose fatte, non gli rinvia se non la sua propria luce321.
L'Urdoxa è ciò che apre l'io corporeo ad un mondo di possibilità, ad un multiverso
ambiguo in quanto prevede la possibilità di una varietà infinita di modulazioni interne, ma
anche di strutture generali già date. Il reale percepito dal corpo proprio si presenta come una
totalità aperta, la cui unità può essere concepita solo come “stile universale”. L'Urdoxa dice
molto di più della semplice percezione, perché rende molto più eloquente il nesso percettivo
tra l'io e il mondo. Allo stesso tempo, mette in luce le condizioni di possibilità di questo nesso
creando lo spazio per nuove analisi. Si tratta di un'esperienza precategoriale dell'Essere grezzo
che offre all'io la vitalità delle proprie riflessioni.
L'esistenza grezza e preliminare del mondo che io credevo di trovare già data, aprendo gli occhi, non è
se non il simbolo di un essere che è per sé non appena è, poiché tutto il suo essere consiste nell'apparire,
dunque nell'apparire a se stesso, - e che si chiama spirito322.
In questo gioco di ruoli dell'essere, il soggetto si vive come parte integrante
dell'apparire del mondo a se stesso, che egli percepisce e trasforma in idealità. Merleau-Ponty
annota in correlazione a questo passo che il passaggio all'idealità potrebbe suggerirgli la via di
uscita dalle antinomie, in quanto “il mondo è numericamente uno con il mio cogitatum e con
quello degli altri in quanto ideale (identità ideale, al di qua della molteplicità e dell'uno)”323.
L'idealità merleau-pontyana è però co-essenziale al mondo, nel quale è incarnata e del
quale non può fare a meno. La riflessione conserva tutto della fede percettiva, perché
riconduce le convinzioni riguardanti l'esistenza del mondo al loro significato intrinseco e lo
converte nella sua verità, “vi scopre l'adeguazione e il consenso del pensiero al pensiero, la
trasparenza di ciò che io penso per me che lo penso” 324. Il passaggio dalla percezione al
pensiero non si avvale della categoria del “pensiero di vedere325”, vale a dire un pensiero
concepito come sostanza composta o visione affinata, ma propone il ritorno all'originario
tramite un pensiero che svela l'essere grezzo, un pensiero che è trascendentale proprio perché
321 Ibid. 322 Ivi, p. 55. 323 Ibid, nota 15. 324 Ibidem. 325 Ivi, p. 225.
121
rappresenta il sensibile che scava alle proprie radici e va oltre il pensiero composto. Le
conferme, che arrivano a tranquillizzare l'irrequietezza di indagine del proprio fondamento da
parte del pensiero, si basano sulla comune appartenenza all'essere carnale, che, non soltanto
alimentano di significati la riflessione, ma rivelano le relazioni chiasmatiche, organicamente
implicate in un rapporto di reciprocità del sensibile e della ricerca della sua verità, insita in
tutti i soggetti corporei. L'io, arricchito dalla possibilità di accedere perennemente ad un
bacino di senso originario si propone anche come una fonte di potenziali aperture verso l'altro.
Come tale riesce a giustificare la natura prospettica ed intersoggettiva del reale.
Il soggetto, che è uno snodo di orizzonti percettivi e riflessivi, viene colto da più lati,
tra cui i principali sono: il proprio, che è sempre incompleto, poiché tralascia
obbligatoriamente aspetti latenti, non visti, o non ancora visti (dato che l'io non può fare il
giro di se stesso), saputi e non ancora saputi; quello con il quale si apre al mondo e nel
mondo, essendoci innestato, in una continua rielaborazione della linfa vitale che estrae
dall'Urdoxa, come le radici di un albero; e quello della permanente inaugurazione del ponte a
doppio senso di marcia del coglimento dell'altro, in una deiscenza nella reciprocità tra
senziente e sentito, e un costitutivo commercio di significati espressi o latenti. Il concetto di
chiasma descritto in precedenza si applica ad ogni livello di quest’interazione di orizzonti
presenti o occulti e ne caratterizza lo statuto ontologico. Il corpo proprio è descritto come un
essere a due facce in rapporto chiasmatico che descrivono e comprendono la relazione tra
riflesso e irriflesso:
(…) l'essere carnale, come essere delle profondità, a più fogli o a più facce, essere di latenza, e
presentazione di una certa assenza, è un prototipo dell'Essere, di cui il nostro corpo, il senziente
sensibile, è una variante molto notevole, ma il cui paradosso costitutivo è già in ogni visibile: il cubo
raccoglie già in sé dei visibilia incompossibili, così come il mio corpo è contemporaneamente corpo
fenomenico e corpo oggettivo, e se infine esso è, ciò è dovuto, come nel caso del corpo, a un colpo di
forza326.
Merleau-Ponty si serve spesso dell'immagine della tridimensionalità per delineare
meglio le caratteristiche dell'Essere e degli elementi che lo compongono carnalmente, ma
crede che in un primo momento sia “sufficiente mostrare che l’Essere unico, la dimensionalità
326 Ivi, p. 152. A questo proposito Merleau-Ponty afferma che “la latenza, cioè la presenza implicita, fungente,
non è una soluzione, se non altro che [uno] sviluppo racchiuso nel suo esordio” (POF, p.101).
122
alla quale appartengono questi momenti, questi fogli e queste dimensioni, è al di là
dell’essenza e dell’esistenza classiche, e rende comprensibile il loro rapporto”327.
Sin dagli esordi, una delle preoccupazioni principali di Merleau-Ponty è stata quella di
trovare una via per restituire alla riflessione l'irriflesso, l'immediato, lo strato primordiale in
cui si origina il senso. Scrive in proposito il filosofo: “Cerco nel mondo percepito dei nuclei
di senso che sono in-visibili, (…) nel senso dell'altra dimensionalità (…) che è racchiusa
nell'Essere come dimensionalità universale”328. Secondo alcuni interpreti (es.: Comerci,
Invitto, Mancini), il chiasma di raison e déraison costituisce la cifra di tutta la speculazione
merleau-pontyana, nel senso indicato nel primo capitolo dalla riflessione sulla non-filosofia.
Nella Fenomenologia della percezione, il senso dell'unione tra i Cogito si dà
nell'esistenza, assunta in una valenza dialettica. L'esistenza si delinea in un duplice
riferimento: in quanto poggia su una situazione di fatto, e su comportamenti e operazioni
acquisiti, indica il momento della sedimentazione; in quanto si pone come trasfigurazione
della datità e slancio verso il non ancora, è creatività spontanea. Venendo a coincidere con il
proprio divenire storico, il senso fa sì che ogni momento di genesi sia spiegabile attraverso
ciascun momento dello sviluppo successivo, evitando così di cristallizzarsi nell’idea di un
fondamento singolo e statico da cui vengono dedotte delle conseguenze. Il visibile e
l'invisibile è un continuo rimando tra presente e passato, il senso come è stato acquisito o
sedimentato e il senso come viene ripreso e nuovamente utilizzato. Non si trova nelle cose “se
non quello che vi si è messo – ma se ve lo si è messo, non c'è acquisizione, non ci sono
comunicazioni, non c'è efficacia propria della parola”329. Rilevando questa difficoltà, Merleau-
Ponty intende sottolineare il passo in avanti rispetto alla filosofia a lui contemporanea: evitare
che la finalità della parola sostituisse l'attività dell'uomo. In questo senso bisogna precisare
1) che il senso non è mai estraneo, puramente ricevuto, si comprende a partire da quel che si ha; 2) che
esso non sia messo nei vocaboli da parte di atti, altrimenti non vi sarebbe guadagno330.
La parola, dunque, non è semplice rappresentazione materiale di un senso di natura
ideale. Il guadagno semantico che permette la multivocità interpretativa è consentito dalle
pieghe e dagli scarti ontologici che esistono nel chiasma tra senso originario e parola. L'unità
327 Ivi, p. 136. 328 Ivi, p. 249. 329 POF, p. 101. 330 Ibid.
123
di Essere e di senso non si può ridurre alle operazioni di una soggettività trascendentale, né si
può identificare con una ragione preesistente. L'Urdoxa, in quanto fede percettiva, è un pre-
sapere non una conoscenza a posteriori del soggetto che ritorna all'originario. L'esistenza
stessa è coniugata alla contingenza e l'uomo è luogo di contingenza, perché si fonda su una
situazione di fatto e perché è una prospettiva finita, perennemente minacciata dalla morte
(tema appena accennato, ma sempre presente all'orizzonte di pensieri di Merleau-Ponty).
L'esistenza risulta essere, dunque, una dimensione ambigua che la rende dialettica. Come il
corpo, essa sfugge al dualismo di in sé e di per sé, in quanto non è l'unione sostanzialistica
dell'anima e del corpo, ma un andirivieni. Data la sua ambivalenza, in essa ogni esperienza
vissuta ricopre sempre più significati ed è questo aspetto che offre la possibilità di ulteriori
sviluppi del concetto di senso.
La corporeità, in Merleau-Ponty, ha una dimensione simbolica. Nell'operazione di
percepire, ogni registro sensoriale simbolizza tutti gli altri registri, in forza della capacità del
corpo di porsi come espressione naturale. La traduzione spontanea di un senso nell'altro, che
avviene nella percezione e che la connota come dialogo intersensoriale, rivela che il corpo
stesso è un'unità simbolica differenziata che utilizza le sue parti come una simbolica generale
del mondo. La descrizione della vita percettiva e della sua intenzionalità spontanea porta alla
luce il momento in cui il corpo secerne un senso che non gli giunge da nessun luogo, lo
proietta sul suo mondo circostante fatto di materia e lo comunica agli altri soggetti incarnati.
L'intenzionalità latente stessa, intesa come passività secondaria o sedimentazione, è una forma
di riflessione che, però, cessa di essere una proprietà della coscienza.
Nelle ultime Lezioni al Collège de France, la riflessione sul tema della corporeità si
arricchisce di numerosi collegamenti alla sua capacità simbolica ed espressiva. Le note di
preparazione di questi corsi attestano una notevole rielaborazione di queste impostazioni e
delle loro implicazioni. Generalmente, però, si può dire che Merleau-Ponty intendeva portare
i propri studenti attraverso lo studio dello schema corporeo, dell'animalità, del corpo erotico
“nel quale viene ad introdursi il Logos-Percepire e parlare”331.
Nella conformazione costitutiva del soggetto incarnato nel chiasma del mondo c'è la
possibilità del linguaggio:
331 N, p. 304.
124
In un certo senso, se si esplicitasse completamente l'architettonica del corpo umano, la sua intelaiatura
ontologica, e il modo in cui esso si vede e si ode, si vedrebbe che la struttura del suo mondo muto è tale
che tutte le possibilità del linguaggio vi siano già presenti332.
Il sensibile non può essere definito come un insieme di contenuti da una parte opachi e
dall'altra evidenti, ma come ciò che è perennemente pregno di una dimensione, come
l'incarnazione di un certo stile o modus operandi dell'Essere grezzo. Il sensibile non è,
dunque, una semplice occasione per il ricongiungimento all'idea stessa, un punto d'appoggio
che si potrebbe scartare una volta adempiuta la sua funzione e neanche l'espressione della
nostra finitezza, una sorta di schermo che ricopre le idee che altrimenti sarebbero accessibili
nella loro purezza. Per Merleau-Ponty l'idea esiste solo nel e grazie al sensibile, in quanto
rappresenta la dimensione invisibile di cui il sensibile è il modo proprio di mostrarsi. Anzi,
“non c'è più problema del concetto, della generalità, dell'idea, quando si è compreso che il
sensibile stesso è invisibile, che il giallo è capace di erigersi a livello od orizzonte”333.
Basandosi sull’ambigua ontologia dell’osservazione, Merleau-Ponty fu spinto dalla
sua prospettiva fenomenologica al radicale progetto di praticare una riduzione che riportasse
la riflessione, su cui la possibilità stessa del linguaggio si fonda, alla sua origine irriflessa,
quindi a ciò che viviamo in prima persona e alla specifica ontologia che gli soggiace.
3.2.1. Dal senso percettivo al senso langagier
Il principio della significazione viene spiegato con chiarezza da Merleau-Ponty nella
Autopresentazione334, partendo dall'esempio dell'indicare con il dito un punto dello spazio.
Questo gesto del designare una linea che prolunga virtualmente il nostro dito al punto mirato
rappresenta un livello di comprensione differente da quello degli animali, in quanto ci colloca
in uno spazio centrifugo o spazio di cultura.
Questo uso mimico del nostro corpo non costituisce ancora una concezione, poiché non ci separa dalla
situazione corporea di cui al contrario esso assume l'intero senso; ci introduce a una teoria concreta
332 VI, p. 170. 333 Ivi, p. 250. 334 Recepito come UN INEDIT.
125
dello spirito che ce lo rivelerà in un rapporto di scambio con gli strumenti che si dà, ma che gli
restituiscono, con un sovrappiù, ciò che da lui hanno ricevuto335.
Lo scambio di significati tra i significanti si arricchisce di contenuti e di strumenti
ogniqualvolta ciò avviene. La gestualità espressiva non è carica di un senso univoco, bensì
preannuncia la costituzione di “un sistema simbolico capace di ridisegnare una quantità
infinita di situazioni”. Garantendo un valore significante all'espressività, che si eleva di poco
dall'esperienza percettiva, Merleau-Ponty crea la predisposizione all'accoglimento di tutte le
possibilità comunicative che i soggetti incarnati riescono a creare. Anzi, i gesti espressi si
guadagnano il titolo di “primo linguaggio”. Il linguaggio stesso viene definito come “un
secondo corpo”, “un corpo aperto”, visto che il corpo stesso è simbolismo336.
Questa caratteristica del corpo non deve essere considerata in maniera superficiale,
“come termine rappresentativo di un altro, che sta al posto di un altro, ma nel senso
fondamentale di: espressivo di un altro”337. Espressività e non semplice rappresentazione,
dunque, ma in un contesto in cui tutto ciò che orbita intorno al corpo, soprattutto la percezione
e il movimento, possiede capacità simbolizzanti grazie all'inserzione in un “sistema di
equivalenze non convenzionale, nella coesione di un corpo”338. Questi simbolismi di
“indivisione”, di “senso latente” non fondano direttamente il linguaggio istituito, “non sono la
causa del linguaggio, né della sua conservazione”339.
Le “convenzioni” di una lingua rinviano tutte l'una all'altra, e presuppongono un
linguaggio istituito, l'istituzione della Natura e la comunicazione silenziosa della percezione,
senza che i termini si sovrastino l'un l'altro. Il simbolismo convenzionale, mai riducibile alla
comunicazione silenziosa, crea una dimensione nel seno all'Essere naturale come “una piega”
o “una cavità” che non è “richiesta dal simbolismo naturale, ma che ricomincia un
investimento dello stesso tipo”.
335 UN INEDIT, p.9. 336 Cfr. N, p 308. In questo primo abbozzo preparatorio dei corsi Merleau-Ponty schematizza una possibile
spiegazione del concetto di simbolismo come “un termine preso come rappresentativo di un altro, Auffassung als – ci si riferisce allora allo spirito come portatore dell'als, all'intenzionalità, al senso – ma in questo caso il simbolismo viene sorvolato, non c'è più il corpo. Dicendo che il corpo è simbolismo si vuol affermare che, senza che ci sia un'Auffassung preliminare del significante e del significato pensati come separati, il corpo si inserisce nel mondo e il mondo nel corpo: dal momento che il corpo è mobile, è cioé potere di essere altrove, il sentire e il piacere sono svelamento di qualcosa. Un organo dei sensi mobile (l'occhio, la mano) è già un linguaggio, poiché è una domanda (movimento) e una risposta (percezione come Erfùhlung di un progetto), parlare e comprendere”.
337 Ivi, p. 318 338 Ivi, p. 319 339 Ibid.
126
Questa dimensione non si contrappone allo “spirito grezzo”, alla “natura selvaggia”,
ma “si scava un punto singolare in cui, se niente si frappone, il linguaggio appare e si sviluppa
da sé, con la sua propria produttività”340. Questa impostazione del problema del simbolismo e
del linguaggio crea nel filosofo la necessità di “risvegliare questo spirito al di qua delle
positività sedimentate”341.
Visto che, per Merleau-Ponty, tutto ciò che precede il linguaggio espresso è il corpo
umano, che è simbolismo, resta da chiarire in che tipo di rapporto stanno il simbolismo
“naturale” e quello “convenzionale” o “codice”: “si direbbe che, per avere davanti a noi un
significato, sia all'emissione che alla ricezione, noi dobbiamo cessare di rappresentarci il
codice e anche il messaggio, e trasformarci in puri portatori di parola”342. Il filosofo insiste su
questo punto affermando che allorquando
facciamo del linguaggio un mezzo o un codice per il pensiero, noi lo distruggiamo, e ci precludiamo la
possibilità di comprendere a quale profondità si muovano in noi le parole, come ci sia un bisogno, una
passione di parlare, una necessità di parlarsi non appena si pensa, come le parole abbiano il potere di
suscitare pensieri – di introdurre dimensioni di pensiero ormai inalienabili -, come mettano sulle nostre
labbra certe risposte di cui non ci saremmo creduti capaci, come ci insegnino, dice Sartre, il nostro
proprio pensiero343.
Il filosofo francese pensa che
occorre che la Sinngebung iniziale sia non già il possesso di significati e di un codice, ma possesso di
«differenze di significati» e di segni «diacritici» - Allora, in tale campo di significati e in tale campo
diacritico, altro può essere pre-tracciato – ma, stando così le cose, il «significante» e il «significato» non
sono più esterni, essendo rapporti omologhi344.
Nell'ipotesi in cui si accetta di astenersi dal considerare il significante e il significato in
termini di rapporto di soggetto-oggetto, essi acquistano uno spessore carnale nell'Essere
selvaggio e si possono valutare anche come reciprocamente implicantesi. La nozione di
convenzione, in quanto suppone il significante e il significato come “esterni e vincolati per
decreto”, risulta essere in crisi. Tuttavia, la convenzione linguistica non è del tutto artefatta,
340 Ibid. 341 Ibid.. 342 Prefazione in S, p. 41. 343 Ivi, p. 40. 344 POF, p. 101.
127
né del tutto naturale: “il linguaggio non è natura, ma non è convenzione: è storia, cioè
variazione di «convenzioni»”345. Il campo diacritico riesce, dunque, a comprendere il
linguaggio nelle sue infinite possibilità di presenza o di latenza.
Nel rilevare il problema della Sinngebung, Merleau-Ponty affronta le possibilità di
render conto dell'acquisizione del senso dall'Urdoxa e di trasferirlo nel linguaggio. Se il segno
non è “un indice aggiunto in sovrappiù all'essere bell'e fatto”, allora il senso selvaggio
“tappezza” i vocaboli e porta in superficie la sua costituzione fatta di differenze, la sua
apertura. La donazione di senso si ha allora non nella “convenzione”, bensì nella storia, nel
mito. Usiamo il nostro linguaggio come il nostro corpo e ciò porta alla luce l'intrinseca
relazione tra i due elementi.
La chiave della soluzione è, ancora una volta, il corpo proprio346 e la relazione
intercorporea. Lo spirito selvaggio “prorompe nel corpo umano non come una causalità
positiva dello spirito, ma tra le parole” 347, prima della sua sedimentazione negli “oggetti di
cultura positivi”. La vita quasi naturale del linguaggio “nell'indivisione significato-
significante” è come “una seconda natura, precede se stesso, la sua origine è mitica”. Il
linguaggio colto dalla linguistica, invece, deve fare i conti con le convenzioni cristallizzatesi
all'interno della sua forma espressiva. Il linguaggio “è convenzione in opposizione ad ogni
predestinazione dei segni ad un significato: il legame non è dato (imitazione), ma creato da un
principio interno di differenziazione dei segni di una langue” 348. Rispetto alla causalità
naturale, tale principio emerge come assimilabile a una delle nostre “decisioni empiriche nei
nostri rapporti con altri”349, che presuppongono la comunicazione già istituita, “la
comunicazione architettonica”, ma che non derivano da essa perché corrispondono ad
un'impostazione di “un valore irrisorio a dei segni, mentre una langue non si costituisce a
partire da un piano (concezione preliminare del significato e del sistema dei significanti, dei
termini da codificare)”350. La langue “si apre sul significato e si articola sui significanti solo in
345 Ibid. 346 Merelau-Ponty, riferendosi alle radici corporee che affondano nel senso del mondo, afferma che “per
rispondere bisogna rivolgersi a ciò che si trova tra il simbolismo d'indivisione e il simbolismo artificialistico: al linguaggio (dimensione che è già sottintesa dal corpo libidinale)” (N, p. 328.).
347 Ivi, p. 329. 348 Ivi, p. 328. 349 A questo proposito il filosofo coglieva quella “straordinaria impressione che abbiamo non nella «decisione»
(equivoco: essa non rappresenta il nostro momento autentico, formatore, fecondo), ma in [alcune] azioni o in [alcune] parole decisive, [impressione] che tali parole ci vengano strappate dalle cose o dagli altri. Eppure esse sono in sommo grado noi stessi” (POF, p. 108).
350 Ivi, pp. 328-329.
128
base a degli scarti, a partire dagli altri segni (= l'insieme della langue) e dall'uso
precedente”351.
Il filosofo francese ritorna a più riprese sul problema delle convenzioni linguistiche e
del simbolo, sottolineando il pericolo di impoverimento del aspetto ontologico della langue e
delle sue implicazioni intersoggettive. “Come coglimento dell'essere, la parola conosce una
decadenza, un'analisi che fa sparire la sua significazione ontologica”352. C'è, dunque, una
“trappola in tutto ciò che diciamo dell'Essere: ciò che lo maschera, poiché l'Essere è
presupposto da ogni cosa detta”353, ma allo stesso modo ce lo rivela anche, in quanto la
“parola è svelamento dell'essere”. La filosofia, nell'analisi del linguaggio, si trova in questa
situazione paradossale in cui si deve interrogare sull'utilizzo di nozioni quali “simbolo”,
“metafora”354, “immagine”,”analogon” come “improntate a un essere preliminarmente
ridotto”355.
Tra la nostra situazione spaziale e quella degli altri si stabilisce un sistema di
corrispondenze e “ciascuna situazione viene così a simbolizzare tutte le altre”356.
L'appartenenza ad una dimensione comune con delle coordinate comunicabili rende la
struttura significante accessibile a tutti i soggetti incarnati che la vivono. La situazione di un
soggetto risulta perciò “un caso particolare nel sistema di altre situazioni possibili”. La
dimensione della coappartenenza prende, dunque, le vesti di una galassia di compossibili. La
nostra certezza di essere nella verità coincide con quella di essere nel mondo, come
presuppone l'Urdoxa. E' lo stesso mondo che contiene i nostri corpi e i nostri spiriti - a
condizione che si intenda per mondo non solo la somma delle cose percepibili, ma anche il
luogo della loro compossibilità, lo stile invariabile che esse rispettano - che collega le nostre
prospettive e permette la transizione dall'una all'altra e ci da il sentimento di essere testimoni
capaci di sorvolare lo stesso oggetto vero. Il visibile fa concordare le testimonianze diverse
per ristabilire l'unità e la concordanza del mondo.
Lo scopo dell'utilizzo della categoria di coappartenenza è quello di pensare una
immanenza del senso al suo vettore sensibile. Tale categoria si può applicare anche alla
nozione di pensiero, perché “anche l'azione di pensare è presa nella pulsione dell'essere”357. Il
351 Ibid. 352 Ivi, p. 97. 353 Ivi, p. 98. 354 Ivi, p. 96. 355 Ivi, p. 98. 356 UN INEDIT, p. 9. 357 Prefazione a S, p. 36.
129
gesto non è un semplice movimento, ma esprime una potenza simbolica aperta e indefinita del
significare, la forza dell'esistenza del corpo umano. È una maniera di addentrarsi nel mondo e
indica un certo rapporto dell'uomo con tutto l'essente. Esso è anche comunicazione e implica
l'altro nella sua intenzionalità. Ogni gesto è un emblema dell'intenzionalità che attraversa la
vita anonima antepredicativa, in quanto è prelevato dall'unità preliminare di io e mondo. Ma
se, come soggetto parlante, posso riportarmi alle parole, che sono un “certo luogo” del mio
mondo linguistico - con la stessa spontaneità con cui il mio gesto corporeo attesta che senza
mediazioni consapevoli si dirige ad un “certo luogo” fisico che trasmette il messaggio - ciò
può essere spiegato solo ammettendo che la parola, prima che enunciato concettuale o
proposizione coerente, si presenta come la mimica esistenziale in cui si realizza la presenza
stessa del pensiero nel mondo sensibile.
Se il gesto che comunica si fa nel mondo sensibile, tendendo dalla percezione al
movimento, in un processo di significazione indiviso, allora anche il pensiero, che tende alle
parole, lo farà direttamente dal mondo del soggetto proprio, in quanto il parlare possiede un
suo autoctono potere di significazione, la cui base corporea ne permette la realizzazione nel
mondo sensibile.
L’esistenza della parola, per essere compresa, deve essere considerata come un gesto
autentico, vale a dire nella sua valenza originaria e carnale. Ogni gesto contiene il proprio
senso allo stesso modo della parola, perché il senso del gesto non sta sotto di esso, ma si
confonde con la struttura del mondo che il gesto delinea e che l'io riprende percependolo. Il
significato concettuale delle parole si forma come quello dei gesti sulla base della circostanza,
cioè sulla base di un senso vissuto pre-riflessivamente dal soggetto. La parola si forma
avvalendosi della ricchezza significativa che il gesto conferisce, senso che, però, è immanente
alla parola.
Per Merleau-Ponty, il corpo acquista una centralità determinante nella riflessione
metalinguistica, acquisendo tra l’altro, una valenza simbolica nei confronti del mondo. Il
gesto corporeo conduce ad espressione un senso prelogico ed autoctono che, incarnato nel
corpo proprio e manifestantesi con esso, si irraggia a partire da qui in tutto il mondo sensibile,
a cui estende il proprio simbolismo. Il soggetto del gesto, corporeo o linguistico, non è una
coscienza pura, ma una coscienza incarnata che, nell'atto espressivo, si manifesta a sé, come
qualcosa gettato al mondo già da sempre e investito da esso. Il gesto corporeo e il gesto
linguistico hanno in comune l'essere una articolazione emozionale e motrice di una situazione
che conferisce al gesto la sua motivazione. Ciò che distingue il gesto corporeo dal gesto
130
linguistico è la loro scena: la scena del gesto corporeo è il mondo, di cui è un'effimera
focalizzazione; invece la scena del gesto linguistico è doppia. Esso nasce sempre sia nel
mondo, sia nell'universo del segno o della lingua. Il senso che il corpo proprio secerne
nell'atto percettivo e il gesto espressivo inaugurano la dialettica dell'espressione, realizzando
un'unità ambigua non riconducibile al rapporto di soggetto e oggetto.
Il senso, intrinseco all'originario, viene esportato all'esterno tramite il gesto espressivo,
pur rimanendo costantemente importato nella propria reversibilità sensoriale. Questo aspetto
può essere esplicitato anche dalle riflessioni che Merleau-Ponty fa sull'arte cinematografica. Il
cinema, lavorando con le immagini, ci presenta immediatamente il segno e il suo significato,
l'oggetto e la sua percezione; questo vale anche, afferma Merleau-Ponty, per la presenza della
parola e della musica, che non sono mai prese nella loro astrattezza, ma come elementi
“sensibili” che, nel loro insieme, contribuiscono alla costruzione dell'immagine del film358. Il
cinema non racconta le cose, ma come le cose diventano significanti:
Il senso di un film è incorporato al suo ritmo come il senso di un gesto è immediatamente leggibile nel
gesto, e il film non vuol dire altro che se stesso. L'idea è qui ricondotta allo stato nascente, essa emerge
dallo stato temporale del film, come in un quadro dalla coesistenza delle sue parti. E' la felicità dell'arte
di mostrare come qualcosa diventi significato, non per allusione a idee già formate ed acquisite, ma
grazie alla disposizione temporale o spaziale degli elementi359.
Il cinema dunque si scopre, per analogia, il correlato della ricerca filosofica, intesa da
Merleau-Ponty come attività che disvela lo spirito nel mondo e nelle relazioni con gli altri,
che fa vedere - più che spiegare - il rapporto tra soggetto e mondo: “la filosofia
contemporanea non consiste nel concatenare concetti, ma nel descrivere il mescolarsi della
coscienza con il mondo, il suo incarnarsi in un corpo, la sua coesistenza con le altre, e questo
argomento è cinematografico per eccellenza”360.
Il concetto di filosofia che emerge dal testo è quello di un'attività che fa “vedere”, che
“mostra” - come il cinema - il divenire significante delle cose, quel movimento che impedisce
che il linguaggio e l'immagine possano essere prese isolatamente, nella loro astrattezza di
sistemi articolati segno/significato. E' proprio l'idea del movimento costitutivo dell'immagine
358 “La parola, nel cinema, non ha la funzione di aggiungere idee alle immagini, né la musica di aggiungere
sentimenti. L'insieme ci dice qualcosa di molto preciso che non è né un pensiero, né un richiamo dei sentimenti della vita”. (Il cinema e la nuova psicologia, in SNS, p. 78).
359 Ivi, pp. 79-80. 360 Ivi, p. 81.
131
cinematografica ad interessare Merleau-Ponty; nella visione, il movimento impedisce di
fermare lo sguardo, di fissarlo in una idea, in un giudizio. Il chiasma, elemento ricorrente
dell'ultima produzione merleau-pontyana, si fonda, pur in una prospettiva ontologica anziché
fenomenologica, come si è visto, sulla reversibilità, sulla circolarità infinita che caratterizza la
percezione e l'atto stesso del parlare e, in ultima istanza, l'essere nel mondo dell'uomo361.
Lo statuto del corpo vissuto, dell'io incarnato rappresenta l'originaria apertura dell'io al
mondo. Il Cogito stesso è costitutivamente inerente al corpo, non può esprimersi senza
l'inspirazione percettiva. Grazie a questa relazione, la coscienza si è affrancata dall'assoluto,
dalla purezza e trasparenza di se stessa, evitando il pegno dell'abbandono della fonte
medesima della riflessione: il mondo, il Sensibile. Vincolando il Cogito alla corporeità,
Merleau-Ponty non ha cercato di sminuire o restringere la funzione della coscienza, ma al
contrario allargare il suo ambito e ampliare i suoi orizzonti con la fede percettiva. Nella
Struttura del comportamento e nella Fenomenologia della Percezione, introduce il concetto di
Cogito tacito per descrivere l'idea di una vita di coscienza anonima dalla quale sono prelevati
gli atti dell'io cosciente. Il Cogito tacito designa l'io silenzioso che, prima di esprimersi nella
parola, esperisce l'immediato contatto con la propria vita. Questa posizione mette in rilievo
l'irriducibilità della vita anonima del Cogito tacito e del mondo vissuto rispetto all'orizzonte
coscienziale dell'io trascendentale. Grazie a questo concetto, la tematica della riflessione, del
senso e del linguaggio viene ad abitare il reale in tutte le sue manifestazioni, nel silenzio nel
quale si costituisce la parola, nell'immediato del contatto che l'io ha con la vita. Pertanto, nella
prima fase, il Cogito tacito rappresenta, da una parte, il nucleo sul quale si fonda la
soggettività e, dall'altra, costituisce ciò che lo collega tramite la corporeità al vissuto
precedente le chiarificazioni concettuali. La vita anonima della percezione si propone, perciò,
come campo di presenza in cui si trova inserita la coscienza.
In opposizione alla tradizione inaugurata da Cartesio, che pone il Cogito come
cominciamento assoluto, Merleau-Ponty sostiene che non è il mondo ad essere costituito dalla
coscienza, ma è questa che, esperendo la propria inerenza al corpo, scopre insieme
un'inerenza altrettanto originaria al mondo, che si trova già sempre in opera in esso. Tra l'io e
il mondo non c'è subordinazione ma contemporaneità di interiore ed esteriore, due polarità
inseparabili.
361 Cfr. Dottorini Daniele, Dipingere e disegnare con le parole, Il concetto di surriflessione da Merleau-Ponty a
Lyotard, http://www.kainos.it/Pages/articolo%20rice01.html .
132
Criticando il Cogito inteso come coscienza assoluta, Merleau-Ponty lo comprende
come coscienza del presente, collegandola a una temporalità originaria. Temporalità e
soggettività coincidono. Il campo di presenza vivente del Cogito viene installato nel duplice
orizzonte di passato e avvenire, per cui il presente scivola verso il passato e si proietta verso
un tempo possibile.
Merleau-Ponty pensa in termini fondativi il rapporto tra il Cogito tacito e il Cogito
riflesso, che è l'io articolato nel linguaggio razionale. Corpo e coscienza, Cogito tacito e
Cogito riflesso, si unificano nel luogo comune del loro senso, l'esistenza, intesa come “la
continua ripresa del fatto e della casualità da parte di una ragione che non esiste prima di essi
e senza di essi”362. L'esistenza si rapporta in modo diverso al Cogito e al corpo. Rispetto al
Cogito è in una posizione di precedenza, in quanto l'Io penso viene fatto dipendere dall'Io
posso. Rispetto al corpo, si pone su un piano di reciprocità: né il corpo, né l'esistenza possono
essere considerati come l'elementi originali dell'essere umano, giacché entrambi si
presuppongono vicendevolmente, vale a dire che il corpo è l'esistenza cristallizzata o
generalizzata e l'esistenza una incarnazione perpetua363. Si pone il problema del passaggio
dall'uno all'altro.
Il concetto di Cogito tacito, con il quale veniva spiegato nelle prime opere il recupero
percettivo del senso silenzioso che vive nel mondo, si trasforma, invece, ne Il Visibile e
l'invisibile, in senso langagier. In una delle note di lavoro del febbraio 1959, Merleau-Ponty
ne fa un'autocritica che ha influenzato la critica successiva: infatti è stata considerata un punto
di svolta nella sua filosofia. La portata dialettica del Cogito tacito è ritenuta insoddisfacente
per spiegare “il passaggio dal senso percettivo al senso langagier”364. Il concetto utilizzato
nella Fenomenologia della percezione, infatti, crea solo la possibilità di concepire il
linguaggio partendo dal suolo preconcettuale dell'originario, ma non ne giustifica l'esistenza.
Il gesto corporeo che si traduce in comportamento ha bisogno di essere tematizzato per
raggiungere un grado più elevato di espressività. Il rapporto dialettico tra gesto e espressione
vuole rompere il silenzio che avvolge la carne del mondo e la carne dell'io. Merleau-Ponty si
rende conto che la descrizione della coscienza silenziosa senza entrare nel merito dei problemi
specifici del linguaggio è stata una posizione poco approfondita365. In effetti, il filosofo
francese appunta, in un'altra nota di lavoro, la necessità di superare “l'ingenuità” del cogito 362 FP, p. 182. 363 Ivi, p. 234. 364 VI, p. 193. 365 Cfr. S. MANCINI, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell'espressione, FrancoAngeli, Milano,
1987, p. 70.
133
tacito di descrivere il reale senza fare leva sul linguaggio. Infatti, la presa di possesso del
mondo del silenzio effettuata dal corpo percipiente, “non è più questo mondo del silenzio ma
è il mondo articolato, innalzato al Wesen, parlato”366. Il Wesen verbale, infatti, corrisponde
alla “prima espressione dell'essere che non è né l'essere-oggetto né l'essere-soggetto, né
essenza né esistenza”367, non si riferisce, dunque, ad un essere in sé o per sé, ma a “ciò che fa
sì che il tavolo sia tavolo”368. Il problema sollevato da Merleau-Ponty consiste propriamente
nel cercare di descrivere il mondo colto dalla fede percettiva, giustificandone sia il silenzio
primordiale sia il linguaggio articolato che ne deriva: “c'è il mondo del silenzio; il mondo
percepito, per lo meno, è un ordine in cui ci sono significazioni non langagières; sì,
significazioni non langagières: ma non per questo esse sono positive” e poi “ci sono dei
campi e un campo dei campi, con uno stile e una tipica”369. Il filosofo cerca di rivelare
“l'assurdità della tabula rasa in cui si installerebbero delle conoscenze: non perché ci siano
delle conoscenze prima delle conoscenze, ma perché c'è il campo” 370. Il campo del
precategoriale non è né vuoto, né stracolmo di senso: esso è pregno di un senso che nutre tutte
le possibili conoscenze che vi si possano coltivare.
In questa fase della sua riflessione, Merleau-Ponty continua la ripresa dei concetti
approfonditi in precedenza, conferendo loro un orizzonte più ampio, senza creare una rottura
o una svolta, come hanno letto alcuni critici371. Invero, nell'ampliamento della nozione di
cogito tacito, Merleau-Ponty mantiene l'idea di un io primordiale in relazione ad un io
riflesso, ma il loro rapporto non è più di semplice subordinazione fondativa, bensì di
reciprocità circolare. Il processo di lacerazione del silenzio da parte della parola viene
continuato precisamente con un nuovo avvolgimento del linguaggio proferito da parte del
silenzio.
366 VI, p. 196. 367 Ivi, p. 191. 368 Ivi, p. 192. 369 Ivi, p. 189. Il concetto di stile come tema di cui sono date solo variazioni, vale a dire dello stile come “tipica” comporta una riflessione successiva. La tipologia non è solo una classificazione degli stili oppure di una formula che, come riconduzione del molteplice all’uno tradizionalmente, individua lo statuto dello stile. Essa ha un senso fondativo per Merleau-Ponty in quanto esprime l'esibizione dello stile come tipica, cioè quale possibilità di variazione del tipo corporeo come fenomeno originario. La storia della percezione, intesa come storia delle condizioni di possibilità dell’esperienza sensibile radicate nella corporeità vivente del Leib e nella sua tipica approssimativa, è essa stessa correlata ad una descrizione dei tipi stilistici. A questo proposito vedere lo studio di A. Pinotti, Stile e tipica corporea in “Leitmotiv” – 3/2003 http://www.ledonline.it/leitmotiv/. 370 Ivi, p. 235. 371 Tra i sostenitori di questa ipotesi c'è Madison.
134
Il rapporto tra i due è dialettico: rompendo il silenzio, il linguaggio realizza ciò che il silenzio voleva e
non otteneva. Il silenzio continua ad avvolgere il linguaggio; silenzio del linguaggio assoluto, del
linguaggio pensante372.
Il ritorno al primordiale è possibile solo perché esso è pregno di senso, o, per usare le
parole del filosofo, “questo silenzio non sarà il contrario del linguaggio”373. Il contatto con il
suolo percettivo, con l'essere della Lebenswelt, deve essere, dunque, perennemente rinnovato,
per non cadere nella trappola della concezione del pensiero assoluto, puro nella sua
trascendenza.
La significazione muta dell'espressione corporea viene alla luce nella parola, perché la
descrizione del silenzio è già parte del linguaggio. “Tra il silenzio percettivo e il linguaggio
che comporta sempre un filo di silenzio, la differenza è unicamente relativa”374. Anzi, tutto ciò
che dicevamo o diciamo implicava o implica il mondo del silenzio375. Il passaggio dal gesto
emotivo, dal comportamento antepredicativo, alla sua tematizzazione non si svolge in linea
ascendente come travaso diretto e completo del senso. Il linguaggio riesce a contenere una
parte per volta del senso silenzioso che vi si trasfonde.
Come la psicologia, divisa tra «il metodo oggettivo» e l'introspezione, finisce per trovare il suo
equilibrio nell'idea d'una forma del comportamento, afferrabile dal di fuori come dall'interno, così la
linguistica si trova innanzi il compito di superare l'alternativa fra la lingua come cosa e la lingua come
produzione dei soggetti parlanti376.
La differenza tra il simbolismo “già fatto o naturale” del corpo e quello del linguaggio
non è di grado, bensì contestuale: “la vita del linguaggio riproduce a un altro livello le
strutture percettive”, ma lo fa in maniera ontologicamente simile. Le due modalità espressive
sono imparentate ed è per questo che è possibile il rapporto chiasmatico tra di loro.
372 VI, p. 193. 373 Ivi, p. 196. Merleau-Ponty, nella nota, tiene a precisare che la circolarità di questo movimento non è solo un
capriccio filosofico vacuo, “non è esitazione, malafede e cattiva dialettica”, ma è fondato sul progetto di un'ontologia indiretta, che sfugge alle logiche del pensiero che si possiede in piena positività.
374 POF, p. 309. 375 Cfr. VI, p. 188. 376 Il metafisico nell’uomo, in SNS, p. 111.
135
3.2.2. Percezione e linguaggio come mezzi dell'espressione
Dopo la Fenomenologia della percezione, uno dei problemi sui quali si concentra
Merleau-Ponty è il rendere conto della specificità dell'idealità, senza rinunciare al suolo
percettivo, il che lo conduce all'approfondimento dell'analisi dell'espressione linguistica, che
considera il mediatore per eccellenza tra le due dimensioni. La conclusione di questa
riflessione è che, in qualche modo, il linguaggio si precede nella percezione.
Il rapporto parlare-comprendere: il rapporto muoversi-percepire lo scopo, i.e.: lo scopo non è posto, ma
è ciò di cui manco, ciò che segna un certo scarto nel quadrante dello schema corporeo. Analogamente,
io parlo raggiungendo con l'apparato linguistico tale modulazione dello spazio linguistico – le parole
legate al loro senso come il corpo al suo scopo377.
Questo si spiega con la struttura del percepito che permette una continuità tra il piano
della percezione e quello linguistico. La differenza tra l'idealità e il sensibile non rinvia ad
alcuna idea positiva.
La percezione analitica, che ci dà il valore assoluto degli elementi isolati, corrisponde dunque a un
atteggiamento tardivo ed eccezionale: è quella dello scienziato che osserva o del filosofo che riflette; la
percezione delle forme, nel senso generale di percezione di struttura e di insieme o di configurazioni,
deve essere considerata come il nostro modo di percezione spontaneo378.
C'è un'unità essenziale e anche una differenza di grado, piuttosto che di natura, tra i
seguenti elementi: il sensibile propriamente detto, l'espressione pittorica, musicale o letteraria,
il linguaggio e, infine, l'algoritmo scientifico. Siccome il sensibile è la forma universale
dell'Essere, le idee stesse, in quanto espressioni più esigenti di ciò che è, hanno un aspetto
sensibile.
L'espressione, termine che viene chiamato in causa nella riflessione successiva alla
Fenomenologia della percezione, ha un ruolo piuttosto operativo che tematico, motivo per cui
si colloca nella presa di distanza dal lessico dell'esistenza e dell'ambiguità. Essa caratterizza
l'essere-al-mondo del corpo e si inserisce nella problematica della ricerca di rendere conto
della specificità dell'idea, senza che essa venga attribuita ad un'esistenza positiva: “Io non
oppongo qualità a quantità, né percezione a idea”. Merleau-Ponty desidera, infatti, “mostrare 377 VI, p. 206. 378 Il cinema e la nuova psicologia (1945), in SNS, p. 70.
136
che non c'è variazione eidetica senza parola; mostrarlo a partire dall'immaginario come
sostegno della variazione eidetica, e della parola come sostegno dell'immaginario”379, dove
immaginario sta per l'invisibile.
L'apertura realizzata dal linguaggio verso la verità, verso l'idealità, verso l'invisibile, non ha analoghi
nel visibile oggettivo. Ma (…) il visibile «oggettivo» è proiezione di un visibile primordiale che è una
trama d'invisibile, la cosa invisibile380.
Per questa ragione, il concetto di espressione permette di rendere conto dell'unità
dell'essere-al-mondo o dell'esistenza, al di là della differenza del sensibile e del pensato, del
gesto strettamente corporeo e dell'attività linguistica. L'espressione non corrisponde ad una
comunicazione dal di fuori di un significato già costituito: l'espresso non precede
l'espressione, sotto la forma di un pensiero proferito, bensì si costituisce in essa. Per questo
motivo, secondo il filosofo francese, l'espressione non trascende mai la sua materialità. Essa si
da grazie alla percezione, intesa come la trascendenza di se stesso del corpo, e alla
gesticolazione, che è la sua maniera di simbolizzazione. Il corpo percipiente, inteso come
simbolismo primordiale, è allora l'origine di ogni espressività umana, è il movimento
dell'espressione allo stato nascente, mosso dall'intenzionalità antepredicativa. Espresso e
espressione emergono dall'indivisone originaria simultaneamente, visto che il senso che il
corpo produce non è distinguibile dal gesto in cui si incarna. “Io non percepisco più di quanto
non parli – La percezione mi ha come linguaggio”381.
Uno dei capisaldi della filosofia merleau-pontyana consiste, come si è visto, nel
combattere l'idea del pensiero quale rappresentazione trasparente, quale operazione interiore
del Cogito, nonché quella correlativa del linguaggio come suo rivestimento esterno. Nel 1952,
nella presentazione della propria candidatura al Collège de France382, Merleau-Ponty
sottolinea che il soggetto incarnato, capace di percepire il mondo come incompiuto, non potrà
professarsi detentore di “un pensiero trasparente a se stesso, assolutamente presente a sé,
senza corpo e senza storia interposta”383. Al contrario, il suo funzionamento consiste in una
continua nascita dei rapporti tra sé e il proprio corpo o tra sé e il mondo.
379 VI, p. 249. 380 N, p. 329. 381 VI, p. 206. 382 UN INEDIT. 383 Ivi, p. 7.
137
Ogni soggetto incarnato è come un registro aperto di cui non si sa che cosa vi sarà iscritto - o come un
nuovo linguaggio di cui non si sa che opere potrà produrre ma che, una volta apparso, non potrà
mancare di dire poco o molto, di avere una storia o un senso. La produttività stessa o la libertà della vita
umana, lungi dal negare la nostra situazione, la utilizzano e la rivolgono in mezzo di espressione384.
Il paragone tra la vita del percipiente inserito nel mondo e il linguaggio ha come
fondamento la capacità di aprirsi a infinite possibilità di espressione.
La nostra situazione originaria di essere-al-mondo costituisce una culla di senso che
permette lo svilupparsi del linguaggio dentro di noi e tra di noi. Merleau-Ponty pensa che “il
linguaggio, in cui ci installiamo, noi impariamo a maneggiarlo in modo sensato molto tempo
prima di apprendere dalla linguistica (supponendo che essa li insegni) i principi intelligibili
sui quali “riposano” la nostra lingua e ogni lingua” 385. Il bambino che “impara” a parlare trova
per lo più dentro di sé i semi della lingua che utilizzerà in seguito, una lingua che rappresenta
non solo termini e nozioni, ma anche mentalità e fatti culturali.
La varietà che il linguaggio prevede non lo condanna ad una dipendenza dagli
elementi di cui è costituito, ma lo colloca a livello di intenzionalità comune, oltrepassando le
singole intenzionalità verso una direzione che tutti insieme stanno ad indicare.
Di qui deriva sia il fatto che il nostro pensiero, anche solitario, non cessi mai di usare il linguaggio che
lo sostiene, che lo sottrae al transitorio, lo rilancia – che ne è, come diceva Cassirer, il «volano» - e che
dall'altra parte il linguaggio, considerato parte per parte, non contenga il proprio senso, che ogni
comunicazione lo supponga, in colui che ascolta, una ripresa creatrice di ciò che si è inteso386.
Il linguaggio, dunque, si presenta come un enorme serbatoio, di cui le molteplici
combinazioni degli elementi espressivi offrono infinite creazioni, ricezioni e nuove
potenzialità di senso. Per il filosofo francese bisogna “considerare il linguaggio, anche
filosofico, non come somma di enunciati o di «soluzioni», ma come un velo sollevato, una
catena verbale intrecciata”387. Questa capacità di un senso, trasmesso attraverso i mezzi
espressivi, di mutare da un soggetto all'altro dipende dal fatto che il linguaggio non è mai un
semplice rivestimento di un pensiero che si possegga in totale chiarezza. Il senso di un
discorso oppure del linguaggio letterario (come viene ampiamente analizzato nella Prosa del
384 Ivi, p. 8. 385 VI, p. 39. 386 UN INEDIT, p.9. 387 VI, p. 214.
138
mondo) dipende da “una variazione sistematica e insolita dei modi del linguaggio e della
narrazione o delle forme letterarie esistenti”388.
3.2.3. Parola e linguaggio
La riflessione sul linguaggio ha condotto, dunque, alla messa in evidenza del legame
imprescindibile tra il soggetto parlante, inteso come chiasma di corpo e capacità espressiva, e
la lingua, che propone essa stessa un rapporto tra le parole espresse e quelle ancora inserite in
un mondo silenzioso.
Occorre che la lingua sia, intorno ad ogni soggetto parlante, come uno strumento dotato dell'inerzia sua
propria, delle sue esigenze, delle sue costruzioni e della sua logica interna, e tuttavia resti sempre aperta
alle loro iniziative (come d'altronde agli apporti bruti delle invasioni, delle mode e degli eventi storici),
sempre suscettibile di quegli slittamenti di senso, di quegli equivoci e di quelle sostituzioni funzionali
che conferiscono a questa logica come un'andatura titubante389.
La cosiddetta autonomia del linguaggio non deve trarre in inganno chi si sperimenta in
questo genere di analisi, in quanto esso è pur sempre un'emanazione dell'Essere e non solo
una produzione del soggetto pensante: “L'equivoco del linguaggio è pluralismo dell'essere,
non pensiero confuso del soggetto. Esso ci è rilasciato dall'essere attraverso il linguaggio”390.
Analizzare l’esperienza fenomenica vissuta in prima persona dal “soggetto parlante”
permette di scoprire molto di più che cercare nella forma dei fonemi e dei segni che
codificano le parole dette, o nei rapporti che esse intrattengono sintatticamente: per la
fenomenologia della parola il significato del linguaggio non è nelle parole in se stesse, ma in
chi le esprime.
L'approfondimento dell'analisi sul linguaggio, che Merleau-Ponty ha operato
soprattutto a partire dagli anni '50, lo ha portato a mettere in rilievo il ruolo della parola
nell'ambito della comunicazione linguistica e nella macrosfera dei rapporti del corpo con il
mondo. La parola continua questa linea interpretativa, in quanto non traduce un pensiero già
fatto, ma lo compie. Questa impostazione crea, di primo acchito, la sensazione di trovarci di
388 UN INEDIT, p.10. 389 Il metafisico nell’uomo, in SNS, p. 111. 390 POF, p. 109.
139
fronte ad un paradosso: sembra che chi pensa riceva il pensiero dalla parola stessa. Merleau-
Ponty cerca di dissipare questa ambiguità ricollocando la parola e il pensiero in un rapporto di
reciproco avvolgimento. L’interno e l’esterno del soggetto sono, in realtà, avvolti da una
torsione propria alla struttura aperta della cosa, la quale a sua volta esiste anch’essa nella
modalità di questo sdoppiamento e avvolgimento ontologico di interno ed esterno, di
invisibile e visibile, di spirito e corpo. La parola, non soltanto non è un mero involucro
dell'estrinsecarsi del pensiero, ma diventa il suo corpo, lo esprime come stile, come significato
esistenziale che lo abita in maniera inseparabile.
Non c'è il pensiero e il linguaggio: quando lo esaminiamo, ognuno di questi due ordini si sdoppia e
immette una ramificazione nell'altro. C'è parola dotata di senso, che viene chiamata pensiero, e la parola
mancata, che viene chiamata linguaggio391.
C'è dunque rapporto chiasmatico tra l'aspetto sensibile incarnato nella parola e
l'aspetto invisibile che avvolge il senso originario nel linguaggio.
Pensiero e parola si anticipano reciprocamente, si sostituiscono continuamente l'uno all'altro; sono
collegamenti, stimoli l'uno per l'altro. Ogni pensiero viene dalle parole e a esse ritorna, ogni parola è
nata nei pensieri e in essi finisce392.
Merleau-Ponty arriva a riassumere il suo intento nella necessità di elaborare una teoria
della percezione e della comprensione che dimostri che comprendere “non è costituire
nell'immanenza intellettuale, che comprendere è cogliere per coesistenza, lateralmente, come
stile, e con ciò raggiungere di colpo le lontananze di questo stile e di questo apparato
culturale”393.
Un acquisto del cosiddetto periodo intermedio, tra la posizione esposta nelle prime
grandi opere e le ultime elaborazioni in chiave ontologica, è quello del riconoscimento
dell'imprescindibilità della mediazione linguistica, vale a dire dell'impossibilità di una
descrizione fenomenologica diretta della vita antepredicativa, del mondo muto della
percezione. L'innovazione, rispetto alla prima teorizzazione del problema, consiste nel fatto
che il linguaggio non è più considerato solamente uno dei campi di indagine della descrizione
fenomenologica, ma il perno che sorregge l'interrogazione filosofica dell'originario. Gli scritti 391 Prefazione a S, p. 41. 392 Ivi, p. 40. 393 VI, p. 204.
140
di questo periodo, La prosa del mondo, gli articoli raccolti in Segni, Le avventure della
dialettica, così come i riassunti dei corsi (tra cui quelli dedicati al Linguaggio, storia, natura)
descrivono bene il laboratorio di idee che sono servite a gettare le basi di un'ontologia del
linguaggio.
La prima metà degli anni '50 rappresenta anche il momento di approfondimento delle
tesi saussuriane, soprattutto quella del segno come scarto e opposizione. Infatti, nel saggio del
1952, Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio, Merleau-Ponty riprende questo tema:
Saussure ci ha insegnato che, presi isolatamente, i segni non significano niente: più che esprimere un
senso, ognuno di essi indica uno scarto di senso fra sé e gli altri. Poiché anche di questi ultimi si può
dire altrettanto, la lingua è costituita di differenze e non di termini; o meglio, nella lingua i termini sono
generati dalle differenze che appaiono fra di essi394.
Secondo la prospettiva saussuriana, la capacità di produrre un senso appare in
relazione alla strutturazione diacritica del campo di esperienza, vale a dire rispetto
all'articolazione secondo cui gli elementi del campo si vanno a disporre. Da questa
impostazione, Merleau-Ponty trae lo spunto per rinforzare la tematica dell'incarnazione in
quanto vengono messe in relazione, nella nozione di diacriticità, un aspetto che riguarda
l'interiorità, come il senso, e un aspetto di esteriorità, nell'osservazione dell'interazione tra gli
elementi di un campo. Il chiasma tra interno ed esterno si concretizza nell'idea incarnata, vale
a dire il senso grezzo, in cui si esclude un fondo positivo di senso che l'espressione si
limiterebbe a “rendere esplicito”, configurandosi piuttosto come il luogo sempre aperto di un
“senso operante”395.
Se nella prima fase di elaborazione della problematica del linguaggio la parola era
considerata solamente nel suo riferimento all'operazione espressiva del soggetto incarnato,
nella seconda fase, grazie all'ampliamento degli orizzonti in senso saussuriano, si apre la
possibilità di intendere la parola anche e soprattutto nel suo rapporto all'insieme delle parole
che compongono una lingua. In questo senso, egli intende superare il limite soggettivistico
che era apparso nella precedente concezione del segno linguistico, considerando la percezione
stessa come un sistema diacritico oppositivo, cioé che il corpo può istituire differenziazioni
all'interno del campo percettivo.
394 S, p. 63. 395 F. COLLI e A. PRANDONI, L’Essere a due facce. Filosofia e ontologia nell’ultimo Merleau-Ponty, Mimesis, Milano 2002, p. 95.
141
Merleau-Ponty ritrova a livello della parola una struttura “diacritica”: la cosa percepita
o il senso concepito non sono nient'altro che delle dimensioni che articolano un gioco di
differenze.
Come la psicologia della forma rivendica l'uso dei concetti descrittivi, derivati dalla nostra esperienza
umana, e che non potrebbero sostituire i concetti funzionali, fondati sulla misura delle variazioni
correlative, la linguistica di Saussure legittima, nello studio della lingua, oltre alla prospettiva della
spiegazione causale, che collega ogni fatto ad un fatto anteriore e dispone dunque la lingua davanti al
linguista come un oggetto della natura, la prospettiva del soggetto parlante che vive la sua lingua (e che
eventualmente la modifica). Nel primo caso, la lingua è un mosaico di fatti senza «interno». Nel
secondo, invece, è una totalità396.
Dietro l'influenza di Saussure, Merleau-Ponty rileva il reciproco avvolgimento della sincronia e della diacronia. La sincronia, avvolgendo la diacronia, fa sì che la lingua abbia il suo aspetto di sistema nel presente e nella storia, accogliendo pure gli elementi casuali e collegandoli a leggi interne e al funzionamento della lingua come sistema. Quando invece è la diacronia a avvolgere la sincronia, la lingua accoglie gli elementi casuali, perché non è mai totalmente in atto e non è costituita da significati univoci posseduti da una coscienza trasparente a se stessa:
se la filosofia può parlare è perché il linguaggio non è semplicemente il serbatoio dei significati fissati e
acquisiti, perché il suo potere cumulativo risulta anch'esso da un potere di anticipazione o di
prepossesso, perché non si parla solo di ciò che si sa, come per farne sfoggio, ma anche di ciò che non si
sa, per saperlo397.
Nelle note di lavoro a Il visibile e l'invisibile, fa questo appunto: “l'atteggiamento
strutturalistico = la catena verbale, il linguaggio come ricreantesi per intero sotto i nostri occhi
in ogni atto di parola, assunto di individuare l'atto di parlare là dove esso si fà” 398.
Questo implica però che il linguaggio sia “assunto di ritorno all'originario”, “a
condizione che non ci si chiuda nella determinazione di fatto, sincronica”. Allo stesso modo
esso è “assunto di cogliere la coesione del tutto sincronico-diacronico nella parola, la parola
monumentale dunque, mitica se si vuole”399. Negli ultimi corsi al Collège de France, il filosofo
si propone esplicitamente di “ritrovare la parola operante come mito pre-immaginario”. Infatti
la nozione del tempo mitico, per la sua peculiarità di poter essere considerato passato-
396 Il metafisico nell’uomo, in SNS, pp. 110-111. 397 VI, p. 122. 398 Ivi, p. 199. 399 Ibid.
142
presente, si presta benissimo a chiarire come si possa pensare l'origine del linguaggio: essa è
“azione istituente a fecondità illimitata, mito”, dal principio e in maniera continuativa, come
“scavalcamento o sopravanzamento”400. Per Merleau-Ponty, dunque, la struttura originaria del
linguaggio è stratigrafica, in base alle sedimentazioni successive, non in un ordine temporale
ma in una coincidenza ontologica: “L'origine del linguaggio è mitica, il che significa che c'è
sempre un linguaggio prima del linguaggio che è la percezione. Architettonica del
linguaggio”401.
Abbiamo visto che il filosofo, secondo Merleau-Ponty, si deve proporre di ritornare
alle cose stesse, a ritrovare il contatto ingenuo con il mondo, di rivelare “un sostrato profondo
di «opinioni» mute implicate nella nostra vita”402; però, allo stesso tempo, egli deve cercare di
esprimerlo partendo da una situazione originaria in cui le cose che vengono date per scontate
vengono illuminate da una luce nuova. Con ciò intende superare il paradosso secondo il quale
da una parte c'è un ritorno ad un livello in cui si recupera il senso muto delle cose e, dall'altra,
il tentativo di trasporlo in parole. Quello che risulta impossibile a prima vista è proprio il
tentativo di tradurre in parole uno stato delle cose che esprime il proprio senso tramite il
silenzio della propria presenza. Il filosofo interroga quello che lui chiama il ritrovare il mondo
del silenzio, il senso che vi appartiene perché questa idea parte dal presupposto che vi sia già
il senso tacito.
Come si può dire che c'era, giacché, prima che il filosofo lo dicesse, nessuno lo sapeva? - Ma è vero che
esso c'era: tutto ciò che dicevamo e diciamo lo implicava e lo implica. C'era appunto come Lebenswelt
non tematizzata. In un certo senso è ancora implicato come non tematizzato dagli enunciati stessi che lo
descrivono: infatti, gli enunciati come tali sedimenteranno a loro volta, saranno «ripresi» dalla
Lebenswelt, saranno compresi in essa più di quanto la comprendano403.
Non si sta cercando, però, un sostituto verbale per il mondo, bensì una sorta di
coincidenza parziale tra le cose stesse e il linguaggio, come in un intersecarsi di sfere che non
si sovrappongono completamente, ma che instaurano un rapporto di scambio e di complicità.
In un primo momento sembrerebbe che il filosofo dovrebbe tacere, una volta colto
l'originario, dato che nel silenzio, nel contatto tacito, egli raggiungerebbe l'Essere e una
400 POF, p. 100. 401 N, p. 319. 402 VI, p. 31. 403 Ivi, p. 188.
143
filosofia già fatta404, inesprimibile a parole. Dall'altra parte, la riflessione spinge verso una
qualche forma di espressione del mondo e dell'Essere. La preoccupazione del filosofo è quindi
di giustificare l'utilizzo del linguaggio e dello sforzo riflessivo per esprimere il mondo colto
dalla fede preriflessiva. Per quello che riguarda la trasposizione linguistica dell'Essere, si ha a
che fare con due tendenze distinte: la ricerca delle essenze come sfera di assoluta certezza,
oppure la coincidenza con le cose stesse.
La verità che il filosofo vuole far venire alla luce e che desidera esprimere non deve
essere confusa con questa coincidenza con le essenze pure o con il mondo naturale, con la
segregazione dell'interno e dell'esterno405. In entrambe queste situazioni, l'io parlante non
viene incluso nel discorso complessivo, inteso come il linguaggio del vissuto, dell'Essere
verticale. Nel caso in cui si immaginasse il percorso filosofico nella direzione di una sfera di
assoluta certezza dei significati e delle essenze, ci si renderebbe conto che l'interrogante si è
allontanato dall'Essere e dal mondo. Vale a dire che il domandare intorno all'Essere deve
mantenersi nell'Essere, senza perdere i contatti con ciò che lo ha fatto scaturire. “Tramite il
linguaggio, siamo dunque noi a essere interpellati dall'Essere, rivendicati da esso”406.
Per indagare l'Essere non si deve tracciare una traiettoria esterna, in quanto tutto si
svolge al suo interno. La domanda, per la sua caratteristica di essere domanda, ha già
frequentato l'Essere, vi ritorna407, non lo trascende se non rimanendo invischiata nel groviglio
stesso della carne del mondo. Questo intreccio dell'Essere, la dimensionalità alla quale
appartengono tutte le possibilità di coesione del mondo, dei corpi, e delle parole non
presuppone la coincidenza di queste situazioni ontologiche. Tra di esse c'è sempre una
distanza, “una coincidenza da lontano”408, uno scarto che permette di mantenere l'identità dei
vari essenti.
La coesione si presenta come una deiscenza di ogni singolo essente verso gli altri
essenti, verso l'ambiente che lo contiene e verso l'Essere stesso. Non si tratta di fusione nella
medesima carne dell'essente, bensì di ricoprimento reciproco o di sopravanzamento409. Questo
stato delle cose “non impedisce alla filosofia di avere valore, di essere qualcosa di diverso e di
404 Ivi, p. 139. 405 Cfr. VI, p. 136. “Nei confronti dell’essenza come del fatto, c’è solo da collocarsi nell’essere di cui si parla,
anziché guardarlo dall’esterno, oppure, ciò che è lo stesso, c’è solo da rimetterlo nel tessuto della nostra vita, assistere dall’interno alla deiscenza, analoga a quella del mio corpo, che fa sì che esso si dischiuda a se stesso e che ci apre a lui, e che, trattandosi dell’essenza, è quella del parlare e del pensare”.
406 POF, p. 109. 407 Cfr. VI, p.139. 408 Ivi, p. 143. 409 Il termine empiétement viene solitamente tradotto con sopravanzamento. Si tratta di una nozione tematica
dell'ultima filosofia merleau-pontyana che ha il ruolo di descrivere la funzione della reversibilità.
144
più che un semplice prodotto parziale della Lebenswelt, chiuso in un linguaggio che ci
guida”410.
Il problema del linguaggio ha suscitato in Merleau-Ponty l'esigenza di prendere le
distanze da una concezione che lo intende come “già fatto”, oppure come una traduzione
empirica del pensiero che coglie la realtà nella sua trasparenza positiva. Il linguaggio non ha
come compito la codificazione e la decodificazione dei segni esplicitati dalle cose e non
rappresenta un “rapporto tecnico di un suono e di un senso che sono congiunti solo per
convenzione espressa411” e perciò idealmente isolabili. In contrapposizione al linguaggio
artificiale, il filosofo francese propone la categoria di parola parlante, che riesce ad assumere
in maniera naturale le convenzioni della lingua da parte di chi vive in essa. Con questo
concetto intende spiegare “l'avvolgimento del visibile e del vissuto sul linguaggio, del
linguaggio sul visibile e sul vissuto, gli scambi fra le articolazioni del suo paesaggio muto e
quello della sua parola412”. La distinzione tra “parola parlata” e “parola parlante” viene
introdotta da Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione, dove la prima viene
definita “un'espressione seconda, una parola su parole, cioè quella che troviamo solitamente
nel linguaggio empirico”, mentre la seconda è indicata come parola “che formula per la prima
volta”, la sola a risultare “identica al pensiero”413.
La stessa distinzione viene ripresa successivamente, nei corsi tenuti al Collège de
France, nei termini di essere stato (être été) e essere-essente (être étant). Nel contesto in cui si
prende in esame le conseguenze che comporta il simbolo sul rapporto tra segno e significati,
si differenzia il senso idealizzato, o cosa stata (étée), che presuppone una comparazione
esterna, dal senso intrinseco, che non necessita la comparazione, in quanto i due termini si
compenetrano (“la casa e l'abitante, il linguaggio e l'Essere”), l'uno è anche l'altro.
La parola parlante, dunque, esprime la forza espressiva di un linguaggio che non ha
bisogno di essere tradotto in significazioni e in pensieri perché fa affiorare tutti i rapporti
profondi del vissuto in cui esso si è formato, vale a dire con gli ambiti della vita, dell'azione,
della letteratura, della poesia. In una nota di lavoro dell’aprile del 1960 annota l'importanza
del ritrovamento della parola verticale che viene intesa come l'esperienza muta che esprime il
suo senso proprio, come la parola del silenzio, come la parola parlante e non parlata. La
parola parlante, dunque, è indispensabile per la comprensione della parola costituita.
410 VI, p. 188. 411 Ivi, p. 144. 412 Ibid. 413 FP, p. 274, nota 4.
145
Questo logos esprimentesi nella parola parlante è denominato linguaggio operante e
diventa “il tema della filosofia”. Gli orizzonti ampliati della filosofia, che, come si è visto,
abbracciano anche la non-filosofia, vale a dire una visione che comprende se stessa nel
contesto analizzato, tracciano linee di riflessione che si sviluppano sul linguaggio operante.
La filosofia stessa è linguaggio e riposa sul linguaggio e ciò potrebbe far nascere l'obiezione
sulla pertinenza della sua analisi sui fondamenti della sua comunicabilità:
è dunque un problema sapere se la filosofia come riconquista dell'essere grezzo o selvaggio possa
compiersi per mezzo del linguaggio eloquente, o se non debba farne un uso che gli tolga il suo potere di
significazione immediata o diretta per eguagliarlo a ciò che comunque essa vuol dire414.
Merleau-Ponty, estendendo l'area di competenza della filosofia dal linguaggio, come
semplice strumento di trasmissione di pensieri chiari e distinti, al pre-linguaggio del mondo
muto, la munisce di un'arma penetrante: il linguaggio operante che “non può sapersi se non
dall'interno, attraverso la pratica, che è aperto sulle cose, sollecitato dalle voci del silenzio e
che continua un tentativo di articolazione che è l'Essere in ogni essere”415. La filosofia presta
l'orecchio al linguaggio muto delle cose del mondo, così come al gesto emozionale e alla
parola espressa in quanto articolazioni di senso diverse dell'Essere. In questa prospettiva, il
filosofo si propone di “sostituire le nozioni di concetto, idea, spirito, rappresentazione con le
nozioni di dimensioni, articolazione, livello, cerniere, cardini, configurazione”416.
Così come il senso percepito, anche il senso ideale si dà nella filigrana del sensibile particolare che è la parola: l'espressione linguistica permette di pensare l'emersione di un senso che non trascende gli elementi nel seno dei quali si profila. La parola si trova già in seno all’essere e contiene in germe il proprio senso, sebbene non in forma esplicita e intellettuale, ma come un significato trasversale, indiretto.
Il mondo della percezione si prolunga in quello del movimento (che è anch'esso visto) e reciprocamente
il movimento ha [degli occhi?] Allo stesso modo, il mondo delle idee si prolunga nel linguaggio (lo si
pensa) che reciprocamente si prolunga nelle idee (si pensa perché si parla, perché si scrive)417.
Se, in un primo momento, la parola era concepita come una variante del gesto
corporeo, l'essere-al-mondo corporale, in seguito è stata pensata come espressione
414 VI, p. 122. 415 Ivi, p. 144. 416 Ivi, p. 237. 417 Ibid.
146
primordiale. Nella Fenomenologia della percezione, infatti, il ritorno all'operazione
precatergoriale del soggetto parlante metteva in risalto la dimensione originaria del parlare e il
nesso tra pensiero e parola. Nella fase più tarda invece la parola non è l'involucro esterno del
pensiero, ma l'atto concreto che lo adempie. La parola rappresenta il corpo del pensiero e lo
esprime come stile, come significato affettivo, come mimica esistenziale, piuttosto che come
enunciato concettuale. Questo senso emozionale-esistenziale della parola proviene dal mondo
della vita.
Quando non si riconduce immediatamente all'esperienza della cosa che vediamo, la nostra esperienza
del vero è indistinta anzitutto dalle tensioni che nascono fra gli altri e noi, e dalla loro risoluzione. Come
la cosa, come l'altro, il vero traluce attraverso un'esperienza emozionale e quasi carnale, in cui le «idee»
- quelle dell'altro e le nostre – sono piuttosto dei tratti della sua fisionomia e della nostra, e, più che
comprese, sono accolte o respinte nell'amore e nell'odio418.
Ne Il visibile e l'invisibile la parola è collegata al rapporto con l'intero della lingua. Il
senso iscritto nel mondo viene colto nella totalità della lingua come un insieme di
differenziazioni:
E, in un certo senso, comprendere una frase non è altro che accoglierla pienamente nel suo essere
sonoro, o, come si dice opportunamente, intenderla; il senso non è su di essa come il burro sulla tartina,
come un secondo strato di «realtà psichica» estesa sul suono: esso è la totalità di ciò che è detto,
l'integrale di tutte le differenziazioni della catena verbale, è dato con le parole in coloro che hanno le
orecchie per udire. E reciprocamente, tutto il paesaggio è invaso dalle parole, non è più, ai nostri occhi,
se non una variante della parola, e parlare del suo «stile» significa per noi fare una metafora. (…) il
linguaggio è tutto, perché esso non è la voce di nessuno, perché è la voce stessa delle cose, delle onde e
dei boschi. Si deve altresì comprendere che, dall'una all'altra di queste vedute, non c'è rovesciamento
dialettico, noi non abbiamo il compito di riunirle in una sintesi: esse sono due aspetti della reversibilità
che è verità ultima419.
Un linguaggio non è il semplice prodotto di un passato che si lascia alle spalle, esso si
forma sulla sedimentazione dei significati acquisiti che, riattivati, segnano una continuità
nella quale tutto converge, “in quanto la sedimentazione è l'unico modo d'essere della
idealità”420. Quello che si sedimenta nel linguaggio e che gli offre i connotati generali è la
418 Ivi, p.39. 419 Ivi, p. 170. 420 Ivi, p. 248.
147
“naturalizzazione del sovrappiù invisibile, circonscrizione dell'invisibile nei resti visibili”421.
In quanto sistema di relazioni esplicite tra segni e significati, il linguaggio è un prodotto del
linguaggio operante422 compreso come una visibilità seconda, come uno scarto o
differenziazione mai compiuti, come un'apertura “sempre da rifare fra segno e segno, nello
stesso modo in cui la carne, dicevamo, è la deiscenza del vedente in visibile e del visibile in
vedente”423.
Tra il gesto corporeo e quello linguistico c'è unità, in quanto entrambe partecipano del
medesimo evento della metamorfosi del senso grezzo. In entrambi c'è un intreccio irresolubile
di naturale e culturale, di spontaneo e di istituito. Merleau-Ponty rimane fedele a questa tesi
fino alla fine.
Il linguaggio stesso è testimone privilegiato di questo stato in quanto esprime un
rapporto indiretto tra significato e significante. Quello che si esprime non proviene da una
coincidenza tra i due: “ciò che c'è, non è una coincidenza di principio o presuntiva e una non-
coincidenza di fatto, una verità scadente o mancata, ma una non-coincidenza privativa, una
coincidenza da lontano, uno scarto”424.
Il ritorno al senso originario intrinseco nel mondo avviene anche a livello del
linguaggio che desidera una coincidenza perfetta tra la sua capacità comunicativa e ciò che va
descritto. Ma, paradossalmente, è il linguaggio stesso a contenere la distinzione tra i modi in
cui “non si deve e come si deve ritornare alle cose stesse”. Il modo in cui non deve tentare
questo approccio è quello nel quale il linguaggio diventa ingannatore e la verità viene
considerata come muta coincidenza.
Se il linguaggio è preso come vita, quello che esprime è il “vissuto-parlato” e perciò
non interrompe l'articolarsi dell'essere nell'immediato. Un tale linguaggio non è una maschera
sull'Essere, ma esprime il fatto che la visione e il pensiero sono incarnati nella stessa trama
ontologica. Il linguaggio operante da voce al “legame della carne e dell'idea, del visibile e
dell'ossatura interiore che esso manifesta e nasconde”425.
Il sistema di relazioni esplicite tra segni e significati, suoni e sensi, è un risultato e un
prodotto del linguaggio operante. La reversibilità del vedente e del visibile crea un incrocio
tra percezione e parola. Di conseguenza la significazione raccoglie la molteplicità dei mezzi
fisici, fisiologici, linguistici della elocuzione per contrarli in un solo atto, ma si ripercuote 421 N, p. 329. 422 VI, p. 168. 423 Ivi, pp. 168-169. 424 Ivi, pp. 142-143. 425 Ivi, p. 164.
148
anche sui suoi mezzi annettendo la parola parlata. Il progetto di approfondimento dell'analisi
del passaggio dal mondo muto al mondo parlante è rimasto incompleto, ma il filosofo è
riuscito a indicare che non si può parlare né di distruzione, né di conservazione del silenzio:
quando la visione silenziosa cade nella parola e quando, di rimando, la parola, aprendo un campo del
nominabile e del dicibile, vi si iscrive al suo posto, secondo la sua verità, in breve, quando essa
trasforma le strutture del mondo visibile e si fa sguardo dello spirito, intuitius mentis, tutto ciò si
effettua sempre in virtù del medesimo fenomeno fondamentale della reversibilità, che sostiene e la
presenza muta e la parola, e che si manifesta tanto con una esistenza quasi carnale dell'idea quanto con
una sublimazione della carne426.
L'idea o intuitius mentis è un senso secondo o figurato della visione che si manifesta
“alla frontiera del mondo muto o solipsistico, là dove, in presenza di altri vedenti, il mio
visibile si conferma come esemplare di una visibilità universale”427. La presenza fattuale degli
altri corpi non produce di per se l'intuitius mentis: per essere colta essa dovrebbe trovarsi in
seme dentro il corpo.
L'intreccio chiasmatico sorregge e nutre il passaggio dal silenzio parlante alla parola
proferita e il ritorno che essa fa trasformandosi in parola operante. “La parola operante è la
regione oscura dalla quale proviene la luce istituita, nello stesso modo in cui la sorda
riflessione del corpo su se stesso è ciò che noi chiamiamo luce naturale”. Il chiasma o
reversibilità, che è stato rilevato tra il vedente e il visibile, avviene allo stesso modo tra la
parola e ciò che essa significa:
(…) la significazione è ciò che viene a sigillare, a chiudere, a raccogliere la molteplicità dei mezzi fisici,
fisiologici, linguistici della elocuzione, a contrarli in un sol atto, nello stesso modo in cui la visione
porta a compimento il corpo estesiologico428.
Il passaggio dal mondo muto al mondo parlante, la trasformazione delle strutture del
mondo visibile tramite l'apertura all'intuitius mentis,
si effettua sempre in virtù del medesimo fenomeno fondamentale della reversibilità, che sostiene e la
percezione muta e la parola, e che si manifesta tanto con una esistenza quasi carnale dell'idea quanto
con una sublimazione della carne429.
426 Ivi, pp. 169-170. 427 Ivi, p. 161. 428 Ivi, p. 169.
149
Il rapporto tra Essere e parola è considerato “il problema cardinale della filosofia”430,
non problema regionale, nel senso husserliano; il logos ha un legame più diretto con l'aspetto
ontologico: “l'essenza dell'essere è «intrecciata» con l'essenza della parola”431. Si deve
“percepire la parola come significazione, apertura all'Essere”432. Merleau-Ponty chiama questa
relazione tra Essere e parola “intreccio essenziale” 433, in quanto l'essenza dell'essere è
intrecciata con l'essenza della parola, ecco perché il logos ha “un legame più diretto”434 con
l'Essere e c'è identità fra il coglimento dell'Essere e della Parola435: “se noi non
comprendessimo l'Essere non ci potrebbe essere parola”436.
La lingua è una totalità o un sistema sorretto da un principio di organizzazione interna.
Questo principio non è identificabile con il cogito concepito come un incrocio tra dentro e
fuori. Esso invece è intersoggettivo e potrebbe essere visto come uno spirito generale che tutti
costituiscono con la vita comune o uno spirito anonimo che inventa nel cuore del linguaggio,
un nuovo modo di espressione.
Questo spirito generale, che tutti costituiscono con la loro vita comune, questa intenzione già deposta
nel sistema dato del linguaggio precosciente, poiché il soggetto parlante lo sposa prima di rendersene
conto e di elevarlo a livello della conoscenza, e che tuttavia sussiste solo a condizione d'essere ripreso o
assunto dai soggetti parlanti e vive della loro volontà di scambio, è appunto, sul terreno della linguistica,
l'equivalente della forma degli psicologi, estranea tanto all'esistenza oggettiva di un processo naturale
quanto all'esistenza mentale di un'idea437.
Questo spirito non è né soggettivo né oggettivo. Se lo si pensasse come spirito
soggettivo, verrebbe a mancare il tessuto connettivo che unisce i soggetti parlanti nella
Lebenswelt dal punto di vista psico-storico oppure l'Ineinander delle spontaneità, fondato a
sua volta sull'Ineinander estesiologico. “L'Ineinander degli altri in noi e di noi negli altri” è
essenziale nella formazione del senso di ciò che diciamo e udiamo e rappresenta “l'ossatura di
quel «mondo invisibile» che, con la parola, comincia a impregnare tutte le cose che
429 Ivi, p. 170. 430 POF, p. 96. 431 Ivi, p. 97. 432 Ivi, p. 100. 433 Ivi, p. 96. 434 Ivi, p. 97. 435 Cfr. Ivi, p. 107. 436 Ibid. 437 Il metafisico nell’uomo, in SNS, p.112.
150
vediamo”438. Se lo si pensasse, invece, come spirito oggettivo, gli mancherebbe il problema
del livellamento tra gli Ego. Lo spirito soggettivo e quello oggettivo misconoscono
simmetricamente l'intersoggettività. L'istanza parlante va compresa come un sistema
diacritico intersoggettivo439. Nelle elaborazioni successive al '45, l'espressione linguistica non
viene più presentata come fondata su quella corporea. La lingua viene concepita, infatti, come
sistema intersoggettivo provvisto di una struttura specifica. In questa direzione si muovono le
spiegazioni dei prossimi paragrafi.
3.2.4. Il Logos verticale
L'idea di una nuova impostazione dell'ontologia viene espressa, sin dai primi appunti
su Il visibile e l'invisibile, nei termini di un progetto attorno all'Essere grezzo e al logos440.
L'importanza di questi due concetti, intorno ai quali ruotano praticamente tutte le riflessioni
espresse in quest'opera, è capitale: essi esprimono tutta la forza del cambiamento di
prospettiva rispetto alle indagini fenomenologiche, promuovendo la ricerca sul Lebenswelt ad
un nuovo livello di profondità. “Iterazione della Lebenswelt: noi facciamo una filosofia della
Lebenswelt, la nostra costruzione (nel modo della «logica») ci fa ritrovare questo mondo del
silenzio”441. Lo scopo prefissato di questa indagine ontologica è “ritrovare il logos di
Lebenswelt” 442. Nella visione merleau-pontyana, questo logos dovrebbe racchiudere in sé le
possibilità espressive sia del corpo proprio, sia del mondo: “un logos del mondo sensibile e
uno spirito selvaggio animano il linguaggio (e indirettamente l'algoritmo, la logica)”443.
Per giungere a spiegare questo assunto, il filosofo focalizza l'attenzione non solo sul
corpo proprio ma, soprattutto, su quello che considera il suo suolo ontologico fondamentale:
la carne del mondo. Pertanto, si tratta dell’approfondimento dell’interrogazione
fenomenologica del soggetto corporeo nell’interrogazione ontologica sul senso d’essere di
questo suolo (Boden) originario in seno al quale, solamente, si manifesta il senso d’essere
specifico del soggetto corporeo: la carne del mondo.
438 VI, p. 197. 439 Ivi, p. 193. 440 Cfr. Ivi, pp. 183 e successivi. Si tratta delle prime note di lavoro riguardanti il progetto complessivo
dell'opera e perciò di indicazioni preziose sugli obiettivi della sua riflessione. 441 Ivi, p. 188. 442 Ivi, p. 185. 443 N, p. 329.
151
Questa concezione, come si è visto precedentemente, dice molto di più di un elemento
statico e rappresentativo e definisce la nozione dell’Essere quale chiasma di corpo e
linguaggio, ossia quale intreccio ontologico di natura e cultura. Si tratta di una sublimazione
ontologica racchiusa nel logos selvaggio che esprime il passaggio dall’Essere selvaggio
(“Être sauvage”) all’“ Essere acculturato”, dal corpo al linguaggio. Questo Essere selvaggio,
che “si incontra non solo a livello del mondo fisico, ma di nuovo è costitutivo della vita”, ha
anche la proprietà di fondare “il principio selvaggio del Logos – È questo essere selvaggio o
grezzo che interviene a tutti i livelli per superare i problemi dell'ontologia classica
(meccanicismo, finalismo, in ogni caso: artificialismo)”444.
Per Merleau-Ponty la carne del mondo non è una semplice metafora del nostro essere
corpo al mondo, in quanto si potrebbe affermare che “è altrettanto il nostro corpo a esser fatto
della medesima stoffa del sensibile del mondo”445. Questa condizione comune, che riprende
l'elemento presocratico, è definita anche “magma”: “gli uomini e il tempo, lo spazio sono fatti
dello stesso magma”446. Il rapporto tra gli enti in questo magma è quello di mescolanza e di
sopravanzamento e rende gli uomini intrisi l'uno dell'altro come se fossero “uomini-
matrioska”447: “se si potesse aprirne uno, vi si troverebbero tutti gli altri come nelle bambole
russe, o piuttosto non così ben ordinati, in uno stato di indivisione”448. Si tratta di una
indivisione ontologica che però permette la differenziazione, visto che “non è solo disordine,
caso, insensatezza”, ma “è anche eccesso di senso. Una sorta di surplus di senso che penetra
nelle parole e azioni umane, come se queste non potessero impedirselo”449. Il senso originario,
di cui si nutrono le parole e i pensieri degli uomini, fa sì che la comunicazione sia come uno
scaricare l'eccesso di senso, un cogliere dei frutti maturi:
gli uomini parlano per scaricarsi di ciò che hanno da dire, ciò che hanno da dire non è né pensato né
compreso come significazione, sono come proiettili che essi si lanciano (…) talmente forti e dure che
quando le si sopprime dallo spettacolo, questo ne risulta metamorfosato450.
La linfa vitale dell'essere, il suo senso intrinseco, è dinamicità, è capacità di
trasformazione per sopravanzamento ed è appunto per questo motivo che permette
444 VI, p. 225. 445 POF, p. 200. 446 Ibid. 447 Ivi, p. 201. 448 Ibid. 449 Ibid. 450 Ibid.
152
l'incrostazione del visibile nel linguaggio, che trova così la sua appartenenza ontologica. “Tra
gli uomini, e in ognuno di loro, c'è una incredibile vegetazione di parole di cui i «pensieri»
sono le nervature”451. L'eccedenza del senso avviene nel linguaggio in quanto portatore di
significati di cui gli uomini sono coscienti: “un uomo è portatore di idee (passioni, qualità,
intelligenza, idiozia) che hanno infinitamente più senso di «ciò che credevamo essere noi e
che ci fa parlare, agire, odiare, amare»452 - vengono ad abitarci – formano un quadro”453.
Si può dire, perciò, che “il magma umano e interumano disegna queste figure
monumentali senza misura comune con i nostri «pensieri»”454 in quanto “la mescolanza è
caos, ma è anche proliferazione del senso”455. In realtà, la mescolanza di altri e me non
costituisce un caos, ma “una sorta di crescendo in circolo, in cui ciascuno è determinato e
determinante”, in cui i racconti degli altri, “delle persone di cui qualcun altro parla, e che sono
inosservabili”, costituiscono un “reale associato”, visto che “noi siamo tutto, tutto ha delle
complicità in noi”456.
Il linguaggio, anche quando si rifà all'immaginario, rappresenta un'apertura, un
dischiudersi ripetutamente, un racconto-matrioska, “dato che il mondo abbonda di aspetti
associati”457 Il filosofo francese dunque parte dalla concezione della parola non come
un'invenzione, ma come dettata dalla struttura della visione, struttura caratterizzata da un
polimorfismo, da una multivocità, visto che la visibilità stessa non è “possesso di un sistema
di qualità, ma possesso di una griglia, di un rilievo tipico, di gradienti (dimensioni)”458.
Per Merleau-Ponty, dunque, portare alla luce il logos selvaggio significa interrogare la
correlazione di percezione e linguaggio come un intreccio ontologico o chiasma di corpo e
pensiero, ovvero di visibile e invisibile.
Come la struttura sensibile non può essere compresa se non in virtù della sua relazione al corpo, alla
carne, - così la struttura invisibile non può essere compresa se non in virtù della sua relazione al logos,
alla parola – Il senso invisibile è la membratura della parola459.
451 Prefazione a S, pp. 40-41. 452 C. Simon, La strada delle Fiandre, Einaudi 1962, p. 99. 453 VI, pp. 201-202. 454 Ibid. 455 Ivi, p. 203. 456 Ibid. 457 Ivi, p. 205. 458 Ibid. 459 Ivi, p. 237
153
Così inteso, il corpo del soggetto appare come il luogo di una transizione e di un
movimento che lo trascende e che va dal linguaggio muto della percezione all’espressività
della parola operante nel pensiero: “come il mio mondo è dietro il mio corpo, così l'essenza
operante è dietro la parola operante”460. La parola operante nel pensiero, infatti, è concepita
come «sublimazione» della corporeità del mondo nel soggetto, e ciò dal momento in cui
l’invisibilità del pensiero è coestensiva al corpo del mondo. Detto altrimenti, il pensiero nasce
con la sublimazione linguistica della percezione muta, perché si manifesta in modo originario
come inscrizione del corpo parlante del soggetto nel “corpo parlante” del mondo461.
Merleau-Ponty dichiara di voler raggiungere a spiegare la soggettività e
l'intersoggettività di modo che non siano lontane né dall'idealità, né dalla Lebenswelt. La base
per l'unione di questi due aspetti, quello del pensiero, espresso o non espresso, e quello del
corpo proprio, come soggettività incarnata, si trova nell'impostazione dell'Essere selvaggio.
Il logos è termine che compare con una certa frequenza nei testi merleau-pontyani, ma
con significati diversi in base agli accenti che si intende dare. Nelle prime opere, percepire
esprime l’aprirsi ad un mondo che è senso. L'unità di mondo e di senso è denominato Logos.
Questa unità può essere considerata dalla parte del soggetto come una figura di cogito, oppure
come una figura dell'intenzionalità operante. Se invece viene considerata dalla parte
dell'oggetto, essa è una certa disposizione delle cose. C'è logos, unità di essere e di senso, sin
da quando c'è percezione, fede percettiva, esperienza, sin da quando si proferisce il dialogo
immemorabile e costantemente rinnovato del vedente e del visibile, del senziente e del
sensibile, nella deiscenza in cui si apre al mondo.
Negli ultimi scritti, invece, il concetto di logos è strettamente collegato a quello di
carne. Infatti il logos prende posto nel contesto di una teleologia dell'essere, il chiasma
senziente-sensibile, che culmina con la deiscenza della carne. “L'Essere grezzo o selvaggio (=
mondo percepito) e il suo rapporto con ιλ λογοζ προφοριχοζ come Gebilde, con la
“Logica” che produciamo -”462.�
Questo chiasma è il momento che segna l'inizio del processo nel quale l'essere carnale
diventa coscienza, si fa logos463. La trasformazione fa interagire in maniera chiasmatica il
senso percettivo che nasce con la deiscenza della carne e l'essere-logos: l'essere ritorna su di
460 Ivi, p. 137. 461 Cfr. Antonino Firenze, Il chiasma e la nuova ontologia. Riflessioni sull’intreccio di corpo e pensiero nella
filosofia di Merleau-Ponty, “Isonomia”, Istituto di Filosofia Arturo Massolo,Università di Urbino, 2008. 462 VI, nota di lavoro del 17 gennaio 1959, p. 187; corsivo nel testo originale. 463 Cfr. Andrea Bonomi, Giovanni Invitto, Merleau-Ponty, esistenza, filosofia, politica, Guida Editori, Napoli
1982, p. 83.
154
sé, si fa presente e si articola nel logos selvaggio. “La comunicazione nel visibile viene
continuata da una comunicazione nell'invisibile con i nostri gesti e le nostre parole”464. In
questo senso il logos del mondo naturale viene ripreso dal linguaggio in un'altra
architettonica.
La carne si pensa su più piani che corrispondono ad altrettante figure del logos.
Quando la carne viene intesa come carne del sensibile, del visibile (dunque mettendo l'accento
sull'apertura percettiva al mondo) Logos ha il significato di Logos del mondo estetico oppure
Logos verticale. Si tratta di un senso anteriore alla logica che si pronuncia silenziosamente in
ogni cosa sensibile. Esso non si riferisce né ad un in sé (come se fosse una ragione
preesistente), né ad uno spirito o a un cogito (come se venisse al mondo tramite un atto di
costruzione o di donazione di senso).
Il logos sorge nella deiscenza di sé e del mondo. Il mondo visibile è il logos che
permette che ci sia l'istituzione nella percezione, che una certa logica percettiva ci sia
familiare, come principio organizzatore, per esempio dei movimenti dello sguardo e del senso
del loro risultato. Se la carne è intesa come carne del vivente (con un accento sull'essere
naturale e l'ambito della vita), Logos significa Logos della vita (“l'embrione contiene l'adulto
come la lingua le parole”). In questa accezione il linguaggio, come vita del pensiero,
comprende pure l'animalità (Logos del mondo estetico, incorporazione del senso).
Quando la carne si riferisce all'essere della cultura, allora il Logos entra in una
relazione diacritica con la natura, il visibile, e il Logos passa dalla parte del linguaggio, dello
spirito, dell'invisibile, dell'idealità. In proposito il filosofo appunta questo intento:
Vorrei sviluppare tutto ciò nel senso: l'invisibile è una cavità nel visibile, una piega nella passività, non
produzione pura. Per questo fare analisi del linguaggio, mostrando sino a che punto esso è spostamento
quasi naturale465.
Il Logos è sempre pensato come orizzonte del linguaggio, ma senza che si identifichi
con esso, né con la parola sedimentata, né con il linguaggio operante che non ha bisogno di
essere tradotto in significati e in pensieri, ma come vita.
Questo è anche il significato del concetto di Logos che Merleau-Ponty utilizza per
designare un ordine differenziato o una struttura dalla quale può scaturire un senso. In questo
contesto può apparire la distinzione tra un Logos selvaggio o percettivo e il Logos verbale,
464 N, p. 319. 465 VI, p. 248.
155
che si confonde con il linguaggio. Il Logos endianthetos (interiore) è il logos del mondo
estetico, che chiama e istituisce un logos prophorikos (proferito) che è linguaggio o spirito; il
primo sollecita il secondo466. La distinzione tra il Logos endiathetos (il logos del sensibile,
della vita) e il Logos prophorikos (il linguaggio operante, la lingua-cosa) riprende la divisione
precedente tra il cogito tacito e il cogito parlato, ma con un inflessione profonda. Il filosofo
rinuncia alle impostazioni iniziali del concetto di cogito tacito (“Ciò che io chiamo cogito
tacito è impossibile”467), in vista di un ampliamento della portata dialettica del pensiero e della
parola:
per avere l'idea di «pensare» (nel senso del «pensiero di vedere e di sentire»), per fare la «riduzione»,
per ritornare all'immanenza e alla coscienza di…, è necessario avere le parole. È grazie alla
combinazione di parole (con il loro apporto di significazioni sedimentate, e capaci, per principio, di
entrare in rapporti diversi da quelli che hanno servito a formarle) che io faccio l'atteggiamento
trascendentale, che costituiscono la coscienza costituente468.
Non solo il cogito si sbiadisce o si riformula (in quanto non c'è più bisogno di cercare
un portatore soggettivo di senso, dato che è la carne il suo proprio senso), ma non c'è più
rottura tra il pre-linguaggio e il linguaggio, che sono due figure del Logos. Questo
superamento si può operare grazie all'abbandono della relazione soggetto-oggetto. Il Logos è
trasversale alle regioni dell'Essere. Il pensiero può così riconoscere che se il Logos proferito
precede se stesso nel Logos interiore (alla trama dell'Essere bruto), il Logos interiore continua
nel Logos proferito: “C'è un Logos del mondo naturale, estetico, sul quale poggia il Logos del
linguaggio”469.
“Il Logos nel senso del linguaggio”, il linguaggio proferito “dice tutto salvo se stesso,
come il Logos silenzioso della percezione, esso è reticente”, perché interiore, vale a dire
perché “non siamo noi a parlare ma è esso che parla in noi”470. Il Logos endiathetos
466 Cfr. Ivi, nota di lavoro del gennaio 1959, p, 187. 467 Ivi, p. 188. Più avanti il filosofo annota, riferendosi al superamento della dialettica che non riesce a rendere conto dell'intersoggettività verticale, che “naturalmente il Cogito tacito non risolve questi problemi”, ma che “svelandolo come ho fatto in Ph.P., io non sono giunto a una soluzione (il mio capitolo sul Cogito non è collegato a quello sulla parola): viceversa ho posto un problema. Il Cogito tacito deve far comprendere come non è impossibile il linguaggio, ma non può far comprender come esso è possibile.”. ( Ivi, p. 193.) 468 Ivi, p. 188. 469 N, p. 310. 470 Ivi, p. 309. Anche nel corso dell'anno precedente annota, a proposito del rapporto del linguaggio con l'essere
e con l'uomo che “non è l'uomo che parla, o che ha il linguaggio, è il linguaggio che parla in lui” (POF, p. 107).
156
rappresenta “lo spirito grezzo e selvaggio” che può essere ritrovato “al di sotto di tutta la
materia culturale che esso stesso si è dato”471.
Il ruolo del logos endiathetos, o “pregnanza empirica”, consiste nel “definire ogni
essere percepito mediante una struttura o un sistema di equivalenze attorno al quale esso è
disposto”, in quanto esso “si pronuncia silenziosamente in ogni cosa sensibile” che a sua volta
“varia attorno a un certo tipo di messaggio, di cui non possiamo avere l'idea se non in virtù
della nostra partecipazione carnale al suo senso, se non sposando con il nostro corpo la sua
maniera di «significare»-”472.
La specificità del logos proferito è la sua “struttura interna che sublima il nostro
rapporto carnale con il mondo”473. Per Merleau-Ponty l'apertura percettiva al mondo, il logos
endianthetos474, e l'apertura a un mondo culturale (acquisizione d'uso degli strumenti) devono
rimanere continuamente tali per permettere il loro rapporto di reciprocità. La cultura è, per
l’appunto, un sistema di significati condivisi linguisticamente nell’intersoggettività.
Nell'ultima nota di lavoro trascritta da Lefort, impostava il suo piano dell'opera Il
visibile e l'invisibile nella tripartizione “I IL VISIBILE, II LA NATURA, III IL LOGOS”.
Questo fa intendere che nelle elaborazioni precedenti alla sua scomparsa, il filosofo risaltava
il ruolo del logos come momento in cui si esprime maggiormente il chiasma dell'Essere, ma
offrendo all'uomo475 un ruolo non marginale. Da questi titoli si può rilevare la programmatica
attenzione per il progressivo passaggio dall'Essere selvaggio all'“Essere acculturato”, dal
corpo al linguaggio, come sublimazione ontologica di quella che egli stesso definì in modo
inaugurale carne del mondo.
Infatti, si sforzò di pensare, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, come
testimoniano i corsi tenuti al Collège de France, che quello che interessa è lo ”studio del
linguaggio il quale possiede l'uomo”. Il filosofo francese insiste su questa tesi anche ne Il
visibile e l'invisibile, quando, in una nota di lavoro del 1959, afferma che “il linguaggio ci
possiede e non siamo noi a possederlo”, visto che è “l'essere a parlare in noi e non noi a
parlare dell'essere”476. Il dialogo non rappresenta un semplice scambio o confronto di idee,
come se ciascuno possedesse le sue, le formasse, “le mostrasse agli altri, guardasse le loro, e
471 N, p. 310. 472 VI, pp. 222-223. 473 Ibid. 474 Ivi, p. 227. 475 La nota infatti si conclude con l'equazione: “Materia – lavorata – chiasma” ( Ivi, p. 285). 476 Ivi, p. 210.
157
ritornasse alle sue per correggerle”477. La filosofia esprime l'esperienza muta proprio
“dell'Essere parlante in noi”, che si acquista la valenza di creazione478.
La filosofia, come l'arte, in quanto inscrizioni dell'Essere, non sono casuali perché
“l'Essere è ciò che esige da noi creazione affinché ne abbiamo esperienza”479. Il linguaggio,
dunque, è carico di un significato che oltrepassa la dimensione di una semplice trasmissione
di contenuti che avviene nella massima chiarezza, ma anzi, manifesta anche una vita interiore,
in quanto: “Non siamo noi a parlare, è la verità a parlarsi in fondo alla parola”480. Il linguaggio
avvolge ed è avvolto, si dispiega su più registri, si trova alla genesi del senso e vive nei
soggetti parlanti, senza coincidere con essi: “Le cose si trovano dette e si trovano pensate
come da una Parola e da un Pensare che noi non possediamo, che ci possiedono”481.
Nei suoi progetti, Merleau-Ponty aveva pensato che questa analisi si potesse articolare
in una prima parte, nella quale sarebbe stato descritto il visibile come realizzantesi “attraverso
l'uomo”, ma non nel senso di un'antropologia spicciola; e una seconda parte, nella quale si
sarebbe mostrato come la Natura non è che “l'altro lato dell'uomo (come carne – non come
“materia)” e, infine, si sarebbe messo in luce come si compie il Logos “anch'esso nell'uomo,
ma non come sua proprietà” 482. Ecco perché l'incrocio degli ambiti di ricerca riguardanti il
linguaggio, la Natura e l'intersoggettività è rilevato dal filosofo stesso come un punto che
necessita ulteriori approfondimenti.
3.2.5. La fatticità del mondo
Uno dei tratti principali del concetto di mondo merleau-pontyano risulta perciò la
fatticità. Nella Prefazione alla Fenomenologia della Percezione (1945) Merleau-Ponty scrive:
L'evidenza della percezione non è il pensiero adeguato o l'evidenza apodittica. Il mondo non è ciò che io
penso, ma ciò che io vivo; io sono aperto al mondo, comunico indubitabilmente con esso, ma non lo
posseggo, esso è inesauribile. «C'è un mondo», o meglio «c'è il mondo»: di questa tesi costante della
mia vita non posso mai rendere interamente ragione. Tale fatticità del mondo è ciò che fa la Weltlichkeit
477 Ivi, p. 137. 478 Cfr. Ivi, p. 213. 479 Ibid. 480 Ivi, p. 202 481 Prefazione a S, pp. 42-43. 482 VI, p. 285.
158
der Welt, ciò per cui il mondo è mondo, così come la fatticità del cogito non è una imperfezione del
cogito stesso, ma viceversa ciò che mi rende certo della mia esistenza483.
Se il mondo non è quello che io penso, ma quello che io vivo, allora alla fatticità del
mondo corrisponde la fatticità del cogito e della tesi costante della mia vita, "c'è il mondo",
non posso mai rendere interamente ragione. Prima di ogni intenzionalità d'atto, di quella dei
nostri giudizi e delle nostre prese di posizione volontarie, è sempre attiva un'intenzionalità
fungente, quella che
costituisce l'unità naturale e antepredicativa del mondo e della nostra vita, che appare nei nostri desideri,
nelle nostre valutazioni, nel nostro paesaggio più chiaramente che nella nostra conoscenza oggettiva, e
che fornisce il testo di cui le nostre conoscenze cercano di essere la traduzione in linguaggio esatto484.
La riflessione non si ritira dal mondo verso l’unità della coscienza come fondamento
del mondo, ma prende distanza per veder scaturire le trascendenze, distende i fili intenzionali
che ci collegano al mondo per farli apparire, essa sola è coscienza del mondo perché lo rivela
strano e paradossale. Merleau-Ponty considera necessario l'allontanamento dalla concezione
kantiana dell'intenzionalità come percezione interna, che non è possibile senza la percezione
esterna, (il mondo, come connessione dei fenomeni, è anticipato nella coscienza della mia
unità, è per me il mezzo di realizzarmi come coscienza). L’intenzionalità, al contrario, prima
di essere posta dalla conoscenza e in un atto di identificazione espressa, esperisce l’unità del
mondo come vissuta, come già fatta o già là.
Questa idea viene ripresa anche anni dopo, quando, nelle note preparatorie dei corsi
presso il Collège de France, si pone come obiettivo di “apprendere a riconoscere che non
esiste pensiero che supera il fatto del mondo”485. Non si tratta dunque di cercare ciò che rende
possibile l'esperienza del mondo nella direzione di “un pensiero naturante che formi la
membratura del mondo o l'illumini da parte a parte”486 o di una soggettività costitutiva, bensì
“ciò che essa è”487.
In quanto caratteristica del concetto di mondo, la fatticità assume in Merleau-Ponty un
significato preciso. Essa non esclude per nulla l'idealità o il Logos. Essi coesistono, ma non gli
483 Premessa, FP, p. 26. 484 Ivi, p. 27. 485 (Tr. n.) Manoscritto inedito in microfilm presso la Bibliothèque Nationale de France, n° VII, 147. 486 Premessa, FP, p.26. 487 Ibid.
159
sono antecendenti: “il solo Logos che preesista è il mondo stesso”488. Nei presupposti stessi di
una filosofia che intende porgere uno sguardo nuovo sul mondo e sulle relazioni che
intercorrono tra esso, la soggettività ivi immersa, e le altre soggettività appare la visione della
fatticità del mondo. La definizione stessa della fenomenologia tematizzata nell'opera del 1945
testimonia questo intento:
La fenomenologia è lo studio delle essenze, e per essa tutti i problemi consistono nel definire essenze:
per esempio, l’essenza della percezione e quella della coscienza. Ma la fenomenologia è anche una
filosofia che ricolloca le essenze nell’esistenza e pensa che non si possa comprendere l’uomo e il
mondo se non sulla base della loro «fatticità»489.
La nozione di fatticità si situa nel cuore stesso di una fenomenologia della percezione
in quanto, se si intende studiare l'apparizione dell'essere alla coscienza, invece di supporne la
possibilità, essa risulta inseparabile dal mondo e dal cogito. Anche dopo il momento della
svolta ontologica del pensiero merleau-pontyano, nell'ultima fase della sua produzione, la
fatticità come caratteristica del mondo viene confermata.
Il tormentato problema filosofico del nostro accesso al mondo490 presuppone un
concetto basilare nella filosofia merleau-pontyana: la percezione. Tale nozione segue una
elaborata evoluzione e presuppone il riscatto dell'impostazione fenomenologia rispetto ad un
pensiero positivo, sia scientifico che metafisico, ma anche una rivalutazione finale dalla
teleologia ontologica più che epistemologica.
La necessità di passare per le essenze non significa che la filosofia le assuma come oggetto, ma, per
contro, che la nostra esistenza è troppo strettamente presa nel mondo per conoscersi come tale nel
momento in cui vi si getta, e che essa ha bisogno del campo della idealità per conoscere e conquistare la
sua fatticità491.
L'atteggiamento conoscitivo, di cui la scienza è l'espressione più compiuta, si fonda
sempre nell'esperienza, nel mondo vissuto, nel mondo percepito, a cui appartiene il senso
originario dell'essere. Perciò la mia esistenza non si può comprendere come prodotto, ma
come apertura di senso, non come conseguenza di ciò che mi ha preceduto, ma come
488 Ivi, p.30. 489 Ivi, p.15. 490 Cfr. VI, p.33. 491 Premessa, FP, 24.
160
possibilità per una tradizione, per un orizzonte di proporsi, di aprirsi. E il mondo vissuto,
l'esperienza percettiva originaria, quella che ci dà le cose stesse, in quanto terreno fondante,
non va spiegato, ma descritto, accolto nelle sue strutture, nei suoi tratti.
Non si tratta di sdoppiare la coscienza umana in un pensiero assoluto, che, dal di fuori, le assegnerebbe i
suoi fini. Si tratta invece di riconoscere la coscienza stessa come progetto del mondo, destinata a un
mondo che essa non abbraccia né possiede, ma verso il quale non cessa di dirigersi – e il mondo come
quell'individuo preoggettivo la cui unità imperiosa prescrive alla conoscenza il suo scopo492.
3.3. Le implicazioni intersoggettive del linguaggio
L'ipotesi che questa ricerca si è proposta di dimostrare consiste nell'idea che la carne,
in quanto nozione ontologicamente ultima493, si trova perennemente in un contesto in cui si
mescolano i concetti di pensiero e alterità.
Il pensiero è rapporto a sé e al mondo quanto rapporto all'altro, esso si stabilisce quindi nelle tre
dimensioni contemporaneamente. Ed è direttamente nella infrastruttura della visione che si deve farlo
apparire494.
Nel descrivere la carne come un ambito di ricerca illimitato, in quanto essa risulta in esubero
rispetto alla semplice “unione o composto di due sostanze”, Merleau-Ponty introduce la
caratteristica di pensabilità come indice del rapporto che si determina tra l’io e se stesso e tra
l’io e gli altri.
Corpo e simbolismo. Enigma del corpo, cosa e misurante di tutte le cose, chiuso e aperto, nella
percezione così come nel desiderio. Nel corpo non ci sono due nature, ma una duplice natura: il mondo
e gli altri diventano la nostra carne495.
L’analisi fenomenologica delle strutture del comportamento mostra infatti che la
specifica ontologia che sostiene la vita cosciente è tale esclusivamente per la sua “situazione”,
492 Ivi, p. 27. 493 Cfr. Ivi, p. 156. 494 Ivi, p. 161. 495 N, p. 308.
161
che è appunto un’incarnazione (individuale ma aperta all’intersoggetività) che si è stabilita
storicamente durante l’evoluzione della biosfera.
Per riconoscere gli altri come esseri pensanti “significa che possiamo stabilire con loro
una comunicazione” fondata su un'altra corporeità e sul fatto che essa “è sempre collegamento
al nostro universo umano, che può dunque venire esteso, generalizzato, ma non annientato”496.
L'angoscia davanti ad un altro assoluto può essere superata grazie allo “svelamento di una
Lebenswelt che sussiste sotto le idealizzazioni, le nutre e nutre la nostra storia, e appartiene a
un tipo d'essere senza il quale la «costruzione» nel suo diritto relativo non è fondata”497.
I fatti linguistici hanno bisogno nella loro connessione della mediazione delle
coscienze, senza che ciò significhi che “il luogo e l'ambito della lingua sia la coscienza, né
che la lingua sia un'astrazione ed i soggetti parlanti la sola realtà. Ogni «oggetto» parlante,
infatti, anche quando modifica la lingua, si sente costretto a modi d'espressione tali che egli
possa farsi capire dagli altri”498.
La presenza degli altri è dimostrata anche qui grazie al concetto di visibile, in quanto
sinonimo di carne:
se c’è un rapporto a se stesso del visibile che mi attraversa e mi costituisce come vedente, questo circolo
che io non faccio, che mi fa, questo avvolgimento del visibile sul visibile, può attraversare, animare altri
corpi quanto il mio, e se io ho potuto comprendere come in me nasce quest’onda, come il visibile che è
laggiù è simultaneamente il mio paesaggio, a maggior ragione posso comprendere che anche altrove
esso si richiude su se stesso, e che ci sono altri paesaggi oltre al mio. Se esso si è lasciato captare da uno
dei suoi frammenti, il principio della captazione è acquisito, il campo è aperto per altri Narcisi, per una
«intercorporeità»499.
Nel mettere in evidenza i “rapporti difficili tra questo invisibile e gli apparati tecnici
visibili che esso si costruisce”, Merleau-Ponty rende chiaro l'avvicinamento al “centro oscuro
della soggettività e dell'intersoggettività”500, nel senso che l'intersoggettività ideale è legata
all'intercorporeità, è interna all'intercorporeità. Il collegamento tra un aspetto visibile e uno
invisibile della relazione tra gli uomini nel mondo, il fatto che esseri ideali appaiano come
“correlati virtuali del simbolismo organizzato intorno ad essi, sostenuti da quest'ultimo”,
come configurazioni di un nuovo paesaggio, risulta urgente da esaminare in che misura la
496 POF, p. 13. 497 Ivi, p. 14. 498 Il metafisico nell’uomo, SNS, p. 111. 499 VI, p. 157. 500 N, p 330.
162
filosofia stessa “è uno di questi ordini invisibili che si sedimentano”501 e i cui elementi essa
pretende di possedere nell'insieme.
La comunicazione intercorporea ha lo stesso stile e si muove sulla base dello stesso
impulso che genera il linguaggio. L'invisibile, i “grovigli” di significazioni sostenuti da
“pochi gesti perentori” protendono “verso le cose e verso gli altri in modo solidale”, perché
c'è una necessità che alberga nei profondi dell'essere “che quanto era segreto divenga
pubblico o quasi visibile”. Infatti, “parlando agli altri (o a me stesso), io non parlo dei miei
pensieri, ma li parlo, e parlo ciò che è tra di essi, i miei pensieri riposti, quelli soggiacenti”502.
Ne La struttura del comportamento, Merleau-Ponty non intendeva rinunciare ad una
filosofia trascendentale e optava per una sua trasformazione, che la rendesse capace di aprirsi
all’immediato. Nella Fenomenologia della percezione la prospettiva cambia, in quanto
l’indagine fenomenologica gli aveva consentito di sfumare i confini tra ragione e dimensione
sensibile da cui si origina, grazie anche al concetto di circolarità di riflessione e irriflesso,
“Cogito parlato” e “Cogito tacito”. La difficoltà riscontrata a questo livello è di tipo
soggettivista, implicando con ciò il problema concernente la possibilità di dire le blosse
Sachen.
Sia la filosofia trascendentale, sia la descrizione fenomenologica, dimostrano di rappresentare un
ostacolo per un pensiero che si prefigge di raggiungere ciò che per principio resiste all’attività
conoscitiva e descrittiva del soggetto”503.
Merleau-Ponty ricongiunge, attraverso la complementarietà delle due parti, il pensiero
oggettivo all’esperienza vissuta di un’intersoggettività nel mondo originario della percezione.
Nella Fenomenologia della percezione, la struttura della percezione illumina il rapporto
dell'io con l'altro e quello dell'io con il mondo, considerando che in essi l'esistenza si
costituisce come trascendenza e ripresa della fatticità. L'io si rapporta all'altro non come ad un
Cogito, bensì come ad un soggetto di comportamento provvisto di un determinato stile, come
ad un altro corpo esploratore del medesimo mondo. Il senso dell'intersoggettività sta nella
dimensione delle operazioni concrete dei soggetti corporei. In questo modo la coesistenza
sociale appare anteriore al solipsismo. L'io e l'altro sono organi di una corporeità generale e
anonima. La comunicazione tra le coscienze è una relazione indiretta, laterale. La pluralità dei 501 Ibid. 502 Prefazione, S, p. 42. 503 N.COMERCI, La deiscenza dell'altro. Intersoggettività e comunità in Merleau-Ponty, Mimesis, Milano-
Udine 2008, p. 324.
163
soggetti è intersoggettività perché riposa sulla coesistenza, la compresenza, sull'appartenenza
a un mondo comune. In realtà, ciò che viene compreso durante i processi linguistici
intersoggettivi va ben al di là di ciò che giunge ad essere pensato dalla coscienza tetica,
perché, grazie alla loro base biologica, i soggetti in comunicazione sono sollecitati dalle
parole stesse nella facoltà di pensare senza subire una sollecitazione riflessiva: i soggetti sono
stimolati empaticamente, cioè ogni soggetto pensa in base all’altro, senza che sia necessaria la
mediazione di alcuna imago verbale o di esplicite operazioni logiche, perché “la parola e il
pensiero[...] si avvolgono vicendevolmente, il senso è preso nella parola e la parola è
l’esistenza esteriore del senso”504. Il senso aderisce alle parole come ordine di enunciati ed è
un “certo genere dell'Essere”, ma è anche “senso universale”, capace di sostenere tanto le
operazioni logiche e il linguaggio, quanto il dispiegamento del mondo. Ci si volge, dunque,
verso “quell'Essere che sottende su tutta la loro estensione i nostri pensieri – perché sono
pensieri di qualcosa e perché essi non sono un niente -, che quindi è senso, e senso del
senso”505.
Come sottolineato già nel primo capitolo, la filosofia di Merleau-Ponty riesce ad
inglobare il non-razionale, il non-detto, l’irriflesso, in una condizione chiasmatica con la
razionalità, la presenza, il pensiero espresso.
I «pensieri» che rivestono la parola e ne fanno un sistema comprensibile, i campi o le dimensioni di
pensiero che i grandi autori e il nostro proprio lavoro hanno insediato in noi sono sistemi aperti di
significazioni disponibili, che noi non riattiviamo, sono scie del pensare che non ritracciamo, ma
continuiamo506.
L’irriflesso, l’immediato, lo stato primordiale è condizione di possibilità del pensiero
stesso e, di conseguenza, la filosofia vive il paradosso, la stranezza costitutiva del pensiero:
“una filosofia di tal genere comprende la propria stranezza, perché essa non è mai del tutto nel
mondo e tuttavia non è mai fuori dal mondo”507. La difficoltà che appare a questo livello
consiste nel pensare l’immediato, il che comporterebbe mediarlo e perciò smarrirlo in quanto
tale: “Un immediato perduto, da restituire difficilmente, porterà in sé stesso, se lo si
restituisce, il sedimento dei procedimenti critici in virtù dei quali lo si sarà ritrovato, non sarà
504 FP, p. 252. 505 VI, p. 127. 506 Prefazione a S, p. 41. 507 EF, p. 46.
164
quindi l’immediato”508. Questa difficoltà si riflette anche sul rapporto interindividuale, in
quanto pensare l’altro significa sottoporlo ad una riduzione concettuale.
Le parole emergono dall’orizzonte linguistico non-tetico del soggetto parlante che,
come sfondo di capacità acquisita, fa sì che, con gli altri soggetti, sia in grado di coabitare un
mondo condiviso nel linguaggio, come è in grado di coabitare un mondo condiviso nello
spazio. Il linguaggio della corporeità è
(…) tacito: lo possiamo vedere bene nella percezione d'altri, in cui cogliamo una fisionomia morale
(segnatura, portamento, volto) senza conoscere le categorie che sembrano essere sottese a tale
comprensione: il dato viene riportato in un determinato codice, su un determinato schema di
equivalenze, come variante o scarto definito rispetto a un certo livello umano, che non è ancora un
significato, un'idea, un sapere, poiché la caratterologia non è ancora costituita, - nello stesso modo, le
parole che sento mi appaiono sullo sfondo di un determinato sistema fonematico e semantico, che non
conosco ancora poiché la linguistica non è ancora costituita509.
Lo scarto definisce il modo di essere del linguaggio come della corporeità vissuta: “La
vita del linguaggio, come la vita percettiva, è fatta di scarti (corretti, non di significati) di
combinazioni di significati compiuti”510.
Ne Il visibile e l’Invisibile, Merleau-Ponty riprende questo percorso511, cercando di
superare l’impostazione soggettivistica (“I problemi posti in Ph.P. sono insolubili perché, in
quest’opera, io parto dalla distinzione “coscienza”-“oggetto”-“512). A ben guardare, il
problema è, dunque, più profondo di una semplice rielaborazione in chiave ontologica dei
risultati acquisiti, anche se si tratta di continuare l’identico percorso di ricerca che aveva
determinato la produzione delle due prime opere importanti: portare ad espressione l’irriflesso
spinge ad approfondire l’analisi di quel “suolo”, il Boden, di quella dimensione di senso che
sottostà al mondo e alla cosa, e conduce ad un’ulteriore riflessione incentrata sullo strato
trascendente in cui si origina e si muove il senso stesso del senso.
L'interpretazione merleau-pontyana dell'intersoggettività sottende l'idea di un'unione
preriflessiva e opaca col mondo. L'anonimato della percezione manifesta una familiarità
innata del corpo col mondo e racconta un rapporto di scambio e di complicità tra essi,
anteriore all'intervento della coscienza rappresentativa. La comunicazione vitale e spontanea
508 VI, p. 140. 509 N, p 308. 510 Cfr. p 319. 511 VI, p.200. 512 Ivi, p. 215.
165
con il mondo, che si instaura nell'evento della percezione, fa sì che esso ci appaia come il
luogo familiare della nostra vita, come la nostra patria. “La comunicazione fra di noi i
testimoni di un unico mondo, così come la sinergia dei nostri occhi li fa dipendere da una cosa
unica.”513. L'intenzionalità che percorre la vita percettiva attraversa come potere di
significazione l'espressione linguistica. Come per il gesto corporeo, anche la comunicazione
che avviene nel linguaggio articolato sfugge al binomio soggetto-oggetto, in quanto non c'è
mai uno che parla e uno che ascolta, ma perché le parole che si producono sono detentrici di
un senso che non è costituito in alcun centro coscienziale, ma che si lascia ricondurre ad unità
solo come stile preconcettuale. “È nel mondo che noi comunichiamo, grazie a ciò che la
nostra vita ha di articolato”514.
Si sa semplicemente che per rimanere dialettica, la parola non può più essere enunciato, Satz, è
necessario che essa sia parola pensante, senza riferimento a un Sachverhalt, parola e non linguaggio (e
infatti è appunto parola, non la lingua, che ha di mira l'altro come comportamento, non come
«psichismo», che risponde all'altro prima che questi sia stato compreso come «psichismo», in un
accostamento che respinge o accetta le sue parole come parole, come eventi – È appunto la parola a
costruire oltre di me come significazione e soggetto di significazione un ambito di comunicazione, un
sistema diacritico intersoggettivo che è la lingua al presente, non universo «umano», spirito oggettivo) –
Si tratta di restituire ciò, al presente e al passato, la storia di Lebenswelt, di restituire la presenza stessa
di una cultura. Il fallimento della dialettica come tesi o «filosofia dialettica» è la scoperta di questa
intersoggettività non prospettica ma verticale, che è, estesa al passato, eternità esistenziale, spirito
selvaggio515.
Le relazioni interumane sono, per Merelau-Ponty, “i rapporti effettivi fra gli uomini
nella civiltà data”516 e risentono, perciò, delle concezioni dello spirito che si formano in un
certo periodo, visto che sono dettate dallo stesso “rapporto fra le coscienze”. Questa relazione
si manifesta nell'esperienza della comunicazione negli ambiti più disparati (letteratura, arte,
scienza, linguaggio), perché si tratta di “fatti sociali” o “fatti di comunicazione”. Per il
filosofo rimane salda la convinzione che lo studio dei rapporti interumani nella cultura
dovrebbe iniziare con l'analisi del linguaggio, dato che questo, essendo ciò che c'è di più
interiore ma allo stesso tempo ciò che rimane in stretto contatto con le condizioni esteriori e
storiche, ci offre meglio di ogni altro fenomeno la possibilità di comprendere l'articolazione
513 Ivi, p. 38. 514 Ibid. 515 Ivi, p. 193. 516 Il metafisico nell’uomo, SNS, p.112.
166
dell'individuale sul sociale e i rapporti di scambio tra la natura e la cultura517. Le incertezze e
le oscurità che avvolgono i vari ambiti della socialità non devono farci illudere di dover
cercare una chiarezza totale, per non perdere la ricchezza effettiva di ogni singola
estrinsecazione dei “rapporti interumani e della comunicazione che è realizzata in ogni
civiltà”. Non bisogna oggettivare questo rapporto comunicativo dei membri di una società; è
necessario, piuttosto, dare valore a ciò che “sollecita”, “investe” o “minaccia” la coscienza di
ogni individuo che “si trova e insieme si perde nel suo rapporto con le altre coscienze”.
L'analisi del sociale acquista valore se viene considerato non come “coscienza collettiva ma
intersoggettività, vivo rapporto e tensione tra individui”. Non solo la sociologia, ma anche la
storia incontra difficoltà nel ristabilire un quadro complessivo che non si fondi né su presunte
oggettività né tanto meno sulla soggettiva prospettiva di uno studioso. “Non raggiungiamo
l'universale abbandonando la nostra particolarità, ma rendendola un mezzo di raggiungere gli
altri, in virtù della misteriosa affinità che fa sì che le situazioni si comprendano a vicenda”518.
Merleau-Ponty intende operare il passaggio da una storia “organica”, “senza idea-
scopo infinito, a una Geschichtlichkeit che sarebbe approssimazione indefinita del vero e
potere crescente e ricreazione dell'umanità”519. Questo passaggio è intimamente collegamento
alla comunicazione intersoggettiva all'interno di un quadro storico-filosofico diverso dal
“razionalismo esausto”520.
Ne deriva che [la] Seingeschichte [è] veduta de[lla] filosofia della storia, [è] la storia come prodotto
dell'Essere [e] storia della filosofia = l'esperienza dell'essere e della sua espressione comportano esse
stesse un certo percorso indiretto, hanno inevitabilmente una storia – la quale, secondo quanto si è
appena detto, non è variazione di «concezioni» sull'essere, ma essa stessa prodotto dell'essere. L'essere
come vita comune della storia della filosofia521.
Merleau-Ponty insiste, dunque, sull'unità profonda della storia e della filosofia nella
Seingeschichte e sull'unità profonda, in ciascuna, “del senso e del non senso, che dipende
dall'unità dell'essere e del non essere nel wesen (verbale)”522. La storia ha un senso concepibile
come “commento perpetuo” del rapporto Essere-essente oppure come “ambito in cui ciò che
517 Cfr. PAR II, p. 31. 518 Il metafisico nell’uomo,SNS, p.116. 519 POF, p 44. 520 Ivi, p. 45. 521 POF, p 112. 522 Ibid.
167
si è progettato si rivela...come es selbst o come differente da sé”523. Il filosofo francese si cura
di sottolineare come la donazione del senso avvenga sia nel successivo che nel simultaneo524.
L’intersoggettività, dall’iniziale appartenenza al problema gnoseologico di
trascendenza verso un qualcosa di altro-da-sé, si è via via trasformata, nel definirsi della
ricerca, in dimensione all’interno della quale assistere alla revisione del trascendentale
tradizionale, in una direzione espressamente ontologica e comunitaria.
Si chiamerà filosofia la coscienza che occorre conservare della comunità aperta e successiva degli alter
ego viventi, parlanti e pensanti (l'uno in presenza dell'altro e tutti in rapporto con la natura, quale la
indoviniamo dietro, intorno e davanti a noi, ai limiti del nostro campo storico) come realtà ultima di cui
le nostre costruzioni teoriche delineano il funzionamento e a cui non potrebbero sostituirsi525.
Se si pensa allo spirito selvaggio come ad uno spirito di praxis, il linguaggio può
essere letto come una “Stiftung preparante una Endstiftung – Si tratta di cogliere ciò che
attraverso la comunità successiva e simultanea dei soggetti parlanti vuole, parla e infine
pensa”526. Comunicando ci confrontiamo non con rappresentazioni simboliche, ma con altri
soggetti parlanti e con il mondo a cui tendono esprimendosi verbalmente. Prima di diventare
significazione,
(…) la parola confessava già di avervi il suo posto, perché nessun locutore parla se non facendosi
anticipatamente allocutore, sia pure di se stesso, perché con un sol gesto egli chiude il circuito del suo
rapporto a sé e quello del suo rapporto agli altri, e, contemporaneamente, si istituisce anche delocutore,
parola di cui si parla: si offre e offre ogni parola a una Parola universale527.
Sono queste le motivazioni profonde che aprono al filosofo la strada verso l’ontologia.
In una delle sue numerose “dichiarazioni di intenti”, espresse a metà strada tra la fase
prevalentemente fenomenologica e quella ontologica, Merleau-Ponty annuncia di voler
superare i primi lavori, in cui cercava di restituire il mondo della percezione, nelle opere in
preparazione che avrebbero avuto come obiettivo il mostrare “in che modo la comunicazione
523 Ibid. 524 Cfr. POF, pp. 112-113. Merleau-Ponty spiega: “Vi è una Stätte per ogni città in cui essa si rivela poco a
poco..., e per tutte le città un das Selbe che le rende comparabili, che ne fa [un']impresa unica”. 525 Il filosofo e la sociologia, S, p 149. 526 VI, p. 193. 527 Ivi, p.169.
168
con l'altro e il pensiero riprendano e oltrepassino la percezione che ci ha iniziati alla verità”528.
La stessa idea ricompare in una delle prime note de Il visibile e l'invisibile, in cui l'autore
faceva le prove generali della spartizione interna dell'opera. Non sorprende che l'indagine
intorno all'essere grezzo o selvaggio sia collegata a quella del rapporto al logos, come
conclude chiaramente Merleau-Ponty più avanti: “Mettere a nudo tutte le radici (il mondo
«verticale») - Poi dire che il problema viene riproposto mediante la conversione del
linguaggio, il passaggio all'uomo «interiore»”529.
Nelle note di lavoro, soprattutto, Merleau-Ponty vuole dare il senso dell'ampliamento
delle riflessioni contenute nelle precedenti opere e facendone spesso l'autocritica. Un passo
particolarmente significativo riporta la direzione di marcia del pensiero del filosofo francese:
“Ma tutto ciò – che riprende, approfondisce e rettifica i miei primi due libri, - deve essere
fatto interamente nella prospettiva dell'ontologia (...)”. Questa affermazione potrebbe essere la
chiave di lettura dell'intera produzione finale del filosofo francese in quanto, da una parte, egli
intende far tesoro delle conquiste ottenute sul piano della fenomenologia, per quello che
riguarda la rivalutazione della capacità della percezione di rendere conto del nostro
inserimento nel mondo e, dall'altra, ampliare la tematica della comunicazione tra i soggetti
incarnati, giustificando la possibilità dello scambio di idee. “Si dice che tra noi e gli altri c'è
un muro, ma è un muro che facciamo insieme: ognuno colloca la sua pietra nella cavità
lasciata dall'altro”530. La relazione interumana presuppone una comunicazione, “queste
conversazioni infinite” perché contengono tutte le conversazioni effettuate o solo possibili:
“tutti coloro che abbiamo amato, detestato, conosciuto o solo intravisto parlano attraverso la
nostra voce”531. Le parole dette si confondono e passano l'una nell'altra, un'unica scia di
“durata pubblica”. Nell'ordine del “verticale” non c'è differenza tra la parola concepita, scritta
o pronunciata per sé stessi o quella per l'altro, in quanto, a livello ontologico non c'è più
differenza tra sé e l'altro532. L'Urdoxa, infatti, crea il terreno sul quale interagiscono i soggetti
a livello percettivo e a livello espressivo. Si potrebbe immaginare la relazione complessiva tra
i vari elementi come la relazione di forze che sostengono e implicano i corpi celesti, sia che si
consideri il loro moto di rotazione intorno al proprio asse (il chiasma del soggetto inteso come
corpo proprio), sia il moto di rivoluzione intorno agli altri corpi celesti (gli altri soggetti
incarnati) e al centro galattico (il mondo). 528 UN INEDIT, p. 3. 529 VI, p. 186. 530 Prefazione a S, p. 43. 531 Ibid. 532 Cfr.PAR II, p. 272.
169
Si fonda appunto sugli acquisti dei primi lavori il fatto di concepire l'intersoggettività -
intesa come dimensione di interrelazione, di reciprocità nel travaso dei pensieri - come punto
di arrivo di una ricerca filosofica intorno alla verità.
Nella Fenomenologia della percezione, l'intersoggettività viene impostata come
intercorporeità, nell'intento di aggirare la difficoltà del solipsismo. È infatti grazie alla
percezione del corpo altrui che è possibile accedere all'ambito dell'altro, evitando la
mediazione intellettuale tra due coscienze completamente distinte. L'altro è colto non come un
altro Cogito, bensì come un particolare comportamento, come un altro corpo che percepisce
lo stesso mondo.
Merleau-Ponty riprende questo tema anche nelle opere tarde. L'oggettivazione
dell'altro viene combattuta sia a livello percettivo che a quello conoscitivo, come spiega
questo passo del saggio Il filosofo e la sua ombra, del 1959, anno in cui inizia anche la stesura
de Il visibile e l'invisibile, nel quale, celebrando il non-detto e il non-pensato del filosofo
tedesco da cui maggiormente si è lasciato ispirare, afferma:
Ma Husserl conosceva bene tali difficoltà, che sono quelle della comunicazione tra gli “ego”, e non ci
lascia indifesi di fronte ad esse. Io mi attingo all'altro, lo costruisco con i miei propri pensieri: questo
non è uno scacco della percezione dell'altro, bensì la percezione dell'altro. Noi non lo graveremo dei
nostri commenti importuni, non lo ridurremmo avaramente a ciò che di lui è attestato oggettivamente, se
anzitutto egli non fosse là per noi, non già con l'evidenza frontale di una cosa, ma insediato
trasversalmente nel nostro pensiero, occupando in noi, come un altro noi stessi, una regione che
appartiene solo a lui533.
Quando, in virtù di una prima “trasgressione intenzionale”, come dice Merleau-Ponty
citando un'espressione delle Meditazioni cartesiane, mi appare un altro corpo esploratore, un
altro comportamento, allora è l'uomo in blocco che mi è dato con tutte le possibilità, quali che
siano, di cui ho dentro di me, nel mio essere incarnato, l'attestazione irrefutabile. L'evidenza
dell'altro corpo propone la sua lettura come comportamento, in quanto la presenza che l'io
coglie in maniera sensibile trova un riscontro conoscitivo all'interno dell'io percipiente.
Alcuni interpreti534 sono d'accordo nell'individuare il senso autentico
dell'intersoggettività nella dimensione delle concrete operazioni dei soggetti corporei,
mostrando in tal modo come la coesistenza sociale sia anteriore alla pretesa di assoluta
533 Il filosofo e la sua ombra, S. p. 211. 534 Per esempio Mancini e Paci.
170
solitudine dell'io535. L'io e l'altro sono considerati in questa fase come organi di una corporeità
generale e anonima. L'intersoggettività come incontro tra coscienze, come dimensione in cui
le prospettive individuali coesistono e travasano l'una nell'altra, viene ammessa in un secondo
tempo. Ora, essa ha il limite di presentarsi solo come co-appartenenza ad un mondo
comune536, che sottende l'idea di un'unione preriflessiva e opaca col mondo. Lo scambio
avviene ad un livello di anonimato della percezione grazie alla familiarità innata del corpo col
mondo.
Nell'interpretazione fenomenologica un elemento fondamentale rivela la capacità del
corpo di porsi come espressione naturale e, perciò, di simbolizzare i vari registri sensoriali. Il
corpo è un'unità simbolica differenziata, che utilizza le sue parti come una simbolica generale
del mondo e perciò il senso dell'altro si presenta come dialogo intersensoriale, in cui le
operazioni della percezione approdano nel momento dell'espressione. Di conseguenza,
all'origine dell'espressività umana si colloca il corpo percipiente come simbolismo
primordiale. Il gesto corporeo fa secernere in se stesso un “senso” che non gli giunge da
nessun luogo; il soggetto incarnato condivide questo senso con il mondo e con gli altri
soggetti incarnati. Questa tesi, descritta nella Fenomenologia della Percezione 537, rimarrà un
punto fermo anche nelle elaborazioni successive. Se nella prima fase l'intersoggettività ed il
linguaggio sono subordinati allo schema intercorporeo, Merleau-Ponty si sforzerà in seguito
di affinare la dialettica dell'espressione. Il punto di partenza risulta, dunque, l'emersione
simultanea dell'espresso e dell'espressione dall'indivisione originaria, in quanto il potere di
significazione dell'intenzionalità corporea non è distinguibile dal gesto in cui si incarna. Il
senso non si genera separatamente, ma nell'atto stesso dell'espressione.
Anche la comunicazione che avviene nel linguaggio articolato segue la stessa modalità
della vita percettiva: non si esplica quale relazione di un soggetto e di un oggetto, in quanto
non c'è mai uno che parla e uno che ascolta, ma un unico flusso di parole che si producono
spontaneamente.
Le parole degli altri mi fanno parlare e pensare perché creano in me un altro da me, uno scarto in
rapporto a... ciò che io vedo e così me lo designano a me stesso. Le parole dell'altro formano la trama
attraverso la quale io vedo il mio pensiero. L'avevo prima di questa conversazione? Sì, come tono
fondamentale unico, Weltthesis, non come pensieri, significazioni o enunciati – Certo, per parlare si
535 Cfr. S. MANCINI, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell'espressione, Franco Angeli, Milano,
1987, p. 31. 536 Cfr. X. TILLIETTE, Merleau-Ponty ou la mesure de l'homme, Seghers, Paris 1970, p. 118. 537 Cfr. FP, p. 279.
171
deve pensare, ma pensare nel senso d'essere al mondo o all'Essere verticale di Vorhabe. I pensieri sono
la moneta di questo essere globale – Delle delimitazioni – all'interno di esso538.
Comunicando, la comprensione intersoggettiva del linguaggio avviene senza
istruzione diretta o mediazione riflessiva: l’intenzione significante di un soggetto che parla
non è di andare a simbolizzare esaustivamente un pensiero già esplicito, ma di colmare una
certa lacuna attraverso le capacità relazionali del suo corpo. Io stesso, se mi volgo ad un’altrui
significazione, non ho bisogno di riprenderla mentalmente per accedere ad un suo senso
astratto o generale. Quando l’essere umano dà agli altri e a sé stesso il pensiero attraverso la
parola, esteriore o interiore che sia, lo fa proprio perché è in una specie di ignoranza dei propri
pensieri, che rimangono avvolti in una muta inconsistenza per lo stesso soggetto che andrà ad
esprimerli fin quando non vengono esplicitamente formulati in parole. “In un certo senso, il
significato è sempre scarto: ciò che l'altro dice mi sembra pieno di senso perché le sue lacune
non sono mai là dove sono le mie. Molteplicità prospettica”539.
I soggetti impegnati nel linguaggio sono portatori di un senso che non è costituito in
alcun centro coscienziale. Il gesto corporeo e quello linguistico, pur seguendo modalità
differenti, costituiscono un'unità di senso, partecipano allo stesso momento di trasformazione
del senso grezzo. Il simbolismo che essi generano è un intreccio irresolubile di naturale e
culturale, di spontaneo e di istituito. Il processo cognitivo intersoggettivo aperto dal
linguaggio stabilisce una nuova socialità, quella umana, trasformando un fenomeno naturale,
cioè la capacità di fonazione, nell’istituzione linguistica della cultura. Ciò è possibile perché il
linguaggio è una specifica capacità di categorizzazione (concettuale) degli “oggetti” (già
categorizzati dalla percezione), comprendendo quindi che, prima ancora di essere la
conoscenza esplicita a cui apre o la rappresentazione formale a cui si presta, il linguaggio
verbale è un certo modo di riferirsi al mondo, cioè un certo “stile” esistenziale.
Al centro di ogni lingua vanno ritrovate leggi d'equilibrio, forse persino un tema, un progetto
fondamentale, o, come dice Guillaume, uno “schema sublinguistico” che passa inosservato quando si
lavora con le categorie del senso comune o con quelle dell'antica grammatica, ma la cui vita operante si
manifesta quando il linguista costruisce le categorie nuove che la coordinazione dei fatti esige540.
538 VI, pp. 237-238. 539 Ivi, p. 204. 540 Il metafisico nell’uomo, SNS, p. 111.
172
Nella prima fase dell'elaborazione della teoria del linguaggio, Merleau-Ponty
considera l'espressione linguistica non solo correlata a quella corporea, ma anche fondata
teoreticamente su di essa. Questa accezione verrà colta in seguito come problematica:
con il concepire il linguaggio a partire dalla gesticolazione fonetica, intesa a sua volta come il
prolungamento del gesto muto del corpo, si coglie la parola nella sua presenzialità, ma non si rende
ragione della complessità della lingua, quale sistema intersoggettivo provvisto di una specifica
struttura541.
Tuttavia la base di partenza rimarrà immutata in tutta l'elaborazione successiva della
teoria del linguaggio: l'espressione linguistica non rappresenta una semplice traduzione di un
pensiero anteriore già compiuto, ma partecipa del simbolismo primordiale del corpo proprio.
La duplicità funzionale del nostro corpo, che si presenta per un verso passivo, subendo il
modellamento da parte dei campi sensoriali, e per un altro verso attivo, “in quanto capace di
gesti, di espressione e infine di linguaggio”, permette il suo rovesciarsi “sul mondo per
significarlo”542.
Il linguaggio come contenitore di senso, pur essendo comune a chi gli accede, non ha
il ruolo di possessore a priori di tutti i significati ivi inscritti, ma è la comunicazione stessa a
suscitarli nello spirito “per un effetto di trascinamento o per una sorta di azione obliqua”. Il
diversificarsi dei mezzi espressivi così come dei significati inviati, ricevuti e rinviati si basano
sul carattere intersoggettivo del linguaggio, in quanto è la variazione delle coordinate
dell'essere incarnati ad aprire sempre nuove capacità significanti. Lo studio stesso
dell'espressione e della verità, lungi dall'essere un semplice problema epistemologico,
rimanda al “problema generale dei rapporti dell'uomo con l'uomo543”. Dunque, approfondire il
tema del linguaggio in chiave sia fenomenologica che ontologica, presuppone l'apertura ad un
orizzonte di relazioni simboliche e di istituzioni, “che garantiscono non più soltanto lo
scambio dei pensieri ma anche quello dei valori di ogni specie, la coesistenza degli uomini in
una cultura, e al di là dei suoi limiti, in una sola storia”544. Merleau-Ponty intendeva
approfondire l'analisi dei rapporti tra il logos del mondo visibile e il logos dell'idealità,
esplorando anche ambiti in cui il linguaggio si manifesta con “altri sistemi di espressione
541 Mancini, op. cit., p. 49. 542 UN INEDIT, p. 9. 543 Ivi, p.11. Il passo rinnova il riferimento di Merleau-Ponty ad un approfondimento di tale tematica in analisi
successive alla stesura del VI: “sarà oggetto delle nostre ricerche ulteriori”. 544 Ivi, p.11.
173
(pittura, cinema), con la storia e la sua architettonica”545. Tale modalità di indagine risulta
necessaria in quanto mostra in che misura le arti visive contribuiscono a rendere possibile il
passaggio dall'essere visibile naturale, costruito intorno alla cosa naturale, all'essere invisibile:
“il linguaggio, l'arte, la storia, gravitano attorno all'invisibile (l'idealità)”546.
Il contesto più generale in cui si raccolgono il senso della storia e il senso della cultura
è garantito proprio dal rapporto intersoggettivo, che funge da fondamento per i loro sviluppi.
“Il senso storico è immanente all'evento interumano e ne condivide la fragilità. Ma, proprio
per questo motivo, l'evento intersoggettivo acquista il valore di una genesi della ragione”547.
Tale relazione tra i soggetti crea, da un lato, i presupposti per la comunicazione dei significati
e, dall'altro, tesse le interdipedenze a livello socio-culturale.
E ciò che forma questo rapporto di senso tra ciascun aspetto della cultura e tutti gli altri, come pure tra
tutti gli episodi della storia, è il pensiero permanente e concordante di quella pluralità di esseri che si
riconoscono come «simili» , anche quando gli uni cercano di assoggettare gli altri e che sono coinvolti a
tal punto in situazioni comuni che spesso gli avversari si trovano in una specie di complicità548.
Nonostante le apparenti divergenze549 nella coesistenza intersoggettiva, il contenitore
del linguaggio, il filone comune del pensiero, fa sì che le variazioni del senso siano accessibili
a tutti gli attori dello scambio di senso, in un fluire diversificato, ma unico. Questo pensiero
accomunante è il Logos, sia che esso abbia il compito di portare a parola un mondo che si
presentava come muto, sia che permanga nel mondo percepito, nell'evidenza della cosa. In
quest'ottica, Merleau-Ponty riesce a prendere le distanze dalla posizione precedente sulla
percezione, che ora si dimostra una “cattiva ambiguità”, in quanto mescolava indistintamente
la finitezza con l'universalità, l'interiorità con l'esteriorità.
Ma nel fenomeno dell'espressione c'è una «buona ambiguità», cioè una spontaneità che realizza ciò che
sembrava impossibile, stando agli elementi separati, e che riunisce in un unico tessuto la pluralità delle
545 N, p. 330. 546 Ibid. 547 EF, p. 55. 548 UN INEDIT, p.12. 549 Anche nell' Elogio alla filosofia Merleau-Ponty riprende questo concetto: “Le rotture di equilibrio, le
riorganizzazioni che sopravvengono, comportano, come accade per la lingua, una logica interna, checché, nella circostanza, possa pensarne chiaramente alcuno. Esse sono polarizzate dal fatto che, in quanto partecipi di un sistema simbolico, noi esistiamo gli uni in faccia agli altri, gli uni con gli altri, proprio come i mutamenti della lingua son polarizzati dalla nostra volontà di parlare e di essere compresi” (pp. 59-60).
174
monadi, il passato e il presente, la natura e la cultura. La constatazione di questa meraviglia si
risolverebbe nella stessa metafisica e ci darebbe insieme il principio di una morale550.
Queste frasi, che concludono la presentazione dello stato delle ricerche del filosofo nel
1952, mostrano la cifra delle implicazioni ultime che la sua filosofia intendeva raggiungere:
non solo il linguaggio apre all'orizzonte ontologico dell'intersoggettività, come tessuto che
supera qualsiasi impostazione concettuale del solipsismo e permette il costituirsi della società
come rete interrelazionale, ma getta le basi per un'analisi delle coordinate spaziali e temporali
di tale struttura, creando la possibilità di concepire in maniera nuova la morale. “L'essere-
società di una società” riunisce tutte le vedute e le volontà “chiare o cieche alle prese in essa”,
vale a dire l'anonimo “tessuto connettivo” che permette poi una “filosofia a più entrate”551.
Una delle implicazioni ultime, ma che Merleau-Ponty riesce a sviluppare poco a
livello ontologico, è il ruolo della storicità come elemento intersoggettivo. Nelle note di
lavoro preparatorie, il filosofo segna come uno degli obiettivi da raggiungere sia “disvelare la
«storia organica» sotto la storicità (Urhistorie, erste Gechichtlichkeit) di verità che è stata
istituita da Cartesio come orizzonte infinito della scienza”552. Per il nostro, non serve chiedersi
se la storia sia fatta dagli uomini o dalle cose, dal momento che le iniziative umane non
annullano il peso degli eventi storici che operano attraverso gli uomini:
non c'è analisi che sia esaustiva, poiché c'è una carne della storia, e in essa, come nel nostro corpo, tutto
conta, tutto ha peso: l'infrastruttura, l'idea che ce ne facciamo e soprattutto gli scambi perpetui tra l'una e
l'altra, dove il peso delle cose diviene anche segno, i pensieri forze, il bilancio evento553.
Fino ad ora si è voluto insistere sul concetto di Stiftung come modello di una struttura
che si sviluppa nel tempo: è chiaro dunque che la storia non può restare al di fuori di una
filosofia di questa impronta. Il concetto di istituzione ha un ruolo di mediatore nella
riflessione di Merleau-Ponty sul linguaggio e sulla storia. Questo passo dell'Elogio della
filosofia, chiarisce il triplice legame:
Come la lingua è un sistema di segni che hanno senso solo nel loro rapporto reciproco e in cui ogni
segno si riconosce per un certo valore d'uso che gli deriva dall'insieme della lingua, così ogni istituzione
550 UN INEDIT, p.12. 551 VI, p. 192. 552 Ivi, p. 185. 553 Prefazione a S, p. 43.
175
è un sistema simbolico che il soggetto incorpora come stile funzionale, come configurazione globale,
senza aver bisogno di concepirlo espressamente554.
Merleau-Ponty descrive infatti il rapporto chiasmatico tra coscienza e il vissuto
temporale come una Stiftung di un sistema di indici temporali, considerando il tempo
“(tempo-tassametro dello schema corporeo) quale modello delle “matrici simboliche, che
sono apertura all'essere”555. Senza voler affermare una filosofia storicista che veda un fine
oggettivo realizzarsi attraverso le diverse epoche, il pensatore individua un senso che segue il
farsi dialettico della storia, sebbene si tratti di un senso indiretto, non oggettivo.
La filosofia non è né l'ancella né la signora della storia; i loro rapporti sono meno semplici di quanto si
credesse: si tratta, alla lettera, di una azione a distanza, poiché, dal profondo della sua diversità, ognuna
di esse esige l'unione e la promiscuità. Dobbiamo ancora imparare a far buon uso di questo
sconfinamento dell'una nell'altra; in particolare, dobbiamo giungere a una filosofia tanto meno vincolata
dalle responsabilità politiche in quanto ha le sue, tanto più libera di entrare ovunque in quanto non si
sostituisce a niente, non gioca alle passioni, alla politica, alla vita, non le ricostruisce nell'immaginario,
ma svela appunto l'Essere che abitiamo556.
Il filosofo francese intendeva riservare un posto importante nell'architettura della sua
ultima opera al tema della circolarità tra storia e filosofia557, che ha la particolarità di non
esprimersi completamente ma di perseverare nelle modifiche, mantenendo la propria
dinamicità, contro ogni posizione che vorrebbe cristallizzarla.
Il pensiero è inesorabilmente legato alla temporalità. A partire dall'interrogazione cui
l'io sottopone se stesso riguardo al proprio essere al mondo, il tempo crea una struttura di
declinazione dei pensieri, un campo in cui corpo e spirito siano unificati.
Il pensiero non perfora il tempo, ma continua la scia dei pensieri precedenti, senza neppure esercitare il
potere, che esso presume, di tracciarla di nuovo, così come noi potremmo, se volessimo, rivedere l'altro
versante della collina: ma a che scopo, se la collina è là558?
554 EF, p. 59. 555 VI, p. 191. 556 Prefazione, S, pp. 35-36. 557 “io illumino il mio progetto filosofico ricorrendo a Cartesio e Leibniz, e questo solo progetto permetterà di
sapere che cos'è la storia. Enunciare tutto ciò come tesi, e non lasciarlo sottinteso”. (VI, p. 195) 558 Prefazione a S, p. 36.
176
La riflessione, dunque, non rappresenta un continuo riprendere un pensiero del
passato, vicino o lontano, oppure uscire dalla dimensione temporale per operare su concetti
immortali, in un mondo intelligibile, o ancora creare dal nulla nuove significazioni.
Merleau-Ponty immagina che i pensieri che appaiono successi vi siano anche in una
sorta di simultaneità o sconfinamento degli uni negli altri. Il soggetto incarnato stesso si
immagina collocato spazialmente, a prendere posto nel campo, a spostarsi nel mondo grazie
ad un corpo che si regola in base al proprio apparato temporale. La corporeità che si coglie
fisicamente si trasferisce anche al tempo che partecipa della carne dell'essere, a quella
intelaiatura che contiene anche gli aspetti spirituali. “Tempo e pensiero sono aggrovigliati
l'uno nell'altro”559, ma non in una confusione dei loro elementi ma in una reciproca
implicazione della loro trama. Non si tratta di situare il pensiero lungo un tratto temporale
lineare o circolare, bensì di far coesistere la simultaneità e la successione dei loro snodi. Il
tempo, avendo una corporeità nei suoi aspetti “incompatibili e simultanei” che si rendono
conosciuti nel sensibile, diventa posizionabile, situabile nello spazio.
La percezione del tempo è anche visiva, ma di una visibilità che ingloba anche
l'invisibilità dei compossibili: “Lo vedo come è sotto i miei occhi, ma anche come lo vedrei
da un'altra posizione, e questo non potenzialmente, ma attualmente, poiché sin d'ora esso
brilla altrove di molte luci che rimangono celate ai miei occhi”560. In questa ottica, lo spazio e
il tempo si sovrappongono senza oscurarsi a vicenda. Essi ricompongono orizzonti delineati
in cui ricordi e speranze, affetti e pensieri si modulano in maniera fluida e comunicativa
seguendo le due coordinate. Lo spazio si ritrova nei ricordi custoditi dal mio tempo e alla
stessa maniera ne pervade il percorso.
Io ho potuto far appello a me stesso contro il mondo e contro gli altri, e imboccare il cammino della
riflessione, solo perché dapprima ero fuori di me, nel mondo, presso gli altri, e in ogni momento questa
esperienza viene ad alimentare la mia riflessione561.
Il soggetto non è una coscienza separata dal corpo, così come non è una conoscenza
isolata dalla conoscenza degli altri uomini: si tratta sempre di un comportamento
intersoggettivo anche se, per ogni soggetto, tale comportamento ha il suo fondamento
nell'esperienza che ognuno di noi ha delle cose in quanto le esperisce “in prima persona”.
559 Ivi, p. 37. 560 Ibid. 561 VI, p. 73.
177
Nessuna conoscenza vale per me in quanto è percepita da un altro ma soltanto in quanto la
percepisco io direttamente o posso percepirla direttamente se un altro me la espone562.
Questo spirito generale, che tutti costituiscono con la loro vita comune, questa intenzione già deposta
nel sistema dato del linguaggio, precosciente, poiché il soggetto parlante lo sposa prima di rendersene
conto e di elevarlo a livello della conoscenza, e che tuttavia sussiste solo a condizione d'essere ripreso o
assunto dai soggetti parlanti e vive della loro volontà di scambio, è appunto, sul terreno della linguistica,
l'equivalente della forma degli psicologi, estranea tanto all'esistenza oggettiva di un processo naturale
quanto all'esistenza mentale di un'idea563.
In questa direzione, il linguaggio e la specifica coscienza di sé e del mondo, che esso
procura, si mostrano come un’ulteriore riorganizzazione dell’organismo umano, che esiste
quindi su tre livelli, quello fisico, quello biologico e quello cosciente, senza che alcuno di essi
possa mai darsi separatamente dagli altri.
3.4. L'istituzione e lo stile
Il concetto di istituzione viene introdotto nella riflessione merelau-pontyana negli anni
’50 e diventa oggetto di un corso presso il Collège de France tra il 1954 e il 1955
(L’institution dans l’histoire personnelle et publique, corso del giovedì). Tale nozione cerca
“un rimedio alle difficoltà della coscienza”564 di porsi di fronte agli oggetti della sua
interpretazione. Merleau-Ponty adotta da Husserl, il concetto di Stiftung. Il termine tedesco,
tradotto col francese institution, indica il passaggio di un senso da Natura a Cultura, fondando
così significati “che si perpetuano nel tempo sebbene in maniera non sempre esplicita,
attraverso l’apertura di campi di ricerche in cui essi rivivono”565. Nel corso vengono analizzati
“quegli eventi di un’esperienza che la dotano di dimensioni durevoli, in rapporto alle quali
tutta una serie di altre esperienze avrà senso”. Ciascuna di queste esperienze apre una serie
infinità di dimensioni, campi comuni alle diverse imprese del sapere, andando a costituire così
una continuità strutturale all’interno della storia.
562 Cfr. ENZO PACI Introduzione a SNS, p. 10. 563 Il metafisico nell’uomo, SNS, p. 112. 564 LSN, p. 55. 565 Ivi, p.56.
178
Il filosofo francese parla della scoperta di una “sedimentazione”. Nel nostro
etnocentrismo o nel nostro universalismo c'è una “credenza ingenua, proiezione della nostra
storia che pensavamo fosse una legge del mondo”, alla quale contrappone “la presa di
coscienza di tale sedimentazione come Stiftung storica, cioè a un tempo del suo valore e di ciò
che la mette in dubbio”566 che può comportare decadenza o occasione di rinascita. Merleau-
Ponty definisce la Stiftung come “l’illimitata fecondità di ogni essere presente che, proprio
perchè è singolare e passa, non potrà mai cessare di esser stato e quindi di essere
universalmente”567. Riprendendo la nozione husserliana di Stiftung, fondazione, il pensatore
francese l’accosta al termine iniziazione: la fondazione viene intesa quindi non come atto
fondante, inscritto in un tempo determinato, ma come dimensione aperta, come promessa;
l’origine va quindi pensata senza riferirsi ad alcun fondamento.
L'unità carnale della cosa e del mondo viene abitualmente ignorata in una
sterilizzazione operata dalla scienza in rappresentazioni rigide: si tratta di un oblio568 della
Natura prima dell'idealizzazione, di una riduzione dello stile. Allo stesso modo, il pensiero
razionale porta all'oblio “dell'operazione di Stiftung, mascherata dai propri risultati”569. La
Stiftung si fonda sulla Lebenswelt che differenzia le operazioni, visto che “è natura ma anche
cultura”570. La Lebenswelt, che va ritrovata, coincide con il ritorno allo storico sedimentato in
noi, che è linguaggio, Logos571. L'arte manifesta bene il concretizzarsi dell'astratto, come per
esempio nella pittura di Klee in cui “l'identificazione al colore, a Tunisi” rappresenta la
“Stiftung della pittura tramite la natura che riempie esattamente lo spirito del pittore”, vale a
dire astratto come concreto del ricordo.
È interessante notare come Merleau-Ponty usi il modello della Stiftung, ovvero l’idea
di un continuo decentramento che coinvolge il tutto in cui le sfere opposte (privato/pubblico,
soggettivo/oggettivo, interiore/esteriore, presente/passato) si compenetrano reciprocamente.
Per spiegare ulteriormente questo concetto Merleau-Ponty si serve della Urdoxa572: la Stiftung
coincide con l’orizzonte percettivo in cui il senso, i significati si danno nel modo più
originario, generando uno stile; secondo le sue stesse parole: “ogni istituzione è un sistema
566 POF, p. 9. 567 Il linguaggio indiretto, in S, p.86. 568 Cfr. anche VI, p. 210 ss. 569 POF, p 47. 570 Ibid. 571 Cfr. Ibid. 572 Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio,S, pp. 63-116.
179
simbolico che il soggetto incorpora come stile funzionale, come configurazione globale, senza
aver bisogno di concepirlo espressamente”573.
Il concetto di stile designa l’insieme dei significati impliciti della percezione che,
giungendo all’espressione, coinvolgono tutto l’essere dell’individuo, portando ogni sua azione
a convergere verso un centro di significati già presenti.
Come la nervatura sostiene la foglia dall’interno, dal fondo della sua carne, così le idee sono la testura
dell’esperienza: il suo stile, dapprima muto, poi proferito. Al pari di ogni stile, esse si elaborano nello
spessore dell’essere e, non solo di fatto, ma di diritto, non potrebbero esserne distaccate per venire
dispiegate sotto lo sguardo574.
Esso designa, dunque, “l’emblema di un certo rapporto con l’essere”575. Merleau-
Ponty, dunque, prende la lingua considerata come un tutto e da struttura la trasforma in stile,
conferendole così questo potere ontologico di anticiparsi e fungere come suolo originario di
uno sviluppo dialettico. Possiamo dire che l’espressione appresa ci lascia addosso il proprio
stile che, entrando a far parte della costituzione comportamentale come un qualsiasi altro
sedimento degli eventi della storia personale, saprà emergere autonomamente quando
l’intenzionalità dell’espressione andrà nella sua direzione: infatti nell’uomo ogni sviluppo
funzionale si stabilisce nella carne stessa. Ciò che permette il passaggio da una struttura
all’altra non può essere una struttura ultima e formalizzata, la quale condannerebbe il filosofo
francese a ripiegarsi alle soluzioni di un rigido deduttivismo. Allo stesso tempo, tramite la
nozione di stile, siamo al riparo da una ricaduta nell’idealismo di una filosofia della
soggettività, dal momento che esso non è la trasposizione immediata del sentire del soggetto,
piuttosto è ciò che scaturisce inconsapevolmente dal commercio di questo con il mondo
esterno, senza che l’opposizione tra la sua prospettiva e le cose stesse sia resa in maniera
esplicita.
Le tappe che prevedeva ad un certo punto dell'elaborazione della sua indagine576 sono
la riscoperta della natura, come physis, poi del logos e della storia verticale a partire dalla
nostra “cultura”. La presa di coscienza di un Boden, di una sedimentazione risulta l'occasione
per la riscoperta della “Natura-per-noi come suolo di tutta la nostra cultura, in cui si radica in
573 EF, p. 77. 574 VI, p. 138. 575 Il linguaggio indiretto, S, p. 81. 576 Si tratta di una nota di lavoro del febbraio del 1959, cfr. VI, p. 200.
180
particolare la nostra attività creatrice che dunque non è incondizionata, che deve mantenere
[la] cultura a contatto dell'essere grezzo, che deve confrontarla con esso”577.
La lingua istituita è, quindi, generata da espressioni verbali originali, prodotte in
specifiche situazioni vissute da specifici soggetti; è questo riferimento circolare alle
significazioni linguistiche già costituite che rende possibile l’affinamento della
comunicazione intersoggettiva, base storica dello stabilirsi delle culture. L'esistenza degli altri
come la nostra presuppone la presenza di “tutto ciò che è richiesto perché dall'uno all'altro ci
sia parola, parola sul mondo”578. La lingua, cioè il linguaggio istituito dall’uso che ne fa un
dato gruppo di soggetti parlanti, viene continuamente ripresa da altri soggetti parlanti per i
propri personali atti illocutivi, che a loro volta divengono disponibili per ulteriori operazioni
espressive, rinvenendo quindi un sedimentarsi osservabile alla base della formalizzazione di
una lingua579.
Natura e logos: tra la natura e il linguaggio ci sono tutte le possibili opposizioni (…) la comunicazione
nell'invisibile continua ciò che è stato istituito dalla comunicazione nel visibile, ne è l'altro «lato», così
come le cose ci hanno insegnato che c'era sempre un altro lato legato al lato visibile, e incompossibile
con esso580.
Secondo Merleau-Ponty dobbiamo reintegrare alle nostre riflessioni l’esistenza
corporea, vincolando il pensiero alla percezione in quello che fenomenologicamente è stato
riconosciuto come rapporto di Fundierung: c’è, precisamente, un rapporto di reciproca
fondazione tra sensazione e riflessione, che esistono indivise nel circolo dialettico che
concretamente “svolge” il vissuto umano.
Il linguaggio operante, come si è visto, ha aperto la strada per un collegamento, a
livello filosofico, tra il mondo muto e la parola parlata. Questa deiscenza della capacità
comunicativa del soggetto incorporato non si manifesta solamente a livello dell'interazione
con le cose ma soprattutto a livello intersoggettivo. Giacché il linguaggio è una trasmissione
intersoggettiva di significati, esso rappresenta un punto dialettico importante rispetto alla
nostra ipotesi di partenza: il notevole valore ontologico dell'intersoggettività all'interno
dell'ontologia merleau-pontyana. Una volta acquisita la possibilità della relazione
577 POF, p. 12. 578 VI, p. 170. 579 Cfr. Andrea Flumini La fenomenologia della parola di Maurice Merleau-Ponty: per un ritorno al “soggetto
parlante”, Rivista italiana della filosofia del linguaggio, 1/2009. 580 N, p. 329.
181
intercorporea tra “Narcisi”581, il campo si è aperto alla deiscenza espressiva degli uomini,
prima nella gestualità emotiva che sorprende e conforta per familiarità i comunicatori e,
successivamente tramite la parola incarnata. Il logos della Lebenswelt riprende, appunto, le
radici dell'Essere verticale: riannoda il Logos endianthetos e il Logos prophorikos e rende
visibile con ciò la trama chiasmatica che collega l'io percipiente e parlante agli altri io
percipienti e parlanti. Quello che si proponeva di analizzare era quella dimensione trovata
nell'Essere grezzo, selvaggio, verticale, presente, che va precisata “attraverso
l'approfondimento del linguaggio e della storia”582.
Per Merleau-Ponty l'apertura percettiva al mondo, il logos endianthetos583 e l'apertura a
un mondo culturale (acquisizione d'uso degli strumenti) devono rimanere continuamente tali
per permettere il loro rapporto di reciprocità. In una delle note di lavoro dell'ottobre 1959
descrive la sua convinzione circa l'esistenza di una “informazione della percezione da parte
della cultura che permette di dire che la cultura è percepita”, allo stesso modo in cui un certo
sviluppo culturale, come per esempio quello del Rinascimento, produce la possibilità che la
prospettiva sia accolta. Tutto ciò è concepibile se si permette una “dilatazione della
percezione” anche alle “relazioni strumentali”.
Il pensatore francese si propone di rilevare le nervature significative del Logos della
Lebenswelt all'interno della ricerca sull'Essere della Lebenswelt: in questo caso i tre concetti
(Logos, Lebenswelt, Essere) sono concatenati, visto che i linguaggi che prendono vita sono
quelli dei vissuti dei soggetti corporei che ridonano i significanti colti dal sensibile al
sensibile.
In quanto elemento centrale dell'ontologia merleau-pontyana, il Logos è uno dei
collanti di questa intelaiatura, visto che offre la possibilità dialettica di superare dicotomie
poco funzionali nel quadro olistico che si intende afferrare. Questa sua caratteristica rende
ancora più evidente la valenza intersoggettiva dell'ontologia di Merleau-Ponty. La lingua è
considerata come un sistema intersoggettivo vivo, pregno di latenze, scarti come di presenze e
visibilità: “qualcuno parla, e immediatamente gli altri non sono più se non certi scarti in
rapporto alle sue parole, ed egli stesso precisa il suo scarto in rapporto a essi”584. Gli uomini
comunicano grazie alla condizione ontologica di deiscenza verso tutti gli elementi della carne
581 VI, p. 157. 582 N, p. 310. 583 VI, p. 227. 584 Ivi, p. 137.
182
dell'Essere: “nessuno pensa più, tutti parlano, tutti vivono e gesticolano nell'Essere”585. Questa
condizione permette soprattutto di portare la relazione tra i soggetti dal livello di presenza
corporea a quello del desiderio, a quello della comunicazione e della sublimazione del
linguaggio, a quello dell'istituzione della comunità e del senso della storia. Si tratta di una co-
produzione dialogica del mondo586 che riprende una dinamica interattiva al fondo
dell'esperienza in quanto originaria co-affezione, visto che “il linguaggio esprime, almeno
lateralmente, una ontogenesi di cui fa parte”587.
585 Ivi, p. 138. 586 Cfr. Résumés de Cours. Collège de France 1952-1960, Gallimard, Paris 1968, p. 166. 587 VI, p. 122.
183
CONCLUSIONI
La ricerca intorno al concetto di intersoggettività, soprattutto nell'ultimo Merleau-
Ponty, mi ha condotto ad una lettura trasversale delle tematiche che lo hanno interessato.
Rispetto ad una rivisitazione storica delle sue opere, nelle quali perseguire indizi e analisi del
concetto di intersoggettività, disseminati qua e là dall'autore e avvolti per lo più dalle ricerche
intorno ad altre problematiche filosofiche, la mia scelta si è diretta verso un approccio di
diverso tipo. Lo studio del pensiero del filosofo francese mi ha portato, infatti, a individuare
un percorso tematico volto a giustificare e fondare l'accezione ontologica
dell'intersoggettività. Le analisi qui effettuate non riguardano, dunque, solamente questo
concetto, ma anche il suolo filosofico dal quale esso si genera e si nutre nel corso del suo
sviluppo prematuramente interrotto: la scomparsa del pensatore francese ha anche
determinato l'incompiutezza di un progetto di approfondimento di questa trattazione.
La traiettoria esplicativa che ho descritto emerge da un lavorio intenso del pensiero
merleau-pontyano che, pur applicato ai temi più disparati, ne ha prediletti maggiormente
alcuni. Questo percorso potrebbe suggerire una delle letture possibili dell'opera merleau-
pontyana: il filo rosso, che ho creduto di individuare, si fa strada tra dilemmi classici della
filosofia affrontati dal pensatore in maniera coraggiosamente nuova. Temi come il ruolo della
filosofia, la verità, il rapporto tra coscienza e mondo, la relazione io-altro, l'Essere, sfociano in
una magistrale interpretazione della realtà in continua elaborazione lungo gli anni della sua
produzione di pensiero.
La lettura di Merleau-Ponty ha spesso l'effetto di avvolgere in una sorta di spirale
dialettica chi si avvicina al suo pensiero, dapprima in maniera rispettabilmente accademica
per poi affinarsi, passo dopo passo, in un intreccio di serietà logica e incursioni in altri ambiti
del sapere, di lirismo, vitalità, ironia e scientificità, in un vortice sempre più avvincente, come
un bambino che corre a ritrovare il mare sbarazzandosi dei vestiti man mano che si avvicina
alla riva. Lo stile di Merleau-Ponty, ciò che lo rende unico non solo nella forma, ma anche nei
contenuti, si manifesta nel movimento perenne di tutti gli elementi che formano la sua
costellazione di pensiero: i concetti, i temi, le problematiche, il riferimento ad altri pensatori,
artisti, letterati, scienziati, psicologi vengono ripresi, a volte in maniera rafforzativa, altre
volte in costruzioni o prospettive nuove. Forse non è insignificante neanche lo stile
184
propriamente detto in cui il filosofo depone sulla pagina i suoi pensieri: il dialogo che crea
con il lettore diventa sempre più personale, al punto che quest'ultimo è meno tentato a prestare
attenzione ai suoi paragrafi lunghissimi. Il fluire del ragionamento crea la sensazione di una
creazione continua, di una viva ramificazione dove l'argomentazione cresce, sì, secondo una
logica interna rigorosa, ma si permette anche digressioni che aumentano il potere esplicativo
della dimostrazione.
Considerare lo stile di Merleau-Ponty in maniera astratta, decontestualizzando la sua
forma dallo sfondo concettuale nel quale si sviluppa, significherebbe snaturare l'intero
significato della sua opera. La nozione di stile husserliana viene trasfigurata dal filosofo
francese da semplice rapporto originale con il mondo a significazione profonda delle relazioni
che ci legano a esso, rimanendo sempre coerente con la modalità in cui si sono sviluppati i
temi che gli sono stati a cuore lungo tutta la sua opera. Le figure, infatti, saranno
costantemente collegate al loro sfondo, in un “sistema di equivalenze” che si costituisce per
rilevare la modalità unica di manifestarsi dell'espressione di ciascun essere vivente,
soprattutto di coloro che possono comunicare tramite il linguaggio. Merleau-Ponty incarna,
nel suo modo di esporre il pensiero, la peculiarità dello stile espressivo che “continua
superando, conserva distruggendo, interpreta deformando, infonde un senso nuovo a ciò che
tuttavia chiamava e anticipava questo senso”588, in quanto si basa sulla convinzione che i
significati originari si sedimentano e danno luogo a nuove significazioni. Ogni espressione
comporta la metamorfosi di sensi, di vissuti, di esperienze sedimentate e attuali: le nuove
significazioni, vista la loro diversità apparente, potrebbero sembrare delle rotture con il
passato, ma, come nella scienza, ogni teoria le ingloba e ne trasforma le precedenti. Queste
“matrici di idee” che sviluppano il senso, differente da persona a persona, da una forma
espressiva all'altra, ci installano in un mondo di cui non abbiamo una chiave interpretativa, ma
solo un apparato di sensi originari che ci predispongono alla relazione con esso.
La tematica del mondo sembra, dunque, il suolo filosofico più indicato come punto di
partenza nella ricerca del valore ontologico riservato al concetto di intersoggettività. Il primo
capitolo, infatti, ha trattato la problematica dell'accesso al mondo, cercando di mettere in
evidenza il passaggio da una fede percettiva nella presenza del mondo stesso, alla possibilità
della coscienza di rapportarsi ad esso. La certezza di abitare il mondo, l' Urdoxa, scopre un
contatto originario con il pre-teoretico, che non si basa, dunque, su sintesi dell'intelletto che
intendono offrire una rappresentazione razionale del reale.
588 PM, p. 95
185
La percezione, risarcita, già nelle sue prime opere di carattere fenomenologico, dalla
scarsa considerazione filosofica riservatagli dalla filosofia tradizionale, si offre come base per
una rilettura della problematica dell'accesso al mondo. La configurazione fisica dell'uomo gli
permette di “situarsi” all'interno del mondo e di inviare e recepire messaggi. La corporeità,
dunque, è l'assunto fondamentale della fase primordiale del rapporto con il mondo. Essa si
presenta coerente con “la solidità del reale” e perciò ne avverte le vibrazioni di senso che
permettono l'interazione. La percezione ci colloca, quindi, in un mondo fattuale e la relazione
che ci lega ad esso è immanente. Il corpo è innestato nel mondo visibile, c'è un”vinculum” tra
l'io e le cose che va rivelato ritornando all'originario, alle cose stesse. La riduzione
fenomenologica, di eredità husserliana, viene rielaborata da Merleau-Ponty nell'ottica di una
“riabilitazione ontologica del sensibile”589 in cui, da un lato, cerca di dare voce al “mistero di
una Weltthesis anteriore a tutte le tesi”590, senza per questo snaturare il carattere enigmatico di
questa opinione originaria, e, dall'altro, e di conseguenza, si propone di esplorare questo
Essere irriflesso, mettendo le fondamenta per una non-filosofia, vale a dire per l'indagine
attorno a un non-pensato da pensare, di un non-detto, di una déraison. Il compito della
filosofia contemporanea consisterebbe, dunque, nell'allargare i suoi orizzonti al di là del
pensiero positivo, che giustifica solamente gli acquisti oggettivi, nell'illusorietà della purezza
dell'idea posseduta da uno “spettatore assoluto”, un kosmotheoros. La non-filosofia merleau-
pontyana non si propone boriosamente come alternativa alla certezza razionale in un invisibile
trascendente di dimora iperuranica, ma tenta di integrare visibilità e invisibilità, soggettivo e
oggettivo, interiore e esteriore, l'in sé e per sé, la ricerca della verità con la consapevolezza
della sua irraggiungibilità definitiva, e di comprendere l'Essere non solo come presenza, ma
anche come latenza, scarto. Di conseguenza non è l'irriflesso a contestare la riflessione, “ma è
la riflessione a contestare se stessa perché il suo sforzo di ripresa, di possesso, di
interiorizzazione o di immanenza non ha senso, per definizione, se non rispetto a un termine
già dato, il quale si ritira nella sua trascendenza sotto lo sguardo stesso che va a cercarvelo”591.
L'impensato, colto nel rapporto originario con l'il y a del mondo, vuole essere espresso e
spiegato senza perdere la sua peculiarità preteoretica. Per giungere a questo risultato,
Merleau-Ponty si avvale di nuove categorie concettuali: visibile, invisibile, corpo proprio,
carne, chiasma.
589 Il filosofo e la sua ombra, in S, p. 220. 590 Ivi p. 216. 591 Ivi p. 214.
186
Per chiarire il passaggio dalla percezione corporea al rapporto coscienza-mondo, ho
intrapreso la navigazione attraverso questi ambiti concettuali. La nozione di corpo proprio
offre, infatti, la base per un cambiamento di prospettiva: il mondo non è solo uno spettacolo
da contemplare grazie ad un “pensiero di sorvolo”, ma, grazie alla sua corporeità, l'io si
colloca non di fronte agli oggetti, ma tra di loro, accanto a loro. La soggettività cessa di essere
rappresentata come un cogito separato dal mondo e inizia a essere considerata sulla base del
suo innesto corporeo nel mondo. Il soggetto non si confronta in maniera asettica con l'oggetto,
ma lo coglie in un contesto del quale egli stesso fa parte in quanto anche corporeità.
Ciò che descrive Merleau-Ponty è un campo, una dimensione ontologica in cui gli
elementi interagiscono, si implicano a vicenda, sorreggono reciprocamente le proprie
esistenze. L'importanza di questa reversibilità tra soggetto e oggetto, tra percepire e l'essere
percepiti si nota rilevando il passaggio dialettico che si ottiene: l'io intrattiene rapporti di
reciprocità, a partire dalla sfera percettiva, con se stesso, con le cose, con il contesto in cui si
trova e con gli altri. Tuttavia, come nella percezione, considerata unilateralmente dal soggetto
verso l'oggetto, la conoscenza non è totale, in quanto permangono sempre dei lati oscuri,
ancora da scoprire: non è possibile una visione contemporanea di tutti i lati di un cubo e
neanche l'io riesce a percepirsi corporalmente se non per aspetti distinti. L'incarnazione non è
un accidente della soggettività, ma le è costitutiva: l'essere al mondo dell'io significa aprirvisi
tramite la corporeità propria, in una modalità che supera un dualismo rigido e permette di
inglobare tutti gli scambi che vi avvengono. Non vi è più una pura conoscenza e un corpo
oggettivo, bensì una soggettività incarnata che interagisce con le cose, con il campo e con gli
altri. L'immanenza della soggettività riduce la distanza dal mondo perché vi è “familiare”,
costitutivamente similare, ontologicamente analogo.
Questo tratto comune tra l'io e il mondo permette a Merleau-Ponty di gettare le basi
per l'accesso all'altro, argomento di cui si è occupato il secondo capitolo. Il corpo proprio ha
creato, dunque, la possibilità di una comunicazione a livello percettivo con le cose del mondo
in un regime di reciprocità, in quanto contemporaneamente percipiente e percepito. La
reversibilità è evidente soprattutto a livello dell'interazione percettiva dell'io con se stesso: il
corpo proprio rivela la capacità di essere allo stesso tempo sia senziente che sensibile,
interscambiando ripetutamente i ruoli di soggetto e di oggetto. “L'ambiguità” di questo stato
rende possibile il superamento del solipsismo, in quanto il rapporto con l'altro non si basa su
una semplice analogia, in virtù della somiglianza oggettiva tra il corpo dell'io e quello
dell'alter-ego. Il punto di forza di questo ragionamento consiste nel recuperare l'acquisto
187
avvenuto a livello del corpo proprio che evitava la scissione tra l'interiorità e l'esteriorità. Il
soggetto incarnato non si divide tra un corpo conosciuto visivamente e un corpo vissuto
interiormente, ma rimane unitario pur mantenendo entrambe le peculiarità.
La percezione del mondo non preclude a priori la presenza dell'altro, visto che esonda
gli argini conoscitivi della soggettività incarnata dell'io. Potrebbe sembrare che l'alter-ego si
presenti nella percezione come un doppio dell'io, sulla base dell'appartenenza allo stesso
mondo. Contro il pericolo di un certo egoismo ontologico, che vedrebbe la figura dell'altro
ridotta a semplice comparsa priva di una interiorità accessibile, Merleau-Ponty propone una
distinzione tra gli io che si rapportano. L'altro non è confondibile con l'io, in quanto la
percezione che si ha coglie familiarità ma non specularità. L'io incontra l'altro sulla base della
qualità comune che consiste nella corporeità. Tuttavia, non si tratta mai di semplice materia
sensibile, bensì di corpi propri, in cui soggetto e oggetto si confondono.
L'io osserva, nel suo rapporto con il mondo, la dinamicità del fluire della conoscenza
percettiva tra un esterno e un interno, distinti solo successivamente dal ragionamento. Questa
certezza vorrebbe posizionarlo in una situazione di centralità privilegiata dalla quale
sottomettere la realtà circostante in maniera assoluta. Apparentemente, il corpo dell'altro
potrebbe rientrare in quella totalità di oggetti che costituisce il campo del vissuto dell'io,
prima che esso inizi ad esprimere la sua capacità di percepire il mondo. La percezione
dell'altro glielo impedisce, in quanto, rende conto della coappartenenza allo stesso mondo. I
gesti che l'io riconosce come familiari confermano il fatto che il corpo dell'altro abita un unico
mondo che induce in lui quasi la stessa reazione. L'io percepisce le cose e crede di avere il
dominio conoscitivo sul mondo e sulla presenza degli altri, ma si deve rendere conto che il
suo essere una “totalità” di percezioni significa dover limitare il proprio campo di indagine
con il campo dell'altro, per poter giustificare completamente l'accesso alle cose stesse. I due
campi irraggiano la loro efficienza interagendo tra di loro e con il contenitore più ampio che è
il mondo: le loro sfere di influenza si contagiano per somiglianza e per appartenenza. L'io sa
che il suo potere percettivo può essere generalizzato (“il mio rapporto con me stesso è già
generalità”592) e che si possa parlare di un'universalità del sentire che permette sia la sua
identificazione che la percezione dell'altro. L'atto di percepire non rappresenta più semplice
impatto del mondo sull'io, ma anche presa dei miei gesti sull'altro. Tra i sensi dell'uomo,
Merleau-Ponty predilige la vista per spiegare come la percezione reciproca confermi la
condivisione dello stesso mondo: la reversibilità potenzialmente infinita della costatazione
592 PM, p. 192.
188
dell'esistenza di entrambi i protagonisti crea un loro decentramento. La corporeità prescrive
una contestualizzazione sensibile tra le cose e tra altri corpi: essa non può essere concepita se
non come intercorporeità. Così come la corporeità risulta costitutiva della relazione tra la
soggettività incarnata nel mondo, così l'intercorporeità si dimostra non accidentale, bensì
ontologicamente necessaria per la descrizione della relazione io-mondo-altri. Questo rapporto
non si presenta, tuttavia, come oggettivamente colto in un pensiero positivo, bensì in maniera
“ambigua”, pieno di assenze, ombre e scarti, al confine tra la zona preriflessiva e quella della
riflessione.
Il ragionamento di Merleau-Ponty lo ha portato a dimostrare l'accesso all'altro sulla
base della corporeità percepita non solo a livello della presenza fisica, ma soprattutto della
capacità dei soggetti incarnati di rapportarsi al mondo tramite comportamenti. La gestualità ha
creato la possibilità di un riconoscimento dell'altro come alter-ego e del loro contesto in
coappartenenza. Queste relazioni ontologicamente costitutive sono caratterizzate dal rapporto
di reciprocità del sentire, della reversibilità della percezione, del chiasma delle loro proprietà.
Il suolo di questi scambi ontologici o chiasmatici è la carne del mondo. Il concetto, che
rimanda all'apertura originaria di tutti gli elementi dell'essere alla loro comune appartenenza,
è stato utilizzato dal filosofo francese per elevare il problema del rapporto interumano dal
livello fenomenologico a quello ontologico. La carne descrive lo stato in cui si presentano la
corporeità dei soggetti, il loro rapporto con il mondo, l'intercorporeità, lo stadio originario in
cui si danno le cose stesse, le forme in cui si manifestano i rapporti interumani, il mondo
stesso.
Sulla base di questi acquisti, Merleau-Ponty ha cercato di individuare la soluzione al
problema, al contempo conoscitivo e ontologico, che consiste nella possibilità e nel
fondamento di un'estensione, da parte dell'io, della compresenza dei corpi agli spiriti.
All'esposizione classica, in termini dualistici, della difficoltà di accedere alla coscienza
dell'altro (che esigeva una rifondazione delle categorie di pensiero che hanno cercato di
oggettivarla), Merleau-Ponty ha risposto riformulando i dati della questione in un senso
olistico.
Il terzo capitolo ha cercato di giustificare il concetto di intersoggettività, a partire dalla
fede percettiva, in cui si colloca la soggettività incarnata, e dalla relazione intercorporea, che
caratterizza ontologicamente l'essere al mondo degli uomini. L'argomentazione merleau-
pontyana si svolge in un contesto in cui le caratteristiche dell'essere vengono ampliate,
annettendo all'essere della razionalità positiva l'essere “grezzo” o “verticale” che si riferisce a
189
quell'area preriflessiva, nella quale si è installato il primo contatto con il mondo e con gli altri.
Questo essere primordiale rivela un senso intrinseco disseminato nel mondo e negli elementi
soggettivi e oggettivi che lo popolano. In quanto “selvaggio” o preteoretico, l'essere include il
non-essere nelle sue forme di scarti, latenze o potenzialità della sua “trama carnale”. Il senso
veicolato dal mondo, compreso nell'Essere delle profondità, non è, dunque, un senso
positivamente espresso, bensì immanente. Nel silenzio della loro presenza, il mondo, la
corporeità propria dell'io e l'intercorporeità si dimostrano intrisi di un pre-senso, un pre-sapere
che funge da base per ogni costruzione dell'intelletto. La ragione e il sapere preteoretico sono,
dunque, affini e si implicano a vicenda. In questo modo, Merleau-Ponty riesce a giustificare
anche la possibilità del ritorno alle cose stesse tramite le modalità espressive tipiche della
razionalità. Le aree concettuali individuate in precedenza - il mondo colto nell'Urdoxa e la
relazione tra i corpi propri - vengono rilette sulla base del rapporto chiasmatico, vale a dire di
reciproca implicazione ontologica, tra riflesso e irriflesso. Il filosofo sposta, dunque, la
trattazione sul piano della significazione, presente sia a livello pre-espressivo che a quello
espressivo, creando una serie di differenziazioni concettuali (senso percettivo-senso
langagier, cogito tacito-cogito riflesso, parola parlata-parola parlante, linguaggio eloquente-
linguaggio operante, logos proferito-logos interiore) allo scopo di rendere più chiara
l'importanza della relazione chiasmatica tra i due ambiti. Questa dicotomia è, tuttavia, solo
esplicativa, in quanto questi aspetti dell'essere sono innestati l'uno nell'altro.
Il rapporto chiasmatico tra significante e significato viene, dunque, trasferito sul piano
dell'intercorporeità e riesce a creare un varco tra le aporie che attorniano il problema
dell'intersoggettività. Il senso percettivo può essere espresso sia nella gestualità silenziosa, sia
nel “gesto particolare che è la parola”. Il significato è trasferibile, ma rimane sempre
immanente ai veicoli che utilizza: la parola, espressa in suoni o scritta con l'inchiostro, la
lingua, come totalità delle “situazioni comuni”, il mondo culturale, come istituzione
dell'appartenenza comune alla storia dei sensi sedimentati, rappresentano una corporeità
significante sublimata. A questo livello, l'esperienza del dialogo viene a confermare che la
trasferibilità del significato incarnato può arrivare all'altro. C'è contatto tra le significazioni
silenziose o espresse dei dialoganti, pur nell'alternanza tra ascolto e parola, tra la dicibilità e
l'indicibile. L'individualità e universalità si alternano e si intrecciano chiasmaticamente nel
rapporto comunicante tra l'io e l'altro: l'individuale dell'io è raggiunto dall'ascolto e dalla
comprensione dell'altro e allo stesso tempo l'universalità del sentire cessa di esserlo solamente
per l'io, ma diventa condivisa e riconosciuta. Pur trattandosi di un'esperienza che si
190
caratterizza per la compresenza di “visibilità” e “invisibilità”, l'incontro con l'altro significante
non avviene direttamente, ma “di lato”, vale a dire, non nella positività di una trasmissione
completa e cristallina di significati, bensì nella dimensione che comprende anche le zone
d'ombra dell'incomprensione e del non-detto. Questa peculiarità della comunicazione
intersoggettiva permette il mantenimento delle differenze personali, nonostante l'abbattimento
di certi confini travalicati dai significati condivisi, ma crea anche lo spazio per la creazione di
nuovi significati. Affinché venga confermata la diversità, l'altro deve “sorprendere” l'io con
significati nuovi, sia che questi vengano espressi corporalmente che linguisticamente. Il
paradosso filosofico dell'apparizione dell'insolito all'interno di un'area di comunione di
significati, apparentemente già dati nella loro completezza, può essere superato considerando
la trasformazione che avviene nell'io e nell'altro a livello del senso e dello stile. Questi due
concetti presuppongono la predisposizione all'apertura verso il mondo e verso
l'intersoggettività che coniuga gli elementi dati, dapprima in maniera poco riconoscibile e
successivamente integrati nel sistema aggiornato di significati adottati dai dialoganti. Nella
comunicazione rimane sempre qualche sfumatura che sfugge persino all'intenzionalità
dell'autore della forma espressiva: i sensi residui possono costituire la materia prima per
nuove formazioni di senso, alle quali i soggetti incarnati possono accedere perché già
sedimentati in un'esperienza singolare e plurale.
La vera percezione di un alter-ego presuppone, dunque, che il suo discorso, nel
momento in cui l'io lo comprende e soprattutto allorquando gli sfugge e rischia di diventare
non-senso, abbia il potere di rifare l'io a sua immagine e di aprirgli la possibilità di un altro
senso. Merleau-Ponty non contrappone due coscienze, ma due stili espressivi in grado di
lasciarsi condurre dal movimento del discorso verso una nuova situazione conoscitiva. Si
tratta di un processo che, nonostante cerchi di rivoluzionare costantemente le sedimentazioni
di senso, manifesta il divenire della verità. Il fondamento della verità è immanente e si
concretizza in ogni ripresa delle conoscenze già acquisite. La parola stessa, non è altro che
anticipazione di un nuovo sistema interpretativo e ripresa delle significazioni istituite,
all'interno di un tempo storico. La comunicazione linguistica dimostra meglio di tutte le altre
forme espressive come sia possibile l'incontro, lo scambio, l'identità e la differenza tra quelle
che si pensavano totalità inconciliabili, considerate sia a livello individuale che sociale. C'è
reciprocità, chiasma, nella trasformazione operata dalla parola: l'io fluisce nell'altro e l'altro
nell'io, abolendo i confini identitari e quelli tra senso e non-senso.
191
Questa ricerca ha voluto tracciare un percorso dialettico in grado di rendere conto
dell'apparizione del concetto di intersoggettività nella filosofia merleau-pontyana. Quello che
risulta chiaro è l'intento del filosofo di tenere collegati in un rapporto di reciprocità tutti gli
elementi dell'essere. Questa visione olistica, ma asistemica, permette di considerare
l'intersoggettività come parte integrante della sua ontologia. L'identità di ogni io si determina
solamente nel rapporto con gli altri io: i confini della propria conoscenza si delimitano volta
per volta nella certezza percettiva di abitare un mondo unico e nella comunicazione linguistica
che permette la creazione di significazioni nuove. La relazione intersoggettiva non avviene,
tuttavia, esclusivamente sul piano epistemologico, bensì su quello ontologico. Gli uomini
sono soggetti incarnati caratterizzati dalla “deiscenza”, dall'apertura costante verso l'essere nel
quale interagiscono con tutti gli altri esseri. L'intersoggettività risulta, dunque, costitutiva
dell'essere al mondo dell'io. Considerato come una dimensione dinamica e viva, l'Essere
coinvolge tutti i suoi elementi nell'ontogenesi, grazie alla loro apertura potenziale o attuale di
riformulare tutte le relazioni nelle quali sono innestati. L'intersoggettività è, dunque,
caratteristica dell'Essere e di ciascun uomo, sia nella coproduzione di senso originario che
nella sublimazione linguistica.
193
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http://www.youtube.com/watch?v=99iTDUcBuRQ
http://www.youtube.com/watch?v=jhrGTrj4DOI&NR=1
GIORGI -Works of Merleau-Ponty - 10.17- 24. 2008.
http://www.ustream.tv/recorded/810035
http://www.ustream.tv/recorded/810282
http://www.ustream.tv/recorded/793617
http://www.ustream.tv/recorded/793499
V. PEILLON, Philosophe au PS, chez Fog, Extrait de l'émission de Franz-Olivier Giesbert,
diffusée le samedi 17 mai 2008 sur "France 5" : Chez FOG.
http://www.france5.fr/chez-fog/
http://dailymotion.virgilio.it/video/x5gx7h_vincent-peillon-philosophe-au-ps-ch_news