tesi il principe e la repubblica

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Alma Mater Studiorum Università di Bologna Facoltà di CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI Corso di Laurea in BENI ARCHEOLOGICI Il Principe e la Repubblica Cesare Borgia alla Conquista di San Marino Relatore: Prof. Angelo Turchini Corelatore: Prof. Raffaele Savigni Presentata da: Marzio Morganti II Sessione Anno Accademico 2011/2012

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La piccola Repubblica di San Marino è un caso politico unico nel suo genere e un utile oggetto di analisi per comprendere l'evoluzione delle realtà romagnole nella loro storia.Istituzionalmente e spiritualmente legata al proprio antico passato e alle proprie gloriose mitologie, San Marino è un vero e proprio “reperto vivente”, in cui moderno e antico convivono armoniosamente nella cultura, nel diritto e nelle istituzioni, di cui molto ancora deve essere scritto.Nel tentativo di comprendere meglio un luogo e un tempo di straordinaria complessità come quello delle terre romagnole nel periodo del Rinascimento, il cruciale periodo dell'ascesa, dominio e caduta della dinastia pontificia dei Borgia è un momento di grande interesse storiografico. Il breve momento di dominio su San Marino da parte degli uomini e delle forze del Valentino, una delle più incisive soluzioni di continuità nella storia della celebrata libertas sammarinese, può chiarire ulteriormente le ragioni dei cambiamenti radicali di un mondo che non era più totalmente “medievale”, ma non ancora pienamente “moderno”.Tramite l'analisi dei carteggi, degli atti giudiziari e dei libri notarili nell'Archivio di Stato di San Marino e per mezzo della ricerca nelle fonti coeve con il confronto con recenti studi, si intendono chiarire i rapporti diplomatici fra la Reggenza sammarinese e i potentati confinanti coinvolti nell'espandersi delle ambizioni di Cesare Borgia, alla luce della superiore incombenza politica del papato, dello stesso conquistatore e dei suoi uomini.Facendo luce non solo sugli atteggiamenti diplomatici ufficiali di San Marino, ma anche sui solitamente meno considerati aspetti della vita quotidiana, dei libri contabili e delle formule giudiziarie, è possibile ricostruire lo scenario della politica interna della Repubblica occupata.Allegando testimonianze dirette e indirette, si possono definire le varie fasi istituzionali della dominazione, tentando di motivare le scelte di campo delle alte gerarchie sammarinesi, degli alleati vicini e del potere pontificio nella controversa situazione romagnola del lustro 1498-1503, per ricostruire le conseguenze politiche e storiche del passaggio fra i due secoli, inserendo, senza tuttavia limitarsi a questo, il particolare punto di vista dell'antica terra repubblicana.

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Page 1: Tesi Il Principe e La Repubblica

Alma Mater StudiorumUniversità di Bologna

Facoltà di CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALICorso di Laurea in BENI ARCHEOLOGICI

Il Principe e la RepubblicaCesare Borgia alla Conquista di San Marino

Relatore: Prof. Angelo Turchini

Corelatore: Prof. Raffaele Savigni

Presentata da: Marzio Morganti

II Sessione

Anno Accademico 2011/2012

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Indice

Introduzione p. 7

Capitolo PrimoIl piccolo Stato nell'Italia del Rinascimento p. 9

Capitolo SecondoLe origini del dominio borgiano 1498-1501 p. 21L'ascesa dei Borgia p. 23La conquista di Imola e Forlì p. 27I primi contatti con San Marino p. 31

Capitolo Terzo:La Repubblica sottomessa 1502-1503 p. 43La prima occupazione (1502) p. 45La seconda occupazione (1503) p. 53

Capitolo Quarto:La Repubblica liberata p. 59

Conclusione p. 67

Bibliografia e Fonti p. 71

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Altobello Melone

Ritratto di gentiluomo, detto Cesare Borgia (1500-1524)

Galleria dell'Accademia Carrara, Bergamo

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Introduzione

La piccola Repubblica di San Marino è un caso politico unico nel suo genere e un utile oggetto di analisi per comprendere l'evoluzione delle realtà romagnole nella loro storia.Istituzionalmente e spiritualmente legata al proprio antico passato e alle proprie gloriose mitologie, San Marino è un vero e proprio “reperto vivente”, in cui moderno e antico convivono armoniosamente nella cultura, nel diritto e nelle istituzioni, di cui molto ancora deve essere scritto.Nel tentativo di comprendere meglio un luogo e un tempo di straordinaria complessità come quello delle terre romagnole nel periodo del Rinascimento, il cruciale periodo dell'ascesa, dominio e caduta della dinastia pontificia dei Borgia è un momento di grande interesse storiografico. Il breve momento di dominio su San Marino da parte degli uomini e delle forze del Valentino, una delle più incisive soluzioni di continuità nella storia della celebrata libertas sammarinese, può chiarire ulteriormente le ragioni dei cambiamenti radicali di un mondo che non era più totalmente “medievale”, ma non ancora pienamente “moderno”. Tramite l'analisi dei carteggi, degli atti giudiziari e dei libri notarili nell'Archivio di Stato di San Marino e per mezzo della ricerca nelle fonti coeve con il confronto con recenti studi, si intendono chiarire i rapporti diplomatici fra la Reggenza sammarinese e i potentati confinanti coinvolti nell'espandersi delle ambizioni di Cesare Borgia, alla luce della superiore incombenza politica del papato, dello stesso conquistatore e dei suoi uomini.

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Facendo luce non solo sugli atteggiamenti diplomatici ufficiali di San Marino, ma anche sui solitamente meno considerati aspetti della vita quotidiana, dei libri contabili e delle formule giudiziarie, è possibile ricostruire lo scenario della politica interna della Repubblica occupata. Allegando testimonianze dirette e indirette, si possono definire le varie fasi istituzionali della dominazione, tentando di motivare le scelte di campo delle alte gerarchie sammarinesi, degli alleati vicini e del potere pontificio nella controversa situazione romagnola del lustro 1498-1503, per ricostruire le conseguenze politiche e storiche del passaggio fra i due secoli, inserendo, senza tuttavia limitarsi a questo, il particolare punto di vista dell'antica terra repubblicana.

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Capitolo Primo

Il piccolo Stato nell'Italia del Rinascimento

Il breve episodio dell'occupazione sammarinese da parte di Cesare Borgia fu un vero e proprio “scontro di civiltà” fra Comune e Signoria, fra sogni di grandezza e piccole realtà, fra antichi diritti e un mondo in repentino cambiamento.Per comprendere le ragioni della folgorante espansione borgiana è prima necessario descrivere il radicale mutamento dei rapporti fra le diverse realtà politiche nell'Italia del XV secolo, durante il pieno periodo di tramonto del mondo medievale.

“Monstrandogli che al presente non sonno Scalla, Carara, Fonduli, et assai signorotti, maxime in Lombardia, quali erano cupidi di novità; et che

Lombardia è in mano de Signori et potentie grosse, quali non pateriano Todeschi in Italia, se non per un pezo per saciare qualche loro apetito, ed

infine pur se acordariano a desfargli” (1)

Nel 1451 il pontefice Niccolò V rassicurava così l'ambasciatore milanese di Francesco Sforza, da pochi mesi elevatosi a Duca senza approvazione imperiale, riguardo l'invito papale all'Imperatore Federico III per l'incoronazione in Roma.Questa lettera fu parte integrante dei negoziati che portarono alla fondazione della Lega Italica nel 1455 e illustra all'ambasciatore milanese, in termini schiettamente politici, l'interesse della Santa Sede a mantenere un potere forte in “Lombardia”, nonostante la comunque presente necessità di scendere a compromessi con l'Imperatore. Notevole l'uso della perifrasi “potentie grosse”, rivolta al nascente universo politico sforzesco: il Papa apprezza e

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riconosce il valore stabilizzante dell'autorità del recentissimo Duca, che già dimostrò genio strategico (e potente ambiguità) con la repentina presa del potere ai danni dell'Aurea Repubblica Ambrosiana nel 1450, contro i fattori regionali disgreganti individuati nelle signorie cittadine degli Scaligeri, Carraresi e dei Fonduli di Cremona, che già concorsero a disperdere l'opera di Giangaleazzo Visconti e a creare un vuoto di influenza favorevole ai disegni dell'imperatore Sigismondo, compresi i suoi piani conciliaristi di controllo sull'operato pontificio (2).La Signoria cittadina di tradizione trecentesca viene quindi equiparata in modo dispregiativo ai “signorotti”, termine usualmente riferito alla piccola nobiltà rurale di minimo pregio e influenza (3). Con la nascita della Lega Italica, per la prima volta i potentati italiani vengono distinti nettamente fra “principali” e “secondari”, dandogli una valenza gerarchica differente (4).Roberto Fubini denota anche un ulteriore aspetto di questa novità, diverso ma strettamente connesso al contesto: gli associati si identificano nei rispettivi regimi, per la salvaguardia dei quali la Lega stessa nasce e si muove. Le parti contraenti riconoscono le reciproche autorità anche in presenza di più o meno plausibili contestazioni di legittimità, innanzitutto quella dell'Imperatore nei confronti della nuova dinastia ducale degli Sforza (5). La Lega Italica sancisce un rapporto paritario fra gli alleati, che accantonano le dispute interne in nome di un comune dato di rispettivo accentramento del potere e di autodifesa reciproca che non ha precedenti nell'Alto Medioevo.Se Paolo Grossi, da giurista, può dipingere nella civiltà medievale fino al XIII secolo la presenza di (per usare una sua felice espressione) un universo di autonomie (6) è grazie alla struttura politica particolare in cui essa si dispiega. Una comunità di comunità, unita da una fittissima rete di relazioni gerarchiche e diplomatiche che trascendono i confini territoriali e i normali rapporti di forza, armonizzata da un Ordine

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universale di cui la Chiesa e l’Impero sono i due pilastri in terra: al vertice di questo ordo, il Dio-persona del cristianesimo. Citando San Tommaso: “Ordo includit distinctionem, quia non est ordo aliquorum nisi distinctorum” (7).In un simile assetto culturale non possiamo trovare alcun segno dell’insularità tipica dello Stato “moderno”, per sua natura costituente caratterizzato da “un territorio, una popolazione e il monopolio del potere legittimo”, secondo la definizione di Paolo Prodi. Tale monopolio si esprime quindi in numerosi modi.L'uso unico e giustificato della forza, sia contro il nemico esterno sia contro i sudditi durante il tempo di pace, condanna l'abuso fra privati e crea appositi corpi militari a tutela dell'ordine pubblico: solo il sovrano può dichiarare guerra ai nemici esterni e mantenere l'ordine contro i nemici interni.Il controllo sulla popolazione si esprime anche nelle istituzioni totali sconosciute fino all'epoca precedente, in cui vengono rinchiusi coloro che non si adattano all'ordine costituito: manicomi, prigioni, ricoveri forzati per mendicanti e vagabondi.La nuova diplomazia tutela l'ordine dello Stato dai nemici esterni, fornendo costantemente informazioni tramite ambasciate permanenti, in un continuo dialogo che può sussistere solo fra autorità che si riconoscono vicendevolmente grado di prendere la parola per conto di tutti i loro sudditi (e del loro esercito) e a cui tutti i subordinati ubbidiscono, in un nuovo ordine di equilibrio fra Stati sovrani, senza subire interferenze da imperatori lontani o potenti corporazioni.La burocrazia, in particolar modo quella finanziaria, è fondamentale allo Stato moderno per il mantenimento delle forze armate (e quindi di buona parte del proprio potere): essa si costruisce su una nuova casta di funzionari professionisti direttamente sottomessi al sovrano, che impongono le tassazioni necessarie in modo regolare e con crescente organizzazione (8).

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La civiltà medievale ha invece come fondazione del proprio diritto la consuetudine e un sistema di valori che in essa trova definizione: il principe medievale è un Giudice che rende giustizia al suo popolo, colui che deve discernere la realtà delle cose e applicare una legge a lui superiore, da lui fondamentalmente indipendente (9).Da qui si può facilmente comprendere il germogliare della cultura nel maturo medioevo a partire dai primi del XII secolo, con lo sbocciare di quel gremito laboratorio sapienziale nella fioritura universitaria europea: il sapiente, custode della saggezza, è capace di leggere il significato autentico delle cose e di riferirlo al detentore del potere, a cui spetta il dovere e diritto di applicazione (10).La guerra, la diplomazia e il sistema burocratico medievale avevano un carattere sporadico e occasionale: con l'insorgere di un problema diplomatico si inviavano ambasciatori, in occasione di una guerra imminente si tassavano i propri sudditi, per radunare un esercito o mantenere l'ordine ci si affidava agli usi locali sulla base di un rapporto unico di onorevole fiducia fra il sovrano e i suoi ufficiali (11).Questo sistema di valori, dalle complementari e armoniche tendenze sia universaliste che particolariste, entra gradualmente in crisi, almeno in Italia, nel rapido succedersi di due secoli con gli scontri fra Guelfi e Ghibellini, la progressiva ritirata oltralpe dell’Impero e le conseguenti ingerenze sempre maggiori della Santa Sede nelle politiche degli stati della penisola.Già nel 31 marzo del 1353 con il trattato di Sarzana (12) fra Firenze, sostenuta da Perugia, e la Milano dell’Arcivescovo Giovanni Visconti (mediata dal signore ghibellino di Pisa, Franceschino Gambacorti), si vede una divisione di sfere di influenza fra i due potentati compiuta senza dignitari diretti del Papa ammessi a presenziare e, nota eccezionale, con la città di Firenze che si arroga (o a cui viene arrogato, in svariate

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sfumature) il diritto di decidere e parlare nel nome dei vari “seguaci, aderenti e sudditi” dentro e fuori i confini della propria Signoria, luogo di diretta influenza politica della città.È il nuovo istituto dell’aderenza che disorienta il diritto precedente: un patto di collaborazione e di riconoscimento di “superiorità”, da parte di un ente politico rispetto a un altro, che prescinde dalle usuali e antiche regole dell’istituto feudale e che non comporta necessariamente il riconoscimento di auctoritas, ossia del diritto superiore, sacrale e tradizionale di dominio di un ente politico su un altro (13).Come fa notare Federico Chabod, dallo spirito di italianità di Dante, fortemente legata tuttavia al supremo ideale di un impero universale, il pensiero politico passerà ad un livello più “statale”: Machiavelli parla già di entità politiche differenti dal Sacro Romano Impero (Spagna, Francia...), concedendogli il pieno riconoscimento del loro diritto a esistere come creature istituzionali libere dall'antico diritto.Dovrà trascorrere ancora molto tempo prima del pieno sviluppo storico del concetto di Stato nell'idea di Nazione: un amalgama armonico di tradizioni, lingua, etnicità e pensiero che forma il “carattere” di una patria, distinguendola nettamente dalle altre in una ricerca costante e spesso dolorosa delle proprie autentiche libertà e identità (14).Lo scenario è quindi schiettamente politico, incentrato su giochi di convenienza e sulle conseguenze immediate della diplomazia. Proprio l’istituto giuridico dell’aderenza (altrimenti detto “colleganza” o “accomandigia”) si svilupperà nel corso di tutto il Rinascimento italiano lanciando i presupposti per la creazione del pensiero statale quattrocentesco, sviluppandosi assieme ai crescenti domini delle grandi Signorie.Ancora Fubini, nel già citato discorso, evidenzia il sempre maggiore distacco, fra '300 e '400, nel diritto politico e diplomatico dei maggiori potentati italiani dai poteri universali

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di ascendenza medievale e il sempre maggiore accentramento governativo “ai danni” delle entità politiche minori attorno ad essi. La precisa analisi dei trattati dell’epoca, particolarmente nell’esemplare caso fiorentino, mostra la progressiva ingerenza della città nelle politiche estere dei suoi aderenti (che diventano sempre più attori di un disegno politico già determinato) e persino il crescente gioco di alleanze fra i grandi ed eterni avversari, la Chiesa e l’Impero, si muovono nella comune direzione stabilita dagli interessi della “grande potenza” fiorentina, sempre più sciolta dal diritto tradizionale e sempre più protagonista del proprio destino.E’ da dire, tuttavia, non solo che i grandi poteri italiani erano fin troppo deboli rispetto ai colossi europei del tempo (ed è in questa ottica ben riconosciuta che nasce il desiderio di unirsi in una comune alleanza), ma anche che il sistema dello Stato “potenza grossa” (nel suo naturale sviluppo della Signoria) in Italia non è da additare come l’affermazione di un nuovo, rivoluzionario diritto: più che annientato, l’ordine precedente venne semplicemente spiazzato.Se è vero che la Lega italica ebbe, fin dalla sua fondazione (pur senza mai dichiararlo apertamente), l’opposizione alla Francia e all’Impero il suo primo senso costituente, è anche vero che dopo la fallimentare campagna napoletana del Re francese Carlo VIII nel 1494 i delicati equilibri sanciti dalla Lega vennero facilmente spazzati via (15).Fra i tentativi più o meno coronati dal successo di approfittare del Re per ottenere vantaggi personali, le cosiddette “grandi potenze” si dimostrarono divise internamente e pronte ad abbandonare ogni minimo desiderio autonomista precedente: a Milano il Duca Ludovico il Moro ottenne, per appoggio del Re, la cacciata del nipote Gian Galeazzo Visconti, che insidiava il suo potere; a Firenze gli avversari dei Medici aprirono le porte della città ai francesi, costringendo alla fuga Piero di Lorenzo,

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detto il Fatuo, e restaurando la repubblica sotto la guida del Savonarola. Anche i cardinali romani sfavorevoli ad Alessandro VI miravano alla sua destituzione, ma il Borgia scongiurò colpi di mano garantendo al Re il passaggio attraverso i territori pontifici, offrendo suo figlio Cesare come legato durante l'impresa, in cambio di protezione e lasciando intendere la promessa di un'investitura papale alla corona di Napoli (16).La campagna di conquista si concluse tristemente per Carlo VIII, che non seppe prevalere pienamente contro una successiva alleanza fra Venezia, la Santa Sede e Milano, questa volta, a differenza della precedente Lega Italica, dipendente dall'appoggio di Impero e Spagna.La cosiddetta Lega Santa del 1495 gli strappò di mano le conquiste napoletane con la Battaglia di Fornovo, in data 6 luglio di quello stesso anno. Perduta ogni speranza, soffocato dai debiti e impossibilitato a pagare i propri numerosi mercenari, il Re di Francia si ritirò oltralpe, dove morì due anni e mezzo dopo lasciando un regno impoverito e vessato dai disordini (17).La situazione italiana andò incontro alla completa perdita della fragile armonia politica fra le sue “grandi” potenze e al sempre maggiore grado di ingerenza di grandi stati europei nei propri affari, ormai consci e attivi sostenitori di tali tragiche divisioni interne. La conseguenza inevitabile fu un periodo sanguinoso di Guerre Italiche che terminò solo nel 1559 con una penisola spezzata fra le influenze francesi e spagnole.E’ in questo complesso scacchiere di nuovi poteri e antichi diritti in cui devono muoversi coloro che, nel solo confronto con le maggiori potenze limitrofe, possono essere giustamente definiti “Piccoli Stati”, in uno spettro di possibilità che Giuseppe Galasso illustra magistralmente con il confronto fra Francesco Guicciardini e Niccolò Machiavelli nei loro scritti politici (18).All'interno delle loro divergenze, con Guicciardini teorico di un'alleanza federale e politico-militare fra i comunque molteplici

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Stati italiani, retta da una saggia oligarchia, e Machiavelli sostenitore di un'unica entità politica che unisca tutta la penisola, riparandola dalle influenze europee con la propria forza militare e prestigio diplomatico, entrambi spendono numerose considerazioni sulla natura e sul destino delle piccole comunità politiche. Per Guicciardini, che parte analizzando la situazione degli stati italiani, “piccolo” equivale a debole, facile vittima dei rivolgimenti della politica, mentre è la “grandezza” di uno stato il suo primo fattore di sicurezza. Le potenze minori cadono sempre vittima dei potentati maggiori, anche se questo processo è ben più difficile se i conquistatori si ritrovano a dover affrontare popoli e comunità perennemente assetate di libertà e indipendenza, quali ad esempio il mosaico di piccole comunità cittadine toscane del travagliato dominio di Firenze (19).Per Machiavelli, che al contrario analizza la situazione dal punto di vista iniziale della complessa e ben più armonica realtà imperiale, il piccolo potere appare, nel giusto contesto e con le necessarie condizioni (evidentemente alludendo alla mancanza delle stesse in Italia), come una realtà più gestibile e dotata di armonia interna maggiore. Se è vero che sono le armi imperiali e i “buoni ordini” (condizioni necessarie e sufficienti) a mantenere uniti e in pace gli infiniti tasselli del mondo germanico, il piccolo Stato può comunque far valere la propria forza con due differenti artifici: l'alleanza con altre realtà simili (secondo l'esempio dei cantoni svizzeri) o l'espansionismo territoriale, ma solo se lo stato è di partenza “ben ordinato”, seguendo, secondo Machiavelli, l'esempio della Roma Repubblicana (20).E' da specificare che in entrambi il concetto di “piccolo” è spesso relativo e funzionale al contesto trattato: come Guicciardini riesce a definire “piccola” la potente Corona d'Aragona in rapporto con il ben più influente Regno di Castiglia, così utilizza lo stesso termine (questa volta con pieno significato) per parlare di Francesco Maria della Rovere, a cui assegna una misera

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condizione politica pari alla piccolezza territoriale del suo dominio. Sempre in entrambi, la “piccolezza” di uno stato è riferita sia al particolare modello di governo con cui si muove sia alle proprie politiche estere (21).Il “piccolo” non prende quindi connotazioni negative in quanto tale, ma solo nella situazione specifica italiana di quel travagliato periodo storico, dove sia Guicciardini che Machiavelli possono vedere un futuro ogni giorno più difficile e fosco, tanto per la loro Firenze quanto per il resto di quelle ormai ben misere “potenze grosse” italiane.

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Note al Capitolo Primo

1. Lettera di Nicodemo Tranchedini a Francesco Sforza, Roma, 22-23

novembre 1451, ed. in L. Rossi, Niccolò V e le Potenze d'Italia, dal maggio 1447 al dicembre 1451, in “Rivista di Scienze Storiche”, III

(1906), p. 339.

2. Cfr. N. Valeri, L'eredità di Giangaleazzo Visconti, Torino, Società

Poligrafica Editrice, 1938.

3. “Signorotti de homini et de castella”, secondo la definizione del

cronista lucchese G. Sercambi.

4. Cfr. G. Soranzo, Collegati, raccomandati, aderenti negli Stati Italiani dei secoli XIV e XV, in “Archivio Storico Italiano”, XCIV

(1941), pp. 3-35.

5. R. Fubini, “Potenze Grosse” e Piccolo Stato nell'Italia del Rinascimento. Consapevolezza della distinzione e dinamica dei poteri, in Il Piccolo Stato. Politica, storia, diplomazia, Atti del

convegno di studi, a cura di L. Barletta, F. Cardini e G. Galasso,

AIEP Editore, Repubblica di San Marino, 2003, pp. 92-93.

6. P. Grossi, “Auctoritas” universale e pluralità di “Potestates” nel mondo medievale, in Il Piccolo Stato..., pp. 79-89.

7. Tommaso d'Aquino, Scriptum super libros Sententiarum magistri Petri Lombardi, 1. 20. 1.3. lc.

8. P. Prodi, Introduzione allo studio della storia moderna, Il Mulino,

Bologna, 1999, p. 68-77.

9. P. Grossi, “Auctoritas” universale e pluralità..., pp. 84-86.

10. Ivi, pp. 86-87.

11. P. Prodi, Introduzione allo studio..., pp. 68-77.

12. Cfr. I Capitoli del Comune di Firenze. Inventario e Regesti, II, a cura

di C. Guasti, Cellini, Firenze, 1893, pp. 305-327.

13. Cfr. U. Petronio, “Adhaerentes”. Un problema teorico di diritto comune, in Scritti in memoria di Domenico Barillaro, Giuffré,

Milano, 1982, pp. 40-84.

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14. F. Chabod, L'Idea di Nazione, Ed. Laterza, Bari, 1979, pp. 22-26.

15. R. Fubini, “Potenze Grosse” e Piccolo Stato..., p. 119.

16. G.B. Picotti, Alessandro VI, con postilla ed aggiornamento

bibliografico di M. Sanfilippo, in Dizionario dei papi, III, Roma

2000, pp. 13-17.

17. F. Catalano, Dall'equilibrio alla crisi italiana del rinascimento, in

Storia d'Italia. Dalla crisi della libertà agli albori dell'illuminismo,

II, a cura di F. Catalano, G. Sasso, V. de Caprariis, G. Quazza,

Torino, UTET, 1962.

18. G. Galasso, “Piccolo Stato” e storiografia italiana dal Rinascimento al Risorgimento, in Il Piccolo Stato..., pp. 127-144.

19. Guicciardini, Ricordi, a cura di G. Masi, Milano, Mursia, 1994.

20. Machiavelli, Opere, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi-Gallimard,

1997.

21. G. Galasso, “Piccolo Stato” e storiografia italiana..., pp. 136-137.

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Capitolo Secondo

Le origini del dominio borgiano1498-1501

Al termine della fallimentare spedizione napoletana di Carlo VIII il già complesso scacchiere politico degli Stati italiani vedeva ora aggiungersi le ingerenze sempre più pesanti delle maggiori potenze europee.Morto il vecchio Re, nel 1498 fu Luigi d'Orléans a brandire lo scettro di Francia con il nome di Luigi XII. Unico nella storia della dinastia Valois-Orléans a salire al trono, Luigi ha sperimentato sul campo la forte instabilità della situazione politica italiana a fianco di Carlo VIII e nel 1499 decide di far valere i diritti dinastici di sua nonna Valentina Visconti sulla Milano di Ludovico il Moro, preparando una fitta rete di relazioni diplomatiche con i potentati italiani limitrofi.Dimostrando ulteriormente la fine degli ideali che avevano animato la Lega Italica pochi decenni prima, Venezia concede la sua alleanza ai francesi in cambio di Cremona e della Chiara d'Adda: oltre ai vantaggi dell'espansione territoriale, la Serenissima poté così vendicarsi del torto pisano, subito per colpa della miopia politica degli Sforza (1).Ludovico Maria Sforza, detto “il Moro” e Duca di Milano, nel suo tentativo di insignorirsi la città di Pisa, alla netta preferenza dei pisani verso una soggezione veneziana (la città aveva già provato il giogo milanese sotto i Visconti) decide infatti di tradire la Serenissima e di aiutare militarmente i fiorentini nella conquista armata della città, sperando in un aiuto perlomeno diplomatico contro l'imminente invasione francese.

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La mossa si rivelò catastrofica: i Veneziani si schierarono prontamente con Luigi XII, i fiorentini nonostante tutto non favorirono il Ducato di Milano, loro acerrimo avversario dall'epoca dei Visconti. Una rivolta interna dovuta alle tassazioni eccessive completò la disfatta e nel settembre del 1499 le truppe francesi occuparono Milano, mentre il Duca si rifugiava presso Massimiliano I d'Asburgo, imperatore del sacro romano impero. Dopo un tentativo di riconquista del Ducato nel 5 febbraio del 1500, Ludovico venne tradito dalle milizie elvetiche sue alleate, da cui mesi prima Luigi XII aveva ottenuto il favore donando la Contea di Bellinzona. Catturato a Novara il 10 aprile del 1500, l'ultimo, autentico Duca di una Milano indipendente terminerà i suoi giorni in prigionia presso il castello francese di Loches, otto anni dopo. Nonostante la breve parentesi del figlio Massimiliano Sforza, Milano rimase sotto le diverse influenze delle maggiori potenze europee per altri quattro secoli (2).Rispetto ai relativamente limitati risultati della Serenissima e degli svizzeri, furono le scelte diplomatiche di Sua Santità Alessandro VI (al secolo Roderic Llançol de Borja) a ottenere il guadagno maggiore dall'invasione del sovrano francese: la collaborazione dello Stato pontificio con la corona di Francia, già collaudata un anno prima con la calata di Carlo VIII, riuscì questa volta a procurare al Papa l'occasione per promuovere i sogni di conquista del figlio Cesare e mettere in crisi i secolari e delicati equilibri politici fra i piccoli potentati dello Stato della Chiesa.

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L'ascesa dei Borgia

Di lontana ascendenza aragonese, ma di fiera identità valenciana, la famiglia Borgia deve le sue più grandi fortune alla collaborazione di Alonso Borgia con la corona d'Aragona.Alonso, ecclesiastico di carriera e uomo di grandi doti diplomatiche, fu uno dei principali fautori della fine degli antipapi avignonesi, segretario particolare di Alfonso V d'Aragona, consigliere reale, precettore dell'erede al trono Ferrante, vescovo di Valencia e perno della ricostruzione del regno ad opera di re Alfonso dopo la conquista di Napoli. Alonso nel 1443 entrò anche nelle grazie del pontefice Eugenio IV, sostenitore del partito angioino: inviato a parlamentare con il Papa per conto del nuovo re aragonese di Napoli, il vescovo valenciano riuscì a concludere un trattato che lasciò ampiamente soddisfatte entrambe le parti.Il Papa lo promosse al rango cardinalizio, mentre il nuovo Re di Napoli gli concesse di mantenere il proprio vescovado e di trasferirsi contemporaneamente a Roma per servire la Chiesa.La carriera di Alonso Borgia lo portò infine ad essere eletto Papa nel 1455 con il nome di Callisto III, con un'imprevedibile elezione dovuta ad un gioco di compromessi fra i poteri dominanti nella corte vaticana, fra cui le nobili famiglie degli Orsini e dei Colonna (3).Dopo Callisto III, il secondo Borgia a sedere sul trono pontificio fu suo nipote Rodrigo, nel 1492, con il nome di Alessandro VI.Figura controversa, avvolta in una “leggenda nera” che comprende crimini di incesto, congiura e omicidio, Alessandro VI Borgia fu un brillante politico e un acuto diplomatico.Con il suo quarantennio di influenza ai massimi livelli delle gerarchie ecclesiastiche nel ruolo di cardinale vice-cancelliere della curia romana, Rodrigo Borgia si mosse sempre con astuzia

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nei giochi della corte papale, nonostante la fama di sleale e superbo, amante del lusso e dello sfarzo, succube dell'amore per i propri figli e dedito a piaceri illeciti, più simile ad un potente nobile rinascimentale che ad un uomo di Dio.Dopo aver tentato di impedire in ogni modo la calata napoletana di Carlo VIII, temendo che Giuliano della Rovere, in quel periodo al fianco del sovrano, potesse farlo deporre, riuscì ad accordarsi con il monarca e successivamente collaborò con le potenze italiane della Lega Santa (1495) per la tragica sconfitta finale dei francesi. Fu tuttavia lesto nell'approfittare del successore alla corona francese Luigi XII per sostenere le ambizioni del figlio e con esse l'autonomia e la forza della Chiesa. Sebbene l'amore per i suoi figli e per gli interessi della sua dinastia fosse uno dei motivi principali di ogni sua scelta, fu nel desiderio di proteggere la Chiesa dalle ingerenze dei sempre più potenti sovrani europei, in particolar modo spagnoli e francesi, che si deve ascrivere il suo sostegno all'opera di conquista del figlio Cesare, e non solo nella comune abitudine nepotista della Chiesa rinascimentale (4).Il rapporto fra i Signori romagnoli e il superiore potere pontificio era, fin dalle prime donazioni territoriali di Pipino e Carlo Magno segnato da una riottosità intrinseca dei primi contro il secondo: l'efficiente e avanzata burocrazia papale portava impopolari tassazioni e controlli sui commerci, il mantenimento dell'ordine e la pretesa di riconciliare le varie fazioni in lotta nei singoli comuni urtava gli interessi delle potenti famiglie, interessate al dominio assoluto sulla propria città e non certo al doverlo condividere con i propri avversari e la diffusa corruzione dei rettori, i governatori delle province, peggiorava ulteriormente la situazione (5). Figlio primogenito (e ovviamente illegittimo) del Papa e della contessa mantovana Giovanna de Candia dei Cattanei, Cesare Borgia fu un uomo di spiccato genio politico e militare, dotato di grande audacia e di una morale

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sfrontata e ambiziosa. Grazie ai favori del padre compì una rapida carriera negli ambienti ecclesiastici, fino a vestire la porpora cardinalizia nel 1493 e la nomina a governatore generale e legato di Orvieto due anni dopo. Ma il suo timore di perdere la propria influenza alla morte del padre (con l'elezione di un altro pontefice) e l'insicurezza e refrattarietà nel riuscire a seguire le ormai consolidate tradizioni della dinastia Borgia, reduce dal successo di aver avuto due pontefici in due differenti generazioni, lo spinsero nel 1498 a chiedere e ottenere la riduzione allo stato secolare contro l'iniziale disaccordo paterno, che in lui vedeva il naturale continuatore dell'operato della casata, non diversamente da quello di altre dinastie pontificali dell'epoca (6).Nello stesso anno partì per sposare Carlotta d'Aragona, all'epoca sotto la custodia della corona francese. Un tale matrimonio avrebbe consentito all'ambizioso giovane di poter vantare diritti dinastici sul Regno di Napoli, all'epoca sotto dominio aragonese, ma il netto rifiuto di una per niente impressionata Carlotta rischiò di mandare all'aria il sottile gioco diplomatico tessuto fra il re di Francia Luigi XII e il Pontefice.Mentre Alessandro VI desiderava infatti donare uno stato alle ambizioni del figlio e all'indipendenza della Chiesa, il re pianificava di ottenere dalla Santa Sede l'appoggio alla propria conquista napoletana, di ottenere l'annullamento papale del matrimonio con Giovanna di Valois per poter sposare la vedova di Carlo VIII, Anna di Bretagna, e di avere nel figlio dell'attuale pontefice un utile partigiano delle proprie aspirazioni in Italia: Cesare infatti continuava a gestire la fazione cardinalizia borgiana anche dopo aver formalmente deposto la porpora e il porsi sotto la protezione della corona francese, così potente da contrastare efficacemente sia le mire imperiali che quelle prima aragonesi, poi spagnole, era per lui la strategia più naturale ed efficace.

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La riduzione secolare di Cesare gli permise di aggirare facilmente il tradizionale monopolio della diplomazia ecclesiastica con la Francia detenuto dai della Rovere, mentre il farsi successivamente adottare da Luigi XII fu l'unico modo sia per legittimare le sue pretese al principato nelle terre romagnole che per liberarlo dalle pesanti ingerenze di Isabella di Castiglia e Ferdinando II d'Aragona, che sempre ostacolarono con ogni mezzo l'aspirazione all'indipendenza di una casata come quella dei Borgia, a loro formalmente sottomessa da antichi vincoli feudali eppure, cosa per loro inaccettabile, non disposta a sostenere esclusivamente i loro disegni presso la corte pontificia (7). Il rifiuto di Carlotta d'Aragona causò un contenzioso diplomatico fra il Regno di Francia e il Papato, che si risolse con un matrimonio di compromesso: Cesare Borgia avrebbe ricevuto la mano della meravigliosa Charlotte d'Albret e il titolo di Duca di Valentinois (da cui l'appellativo di “Valentino”). Il matrimonio fra i due venne celebrato nel maggio 1499 e già in agosto Cesare militava come luogotenente di Luigi XII nella sua vittoriosa impresa contro Milano e in quella successiva verso il Regno di Napoli. Quando l'esercito fu in procinto di attraversare i territori pontifici, Alessandro VI inviò rapidamente dispacci ai signori di Pesaro, Faenza, Forlì, Imola, Camerino e Urbino, dove essi venivano privati di ogni diritto feudale sui loro domini con la scusa (in molti casi del tutto falsa, come ad esempio nei riguardi di Urbino) di non aver versato i dovuti tributi al Pontefice.Ovviamente, tutti i signori coinvolti si rifiutarono di rinnegare i loro diritti, ma la strada per le future conquiste romagnole del giovane dominatore era ormai spianata.

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La conquista di Imola e Forlì

Il 21 novembre 1499 Cesare si mosse contro i diversi signori presenti in Romagna con un potente esercito composto da mercenari e soldati francesi, svizzeri, italiani e tedeschi e con il supporto di una potente artiglieria.Secondo John Larner l'esplosiva potenza militare del Valentino si fondava principalmente sull'arruolamento massiccio delle migliori compagnie mercenarie dell'epoca, che tuttavia si muovevano sotto il comando supremo dei suoi fidati generali spagnoli. Mantenere un esercito di professionisti tanto vasto richiedeva fondi ingenti, prontamente forniti a Cesare dalle casse papali, mentre una fonte secondaria da cui attingere forze pronte ad essere schierate erano gli uomini reclutati in massa nelle terre conquistate. Cesare infatti sapeva bene quanto meschina potesse essere la fedeltà di un mercenario e, se solo avesse potuto, si sarebbe volentieri circondato di uomini fedeli principalmente a lui e a quello che rappresentava, piuttosto che a condottieri temporaneamente stipendiati: del resto l'ostilità degli alleati Orsini e dello stesso Re di Francia ad un suo eventuale attacco alla Bologna di Giovanni II Bentivoglio gliene avevano dato una diretta dimostrazione: se non si fosse piegato alle ingiunzioni dei propri alleati, avrebbe di certo affrontato una grave frattura della compattezza nelle sue forze militari, perdendo le truppe francesi e quelle legate ad altre nobili famiglie sue alleate.La necessità di colpire in fretta e di rinnovare velocemente un esercito in guerra perenne non gli permise mai il lusso di rinunciare completamente al rischioso, seppur efficace, dispendio del soldo, ma lo spinse anche ad arruolare al proprio servizio un gran numero di comandati, le truppe coscritte.Uomini arruolati dalle sue terre, secondo l'equazione “un uomo per casa” o “un uomo per famiglia”, a seconda dei casi, erano

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spesso dei soldati di leva con poca o nessuna esperienza del combattimento e quindi poco utili in battaglia, inclini alla codardia e carenti di disciplina. Le pur presenti truppe regolari, arruolate stabilmente dai suoi domini, non bastavano sicuramente per coprire la richiesta continua di soldati, prestandosi prevalentemente al mantenimento del controllo sui territori pacificati. Tale metodo di arruolamento di massa, impiegato specialmente in casi di emergenza, era già tuttavia utilizzato dai Montefeltro e dai Malatesta già nel XIV secolo (8).Uno dei suoi primi avversari si rivelerà incredibilmente ostico: Caterina Sforza, signora di Imola e Forlì, tentò di chiamare in suo aiuto le forze armate della città di Firenze, ma questa era minacciata direttamente dal Papa di privarla del dominio su Pisa, e accetto solamente di accogliere i suoi figli per proteggerli dalle più tragiche conseguenze della conquista.Caterina ordinò quindi imponenti opere di potenziamento delle sue difese, soprattutto la fortezza di Ravaldino, dove lei stessa viveva e che già aveva fama di essere inespugnabile. Oltre a ciò, iniziò a procurarsi quanti più soldati, armi, munizioni e viveri le fosse possibile, preparandosi a difendere il proprio diritto contro un esercito molte volte più numeroso, armato e determinato.Il 24 novembre Cesare arrivò presso Imola e gli abitanti della città, impauriti dall'imponenza del suo esercito, decisero di aprire le porte e arrendersi senza colpo ferire: solo il castellano lottò per diversi giorni, ma alla fine fu costretto a capitolare definitivamente nel giorno 11 dicembre. La sconfitta non piegò tuttavia l'animo della Signora, che si preparò in vista di un sicuro assalto alla città di Forlì. Visto quanto era accaduto alla sua città minore, Caterina chiese al popolo forlivese se voleva arrendersi al nemico o se desiderava essere da lei difeso, preparandosi quindi per un inevitabile assedio. Davanti ai loro tentennamenti, la Signora prese la decisione di concentrare tutte le sue forze di duemila uomini nella rocca di Ravaldino, lasciando la città al suo

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destino. Il 19 dicembre 1499 Cesare Borgia arrivò a Forlì e venne accolto come un conquistatore: i maggiorenti gli offrirono una resa dove egli si impegnava a non scatenare la furia del suo esercito saccheggiando e depredando la città. Nonostante Cesare avesse inizialmente accettato e firmato il documento, il tradimento dei forlivesi verso la loro Signora lo indignò tanto che le sue soldataglie vennero lasciate libere di saccheggiare e depredare in ogni modo la città e la popolazione, contrariamente a quanto promesso (9). Il forte di Ravaldino venne posto sotto assedio, Caterina non si arrese mai, rifiutando qualsiasi proposta di resa, sfuggendo ad ogni trappola ed inganno che gli veniva teso: tentò addirittura di catturare Cesare mentre era nei pressi della rocca per parlamentare, ma il tentativo fallì. Le artiglierie di entrambi gli schieramenti si bombardarono furiosamente, l'esercito francese agli ordini del Valentino subì forti perdite senza riuscire a smantellare le difese principali della fortezza: quanto era distrutto di giorno veniva ricostruito durante la notte. Gli assediati riuscirono persino a trovare il tempo per suonare e ballare. Contrariamente alle usanze di guerra dell'epoca, Cesare iniziò poi a bombardare le mura ininterrottamente, di giorno e di notte: dopo sei giorni si aprirono nelle fortificazioni due grossi varchi. Il 12 gennaio del 1500 lo scontro finale fu rapido e feroce, Caterina stessa scese in battaglia combattendo con le armi in pugno fino ad essere catturata dalle milizie del Valentino e trascinata come prigioniera al cospetto del conquistatore (10).Ammirato verso l'opera della Signora ma convinto della troppa fiducia riposta nella fama di inespugnabilità della fortezza e nella capacità dei generali di Caterina, Machiavelli commenterà: “Fece adunque la malaedificata fortezza e la poca prudenza di chi la difendeva vergogna alla magnanima impresa della contessa” (11). Nonostante si fosse immediatamente dichiarata prigioniera dei francesi (una mossa che gli consentiva di approfittare del loro divieto di prendere donne come prigionieri

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di guerra), venne comunque affidata dal generale Yves d'Allégre a Cesare Borgia, con la promessa che l'avrebbe trattata non come prigioniera, ma come ospite. Caterina venne così costretta a partire assieme all'esercito che si apprestava a marciare verso Faenza, ma l'improvvisa, quanto temporanea, riconquista di Milano da parte di Ludovico il Moro quello stesso 5 febbraio costrinse l'esercito francese a tornare sui suoi passi e il Valentino, rimasto con il solo esercito pontificio, dovette ritornare a Roma e scortarla prima nel palazzo del Belvedere, dove tentò la fuga, poi a Castel Sant'Angelo, dove venne imprigionata senza troppi riguardi.Mentre Cesare Borgia continuava nel proprio sogno di conquista, Caterina Sforza visse da prigioniera a Roma fino alla liberazione per ordine di Yves d'Allégre il 30 giugno 1501. Morirà a Firenze, dopo essersi da lungo tempo ricongiunta con i propri amatissimi figli, il 28 maggio 1509 per una forte polmonite.

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I primi contatti con San Marino

E' in questo periodo immediatamente precedente la seconda campagna di conquista del Valentino che la piccola comunità del monte Titano (e non solo questa) iniziò a preoccuparsi fortemente per la sua avanzata inarrestabile.La Repubblica era sopravvissuta prosperamente per secoli, immersa nel gioco di convenienze delle principali potenze dell'area, come i Malatesta di Rimini e i Montefeltro di Urbino, ma le antiche inimicizie e alleanze stavano per essere sommerse sotto l'onda accentrante dell'espansionismo borgiano. Dall'alto del Titano l'apprensione dei Capitani Reggenti Cristoforo de Cecco di Vita e Bonifazio di Andrea si espresse anche nei riguardi del duca Guidobaldo da Montefeltro (12), ma ad aggravare la situazione anche la lontananza dei migliori cittadini della Repubblica, spesso al servizio del duca di Urbino, contribuiva a lasciar spazio di azione ai nemici interni, piaga del piccolo stato fino all'occupazione alberoniana.Sempre in quello stesso mese infatti, l'Arciprete di San Marino (il cui nome è tuttora sconosciuto) aveva preso l'abitudine di circolare con parenti e consociati ad armi inastate per il territorio della Repubblica, costringendo i propri avversari a fare lo stesso: la tranquilla stabilità secolare della piccola Repubblica non avrebbe resistito a lungo (13).Cesare Borgia tornò a Roma il 26 febbraio 1500 e venne accolto con un glorioso trionfo dal padre e dalla popolazione: il 9 marzo venne investito del vicariato presso Imola e Forlì e il 29 marzo venne nominato Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa.E' in questo periodo che Ramiro de Lorqua, un nome che tornerà spesso anche nelle cronache sammarinesi, viene nominato governatore presso le città annesse. Bisognoso tuttavia di denaro per le ingenti spese militari, il Valentino convinse il padre a

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vendere, letteralmente, un totale di dodici titoli cardinalizi che gli fruttarono più di centomila ducati e la possibilità di potenziare il suo esercito con numerosi mercenari professionisti.Recuperata l'integrità della propria armata, il Valentino poté finalmente dedicarsi ad organizzare una seconda spedizione contro Rimini, Faenza, Ravenna, Cervia e Pesaro.Le notizie della guerra imminente si spargevano ovunque in Romagna e nel giugno del 1500 si diffuse anche la voce di una rivolta nella Repubblica di San Marino, confermata dal frate sammarinese Giovanni Argentino nei suoi aggiornamenti ai Capitani Reggenti Menetto di Menetto Bonelli e Antonio di Maurizio Lunardini (14). I fatti di violenza di certo scatenatesi sulle cime del Titano erano più probabilmente dovuti a qualche sterile ed estemporanea dimostrazione di forza degli sgherri dell'Arciprete piuttosto che a un'iniziativa organizzata per ordine del Valentino o dei suoi sottoposti.A Cesena gli interessi dei Borgia trovarono il supporto della fazione dei Tiberti contro i loro rivali Martinelli: grazie alla sedizione interna e alle fortissime ingerenze di Alessandro VI, la città dichiarò Cesare proprio governante fin dal 2 agosto 1500.Il Valentino farà di questa città la provvisoria capitale del suo dominio e la sua sarà un'egemonia segnata da un complessivo miglioramento delle condizioni della città, con frequenti distribuzioni di viveri, la progressiva pacificazione degli scontri fra fazioni e l'istituzione del prestigioso Tribunale della Rota. Ingegneri catalani e persino Leonardo da Vinci vennero inviati per rinnovare e migliorare le strutture militari cittadine, funzionali ai suoi sogni ulteriori di conquista: la fortezza fu ricostruita e Leonardo stesso progettò il potenziamento del porto di Cesenatico. Dopo aver passato diversi mesi a cercare la neutralità di Venezia, il giorno 1 ottobre del 1500 Cesare Borgia parte nuovamente contro gli Sforza di Pesaro e i Malatesta di Rimini.

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Giovanni Sforza, dominatore di Pesaro e già in passato fortemente umiliato dal Pontefice, che gli aveva sottratto la legittima sposa Lucrezia Borgia (sorella di Cesare e destinata nei desideri del fratello e del padre a nozze ben più convenienti), inviò una richiesta di aiuto a Venezia, offrendogli direttamente il dominio sul suo ducato purché questi lo aiutassero nel difendersi dalle sempre più vicine e inarrestabili armate del Valentino.La Serenissima valutò però poco prudente uno scontro diretto contro lo Stato Pontificio e rifiutò conseguentemente di fornire aiuti. Dopo i veneziani, furono Guidobaldo da Montefeltro e San Marino ad essere contattati da Giovanni Sforza, ancora senza successo, poiché “All'una e all'altro valse di scusa la tranquilla piccolezza che mal si poteva cimentare a così gravi rischi” (15).La comprensibile riluttanza degli urbinati e dei sammarinesi era evidentemente dovuta alla spaventosa sproporzione di forze in campo: Lodovico Paltroni, cancelliere del Montefeltro, inviò infatti una missiva alla Reggenza in data 4 ottobre 1500, per avvertire i sammarinesi della potenza dell'esercito borgiano.Cesare Borgia poteva schierare direttamente sotto di se quaranta squadre di cavalleria, quattromila fanti e un numero imprecisato di cavalleggeri. Il suo luogotenente Vitellozzo Vitelli poteva contare su duecento cavalieri, mille fanti, duecento paia di bufali e duecento di buoi per trasportare un numero imprecisato di pezzi di artiglieria d'assedio (16).La piccola Repubblica invece poteva schierare in campo una milizia di poche centinaia di elementi, reclutata e gestita secondo gli usi tipici dei piccoli comuni dell'epoca, ma egregiamente addestrata e armata con il meglio della tecnologia militare della fine del XV secolo. Da un inventario coevo delle armi repubblicane, le truppe sammarinesi appaiono infatti schierare un'alta percentuale di armi da fuoco personali, la maggioranza delle quali erano i nuovi archobusi e schioppi, più precisi e potenti dei vecchi schioppetti, utilizzati dai militi in proporzione

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ormai inferiore. Le balestre venivano invece impiegate in minime quantità. Tale qualità di armamento era dovuta principalmente alle iniziative personali degli stessi militi. Molte di queste armi erano pesanti, utilizzabili esclusivamente con un supporto, e quindi poco adatte ai movimenti rapidi tipici di una guerra di attacco, ma si prestavano egregiamente all'organizzazione di una stabile ed efficiente difesa contro nemici esterni: così i sammarinesi sopperivano alla poca quantità con la qualità degli armamenti difensivi e delle fortificazioni, che comunque non avrebbero potuto competere con le forze del Valentino (17). Nella già citata lettera, Lodovico scrive anche di una voce che si era diffusa nei pressi di Imola e Forlì in quel periodo: “Pur per mio debito ve fo intendere che de questa septimana era andata nova ad Furlì et Imola che testa terra era presa per tradimento per el S.r duca Valentino”.Non potendo appurare la veridicità di tale voce, si può dire con sicurezza che il periodo successivo a questo supposto “colpo di stato” non diede segni di particolari stravolgimenti interni o di cambiamenti radicali dell'organizzazione della Repubblica.Il 27 ottobre 1500 Pesaro, rimasta sola contro Cesare Borgia, si arrese senza colpo ferire con la fuga di Giovanni Sforza.Il 29 ottobre l'esercito del Valentino lasciò la città per dirigersi verso Gradara e di li attraversò i domini della Repubblica pronto per colpire Rimini.Francesco di Girolamo Belluzzi e Simone di Antonio Belluzzi, Capitani Reggenti in quel semestre, inviarono all'esercito di passaggio vino, cibarie e ambasciatori nel tentativo di riscuotere la promessa fatta poco tempo prima dal Valentino a Guidobaldo da Montefeltro, dove si impegnava a non colpire in alcun modo né il territorio urbinate né quello sammarinese (18).Il tentativo si risolse pacificamente per San Marino: l'esercito del Valentino raggiunse Rimini alle tre di notte del 30 ottobre 1500 e la conquistò dopo una resa trattata al prezzo di 2900 ducati (19).

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Pandolfo IV Malatesta e il fratello Carlo avevano infatti preferito giungere a uno sconveniente compromesso piuttosto che gettarsi in uno scontro senza alcuna speranza di vittoria (20).Il dominio di Cesare a Rimini, riporta Angelo Turchini, era favorito anche dal sostegno della fazione antimalatestiana della città, che egli premiò facendoli reinsediare e concedendogli nuovamente i privilegi goduti in precedenza, anche se successivamente operò affinché i sostenitori di Pandolfo rimasti in città fossero riconciliati con il nuovo potere papale e con i loro avversari politici. Chiamò anche qui Leonardo da Vinci per progettare potenziamenti al castello e al porto, istituì un monte di pietà e pianificò addirittura di costruire una nuova cattedrale, demolendo la precedente perché troppo imponente rispetto alla rocca (21). Con la conquista di Rimini i contatti diplomatici fra la Repubblica e il governo borgiano si intensificarono notevolmente, così come le corrispondenze.Il 26 settembre 1500 i sammarinesi riforniscono di bestiame Federico Bandi, vescovo di Rimini e luogotenente per gli interessi ducali nella zona, secondo una sua precedente richiesta e ricevendo in cambio lodi e ringraziamenti (22).Sempre da Rimini, nel novembre 1500 è Bernardo Corbera, legato e protonotario della Sede apostolica e castellano di Sant'Arcangelo, che scrive agli attuali Capitani Reggenti (Simone di Antonio e Francesco di Girolamo Belluzzi) per complimentarsi con le attuali politiche di convivenza con il dominio del Valentino:

“Ne avemo singulare apiacere: perche non ne po nascerese non boni effecti. Confortamoue adonca a perseuerare:

perche dal canto nostro si useranno sempre limedeximi boni termini de bona vicinanza” (23)

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Nel frattempo Cesare Borgia era ancora impegnato nell'assedio di Faenza, una delle imprese più difficili che fu costretto ad affrontare. Il giovanissimo signore della città era infatti Astorre Manfredi, valoroso, avvenente, astuto, amato dal popolo, sostenuto dai nobili e foraggiato clandestinamente da Firenze e da Bologna, entrambe ormai più che allarmate dall'inarrestabile espansione borgiana. Sebbene la città fosse cinta d'assedio dalle armate di Cesare già dal 16 novembre 1500, Astorre riuscì a guidare una strenua resistenza fino a costringere il nemico a sciogliere la morsa per il sopraggiungere del rigido inverno, con la magra consolazione di aver comunque conquistato Solarolo e Brisighella. Cesare riprese l'assedio solo il 7 marzo 1501 e ancora Astorre si oppose in una difesa disperata per settimane, fino all'inevitabile capitolazione del 25 aprile. Il giovane Manfredi si consegnò spontaneamente al Valentino e gli furono ufficialmente promessi salvezza e rispetto sia per la sua persona che per la sua città: secondo la testimonianza di Guicciardini, verrà condotto a Roma e li sarà ucciso dopo probabili abusi sessuali, il corpo gettato nel Tevere con quello del fratellastro Giovanni Evangelista (24). Terminata anche la conquista di Faenza, le autorità sammarinesi si affrettarono a far pervenire a Cesare le loro congratulazioni, tanto che il 21 aprile è ancora il legato Corbera di Rimini che gli risponde in termini di ufficiosissima cortesia, assicurando che avrebbe fatto pervenire il loro messaggio al Duca (25). Il 28 maggio in compenso, con toni ben più freddi, impone alla Repubblica il pagamento immediato di alcuni debiti (26) e il 15 luglio l'estradizione in territorio ducale di un tal Guido Agnolo, giovane scapestrato, probabilmente colpevole di sedizione, e rifugiatosi in territorio repubblicano (27). Il Carteggio alla Reggenza di San Marino rivela nel novembre successivo anche un regolare dialogo con il nuovo castellano della Rocca di Rimini, Francesco Maldonato, e di Messer Arnaldo di Santa Cecilia, protonotario apostolico e

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luogotenente ducale, per la raccomandazione di alcuni loro protetti in territorio repubblicano (28), segno della penetrazione politica borgiana nella comunità del Titano e per l'urgente prestito ad Arnaldo stesso di cinquanta scudi (29). L'urgenza era probabilmente derivata dall'entità dei contributi che il Valentino richiedeva alle terre conquistate per mantenere il proprio esercito. Un rapporto di pacifico e tuttavia tesissimo vicinato, quindi, tanto che i ministri di Cesare non lesinarono nel ricordare ai repubblicani la netta sproporzione di potere con i vicini né ebbero problemi a richiedere prestiti e favori di forte entità, a cui la comunità del Titano riuscì evidentemente ad adempiere, non senza sforzi e timori per la propria incolumità. Vi fu anche un momento in cui San Marino ebbe a temere un assalto da parte del suo luogotenente Vitellozzo Vitelli, o almeno così si comprende dalla risposta del 22 giugno 1501 a una lettera dei Reggenti Antonio di Polidoro Lunardini e Fabrizio di Pier Leone Corbelli in cui il Duca Guidobaldo li liberava dal timore verso il condottiero al servizio del Borgia, pur consigliandogli caldamente di non abbassare la guardia in nessun caso, “Non essendo se non bene ben guardarse” (30). Il Duca, fiducioso degli ancora apparentemente buoni rapporti con il Valentino, nella stessa missiva parla anche del suo dominio su Senigallia con lo scopo di rassicurare i repubblicani, storici protetti del potere urbinate: “Circa Senigallia ve notificamo nostro Signore auere Confirmato et Il stato e La dignita al figliolo del S.r prefecto: et nostro nepote. Et cum gratia grandissima: si che anche de quel non è da dubitare niente” (31). Il duca conferma il proprio potere e controllo sulla situazione sempre più tesa, mentre la maglia degli intrighi dei Borgia lo avvolge sempre più strettamente. Il carteggio fra la Reggenza sammarinese e Arnaldo di Santa Cecilia continua amichevole su questioni amministrative di secondaria importanza per il resto dell'estate, fino ad un problematico ed oscuro caso di omicidio in Verucchio,

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di data incerta ma sicuramente collocato fra l'autunno e l'inverno 1501, per opera di alcun sammarinesi: un crimine talmente increscioso da scatenare le lamentele del ministro de Lorqua stesso. Dalla documentazione non si può desumere la vittima, gli esecutori o i mandanti, ma l'alto funzionario ducale di certo si lamentò con la Repubblica rivolgendosi al loro protettore Giudobaldo da Montefeltro: solo le tempestive e cortesi ambasciate inviategli dai Reggenti riuscirono a calmarne l'indignazione e a sventare probabili incidenti diplomatici (32). Il ministro de Lorqua appare nuovamente in una lettera del sammarinese Francesco Ubaldini alla Reggenza, dove informava il governo repubblicano che il ministro del Borgia era diretto a Fano per incontrare un nipote di Ferdinando II d'Aragona (33). Francesco venne ampiamente remunerato dai suoi compaesani per le notizie fornite e il 24 maggio 1502 Ramiro de Lorqua si trovava a Cesena, proprio come il giovane aveva riferito, per esser poco dopo raggiunto dalle ambascerie sammarinesi e dalla cortesia del loro formale omaggio, un gesto di amicizia che essi speravano potesse migliorare la situazione di San Marino. Riguardo questa fase ancora preliminare della conquista, un documento interessante è la lettera a riguardo di un altro omicidio compiuto da due sammarinesi, occasione per il viaggio di Giuliano Pasini e Angelo di Paolo, messaggeri per conto della Reggenza.

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I due raggiunsero il Lorqua a Cesena, portando le scuse ufficiali di San Marino e ricchi doni, tanto che il Lorqua rispose con toni ufficiosi:

“Per la vostra optima affectione verso de Noi quella obligatione che dueti hauere verso de Noi ce l'haueti adiuncta et per la expositione che in nome

vostro ne hanno facta li vostri oratori mandati et anche per la demonstratione hauemo veduta de le Vostre offerte del che tutto non

possemo se non referirue infinite gratie cum summo desiderio che ad noi sia data occasione de farui comprehendere quanto sia el nostro studio in le

occurrentie nostre gratificarui” (34)

Le infrazioni alle leggi ducali e i casi di omicidio compiuti da sammarinesi per tutto il 1501 e le attenzioni delle autorità supreme delle due fazioni coinvolte mostrano una crescente intolleranza verso le continue richieste e soprusi più o meno celati delle autorità ducali.Dall'estate del 1502 questo stato intermedio di mal sopportato dominio politico da parte delle superiori forze borgiane avrà delle graduali ma potenti ripercussioni sull'autonomia sammarinese, così come su quella degli ultimi liberi potentati delle terre romagnole.

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Note al Capitolo Secondo

1. F. Catalano, Dall'equilibrio alla crisi italiana del rinascimento, in

Storia d'Italia. Dalla crisi della libertà agli albori dell'illuminismo, II, a cura di F. Catalano, G. Sasso, V. de Caprariis, G. Quazza, UTET,

Torino, 1962.

2. F. Catalano, Ludovico il Moro, Milano, dall'Oglio Editore, 1985.

3. I. Cloulas, I Borgia, Salerno Editrice, Roma, 1989, pp. 14-27.

4. G.B. Picotti, Alessandro VI, pp. 17-22.

5. J. Larner, Signorie di Romagna: la società romagnola e l'origine delle Signorie, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 59-63.

6. M. Pellegrini, Tra ragione e azzardo. La secolarizzazione del cardinale Valentino, in Cesare Borgia di Francia gonfaloniere di Santa Romana Chiesa. 1498-1503. Conquiste effimere e progettualità statale. Atti del convegno di studi a Urbino (4-5-6

dicembre 2003), a cura di Marinella Bonvini Mazzanti, Monica

Miretti, Ostra Vetere, Ancona, 2005, pp. 47-49.

7. Ivi, pp. 69-71.

8. J. Larner, Cesare Borgia, Machiavelli, e le milizie romagnole, in

“Studi romagnoli”, 17 (1966), pp. 253-268.

9. Bernardi “Novacula”, Cronache forlivesi di Andrea Bernardi (Novacula) dal 1476 al 1517, II, a cura di G. Mazzantini, R.

Deputazione di storia patria, Bologna, 1896, pp. 245-297.

10. C. Brogi, Caterina Sforza, Editori Alberti & C., Arezzo, 1996,

p. 200.

11. Machiavelli, Dell'Arte della Guerra, in Niccolò Machiavelli: tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni Editore, Firenze, 1971, p. 82.

12. Lettera di Guidobaldo da Montefeltro, in Archivio di Stato di San

Marino, Repubblica di San Marino (Città), Carteggi, Carteggio alla Reggenza, b. 88.2, c. 1500.02.06.

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13. A.A. Bernardy, Cesare Borgia e la Repubblica di San Marino (1500-1504), Libraio Editore, Firenze, 1905, p. 21.

14. Ivi.15. Ivi, p. 12.

16. Lettera di Lodovico Paltroni, Carteggio alla Reggenza, b. 88.2, c.

1500.10.04.

17. G. Rossi, Armi e Armati della Repubblica di San Marino, I, Edizioni

Unesco, Verucchio, 1993, pp. 119-123.

18. E. Alvisi, Cesare Borgia, Duca di Romagna, Tip. di I. Galeati e

figlio, Imola, 1878, p. 133.

19. A. Turchini, Il Valentino e Rimini, in Cesare Borgia di Francia..., pp. 175-176.

20. Alvisi, Cesare Borgia, Duca di Romagna, p. 142.

21. Turchini, Il Valentino e Rimini, pp. 183-185.

22. Lettera di Federico Bandi Vescovo, Carteggio alla Reggenza,

b. 88.2, c. 1500.09.26.

23. Lettera di Bernardo Corbera, Carteggio alla Reggenza, b. 88.2,

c. 1500.11.06.

24. Guicciardini, Storia d'Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Einaudi,

Torino, 1971, p. 461.

25. Lettera di Bernardo Corbera, Carteggio alla Reggenza, b. 89,

c. 1501.04.21.

26. Ivi, b. 89, c. 1501.05.28.

27. Ivi, b. 89, c. 1501.07.15.

28. Lettera Francesco Maldonato, Carteggio alla Reggenza, b. 89,

c. 1501.09.15.

29. Lettera di Arnaldo di Santa Cecilia, Carteggio alla Reggenza, b. 89,

c. 1501.09.11.

30. Lettera di Guidobaldo da Montefeltro, in Archivio di Stato di San

Marino, Repubblica di San Marino (Città), Istrumenti del Governo,

Licenze, b. 37, c. 114.

31. Ivi.

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32. Bernardy, Cesare Borgia, p. 26.

33. Lettera di Francesco Ubaldini, Carteggio alla Reggenza, b. 89, c.

1502.05.24.34. Lettera di Ramiro de Lorqua, Carteggio alla Reggenza, b. 89, c.

1502.05.29a.

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Capitolo Terzo

La Repubblica sottomessa1502-1503

Con la questione dei confini fra San Marino e il Comune di Verucchio i documenti riportano un cambiamento di atteggiamento dei sammarinesi nei riguardi del dominio di Cesare Borgia, probabilmente dovuto ad un cambio di tendenza al vertice del potere sammarinese a favore del Valentino: nella seconda metà del giugno 1502 la conquista rapida e inaspettata di Urbino costringerà infatti alla fuga Guidobaldo da Montefeltro, privando la Repubblica del loro storico alleato (1).In quel mese gli abitanti Verucchio si lamentarono presso il ministro Lorqua di continue violazioni da parte dei sammarinesi dei bandi e dei confini imposti dalla giustizia ducale, le accuse vengono portate dal ministro stesso con una lettera del 7 giugno ai Capitani Reggenti Antonio di Girolamo e Gabriele di Bartolo.I sammarinesi sono accusati di venire “de la ad levare via feni existenti en el nostro territorio et in li campi li quali per Confiscatione sonno deuoluti alla Camera de la Excellentia del mio Ill.mo Sig.r Duca. Del che ne hauemo preso non picolo despiacere” (2).Le iniziative sovversive da parte dei sammarinesi non venivano mai sottovalutate dalle autorità ducali limitrofe, coinvolgendo spesso funzionari di alto grado nella risoluzione delle singole crisi. Si tratta tuttavia di sporadiche iniziative isolate e ormai sterili, dato che la stretta del Valentino e dei suoi ufficiali è ormai troppo serrata per potervi resistere ancora.

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La prima occupazione (1502)

E' da Andrea Bernardi (detto “Novacula”) la prima conferma dell'effettiva annessione dell'estate 1502:

“Il prefetto Cesare Borgea corando li anno del Signor 1502 adì 21 del mese di zugno, die luni, per la comunita del prefato castelle de Sammarino ne la ponentia de la nostra Romagna fu institouiti de loro comune concordia so signore come piena rasone, come le loro pacti et comsentione fata, che fu queste: uno so comisario prese la posesione e li corse la piaza come soe

gran solenita e seconde al mio reporto tale soua invistitura de tale signoria era stato per intercessione del so castelano de la cipta de Rimini chiamato

M.r Rodericius Maldonati spagnole” (3)

A ulteriore conferma, il 23 giugno 1502 il ministro Ramiro de Lorqua si trovava effettivamente il persona nel territorio della comunità di San Marino per svolgervi alcune questioni di stampo amministrativo ed economico, i capitulj, e venne accolto con un dispendio di risorse di molto superiore a quello investito dai sammarinesi in simili altre occasioni (4).Per la questione dei furti perpetrati a Verucchio, Ramiro de Lorqua impose il giorno 8 luglio 1502 la restituzione del fieno rubato e aggiunge che, dopo questa dimostrazione di buona volontà, “ritrovandosi ben disposti come credemo da Noi havereti bona Iustitia” (5).L'amministrazione della giustizia con una potenza ancora ufficialmente estera alla Repubblica viene quindi formalmente assunta da funzionari stranieri (“da Noi havereti”), rendendone Cesare Borgia arbitro unico ed effettivo: un vero e proprio atto di rivendicazione del potere. Nel medesimo periodo un altro pubblico ufficiale ducale, Annibale di S. Gregorio da Imola, Auditore Generale e Commissariale di Ramiro de Lorqua, inviò

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da Verucchio a San Marino venti animali da soma con l'ordine di caricarli tutti di viveri, acquistandoli a proprie spese presso i sammarinesi per conto dello stesso duca Valentino (6).Questo acquisto di massa di generi alimentari prende significato se raffrontato con l'inganno subito da Guidobaldo da Montefeltro: in occasione delle nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso d'Este nel giorno 1 settembre 1501, il corteo nuziale attraversò anche la città del duca urbinate.Per la scorta dei due novelli sposi e della Contessa Elisabetta Gonzaga (consorte di Guidobaldo e invitata anch'essa al matrimonio), come d'usanza, venne richiesta al piccolo esercito di Guidobaldo una forte quantità di armati, costretti in gennaio a lasciare la città per seguirli fino al termine del viaggio. Una successiva e massiccia richiesta di artiglierie venne inoltrata da Cesare stesso e soddisfatta dagli urbinati (7).La città veniva così sguarnita di soldati e artiglieria da schierare in sua difesa: un provvedimento che fu determinante per spingere Guidobaldo alla resa e alla fuga.Nello stesso modo San Marino, il cui piccolo e pur ben addestrato esercito non era certo fonte di preoccupazione per le armate ducali, vedeva fortemente ridotta con l'inganno la possibilità, ben più preoccupante per i luogotenenti di Cesare, di mantenere un assedio per un periodo di tempo prolungato.Una tale impresa era effettuabile anche con delle forze armate numericamente ridotte e abbondanza di viveri, come già i difficili assedi alle rocche di Ravaldino e di Faenza avevano ampiamente dimostrato: probabilmente il timore di una rivolta dei sammarinesi e delle difficoltà di un'eventuale conquista questa volta armata era presente nelle previsioni dell'Auditore e dei suoi superiori.

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Un'altra lettera del governatore alla Reggenza sammarinese nel 29 luglio 1502 da altre conferme sulla gravità della situazione:

“Ricordandosi auanti la partita nostra de li voi molto liberamente hauerce promesso de non manchare al Castellano et compagni suoi de le cose necessarie al uiuere loro [...] Ve exhortamo non vogliate desistere da quanto gia per amore nostro siate stati contenti di subuenire al dicto

Castellano [...] fin ad tanto che la Excellentia del ill.mo S.r Ducali hauera ordinato la prouisione necessaria.” (8)

Il Castellano sammarinese è chiaramente una creatura di Ramiro de Lorqua, tanto che egli pretende con poche sottigliezze che gli siano forniti viveri, alloggio e beni di prima necessità secondo i suoi bisogni. In caso di disobbedienza le minacce sono ben poco nascoste fra le sue parole.L'unica fonte di autorità superiore ai propri desideri al riguardo è individuata dal ministro nelle eventuali disposizioni ducali, che di certo in quel difficile periodo non potevano interessarsi di quanto accadeva presso ognuna delle comunità soggette al proprio potere: mentre Cesare Borgia lasciava Urbino, Leonardo da Vinci visitava, fra le altre città, Urbino, Pesaro, Rimini e Cesena, in un itinerario che non comprese mai San Marino, tanto che di un suo eventuale passaggio non vi è alcuna traccia documentale fin'ora rinvenuta dagli studiosi.La congiura di Magonza dell'ottobre 1502 e il tradimento di alcuni generali di Cesare (fra cui anche il già citato Vitellozzo Vitelli) causarono un temporaneo crollo dell'ordine costituito in quel periodo dal Valentino e una serie di ribellioni in tutte le terre romagnole, sostenute sia dai nostalgici dei vecchi Signori che dai nobili intimoriti dal crescente potere di Cesare (9).Anche la fortezza di San Leo, vicina al confine con la Repubblica del Titano, venne presa da ribelli e di questo il Valentino fu apparentemente informato dai sammarinesi,

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scatenando l'approvazione del ministro Lorqua per un gesto gli portava “ineffabile letitia: et tanto più quando vedea S. S.ria Ill.ma restarne satisfactissima” (10).La prontezza della denuncia è quantomeno sospetta: i sammarinesi condividevano addirittura il proprio mito di fondazione con San Leo, il cui omonimo santo patrono e istitutore era compagno del Santo Marino (11) ed è poco probabile un tradimento così repentino.Evidentemente si trattò di un gesto compiuto dalla fazione sammarinese al potere, favorevole al dominio dei Borgia, tanto che anche il popolo del Titano si unì pochi giorni dopo alla ribellione. Il ministro Lorqua invierà infatti alla Reggenza una missiva datata 8 ottobre 1502, sdegnata ma stranamente cortese:

“Presertim vedendo voi medeximi turbare la pace vostraet procurare il vostro danno […] existimando poter esser successa forse per

sublevatione de qualche maligno, o, legiereza de qualche giouene […] voliati considerare bene ne li termini che vi ritrovati: et emendare il fallo

vostro cum domandare venia ad Sua Excellentia et disponeruide ritornare ala deuotione sua” (12)

In questa lettera il governatore denuncia sgomento davanti al repentino cambio di atteggiamento dei sammarinesi, che prima aiutano il duca e pochi giorni dopo insorgono in massa.Una simile prudenza di linguaggio e di intenzioni davanti a dei ribelli dichiarati non è nemmeno uso comune nella gestione borgiana del potere, tanto che si può lecitamente sospettare che la massiccia sollevazione romagnola abbia fortemente intaccato la sicurezza della supremazia nei funzionari di Cesare.

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La conferma della ribellione si trova anche negli scritti del veneziano Marin Sanudo il Giovane: “li scrive che li lochi hanno a levà l'insegne del ducha de Urbin; e samaritani zoé quelli di castel San Marin, fanno di fati e voriano la protetione di la Signoria nostra” (13).La richiesta di protezione a Venezia porterà ad un seguito di sottili alleanze fra la Serenissima e i Signori romagnoli estromessi dal potere, rendendo sempre più vicina l'annessione delle loro terre ai domini veneziani.Mentre la ribellione si organizza in una vera e propria resistenza, i priori di Urbino e gli uomini di Monte Cerignone e Lunano si tengono in stretto contatto con i sammarinesi.Guidobaldo fomenta attivamente la rivolta, animando la speranza dei ribelli e radunando un numeroso esercito.La sollevazione generale della Repubblica causa un aumento vertiginoso delle corrispondenze verso i Capitani Reggenti Giuliano di Bartolomeo e Angelo di Paolo Fabbri: il giorno 11 ottobre 1502 gli uomini di Pietracuta chiedono a San Marino l'invio di fanti in loro sostegno, il 13 ottobre i sindaci di Monte Tassi informano la Reggenza di averne venticinque a disposizione, i priori di Sasso Corbaro inviano incoraggiamenti e notizie, da Casteldurante si informano i sammarinesi che Giovanni Rosetto, commissario di Francesco Belluzzi Vitellozzo, aiuterà personalmente la comunità del Titano nei suoi bisogni.Mentre inoltre le fanterie alleate muovono da Sant'Angelo verso il Titano, il Cardinal Legato, luogotenente di Cesare Borgia, viene invitato a San Marino per un incarico di fiducia, probabilmente per convincere i sammarinesi a tornare sotto l'egida del Valentino, ma senza successo (14).Nel frattempo San Leo continua a resistere alle armate dello Spinoso, ufficiale di Cesare, e l'ombra dell'influenza di Venezia inizia a espandersi ulteriormente nello scacchiere politico delle terre romagnole in rivolta. Nei primi giorni del dicembre 1502

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una lettera di Giuliano Pasini alla Reggenza chiarisce il ruolo della Serenissima nella ribellione contro il Valentino.Egli comunica che i veneziani hanno finalmente concluso un trattato di pace con i Turchi e che gentiluomini da Venezia stessa offrono a Guidobaldo fondi e armi a proprie spese (15).Ancora il 13 ottobre Antonio Giustinian, ambasciatore veneto a Roma negli anni 1502-1505, avverte di un singolare comportamento degli abitanti di San Leo, tale da far scatenare un grave caso diplomatico: “la rebellion del castel Santo Leo del ducato de Urbin dove erano state levate le insegne di Messer S. Marco” (16). San Leo aveva quindi alzato bandiere veneziane durante la propria difesa dalle truppe borgiane.Venezia si affrettò ovviamente a rinnegare ogni coinvolgimento in quel caso, rinnovando la propria neutralità nei fatti della rivolta contro il Valentino. Il Conte di Sogliano, tuttavia, era uomo fedele a Venezia da troppo tempo e troppo notoriamente e le sue fortezze erano troppo vicine a San Leo perché le accorate proteste dei veneziani potessero essere credute: probabilmente egli agì di sua iniziativa e senza interpellare i propri signori, causando con questo gesto un grande imbarazzo diplomatico per la Serenissima, ma anche promuovendo, presso tutte le fazioni ribelli, la protezione che solo Venezia poteva assumersi contro i Borgia. Anche Marin Sanudo conferma questa azione del Conte di Sogliano, raccontando inoltre che alle ore cinque della notte del giorno 8 ottobre si erano recati presso di lui “do homeni di San Marino con letere di credenza, e li oferse quel loco a nome di la Signoria nostra” (17). I sammarinesi prendono quindi la scelta di assoggettarsi alla protezione veneziana contro il potere papale.

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Ancora Marin Sanudo avverte dell'inevitabile reazione degli uomini di Cesare Borgia contro la ribellione sammarinese nel giorno 13 ottobre.

“A meza note intrò nel borgo; quelli di la terra ussi fuori, si apizono insieme, e durò un pezo la barufa, e quelli di fuora atachò fuogo

a le caxe e partisi: fonno morti assai” (18)

Il 21 ottobre ancora continuava la lotta e il desiderio di concedersi alla protezione di Venezia: “quelli di San Marino stanno perseveranti in la Signoria nostra (Venezia), et si vuol dar […] San Marino crida “Feltre e Vitelli!” (19).L'impegno nella rivolta si prolunga in veri e propri atti di guerra il 26 ottobre e il 10 novembre 1502.

“E cussi quelli di San Marin erano congregati insieme e discesi,con bon numero di homeni, fino a Seravalle, per darli

la bataia e havia posto focho” (20)

“Item, quelli di San Marino, domenega, corseno e sachizò do casteluzo di quel teritorio di Rimano, zioé Passiano et San Savino” (21)

La ribellione termina però in tragedia con l'abbandono di Guidobaldo da Montefeltro, temporaneamente reinsediato al potere in Urbino, a causa della defezione degli alleati fra cui gli Orsini. Il duca legittimo è costretto ad accettare le condizioni di Cesare Borgia, che tornava a dominare sul cielo urbinate lasciando al possesso di Guidobaldo le tre sole fortezze di San Leo, Maiolo, e Sant'Agata e la protezione di San Marino.Un dono di facciata, tanto che il secondo esilio del Duca fu ben più misero e doloroso del primo, anche economicamente.Sua moglie, la duchessa Elisabetta Gonzaga, si ritrovò in Venezia a dover dipendere dai donativi del Consiglio per condurre una vita degna del proprio lignaggio.

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Con la resa dell'ispiratore e coordinatore della rivolta, Cesare Borgia si mosse indisturbato contro i propri nemici.Il 23 dicembre 1502 venne condotto agli arresti e successivamente condannato alla pena capitale il ministro Ramiro de Lorqua: troppo duro con i sudditi pontifici, ritenuto avido e spietato e completamente inviso al popolo, ormai per il Valentino era una figura problematica: si affrettò quindi a liberarsene, scaricando le colpe di tutte le vessazioni, anche quelle provenienti da suoi ordini personali, sulla “crudeltà” del vituperato ex-ministro (22).

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La seconda occupazione (1503)

Nelle terre romagnole non ancora del tutto pacificate, San Leo resisteva fedelmente nel nome del duca Guidobaldo, tanto che dopo aver conquistato con poca difficoltà la fortezza di Maiolo, Piero Remirez, ufficiale del Valentino, si scagliò fiducioso contro di essa ma fu costretto a un duro e dispendioso assedio. Sant'Agata tuttavia si piegò facilmente, mentre a San Marino la fazione favorevole al Valentino aveva ritrovato lo slancio per combattere i propri avversari, facendo forza sull'ipocrisia della decantata fedeltà ad Urbino, in verità una malcelata sottomissione ai veneziani.Con l'insurrezione del castello di Serravalle ebbe inizio la ripresa del potere a San Marino da parte delle forze borgiane: concesso il 19 marzo 1464 ai sammarinesi dal pontefice Pio II (23), come premio per il loro grande impegno contro Sigismondo Pandolfo Malatesta, Serravalle fu infatti sempre recalcitrante ad ammettere la propria sottomissione ai Capitani Reggenti.Dopo un periodo di scontri interni, la ripresa del potere borgiano sulla piccola Repubblica venne annunciata ufficialmente la seconda metà del giugno 1503 (24).Nel Diploma Serravallese, interamente pubblicato da Melchiorre Delfico e documento decisivo per la restaurazione del potere ducale sulla piccola Repubblica, si annuncia la benevolenza del Valentino verso il fedele castello di Serravalle per i propri meriti contro i ribelli: essi infatti arrivarono persino a respingere militarmente le truppe repubblicane fedeli a Urbino e ad issare i vessilli papali, riponendo quelli sammarinesi (25).Cesare Borgia premiò i serravallesi dichiarandoli liberi dalle influenze repubblicane, confermando i loro statuti, bandendo un'amnistia generale per tutte le pene minori e prosciogliendoli da qualsiasi obbligo di servitù verso San Marino: a tutti gli

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effetti la capitale morale della Repubblica era ora proprio quel piccolo castello fortemente legato alla propria autonomia.Rincrudito il dominio del Valentino, la somma magistratura sammarinese venne immediatamente ridotta in durata di ufficio da sei mesi a tre, tanto che nel 1503 si leggono tre coppie di Capitani Reggenti invece delle usuali due, com'era sempre stato fin dai primi statuti del 1295 (26).Ad aprile furono eletti Antonio di Bianco e Simone di Bartolo, in luglio Simone di Antonio Belluzzi e Giovanni di Cristoforo di Vita, infine in ottobre Francesco di Girolamo e Bonifazio di Andrea, che ricondurranno la durata della massima magistratura ai consueti sei mesi terminata l'occupazione borgiana.Per la prima volta anche la cancelleria ufficiale riporta la sottomissione della libertà repubblicana ad un potere straniero.Nel verbale di elezione dei Reggenti per il trimeste luglio-ottobre 1503 appare una formula inequivocabile: “pro Ill.mo et excell.mo Domino nostro Domino Cesare Corgia duce Romandiole” (27).E anche in un libro di condanne del medesimo trimestre appare un'espressione simile: “pro Excellentissimo et famosissimo Domino nostro Domino Cesare Borgia de Francia duce Valentie et Romandiole” (28).Una sentenza successiva, il 28 settembre 1503, a regime caduto, rimarca tuttavia fieramente la libertà della Repubblica nella formula usuale.

“Per speciabiles viros Simonem magistri Antonii et Iohannem Christophori uite honorabiles capitaneos terre libertatis Samarinj eiuscque comitatus

fortie et districtus pro Magnifica et libera comunitate Sancti Marini” (29)

In questo carteggio sono questi gli unici segni individuabili del dominio di Cesare Borgia sulla Repubblica, mentre negli archivi dei bilanci si può trovare una grande abbondanza di particolari.

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Vengono citate le spese per riscattare ostaggi sammarinesi prigionieri del Valentino a Cesena, quelle per l'accoglienza di inviati del Valentino giunti per riscuotere i debiti di guerra, si menziona una lussuosa visita di Pietro Remirez e l'acquisto di una tela atta a coprire la piazza principale (il cosiddetto pianello) dinanzi al Palazzo del Governo della città.Sono segnate anche spese militari sostenute dalla comunità del Titano per ordine del Valentino e a vantaggio del suo esercito, quelle di riparazioni minori alla rocca e alle mura e quelle per l'acquisto di provviste da stipare nei castelli (30).Un'ultima incredibile citazione è doverosa nei riguardi di Leonardo de Giouanino, un evidente traditore della ribellione, ora ricompensato per i suoi “servigi”: “Item receve da Marino de Bondi già ufficiale de la guarde a tempo de la novità per guarde non facte bolognini quindece” (31).Il trimestre luglio-settembre 1503 sono creditori della Repubblica molti artigiani e produttori a causa di numerosi servizi richiesti in occasione delle visite di tali Lattanzio, Girolamo Staccoli e di Piero Remirez.Questi conti vennero approvati fino all'ultimo giorno di settembre del 1503 e nessun altro documento cita o da ulteriori spiegazioni sul dominio sammarinese di Cesare Borgia, di una cui eventuale visita sul monte Titano non si ha ancora alcuna prova documentale trovata fino ad oggi dagli studiosi.

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Note al Capitolo Terzo

1. G. Volpe, La presa del ducato di Urbino, in Cesare Borgia di Francia..., pp. 105-110.

2. Lettera di Ramiro de Lorqua, Carteggio alla Reggenza, b. 89,

c. 1502.06.07.

3. Bernardi “Novacula”, Cronache forlivesi..., pp. 245-297.

4. Notazioni dell'Ufficio del Camerlengato, in Archivio di Stato di San

Marino, Repubblica di San Marino (Città), Liber Officiis 1494-1520,

b. 265, giugno 1502.

5. Lettera di Ramiro de Lorqua, Carteggio alla Reggenza, b.89,

c. 1502.06.20a.

6. Lettera di Annibale di San Gregorio da Imola, Carteggio alla Reggenza, b.89, c. 1502.06.20.

7. I. Cloulas, I Borgia, pp. 258-262.

8. Lettera di Ramiro de Lorqua, Carteggio alla Reggenza, b. 89,

c. 1502.07.29.

9. Machiavelli, Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Olivierotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, in Opere di Niccolò Machiavelli, a cura

di E. Raimondi, Ugo Mursia Editore, Milano, 1966.

10. Lettera di Ramiro de Lorqua, Carteggio alla Reggenza, b.89,

c. 1502.10.08.

11. C. Dolcini, Il Santo Marino, in Storia Illustrata della Repubblica di San Marino, I, AIEP Editore, Repubblica di San Marino, 1985, p. 78.

12. Lettera di Ramiro de Lorqua, Carteggio alla Reggenza, b.89,

c. 1502.10.08.

13. M. Sanudo, Diarii, IV, Forni Editore, Bologna, 1969, pp. 327-330,

7 ottobre 1502.

14. Bernardy, Cesare Borgia..., p. 37.

15. Lettera di Giuliano Pasini, Carteggio alla Reggenza, b. 89, c.

1502.12.03a.

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16. Giustinian, Dispacci di Antonio Giustinian, I, Le Monnier, Firenze,

1876, p. 148.

17. Sanudo, Diarii, IV, pp. 327-330, 8 ottobre 1502.

18. Ivi, 13 ottobre 1502.

19. Ivi, 21 ottobre 1502.

20. Ivi, 26 ottobre 1502.

21. Ivi, 10 novembre 1502.

22. Turchini, Il Valentino e Rimini, in Cesare Borgia di Francia..., pp. 177-178.

23. N. Matteini, La Repubblica di San Marino nella Storia e nell'Arte,

Litografia Studiostampa, Repubblica di San Marino, 1988, p. 56.

24. Bernardy, Cesare Borgia, p. 47.

25. M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di San Marino, II,

Atesa, Napoli, 1865, n° XLV dell'appendice.

26. Dolcini, Il Comune, in Storia Illustrata della Repubblica di San Marino..., pp. 100-105.

27. Atti del Commissariato, Archivio di Stato di San Marino, Repubblica

di San Marino (Città), b. 386, c. 93.

28. Atti del Commissariato, b. 386, c. 117.

29. Atti del Commissariato, b. 386, c. 120 r.

30. Notazioni dell'Ufficio del Camerlengato, Liber Officiis 1494-1520,

b. 265, aprile-maggio 1503.

31. Ivi, giugno 1503.

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Capitolo Quarto

La Repubblica liberata1503-1505

Con la morte del Papa nel 18 agosto 1503, suo figlio Cesare si ritrovò privato dei propri appoggi diplomatici e dei finanziamenti per il suo esercito: preso da una grave malattia proprio in quello stesso periodo, il giovane conquistatore non poté orchestrare le dovute contromosse per tempo e dopo il breve pontificato di Pio III (dal 22 settembre al 18 ottobre 1503) il giorno 1 novembre 1503 fu insediato sul trono di Pietro il nuovo pontefice Giulio II della Rovere.Giulio II privò immediatamente Cesare di qualsiasi diritto al dominio in Romagna, ordinando il suo arresto e detenzione in Castel Sant'Angelo a Roma. La successiva evasione non salverà tuttavia il Valentino dall'ormai inevitabile declino.Mentre a Roma scoppiavano tumulti dopo la morte di Alessandro VI e i vecchi avversari iniziavano a muoversi nuovamente contro il Valentino, Guidobaldo da Montefeltro informava i suoi sudditi e i suoi alleati del fortuito stravolgimento nell'equilibrio dei poteri. Venezia sostenne Guidobaldo con ingenti quantità di denaro, pianificando il suo reinsediamento e la successiva facile annessione della Romagna, mentre Pietro Remirez, che ancora assediava San Leo, circondato dal fiammeggiare improvviso delle rivolte scelse di sciogliere la presa e di ritirarsi.La politica dei sammarinesi questa volta è di estrema prudenza: memori dei lutti e del sangue versato durante la loro prima ribellione decidono di esprimere la loro devozione alla causa del Valentino presso Ercole Spavaldo, ministro ducale, che deve aver avvertito immediatamente il proprio superiore Antonio di

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Monte, tanto che in una lettera da Cesena di quest'ultimo, datata 27 agosto 1503, la risposta è di ottimistica fiducia.

Havemo inteso [quanto] per parte de quella Comunità ne ha riferito M. Hercule nostro potestà, et inteso el bono animo hauete tucti ad perseuerare

in la deuotione de la Ex.tia del S.r Duca nostro ne hauemo preso piacere singulare per hauereti sempre cognosciuti tucti prompti,

ad mantenerli fedelta” (1).

E ancora:

“Notificandoui che presto presto [Cesare Borgia] se retrouarà de qua per defendere le cose sue et castigare li inimici con magior gente che mai

hauesse et maior sforzo. Siche state de bono animo et attendete a far bone guardie ne dubitate de cosa alcuna” (2).

L'ottimismo del ministro non aveva però fondamento nella realtà dei fatti: con il crollo progressivo del potere del Valentino anche la piccola Repubblica reintegrò le antiche consuetudini sotto la rinnovata protezione del ducato di Urbino.A conferma dell'efficacia delle prudenti scelte dei Capitani Reggenti, questo ritorno alla normalità si svolse in maniera rapida e pacifica, tanto che ne tacciono le carte fin'ora pervenute.Persino i riottosi abitanti di Serravalle furono costretti a ritornare sotto il giogo sammarinese, come dimostra una lettera del Consiglio del castello alla Reggenza.

“Semo tuctj de bona voglia per lo hauenire essere et quando ce fosse qualchauno che hauesse operato per lo passato quello luj non dovesse

pregamo Vostre Magnificenze non voglia recognoscere cose alcuna e questo voglia fare per amore deli homini da bene che hanno operato bene” (3).

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E ancora: “pregamo le prefate V. M. se voglia degnare de intercedere ala Excellentia del signore duca vostro et nostro de Urbino” (4).Lunardo di Giovannino, commissionato dai sammarinesi per risolvere la questione serravallese, comunica tuttavia un problema a riguardo di questa riconciliazione.

“El chastelano me afato intendere che lue non itende de isire de la rocha se lue non esatisfato del suo salarjo per tanto ue prego che uoe faciade prouizione che lue non stia sospexo et che non ce sia uergogna” (5).

Dato che la questione non è più citata, probabilmente la Reggenza accordò al castellano quanto richiedeva per evitare ulteriori crisi interne ed essere costretti ad affrontare un altro assedio dopo la sofferta pacificazione.Prova della parte attiva presa dai sammarinesi per combattere gli ultimi alleati e armate borgiane arriva da una lettera dell'ufficiale sammarinese Francesco di Marino Giangi: dopo aver inseguito i nemici della Repubblica al fianco delle milizie feltresche, le fanterie sammarinesi incontrano non pochi problemi, probabilmente dovuti sia alla grave crisi organizzativa interna sia alla partenza affrettata dei contingenti:

“In campo esserne pochi de li nostrj, et male in ordine, et infra le altre cose non ce sonno altre che do balestre, et manchare li primj che doueuano

uenire. Si che fate comandare che vengano quellj che hanno auenire altramente quilli che ce sonno, tutti se uogliono partire” (6).

La criticità della situazione si esprime quindi anche nel morale delle truppe, tanto che l'ufficiale denuncia anche delle diserzioni.

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Ben quattro militi sono fuggiti al loro dovere e l'ufficiale in capo prega i propri superiori “che se ne facia magiore demonstratione contra costoro che contra li altrj che non sonno venuti, altramente tutti se ne fugiranno” (7).Ai fanti manca addirittura la bandiera della Repubblica e Francesco di Marino Giangi chiede che gliene sia spedita una per poter radunare il piccolo e disperso esercito sotto il vessillo della loro patria: “perche la nostra Compagnia bisogna vada sotto la bandiere de altrj, non hauendo la nostra” (8).Nell'inverno dell'anno 1503 la Romagna e il Montefeltro sono quindi un luogo caotico di schermaglie e insurrezioni, sotto l'ombra di Venezia che, terminata la guerra contro i Turchi, si espande sempre di più in Romagna tramite il potere dei suoi denari e delle armate ribelli segretamente finanziate.Mentre ufficialmente la Serenissima mantiene infatti una serrata neutralità nella questione, i suoi uomini migliori muovono segreti patti e tessono trame di dominio sulle varie realtà territoriali della Romagna, aggiornandosi vicendevolmente sugli accadimenti della guerra. E' Marin Sanudo che fornisce una prova di tali segreti intendimenti veneziani e della collaborazione con gli urbinati: nei suoi Diarii, in data 10 ottobre 1503, racconta del conte Ludovico da Canossa, fedele servitore di Guidobaldo da Montefeltro, mentre mostra ai veneziani le lettere con i successi del suo Duca.

“A di X octubrio 1503 – Vene l'orator del ducha di Urbin conte Lodovico di Canossa, e mostrò una lettera li scrivea il ducha, di 7, di l'acquisto di Santo

Archalzelo, et è scrita in San Marino” (9).

Con un misto di giochi di convenienza e di ampi finanziamenti segreti, Sant'Arcangelo, Fano, Montefiore, Russi e Val di Lamone alzano quindi le insegne veneziane, invocando “spontaneamente” la protezione e annessione al dominio della

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Serenissima. Probabilmente il duca Guidobaldo, che a Venezia doveva molto, fu l'autore di queste sollevazioni, certamente nessuna di queste manifestazioni sarebbe potuta accadere senza il suo consenso. L'elezione di Giulio II cambia ancora le carte in tavola e segna la fine non solo per il Valentino, ma anche per i sogni di dominio della Serenissima.Antonio Giustinian riferisce infatti l'intolleranza del nuovo pontefice (8 novembre 1503) e dei cardinali romani (2 dicembre 1503) ai successi veneziani nei domini della Chiesa (10).Guidobaldo, parente dei della Rovere, fu richiamato a Roma dal nuovo pontefice e divenne Capitano Generale e Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa, la prestigiosa posizione rivestita precedentemente da Cesare Borgia.Da ora in avanti il suo interesse maggiore sarà difendere i diritti ecclesiastici in Romagna persino contro i precedenti alleati veneziani. La scelta e il tradimento di Guidobaldo evita quindi alla piccola Repubblica di San Marino la dominazione veneziana e la restaurazione dell'ordine precedente si completa con un colloquio a Roma fra Cesare Borgia, umiliato e sconfitto, e Guidobaldo da Montefeltro, all'apice della gloria, del potere e del prestigio.La contessa Elisabetta Gonzaga dimostrò pietà quasi materna intercedendo presso i Capitani Reggenti con una lettera per alcuni poveri uomini sammarinesi, colpevoli del furto di alcune galline durante il difficile periodo borgiano.

“Perché a quelli tempi le cose non hanno regula, e maxime in cose da mangiare, parendoci la domanda molto honesta veli recomandamo

strectramente […] perche a simile e magior cose di quel tempo havemo posto pie cum questi nostri” (11).

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Chi fossero questi poveri ladri non ci è dato saperlo, ma il ritorno della Repubblica alla protezione di Urbino e dei suoi Signori è il segno principale della fine del dramma romagnolo, scatenato per la folgorante ambizione del Valentino.Tracce della dominazione appaiono sporadiche in alcune notazioni del Camerlengato che recitano, nel 29 giugno 1504, il risarcimento ricevuto per alcuni preziosi ceri liturgici, donati dalla comunità del Titano a Ramiro de Lorqua (12).Solo alla fine del febbraio 1505 tale Antonio di Bartolomeo fu risarcito di diciotto bolognini per il fieno che era stato costretto a fornire tre anni prima per i cavalli di Pietro Remirez (13).Sulle mura del Palazzo del Governo venne incisa dai sammarinesi una epigrafe a perenne ricordo della dominazione borgiana, marchio della fierezza repubblicana e della propria celebrata e ritrovata libertà, ma non priva di una certa magniloquente esagerazione:

“Republica a dominatione tua liberata nobis cito fuisti nihil” (14).

Dopo la fuga da Castel Sant'Angelo, Cesare Borgia viaggerà fino al Regno di Napoli, pianificando la riconquista di quanto un tempo era suo. Sarà tuttavia catturato per ordine di Giulio II e consegnato a Ferdinando II d'Aragona, che lo rinchiuderà prima nel castello di Cinciglia e successivamente nel forte di La Mota presso Medina del Campo.Liberatosi anche da questa prigionia con una fuga rocambolesca, tanto che si fratturò diverse ossa dopo essersi precipitato volontariamente da una finestra a venti metri d'altezza, si rifugerà nel piccolo regno di Navarra presso il cognato Giovanni III d'Albret, sovrano di quel piccolo stato. Una fine ingloriosa lo raggiungerà da un'imboscata di alcuni sicari spagnoli combattendo nell'assedio di Viana, il 12 marzo 1507.

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Finiva così il disegno borgiano della creazione di quello che Paolo Prodi definirà Tempelstaat, uno stato di ispirazione imperiale, in cui il potere temporale e spirituale siano completamente fusi (in modo non dissimile da quanto accadrà anni dopo nel nord Europa a seguito della Riforma protestante), a tutela dei propri disegni nepotistici e assieme dell'autonomia della Chiesa. Il concetto stesso del papato muterà definitivamente dopo l'accelerazione storica impressa dall'opera di Alessandro VI e del figlio Cesare, in una transizione graduale dal concetto medievale del Papa come uno dei due poli universali del potere e del diritto, in grado di sostituirsi per auctoritas allo stesso imperatore, fino al sovrano-pontefice che amministra il proprio stato come uno scudo dalle ingerenze dei nuovi stati europei, svincolati dagli antichi legami, sulla libertà della Chiesa.Sarà proprio Giulio II, principale fautore della rovina dei Borgia, ad abbracciare i loro disegni di rinnovamento del potere papale con strategie più lungimiranti e mezzi differenti da quelli utilizzati dal suo predecessore (15).La Repubblica di San Marino non affronterà altre gravi minacce alla propria autonoma esistenza fino all'occupazione militare del 1739 da parte del Cardinale Giulio Alberoni.

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Note al Capitolo Quarto

1. Lettera di Antonio di Monte, Carteggio alla Reggenza, b. 89,

c. 1503.08.27.

2. Ivi.3. Lettera del Consiglio di Castello di Serravalle, Carteggio alla

Reggenza, b. 89, c. 1503.09.26.

4. Ivi.5. Lettera di Lunardo di Giovannino, Carteggio alla Reggenza, b. 89,

c. 1503.09.13.

6. Lettera di Francesco di Marino Giangi, Carteggio alla Reggenza,

b.89, 1503.09.16.

7. Ivi.8. Ivi.9. Sanudo, Diarii, V, pp. 140-143, 10 ottobre 1503.

10. Giustinian, Dispacci, pp. 203-204 e pp. 240-241.

11. Lettera di Elisabetta Gonzaga, Carteggio alla Reggenza, b. 89, c.

1503.12.15/22.

12. Notazioni dell'Ufficio del Camerlengato, Liber Officiis 1494-1520,

b. 265.2, giugno 1504.

13. Notazioni dell'Ufficio del Camerlengato, Liber Officiis 1494-1520,

b. 265.2, febbraio 1505.

14. Epigrafe nel Palazzo del Governo di San Marino.

15. P. Prodi, La monarchia papale-imperiale di Alessandro, in Cesare Borgia di Francia..., pp. 8-10.

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Conclusione

Sebbene di breve durata, la dominazione borgiana su San Marino fu sicuramente una delle più cruente mai subita dalla piccola repubblica: sedizioni interne, nemici esterni e sanguinosi scontri portarono nella pacifica comunità del Titano le tragedie delle guerre rinascimentali italiane, che per lungo tempo l'avevano toccata solo marginalmente.Sebbene infatti i sammarinesi fossero già scesi vittoriosamente in campo contro i Malatesta mezzo secolo prima, assieme all'esercito papale del pontefice Pio II, la differenza con il periodo della dominazione si esprimeva nella completa impossibilità di affrontare le forze avversarie, sia militari che politiche. Da qui gli omicidi, la sedizione contro il potere borgiano che obbligava la Repubblica a deportare nelle loro mani i compatrioti colpevoli, le violazioni continue dei bandi e delle imposizioni degli uomini del Valentino, la segreta opposizione degli uomini e del popolo di San Marino, accompagnate dal sempre più difficile lavoro di mediazione diplomatica dei Capitani Reggenti dinanzi a una situazione sempre meno controllabile e sempre più soggetta a forze al di là della loro portata. La fallimentare rivolta sotto Guidobaldo, l'incrudimento dell'autorità borgiana, e il pacifico ritorno alle antiche tradizioni con il perdono, almeno ufficiale, di coloro che avevano tradito la causa repubblicana danno un quadro complessivo della gravità delle difficoltà che i sammarinesi dovettero sopportare e del loro grande desiderio di tornare alla normalità delle loro secolari tradizioni. Il dramma subito non fu tuttavia differente da quello che dovettero sopportare altre piccole o grandi città romagnole che cercarono di non cedere all'ondata borgiana.

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Sebbene anche a San Marino non fossero sconosciute le rivalità, sporadicamente sanguinose, fra famiglie dominanti simili a quelle degli altri comuni rinascimentali romagnoli (e non solo), sotto il dominio borgiano le acredini si espressero in frequenti scontri e atti omicidi sia da parte della fazione borgiana dominante sia da parte di coloro che la combattevano con le proprie sterili iniziative. Nell'occhio del ciclone, un governo centrale interessato a non far degenerare la situazione nel rispetto della storica neutralità sammarinese. Un simile dramma non si avrà sotto l'Occupazione Alberoniana di due secoli dopo, che fu fondamentalmente pacifica.Ancora molto tuttavia rimane aperto all'indagine storiografica di questo particolare argomento: sciogliere l'incertezza sulla natura dei rapporti diplomatici e politici fra San Marino e lo Stato della Chiesa prima, durante e dopo il periodo borgiano e la ricerca documentale per individuare con chiarezza le tracce di eventuali e massicci attacchi militari contro le torri del monte Titano, di cui esiste un forte stereotipo (dovuto anche al cinema), ma nessuna prova documentale al momento rinvenuta, potrebbe chiarire ulteriormente le dinamiche delle due occupazioni e aiutare a ricostruire ulteriormente quanto realmente accaduto alla piccola Repubblica nella grandezza della fine di un mondo e della nascita della Modernità.

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G. Francesco Barbieri detto il Guercino

San Marino benedice la città (1600)

Palazzo Pubblico, Repubblica di San Marino,

San Marino (Città)

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Bibliografia e Fonti

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