tesina ssis integrazione negli apprendimenti

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1 PROGETTARE INSIEME: VERSO L’INTEGRAZIONE NEGLI APPRENDIMENTI Indice Introduzione 2 1. Pensiero “caldo” e “freddo”: il futuro della persona disabile 4 1.1 Il Piano Educativo Individualizzato 5 1.2 Il progetto di vita 6 1.2.1 Il diritto all’autodeterminazione 8 1.3 Dalla pianificazione alla progettazione 9 2. Le figure professionali che intervengono nel progetto 13 2.1 Le figure professionali della scuola 13 2.1.1 L’Insegnante Specializzato per il sostegno 13 2.1.2 Gli Educatori Professionali 15 2.2 Le figure professionali dell’ASL 19 3. Le fasi del progetto 22 3.1 Verso una diagnosi funzionale educativa 22 3.1.1La raccolta delle informazioni e le diverse fonti 24 3.3 Il PDF e la definizione degli obiettivi 25 3.4 La programmazione integrata 27 3.4.1 Una esperienza di integrazione negli apprendimenti 32 Riflessioni conclusive 35 Riferimenti bibliografici 36

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Questo lavoro, svolto a conclusione del corso SSIS per l'abilitazione all'insegnamento nel sostegno, tratta della necessità di realizzare pienamente l'integrazione mediante una programmazione congiunta dei docenti del Consiglio di classe, evitando il meccanismo della delega totale all'insegnante di sostegno.

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PROGETTARE INSIEME: VERSO L’INTEGRAZIONE NEGLI APPRENDIMENTI

Indice

Introduzione 2

1. Pensiero “caldo” e “freddo”: il futuro della persona disabile 4 1.1 Il Piano Educativo Individualizzato 5 1.2 Il progetto di vita 6 1.2.1 Il diritto all’autodeterminazione 8 1.3 Dalla pianificazione alla progettazione 9

2. Le figure professionali che intervengono nel progetto 13 2.1 Le figure professionali della scuola 13

2.1.1 L’Insegnante Specializzato per il sostegno 13 2.1.2 Gli Educatori Professionali 15

2.2 Le figure professionali dell’ASL 19

3. Le fasi del progetto 22 3.1 Verso una diagnosi funzionale educativa 22

3.1.1La raccolta delle informazioni e le diverse fonti 24 3.3 Il PDF e la definizione degli obiettivi 25 3.4 La programmazione integrata 27 3.4.1 Una esperienza di integrazione negli apprendimenti 32

Riflessioni conclusive 35 Riferimenti bibliografici 36

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Introduzione Il punto di partenza di questo lavoro di tesi di specializzazione è una discussione emersa in aula, durante la lezione della Prof. Sandri. L’ incontro a cui ci riferiamo ha preso le mosse dall’osservazione di uno specializzando a proposito della distanza tra le “teorie pedagogiche” per l’integrazione delle persone disabili, proposte nel corso come riferimento utile per l’operatività dell’insegnante specializzato per il sostegno, e le prassi consolidate nei diversi istituti scolastici del territorio. La Prof. Sandri ha inquadrato le prassi per l’integrazione in una prospettiva storica individuando alcuni passaggi: la didattica individualizzata per lo studente disabile, corrispondente ad una sorta di ingegneria didattica preoccupata principalmente di costruire unità didattiche ben strutturate per l’apprendimento del disabile; l’integrazione come socializzazione, intesa fondamentalmente come “lo stare in classe” e partecipare ad alcune attività didattiche o laboratori; integrazione negli apprendimenti, dove la presenza della persona disabile diventa stimolo per nuovi percorsi di ricerca e di apprendimento per tutti. La conclusione del discorso della Prof. Sandri è stata che l’integrazione praticata finora si può collocare, quando va bene, nei primi due livelli (didattica individualizzata e socializzazione), ma raramente è diventata integrazione negli apprendimenti. Per approfondire questo tema credo sia necessario fare qualche passo indietro e sollevare alcuni interrogativi di fondo, tra cui il principale è: che tipo di scuola immaginiamo e desideriamo e quali funzioni dovrebbe svolgere questa scuola all’interno della comunità? L’impressione è che sia ancora prevalente un’idea di scuola come luogo di trasmissione di saperi già dati e non come luogo in cui ci si educa e si forma il senso di appartenenza e la propria identità. In altri termini, prevale una visione degli apprendimenti scolastici come sapere chiuso e già dato da padroneggiare al fine di conseguire un titolo di studio. Questa prospettiva spesso è fatta propria anche dagli studenti che finiscono per vedere come perdita di tempo qualsiasi “deviazione” dai programmi di studio intesi rigidamente. Promuovere l’idea dell’apprendimento come ricerca e scoperta è, quindi, indispensabile per procedere nella direzione di un approfondimento di conoscenze, rispetto a ciò che è più vicino. Questa visione dell’apprendimento come scoperta e ricerca aprirebbe inoltre la strada a metodologie didattiche innovative come la programmazione per moduli a livello interdisciplinare, e permetterebbe di riconoscere dignità e valore a metodi alternativi alla lezione frontale come il lavoro di piccolo gruppo. Inoltre, se si ponesse al centro l’educazione al senso di appartenenza ad una comunità e si valorizzasse il tema

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della costruzione dell’identità, sarebbe naturale il bisogno di confronto con la differenza e, quindi, anche il confronto con la differenza della persona disabile. Date queste premesse, l’integrazione effettivamente praticata si caratterizza in questo modo:

- Integrazione vista in senso fisico (prossimità) o nel migliore dei casi sociale, ma quasi mai integrazione negli apprendimenti;

- Integrazione come interazioni prossimali o di assistenza ma difficilmente come interazioni reciproche;

- Integrazione permeata di ideologia pietistica o del risarcimento piuttosto che dall'interesse per il riconoscimento delle differenze e il riconoscimento reciproco.

Questo lavoro di tesi vuole indicare gli aspetti metodologici e operativi in grado di avvicinarci all’orizzonte di senso che la nostra normativa indica. Per procedere in questa direzione è necessario operare delle scelte didattiche e metodologiche, a partire da modalità progettuali dialogiche e partecipate. L’integrazione negli apprendimenti, infatti, si può realizzare solo quando gli insegnanti si impegnano in una attività di programmazione integrata, dove gli insegnanti specializzati per il sostegno e gli insegnanti curricolari lavorano insieme per trovare tutti i punti di contatto tra programmazione curricolare e programmazione individualizzata. L’orizzonte di senso che dovrebbe guidare le scelte degli insegnanti è il progetto di vita della persona disabile. È proprio dalla costruzione di un PEI-progetto di vita che prende le mosse questo lavoro di tesi.

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1. Pensiero “caldo” e “freddo”: il futuro della persona disabile

Mario Tortello ha coniato qualche tempo fa l’espressione “Pensami adulto”, espressione ora adottata comunemente in pedagogia speciale, per indicare la necessità di pensare i progetti educativo-didattici in favore delle persone disabili all’interno di un orizzonte temporale dilatato, non limitati quindi all’anno scolastico in corso. Questa “massima” invita gli insegnanti-educatori a spostarsi da una programmazione rigidamente centrata sugli apprendimenti scolastici per muovere verso un progetto individualizzato che abbia come riferimento la qualità della vita della persona adulta. Andare in questa direzione significa pensare il Piano Educativo Individualizzato all’interno di un progetto di vita.

Progetto di vita è innanzitutto un pensare in <<prospettiva futura>>, o meglio un pensare doppio, nel senso dell’<<immaginare, fantasticare, desiderare, aspirare, volere…>> e contemporaneamente del <<preparare le azioni necessarie, prevedere le varie fasi, gestire i tempi, valutare i pro e i contro, comprendere la fattibilità>>. Insomma c’è un pensiero progettuale <<caldo>> e un pensiero progettuale <<freddo>>. Noi operatori saremo in grado di esercitarli entrambi nello sviluppare un progetto di vita per l’alunno disabile? La famiglia lo sarà? L’alunno disabile stesso sarà in grado di autoprogettarsi, miscelando il <<caldo>> con il <<freddo>>? (Ianes, Celi, Cramerotti, 2003, 40)

Queste parole ci indicano una prospettiva con cui guardare alla persona disabile e, allo stesso tempo, sollevano le problematicità inevitabili legate a questo tipo di sguardo che cerca di vedere lontano. La prima è quella riferita agli operatori impegnati negli interventi educativi e didattici: guardare alla qualità della vita adulta della persona disabile ci porta a considerare gli apprendimenti più utili per lui, alle abilità necessarie per poter sperare in una integrazione nel mondo adulto, nel mondo del lavoro. Questa direzione di senso, come detto, spesso ci costringe ad uscire da una visione rigida dei programmi scolastici, solleva incertezze che possono attivare meccanismi di difesa, uno dei quali è, ad esempio, il meccanismo della delega totale all’insegnante specializzato per il sostegno del progetto educativo e didattico in favore della persona disabile (su questo argomento torneremo più diffusamente affrontando il tema della programmazione integrata). Per quanto riguarda i genitori, poi, sono tanti gli aspetti che possono ostacolare questa immaginazione-programmazione della vita adulta del proprio figlio disabile. Spesso sono le paure a compromettere questo pensiero rivolto al futuro, paure che schiacciano sul presente.

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Chi ascolta i vissuti dei genitori trova spesso una più o meno consapevole percezione di <<vederli sempre uguali>>, di <<vivere alla giornata>>, di <<concentrarsi sui bisogni del presente>>, di ansia per il futuro, per ciò che accadrà, per la debolezza e lo smarrimento del figlio, per i dubbi sulla capacità della famiglia e della società di prendersi cura veramente del figlio, etc (…) Si ha paura delle illusioni-delusioni, dell’incontro del figlio con la consapevolezza del proprio limite, con le amare realtà che la vita gli riserverà, con le grandi mancanze nei momenti critici (ad esempio il gruppo adolescenziale con le amicizie e i riti di passaggio e di identificazione). Si vuole proteggere il figlio, finché si può dalle frustrazioni, dal dolore. Lo si vuole proteggere dall’autoconsapevolezza della propria situazione, dell’accorgersi di essere <<diverso>> in modo irreparabile. (Ianes, Celi, Cramerotti, 2003, 41)

Molto spesso, poi, i genitori faticano ad elaborare il lutto del figlio ideale desiderato, e si difendono con la negazione della realtà, non riuscendo a vedere e accettare il proprio figlio per quello che è. Come immaginare allora un futuro possibile e realizzabile per lui? L’ultimo aspetto problematico riguarda la persona disabile e il suo diritto all’autodeterminazione. Quali spazi vengono lasciati alla persona disabile per fare scelte, indicare obiettivi, prendere decisioni? I progetti degli altri nella misura in cui ignorano questi spazi rischiano di configurarsi come violenza. La persona disabile rischia di diventare una cosa di cui prendersi cura, privato della propria soggettività (su questo aspetto torneremo tre breve parlando dell’autodeterminazione). Fin da queste prime osservazioni appare chiaro come procedere verso la costruzione partecipata di un PEI-progetto di vita rappresenti una sfida complessa.

1.1 Il Piano Educativo Individualizzato

In primo luogo, ci domandiamo: “cos’è il P.E.I.?”; “chi lo deve predisporre?”; “con quali finalità?”. Per rispondere a questi interrogativi, mi sembra utile partire dal documento dell’Accordo di programma provinciale per l’integrazione scolastica e formativa dei bambini e alunni disabili 2008-20013 (attuativo della Legge 104/92). In questo testo, all’articolo 10, si legge:

Il P.E.I. (…) è predisposto per ogni bambino e alunno disabile ed è parte integrante della programmazione educativo-didattica di classe. Il P.E.I. va definito entro i primi due mesi di scuola (vista la complessità, tre mesi per le scuole secondarie di secondo grado) dai docenti del Consiglio di Classe, integrato con i docenti della formazione

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professionale nel caso di progetti integrati scuola e formazione professionale, con il contributo degli operatori dell’Azienda U.S.L., delle eventuali figure professionali dell’Ente Locale che seguono il bambino/alunno e della famiglia. Il Gruppo Operativo sottoscrive il P.E.I. come impegno per la realizzazione dello stesso. (…) Il P.E.I. costituisce un documento di sintesi dei dati conosciuti e di previsione degli interventi prospettati. In esso si definiscono:

- i bisogni, le prestazioni e i servizi erogati alla persona (…); - gli obiettivi educativi/riabilitativi e di socializzazione perseguibili (in uno o

più anni); - gli obiettivi di apprendimento e integrazione riferiti alle diverse aree, anche

in relazione alla programmazione di classe; - l’eventuale progettazione delle attività integrate con la formazione

professionale: - le attività integrative, comprese le eventuali uscite didattiche e/o viaggi di

istruzione; - le forme di integrazione di scuola ed extra-scuola in sintonia con il progetto

di vita; - i metodi, i materiali, i sussidi per la sua attuazione; - i tempi di scansione degli interventi previsti; - le forme e i modi di verifica e di valutazione del P.E.I. stesso; - il raccordo con la famiglia in caso di assenza prolungata

Lo spirito della normativa, quindi, indica una metodologia di lavoro integrata, in cui i diversi soggetti (insegnanti, tecnici ASL e famiglia) contribuiscono alla progettazione degli interventi. Il P.E.I., inoltre, costituisce la sintesi di tre progetti, quello didattico, quello riabilitativo e quello di socializzazione, e individua come orizzonte di senso il progetto di vita.

1.2 Il progetto di vita

Normalmente, siamo portati a pensare al progetto educativo e didattico, inscrivendolo in un arco di tempo definito, spesso quello dell’anno scolastico o, allargando l’orizzonte, ad un progetto che attraversa un ciclo scolastico, ad esempio le scuole medie. Nel caso di soggetti con gravi disabilità, dove il carattere del deficit è permanente e non è possibile pensare ad una “guarigione”, occorre proiettarsi più lontano e provare a mettere a fuoco un progetto di vita, dove a fare da sfondo c’è la domanda: il futuro che immaginiamo per questi bambini e questi ragazzi è in un contesto separato (istituzioni di varia natura e dimensione) e di carattere assistenziale o integrato nella nostra vita sociale? Per approfondire il tema, riporto alcuni passaggi dell’intervento di

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E.Montobbio al Convegno Internazionale “La qualità dell’Integrazione è la qualità della scuola”, tenutosi nel novembre del 2003.

Cerchiamo di comprendere il significato dell'espressione "progetto di vita" che abbiamo già indicato come impegnativa e per certi versi difficile da definire e non solo nella disabilità. Ricordiamo che la mente di tutti gli uomini lavora per progetti e che ogni bambino deve sentirsi immerso (senza forzature) in una dimensione progettuale, per diventare capace di formulare per se stesso propri progetti. Il progetto di vita è un mix inscindibile di pensieri e di sentimenti nel quale immaginario e intenzionalità programmatoria si bilanciano e si completano mutando lentamente nella loro proporzione. (corsivo nostro) Questo mutare è segnato dal passare del tempo, dalla crescita del figlio, ma anche da altre variabili, quali l'incontro con il limite e con il principio di realtà. Ricorrendo ad una metafora mi piace immaginare che il sentiero esistenziale delle persone disabili percorra un crinale fra due versanti: da un lato l’incontro col limite (evento necessario per diventare grandi) dall’altro il diritto (come per tutti) a spazi di negazione. Più il progetto è integrato (ad esempio nel lavoro), più l’incontro col limite è necessario, più il progetto è separato (ad esempio in un Centro Diurno) più sono accettabili fughe nella negazione… L'apprendimento prodotto dalle esperienze e dalle "situazioni" in cui ci è dato di vivere, è un elemento significativo nell'equilibrio fra il sogno e le realistiche aperture di credito. Il progetto di vita può anche essere definito una sorta di piano di azione (corsivo nostro) che sollecita grandemente le capacità educative, ma anche come abbiamo detto, la maturità relazionale dei genitori. Si tratta infatti di mettere in campo una serie di comportamenti motivati e volontari diretti ad uno scopo controllabile socialmente. Questo piano di azione richiede ai genitori e ai professionisti che li affiancano la capacità di valutare il futuro possibile per il figlio disabile, anticipandone l'avvenire, e nel contempo prendendo l'avvio da una corretta valutazione del presente e, man mano che diventano passato, dalle esperienze vissute…(corsivo nostro) Le persone e quindi anche le persone disabili, non dovrebbero essere al mondo come "cose" (Moretti direbbe non -persone) ma essere connotate da spazi, anche limitati e mutevoli di intenzionalità e quindi "aperti al mondo" per quanto riguarda gli atteggiamenti e le azioni. (…) La persona disabile rischia sempre di diventare "cosa del mondo", almeno in parte, perdendo di conseguenza la possibilità che per lei "il mondo accada" e risultando in qualche misura dominata da un determinato progetto di mondo. Il bambino disabile è vissuto sovente come oggetto da riparare piuttosto che come individuo dotato di una propria originalità da far crescere con il fine di renderlo il più possibile equilibrato, felice e dignitoso…

Il progetto di vita, quindi, riporta al centro dell’attenzione la soggettività dell’educando, i suoi spazi di libertà, il suo diritto ad un futuro non completamente preordinato, anche se inevitabilmente condizionato dal proprio

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ambiente. Si pone, in altri termini, il problema della partecipazione al progetto di tutti gli attori presenti sulla scena dell’intervento, educando compreso.

1.2.1 Il diritto all’autodeterminazione

Un aspetto spesso trascurato è il diritto all’autodeterminazione del soggetto, normale o disabile che sia. Genitori, educatori o insegnanti possono facilmente dimenticare che un progetto di vita non può essere totalmente preordinato dall’esterno senza fare violenza alla persona dell’educando. Gli adulti, purtroppo, molto spesso hanno la presunzione di conoscere la verità dell’altro, di sapere ciò che è bene per lui, e questa presunta conoscenza giustifica la loro attività di manipolazione che dà forma ai propri desideri. Così, non si ascolta l’altro, non gli si chiede quale futuro vede per sé, non si esercita quella funzione maieutica che configura un corretto approccio educativo, ma ci si sostituisce a lui, lo si plasma dall’esterno seconda la propria idea. E se questo è un errore frequente nell’educazione delle persone normali, lo è ancor più nell’educazione delle persone disabili, dove l’eccesso di sostegno, la sostituzione o una costante apprensione finiscono per pregiudicare gli spazi dell’autonomia possibile. Il genitore o l’educatore, spaventati per le possibili conseguenze di scelte sbagliate o per le scarse abilità di scelta, guiderà ogni passaggio del bambino all’età adulta, sostituendosi completamente nelle decisioni riguardanti la sua vita. Con le migliori intenzioni, questo tipo di educazione intrusiva finirà per rafforzare la dipendenza e quella che Seligman (1975) chiama impotenza appresa. Paradossalmente, quindi, spesso è necessario ridurre i sostegni, in modo da favorire l’iniziativa e l’impegno del bambino o del ragazzo. L’autodeterminazione, il poter esercitare un qualche controllo sulla propria vita, è un fattore indispensabile per non essere oggetti del mondo e vivere, invece, la propria dignità umana come soggetti.

L’autodeterminazione definisce il diritto della persona di fare scelte e prendere decisioni, in modo libero da indebite influenze o interferenze esterne. (Wehmeyer,1996). Prendere parte al processo di pianificazione degli obiettivi e a quello decisionale è una condizione critica affinché i bambini con ritardo mentale possano esercitare il diritto fondamentale di programmare la propria vita. (Sands, Doll 2005, 26)

Fare scelte e prendere decisioni sono gli aspetti pratici più importanti nell’esercizio dell’autodeterminazione e, in quanto tali, devono essere al centro degli obiettivi educativi. Il PEI-progetto di vita quindi dovrà tener conto di

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questa direzione di senso, adattandola in base alla singolarità della persona disabile. Esempi pratici di come questa scelta educativa possa essere declinata con i bambini sono: scelte all’interno di un’attività ( “vuoi usare la penna nera o blu?”); la scelta tra due attività ( “Vuoi fare una pausa al bar o prendere qualcosa alla macchina automatica?”); scegliere, in certe situazioni, se accettare o rifiutare un’attività; scegliere con chi fare o dove un’attività. Per procedere in questa direzione le domande di chi ha responsabilità educative sono: all’educando-studente disabile sono offerte strutturalmente occasioni per poter fare delle scelte relative alle routine quotidiane a casa o a scuola? Vengono offerti stimoli per sviluppare abilità di autodeterminazione? S’incoraggiano strategie di apprendimento autodiretto? Un certo tipo di facilitazioni favoriscono l’indipendenza o la dipendenza? Le persone disabili sono coinvolte nella soluzione dei problemi che emergono e li riguardano? Possono rifiutare situazioni che non gradiscono? L’esperienza come Educatore Professionale, impegnato in interventi scolastici con soggetti autistici, mi ha portato spesso ad interrogarmi su come lasciare spazio all’autodeterminazione. Infatti, nell’intervento educativo-didattico con soggetti autistici è generalmente consigliata un’educazione strutturata, dove la quotidianità viene perlopiù programmata dall’adulto. Si fornisce così un’organizzazione preordinata delle attività nello spazio e nel tempo che, da una parte, fornisce contenimento e rassicurazione rispetto alle angosce che derivano dalla percezione del mondo sociale come caotico e imprevedibile, ma allo stesso tempo si corre il rischio di non lasciare spazio alla possibilità di fare scelte e prendere decisioni. Probabilmente alcuni comportamenti problematici dei soggetti autistici hanno origine proprio dalla sensazione di non poter operare delle scelte o promuovere delle iniziative. In conclusione di questo paragrafo mi viene da dire che l’espressione “Pensami adulto” andrebbe declinata in modo tale che nel pensiero dell’educatore ci sia lo spazio anche per sviluppare l’immaginazione-pianificazione del proprio futuro da parte della persona disabile.

1.3 Dalla pianificazione alla progettazione

Progettare può significare diverse cose e sottendere diverse prospettive epistemologiche. In una prima accezione, il significato di progettare può essere inteso come pianificazione.

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Progettare secondo l’approccio della pianificazione vuol dire prefigurare, prevedere e pianificare intenzionalmente e a priori le azioni che le persone dovranno eseguire per poter raggiungere gli obiettivi prestabiliti…La progettazione come pianificazione è in grado di eliminare il disordine, in sé negativo, per condurre all’ordine, alla razionalità e alla linearità; il consulente che deve progettare la riorganizzazione di un reparto ospedaliero considera le parti che lo compongono come delle variabili totalmente dipendenti, manipolabili e controllabili dal progettista; anche le persone sono variabili plasmabili per raggiungere gli obiettivi prestabiliti. Nell’approccio della razionalità assoluta vi è la convinzione che il dirigente, il consulente, l’operatore che progetta sia colui che definisce il problema e costruisce una rappresentazione completa e ottimale delle diverse azioni per la sua soluzione. Il progettista è in grado di raccogliere tutte le informazioni necessarie per definire le procedure adeguate per raggiungere gli obiettivi. (F. d’Angella, A. Orsenigo 1997, 54-55)

Questo tipo di progettazione funziona secondo una logica ingegneristica, in cui il tecnico che progetta pensa, disegna e poi lascia che siano altri a tradurre in termini operativi il progetto. Si afferma, così, una rigida separazione tra chi progetta e pensa, e chi è chiamato a mettere in pratica, ad agire, esecutore di idee altrui. Dal punto di vista dell’esecutore, questo approccio, fornendo precise indicazioni sul da farsi, riduce i margini d’incertezza e l’ansia che ne potrebbe conseguire. Il progettista, d’altra parte, si preoccupa solo dei mezzi e delle tecniche, agendo secondo una ragione strumentale che espelle gli interrogativi riguardanti i fini.

Un approccio radicalmente diverso alla progettazione è quello della progettazione dialogica o coprogettazione. Al modello del decisore unico, la progettazione dialogica oppone l’idea e la prassi del progettare insieme con gli attori sociali presenti sulla scena dell’intervento. Il primo problema che si pone per questo tipo di progettazione è quello di una comune definizione del problema.

Per la progettazione dialogica è fondamentale la costruzione di un significato comune al problema. Il consulente non definisce a priori il problema e la sua soluzione, ma contribuisce a far sì che le situazioni problematiche abbiano un riconoscimento parziale. La condivisione è possibile se si tiene conto che ciascun attore utilizza delle personali mappe cognitive per dare senso e significato alle cose, agli eventi e alle azioni…La progettazione nel processo di costruzione di un significato condiviso del problema è enunciazione, scambio, interazione, conflitto fra le diverse mappe, con il grosso sforzo di costruire un modo << comune >> di leggere, comprendere e interpretare il problema... Il lavoro di progettazione ha il

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compito di confrontare e coordinare più mappe e quindi proporre molti modi diversi di vedere il problema. All’inizio il dibattito tra tutte le persone coinvolte nel progetto non è concentrato sulla ricerca della soluzione del problema, ma piuttosto su un modo comune di << vedere >> le cose e gli eventi. La progettazione intesa come costruzione di significati condivisi assume un’ottica di processo di ricerca e di esplorazione collegabile al filone della ricerca-azione... Nella ricerca-azione tutte le persone coinvolte nel progetto di ristrutturazione diventano dei ricercatori, nel senso che contribuiscono a costruire dei significati comuni dei problemi, degli obiettivi condivisi e delle azioni da intraprendere. La progettazione come processo volto a costruire significati condivisi e co-costruiti attiva un processo in cui tutti diventano attori attivi della progettualità; questi sin dall’inizio partecipano alla definizione di tutte le parti del progetto: dalla definizione di ciò che costituisce la situazione-problema alla messa a punto delle strategie per risolverlo o per trovare un modo comune per gestirlo, dall’applicazione delle decisioni alla valutazione dei risultati ottenuti. (ibidem, 62-63)

Radicalmente diverse sono le conseguenze sul piano pratico derivanti

dall’applicazione delle differenti prospettive progettuali. Partendo da un approccio alla progettazione con decisore unico e muovendosi nella logica della pianificazione, il progetto predisposto dai tecnici può essere “imposto” in forza di ragioni oggettive di ordine scientifico. Nel migliore dei casi, il progetto è accettato favorevolmente perché si riconoscono come proprie le ragioni “oggettive” prodotte dal tecnico. Una cornice di senso condivisa e la consapevole accettazione, da parte del destinatario del progetto, di una relazione asimmetrica, con il tecnico in posizione dominante in virtù dei suoi saperi, permettono alla comunicazione di funzionare e al progetto di fondarsi su solide basi. Partendo, invece, da un approccio dialogico, il modello del decisore unico non è più praticabile e tutti gli attori presenti sulla scena dell’intervento diventano protagonisti della costruzione del progetto educativo. In questo caso il progettista non parte da ipotesi precostituite, ma si mette in una posizione d’ascolto e prova, passo dopo passo, a raccogliere nel confronto i tasselli dell’informazione, per sistemarli, poi, in un disegno complessivo, da valutare insieme. Bisognerebbe mettere in conto, anche nella migliore delle ipotesi, un certo livello di conflitto, che deriva dal dover confrontare e mettere in discussione le proprie rappresentazioni. Questi due modelli progettuali partono da differenti impostazioni epistemologiche, molto spesso implicite. L’epistemologia sottesa al modello ingegneristico del decisore unico è quella positivista che crede nella possibilità di una conoscenza oggettiva e nel distacco di osservatore/osservato, metodologia propria delle scienze naturali estesa anche all’ambito delle scienze

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umane. In questo caso il tecnico (nella scuola in genere il tecnico di riferimento è il neuropsichiatria infantile o lo psicologo) è depositario del sapere, di un sapere oggettivo frutto di test. È lui che conosce la verità del soggetto, lo classifica in base ai manuali diagnostici e sa cosa è meglio per lui. Il suo sapere, la sua diagnosi e la sua prognosi diventano un destino per il soggetto disabile, dove il campo delle sue possibilità risulta essere per molti aspetti predeterminato. Le certezze del tecnico sono rassicuranti per coloro che accettano questa impostazione e condividono il primato di questo tipo di sapere e di scienza. Il modello della progettazione dialogica o coprogettazione, invece, parte da una epistemologia costruttivista-fenomenologica. Questo approccio mette in discussione la possibilità di utilizzare i metodi delle scienze naturali alla conoscenza dell’uomo. L’uomo, in questa prospettiva, può essere conosciuto solo nella sua singolarità, una singolarità che trascende le categorie, anche quelle diagnostiche. In questa logica, l’unico metodo per conoscere il soggetto che si ha davanti, unico nella sua singolarità, è quello della comprensione che deriva dal mettersi in relazione con l’altro, mediante un processo di immedesimazione. Il ricercatore, in questo caso, non ha un sapere precostituito, ma lo costruisce nell’interazione, nel dialogo con il soggetto disabile e con le persone del suo ambiente. Il sapere che riguarda un soggetto disabile, quindi, diventa un sapere complesso, che tenta di mettere insieme i saperi del disabile su di sé e i saperi degli altri attori presenti sulla scena dell’intervento. Ogni soggetto ha la sua dignità epistemologica: non esiste il sapere unico, la verità oggettiva. Questo approccio riduce le certezze, le risposte già pronte, ma stimola una ricerca più approfondita. Procedere in questa direzione è difficoltoso perchè la nostra cultura e i nostri servizi hanno spesso interiorizzato profondamente una gerarchia dei saperi, dove il sapere del tecnico è vissuto come il sapere più fondato, più “scientifico”. Il discorso fin qui fatto sembra delineare una spaccatura, una opzione netta in favore di un approccio o di un altro. Invece, la sfida sta nell’integrazione dei saperi su un piano di pari dignità, dove l’obiettivo è raggiungere una rappresentazione complessa corrispondente alla complessità delle persone. È questo che ci chiede, d’altra parte la normativa vigente, nell’attribuire le responsabilità del PEI-progetto di vita ad una pluralità di attori.

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2. Le figure professionali che intervengono nel progetto

Per fare un passo avanti, vediamo ora quali sono le figure professionali coinvolte direttamente nella costruzione di un PEI-progetto di vita. Vediamo prima i profili delle figure professionali operanti nella scuola e poi quelli dei professionisti che svolgono la loro attività per le ASL. Per quanto riguarda i profili delle professioni che operano nella scuola, ci limitiamo in questa sede alla figura dell’Insegnante specializzato per il sostegno e dell’Educatore Professionale (si potrebbe parlare anche degli ADB, dei collaboratori scolastici o dei tutor, ma il discorso diventerebbe troppo lungo).Tra le figure professionali che operano per conto dell’ASL, vediamo, in particolare, quelle del Neuropsichiatria Infantile e dello psicologo (anche in questo caso si potrebbe parlare di altre figure come l’ Assistente Sociale il logopedista o il fisioterapista ma il discorso sarebbe anche in questo caso troppo lungo). Per disegnare i profili professionali degli operatori della scuola e dell’Azienda U.S.L. mi servirò del prezioso contributo fornito da Assirelli, Sandri e Silimbani nel saggio “Le figure a sostegno di un’integrazione di qualità”, contenuto nel volume Bambini imparate a fare le cose difficili a cura del CDH di Bologna e del CDH di Modena.

2.1 Le figure professionali della scuola 2.1.1 L’insegnante specializzato per il sostegno

Questo lavoro di tesi si colloca all’interno del corso SSIS per l’abilitazione all’insegnamento per le persone disabili e ha preso le mosse dall’interrogativo posto durante una lezione circa il distacco tra teorie pedagogiche proposte e prassi esistenti. Per rimanere aderenti alla realtà, è opportuno ribadire che il distacco esiste e che la sfida per gli insegnanti specializzati per il sostegno consiste proprio nel colmare questo divario. Anche i profili professionali che ora andiamo a delineare nei loro contorni probabilmente soffrono di una certa approssimazione, dato che nella realtà alcuni profili come quello dell’Insegnante specializzato per il sostegno e quello dell’Educatore Professionale tendono a sovrapporsi. Per fare un esempio pratico, molti compiti riguardanti la sfera della didattica e degli apprendimenti disciplinari, che dovrebbero essere parte delle funzioni specifiche dell’Insegnante Specializzato, nella realtà sono spesso attribuiti anche

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all’Educatore Professionale. Chiarire meglio i profili e i rispettivi compiti può essere un contributo utile al fine di valorizzare le risorse che ognuno può offrire nel rispetto delle differenti competenze. Fatta questa premessa, vediamo ora più nel dettaglio l’identità professionale dell’insegnante specializzato per il sostegno e le sue funzioni.

Chi è E’ un insegnante in possesso di specifico diploma di specializzazione attinente le problematiche relative alle disabilità e all'integrazione scolastica (…). E’ contitolare delle sezioni e delle classi in cui opera e collabora con gli altri insegnanti curricolari offrendo loro le sue specifiche competenze per la realizzazione di progetti di integrazione tesi all'accoglienza e alla riduzione degli handicap degli alunni disabili. Come tutti gli insegnanti ha il compito e la responsabilità della progettazione e dell'attuazione del processo di insegnamento e apprendimento, nel rispetto del diritto ad apprendere di tutti gli alunni e nel riconoscimento e valorizzazione della loro diversità. (…)

Cosa fa L'insegnante specializzato, in quanto figura competente in merito all'integrazione, ha il compito di collegare i bisogni alle risorse necessarie, secondo una logica progettuale, che si realizza con il concorso di tutte le professionalità disponibili e le risorse utilizzabili, dopo avere individuato i fattori che determinano la situazione di handicap degli alunni. Cura gli aspetti della conoscenza e dell’accettazione del deficit nella classe, e crea le condizioni per la piena espressione dell’identità e delle capacità dell’alunno disabile: suggerisce percorsi di apprendimento, risorse, ausili, sussidi e quant’altro possa essere utile a ridurre i limiti e gli ostacoli incontrati (…). In particolare, l'insegnante specializzato suggerisce ai colleghi una nuova modalità di insegnamento/apprendimento nella quale possa trovare spazio una programmazione in grado di accogliere i tempi e gli stili di apprendimento di ciascuno. In quest’ottica gli insegnanti di classe diventano loro stessi corresponsabili concretamente del processo di integrazione e della programmazione didattica di tutti gli alunni, compresi gli alunni disabili, mentre l'insegnante specializzato collabora offrendo le sue competenze in relazione ai bisogni speciali che emergono. Svolge attività sistematica di osservazione e, a partire da questa, insieme ai colleghi curricolari, contribuisce alla compilazione dei documenti specifici relativi alla persona disabile, quali il Profilo Dinamico Funzionale, il Piano Educativo Individualizzato/Personalizzato, con la collaborazione delle altre figure non docenti presenti nel contesto scolastico, degli operatori della A.S.L. della famiglia e degli operatori dell’extrascuola; partecipa, inoltre ai gruppi di lavoro previsti dalla normativa all’interno del Circolo/Istituto; tale percorso permette di costruire un progetto condiviso da tutti gli insegnanti contitolari e i soggetti coinvolti. E’ il coordinatore del progetto di integrazione, sia in fase di progettazione sia di realizzazione. (Assirelli, Sandri, Silimbani 2003, 101-102)

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Abbiamo fatto ricorso a questa lunga citazione, perché risulta essere molto chiara nel delineare la figura dell’insegnante specializzato per il sostegno come una figura professionale complessa, figura di sistema, che dovrebbe disporre di un mix di competenze (conoscenze e abilità) di alto profilo: conoscenze di didattica speciale e della normativa specifica riguardante l’integrazione delle persone disabili a scuola, capacità progettuali, capacità organizzative e di mediazione, capacità di relazione e comunicative. A fronte di un profilo così alto, voluto dalla nostra normativa, troviamo i vissuti di molti insegnanti di sostegno che si sentono <<insegnanti di serie B>>, esclusi all’interno dei Consigli di Classe, che ricevono dai colleghi di classe l’indesiderata delega degli studenti disabili. Anche in questo caso è necessario registrare il divario esistente tra posizioni di principio, vissuti e pratiche diffuse, per poter promuovere iniziative rivolte al superamento delle cattive prassi.

2.1.2 Gli Educatori Professionali

Facciamo ancora ricorso al testo di Assirelli, Sandri e Silimbani per inquadrare in termini positivi la figura dell’educatore:

Chi e' E’ un operatore esperto nell'area educativa, sociale e sanitaria che svolge la propria attività dentro e fuori la scuola, in relazione a minori, adulti e anziani in condizioni di disagio. All'interno dell'istituzione scolastica è possibile trovare diverse figure professionali che rientrano in questa definizione e che non fanno parte del personale docente. Non esiste nella normativa alcun riferimento, però, che espliciti in modo univoco il profilo richiesto per questo tipo di operatore all’interno delle istituzioni scolastiche. (…) Cosa fa Il ruolo dell’educatore è caratterizzato, o dovrebbe esserlo, da autonomia professionale: osserva, progetta e verifica il proprio intervento; possiede, quindi, specifiche competenze tecniche e di tipo progettuale, che fanno sì che possa essere propositivo e collaborare attivamente nella individuazione dei bisogni dell’alunno e dei contesti; in particolare contribuisce alla individuazione di strategie e strumenti necessari per rispondere a specifici bisogni riferiti alla sfera delle relazioni, dell’affettività e della costruzione dell’identità e della autonomia della persona disabile e della sua possibilità di interagire positivamente e in modo propositivo con il contesto scolastico ed extrascolastico.(…) Una parte importante del suo intervento è dedicato al lavoro di cura e relazione di aiuto svolta direttamente con la persona disabile, relativamente ai seguenti ambiti:

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a) autonomia personale: svolge attività di aiuto alla persona e facilita l’acquisizione di autonomie personali, a partire anche dai bisogni quotidiani (come la cura della persona, o gli spostamenti), soprattutto per le situazioni di maggiore gravità, o dalle occasioni che il lavoro scolastico offre sia all’interno che all’esterno degli spazi scolastici (dall’organizzazione del lavoro scolastico ad attività specifiche); tali occasioni diventano momenti importanti di costruzione di una relazione significativa, mirata, da un lato al benessere, dall’altro, dove possibile, all’acquisizione di strategie che permettano all’interessato di utilizzare le proprie risorse residue e di partecipare alle richieste delle situazioni; b) integrazione nel gruppo classe e nelle attività scolastiche: svolge una funzione di facilitazione alla comunicazione, all’inserimento e alla partecipazione alle diverse attività proposte dalla scuola: attività scolastica e integrazione nel gruppo - classe; attività di laboratorio; uscite, attività di piccolo gruppo , ecc…(…) c) relazione e supporto alla costruzione dell’identità: costruisce un rapporto significativo, come punto di riferimento affettivo, mirato alla rielaborazione delle esperienze quotidiane nei diversi contesti, con una attenzione alla costruzione di percorsi di continuità dell’esperienza individuale; svolge, in questo senso, anche una funzione di contenimento e di supporto alla gestione delle emozioni; contribuisce alla costruzione di riferimenti all’interno del contesto che permettano gradualmente di passare ad un rapporto di sempre maggiore autonomia; d) rapporto scuola extrascuola: facilita l’integrazione tra il lavoro scolastico e quello extrascolastico; segue l’inserimento dell’alunno in stage lavorativi in centri di formazione ed aziende Tali funzioni sono caratterizzate da un rapporto modulato sulla dimensione della distanza – vicinanza tra sé e la persona disabile, tra questa e le altre persone. Un’altra parte importante dell’intervento dell’educatore è dedicato al lavoro sul contesto: È in grado di leggere le caratteristiche del contesto, individuando in esso gli elementi di risorsa e quelli che possono costituire barriere allo sviluppo delle potenzialità e dell’autonomia della persona disabile; predispone e organizza il contesto, in riferimento alla presenza di materiali, attrezzature, strumenti per l’autonomia e la comunicazione, ausili; si attiva per rimuovere le barriere materiali ed immateriali presenti, in una logica di riduzione degli handicap; sensibilizza il contesto scolastico ed extrascolastico al riconoscimento dei bisogni, con particolare riferimento a quelli educativi e affettivi e agli stili comunicativi; Il suo lavoro è complementare a quello delle altre figure impegnate nel processo di integrazione, in questo senso: collabora, in modo coordinato e integrato con e altre figure presenti nelle strutture, nell’impostazione e nella realizzazione del progetto educativo – didattico riferito alla persona disabile; progetta il suo intervento in modo integrato e condiviso, senza sovrapporsi agli altri; collabora allo svolgimento di specifiche attività , come ad esempio laboratori, attività di gruppo, ecc…; concorre a predisporre strumenti adeguati alla valorizzazione delle potenzialità dell’alunno con deficit e alla sua integrazione, collaborando on gli operatori della ASL e con la famiglia nella realizzazione del progetto educativo; partecipa a pieno titolo agli incontri di programmazione e verifica del progetto individualizzato relativo

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all’alunno disabile organizzati dalla scuola e agli incontri per la predisposizione del PEI. (Assirelli, Sandri, Silimbani 2003, 106-110)

Anche in questo caso mi sembra utile mettere a confronto questo quadro prevalentemente positivo della figura dell’educatore professionale con i vissuti di molti operatori connotati negativamente. Simoni, nel suo saggio "Studio di caso: corsi di qualificazione sul lavoro", dopo aver raccolto delle dichiarazioni di educatori relative alla percezione del proprio ruolo, conclude:

Tra queste affermazioni...possiamo trovare alcuni elementi in comune relativamente: - alla definizione dell'educatore , i cui confini <<fluidi e polivalenti>> facilitano di più al pensare cosa non è piuttosto che al cosa è... - alla professionalità debole, quindi ai problemi di riconoscimento e di legittimazione da parte dei diversi interlocutori dentro e fuori dai servizi; - alla difficoltà di individuare il compito dell'educatore nei servizi; - al sapere dell'educatore che sembra una sorta di puzzle dove non c'è un disegno preordinato, ma dove si accumulano elementi per un disegno che sarà composto di volta in volta a partire da alcune tracce

molto ampie. 1

L’autore coglie alcuni punti significativi relativi alla "debolezza" della figura professionale dell'educatore. A partire da queste indicazioni e dai vissuti provenienti dalla mia esperienza professionale come educatore, credo si possano ricercare i motivi della percezione della debolezza del ruolo educativo lungo queste dimensioni: 1) la distinzione tra saperi "forti"(medicina)/saperi "deboli"(scienze dell'educazione); 2) l'assenza di esclusività delle tecniche e delle metodologie utilizzate dagli educatori, spesso prese in prestito da altre professioni; 3) la difficoltà di percezione-autopercezione unitaria della figura dell'educatore professionale in relazione alla molteplicità dei contesti di lavoro; 4) la scarsa riconoscibilità derivante dal suo essere una professione relativamente recente e la conseguente confusione con altre figure professionali più "forti" o consolidate. Vediamo di articolare, seppure in modo sintetico, questi punti.

1 Simoni, S. "Studio di caso: corsi di qualificazione sul lavoro" in AAVV, Formazione e Lavoro dell'educatore professionale, a cura di Castellucci, Pietrantonio, Simoni, Rimini, Maggioli, 1995, pag.61

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Per quanto riguarda il confronto tra saperi forti e saperi deboli, basti pensare ai differenti gradi di responsabilità all'interno della sanità: il o la neuropsichiatra non è solo un interlocutore degli educatori, ma il responsabile ultimo dei progetti e delle decisioni di fondo (almeno nel servizio materno infantile). Questa struttura organizzativa sottende una gerarchia dei saperi, dove il sapere della medicina è chiamato a legittimare-dirigere i saperi "deboli" della pedagogia e dell'educazione. Non è evidentemente un dialogo tra pari, ma una relazione "one up"/"one down". A proposito delle tecniche e delle metodologie utilizzate, è costante il riferimento ad altre discipline "sorelle": basti pensare alle tecniche dell'animazione, del gioco e della conduzione di gruppi, tecniche in alcuni ambiti indispensabili per l'educatore, il cui utilizzo sembra configurare un'invasione di campo in quello che dovrebbe essere lo specifico dell'animazione sociale; o, nell'ambito delle metodologie, all'apporto fondamentale che la psicologia fornisce mettendo a disposizione il vocabolario essenziale con cui osservare, interpretare e orientare la relazione educativa. Questa mancanza di uno specifico professionale, insieme al fatto di essere una professione relativamente recente, è uno dei motivi della difficile riconoscibilità della figura dell'educatore, spesso confusa con una serie di professioni "limitrofe": insegnante di sostegno nella scuola, animatore nel tempo libero, assistente o terapista della riabilitazione in ambiti come le strutture residenziali. Lo specifico dell'educatore è sfuggente spesso per gli stessi operatori, che si trovano ad operare con utenti e contesti estremamente eterogenei. Così, autopercezione e percezione altrui si saldano, rafforzandosi reciprocamente nell'interazione e producendo un'immagine "non a fuoco" dell'educatore. A conferma della "debolezza" di questa figura professionale, le definizioni di educatore si caratterizzano spesso come definizioni in negativo, che dicono "cosa non è" l'educatore, richiamando altre figure professionali che godono di maggiore riconoscibilità (psicologo, insegnante...). Nel contesto della scuola la debolezza dell'educatore emerge in primo luogo dal mandato istituzionale, che pone la figura dell'educatore in una posizione di subalternità rispetto agli insegnanti sia per quanto riguarda la responsabilità del progetto educativo individualizzato sia per quanto riguarda la gestione quotidiana delle attività (ad esempio l'educatore non può fare attività di piccolo gruppo con i compagni di classe dell'utente in assenza di un'insegnante). Anche in questo caso registriamo tutta la distanza tra il profilo professionale alto dell’educatore, così come è stato delineato al principio di questo paragrafo, e i vissuti degli operatori, che spesso si ritrovano a lavorare nella

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scuola in “splendida” solitudine con i bambini o ragazzi loro affidati. Il coinvolgimento degli educatori nella costruzione del PEI-progetto di vita, non solo con la firma apposta in calce ad un documento già fatto, ci sembra il primo passo indispensabile per procedere nella direzione dell’integrazione delle competenze voluta dalla normativa vigente.

2.2 Le figure professionali dell’ASL

Diverse sono le risorse esterne alla scuola impegnate nell’elaborazione e realizzazione del Progetto Educativo Individualizzato. Fra queste, indubbiamente, rivestono un ruolo di primaria importanza le figure professionali dell’Unità Multidisciplinare che appartengono all’Azienda Sanitaria Locale (ASL), il cui intervento si qualifica come aiuto e risorsa competente e preziosa a favore sia del bambino/a disabile e della sua famiglia sia della scuola. Le figure professionali a cui ci riferiamo sono solitamente psicologi, neuropsichiatri, fisioterapisti, tecnici sanitari-riabilitativi e della prevenzione. In relazione alla collaborazione specifica con gli operatori scolastici, tali figure possono essere pensate come tecnici che sostengono i docenti e ne arricchiscono la professionalità e le buone prassi nel loro fare quotidiano. Il rapporto Scuola/Sanità (talora comprende anche i Servizi Sociali), ovvero quello che s’instaura fra gli operatori di queste realtà istituzionali, pone sempre il problema di una collaborazione. Questa è inevitabile, indispensabile, obbligatoria, poiché “la scuola deve riferirsi all’ASL per la certificazione, la diagnosi funzionale, il profilo dinamico funzionale e il Piano Educativo Individualizzato (PEI)”, terreni – questi ultimi – in cui agiscono normativamente le professionalità in questione. Non va dimenticato, tuttavia, che la qualità dell’integrazione non è data da un numero elevato di interventi specialistici, ma dalla complementarietà e coerenza interna degli stessi, collocati in una visione sistemica avente come obiettivo prioritario la crescita del bambino disabile nella sua interezza. Le varie professionalità concorrono alla progettualità con modalità tali da evitare la frammentarietà. Se ciò non avviene: “un bambino preso in carico rivivrà su di sé e dentro di sé la frammentarietà degli interventi”.2 Tra le figure professionali che operano all’interno dell’ASL prendiamo in considerazione il neuropsichiatria infantile e lo psicologo.

2 Canevaro A (1983), a cura d, HANDICAP E SCUOLA Manuale per l’integrazione scolastica, Roma, NIS, p. 379.

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Neuropsichiatra Infantile Chi è E’ un medico specializzato nella prevenzione e cura dello sviluppo dell’età evolutiva e adolescenziale . La sua specializzazione professionale prevede gli ambiti neurologico-cognitivo (studio del sistema nervoso, della sua struttura e del suo funzionamento, le malattie e le loro terapie), psichiatrico-relazionale (studio, prevenzione e cura delle malattie mentali e dei problemi emotivi e comportamentali). (…) Cosa fa Il lavoro svolto nell’ambito dell’ASL. è soprattutto un’attività di tipo clinico, che lo porta a diretto contatto con i pazienti, facendo diagnosi e prendendo in trattamento le diverse forme di patologia neurologica e psichica. Può coordinare altre figure sanitarie che intervengono sugli stessi bambini di cui si occupa e svolgere un’azione di collegamento fra le diverse situazioni in cui quei bambini vivono: famiglia e scuola. Quando ricopre un ruolo di coordinatore di servizio, “deve organizzare il lavoro di altre figure che operano nell’Unità Multidisciplinare, come ad esempio il logopedista e il fisioterapista. Ciò significa che deve valutare se tutto risponde, per qualità e quantità, ai bisogni degli utenti e alle finalità dell’ASL. Oltre all’inquadramento diagnostico e al lavoro di équipe, il Neuropsichiatra dedica una parte del suo tempo ai colloqui con le famiglie dei bambini e dei ragazzi in situazione di disabilità, ai colloqui con gli insegnanti della scuola e ad incontri diretti con il minore disabile. (…) Il Neuropsichiatra esercita un’azione di consulenza anche nei confronti degli insegnanti, i quali, di fronte a situazioni di disabilità, vivono timori e incertezze circa il percorso intrapreso con il soggetto disabile e le scelte fatte. (…) Dai dati empirici della ricerca emerge che il Neuropsichiatra è la figura professionale che maggiormente si rapporta alla scuola. Diversi sono i piani di intervento: in quasi tutti gli ordini di scuola collabora, insieme con gli altri operatori dell’Unità Sanitaria Locale, con i docenti dell’alunno disabile per redigere il Profilo Dinamico Funzionale dell’alunno, e se necessario per dare indicazioni, partecipa alla stesura del Progetto Educativo Individualizzato e alla sua verifica; in molti casi partecipa agli incontri istituzionali previsti dalla normativa assieme ai docenti di classe in cui è inserito l’alunno disabile, all’insegnante specializzato, ai genitori e al Dirigente Scolastico.

Psicologo

Chi è

Lo Psicologo è colui che si occupa della prevenzione, della diagnosi, della cura dei disturbi psicologici della persona, nonché del sostegno in ambito psicologico ai gruppi e agli organismi sociali. Svolge inoltre attività di sperimentazione, ricerca e didattica. (…) Cosa fa All’interno del Sistema Sanitario Nazionale è presente nei servizi di salute mentale, nel servizio di neuropsichiatria infantile, nei consultori familiari, nei servizi sociali,

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nelle strutture ospedaliere e nei servizi di prevenzione. Nei contesti di salute mentale, da un lato svolge attività di sostegno e terapia nei confronti del singolo paziente e dall’altro collabora, insieme con neuropsichiatri ed altri operatori, alla definizione e all’attuazione di programmi di intervento per la prevenzione e il recupero. Il suo ruolo consiste nell’accogliere la domanda, nell’osservare il paziente e formulare una diagnosi. Alla diagnosi può seguire l’elaborazione del piano di intervento e la presa in carico terapeutica. Oltre a questa attività, di tipo ambulatoriale, collabora con l’Unità Multidisciplinare nella presa in carico e trattamento dei bambini con disabilità dei quali viene redatta la diagnosi funzionale. L’Unità Multidisciplinare insieme ai docenti curricolari, all’insegnante specializzato, al Dirigente scolastico e con la collaborazione della famiglia, redige il Profilo Dinamico Funzionale e il Piano Educativo Individualizzato. La collaborazione dello Psicologo con la scuola non si limita solo a redigere i documenti ufficiali necessari al percorso dell’integrazione, dai dati empirici della ricerca emerge che i docenti chiedono chiarimenti circa le implicazioni psicologiche e relazionali dell’alunno disabile per realizzare il loro intervento educativo con più sicurezza e in modo più mirato, per cui le richieste sono anche metodologiche e operative, o per effettuare in situazione osservazioni tematiche rispetto ad un determinato comportamento dell’alunno disabile.

Bisogna rilevare che molto spesso i compiti e le responsabilità affidate dalla normativa vigente a questi operatori superano di molto l’effettiva disponibilità degli stessi operatori ad intervenire nella scuola per portare le proprie competenze. La scuola si trova così molto spesso a fronteggiare situazioni molto difficili, privata di un adeguato supporto. Anche i momenti istituzionali voluti dalla normativa, come nel caso dei Gruppi Operativi, tendono sempre più a svuotarsi di senso, limitandosi ad un frettoloso scambio d’informazioni. Un esempio di questa cattiva prassi è il disporre i gruppi operativi, all’interno dello stesso istituto, negli stessi giorni, durante l’orario scolastico (necessariamente quindi alcuni insegnanti o educatori non potranno intervenire), prevedendo per la discussione di ciascun caso un tempo massimo di un’ora. Una prassi come questa, che taglia fuori necessariamente alcuni attori dell’intervento educativo-didattico e prevede tempi di discussione non adeguati, finisce di fatto per rendere del tutto inutile uno strumento fondamentale, previsto dalla normativa, per la costruzione del progetto educativo e il suo monitoraggio.

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3. Le fasi del progetto

Dopo aver visto le ragioni metodologiche della progettazione partecipata in relazione alla costruzione del PEI-progetto di vita e i diversi profili professionali degli operatori coinvolti nel processo progettuale, vediamo ora i passaggi che preparano la stesura del PEI e come si debba procedere per avvicinare l’obiettivo dell’integrazione negli apprendimenti.

3.1 Verso una diagnosi funzionale educativa

Il primo e indispensabile momento del percorso è costituito dalla certificazione dello studente disabile, da parte dei tecnici dell’ASL, sulla base del manuale diagnostico ICD 10. A questa fase iniziale, che termina con la formulazione di una diagnosi clinica, segue la diagnosi funzionale. Leggo quanto dice a questo proposito l’articolo 8 degli Accordi di programma 2008-2013.

La D.F. consiste in una descrizione della compromissione funzionale dello stato psicofisico del bambino e alunno; tale descrizione si esplica in un profilo nel quale vengono considerate capacità, potenzialità e difficoltà di sviluppo del bambino e dell’alunno disabile. Alla sua stesura (…) provvedono i competenti Servizi delle Aziende UU.SS.LL La D.F. viene rinnovata ad ogni passaggio di grado scolastico o alla formazione professionale dell’alunno interessato, e comunque aggiornata allorquando se ne ravvisano i presupposti (…)

A proposito della D.F. la nostra normativa registra un ritardo culturale: sono infatti i tecnici dell’ASL i soli responsabili della stesura di questo documento che dovrebbe riportare tutte le informazioni indispensabili per poter procedere nel progetto. Chiunque abbia letto una diagnosi funzionale rilasciata dai tecnici ASL è consapevole del fatto che questo tipo di diagnosi è del tutto insufficiente ai fini della costruzione di un progetto educativo-didattico. In termini più concreti, la DF è un documento stringato che riporta la diagnosi clinica effettuata sulla base dell’ICD 10, e poi descrive in una decina di righe ciò che la persona disabile non sa fare, le sue difficoltà o i suoi deficit. Ora, laddove bisogna riconoscere la specificità del ruolo dei tecnici nel caso della diagnosi clinica, bisogna riconoscere allo stesso tempo l’infondatezza dell’attribuzione della responsabilità a questi operatori, in forma esclusiva, per quanto riguarda la Diagnosi Funzionale.

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Ogni attore presente sulla scena della vita quotidiana della persona disabile ha elementi di conoscenza utile per il progetto e a tutti va riconosciuta la dignità epistemologica di contribuire con i propri saperi. A rimarcare il distacco dalla normativa su questo punto Ianes parla di Diagnosi funzionale educativa.

La Diagnosi funzionale educativa è la prima componente del Piano Educativo Individualizzato: essa si pone come obiettivo fondamentale la conoscenza più estesa e approfondita possibile dell’alunno in difficoltà. Questa conoscenza deve però essere <<funzionale educativa>>, appunto, e cioè utile alla realizzazione concreta e quotidiana di attività didattiche ed educative appropriate, significative ed efficaci. Proprio per questo La Diagnosi funzionale deve risultare da un lavoro interdisciplinare, che veda la collaborazione degli insegnanti, degli operatori dell’ASL e dei familiari. La sua stesura non dovrebbe essere delegata allo psicologo, al neuropsichiatria o all’Unità multidisciplinare: queste professionalità dovranno certo fornire i loro contributi di conoscenze, preziosi in moltissimi ambiti, secondari in altri. Il ruolo della scuola deve essere centrale: gli insegnanti possono utilizzare una vasta gamma di strumenti di raccolta dati e di conoscenze per la comprensione profonda e utile dell’alunno in difficoltà, attivando direttamente una regia e un coordinamento nel gruppo di lavoro a livello di scuola che integri i vari contributi che provengono dall’ambito sanitario, familiare e sociale. (Ianes, Celi, Cramerotti 2003, 31-32)

Anche L.Cottini valuta negativamente il mancato coinvolgimento degli insegnanti, degli educatori e della famiglia nella stesura della D.F.

Innanzitutto, l’attenzione viene focalizzata eccessivamente su quanto il bambino non sa fare, piuttosto che sulle abilità possedute o emergenti, con un approccio medico e poco educativo. Oltre ciò si registra sovente una mancanza di dialogo tra la componente clinico-riabilitativa (gli specialisti medici o psicologi, i tecnici della riabilitazione) e quella pedagogica (gli insegnanti), con nefasta incidenza su tutto il successivo processo d’integrazione. La conseguenza di ciò è spesso , un atto poco “funzionale”, che non fornisce ai docenti indicazioni operative chiare ed utili per programmare le attività didattiche (programmazione curricolare). (Cottini 2004, 29)

Da queste due autorevoli testimonianze traiamo la convinzione, per altri versi maturata con l’esperienza, che il processo di conoscenza iniziale sia un momento fondamentale per la costruzione del progetto e che vadano messe a punto delle procedure di raccolta e riordino delle informazioni da una pluralità di fonti, finalizzate alla costruzione di un diagnosi funzionale educativa multidimensionale.

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3.1.1 La raccolta delle informazioni e le diverse fonti

La costruzione di una Diagnosi funzionale educativa richiede una procedura di assessment complessa, in grado di raccogliere in modo sistematico e ordinato informazioni da più fonti (scuola, famiglia, tecnici, territorio e soggetto disabile), per organizzarle in una immagine di sintesi significativa e utile per la progettazione educativo-didattica. L’ipotesi è che la scuola, in particolare l’insegnante specializzato di sostegno, giochi un ruolo di regia centrale nella costruzione di questo tipo di diagnosi funzionale.

A livello operativo, questa operazione conoscitiva si articola in due tempi: − la raccolta delle informazioni, “mediata” da informatori (come nel caso

dell’intervista o del questionario), o “diretta” (come nell’osservazione); − la selezione, il riordino e l’organizzazione delle informazioni, in modo da

renderle significative ai fini della costruzione di un profilo complesso della persona disabile. Per arrivare ad un quadro di conoscenze completo è necessario, quindi, che

insegnanti e genitori diano il loro contributo alla costruzione della diagnosi funzionale educativa. Per questo motivo, tra gli strumenti di assessment che da prendere in considerazione, oltre ai test e all’osservazione nell’ambiente scolastico, ci sono anche le interviste o i questionari rivolti ai genitori. A questo proposito bisogna segnalare che il Modello A del Profilo Dinamico Funzionale allegato agli Accordi di Programma contiene un questionario da compilare a cura dei genitori riguardante le abitudini della persona disabile a casa. A tutte queste fonti aggiungerei la conoscenza e la valutazione di sé della persona disabile, raccolta mediante schede di autovalutazione relative al “so fare/non so fare” o meglio del “ so fare se…/non so fare se…” (questa seconda formulazione porta ad esplicitare le condizioni di facilitazione o di ostacolo)in diverse aree funzionali. Questo lavoro di consapevolezza di sè potrebbe costituire anche il punto di partenza per un percorso metacognitivo e di monitoraggio dei propri apprendimenti.

L’assessment, in questo caso, diventa una procedura complessa che raccoglie informazioni provenienti da: − test somministrati in contesti clinici; − osservazioni condotte nell’ambiente scolastico (osservazioni partecipanti o

distaccate ) − colloqui con i referenti tecnici competenti per territorio

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− interviste o questionari per i familiari. − schede di autovalutazione dello studente disabile La diagnosi funzionale così costruita dovrebbe raccogliere una grande quantità di dati: − dati anamnestici clinico-medici, familiari e sociali − dati sui livelli di sviluppo raggiunti nelle diverse aree generali di sviluppo − dati sui livelli raggiunti dall’alunno in rapporto agli obiettivi di

programmazione della classe − dati sulle dinamiche psicologiche, affettive, relazionali e comportamentali

Una volta che si giunge ad un quadro di conoscenze completo e condiviso riguardante la situazione di partenza (punti forti/punti di debolezza), è possibile passare all’identificazione degli obiettivi. Le domande da porsi a questo punto sono: “Quali sono gli obiettivi prioritari in relazione al progetto di vita?” “Quali gli obiettivi di medio e breve periodo?”. Anche all’interno di questa nuova fase, bisognerebbe muoversi in una prospettiva dialogica per giungere alla definizione di una serie di obiettivi condivisi. L’apparente “perdita di tempo” nel confronto ripetuto, ha senso perché un progetto, pur tecnicamente corretto e teoricamente fondato, che venga vissuto come “calato dall’alto” produce sentimenti di estraneità, se non reazioni difensive.

3.3 Il PDF e la definizione degli obiettivi Il modello di Profilo Dinamico Funzionale contenuto negli Accordi di programma 2008-2013 è quello strumento organizzatore che dovrebbe permettere di sintetizzare i dati raccolti nella fase precedente della DF, collegandoli con le “possibilità di sviluppo”. Riportiamo le note per la compilazione del documento:

Il Profilo Dinamico Funzionale viene redatto dai componenti del Gruppo Operativo (G.O.) sulla base della Diagnosi Funzionale, delle informazioni e osservazioni raccolte dalla famiglia (Strumento per la redazione Modello A) e delle osservazioni e annotazioni del personale docente (Strumenti per la redazione Modello B). Docenti, operatori sanitari e genitori avranno cura di redigere gli appositi documenti (qui di seguito denominati “Strumenti per la redazione del Profilo Dinamico Funzionale”) entro il mese di giugno, quali documenti preliminari utile per consentire la stesura definitiva del P.D.F. da parte dei componenti del Gruppo Operativo. Il Gruppo Operativo, sulla base delle osservazioni e delle indicazioni raccolte attraverso tali strumenti, avrà il compito di operare una sintesi che indichi quali sono le abilità, le potenzialità e le difficoltà del bambino/alunno disabile, selezionando l’area o le aree che si possono potenziare e sviluppare.

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L’attività di osservazione è continuativa per tutto il percorso scolastico e concorre o alla prima compilazione o all’aggiornamento del P.D.F. di norma al termine di ogni anno scolastico e obbligatoriamente al termine di ogni grado di studio e/o passaggio ad altra scuola. Gli aggiornamenti vanno effettuati, inoltre, ogni qualvolta vi siano cambiamenti e/o modificazioni nelle varie aree che richiedano la discussione degli aspetti di sviluppo potenziale e vanno apportati in forma di allegati al P.D.F. iniziale, al fine di consentire la chiara individuazione dell’evoluzione del profilo del bambino/alunno.

Il PDF dovrebbe quindi fornire una sintesi di tutti i dati raccolti circa le caratteristiche essenziali della persona disabile in modo da poter indirizzare in modo sensato il progetto educativo-didattico. All’ultima pagina del Modello di PDF previsto dagli Accordi di programma si trova uno schema da compilare a cura del gruppo operativo in cui si chiede di indicare:

- capacità possedute - difficoltà - interessi e possibilità di sviluppo

Parlare di possibilità di sviluppo rimanda alla nozione di zona di sviluppo prossimale elaborata da Vygotskij. L’autore sovietico ritiene che le funzioni mentali superiori dell’uomo abbiano un’origine spiccatamente sociale, per poi interiorizzarsi. Alla luce di ciò, l’indagine dello sviluppo deve prevedere compiti che l’allievo possa portare a termine autonomamente oppure avvalendosi dell’aiuto dell’educatore. Così facendo è possibile delineare la zona di sviluppo prossimale, che rappresenta la <<distanza che esiste tra il livello attuale di sviluppo del bambino, così come è determinato dal problem solving autonomo ed il livello di sviluppo potenziale, così come è determinato attraverso il problem solving sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più capaci>> (Vygotskij, 1990, 127). A proposito della zona di sviluppo prossimale, si parla anche di abilità emergenti, le abilità quindi che necessitano dell’ aiuto degli operatori per il completamento di un compito. Su queste abilità è necessario concentrarsi negli interventi, nella logica di una riduzione graduale degli aiuti per favorirne l’esercizio in autonomia. Queste possibilità di sviluppo devono essere orientate verso una serie di traguardi desiderabili, obiettivi e apprendimenti che abbiano senso non solo all’interno della vita scolastica, ma anche nella vita adulta. È su questo terreno che possiamo recuperare i discorsi fatti sul progetto di vita. A livello operativo questo implica la definizione di obiettivi di lungo periodo in grado di orientare quelli di medio e breve termine. Se gli obiettivi di lungo periodo devono avere una prospettiva temporale calcolabile in anni, quelli di medio termine dovrebbero

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avere una prospettiva calcolabile in mesi e avere come riferimento l’anno scolastico in corso. Infine, tenendo conto delle abilità emergenti, è necessario definire gli obiettivi a breve termine e le sequenze di sotto-obiettivi.

In moltissimi casi, aver definito una buona serie di obiettivi a medio termine non esaurisce questa fase della programmazione; c’è infatti bisogno di semplificarli, ridurne la complessità e scomporli in sotto-obiettivi che facilitino l’apprendimento. In molti casi si deve lavorare sugli obiettivi a medio termine, per ricavarne sequenze facilitanti di obiettivi più accessibili, da presentare immediatamente al nostro alunno. (Ianes 2001, 150)

È utile ricordare che il PEI deve contenere gli obiettivi di apprendimento e integrazione riferiti alle diverse aree, anche in relazione alla programmazione di classe. Questo presuppone che si prendano in considerazione in modo attento gli obiettivi di programmazione della classe per vedere quali possano essere introdotti utilmente nel piano individualizzato. Su questa necessità di una programmazione integrata torneremo più diffusamente nel prossimo paragrafo. Infine, così come nella diagnosi funzionale si è reso necessario raccogliere conoscenze e valutazioni su di sé riguardanti la sfera del “so fare se…/non so fare se…”, in questa nuova fase bisognerebbe porsi il problema di stimolare nello studente disabile l’identificazione di alcuni obiettivi di apprendimento in relazione al proprio progetto di vita. Come già detto a proposito dell’autodeterminazione, per non diventare “cosa del mondo” è necessario dare spazio all’auto-progettazione esistenziale, trovando tutti i modi per rendere la persona disabile protagonista delle scelte riguardanti il proprio progetto di vita.

3.4 La programmazione integrata Il percorso del PEI-progetto di vita, dopo la DF che ha permesso la costruzione del quadro dei punti di forza/punti di deboli del soggetto disabile e il PDF nel quale si sono definiti gli obiettivi in relazione al progetto di vita, si completa con la determinazione delle attività didattiche più utili al raggiungimento degli obiettivi identificati e la predisposizione della verifica dei risultati. Non dedicheremo spazio a questi momenti del progetto (attività-verifica), perché ora il nostro interesse si sposta sul tema che ha dato avvio a questo lavoro di tesi: l’integrazione negli apprendimenti. L’interrogativo a cui ora cerchiamo di dare risposta si può formulare in questo modo: la programmazione individualizzata che risulta dal percorso sinteticamente delineato (diagnosi funzionale educativa, PDF, definizione delle attività didattiche) può trovare punti

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di contatto con la programmazione curricolare della classe? Per provare a rispondere a questa domanda, partiamo da alcune osservazioni di Cottini (2004) che indicano con chiarezza l’esigenza di superare alcune prassi consolidate, negative al fine dell’integrazione .

Va fatto risaltare, però, che spesso dietro la terminologia di insegnamento individualizzato si sono celati percorsi non sempre proficui per l’integrazione. In molte situazioni (…), individualizzazione è stato sinonimo di separazione, di lavoro individuale condotto dall’allievo con l’insegnante di sostegno in contesti differenti da quelli della classe. Sicuramente questa organizzazione individuale del lavoro può essere praticata per perseguire certi obiettivi, ma non può certo diventare il modello principale di riferimento organizzativo, se si hanno a cuore le finalità dell’integrazione. La sfida da accettare, quindi, diventa quella di ricercare la massima individualizzazione delle attività, così come richiede la presenza di allievi con bisogni educativi speciali, garantendo nel contempo una loro effettiva inclusione nel gruppo classe: trovare il punto di contatto fra programmazione curricolare e programmazione individualizzata rappresenta l’obiettivo di fondo della didattica speciale. (Cottini 2004, 91)

Per procedere verso l’integrazione negli apprendimenti, quindi, è necessario il superamento del parallelismo perfetto tra la programmazione curricolare di classe e quella individualizzata, perché questo parallelismo di fatto produce, pur con le migliori intenzioni, ancora una volta dinamiche di esclusione. Bisogna trovare invece le intersezioni possibili tra queste linee di programmazione. Come fare? Il primo aspetto che Cottini giustamente raccomanda è la programmazione integrata tra insegnanti di classe e insegnanti di sostegno. Questa prassi che dal punto di vista della normativa dovrebbe essere scontata, in realtà molto spesso rimane nell’ambito delle buone intenzioni. Bisogna dire, tra l’altro, che laddove nelle scuole primarie è prevista l’ora di programmazione settimanale, sede ideale per svolgere una programmazione integrata perché mette intorno ad un tavolo insegnanti di sostegno e curricolari, nelle scuole secondarie questo momento istituzionale non è previsto. Si viene a creare così un “vuoto” che purtroppo legittima certe cattive prassi.

… osservando le realtà di molte scuole appare evidente come la programmazione individualizzata sia redatta spesso dal solo insegnante di sostegno, senza particolari coinvolgimenti dei colleghi curricolari e di altri operatori. Esistono ancora dei pregiudizi molto pericolosi: da un lato alcuni docenti di sostegno pretendono di essere gli unici titolari dell’insegnamento al bambino con disabilità che è stato affidato loro e dall’altro, molto più spesso, sono gli insegnanti curricolari che

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pensano di non avere titolo o competenza per lavorare con l’alunno che pone problemi didattici particolari e ritengono più giusto (e sicuramente anche più comodo) delegare all’insegnante per il sostegno tutto il peso e la responsabilità educativa. (Cottini 2004, 92)

Queste considerazioni di Cottini spiegano alcuni perché della difficoltà a procedere nella direzione auspicata dell’integrazione negli apprendimenti. Per superare questa situazione non evolutiva e di comodo per alcuni, tutti gli insegnanti dovrebbero porsi gli interrogativi che raccomanda Tortello (1999a).

- C’è almeno una cosa fra le tante previste per tutta la classe che può essere svolta anche dall’alunno che segue un piano educativo individualizzato?

- C’è almeno una cosa fra quelle contemplate per l’alunno in difficoltà che può essere proposta anche agli altri compagni di classe?

Laddove si abbandona la rigida aderenza ad un programma e si adotta la filosofia della programmazione, come adattamento flessibile dei programmi al contesto scolastico reale, si possono trovare risposte positive a questi interrogativi. Ma cosa s’intende per programmazione?

È nel 1974 che si parla per la prima volta di programmazione in un documento ufficiale (decreto delegato n.416), dove a proposito del collegio dei docenti si afferma che il collegio “…ha potere deliberante in materia di funzionamento didattico del circolo o dell’istituto. In particolare cura la programmazione dell’azione educativa anche al fine di adeguare, nell’ambito degli ordinamenti della scuola stabiliti dallo Stato, i programmi d’insegnamento alle specifiche esigenze ambientali (corsivo nostro) e di favorire il coordinamento interdisciplinare. Esso esercita tale potere nel rispetto della libertà d’insegnamento garantita a ciascun insegnante. ”. S’introduce, così, una dimensione progettuale nel lavoro educativo-didattico, in grado di declinare le linee programmatiche generali valide per l’intero territorio nazionale sulla base del contesto scolastico locale. Dallo stesso testo emergono anche altri elementi della programmazione come: definizione degli obiettivi, organizzazione del processo didattico e scelta degli strumenti didattici (ad esempio il libro di testo), valutazione periodica dell’azione didattica, predisposizione di strategie di recupero.

Nella legge n. 517 del 1977 si afferma con forza che la finalità fondamentale della scuola dell’obbligo è lo sviluppo della personalità dell’alunno, attraverso la personalizzazione dell’intervento educativo-didattico. Per attuare questi interventi è possibile ricorrere anche ad attività con alunni provenienti da

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diverse classi (classi aperte), programmandole sulla base di un progetto che stabilisce i modi e i tempi. Si delinea, così, sempre più chiaramente una specifica responsabilità progettuale per gli insegnanti, che ne ridisegna il ruolo tradizionalmente affidatogli di passivo esecutore di progetti educativi elaborati da altri. La programmazione, quindi, è quel processo che svolge un ruolo di “traduzione” o d’interfaccia tra programma- realtà locale – singolo individuo. Frabboni (1990) a questo proposito afferma:

Il curricolo è il percorso formativo di uno specifico grado scolastico…Questo percorso per godere di “dignità” curricolare deve vedere coesistere (camminare insieme) il Programma (Pa) e la Programmazione (Pe)…E’ possibile appendere sul petto della scuola lo stemma del curricolo a una condizione: che il Pa e il Pe si diano la mano. Pattuendo, da un lato, che il Pa (presentandosi corposo e flessibile) permetta alla Pe di modellare (e adattare) il Pa ad un allievo storico-reale-ambiente, e, dall’altro lato, che la Pe abbia sempre le gambe dentro al Pa (ne sia, quindi, “fedele” interprete). Con l’avvento nel nostro ordinamento del principio (e della prassi) della Pe – “educativa” e “didattica” – l’insegnante è stato posto nelle posizioni di convertire radicalmente la propria professionalità. Di tramutarsi, in altri termini, da “manovale” ad architetto della pratica didattica, da mero “esecutore” ad ingegnere dei processi formativi prescritti dal Legislatore (il Pa). (1990, 156)

La programmazione, quindi, dovrebbe essere quel processo che modella e adatta il programma ad un allievo “storico-reale”, nel nostro caso modella e adatta il programma all’allievo disabile. Come abbiamo già abbiamo avuto modo di notare, la programmazione individualizzata può diventare un rischio per l’integrazione se si concepisce in una logica di parallelismo rispetto alla programmazione curricolare per la classe. Per trovare le intersezioni è necessario uno sforzo di programmazione congiunta degli insegnanti curricolari con gli insegnanti di sostegno. Solo così si può uscire dalla posizione di marginalità dell’insegnante di sostegno, superare il meccanismo della delega e raggiungere una effettiva integrazione negli apprendimenti. Ianes, nel suo Didattica speciale per l’integrazione, fornisce alcuni esempi di PEI in cui sono inseriti obiettivi derivanti dalla programmazione di classe.

L’analisi, la scelta e il<<riaggiustamento>> degli obiettivi di classe ci consentiranno molto spesso di elaborare un PEI che sia contemporaneamente <<ragionevole>> per le potenzialità dell’alunno e legato a ciò che fanno i compagni. Riportiamo qui di seguito alcuni brani di piani educativi individualizzati dai quali emerge che, anche in situazioni piuttosto difficili, è possibile un lavoro centrato sull’integrazione di cui abbiamo parlato fino ad ora. Le parti in corsivo rappresentano infatti obiettivi comuni alla programmazione di classe.(…)

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Valentina è in seconda di un Istituto d’arte. È affetta da sindrome di Down. Dal suo piano educativo si legge: Italiano

- Saper ascoltare; - Leggere rispettando la punteggiatura e comprendere testi sapendone

ricostruire la trama con aiuto di schemi guida; - Comprendere i messaggi e le informazioni dei mezzi di comunicazione di

massa - Saper osservare e descrivere oggetti, personaggi, avvenimenti

(…) - Della programmazione di classe verranno affrontate quelle tematiche che più

possono interessare l’alunna: il poema cavalleresco, l’eroe antico, i cavalieri della tavola rotonda. (…)

Disegno geometrico - Potenziamento della coordinazione fine e dell’abilità oculomanuale con

l’uso degli strumenti del disegno geometrico; - Affinamento della precisione nella costruzione di figure geometriche piane; - Composizione di figure geometriche semplici.

Arte delle applicazioni metalliche per l’arredamento - Esperienze di accostamenti cromatici; - Ricerca di rapporti fra materiali metallici; - Esperienza didattica sulla smaltatura

Laboratorio stoffe - Tecnica del tappeto a nodo Smirne su canovaccio; - Stampa su stoffe con mascherine

Questo esempio ci sembra particolarmente importante e significativo. Una ragazzina Down non è soltanto fisicamente presente in una scuola media superiore, ma molte delle attività programmate per lei (non certamente tutte, non certamente in matematica) sono sufficientemente simili a quelle dei compagni da permetterle di passare molte ore di lezione in classe e in laboratorio, interagendo con il gruppo e svolgendo attività che anziché isolarla favoriscono sempre più la sua socializzazione, oltre che i suoi apprendimenti. (Ianes 2001, 258-261)

Ho riportato questa lunga citazione perché credo gli esempi possano chiarire la praticabilità di principi che, altrimenti, potrebbero sembrare solo buone intenzioni. Fin qui abbiamo risposto solo al primo degli interrogativi posti da Tortello (inserire nel PEI obiettivi della classe). Il secondo riguarda la possibilità di estendere alla classe un obiettivo di apprendimento previsto nel PEI dello studente disabile. Per quanto riguarda questo secondo aspetto dell’integrazione negli apprendimenti, il pregiudizio più grave può essere quello che ritiene che adattare gli obiettivi della classe ai bisogni della persona disabile debba necessariamente portare ad un abbassamento del livello degli apprendimenti. Ianes propone a questo proposito alcune ipotesi operative.

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Un momento di riflessione su un aspetto del programma già superato La classe è già alle moltiplicazioni, mentre Marco sta imparando adesso l’addizione. L’insegnante può lavorare sul fatto che la moltiplicazione rappresenta una addizione ripetuta più volte…In questo modo si creano degli spazi per tornare all’addizione e in questi spazi Marco può essere a suo agio anche se per lui il compito consiste solo nell’eseguire addizioni, senza comprendere il significato superiore di questi esercizi… Se un bambino sta lavorando sulla discriminazione dei colori, nell’ora di scienze si possono programmare delle lezioni sullo spettro solare, i colori dell’iride, l’arcobaleno….Se si sta esercitando sulle sequenze temporali, si possono usare sequenze temporali figurate per illustrare la successione dei principali eventi storici del periodo che si sta studiando in classe in quel momento. Se il ragazzo in situazione di handicap sta svolgendo un programma di autonomia sociale, come l’orientamento nel quartiere e l’attraversamento della strada col semaforo, si possono programmare lezioni di educazione stradale o unità didattiche di geografia centrate sulla costruzione di una mappa. (ibidem, 262)

Le parole di Ianes sollecitano ancora una volta gli insegnanti a fare quello sforzo progettuale comune, sulla cui necessità abbiamo più volte insistito. A quanto suggerito da Ianes a proposito dell’adattamento del curricolo della classe ai bisogni dello studente disabile, credo si possa aggiungere un’ulteriore proposta nella quale la conoscenza del disturbo della persona disabile diventa occasione di integrazione negli apprendimenti. Provo a parlarne nel prossimo paragrafo a partire da un’esperienza. 3.4.1 Una esperienza di integrazione negli apprendimenti L’integrazione viene spesso minacciata dal pregiudizio o da conoscenze stereotipate riguardanti la patologia della persona disabile. Esempi a questo proposito sono affermazioni come “ I Down sono tutti uguali, affettuosi, cicciotti, amanti della musica…”; “ Gli autistici sono sempre chiusi nel loro mondo, non comunicano, ma hanno prodigiose capacità di calcolo e di memoria”(…) È necessario affermare con forza che conoscere è il primo passo verso il superamento dei pregiudizi e degli stereotipi. Questo conoscere, d’altra parte, può rappresentare anche per la persona disabile un momento di crescita e di consapevolezza di sé (forse si potrebbe chiamare questo processo coscientizzazione). Tutto questo può accadere senza andare a discapito degli apprendimenti curricolari? Proviamo a fare anche in questo caso un esempio, preso dalla mia esperienza di insegnante di classe. Insegno in una classe V del liceo delle scienze sociali e in questa classe è inserito malamente un ragazzo psicotico (la diagnosi clinica non è meglio specificata). Dico inserito malamente perché Luigi (nome di fantasia per ovvi motivi di riservatezza), ripetente, si è trovato a stare in una scuola che non ha un progetto sensato per lui, una scuola che lo vive come corpo estraneo di cui è meglio liberarsi

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il prima possibile ( alcuni hanno esplicitato apertamente questa posizione mentre altri lo pensano senza dirlo). Ho preso servizio ad ottobre e nei primi giorni di scuola ho notato solo che Luigi era sempre assente, ma non avendo alcuna informazione sulle prime non ho dato molto peso a questa assenza. Affrontando la prima parte del programma di scienze sociali, ho parlato della personalità e dei disturbi di personalità. A quel punto Sandro, compagno di Luigi fin dalle scuole elementari, inizia a parlare di Luigi, dei suoi problemi, della sua aggressività distruttiva, del suo sentirsi minacciato, del suo sentire le “voci”. Dal ritratto fatto da Sandro sembrava emergere il quadro di una schizofrenia. Sulle prime sono rimasto sconcertato: avevo in classe uno studente con questi problemi e nessuno me ne aveva parlato. Perché? In effetti era come se questo studente non esistesse, era come se fosse in atto una sorta di rimozione collettiva. Da quel momento ho iniziato a prendere informazioni su Luigi, parlando con altri insegnanti di classe e con l’insegnante di sostegno. Il quadro che sono riuscito a ricostruire dai diversi frammenti raccolti è davvero desolante: Luigi a seguito di alcuni episodi di aggressività e di distruzione di arredi della scuola era come confinato in una zona dell’Istituto. Il suo PEI per l’anno in corso prevedeva la sua presenza in classe solo per tre materie: Italiano, Scrittura creativa e Scienze sociali. Ero quindi parte di questo PEI, ma non ne sapevo niente. La mia prima richiesta è stata che Luigi potesse entrare durante le mie ore: volevo conoscerlo. È stato così che Luigi, un po’ timidamente, ha fatto le sue prime apparizioni in classe, spesso senza insegnante di sostegno, per suo esplicito desiderio. La mia prima impressione è stata quella di un ragazzo impaurito, sperduto. Alcuni suoi interventi, talvolta provocatori, mettevano in mostra un’intelligenza lucida, acuta. Tra una lezione e l’altra o all’intervallo sono rimasto spesso a parlare con lui: mi ha parlato della sua storia di sofferenza, ricostruendola con precisione, accuratamente. Ho scoperto anche i suoi interessi, in particolare per il cinema. Così ho iniziato a proporre la visione di film su temi riguardanti la psichiatria: “A beautiful mind”, “Ragazzo selvaggio” e altri. Dopo la visione di “A beautiful mind”, la storia del matematico Nash, affetto da schizofrenia, ho chiesto agli studenti di compilare una scheda di analisi del film che chiedeva di rispondere a queste domande: qual è il tuo giudizio sul film?; come si caratterizza la schizofrenia-paranoide nel film?; quali sono i fattori che concorrono all’acutizzarsi delle crisi?; quali sono i fattori che concorrono alla remissione dei sintomi?; ti sembra che dalla vicenda raccontata si possano trarre delle conclusioni di carattere generale? La discussione dei contenuti riportati nelle schede ha permesso di focalizzare molti aspetti importanti riguardanti i vissuti della persona psicotica, dei fattori che concorrono all’acutizzarsi delle crisi (sentirsi minacciati o sotto stress …) e di quelli che invece permettono un buon adattamento ai contesti (lettura di realtà, consapevolezza del proprio disturbo, sentirsi amati…). L’analisi di questo caso, inoltre, ci ha permesso di identificare come tratto caratteristico della schizofrenia le crisi allucinatorie (le così dette “voci”).

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Riparlando del film con Luigi e commentando la sua scheda sono emerse le sue resistenze verso la psichiatria e i suoi metodi terapeutici e altri elementi riguardanti la sua esperienza della sofferenza mentale. Dai suoi vissuti emergeva l’immagine di un mondo minaccioso e il suo sentirsi in pericolo, schiacciato da paure che lo portano talvolta a sentire minacciosi stimoli come il rombo di un aereo che passa, paure che probabilmente sono all’origine dei suoi agiti violenti. Mai, però, ha fatto riferimento, anzi lo ha escluso decisamente, al sentire le “voci”, quelle “voci” di cui l’amico Sandro, compagno fin dalle elementari, aveva parlato e che sono tratto caratteristico della schizofrenia, Recentemente Luigi ha proposto di vedere insieme un film “Si può fare” e la visione è stata un’occasione utile per riprendere molti contenuti trattati nel modulo: la legge Basaglia e l’antipsichiatria, le cooperative sociali di lavoro…

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RIFLESSIONI CONCLUSIVE Il percorso svolto in questo lavoro di tesi ha cercato di delineare in termini generali la metodologia di lavoro che può orientare verso un avvicinamento allo spirito della normativa vigente. Allo stesso tempo, appare chiaro come sia necessario un cambiamento culturale di vasta portata per procedere nella direzione auspicata. Questo cambiamento implica anche dare risposta ad interrogativi etico-politici riguardanti il senso della scuola nella comunità. La normativa relativa all’integrazione in Italia è sicuramente molto avanzata nell’indicare una prospettiva di scuola solidale e attenta alle differenze. Ma è come se questi principi si scontrassero con una cultura profondamente interiorizzata, anche negli insegnanti, una cultura profonda spesso poco consapevole di sé, implicita. È quella cultura dominante segnata di individualismo e competizione, una cultura dove ci si salva da soli e dove nella lotta per la sopravvivenza emerge il più forte, dove il più forte, nel contesto scolastico, è chi eredita un buon patrimonio culturale e gode di buona salute. La scuola in questa prospettiva premia le prestazioni individuali e si limita perlopiù a riprodurre le differenze culturali esistenti all’interno della società (a questo proposito si potrebbe utilmente rileggere Lettera ad una professoressa). L’integrazione nel senso più evoluto presenta quindi i tratti dell’inattualità. In questo quadro, muoversi nella direzione di un’autentica integrazione implica necessariamente una battaglia etica e culturale volta a colmare la distanza tra gli orientamenti pedagogico-normativi e le cattive prassi. Ritornando al punto di partenza, risulta ora più chiaro il perchè dello scarto tra idee pedagogiche coerenti con la normativa vigente e le prassi dell’integrazione nelle nostre scuole. Uno dei segni tangibili di queste resistenze all’effettiva integrazione dei disabili è, come detto, il meccanismo della delega totale da parte degli insegnanti di classe. Ovviamente questa logica, molto diffusa nelle scuole superiori, rende impossibile ipotizzare un percorso rivolto a trovare punti di contatto tra programmazione curricolare e programmazione individualizzata. Per poter superare questo problema bisognerebbe promuovere innanzitutto la consapevolezza che l’educazione e gli apprendimenti dello studente disabile sono affare di tutti. In termini operativi, come abbiamo visto, questo implica una programmazione congiunta di insegnanti di classe e insegnanti di sostegno. Il progetto educativo individualizzato per la persona disabile, pensato all’interno di un più ampio progetto di vita, è in altri termini affare di tutte le persone presenti sulla scena dell’intervento educativo-didattico (tecnici ASL, famiglia, scuola, territorio) e, in una prospettiva ecologico-sistemica, affare di tutta la comunità.

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