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Sabato 24 novembre 2012 Relazione a cura del prof. Cisco Giuliano MISERIA E GRANDEZZA DELL’UOMO: TRACCE NEL PENSIERO CONTEMPORANEO Per assumere il giusto atteggiamento rispetto alla tematica proposta vorrei iniziare con una citazione: Quando si vuol riuscire a portare qualcuno ad un luogo determinato, bisogna anzitutto cercare di trovarlo nel luogo dove egli si trova e qui cominciare. Questo è il segreto dell’arte del soccorso. Chi non ne è capace, costui si illude di poter aiutare qualcuno. Per poter aiutare un altro, devo capire più di lui, ma anzitutto e soprattutto quel ch’egli capisce. Se non lo faccio, il mio maggior sapere non gli è di nessun giovamento”. (S.KIERKEGAARD, Punto di vista della mia attività letteraria) E’ quasi pleonastico ricordare che il primo a dedicare alcune riflessioni (seppure non in forma sistematica) sull’essere umano come l’unico essere –tra i viventi- in cui coesistono le due dimensioni nominate dal titolo della conversazione (“miseria” e “grandezza”) è stato quella figura sui generis di pensatore che risponde al nome di Blaise Pascal. Non dimentichiamoci che la breve esistenza (1623-1662) del pensatore francese si colloca in un’epoca di radicali trasformazioni nel modo di interpretare il ruolo dell’essere umano nel mondo e più in generale nell’universo. E’ il periodo della “rivoluzione scientifica”, a partire dalla quale la storia dell’Occidente (e dunque anche la storia del pensiero occidentale) cambierà radicalmente. C’è forse un legame tra lo sviluppo moderno del sapere scientifico e l’idea pascaliana dell’uomo come paradosso? In fondo la scienza moderna nasce come espressione della grandezza dell’uomo, cioè della sua capacità di controllare la realtà attraverso l’uso di un metodo rigoroso (Bacone→”Scire est posse”).

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Sabato 24 novembre 2012 Relazione a cura del prof. Cisco Giuliano

MISERIA E GRANDEZZA DELL’UOMO:

TRACCE NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

Per assumere il giusto atteggiamento rispetto alla tematica proposta vorrei iniziare con una citazione:

“Quando si vuol riuscire a portare qualcuno ad un luogo determinato, bisogna anzitutto cercare di trovarlo

nel luogo dove egli si trova e qui cominciare. Questo è il segreto dell’arte del soccorso. Chi non ne è capace,

costui si illude di poter aiutare qualcuno. Per poter aiutare un altro, devo capire più di lui, ma anzitutto e

soprattutto quel ch’egli capisce. Se non lo faccio, il mio maggior sapere non gli è di nessun giovamento”.

(S.KIERKEGAARD, Punto di vista della mia attività letteraria)

E’ quasi pleonastico ricordare che il primo a dedicare alcune riflessioni (seppure non in forma sistematica)

sull’essere umano come l’unico essere –tra i viventi- in cui coesistono le due dimensioni nominate dal titolo

della conversazione (“miseria” e “grandezza”) è stato quella figura sui generis di pensatore che risponde al

nome di Blaise Pascal.

Non dimentichiamoci che la breve esistenza (1623-1662) del pensatore francese si colloca in un’epoca di

radicali trasformazioni nel modo di interpretare il ruolo dell’essere umano nel mondo e più in generale

nell’universo. E’ il periodo della “rivoluzione scientifica”, a partire dalla quale la storia dell’Occidente (e

dunque anche la storia del pensiero occidentale) cambierà radicalmente.

C’è forse un legame tra lo sviluppo moderno del sapere scientifico e l’idea pascaliana dell’uomo come

paradosso?

In fondo la scienza moderna nasce come espressione della grandezza dell’uomo, cioè della sua capacità di

controllare la realtà attraverso l’uso di un metodo rigoroso (Bacone→”Scire est posse”).

Sabato 24 novembre 2012 Relazione a cura del prof. Cisco Giuliano

Ci si potrebbe aspettare allora che tale sviluppo comporti uno stato di esaltazione per la scoperta e la

messa in pratica delle potenzialità umane; di fatto c’è una forte aspettativa sulle capacità “liberatorie” del

nuovo sapere tecnico-scientifico (cfr. “La nuova Atlantide” di Bacone).

Perché, allora, proprio in questo momento storico viene posta a tema in forma esplicita la questione della

problematicità dell’essere umano?

Rispetto alla domanda appena posto un aiuto può venirci da una pensatrice vissuta in tutt’altra epoca, che

ha dedicato una parte non marginale della sua riflessione a comprende la struttura portante della

modernità: si tratta di Hannah Arendt (1906-75).

In un breve testo del 1963 (“La conquista dello spazio e la statura dell’uomo”) la pensatrice ebrea comincia

con la domanda: “La conquista dello spazio da parte dell’uomo ha accresciuto o diminuito la sua

statura?”.

Il testo della Arendt sottolinea che la scienza moderna si sviluppa con un atto di congedo dall’esperienza

comune, sensibile, dell’essere umano; si tratta quindi di un percorso che nasce naturalmente affrancata da

preoccupazioni “antropocentriche, e cioè autenticamente umanistiche”.

In questa riflessione sulla scienza pesano da un lato il pregiudizio anti-scientifico (“La scienza non pensa”)

heideggeriano, dall’altro il clima degli anni ’60 (Guerra fredda); tuttavia appare evidente che uno degli

effetti della nuova epoca sull’uomo è il senso di disorientamento e di solitudine che egli prova (“L'eterno

silenzio di questi spazi infiniti mi atterrisce”, Pascal).

Torniamo allora a Pascal.

Il pensatore francese, che arriva alla riflessione filosofica e ad un’esperienza di fede intensa (per certi versi

mistica) non rifiutando la nuova visione scientifica del mondo, ma al contrario assumendola pienamente,

in questa sua ricerca matura la convinzione che ciò che più conta, per l’uomo, è imparare a conoscere se

stesso.

Quando l’uomo si rivolge a se stesso, vincendo la tentazione del divertissment, si trova di fronte ad un

essere condannato a vivere “in una infinita disperazione”.

Questa è la condizione misera dell’uomo:

“Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificarci una torre che

s’innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi”.

Tuttavia lo stesso essere umano può anche essere colto nella sua grandezza proprio a partire dalla

medesima condizione:

Sabato 24 novembre 2012 Relazione a cura del prof. Cisco Giuliano

“ L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è

bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a

ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide,

perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa

niente.”

“La grandezza dell’uomo è grande in questo: che si riconosce miserabile. Un albero non sa di

essere miserabile. Dunque essere miserabile equivale a conoscersi miserabile; ma essere grande

equivale a conoscere di essere miserabile”.

“Tornato alla considerazione di sé, l’uomo esamini ciò che egli è rispetto a ciò che esiste; si

consideri come sperduto in questo remoto angolo della natura, e da questa piccola cella dove si

trova rinchiuso, voglio dire l’universo, impari a stimare la terra, i regni, le città e se stesso nel loro

giusto valore. Che cos’è un uomo nell’infinito?... Chi si contempla così, si spaventa di se stesso e

considerandosi, nella mole che la natura gli ha dato, come sospeso tra i due abissi dell’infinito e

del nulla, tremerà alla vista di quelle meraviglie; e credo che, mutando la sua curiosità in

ammirazione, sarà più disposto a contemplarle in silenzio che a investigarle con presunzione. Che

cos’è in fondo l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, un

qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto. Infinitamente lontano dall’abbracciare gli estremi, la fine

delle cose e il loro principio gli sono invincibilmente nascosti in un impenetrabile segreto, ed egli è

ugualmente incapace di vedere il nulla da cui è stato tratto e l’infinito dal quale è inghiottito”.

Uno schema riassuntivo può aiutarci a capire la prospettiva pascaliana sull’uomo:

Miseria Grandezza

“canna” “pensante”

basta un vapore ad ucciderlo ma è consapevole: vale più del mondo intero

“spodestato” “Re”

“né angelo” “né bestia”

“desideriamo la verità” “non troviamo in noi che incertezza”

“cerchiamo la felicità” “non troviamo che miseria e morte”

“siamo incapaci di non desiderare la verità e la

felicità”

“e siamo incapaci della certezza e della

felicità”[437]

Questi due aspetti, intimamente connessi, dell’umano vengono da Pascal esemplificati da due figure:

Montaigne ed Epitteto.

Sabato 24 novembre 2012 Relazione a cura del prof. Cisco Giuliano

Ciascuno di loro ha colto un aspetto fondamentale dell’uomo, ma solo un aspetto; se noi vogliamo capire

l’uomo nella sua paradossalità dobbiamo rivolgersi al messaggio cristiano, perché questo ci dice che “lo

stato dell’uomo al presente differisce da quello della sua creazione”.

Solo il ruolo assegnato dalla fede cristiana al peccato originale “si mostra capace di sciogliere la

contraddizione della condizione umana rendendo compatibili i contrari della grandezza e miseria”.

Questa chiave di lettura della natura umana, che Pascal offre facendo leva sulla propria esperienza religiosa

ed attingendo dunque agli elementi fondamentali dal messaggio cristiano, non verrà meno con lo sviluppo

del pensiero moderno, che pure si esprime in una progressiva emancipazione dal dato religioso.

Due esempi, molto diversi fra loro: Kant e Leopardi.

Immanuel Kant (1724-1804) esprime una visione filosofica in cui i contenuti religiosi di fatto sono

totalmente ricondotti alla razionalità (cfr. “La religione entro i limiti della sola ragione”); tuttavia lo sguardo

sull’uomo proposto dal pensatore tedesco presenta interessanti analogie con l’impostazione pascaliana.

In particolare la Terza antinomia della Ragion pura riguarda una questione centrale per il pensiero

moderno: il rapporto fra “causalità naturale” e “causalità per libertà”.

Kant mette a confronto due posizioni opposte portatrici entrambe di una evidenza di legittimità:

a) “La causalità secondo le leggi di natura non è la sola da cui possono essere derivati tutti i fenomeni

del mondo. E’ necessario ammettere per la spiegazione di essi anche una causalità per libertà”;

b) “Non c’è nessuna libertà, ma tutto nel mondo accade secondo le leggi di natura”.

Kant aggiunge: “Disgraziatamente per la speculazione (ma forse per buona ventura del destino pratico

dell’uomo) la ragione è imbarazzata dagli argomenti pro e contro, e non le rimane dunque che riflettere

sull’origine di questo dissidio con se stessa”.

Come è noto il pensatore tedesco risolve l’antinomia distinguendo tra “fenomeno” (il carattere empirico) e

la “cosa in sé” (“noumeno”), cioè la dimensione intelligibile: il primo si muove nell’ambito dell’essere ed è

sottoposto a causalità naturale e dunque a necessità; il secondo ha a che fare con l’autonomia e la

spontaneità.

Sabato 24 novembre 2012 Relazione a cura del prof. Cisco Giuliano

Presento una citazione dallo Zibaldone di Giacomo Leopardi (1798-1837) solo per osservare che un autore,

che ha seguito un percorso intellettuale ed esistenziale decisamente diverso da quello di Pascal, è animato

da concezione dell’umano che presenta singolari affinità con quella pascaliana:

“Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà

dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza.

Quando egli considerando la pluralità dè mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima

parte d’uno degl’infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua

piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde

quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova quasi smarrito nella vastità incomprensibile

dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua

nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo

essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e

contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose. Certo niuno altro essere

pensante su questa terra giunge mai pure a concepire o immaginare di essere cosa piccola o in se o rispetto

all’altre cose, eziandio ch’ei sia, quanto al corpo, una bilionesima parte dell’uomo, per nulla dire dell’animo. E

veramente quanto gli esseri più son grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri si è l’uomo, tanto sono più

capaci della conoscenza e del sentimento della propria piccolezza. Onde avviene che questa conoscenza e

questo sentimento anche tra gli uomini sieno infatti tanto maggiori e più vivi, ordinari, continui e pieni,

quanto l’individuo è di maggiore e più alto e più capace intelletto e ingegno”.

Leopardi non troverà nella fede la risposta al suo desiderio di pienezza, ma il domandare che si esprime

nella sua poesia (o che è la sua poesia) non è certo privo di un profondo afflato religioso, come ha ben

evidenziato il teologo Divo Barsotti.

Passiamo al ‘900. Cosa è rimasto di questa riflessione sulla duplicità irrisolvibile della natura umana?

Sicuramente il pensiero del ‘900 è segnato dall’annuncio della “morte di Dio” e dall’immagine di uomo che

il pensiero di Nietzsche propone.

Una delle prime fondamentali conseguenze di quella riflessione sono ben rappresentate dalle seguenti

parole di M. Scheler (1874-1928):

“In nessun epoca, più che nella nostra, le vedute circa l’essenza e l’origine dell’uomo sono state più incerte,

più indefinite e molteplici (...) In quasi diecimila anni di storia noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è

divenuto completamente e interamente problematico a se stesso, in cui egli non sa più che cosa è, ma allo

stesso tempo sa anche che non lo sa. E solo in quanto si sia una buona volta intenzionati a fare tabula rasa

completamente di tutte le tradizioni concernenti (…) si potrà nuovamente pervenire a vedute durevoli. Ma si

sa quanto sia difficile fare questa tabula rasa. Perché qui siamo dominati dalle categorie tradizionali in

maniera più inconsapevole e, pertanto, più forte che in altre questioni”.

Sabato 24 novembre 2012 Relazione a cura del prof. Cisco Giuliano

(Uomo e storia, 1926)

Il pensatore esprime l’esigenza di una rifondazione del discorso sull’uomo proprio a partire

dall’impossibilità di parlare dell’essere umano nel modo in cui la cosa è stata fatta sino ad ora. Da ciò la

fondazione di una nuova disciplina filosofica, l’antropologia, che prenda sul serio gli sconvolgimenti

introdotti (nel pensiero e nella realtà) dalle scienze.

Se il clima culturale-filosofico della prima metà del ‘900 è segnato dalla fenomenologia e

dall’esistenzialismo, scuole filosofiche che in qualche modo mantengono aperto un legame fra finitezza

umana e una dimensione “altra” (per usare le due categorie del nostro incontro, un legame fra “miseria”

della condizione esistenziale e “grandezza” della possibile apertura di un orizzonte di senso), il pensiero

prevalente nella seconda metà del ‘900 sembra invece produrre una dissoluzione di un qualsivoglia

umanesimo e la riconduzione dell’umano ad elemento fra i molti di una “struttura” che preesiste a lui e

rispetto alla quale non può vantare alcuna presunzione di superiorità.

Le due figure più interessanti, a riguardo, sono M. Foucault (1926-1984), figura centrale dello

strutturalismo, e J. Derrida (1930-2004), figura di riferimento del decostruzionismo. In entrambi, anche se

in forma diversa, c’è la proposta di congedarsi definitivamente dall’idea che l’uomo abbia delle peculiarità

che lo rendono irriducibile rispetto al resto dei viventi.

Leggiamo due brevi citazioni di Foucault:

“Stranamente, l’uomo – la conoscenza del quale passa per pochi ingenui come la più antica indagine da

Socrate in poi – non è probabilmente altro che una certa lacerazione dell’ordine delle cose, una

configurazione, comunque tracciata dalla disposizione nuova che egli ha recentemente assunto nel sapere.

Sono nate di qui tutte le chimere dei nuovi umanesimi, tutte le facilità di un’”antropologia” intesa come

riflessione generale, semipositiva, semifilosofica sull’uomo. Conforta tuttavia e tranquillizza profondamente,

pensare che l’uomo non è che un’invenzione recente, una figura che non ha nemmeno due secoli, una

semplice piega nel nostro sapere, e che sparirà non appena questo avrà trovato una nuova forma”.

(Le parole e le cose, 1966)

Sabato 24 novembre 2012 Relazione a cura del prof. Cisco Giuliano

“Prima della fine del XVIII secolo, l’uomo non esisteva (…) L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia

del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima.

Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, se, a seguito di qualche evento di cui possiamo

tutt’al più presentire la possibilità ma di cui non conosciamo per ora né la forma né la promessa,

precipitassero, come al volgersi del XVIII secolo accadde per il suolo del pensiero classico, possiamo

senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia.

(Le parole e le cose, 1966)

E oggi?

Concludo questo breve percorso lasciando la parola ad una figura di intellettuale capace di confrontarsi

oggi con le questioni più scottanti. Si tratta di Pietro Barcellona (1936), docente di filosofia del diritto a

Catania e pensatore che ha compiuto un percorso di ricerca che lo ha portato, attraverso una militanza

pluridecennale nel PCI, ad avvicinarsi recentemente al messaggio cristiano e in particolare alla figura di

Gesù.

In un breve (ma densissimo) saggio (L’epoca del postumano) egli si confronta con le dinamiche

fondamentali del nostro tempo, segnato con tutta evidenza da una dimensione radicale di CRISI che può

essere così riassunta: “Sono tramontati i vecchi déi e non ne sono sorti di nuovi”.

Che cosa ne è, dell’uomo, in questa epoca? Secondo Barcellona oggi è diventato problematico persino

definire la specificità dell’essere umano, al punto tale che “l’uomo non è più definibile neppure come

campo di interrogazione”.

Il linguaggio stesso dell’antropologia è stato svuotato dal suo interno. Le domande fondamentali (Quando

nasce? Quando muore?) sono diventate problematiche.

L’intellettuale catanese definisce questa come l’epoca del postumano, perché le categorie che hanno

strutturato la tradizione occidentale (natura-cultura; vivente-inorganico) non sono più percorribili.

Dietro questa crisi, strutturale, ci sono per Barcellona due evidenze:

a) L’implosione dell’idea moderna di uomo come essere individuale, autonomo, privo di vincoli;

b) Il tonfo del comunismo, cioè del “più grande tentativo di assalto al cielo che gli esclusi abbiano mai

tentato”.

Con la fine del comunismo, in particolare, si è consumato l’ultimo progetto umanistico, capace di disegnare

un orizzonte di senso per milioni di persone.

Che cosa sopravvive, fra le macerie di questi crolli epocali? Che cosa rimane se la storia e il soggetto non

hanno telos?

Sabato 24 novembre 2012 Relazione a cura del prof. Cisco Giuliano

Rimane l’io come centro di bisogni, cioè la regressione verso un ideale infantile di individualismo narcisista.

Rimane, in altri termini, il consumatore, la mera logica del mercato.

Con ciò abbiamo il compimento, e al contempo la dissoluzione del soggetto moderno: la morte dell’uomo

conseguente alla morte di Dio.

Che fare, allora? Dobbiamo semplicemente rassegnarci alla progressiva rarefazione del concetto di uomo?

Di fronte a questo scenario di dissoluzione dell’uomo nel postumano non è possibile o sensato opporre

argomenti logici, ma solo la scelta di un’opzione fondamentale: la volontà di non consegnare

all’annichilimento la tradizione che ci è stata consegnata dai secoli passati e che ci aiuta a cercare il senso

per l’oggi.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

H. Arendt, Verità e politica, seguito da La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, Bollati Boringhieri

2004

P. BARCELLONA, L’epoca del postumano, Città Aperta Edizioni 2007

M. BRIGNONE, La duplicità dell’uomo. La dialettica antinomica in Kant e Pascal, Albo Versorio 2012

B. PASCAL, Pensieri,