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UBUNTU
AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale1
POPOLI in
CAMMINOdi Pasquale De Sole
INDICE2 Editoriale - "Popoli in cammino; un possibile punto di incontro"
di Pasquale De Sole
3•6 "Sull’economia dei paesi della fascia mediterranea dell’Africa"
di Ferruccio Marzano
7•11 "Tempeste di sabbia a sud del Mediterraneo" di Diego Casoni
12•14 "Zapatismo: un cammino di dignità per l’auto-sviluppo dei popoli"
di Francesca Minerva
15 Pensare sognando - "Mal d'Italia" di Giorgio Placidi
16 TAM TAM
Come dicevo nel precedente editoriale,
nessuno di noi poteva prevedere che il
tema scelto per Ubuntu 2011, “Popoli
in cammino”, sarebbe stato cosi drammatica-
mente di attualità. E’ un mondo, il mondo del
futuro, il mondo dei giovani che, sotto la spinta
di un richiamo che nasce dal profondo, si muove
verso uno spazio nuovo, uno spazio di luce rego-
lato dal pieno riconoscimento delle libertà fon-
damentali dell’essere umano.
E’ fin troppo facilmente comprensibile che que-
sto movimento di popoli sia influenzato anche, e
forse principalmente, da fattori economici i cui
meccanismi tuttavia a volte ci sfuggono. Ed è per
questo motivo che, insieme a testimonianze di
nostri compagni di viaggio che in qualche modo
camminano con questi popoli, ospitiamo un arti-
colo del prof. Ferruccio Marzano che ci aiuterà
a capire meglio i subdoli legami che legano le
nostre scelte economiche al destino di intere
nazioni. I popoli in cammino sono come masse
telluriche che possono fondersi lentamente o
scontrarsi in catastrofici eventi; a noi il compito
affinché prevalgano saggezza e responsabilità.
Di fronte alle situazioni di squilibrio che deter-
minano i movimenti dei popoli in cerca di giusti-
zia, c’è chi cerca soluzioni riducendo il numero
dei commensali alla mensa della vita attraverso
politiche miranti alla riduzione della natalità; c’è
chi, al contrario, le cerca aumentando la produ-
zione dei beni considerati necessari per società
sempre più complesse e sempre più esigenti e, a
volte, rifacendosi, frettolosamente a nostro avvi-
so, a documenti pontifici, collega la crisi econo-
mica attuale alle politiche di denatalità imperan-
ti nel mondo occidentale.
A noi sembra, più semplicemente, che la via più
saggia e responsabile per uscire fuori dalla situa-
zione di crisi che attanaglia il mondo e che
costringe popolazioni di giovani ad andare alla
deriva non si trovi né nelle politiche di denatali-
tà né in quelle che spingono al miraggio di una
crescita fine a se stessa.
Senza disconoscere il valore delle analisi fatte,
non si può sottacere l'importanza che i valori
della condivisione hanno nella vita economica.
Mai come in questo momento storico l'umanità
ha avuto a disposizione una quantità così eleva-
ta di energia, eppure, paradossalmente, più
aumentano le portate sulla mensa comune, mag-
giori e stridenti sono i contrasti tra chi vi ha
accesso e chi ne rimane escluso. Di fronte a
questa situazione, ci sembra che non abbia
senso aumentare il numero di chi porta le vivan-
de a tavola o ridurre forzatamente il numero di
chi ha accesso nella camera da pranzo: l'unica
soluzione veramente razionale e degna dell'uo-
mo deve contemplare che le abbondanti vivan-
de già poste sulla tavola vengano condivise equa-
mente nella gioia festosa della mensa comune.
A questo proposito, ci sembra significativo far
notare che i movimenti che stanno scuotendo
tanti Paesi del Nord-Africa e del Vicino Oriente
hanno trovato la condizione ideale del loro
innesco proprio nei nuovi strumenti informatici
e sociali, Facebook e Twitter, che in sommo
grado esprimono democrazia e condivisione. Di
fronte a questi processi non c'è altra soluzione
che facilitarne il corso diffondendo la cultura
della condivisione: altre soluzioni, come chiara-
mente ci indicano le cronache dei nostri giorni,
anche se, o proprio perché, bagnate di sangue,
sono destinate al fallimento.
UBUNTU
Quadrimestrale
dell’Auci-Onlus
Associazione Universitaria
per la Cooperazione
Internazionale
Anno 5 - Numero 14
Maggio - Agosto 2011
DIREZIONE E REDAZIONE
Largo A. Gemelli, 8
00168 Roma
Tel. 06/30154538
Fax: 06/35505107
E-mail: [email protected]
Sito internet: www.auci.org
DIRETTORE RESPONSABILE
Pasquale De Sole
REDAZIONE
Emanuele Bucci
Cinzia Callà
Diego Casoni
Paola Ceccarani
Ilaria Olimpico
Erica Nicolardi
Carlo Provenzano
Claudia Trevisani
GRAFICA
Alessandra Santoro
SEGRETERIA DI REDAZIONE
Ilaria Olimpico
CORRETTORE DI BOZZE
Pasquale Sbardella
CHIUSO IN REDAZIONE IL
30 Agosto 2011
Numero di copie stampate
n° 500
Autorizz. del Trib. di Roma
n. 157/2007 del 17 Aprile 2007
VIDEO COMPOSIZIONE,
INCISIONE, STAMPA E
ALLESTIMENTO:
Centro di formazione per le attività
grafiche “Giancarlo Brasca”
con annesso stabilimento tipografico
denominato COOPERATE
tel. 0766/571392
Testi e immagini possono essere
utilizzati liberamente citando la fonte
un possibile punto di incontro
AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
Comincio col richiamare l’attenzione
sulla car tina geografica dell'insieme
dei paesi prospicienti il
Mediterraneo. Guardando la car tina, si
riscontrano ben quattro gruppi di Paesi, i
quali – stanti le informazioni che ognuno di
noi ha sulla geografia, la storia, le vicende
anche dolorose che si sono succedute nel
tempo e che, al momento, r iguardano
soprattutto cer ti paesi del Nord Africa –
sono molto diversi tra loro sul piano socio-
economico. Se da un lato, ogni paese di cia-
scun gruppo ha un proprio “entroterra” cui
è naturalmente legato, dall’altro non può
non intrattenere rilevanti rappor ti con i
paesi dei diversi gruppi. In par ticolare, tali
rappor ti hanno come “sfondo” il Mar
Mediterraneo.
In primo luogo, abbiamo il gruppo dei paesi
dell'Europa sud-occidentale , cioè Italia,
Francia e Spagna. In secondo luogo, il blocco
dei paesi dell’Europa balcanica, cioè sud-
orientale, di cui si è tanto parlato nel recen-
te passato e per i quali, a volte, esistono solo
dati parziali che siano confrontabili, mentre
dati completi esistono per la Grecia; un
“caso a sé”, si noti, è quello della Turchia
europea che fa par te di un paese euro-asia-
tico. Il terzo blocco è quello dei paesi del
Medio Oriente che comprende Siria, Libano
e Israele, inclusa la Palestina; c’è peraltro un
problema quanto alla Giordania che, benché
non abbia un affaccio diretto, si potrebbe
anche considerare un paese mediterraneo
essendo strettamente legata alla Palestina.
Infine, abbiamo il gruppo dei paesi della
sponda meridionale del Mediterraneo:
Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Marocco.
Riferendomi in questa sede agli aspetti eco-
nomici, un concetto rilevante è quello di
“dotazione di risorse”, che non va inteso in
senso statico (com’è nell'approccio teorico
cosiddetto neoclassico-monetarista), ma in
senso dinamico (com’è, invece, nell’approc-
cio classico-keynesiano). A tale riguardo,
molti di questi paesi, esclusi quelli europei
ed Israele, pur “dotati” di enormi risorse
naturali, non sono ancora economicamente
“sviluppati”. I dati su tali risorse, in quanto
difficilmente confrontabili su basi omogenee,
non sono compresi nelle accluse Tabelle.
D’altro canto, nelle Tabelle fornirò taluni dati
che riguardano aspetti ugualmente fonda-
mentali di ordine socio-economico e che, in
par ticolare, concernono due aspetti cruciali
e largamente interdipendenti. Per tanto, si
tratterà di considerare un duplice ordine di
dati.
In primo luogo (Tabella I), occorre guardare
ai principali indicatori “tradizionali” del livel-
lo relativo di sviluppo di ciascun paese, così
come “messi a punto”, calcolati e pubblicati
annualmente dalla Banca Mondiale. Nello
specifico, si tratta del livello del reddito reale
pro capite, espresso in dollari USA in “pote-
re d’acquisto standard” (SPA), che vuol dire
2
Sull’economia dei paesi della fascia
mediterranea dell’Africa
...in cammino verso la libertàdi Ferruccio Marzano (*)
a parità di potere d’acquisto sul piano inter-
nazionale; e ciò, in quanto rispecchia meglio
del cambio di mercato i cosiddetti “fonda-
mentali” dei vari paesi. Non solo, ma sarà
parallelamente fatto riferimento ad altri indi-
catori similari, quali l’incidenza nel PIL dei
macrosettori produttivi di agricoltura, indu-
stria e terziario, del saldo investimenti-
risparmi, e dell’andamento delle espor tazio-
ni.
In secondo luogo (Tabella II), è da conside-
rare comparativamente il cosiddetto “Indice
di sviluppo umano”, indicatore questo che –
sulla base dei noti studi dell'economista A.
Sen – viene annualmente calcolato e pubbli-
cato dal Programma per lo Sviluppo delle
Nazioni Unite (UNDP) ed è un indicatore
sintetico composto (con cer ti pesi “appro-
priati”) da tre “indici”: il livello del reddito
reale pro capite, un indice sul livello della
salute rappresentato dalla vita media attesa
alla nascita, ed un indice sul livello dell’istru-
zione rappresentato, in par ticolare ma non
solo, dal cosiddetto tasso di alfabetizzazione.
Quanto all’indicatore “reddito reale pro
capite” (Tabella I), le distanze sono ancora
enormi, benché si siano un po’ ridotte. In
effetti, nei tre blocchi considerati, si passa, da
una media di circa 30.000 dollari con diffe-
renze intorno a 1.000 dollari nel blocco
“europeo” (dove è stata compresa anche la
Grecia) ad una media più bassa per il blocco
mediorientale (dove c'è la situazione “ano-
mala” di Israele), dove si hanno livelli medi
molto più bassi in Siria e Giordania, ad una
media ancora più bassa per il blocco nord-
africano. Pur troppo, non abbiamo dati con-
frontabili per l’Europa balcanica e quindi non
possiamo comprendere, in tale confronto,
anche quei paesi che cer tamente fanno
par te delle economie del Mediterraneo.
Quanto all’aspetto “sviluppo umano”, che è
par te integrante di qualsiasi analisi che sia
attenta all’umanizzazione dell’economia
(Tabella 2), è chiaro che il punto di par tenza
è ancora il riferimento agli andamenti com-
parati del reddito reale pro capite, ma que-
sto è, come detto, visto insieme a due altri
fondamentali indicatori. Il punto è che le
situazioni su questi due fronti, il livello di
“vita prospettica” e di istruzione, per lo più
riproducono la stessa graduatoria tra paesi
messa in luce dai dati comparativi sul reddi-
to reale pro capite; ma ciò è vero solo in
par te.
D’altro canto, quanto alle prospettive oggi, è
chiaro che la nota situazione di turbolenze in
atto in tutti i paesi dell’Africa mediterranea
non consente di formulare ipotesi attendibi-
li e generalizzate sul prossimo futuro.
Per tanto, non posso che astenermi dal for-
mulare previsioni specifiche.
Tuttavia, sul piano generale dirò che, perso-
nalmente, non ho mai condiviso le tesi che
erano state largamente sottoscritte nella
Conferenza di Barcellona e che, in par ticola-
re, si riferivano all’istituzione di un’area
euro-mediterranea di libero scambio. Sono
invece stato sempre convinto che quella non
possa essere la soluzione “accettabile” dal
punto di vista del reale sviluppo economico
dei paesi della sponda meridionale (ma simi-
le sarebbe il discorso per quella orientale)
del Mediterraneo. In proposito, a mio avviso,
dal punto di vista economico vi sono quat-
tro punti da considerare.
In primo luogo, chiediamoci: quand’è che
funziona un’area di libero scambio? Come
noto, un’area di libero scambio è un’area in
cui si aboliscono le barriere agli scambi tra i
paesi, mentre un mercato comune è un’area
3AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
UBUNTU
Tabella I: confronto PIL individuale espresso in $ SPA. Fonte: Banca Mondiale, World Develoment
Report 1999/2000 (per i dati dell'anno 1998) e 2009 (per i dati dell'anno 2007)
La soluzione è che si vada
verso la costruzione di
forme di integrazione
regionale
4AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
in cui c’è qualcosa in più, perché non solo si
aboliscono le barriere commerciali tra i
paesi ma anche si formula un’identica politi-
ca tariffaria verso l’esterno; una comunità
economica ha in più ancora qualcos’altro,
perché ha anche aspetti di politica economi-
ca comune. La risposta è che “funziona”
allorché le economie sono complementari,
non funziona allorquando le economie siano
conflittuali o succedanee l’una rispetto all’al-
tra.
Si consideri che una tale area dovrebbe
coinvolgere non solo l’Europa sud-occiden-
tale e il Nord Africa, ma anche il Medio
Oriente e l’Europa balcanica, altrimenti si
sarebbe in presenza, per così dire, di una
inspiegabile limitazione. L’area di libero
scambio, così come concepita nel caso con-
siderato, non andrebbe comunque bene: le
agricolture dei paesi nord-africani sono agri-
colture competitive, incentrate su prodotti
simili con impor tanti sovrapposizioni con le
produzioni agricole dell'Italia e della Spagna
meridionali. Né ai nord-africani né ai sud-
europei questo è un punto che può essere
facilmente taciuto: in effetti, solo dicendo le
cose come sono, emergono nella loro effet-
tiva por tata i reali problemi.
Secondo, l’industria è in grandissima par te
concentrata da noi, paesi dell’Europa sud-
occidentale. Allora, cosa veramente cerca la
nostra industria? Di avere mercati dove
espor tare sempre di più. Questo è quindi un
altro, e cruciale, aspetto che implica che
l’area di libero scambio proposta non funzio-
na se non si prendono accorgimenti, cioè
concrete misure di politica industriale per le
economie più deboli che, però, non mi pare
ci siano nell’ipotesi por tata avanti a
Barcellona.
Il terzo punto riguarda le fonti energetiche
ed è un aspetto molto impor tante per noi
europei. Qui il discorso si ribalta: noi vor-
remmo averne sempre di più ed a prezzi
convenienti; ma non si capisce perché e a
che prezzi quei paesi dovrebbero darcele,
invece di utilizzarle di più e meglio per la
propria industrializzazione di area. D’altro
canto, con i rivolgimenti e le turbolenze in
atto nei vari paesi del Nord Africa, non si
vede proprio come, al momento, si possa
essere realmente propositivi.
Come quar to, ed essenziale, punto, dobbia-
mo considerare quello che noi europei pos-
siamo offrire loro in termini di tecnologie,
conoscenze, ecc. E' su queste basi che, oggi
più che mai, va impostato qualsiasi processo
di sviluppo economico; ma, allora, non è
proprio possibile affidarsi al mercato, in
quanto ne deriverebbero - com’è stato
segnalato nella più avveduta letteratura spe-
cialistica sullo sviluppo economico- circoli
vir tuosi in Europa e viziosi in Nord-Africa.
Mi sia consentito, in proposito, riferirmi criti-
camente a quanto il prof. Baumol, un noto
economista statunitense, ha affermato in
un’impor tante relazione presentata ad un
Convegno a L’Aquila nel 2000. Baumol ha
sostenuto la tesi che il problema del trasfe-
rimento delle tecnologie tra paesi ricchi e
poveri si può (e forse, a suo avviso, si deve)
affrontare in termini di prezzi. Tuttavia, a mio
avviso, chiediamoci: di quali prezzi si tratta?
Per Baumol si dovrebbe trattare dei cosid-
detti “prezzi-ombra”, non di prezzi di merca-
to. Allora, è chiaro che ciò presuppone che
vi sia un’Autorità “centrale” – o, magari, più
Ogni paese ha un proprio
entroterra ma non può
non intrattenere rilevanti
rapporti con gli altri
paesi, avendo come sfon-
do il Mar Mediterraneo.
Lo sviluppo umano è parte
integrante di qualsiasi
analisi che sia attenta
all’umanizzazione del-
l’economia ...
Autorità “cooperanti” – che li calcolino e li
sottopongano, tramite adeguati incentivi,
alle imprese interessate; ma nulla di tutto
questo è pensabile per un’Area di libero
scambio.
Viceversa, qual è la soluzione alternativa
che propongo? La mia soluzione è che si
vada verso la costruzione di forme di inte-
grazione regionale, laddove “ovviamente”
parlo di macroregioni. In concreto, io dico: i
blocchi non-europei puntino a studiare e
realizzare, con gradualità, ma anche con
determinazione, ipotesi e forme di integra-
zione economica a livello macroregionale,
così come è stato fatto in Europa.
Prendiamo il caso del Nord-Africa (quelli
del Medio Oriente e dell’Europa balcanica
possono essere analizzati su basi consimili).
Ebbene, non c’è nessun motivo, viste le
cose dall’esterno, per cui i paesi del Nord-
Africa non possano costruire da e per loro,
insieme, non tanto un’Area di libero scam-
bio, quanto una Unione doganale (o un
Mercato comune) o, ancor meglio, una
Comunità economica. Cer to, le difficoltà
sono tante, ma è a mio avviso sbagliato par-
lare di utopia; e, comunque, dato che l’uto-
pia viene fatta sempre dagli altri, si lasci fare
un po’ di utopia anche agli economisti!
(*) Professore di Economia dello sviluppo
5
UBUNTUUBUNTU
UBUNTU
AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
Tabella 2: Raffronto delle varie componenti dell'ISU. Fonte: UNDP, Human Development Report 2009
6AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
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Sono passati ormai diversi mesi da
quando, il 17 dicembre 2010, un
tunisino venticinquenne, venditore
ambulante abusivo di nome Tariq
Bouazizi, si è dato fuoco a Bin Arus in
Tunisia, perché la polizia gli aveva seque-
strato la merce. L'evento è stato l'inizio
della “rivoluzione dei gelsomini” che ha
costretto il presidente Ben Alì a lasciare
il potere e ha avviato una serie di pro-
teste tuttora in corso nel Maghreb e nel
Mashreq.
Le cause strutturali del sisma
paiono subito evidenti: popolazioni gio-
vanissime private del loro futuro da oli-
garchie senescenti e corrotte; ingiustizie
sociali alimentate da rendite energeti-
che appannaggio di poteri familiar-triba-
li, d'intesa con le companies e i governi
occidentali e asiatici; disoccupazione
endemica; aumento dei prezzi dei beni
alimentari determinato dalle speculazio-
ni finanziarie sulle commodities; finte
democrazie fino all'ultimo definite
“moderate” solo perché disponibili a
farsi imporre qualunque cosa dalle
potenze occidentali; protagonismo delle
nuove tecnologie di comunicazione di
massa “Facegooyout” (Facebook,
Google, Youtube, Twitter) e delle tv
satellitari arabe Aljazeera e Alarabiya.
Tutto ciò ha provocato un processo di
rivendicazioni che ha scardinato sistemi
di potere destinati altrimenti a replicar-
si all'infinito.
La reazione del venditore tunisino
Bouazizi richiama alla memoria il mona-
co buddista vietnamita Thich Quang
Duc che si diede fuoco a Saigon nel
1963, per protestare contro il regime
corrotto e dispotico del Vietnam del
Sud. Anche allora fu l'inizio della fine,
ma in un contesto bipolare ci vollero
dodici anni di guerra terribile; difficile
dire cosa accadrà oggi a sud del
Mediterraneo, in un contesto anomalo
come quello attuale in cui le “guerre
umanitarie” difficilmente conducono a
nuove forme di stabilità politica ma
lasciano piuttosto dietro di sé vuoti di
potere o frammentazioni, come dimo-
strano la Somalia, la Bosnia-Erzegovina,
l'Iraq e l'Afghanistan.
Per una simbolica coincidenza
le dimissioni del presidente egiziano
Mubarak sono cadute proprio l'11 feb-
braio, lo stesso giorno in cui nel 1979
di Diego Casoni (*)
TEMPESTE DI SABBIA A SUD
DEL MEDITERRANEO
7AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
scoppiò la rivoluzione islamica in Iran.
L'Egitto, per storia e cultura, ha sempre
rappresentato per il mondo arabo-sun-
nita un faro verso cui trovare un model-
lo di riferimento, così come l'Iran sciita,
discendente dell'antica Persia, ha sem-
pre attratto su di sé le sor ti del Medio
Oriente. Ogni altro parallelismo con
l'Iran del 1979 sarebbe forzato, anzi è
interessante cogliere le differenze tra i
due eventi. Gli egiziani che sono insor ti
hanno scandito slogan concreti e non
ideologici, né tanto meno r ifer iti
all'Islam: è questa la principale differen-
za con l'Iran del 1979. Cer to, allora
come oggi i nuovi strumenti di comuni-
cazione hanno avuto un ruolo fonda-
mentale: allora le audiocassette di con-
trabbando con incisi i messaggi di
Khomeini in esilio, oggi i social network.
Ma i giovani del Cairo, seppure in stra-
grande maggioranza musulmani, non
hanno fatto uso dell'Islam come ideolo-
gia politica. Una insurrezione dunque
laica e nazionalista, ma assolutamente
priva di ogni riferimento al panarabismo
nasseriano: lo slogan principale era
infatti molto più concretamente “il
popolo vuole la caduta del regime”.
Un inatteso salto di livello della
protesta si è verificato il 15 febbraio
quando è stata la Libia ad essere investi-
ta dall'insurrezione di Bengasi, capitale
storica della Cirenaica, in seguito all'ar-
resto a Tripoli di un avvocato per la dife-
sa dei diritti civili. Questa volta però ne
è scaturito uno scontro armato, con
pesante intervento di divisioni, merce-
nari governativi, carri armati e aerei.
Subito altre città sono insor te: Tobruk,
Misurata. E' stato subito percepibile
quanto enorme fosse il divario di mezzi
a disposizione tra le par ti in conflitto, e
ci si è resi conto che senza aiuto ester-
no la repressione sarebbe stata dura e
veloce. Si è avviato così il circolo vizio-
so della disinformazione per accelerare
l'intervento della comunità internazio-
nale.
Nessuno ha cercato di capire e tutti si
sono preoccupati che ciò che stava
accadendo a poche centinaia di km
dall'Europa non mettesse in pericolo la
sicurezza a nord del Mediterraneo. In
par ticolare in Italia, in seguito ai primi
sbarchi a Lampedusa, si è gridato ad un
nuovo "tsunami umano". Meglio allora
intervenire, anche forzando un po' la
mano. E così ha avuto inizio l’intervento
armato anche se in maniera confusa e
maldestra. La baldanzosa armata
Brancaleone europea ha trovato ancora
una volta la sua salvezza tirando per la
giacca una recalcitrante NATO che le ha
por tato in dote almeno una maggiore
organizzazione e consapevolezza tattica.
Nel frattempo, il conflitto armato è
ancora in corso, e se la no-fly-zone ha
avuto l’immediato risultato di mettere
quantomeno in condizione di parità
governativi e ribelli, dal punto di vista
militare si è registrato un andamento a
fisarmonica, da primo conflitto mondia-
le, con avanzate e ritirate, cittadine che
passavano di mano in mano, senza alcu-
na prospettiva di soluzione nel breve
periodo che non sia l’intervento con
truppe di terra, oppure una defezione
impor tante all’interno del blocco ghed-
dafiano che possa mettere fuori scena il
rais.
Ma perché tutto è divampato dalla
Tunisia? Le ragioni risiedono in una
miscela esplosiva composta da un regi-
me clanico-familiare corrotto e autore-
ferenziale che governava ormai dal
1987, anche se non tra i più autoritari;
da un discreto livello di liber tà di stam-
pa che ha consentito alle nuove genera-
zioni di tenersi informate e unite attra-
verso i social network; da un buon livel-
lo del sistema di istruzione e formazio-
ne pubblica che ha por tato ad avere una
emergente classe medio borghese, fru-
strata economicamente e socialmente,
perciò esasperata e pronta a tutto.
8AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
UBUNTU
E perché in Libia, e non in Tunisia o in
Egitto, è iniziata la “guerra umanitaria”?
Perché sia in Tunisia che soprattutto in
Egitto l'esercito non è intervenuto mili-
tarmente contro la popolazione insor ta.
In Tunisia, l’esercito ha sollecitato la fuo-
riuscita del presidente Ben Alì per cal-
mare gli animi e comunque tentare di
mantenere il potere; in Egitto l’esercito
ha posto il presidente Mubarak agli
arresti domiciliari sul Mar Rosso e non
all’estero. L'esercito egiziano, organizza-
zione storicamente amata perché ar tefi-
ce e baluardo dell'indipendenza nazio-
nale e anche ampiamente considerata in
quanto protagonista di spicco del tessu-
to economico manifatturiero del paese,
ha svolto consapevolmente quel ruolo
di tenuta delle istituzioni che altrimenti
avrebbero potuto essere facilmente tra-
volte dagli eventi. In un paese strategico
per tutto il Medio Oriente l'esercito
rappresenta ancora la “nazione egizia-
na” in grado di deporre il proprio capo
e gestire così la transizione politica
verso le elezioni.
La Libia, invece, era ed è completamen-
te diversa. Innanzitutto un paese con
una società non omogenea, organizzata
in strutture tribali territoriali. Una "non-
nazione" costituita da un'area geografica
occidentale, la Tripolitania, e una orien-
tale, la Cirenaica, storicamente in lotta
tra di loro, al cui interno le strutture
sociali, tribali e claniche, costituiscono
ancora il cardine su cui gestire l'organiz-
zazione delle comunità locali. Due terri-
tori eterogenei messi insieme soltanto
nella storia recente con la dominazione
italiana del primo Novecento. Ed osser-
vando la geografia del territorio non
può non notarsi come sia lo stesso
deser to del Sahara a trovare sulle spon-
de del Golfo della Sir te la sua estrema
propaggine, contribuendo così a separa-
re l'evoluzione storica e politica dei due
territori. Il Maghreb, ossia il mondo
arabo occidentale, quell'area geografi-
co-culturale che comprende Marocco,
Algeria e Tunisia, trova la sua delimita-
zione più nell'area deser tica libica e non
tanto, come si potrebbe immaginare, nel
Mar Rosso. Lo dimostra la stessa storia
millenaria dell'Egitto. Un'area geografica
e politica che, incentrata sul corso del
fiume Nilo, si è sempre relazionata, con-
frontata e scontrata con i territori e i
regni ad est piuttosto che ad ovest. Ecco
che allora il Mashreq, l'area araba orien-
tale, culturalmente inizia in Egitto e non
soltanto nella mezzaluna fer tile medio-
rientale. E non è un caso che la stessa
figura di Gheddafi provenga da una tribù
minore, quella dei Ghadafi, originaria
dell'area geografica della Sir te, collocata
al centro della Libia, in territorio neutro
nella contesa storica tra le tribù della
Tripolitania, i Warfalla in primis, e della
Cirenaica, con la confraternita dei
Senussi. Gheddafi, dunque, attraverso
l'intramontabile metodo del divide et
impera si è presentato come la sintesi
della contesa libica nel riscatto rivolu-
zionario beduino nei confronti del
mondo esterno, soprattutto del passato
coloniale.
Del resto il potere di Gheddafi si basa-
va su quattro principali fattori: un pro-
cesso di redistribuzione delle ricchezze
nazionali; una popolazio-
ne complessiva non
superiore a 6 milioni di abitanti; un
imponente sistema di sicurezza volto a
controllare e reprimere oppositori poli-
tici, mass media e movimenti islamisti;
infine, un attento gioco di influenze tra
le tribù e le famiglie locali libiche. Negli
ultimi anni, però, la combinazione tra
aumento ver tiginoso dei prezzi alimen-
tari e un tasso di disoccupazione tra
giovani e donne salito intorno al 30% ha
creato le condizioni perché si cogliesse
dopo quarant’anni di dispotismo l'occa-
sione che i vicini stavano offrendo.
Dunque la Libia come area geografico-
politica debole rispetto ai suoi vicini.
Ecco il fattore endogeno che ha per-
messo che lì e non altrove un "interven-
to armato umanitario" da par te della
comunità internazionale potesse trovare
la sua più profonda attuazione. Il fatto
che il sottosuolo libico sia ricco di gas
naturale e petrolio (il 9% della produ-
zione mondiale, di tipologia sweet ossia
a basso tenore di zolfo, come quello del
sud Iraq, con minori costi di raffinazio-
ne!) e che sia governato dal 1969 da un
despota eccentrico non fa che arricchi-
re lo scenario. Peraltro, Gheddafi è stato
riabilitato dagli Stati Uniti già dal 2005,
nell'esigenza maldestra di trovare un
alleato in Africa nella lotta al terrorismo
islamico e, più recentemente, anche
dall'Italia che ha delegato al rais l'affare
sporco di ridurre la pressione migrato-
ria sub-sahariana verso l'Europa, anche
attraverso la costituzione di campi di
detenzione, e che si è mossa per entra-
re in affari economici nel campo ener-
getico.
La "primavera araba" arriva però ad una
svolta decisiva con il coinvolgimento
della Siria, paese cui la storia e la geo-
grafia hanno conferito un enorme ruolo
politico nell’area mediorientale. E’ il 15
marzo quando Damasco si risveglia con
centinaia di manifestanti. Ma è a Daraa,
capoluogo della regione agricola e triba-
le del Hawran, che iniziano le proteste
più massicce. "Il muro della paura è crol-
lato", è lo slogan degli insor ti. Damasco,
per tutta risposta, ha immediatamente
scelto di percorrere la strada della
repressione violenta. Va sottolineato
che le mobilitazioni e gli scontri più
consistenti si sono avuti lontano dalle
grandi città del paese, verso la
Giordania, il Libano e la Turchia, in zone
rurali dominate da clan tribali che da
secoli gestiscono gli affari locali. Un
controllo diretto del territorio, dun-
que, che ha permesso di mobilitare in
poco tempo tutta la comunità e, in
par te, di proteggere i suoi membri da
arresti indiscriminati da par te del regi-
me. Qui, però, le cause dell'insurrezione
non vanno ricercate nei social network
e negli scenari internazionali: la regione
del Hawran, ad esempio, è il granaio
della Siria, e da anni c’è malcontento
popolare a causa della mancata assisten-
za da par te dello Stato ad un territorio
da sei anni afflitto dalla siccità e da una
massiccia immigrazione interna.
Finalmente un segnale arriva il 19 aprile,
quando le autorità di Damasco hanno
annunciato l'approvazione di tre proget-
ti di legge "per l'abrogazione dello stato
d'emergenza", in vigore dalla presa del
potere nel 1963 da par te del par tito
Baath, leggi che a tutt'oggi non sono
entrate in vigore perché attendono la
firma di un Bashar al-Asad non piena-
mente convinto.
A questo punto, però, va detto che
Nessuno ha cercato di
capire e tutti si sono pre-
occupati che ciò che stava
accadendo a poche centi-
naia di km dall'Europa non
mettesse in pericolo la
sicurezza a nord del
Mediterraneo. In partico-
lare in Italia, in seguito ai
primi sbarchi a
Lampedusa, si è gridato ad
un nuovo
"tsunami umano".
9AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
UBUNTU
quello che sta accadendo in Siria non
è verificabile sul terreno. O si crede ai
media governativi di Damasco o agli
attivisti per i diritti umani e ai testimo-
ni oculari citati dalle tv panarabe satel-
litari. Con quasi tutti i giornalisti stra-
nieri espulsi dal paese e con i pochi
presenti impossibilitati ad allontanarsi
dal centro di Damasco, seguire gli
avvenimenti significa assemblare testi-
monianze, dichiarazioni, comunicati e
raccontare le immagini di video ama-
toriali, senza poter di fatto verificare
l'esattezza dei racconti e, in molti casi,
l'autenticità delle stesse fonti. Del
resto la Siria è un paese nevralgico
tanto che se il governo di Asad doves-
se cadere tutta la mappa delle allean-
ze e relazioni politiche dei paesi del-
l'area verrebbe a ridisegnarsi! E' sor to
dunque un curioso confronto tra gli
analisti: quelli che credono che le pro-
teste nascano spontaneamente dagli
abitanti delle varie regioni del paese
contro un regime dittatoriale al pote-
re da quasi mezzo secolo; e quelli che
credono invece che si tratti di manife-
stazioni guidate dall'estero per desta-
bilizzare il regime degli al-Asad in fun-
zione anti-iraniana e, quindi, pro-israe-
liana. E allora qualche riflessione sup-
pletiva andrebbe fatta: perché quando
al Cairo squadre di lealisti armati,
spesso criminali comuni evasi grazie al
regime per seminare terrore e disordi-
ne, hanno aggredito i manifestanti di
piazza Tahrir e i giornalisti che tentava-
no di raccontare gli eventi, nessuno ha
gridato al complotto straniero? Perché
affermare che le manifestazioni che
avvengono in prossimità delle zone di
confine sono sostenute da infiltrati
stranieri quando basta osservare una
car ta geografica della Siria per accor-
gersi che le città sono tutte esterne al
centro del paese, peraltro deser tico?
Perché le autorità siriane hanno espul-
so i giornalisti occidentali? Anche loro
potrebbero esser testimoni del com-
plotto e raccontarlo al mondo. Cosa
non devono vedere e raccontare i
giornalisti stranieri? E se fosse un com-
plotto ordito dall'estero, perché mai
gli Stati Uniti dovrebbero indicare
ancora Bashar al-Asad come possibile
uomo delle riforme? E perché da
Israele non si è levata nessuna voce
ufficiale che chieda un inter vento
armato da par te della comunità inter-
nazionale? Infine, perché la comunità
internazionale non sta spingendo per
un intervento armato a sostegno della
popolazione civile, così come ha fatto
nei confronti della crisi libica?
Peraltro un intervento in Siria non è
cosa semplice. La Siria non è la Libia.
La Libia era in fondo un paese del
tutto avulso dalle evoluzioni politiche
della regione e dei suoi vicini. La Siria
per contro è dentro il conflitto arabo-
israeliano, l’ unico paese confinante a
non avere stipulato ancora una pace
con Israele. Dentro le vicende del
Libano, con da ultimo il coinvolgimen-
to diretto nella mor te del premier
Hariri. La Siria è l'unico paese della
regione ad avere un accordo militare
con l'Iran. Ciò significa che un even-
tuale intervento armato anche umani-
tario in Siria non potrà vedere indiffe-
rente il ruolo dell'Iran. Ma l'Iran non è
di cer to né l'Iraq di Saddam Hussein,
né tanto meno l'Afghanistan dei
Taliban. L'Iran aspira ad aumentare il
suo peso nella regione per un punto di
vista politico, culturale ed economico.
In quest'ultimo caso il programma di
arricchimento nucleare per uso indu-
striale potrebbe essere barattato con
l'amico siriano.
Proviamo a questo punto a
trarre qualche considerazione da
quanto sta accadendo a sud del
Mediterraneo. Il cambiamento politi-
co nella regione potrà essere rallenta-
to, limitato, controllato, ma la configu-
razione del mondo arabo non sarà più
quella del passato. I grandi processi
storici maturano, del resto, per dinami-
che interne più che da fattori esterni.
I nuovi protagonisti sulla
scena politica sono i milioni di giovani
che rivendicano un futuro dignitoso.
Musulmani che aspirano ad essere cit-
tadini di Stati di diritto e non sudditi di
emirati islamici o di repubbliche eredi-
tarie. Questi giovani però ad oggi sem-
brano mancare ancora di piattaforme
concrete di rivendicazioni, soprattutto
di organizzazione. E di questa la
costruzione democratica ha un assolu-
to bisogno per stabilire le agende poli-
tiche. E' un fatto quindi che in Tunisia
la transizione la sta gestendo ancora
l'esercito, anzi l'establishment legato al
clan di Ben Alì, mentre in Egitto la par-
tita molto probabilmente se la gioche-
ranno i due unici soggetti sociali orga-
nizzati e radicati sul territorio: l'eserci-
to e i Fratelli Musulmani.
Non dobbiamo dimenticare
che la democrazia è un processo con-
tinuo di ricerca dei migliori livelli di
convivenza, di giustizia e liber tà.
Individuati i principi e valori
assoluti che vanno a costi-
tuire la base di riferimento,
è legittimo che i percorsi
possano essere diversi. A
questo proposito un esem-
pio lo offre la cosiddetta
area del movimento demo-
cratico filo-occidentale, rap-
presentata in qualche modo
da el-Baradei in Egitto: un
bravo gentleman dallo spes-
sore internazionale , con
modesto seguito nel suo
Paese.
Tuttavia, c'è da
tener presente che ciò che
sta accadendo a sud del
Mediterraneo non sono
rivoluzioni, come spesso i
media hanno definito. La
r ivoluzione prevede un
cambio netto di regime, e
ad oggi questo non si è veri-
ficato ancora in nessuno dei
paesi arabi in ebollizione. E
non è detto che sia una
cosa negativa. La direzione
dei processi democratici è
determinata dalle categorie
culturali e dalle strutture
sociali che la storia e la geo-
grafia di una comunità
hanno sviluppato. Tutti gli
autocrati, da Ben Ali a
Mubarak, da Gheddafi a al-
Asad sono sintesi di più
ampi blocchi di potere, cer-
tamente non rappresentativi
del paese, ma non semplicemente ad
uso e consumo dei diretti singoli lea-
der. La Turchia del premier Erdogan,
unico esempio di par tito islamico
giunto a governare un paese dell'area
per via democratica, si propone, così,
come modello di riferimento.
Di sicuro niente potrà essere
più come prima. Fino allo scorso anno
il sud del Mediterraneo sembrava
esser destinato ad un low profile tanto
da farcene dimenticare l'esistenza.
Oggi lo riscopriamo in maniera trau-
matica. Questi paesi arabi e musulma-
ni stanno nascendo adesso come labo-
ratori di democrazia perché finora
erano stati governati dalle evoluzioni
storiche dei soggetti politici che aveva-
no compiuto, a par tire dal secondo
dopoguerra, la lotta di liberazione dal
colonialismo europeo (Egitto, Tunisia,
Algeria) o da costole di essi che suc-
cessivamente avevano optato per
10AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
colpi di stato (Iraq, Siria, Libia). Nei due
casi par ticolari del Marocco e della
Giordania, monarchie politico-religiose
discendenti da Maometto e dunque
meno a rischio di legittimazione, l'op-
zione per il processo democratico sem-
bra più favorevole nel primo piuttosto
che nel secondo. Il Marocco, in una
buona performance economica, sta
investendo nel sociale e nel politico,
riconoscendo finalmente anche la sua
matrice berbera. La Giordania, invece,
ha meno margine di manovra perché
circa il 60% della sua popolazione è di
origine palestinese, e dunque la monar-
chia hashemita, da simbolico-rappresen-
tativa, difficilmente può riuscire ad esse-
re anche maggioritaria senza alcuna
concessione.
Israele risulta essere il grande
sconfitto politico. Se davvero la rivolu-
zione egiziana impiantasse la democra-
zia al Cairo, per Gerusalemme sarebbe
una sofferenza psicologica prima ancora
che strategica. Sarebbe la dimostrazione
che l'idea che la componente arabo-
islamica sia estranea all’impostazione
democratica è sbagliata e pregiudiziale.
E verrebbe ancora una volta svelato
quanto, molto spesso, alcuni blocchi di
potere trovino la legittimazione a gover-
nare piuttosto in relazione a fattori
esterni che non da piattaforme politiche
provenienti della propria società di rife-
rimento.
Un paradosso non solo di
Israele ma di tutta l’area. Ricordiamo
infatti che il Medio Oriente, il
Mediterraneo arabo e musulmano è da
sempre considerata un’area politica
pericolosa, instabile, turbolenta. Con il
conflitto arabo-israeliano in funzione
dirimente di catalizzatore di alleanze e
guerre, però, tutti i paesi dell’area si
sono consolidati conferendo la parados-
sale staticità all’area. Il pericolo del
nemico alle por te, che fosse di matrice
islamica, palestinese o israeliana, in tutti
i paesi è stato utilizzato dalle élite al
potere per costruire autocrazie spesso
ereditarie e inossidabili nel tempo e per
reprimere democrazia, giustizia e liber tà
al proprio interno. Un circolo vizioso, e
viziato a più riprese dalle stesse demo-
crazie occidentali, che ha mantenuto,
finora, tutti gli attori locali ed interna-
zionali lontani dal cammino verso la
loro risoluzione. Soltanto quando questi
paesi arabo-islamici cominceranno a
vedersi par te di un territorio e di una
comunità con interessi complementari,
con popolazioni crescenti in cerca di
dignità e futuro, saranno soddisfatte le
condizioni della pace e del progresso.
Un prospettiva di sviluppo questa per
tutte le nazioni che si rispecchiano nelle
acque del Mediterraneo.
11AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
UBUNTU
Di fronte alla gravità della crisi
ambientale, ai crescenti squilibri
nel pianeta e alle sfide poste dal-
l’attuale modello di globalizzazione, i proget-
ti di cooperazione dovrebbero porsi come
strumento per contribuire a una profonda
trasformazione delle strutture e delle rela-
zioni economiche, sociali e politiche globali.
E questo processo di cambiamento è possi-
bile solo se passa per il rafforzamento e la
crescita della società civile, a tutte le latitudi-
ni del mondo.
Questo, in sintesi, è l’insegnamento che
abbiamo ricevuto dalle popolazioni zapati-
ste del Chiapas, con cui lavoriamo da diver-
si anni.
Siamo los hermanos y las hermanas solida-
rias de otros países, “I fratelli e le sorelle soli-
dali di altre parti del mondo”, termine usato
dagli zapatisti per riferirsi alla rete nazionale
e internazionale che li sostiene. Molti di noi
sono arrivati in Chiapas attratti dai comuni-
cati del Subcomandante Marcos. Ci siamo
emozionati quando abbiamo ascoltato quel
poeta e idolo di una nuova rivoluzione, ma
solo dopo aver vissuto nei villaggi indigeni e
conosciuto gli uomini minuti e le donne
timide delle comunità zapatiste, abbiamo
capito che erano loro la vera essenza di
questa rivoluzione. Il loro essere rivoluzio-
nari non sta nell’aver letto Marx o nel dibat-
tere su quale componente del comunismo,
del socialismo o dell’anarchia vada riscattata,
consiste piuttosto in una pratica di resisten-
za quotidiana: nel rifiutare le vacche, i polli, le
costruzioni in cemento, le dispense alimen-
tari e i fertilizzanti chimici distribuiti dal
governo nell’ambito dei progetti di “sviluppo
comunitario”, perché “il “Mal Governo -
dicono - non può comprare la nostra digni-
tà con la carità”. La loro resistenza sta nel
rispetto della “Madre Terra”, negli orti
comunitari in cui lavorano tutti insieme per-
ché “il collettivo è la forma per crescere”.
Consiste nel non vendere sottocosto i frut-
ti del proprio lavoro e nell’organizzare reti
di economia solidale.
Il dialogo tra la società civile nazionale e
internazionale e i popoli zapatisti si è anda-
to costruendo fin dai giorni immediatamen-
te successivi al levantamiento zapatista, date
le grandi abilità comunicative dell’EZLN
(Ejercito Zapatista de Liberación Nacional)
e l’“universalità” del suo messaggio.
Quando, il 1° gennaio del 1994, migliaia di
indigeni incappucciati e armati di fucili di
legno uscirono dalla Selva e dichiararono
guerra al Governo messicano, occupando
sette capoluoghi municipali dello Stato del
Chiapas, apparve subito chiaro che non si
trattava di uno dei tanti episodi di guerriglia
latinoamericana. Vi erano elementi nuovi
nelle rivendicazioni, nel linguaggio e nella
strategia di questo esercito indigeno.
L’EZLN, formato da contadini di diverse
etnie maya, rivendicava il diritto fondamen-
tale alla vita. Costretti a coprirsi il volto per
essere “visti” e a scegliere la via armata
come “misura estrema ma giusta”, gli zapati-
sti dichiaravano guerra al governo messica-
no “non per usurpare il potere, ma per eser-
citarlo”.
Nel manifesto della Prima Dichiarazione
della Selva Lacandona, che fece rapidamen-
te il giro del mondo, l’EZLN, rivolgendosi al
popolo messicano, sintetizzava in dieci punti
le sue richieste: “I dittatori stanno applican-
do una guerra genocida non dichiarata con-
tro il nostro popolo da molti anni. Pertanto,
chiediamo la vostra partecipazione, la vostra
decisione di appoggiare questo piano del
popolo messicano che lotta per lavoro,
Zapatismo: un cammino di dignità
per l’auto-sviluppo dei popolidi Francesca Minerva (*)
12AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
UBUNTU
terra, tetto, alimentazione, salute, educazio-
ne, indipendenza, libertà, democrazia, giusti-
zia e pace. Dichiariamo che non smettere-
mo di combattere sino a quando i bisogni
elementari del nostro popolo non saranno
soddisfatti da un governo del nostro paese
libero e democratico”. Con queste parole si
presentava alla
stampa il subcomandante Marcos,
un meticcio che parlava di sé come “indio”.
Arrivato nella Selva dieci anni prima per
organizzare una rivoluzione, si trovò, così
come successe anche al vescovo Samuel
Ruíz García inviato da Roma per catechizza-
re gli indigeni, a impregnarsi dei valori di una
cultura sottomessa e a mettere da parte le
sue certezze. Sfruttando l’arte della parola e
le nuove tecnologie, Marcos ha dato voce
alla simbologia e alla tradizione delle comu-
nità maya, attraverso comunicati stampa,
discorsi e racconti che presentavano un’im-
magine inaspettata e leggendaria di questo
esercito indigeno.
Al dì là delle simpatie o antipatie che l’EZLN
poteva suscitare, apparve subito chiara
all’opinione pubblica la legittimità delle sue
rivendicazioni, che esprimevano la condizio-
ne sociale non solo degli indigeni del
Chiapas, ma degli indios del resto del Paese,
così come degli esclusi di altre parti del
mondo, denunciando le contraddizioni
intrinseche al modello economico dominan-
te.
Scegliendo come data per l’insurrezione il
1° gennaio 1994, giorno in cui entrava in
vigore il trattato di libero commercio tra
Messico, Stati Uniti e Canada, gli zapatisti
indicavano come principale responsabile
dello stato di povertà e disuguaglianza nel
mondo la nuova architettura finanziaria ed
economica mondiale, e mettevano in luce
come il potere si stesse concentrando sem-
pre più nelle mani di pochi organismi inter-
nazionali, come l’Organizzazione Mondiale
del Commercio, la Banca Mondiale e il
Fondo Monetario che decidevano, in modo
tutt’altro che democratico, le sorti dell’eco-
nomia mondiale imponendo un modello di
“sviluppo” dai forti costi sociali.
Il fatto di essere un movimento senza volto,
come simboleggia la scelta del passamonta-
gna, ha permesso l’identificazione con la
loro causa da parte di vasti settori della
società. Gli zapatisti individuano questa
nuova strategia rivoluzionaria non nella lotta
per la presa del potere, bensì nella costru-
zione del potere a partire dal rafforzamen-
to della società civile e da un ampliamento
delle forme di partecipazione politica, socia-
le e culturale in grado di ridar vita al concet-
to stesso di democrazia, qualcosa di ben più
profondo della periodica elezione di rap-
presentanti investiti di potere che decidono
in nome degli elettori. La via suggerita dagli
zapatisti per la trasformazione sociale passa
dunque per il rafforzamento della capacità,
di tutti gli uomini e le donne di questo
mondo, di decidere per ogni ambito della
vita quotidiana, dall’economia, alla politica,
alla salute, all’educazione, all’amministrazio-
ne della giustizia.
Le comunità zapatiste si sono strutturate in
modo autonomo dopo il lungo e comples-
so processo di negoziazione tra l’EZLN e il
Governo messicano. Dopo il fallimento dei
Dialoghi di San Andrés sui diritti e la cultura
indigena, i popoli zapatisti hanno visto chiu-
sa ogni porta per il raggiungimento della
pace attraverso il dialogo. “Abbiamo allora
cominciato ad avviare i municipi autonomi
I progetti di cooperazione
dovrebbero porsi come
strumento per contribuire a
una profonda trasformazio-
ne delle strutture e delle
relazioni economiche, sociali
e politiche globali
13AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale
ribelli zapatisti, che è la forma in cui si sono
organizzati i popoli per governare e gover-
narsi, per rendersi più forti. […] L'EZLN ha
deciso l'applicazione, solo da parte sua,
degli Accordi
di San Andrés e dalla metà del 2001 fino a
metà del 2005 ci siamo dedicati a questo”
(Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona,
comunicato dell’EZLN del Giugno 2005;
http://www.ipsnet.it/Chiapas/comunic.htm).
Il funzionamento dell’autonomia zapatista
prevede che ogni comunità nomini le pro-
prie autorità locali e i propri delegati per
ogni municipio. Le autorità municipali a loro
volta compongono le Giunte di Buon
Governo, organi di coordinamento tra vari
municipi che hanno sede presso cinque
Caracoles (letteralmente “chiocciole”). Con
questo sistema, a turno, il popolo, si autogo-
verna.
Il motto “mandar obedeciendo” (comanda-
re obbedendo), inoltre, propone un nuovo
modo di esercitare questo potere che,
riprendendo le tradizioni indigene comuni-
tarie e assembleari, consiste nel sottoporre
ogni passo alla volontà delle maggioranze.
Proponendo questa analisi in un momento
di crisi della politica e della rappresentanza,
il movimento zapatista ha avuto il merito di
offrire un profondo ripensamento delle
strutture economiche, politiche e sociali esi-
stenti. Ha fornito un contributo fondamen-
tale alla sinistra e ai movimenti in termini di
riflessione e di analisi politica anticipando
quel dibattito sviluppatosi nei Forum sociali
mondiali a partire dall’anno 2000.
La strategia zapatista di creare spazi di par-
tecipazione e di incontro, non solo a livello
indigeno e nazionale, ma anche internazio-
nale, ha portato migliaia di persone in
Chiapas a visitare le comunità insorte e ad
elaborare con loro progetti di solidarietà.
(*) Responsabile Progetto Tatawelo
Il progetto Tatawelo:
una rete a sostegno dell’autonomia zapatista
Il progetto Tatawelo (“avo” in tzeltal) è una delle molteplici trame tessute per sostenere il proces-
so di autonomia. Abbiamo scelto di farlo attraverso la commercializzazione del caffè raccolto dalla
Cooperativa zapatista Ssit Liquil Lum (“I frutti della Madre Terra”), composta da un migliaio di soci.
Oltre ad acquistare il caffè ad un prezzo equo, a finanziare progetti di formazione sull'agricoltura
organica e per il rafforzamento del mercato locale, l'Associazione Tatawelo garantisce ai produt-
tori, al momento dell'ordine, il pagamento anticipato di almeno il 70%. Questo consente alla coo-
perativa di disporre di risorse finanziarie per comprare gli strumenti necessari alla raccolta e alla
lavorazione del caffè, trasportare il caffè fino al porto d'imbarco e far fronte alle spese di sussisten-
za quotidiana.
Lo sviluppo del progetto passa attraverso la partecipazione dei Gruppi di Acquisto Solidali, delle
Botteghe del Mondo, della Cooperativa Pawahtun, impegnata nel reinserimento lavorativo nella
filiera del caffè di ex detenuti, della Cooperativa Libero Mondo, co-importatore, e di tutte quelle
realtà che, attraverso l’acquisto di un buon caffè, hanno deciso di sostenere il cammino delle comu-
nità del Chiapas.
Oggi, grazie all’economia solidale, i produttori partecipano a corsi di agro-ecologia, vendono anche
sul mercato locale e non dipendono più da meccanismi iniqui di indebitamento. A noi continuano
ad offrire quotidianamente preziosi strumenti per comprendere la nostra stessa società, elaborare
risposte creative alle nostre necessità, riflettere sui grandi temi della partecipazione, dei beni comu-
ni e della salvaguardia delle risorse naturali.
Gli zapatisti individuano una
nuova strategia rivoluzionaria
non nella lotta per la presa
del potere, bensì nella
costruzione del potere a
partire dal rafforzamento
della società civile
UBUNTU
AUCI - Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale14
Se ne stava raggomitolato in un quadratone in legno scuro 70x50, con il
volto segnato dalla stanchezza e lo sguardo fisso nel vuoto, quasi si aspet-
tasse da un momento all’altro di vedere un lembo di terra. Per arrivare alla
spiaggia era rimasto acquattato tutto il pomeriggio nel portabagagli di
un’auto mezza sgangherata aspettando di attraversare il confine. Poi era
sceso dove non si poteva proseguire e aveva camminato per 5 chilometri
facendo finta di niente. Di quel posto lì aveva già sentito parlare e, sgan-
ciata la grana a chi doveva, s’era compattato tra la folla.
Balzato in fretta e furia sul barcone, aveva adocchiato e subito scelto quel-
l’angolo di paradiso, un po’ per costrizione, un po’ perché gli sembrava uno
dei meno scomodi rimasti. Tutt’intorno altri uguali e diversi da lui se ne sta-
vano appollaiati a poppa con le gambe semiflesse, poggiando il petto con-
tro le ginocchia con la stessa delicatezza della farfalla che indugia sul peta-
lo del fiore, ma a guardarli insieme parevano una figliata di criceti in gab-
bia, parenti serpenti perché adesso lì lo spazio c’era sì, ma quando sareb-
bero arrivati chissà.
In realtà prima di partire tutti pensavano di sapere più di tutti, ma non appe-
na lasciarono la costa s’accorsero all’unisono che nessuno sapeva più
nulla.
Così si guardavano restando in silenzio, squadrando di sfuggita le geome-
trie ferree dei loro musi lunghi. Avresti potuto perderti nel reticolo di rughe
mappato sulla sua fronte: “Ahmed vuoi fumare?” – gli aveva chiesto a
bassa voce un’ombra alla sua sinistra – “Questo è il tabacco nostro!
Prendi! E se ti chiedono chi te l’ha dato non dirlo”. Ma lui non fumava e non
parlava, se ne infischiava delle sigarette e aveva sempre preferito avere
due polmoni sani.
Da quando aveva messo piede su quel barcone era stato tutta la notte
perso in una surreale confusione di orizzonti falsati dal buio, prossimo alla
bulimia del bocchettone di scarico che gorgogliava continuamente, abbuf-
fandosi d’acqua e rivomitandola fuori bordo.
All’alba gli sembrava di stare ancora in alto mare, al pomeriggio stessa
sensazione, e un’altra notte stava trascorrendo. Erano passate 29 ore
ormai da quando aveva sborsato tutti i suoi risparmi al compare di quello
scafista con la cicatrice sulla guancia: quasi 2000 dìnari libici racimolati qua
e là per la traversata.
E all’improvviso pensò che avrebbe potuto impiegare tutto quel denaro in
qualche altro progetto, certo diverso da una fuga; ma questa idea lo sfiorò
appena, ché già s’era ricordato della guerra civile, del fratello trucidato alla
manifestazione in Cirenaica dalla Guardia Nazionale, e di quanto ancora
fosse vivo dentro di sé lo spettro della vendetta: si chiamava Karim; lui sì
che era un eroe, perché s’era battuto per la libertà, per l’Idea, comunque
per qualcosa in cui credeva, giusta o sbagliata che fosse. “Io, per me, sono
un fuggiasco” – pensava, continuando a ripetersi in testa un antico prover-
bio arabo come una preghiera che martella le meningi – “Non sono le
asperità del terreno a far male ai piedi, ma i sassolini che entrano dentro le
scarpe”.
In fondo non doveva importargliene più nulla. Le sue scarpe le aveva ven-
dute appena prima di partire per far scivolare qualche soldo in più dentro
le tasche…altro che sassolini! Non era mai stato uno sprovveduto in vita
sua, ecco perché aveva pensato già prima d’andarsene a quando sarebbe
arrivato. Perché sarebbe arrivato. Prima o poi li avrebbero avvistati.
Succede sempre così! Sempre. Sempre…
Conosceva tutte le storie che circolavano sull’immigrazione clandestina; le
dicerie sui campi d’accoglienza, che d’accogliente hanno solo il nome; di
come avrebbero potuto trattarlo una volta che i suoi piedi, nudi e scuri
come chicchi di caffè, avrebbero preso contatto con un suolo quasi africa-
no, che poteva non essere poi tanto diverso da quello che aveva lasciato
qualche giorno addietro…Lampedusa, l’Italia, di cui finora aveva solo sen-
tito parlare alla televisione o indirettamente, gli erano sembrate distanti
anni luce quelle due notti, ma dal profondo, Dio le aveva disegnate vicinis-
sime come un’ennesima e più primitiva Creazione michelangiolesca.
Si sfiorò le labbra con un dito e percepì in quel gesto il sapore del sale, del-
l’umido, della coltre di nebbia che lo vestiva: “Un giorno tornerò; ma lo farò
quando il mio paese sarà libero. Riabbraccerò la mia famiglia dopo averla
sistemata”, e intanto lo scenario era sempre lo stesso, soltanto la luce s’era
accentuata solcando le nubi: acqua tutt’intorno e di gabbiani nemmeno a
parlarne.
La carretta di mare proseguiva per la sua rotta. A occhio e croce sarà stata
lunga poco più di sette metri, larga quattro: erano cinquantuno in tutto, e la
mente matematica di Ahmed li aveva contati una dozzina di volte per vive-
re quelle lunghe ore con almeno una certezza nel cuore. Tra loro staziona-
va pure una donna incinta, ed era stato bello vedere come tutti l’avessero
aiutata non facendole mancare il proprio appoggio: si sa, su queste imbar-
cazioni di fortuna non ci stai tranquillo, eppure in quella circostanza era
come se preoccuparsi di lei e di chi sarebbe venuto al mondo, alleggeris-
se un poco il timore di tutti gli altri; ma certo non poteva dirsi buonismo, era
proprio natura, indole. Chissà se in Italia le cose sarebbero rimaste le stes-
se: tante dinamiche possono ribaltarsi quando la fame ti graffia lo stomaco
e il sangue zoppica sulla strada che conduce al cervello.
“Sdum!Sdum!Sdum!”.
Di punto in bianco un esercito di occhi si levò al cielo per rispondere al
richiamo d’un rumore indefinito che pareva venire dal cielo: quello svento-
lio d’eliche, ritmico e pesante, fu come ascoltare una voce sicura e accalo-
rata che urlava: “Vi abbiamo visto!”. Tutti si alzarono in piedi: era il loro
modo di sentirsi presenti; e guardando oltrelimite scorsero una lingua di
terra che ancora si confondeva lungo l’immensa distesa marina.
Reinventandosi cittadini del mondo risposero al grido con forza: “Viva
l’Italia!”.
Nemmeno Ahmed riuscì a stare fermo. Levatosi in piedi di scatto, spalan-
cò le mascelle stirando le corde vocali, perché tutta la sua disperazione
giungesse lontano, fino a lassù, a quel fatidico enorme mostro meccanico,
di certo più amico dei mostri che aveva dentro.
Mal d’Italia
Pensare sognando
di GIORGIO PLACIDI
TAM TAM AUCI
FAME ZERO: PERCHE' LA SOLIDARIETA' DIVENTI GIUSTIZIAE' stata approvata dalla Provincia di Roma la richiesta di contributo per il progetto "Fame Zero:perchè la solidarietà diventi giustizia", presentato dall'AUCI in partenariato con l'Associazione"Comunità Papa Giovanni XXIII - Condivisione fra i Popoli Onlus" e "Association of Pope John 23rd".Il progetto si svolge nei compound-baraccopoli di Kaniala, Nkwazi, Chifubu, Kawama e Kabushi dellacittà di Ndola, in Zambia. L’insicurezza alimentare incide in modo significativo sulla salute e sulle proba-bilità di sopravvivenza dei bambini, nonché sul loro sviluppo mentale e psicologico. Il progetto offre a375 bambini (di età inferiore a 5 anni) malnutriti servizi di assistenza attraverso valutazioni settimanalidello stato nutrizionale, distribuzione settimanale di un supplemento alimentare e supporto alle madri-tutrici tramite l’avvio di attività agricole e lezioni socio-sanitarie, inoltre prevede una formazione per glioperatori locali e la realizzazione di un pozzo idrico nel compound di Kabushi.
Ultimissime not izieUlt imissime not izie
Allora un uomo ricco disse Parlaci del Dare. E
lui rispose Date poca cosa se date le vostre ric-
chezze.
EE quandoo datee voii stessii chee datee veramente.
Vi sono quelli che danno poco del molto che
possiedono per avere riconoscimento e questo
segreto desiderio contamina il loro dono.
E vi sono quelli che danno tutto il poco che
hanno. Essi hanno fede nella vita e nella sua
munificenza e la loro borsa non mai vuota.
Vi sono quelli che danno con gioia e questa la
loro ricompensa.
Vi sono quelli che danno con rimpianto e questo
rimpianto il loro sacramento.
EE vii sonoo quellii chee dannoo senzaa rimpiantoo nné
gioiaa ee senzaa curarsii dell merito.. Essii sonoo comee il
mirtoo chee laggii nellaa vallee effondee nelll’aria
laa suaa fragranza.
Spesso dite Vorrei dare ma solo ai meritevoli . Le
piante del vostro frutteto non si esprimono cos
n le greggi del vostro pascolo. Essee dannoo per
viveree perchh serbaree è perire.
Siate prima voi stessi degni di essere colui che d
... Poich in verit la vita che d alla vita men-
tre voi che vi stimate donatori non siete che
testimoni...
Kalhil Gibran Il profeta
CENTRO DI FORMAZIONE
ARTI GRAFICHE
“GIANCARLO BRASCA”Tipografia Cooperate
Tel. 0766 571392 - Fax 0766 571700E-mail: [email protected]
ALLORA UN UOMO RICCO DISSE: PARLACI DEL DARE. ELUI RISPOSE: DATE POCA COSA SE DATE LE VOSTRE RICCHEZZE.E’ QUANDO DATE VOI STESSI CHE DATE VERAMENTE.VI SONO QUELLI CHE DANNO POCO DEL MOLTO CHEPOSSIEDONO PER AVERE RICONOSCIMENTO E QUESTOSEGRETO DESIDERIO CONTAMINA IL LORO DONO.E VI SONO QUELLI CHE DANNO TUTTO IL POCO CHEHANNO. ESSI HANNO FEDE NELLA VITA E NELLA SUAMUNIFICENZA E LA LORO BORSA NON È MAI VUOTA.VI SONO QUELLI CHE DANNO CON GIOIA E QUESTA È LALORO RICOMPENSA.VI SONO QUELLI CHE DANNO CON RIMPIANTO E QUESTORIMPIANTO È IL LORO SACRAMENTO.E VI SONO QUELLI CHE DANNO SENZA RIMPIANTO NÉGIOIA E SENZA CURARSI DEL MERITO. ESSI SONO COME ILMIRTO CHE LAGGIÙ NELLA VALLE EFFONDE NELL’ARIALA SUA FRAGRANZA.SPESSO DITE: “VORREI DARE MA SOLO AI MERITEVOLI”. LEPIANTE DEL VOSTRO FRUTTETO NON SI ESPRIMONO COSÌNÉ LE GREGGI DEL VOSTRO PASCOLO. ESSE DANNO PERVIVERE, PERCHÉ SERBARE È PERIRE.SIATE PRIMA VOI STESSI DEGNI DI ESSERE COLUI CHE DÀ... POICHÉ IN VERITÀ È LA VITA CHE DÀ ALLA VITA, MENTREVOI, CHE VI STIMATE DONATORI, NON SIETE CHETESTIMONI...
KALHIL GIBRAN – IL PROFETA