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70 Scienza e Conoscenza - n. 39, gennaio/febbraio/marzo 2012 Un grande mistero geologico Sabrina Mugnos Pietre Erranti: le Sliding Stones della Racetrack Playa – Parte seconda 70 Scienza e Conoscenza - n. 39, gennaio/febbraio/marzo 2012 C i siamo lasciati in terra californiana e, pre- cisamente, nel cuore della sua magnifica Valle della Morte, dandoci appuntamento per andare ad esplorare un fenomeno geo- logico tanto unico quanto peculiare ovvero il movi- mento, ancora non ben spiegato, di decine di pietre sulla superficie essiccata di un antico lago dal nome Racetrack Playa. Racetrack Playa Un’immagine satellitare mostra la posizione della Valle della Morte (Death Valley) rispetto alla Racetrack Playa, messa in evidenza dal circolo rosso.

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Un grande misterogeologico

Sabrina Mugnos

Pietre Erranti: le Sliding Stones della Racetrack Playa – Parte seconda

70 Scienza e Conoscenza - n. 39, gennaio/febbraio/marzo 2012

Ci siamo lasciati in terra californiana e, pre-cisamente, nel cuore della sua magnifica Valle della Morte, dandoci appuntamento per andare ad esplorare un fenomeno geo-

logico tanto unico quanto peculiare ovvero il movi-mento, ancora non ben spiegato, di decine di pietre sulla superficie essiccata di un antico lago dal nome Racetrack Playa.

RacetrackPlaya

Un’immagine satellitare mostra la posizione della Valle della Morte (Death Valley) rispetto alla Racetrack Playa, messa in evidenza dal circolo rosso.

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Prima di raccontare le sue stranezze, però, dobbiamo raggiungerlo, e anche oggi non è sempre impresa faci-le. Pernottando a Furnace Creek (uno dei due posti in cui è possibile dormire all’interno della Death Valley, l’altro è Stovepipe Wells), occorre percorrere un centi-naio di chilometri di strada asfaltata, per poi attaccare uno sterrato lungo una quarantina di chilometri che conduce al sito.Percorrendolo le sue condizioni non sembrano così proibitive da giustificare la sinistra fama di divoratore di gomme che si è guadagnato. Eppure, ad un esame attento del suolo, si capisce il perché di tale nomea. La grande aridità del clima ha portato il manto stradale ad assumere la consistenza del cemento. E dal momento che è ricoperto di uno strato di sassi calcarei (alcuni grandi anche svariati centimetri) di forma appuntita, ne consegue che quando le gomme vi transitano sopra, non riuscendo a comprimerli nel terreno subiscono la loro penetrazione e possono letteralmente andare in pezzi. Questo, almeno, è quanto è successo a me nel corso della prima visita: per questo, la volta successiva, ho noleggiato un poderoso Hummer con ruote grandi la metà di me e ultra robuste. Ma a detta dei ranger neanche in quel caso ero completamente al sicuro! Chiudono il “comitato di benvenuto” le temperature sahariane che, d’estate, portano il motore delle auto letteralmente in ebollizione (scaldato già dall’in-dispensabile aria condizionata), e surriscaldano le

Il cratere vulcanico (sotto) Ubehebe si trova all’inizio del

percorso che conduce alla Racetrack Playa.

Un’immagine satellitare ingrandita della Racetyrack Playa.

La macchia scura visibile in alto è una formazione rocciosa nota come Grandstand Rock.

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gomme già provate. Infine, non conviene neanche invocare la pioggia, perché le rare volte che arriva, almeno in questa zona, assume le vesti di violente tempeste che possono letteralmente allagare la strada e scavare ampie e profonde fosse che poi si riempiono d’acqua.Per farla breve, chi decide di avventurarsi laggiù deve avere almeno due ruote di scorta (ed essere pronto a sostituirle come, appunto, feci io un anno fa), acqua per abbeverare il radiatore, un minimo di dimesti-chezza per la guida fuoristrada in modo da evitare il più possibile traumi per le gomme, ed un buono spirito di avventura (accompagnato da una scorta di viveri ed acqua), mettendosi nell’ordine di idee di poter rimanere bloccato laggiù in attesa di aiuti, se le cose si mettono male. Anche perché, giusto per mette-re la ciliegina sulla torta, non c’è copertura telefonica, o è debole e intermittente. L’unica nota positiva è che ogni tanto qualcuno passa, ma bisogna vedere chi.Comunque non voglio metterla peggio di quanto non sia. Non siamo nel cuore della taiga siberiana, sul Tassili africano o sperduti nella foresta guatemalteca! C’è sicuramente di molto peggio. E poi la fortuna aiuta gli audaci.Il suggestivo cratere vulcanico Ubehebe è il primo scorcio paesaggistico che si abbandona sulla sinistra una volta imboccato il bivio per la Playa, per poi immergersi lentamente in una vera e propria distesa dei caratteristici alberi di Joshua.

Ma un costante senso di apprensione per il timore di rimanere in panne accompagna per tutto il percorso, acuendosi ad ogni tonfo che si ode salire dal sotto della vettura, e non si placa finché non si arriva al segnale che indica la vicinanza della meta. E questo segnale si chiama Teakettle Junction, una sorta di ampio cartello di segnalazione in legno dove è nata e si è alimentata la consuetudine di appendere bollitori da tè.

Proseguendo verso la meta, da lì a qualche minuto, guardando sulla sinistra, si vede comparire all’oriz-zonte una chiazza biancastra allungata e appiattita, macchiata da una piccola protuberanza scura a due punte che, man mano, diventa l’abbacinante distesa della Racetrack Playa.Quello che si vede altro non è che la superficie essic-cata di un antico lago che si distende da Nord a Sud per una lunghezza di circa 4.5 chilometri ed è larga solo un paio, perfettamente piatta (il Nord è più alto di soli 5 centimetri!).

Quando si raggiunge il cartello di segnalazione della Teakettle Junction, si è vicini alla Racetrack Playa. La curiosa usanza di appenderci i bollitori da tè sembra sia stata iniziata dai primi viaggiatori, che avendo sperimenta-to sulla loro pelle il bisogno di rifornire il radiatore dell’au-to, hanno cominciato a lasciare i pentolini per poter essere utilizzati come recipienti per attingere la preziosa acqua da una sorgente vicina.

Gli alberi di joshua sono tipici di alcune zone del sud ovest americano. Per un buon tratto bordano la strada che conduce alla Racetrack Playa. Sembra che furono chiamati in questo modo da alcuni pionieri mormoni, che a metà dell’800, nel corso del duro viaggio di attraversamento delle zone desertiche, videro nella sua

forma un incoraggiamento da parte di Dio a proseguire.

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Si arriva sulle sue “sponde” dal lato Nord, dove si è subito accolti dalla grande protuberanza quarzosa chiamata Grandstand Rock. Si tratta di un blocco roc-cioso alto una ventina di metri, dalla cui cima mam-mellonata è possibile avere una visione panoramica di tutto il lago.

Pietre che camminanoMa il fenomeno che ci interessa studiare, e che ha reso noto il luogo, lo si incontra percorrendo un altro paio di chilometri in auto e raggiungendo il lato Sud del lago. Qui, si abbandona la comodità delle quattro ruote e si caricano armi e bagagli per attraversare, a piedi, l’intera larghezza del lago e recarsi dalla parte opposta, a ridosso delle montagne. E già lungo il percorso si notano pietre di varie forme e dimensioni, apparentemente abbandonate solitarie in mezzo alla

grande distesa; ma avvicinandosi si scopre che nel posto in cui sono ci sono giunte strisciando lungo la superficie argillosa, e lasciando profonde e caratteristi-che tracce dietro di sé.In pratica ci troviamo di fronte a decine di rocce in prevalenza calcaree (di varietà nota come dolomia), le cui dimensioni variano da quella di una noce a macigni pesanti decine di chilogrammi (il più pesante censito pesa 320 kg), di forma tutt’altro che tondeg-giante, anzi, spesso squadrata e spigolosa, che striscia-no letteralmente sul suolo, avendo la forza di asportare anche il cumulo di fango che si va depositando lungo la direzione di movimento. Le distanze che percorrono sono variabili, e vanno da poche decine di centimetri a centinaia di metri, fino a qualche chilometro.Ma oltre che di lunghezza, le tracce che si lasciano alle

Ci troviamo di fronte a decine di rocce in prevalenza calcaree, le cui dimensioni variano da quella di una noce a macigni pesanti decine di chilogrammi che strisciano letteralmente sul suolo, avendo la forza di asportare anche il cumulo di fango che si va depositando lungo la direzione di movimento

Dopo aver percorso 27 miglia (circa 40 chilometri) dall’attacco, in prossimità dell’Ubehebe Crater, l’immagine del lago

appare sulla sinistra all’orizzonte, come fosse uno splendido miraggio

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spalle variano anche di profondità e paradossalmente, massi molto piccoli possono scavare solchi profondi.Per quello che riguarda la direzione delle tracce, la prevalenza dei massi sembra muoversi da SSW verso NNE, dopo essersi staccata dal pendio a Sud. E spesso più rocce si muovono parallelamente, intersecandosi, poi, a formare intricati reticolati.Il movimento non è continuo. Per intenderci, se tor-niamo dopo un’ora, un giorno o una settimana trovia-mo tutto come lo abbiamo lasciato (a parte la spari-zione di alcune pietre a causa degli “astuti” cacciatori di souvenir, che oltre a creare un danno alle ricerche sciupano la spettacolarità del fenomeno). A meno che, in quel frattempo, non avvenga qualcosa di grosso, come qualche violenta tempesta con vento, pioggia e magari neve. Allora lo scacchiere può cambiare forma. Tuttavia il fatto che il luogo sia così remoto e inacces-

sibile, e che gli spostamenti avvengano probabilmente proprio nel corso di pessime condizioni atmosferiche, quando è quasi impossibile recarvisi per assistere, fanno sì che non si abbiano informazioni precise rela-tive al momento in cui avvengono i movimenti.Ricordo che il pendio, ovvero la nursery delle pietre, è raggiungibile solo a piedi. Già col cielo sereno e la temperatura gradevole, il posto suscita una certa inquietudine; il vento ulula emettendo versi agghiac-cianti, e la desolazione è disarmante. Figuratevi a tempesta in atto!Ne consegue che nessuno ha mai visto muoversi le pietre, sebbene il fenomeno si conosca almeno dall’i-nizio del secolo scorso, e dal 1948 comparve nella prima pubblicazione ufficiale nel Bollettino della Società Geologica Americana per mano degli studiosi Mc Allister e Agnes.

Un’immagine della Grandstand Rock ripresa dalla zona Sud del lago. In primo piano si notano alcune tracce con le rispettive pietre.

Un’immagine del margine della Grandstand Rock ripresa dalla sua sommità. La linea di costa, ben demarcata, al confine con l’inizio della protuberanza rocciosa, lascia immaginare come doveva essere il paesaggio quando c’era ancora l’acqua.

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Eppur si muovonoEbbene, cosa anima tali rocce? Come comprensibile sono state formulare le più disparate ipotesi, talvolta anche rocam-bolesche.Ovviamente non ci sono esseri umani o folletti a spostar le pietre nottetempo, come minuscole quan-to elusive forme di vita microbiche a traghettarle da una parte all’altra del lago. D’altro canto invocare fenomeni magnetici non ha senso perché le pietre, essendo fatte di semplicissimo calcare, non conten-gono minerali ferromagnetici; così come non hanno trovato riscontro studi di sismica quando è stata avanzata l’ipotesi che il loro errare fosse innescato da moti tellurici.

Molto più semplicemente, il fatto che la prevalenza delle rocce segua la direzione dei venti dominanti, ha fatto avanzare l’ipotesi che la spinta esercitata da questi ultimi fosse il loro motore principale. Ma non sempre e non solo, ovvero sarebbe necessaria la conco-mitanza di un altro ingrediente, cioè la pioggia abbon-dante, in grado di accumularsi per qualche centimetro sul suolo e fluidificarlo.Tuttavia, per spiegare il percorso intricato e, talvolta, caotico delle tracce la teoria si è spinta oltre, invo-cando l’aiuto del ghiaccio. In pratica, in talune con-

In alto una sequenza di quattro immagini, mostra alcune sliding rocks con la loro rispettiva traccia. Quest’ultima varia di ampiezza, profondità e lunghezza a seconda della forma e della dimensione della roccia che l’ha prodotta. Ma l’impronta tipica è sempre bordata da due spessi margini laterali, a riprova del fatto che la pressione esercitata sul suolo è comunque notevole.

In questa immagine la pietra che ha scavato il profondo solco, messo in evidenza dall’ombra che produce, sta nel palmo della mano.

L’immagine è stata ripresa da nord ver-so sud, e si nota chiaramente di come le

rocce inizino il loro percorso partendo dai piedi del pendio che si lasciano alle

spalle, per piegare poi verso est

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dizioni, la formazione di un sottile strato ghiacciato ingloberebbe le rocce. Poi, sotto la spinta di raffiche di vento violente e irregolari, la superficie ghiacciata si frammenterebbe in lastre che si sposterebbero, ruo-tando, in varie direzioni e, grazie alle rocce imballate nel loro interno, raschierebbero la superficie fangosa producendo le tracce.In effetti il ragionamento è alquanto macchinoso, ma è l’unico di cui disponiamo. La brutta notizia è che non spiega svariate osservazioni sul campo. Per esempio ci sono impronte che si incrociano praticamente perpendicolarmente, ed altre paral-lele ma con direzione opposta! Come posso-no fare tutto ciò le lastre di ghiaccio mosse dal vento? Moti opposti a distanze così ravvicinate? Ma non solo. Il fatto, forse, più inverosimile è trovare impronte anche molto articolate aventi rocce a tutte le estremità! Quale complessa dinamica può spiegare tutto questo?E perché non tutte le pietre si muovono?I punti irrisolti, come si vede, sono ancora molti, sebbene sia verosimile che gli unici elementi naturali in grado di innescare il fenomeno siano il vento e uno stato particolare del suolo (bagnato o ghiacciato che sia), perché le rocce non hanno nulla di speciale. Anzi, la loro forma e le dimensioni non agevolano certo il movimento.Ma finchè qualcuno non sarà testimone con qualche occhio meccanico del movimento, le Sliding Stones della Racetrack Playa rimarranno un affascinante mistero geologico ed uno straordinario spettacolo naturale, a disposizione di chiunque vorrà avventurar-si fin laggiù per goderne.Letture

di Sabrina MugnosVulcaniQuali Rischi?Macro Edizioni, Febbraio 2011

2012 Mito, Scienza o Finzione? Cofanetto 2 DVDDai Maya alle catastrofi naturali, un’indagine scientifica sulla fine del mondoMacrovideo, Dicembre 2010

I Maya e il 2012È possibile prevedere la fine del mondo? Un’indagine scientificaNuova Edizione AggiornataMacro Edizioni, Marzo 2009

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Nella immagine l’autrice vicino alle rocce ed alle rispettive tracce, rende le proporzioni del fenomeno.

Novitàmarzo/aprile

2012

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Nessuno ha mai visto muoversi le pietre, sebbene il fenomeno si conosca almeno dall’inizio del secolo scorso

L’incrocio perpendicolare di due tracce, con relative pietre alle estremità, complica ulteriormente il tentativo di spiegazione della causa del loro movimento.

Anche in questa immagine due pietre sono collocate alle estremità di una traccia unica. Sullo sfondo parte del

pendio dal quale si distaccano le rocce.

Un’immagine dell’autrice vicino ad una traccia multipla, dove sono chiaramente visibili le due rocce alle estremità. Sullo sfondo è possibile scorgere la sagoma appuntita della Grandstand Rock, il monolito che

si staglia come un isolotto sulla distesa ormai asciutta dell’ex lago.

Chi è Sabrina Mugnos

Geologa, ha studiato e visitato decine di vulcani in giro per il mondo attraverso esplorazio-ni avventurose e talvolta estreme. Si occupa da tanti anni anche di Astrobiologia e di Archeoastronomia. Il suo libro, I maya e il 2012, Indagine scientifica (Macro Edizioni), sta riscuotendo un grande successo in Italia e in diversi paesi stranieri. Impegnata in corsi, seminari e convegni a respiro internazionale, è spesso ospite di trasmissioni televisive e radio-foniche.Per maggiori informazioni: www.sabrinamugnos.com

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