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Università Cattolica di Péter Pázmány Istituto di Romanistica Dipartimento d’Italianistica Pázmány Péter Katolikus Egyetem Bölcsészettudományi Kar Romanisztika Intézet Olasz Tanszék Materiali per l’edizione critica dei libri di conto di Ippolito d’Este, cardinale di Esztergom TESI DI LAUREA Candidata: Kuffart Hajnalka

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Università Cattolica di Péter Pázmány

Istituto di Romanistica

Dipartimento d’Italianistica

Pázmány Péter Katolikus Egyetem Bölcsészettudományi Kar

Romanisztika Intézet

Olasz Tanszék

Materiali per l’edizione critica dei libri di conto di Ippolito

d’Este, cardinale di Esztergom

TESI DI LAUREA

Candidata:

Kuffart Hajnalka

Relatore:

Dr. Armando Nuzzo

Piliscsaba, aprile 2010

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Nyilatkozat

Alulírott, Kuffart Hajnalka, a Materiali per l’edizione critica dei libri di conto di Ippolito

d’Este, cardinale di Esztergom című szakdolgozat írója kijelentem, hogy a dolgozat kizárólag

erre a célra készített saját munkám, azt más szakon szakdolgozatként nem nyújtották be, és

csak a megjelölt segédeszközöket használtam. A publikációkból, kéziratos munkákból

felhasznált idézeteket vagy tartalmi megfeleléseket a Romanisztika Intézetben előírt módon

megjelöltem.

Piliscsaba, 2010. április 13.

aláírás

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Indice

Introduzione 4

I. La storia della ricerca dei registri di Ippolito d’Este

1. I primi passi 5

2. La ripresa della ricerca: il saggio di Erik Fügedi 11

3. Le ultime ricerche seguendo il filo abbandonato 19

II. Presentazione dei registri di Esztergom

1. Descrizione generale dei codici di Esztergom 22

2. Il Giornale del 1495

1. Osservazioni metodologiche e filologiche 26

2. Osservazioni linguistiche 41

3. Osservazioni al contenuto del testo elaborato 45

4. Criteri della trascrizione 55

III. Bibliografia

59

IV. Appendice I. Edizione del testo, secondo le norme della filologia italiana

61

V. Appendice II. I toponimi ricorrenti nel testo trascritto 72

VI. Appendice III. Foto digitali sui fogli del codice Giornale [Modena, Archivio di

Stato, Camera Ducale. Amministraione dei Principi. No 705.] 75

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Introduzione

Lo scopo della tesi di laurea presente è di dare contributi ad una futura edizione dei

codici d’Ippolito d’Este passando in rassegna le ricerche precedenti dei registri e creando la

trascrizione critica di una parte del Giornale (1495). La parte trascritta si trova nel documento

originale1 tra i fogli 1r.-5r, che corrisponde ai fogli 1r.–11v della copia apografa di Budapest2.

La trascrizione che è allegata nell’Appendice I alla tesi, ha una doppia numerazione delle

pagine perché la forma prescritta delle tesi di laurea presso codesta università esige la

numerazione continua delle pagine, ma nello stesso tempo la trascrizione crea un’unità

autonoma alla quale dovevo fare riferimenti nel testo. La numerazione prima (sopra) indica i

numeri delle pagina dell’unità (1-11), mentre la seconda (sotto) segue la numerazione della

tesi. Secondo le regole delle edizioni dei testi antichi sono numerate anche le righe. Il

riferimento di una parte del testo è quindi un insieme della data pagina e il numero della riga

(per esempio 2,23). Durante l’analisi del testo trascritto usavo i nomi ungheresi dei toponimi.

Per esempio per Esztergom si intende Strigonia, la sede arcivescovile princilape d’Ungheria.

1 Modena, Archivio di Stato, Camera Ducale. Amministraione dei Principi. No 705.2 Budapest, Magyar Tudományos Akadémia, Kézirattár, Ms 4998 fasc. 10.

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I. 1. I primi passi

La scoperta dei registri di Ippolito d’Este è dovuta nei fatti alla repressione della

guerra d’indipendenza ungherese del 1848. Dopo la vittoria degli austriaci, molti dagli

ungheresi furono costretti ad andare in esilio nei paesi vicini, come Turchia, Prussia, Russia,

Francia e anche Italia. Tra gli esuli rifugiati in Italia fu anche il barone Albert Nyáry che

cercava di giovare alla sua patria anche fuori l’Ungheria, ricercando fonti storiche

nell’archivio di Modena trovò alcuni registri di Ippolito d’Este che riguardano Esztergom ed

Eger. Dopo l’amnistia data dall’imperatore d’Austria, Nyáry ritornò in Ungheria e diede

relazione delle sue ricerche svolte a Modena. Questa relazione3 venne pubblicato sulle

colonne del primo numero della rivista Századok, periodico ufficiale del Sodalizio Storico

Ungherese, che da allora è diventata la rivista base della storiografia ungherese. Possiamo dire

perciò che la ricerca dei codici di Ippolito d’Este è quasi coetanea con la moderna storiografia

ungherese. In questo capitolo desidero riassumere le prime relazioni sui registri di Modena, e

le ricerche di Albert Nyáry, Endre Veress e Imre Lukinich.

Nell’articolo sopra citato Nyáry racconta la sorte dei codici provenienti dall’Ungheria,

fino all’arrivo a Modena. Nel 1851 l’Archivio della Famiglia d’Este e l’Archivio della

Camera vennero uniti. Tra i documenti, libri, manoscritti non ancora classificati Nyáry trovò

registri dall’epoca di re Mattia (1458-1490), Vladislav II (1490-1516), e Luigi II (1516-1526)

che si riferirono all’economia dell’arcivescovato di Esztergom, e del vescovato di Eger. Si

pose la domanda di come fossero pervenute tali fonti ungheresi a Modena. Per rispondere alla

questione, presenta la breve storia del cardinale Ippolito d’Este. Il figlio di Ercole, duca di

Ferrara fu il nipote della regina Beatrice, moglie del re d’Ungheria, Mattia. Il re nominò

cardinale di Esztergom il settenne Ippolito nel 1486 per la richiesta della moglie.

Naturalmente il papa, Innocenzo VIII (1484-1492) all’inizio non volle consolidare

l’istituzione del fanciullo e designò il cardinale Ascanio Sforza. Però il candidato del papa

morì improvvisamente, e sotto la pressione del cardinale Rodrigo Borgia, il papa infine

convalidò Ippolito nella sede arcivescovile di Esztergom.4 Ippolito occupò quel posto tra il

1486 e il 1497, quando cambiò l’arcivescovato all’episcopato di Eger con il vescovo Tamás

Bakócz. L’atto fu privo di precedente nella storia ungherese. Sebbene nella Chiesa questo

3 NYÁRY Albert: Az esztergomi érsekség és egri püspökség számadási könyvei a XV—XVI. századból.

Századok. 1867. pp. 378-3844 Per la storia dell di Ippolito d’Este cfr. Esztergomi érsekek 1001–2003. Szerk.: BEKE Margit. Budapest, Szent

István Társulat, 2003. pp. 222-2285

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passo significava un recedimento da un grado più alto, eppure per Ippolito non fu una scelta

sfavorevole, perché la diocesi di Eger era più ricca di quella di Esztergom, grazie all’attività

economicamente fruttuosa di Tamás Bakócz. Per quanto riguarda però la gerarchia ecclesiale,

Ippolito rimase sempre in alto grado, perché era ancora nominato cardinale di Milano e

Capua, vescovo di Ferrara e Modena, e aveva sei abbazie molto ricche in Italia. In questo

modo era possibile che i codici vennero trasferiti a Ferrara ancora in quel tempo, dove i

tesorieri del cardinale li controllarono.5 Quasi un secolo dopo, nel 1598, il principe Cesare

perse Ferrara a causa della sua discendenza illegittima e si trasferì a Modena con tutta la

documentazione della famiglia d’Este.

Nyáry trovò 12 volumi nell’Archivio di Modena, quando l’insieme non era ancora

catalogato (nel 1864): 5 riguardavano Esztergom, 7 Eger, i quali sono passati in rassegna

secondo titolo, lingua e contenuto6. La relazione è seguita da una breve presentazione dello

stato dell’economia arcivescovile, solo per dimostrare i risultati dei conti e per dare un

assaggio di queste fonti. Alla fine esprime la sua speranza nella futura volontà del Sodalizio

Storico di copiare questi codici che hanno una grande importanza nella storia ungherese

medievale.

Ancora in questo anno (1867), Kálmán Thaly presentò alla seduta del reparto II

dell’Accademia Ungherese delle Scienze una raccolta delle copie proveniente da Modena che

aveva compilato un “patriota che vuole rimanere anonimo” (János Mircse). Le copie

riguardarono l’epoca di Wesselényi (1669-70). L’offerente dimostrò la sua volontà di

continuare il lavoro, ma questo tentativo non procedette oltre.7

Nell’anno seguente però era già pronta una raccolta della corrispondenza della regina

Beatrice maggiormente in lingua italiana del periodo di 1477-1501 che presentò Ferenc

Toldy. La materia di questa raccolta fu fatta copiare dal barone Nyáry nell’Archivio di

Modena. Sulle fonti ungheresi che si trovavano a Modena Nyáry faceva letture il cui riassunto

è stato pubblicato in Századok8. Dall’articolo possiamo conoscere lo stato di allora dei

5 Cfr. la 8a nota dell’introduzione del volume Estei Hippolit püspök egri számadáskönyvei 1500-1508. A cura di

E. KOVÁCS Péter. Ed.: KOVÁCS Béla. Eger. 1992. 6 NYÁRY Albert: Az esztergomi érsekség és egri püspökség számadási könyvei a XV—XVI. századból.

Századok. 1867. pp. 380-3817 LUKINICH Imre: A Magyar Tudományos Akadémia Történettudományi Bizottsága másolat- és

Kéziratgyűjteményének ismertetése. Budapest, MTA. 1935. p. 33; Per la relazione cf. Il verbale del Reparto II. di

1 luglio 1867; Le copie sono conservate nella Sezione dei manoscritti dell’Accademia di Budapest sotto la

segnalazione Ms 4999.8 NYÁRY Albert: A modenai kir. levéltár magyar történelmi szempontból. Századok. 1868. pp. 244-254

6

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fascicoli delle fonti relative alla storia ungherese e il contenuto di essi. Sotto il titolo

“Ungheria” Nyáry trovò due gruppi principali: la corrispondenza privata e politica dei re

d’Ungheria da 1452 (László V) fino a 1831 (Ferdinánd V) e le relazioni degli ambasciatori

ferraresi residenti nel Regno d’Ungheria. Esiste ancora un fascicolo “Transilvania” che poi fu

unito con un altro gruppo, dal quale Nyáry non aveva più informazioni. I rapporti storici tra la

famiglia d’Este e le famiglie reali ungheresi cominciarono già nel Duecento tra Azzo VI

(1196-1204) e Béla III (1172-1196), dacché le sue mogli antiochense erano sorelle. Purtroppo

le fonti preziose dall’epoca degli arpadiani e degli angioini andarono in cenere a causa di un

incendio nel Quattrocento. Tutti i documenti che si riferiscono a quest’epoca, sono copie.9

NYÁRY ricercava però solo le fonti originali. Il contenuto dei fascicoli d’Ungheria viene fatto

conoscere in dettagli con un elenco dei titoli, poi su alcune pagine troviamo brani soprattutto

dalle lettere di Beatrice, ma anche di Cesare Valentini e di Eleonora d’Este. Nyáry scelse

degli squarci che descrivono alcune curiosità della vita quotidiana dei componenti della

famiglia ducale (come l’educazione del bambino Ippolito d’Este), e qualche atto politico e

diplomatico di re Mattia con i principi di Ferrara. Alla fine Nyáry richiama l’attenzione anche

ad altri tipi di fonti che si trovano in altri gruppi dell’Archivio di Modena come la

corrispondenza dei principi con altri paesi, le relazioni degli ambasciatori residenti nella corte

austriaca e soprattutto ai codici della Biblioteca dei Palatini che sono in numero di 4221 e tra i

quali Nyáry trovò non pochi che contemplavano la storia ungherese. Da questi codici

compose un elenco menzionando che la lista non è affatto completa. Il saggio di Nyáry

praticamente voleva richiamare l’attenzione degli studiosi ungheresi su una parte del

materiale dell’Archivio di Modena che potrebbe interessare il pubblico ungherese.

L’obiettivo di Nyáry si realizzò in quanto provocò grande sensazione e il Sodalizio

Storico Ungherese decise di far copiare i codici di Ippolito d’Este. Riconoscendo l’importanza

di queste fonti gli arcivescovi di Esztergom e di Eger di quel tempo, János Simor e Béla

Bartakovics, si assunsero le spese del lavoro che accelerava considerevolmente lo

svolgimento della copiatura. Secondo le regole dell’Archivio di Modena, i codici non

potevano essere presi in prestito, ma l’Archivio fece copiare prontamente i brani che

interessavano gli ungheresi, e le riproduzioni in 216 fogli erano già nell’anno seguente in

possesso del Sodalizio. Purtroppo la pubblicazione non poteva realizzarsi perché mancavano

le condizioni finanziarie, in conseguenza di questo fatto il Sodalizio incaricò Albert Nyáry del

recensire dettagliatamente il contenuto delle copie.

9 Esempio: contratto nuziale di András II e Beatrice d’Este dal 14 maggio 1234, pubblicato da Muratori:

Antichit. Estense Modena MDCCXVHi Part. I. fol. 4207

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Nyáry pubblicò nel 1870 i suoi primi saggi sui codici di Ippolito d’Este. Divise in tre

parti lo studio secondo tre temi: lo stato economico dell’arcivescovato di Esztergom e del

vescovato di Eger; le circostanze economici del paese di quel tempo; la corte di Ippolito in

Ungheria. Dal punto di vista della presente tesi ha più importanza il primo tema (e soprattutto

l’analisi di Esztergom) che comprende due saggi.10

I primi saggi di Albert Nyáry

All’inizio Nyáry raffronta i territori medievali e quelli ottocenteschi delle due diocesi,

e constata che sebbene lo stato vecchio fosse più grande, i redditi non erano maggiori, anzi

con difficoltà raggiungevano la metà. Secondo lo storico, l’arcivescovato di Esztergom

combatteva con cattive condizioni finanziarie che erano causate dalla situazione incerta della

successione della sede arcivescovile negli ultimi dieci anni prima di nominare cardinale

Ippolito. János Beckensloer (1474-1480) scappò da Esztergom e il re Mattia nominò suo

cognato, Giovanni d’Aragona (1480-1485) che il papa non voleva consolidare essendo vivo il

cardinale precedente. Dopo la conferma però il cardinale stava quasi sempre fuori

dell’Ungheria, e non poteva occuparsi della direzione dell’arcivescovato. Tra queste

circostanze il padronato fu governato dal convento di Esztergom quasi per una decina di anni.

In seguito della morte del cardinale Giovanni d’Aragona venne nominato Ippolito dal re -

rispettando il suggerimento della regina Beatrice. Essendo Ippolito ancora fanciullo,

l’arcivescovato prese un governatore nella persona di Cesare Valentini, l’ambasciatore del

duca ferrarese che rese conto al suo sovrano dei debiti che sono stati accumulati durante gli

ultimi anni. Tuttavia nemmeno Valentini fu in grado di poter sistemare la direzione del

padronato, perciò venne sostituito nel 1487 da una commissione che constava di due persone,

Beltramo Costabili e Bernardo Vitalli. Poi, quando si vedeva che le condizioni economiche

non migliorarono, i governatori accusarono il re che chiedeva molto per le spese delle guerre

contro Austria. Beatrice, in nome del re, si difendeva causando proprio quei governatori che

sono stati nominati da Ferrara e non conoscevano le circostanze ungheresi. Insomma

all’economia di Esztergom gli anni settanta e ottanta del Quattrocento non significavano un

periodo di gloria e di crescita. Quest’epoca è valutata negativamente da Nyáry segnalando le

cause da una parte la gestione profana degli ufficiali stranieri, dall’altra parte le grave tasse

ungheresi, come l’imposta bellica11 e infine anche i salari degli ufficiali.

10 NYÁRY Albert: A modenai Hyppolit-codexek. Századok. 1870. pp. 275-290; 355-37011 Ippolito aveva 38 nobili armati e 175 cavalleria regolare.

8

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Nel saggio vengono passate in rassegna le uscite militari, come i soldi e la

manutenzione delle fortezze; e l’entrate principali, soprattutto i risultati dell’allevamento di

bestiami. Secondo le ricerche di Nyáry, alla corte di Esztergom non bastava la propria

produzione agricola, era ancora costretta a comprare grano, foraggio, legname da costruzione

ecc. Nyáry esamina ogni prodotto agricolo secondo il tipo, segnalando il luogo dove lo

coltivarono, e la sua quantità che trova nei registri12. Dopo una serie di questi esempi presi dai

testi, ricomincia dalle entrate principali. L’arcivescovo possedeva tre tipi delle risorse

finanziarie: entrate a titolo di proprietario fondiario, regale, ed ecclesiale. L’incasso di esse

svolgeva ugualmente in tre modi: gestione da casa, riscatto e appalto. Gli appaltatori

provenivano soprattutto dagli ufficiali della corte arcivescovile e dei comitatus (un termine

tecnico per le regioni medievali in Ungheria). Le imposte riscosse a titolo di proprietario

fondiario venivano incassati da quelli paesi che appartenevano al possesso dell’arcivescovo.

115 abitati pagava la tassa censuale a questo titolo che insomma nel 1488 fu 1847 ducati e 15

denari, nel 1489 però 2105 ducati e 56 denari. Apparteneva ancora a questo gruppo la nona

(nel 1488: 1212 ducati e 97 denari, nel 1489: 1192 ducati e 11 denari), il riscatto del pranzo

(pecunia prandialis) e la decima del vino. In quel tempo tra le imposte regali del cardinale

troviamo la dogana (8 paesi), il mulino (22, ma solo 4 significanti) e il diritto della pesca (3

villaggi). Però le entrate veramente considerevoli erano le imposte riscosse a titolo ecclesiale

e a diritto del pisetum. Il pisetum significava il diritto del controllo sopra la coniazione nelle

città di minatori, in seguito del quale il cardinale riceve una determinata parte13 in argento

(greggio, ma anche elaborato).14 In Körmöcbánya e Nagybánya l’arcivescovo aveva un

pisetario proprio, le altre città di minatori (Rozsnyóbánya, Kisszeben, Gölnicbánya,

Szomolnok) erano state date in appalto. Infine le entrate ecclesiali venivano riscosse dalla

diocesi di Esztergom15, e constava della decima di grano, della decima di vino di Pozsony, e

di altri introiti straordinari (p. es. il cosìdetto cathedraticum o synodaticum da 27 plebano16,

donazioni pie, eredità, ecc.). Alla fine della prima parte Nyáry totalizza le entrate degli anni

12 Qui devo menzionare che Nyáry conosce solo cinque registri che riguardano Esztergom (due da 1487, uno da

1489, uno che riguarda il diritto del pisetum e uno illeggibile), i risultati quindi non sono completi. Nyáry non

segnala da dove prende le date che si riferiscono all’anno 1488 o quali registri provengono da quel anno.13 Secondo BARTAL, la parte 48a dopo una marca (misura di peso di quel tempo; circa 248,87 grammi ). sv.

BARTAL, Glossarium, pisetum14 Calcolando con 5 ducati e 50 denari per un marca dell’argento.15 Devo menzionare che su questo territorio non il cardinale fu l’unico che riscosse la decima, ce ne erano molti

paesi, dove accanto il cardinale altre dignità ecclesiali avevano una parte di questa tassa, come p. es. il convento.16 Tassa riscossa dai preti per il segno del rispetto verso la sede vescovile. (Pallas)

9

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1488 e 1489: nel 1488: 15950 ducati e 15 denari, nel 1489: 22287 ducati e 95 denari. Questo

risultato rimane ben sotto di quello che gli scrittori italiani ne attribuivano in quel tempo.

Mentre l’economia di Esztergom subiva un periodo dissesto, il nuovo cardinale come

un vero discendente principesco, significava troppe cariche che ostacolarono

l’accumulamento di un capitale notevole. Dopo la morte del re Mattia, la regina Beatrice

trasferì al castello di Esztergom che portò ancora più spese alla corte arcivescovile. Per

sistemare la situazione, il duca Ercole d’Este provò aiutare a suo figlio, ma non migliorando

l’economia della corte, invece aumentando i benefici per Ippolito. Nel 1492 acquistò

l’abbazia di Pomposa che aveva duemila ducati come annata, poi ottenne in maniera più

violenta il vescovato di Ferrara con diecimila ducati. Nel 1497, mediante il duca Ludovico

Sforza, detto il Moro però riuscì a ricevere l’arcivescovato di Milano con i suoi 14 mila ducati

e nello stesso tempo anche la dignità del governatore di questo ducato. A causa di

quest’ultima però non poteva mantenere l’arcivescovato di Esztergom perché doveva

trasferire la sua sede a Milano. Per non perdere definitivamente i benefici ungheresi, per

mediazione di Donato Aretini conseguì lo scambio con Tamás Bakócz, vescovo di Eger.

Questo vescovato era ben gestito e ordinato da Bakócz che tendeva ad evitare gli appaltatori e

così conservò la maggior parte del profitto. Bakócz assunse pure la sorveglianza sul vescovato

durante l’assenza di Ippolito.

Da questo punto comincia una descrizione dello stato di Eger che dal punto di vista

della presente tesi ha meno importanza come anche i successivi tre saggi17, che si occupano

delle circostanze economiche generali del Regno d’Ungheria in qull’epoca; della corte di

Ippolito in Ungheria e delle condizioni della cultura.

La successiva sorte delle ricerche

Nel 1889 la direzione dell’Archivio di Modena fece comporre una raccolta dei registri

riguardanti i documenti quattrocenteschi in riferimento ungherese.

Durante l’uso delle copie di Nyáry si era rivelato che purtroppo non erano sempre

affidabili (in quanto non seguirono la forma della contabilità doppia del codice originale).

Invece essendo le fonti molto importanti, divenne necessario la ripresa del lavoro da capo. Il

Sodalizio provò prendere in prestito i codici per via diplomatica, ma non glielo fu permesso

seguire questa direzione. Per questo richiamarono il professore Endre Veress, che conduceva

ricerche negli archivi italiani nel 1908, di esaminare i libri di conto nell’Archivio di Modena e

17 NYÁRY Albert: A modenai Hyppolit-codexek. Századok. 1870. pp. 661-687; e 1872. pp. 287-305, 355-37610

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di fare relazioni sui risultati. Dalle relazioni18 si rivelò che i codici c’erano complessivamente

29 volumi relativi a Esztergom (dal periodo 1487-1497) e 10 relativi a Eger (1500-1517), e

dai quali più volumi sono purtroppo illeggibili. Insomma i codici da copiare erano 23. Il

Soldalizio prese posizione nei confronti della copiatura secondo il suggerimento di Remig

Békefi. Cercarono quindi il ministro degli Affari interni italiano per permettere di dare in

prestito i codici all’Archivio Statale di Venezia dove stavano copisti bravi.19 Il Ministero

acconsentì all’iniziativa e i lavori poterono cominciare negli ultimi mesi di 1909 a Venezia.

Nella primavera del 1915, dopo la ricevuta delle copie dei registri di 1494-1495 (tra i quali si

trovava anche la copia del Giornale con cui si occupa anche la presente tesi), i lavori si

incagliarono a causa della guerra scoppiata tra l’Italia e la Monarchia Austro-Ungarica.

I. 2. La ripresa della ricerca: il saggio di Erik Fügedi

[FÜGEDI Erik: Az esztergomi érsekség gazdálkodása a 15. század végén. Századok. 94

(1960)/1. 82–124. (1960)/4. 505–556.]20

Dopo le ricerche di Albert Nyáry e la relazione di Endre Veress, il primo che si

occupò di nuovo in modo professionale dei codici, fu Erik Fügedi, un bravo medievista

ungherese del Novecento. Egli passò in rassegna tutti i registri che riuscì a trovare in apografi

all’Accademia Ungherese delle Scienze e sulla base di queste fonti cercò di presentare

l’economia della corte arcivescovile di Esztergom alla fine del Cinquecento, come è

specificato anche nel titolo. La parte di Eger, non è stata elaborata in questa trattazione. Il

saggio fu pubblicato ugualmente sulle colonne di Századok, come nel secolo precedente le

relazioni di Albert Nyáry, e finora questo discorso è la più accurata e approfondita descrizione

dei libri di conto d’Ippolito che le ricerche future non possono tralasciare. Dobbiamo per

questo riassumerlo anche nella presente tesi perché sulla base di Fügedi possiamo

comprendere e spiegare il contenuto delle singole voci che incontriamo nel Giornale.

Dopo la breve presentazione della storia delle ricerche, Fügedi descrive il materiale dal

quale lavorava e poi in due parti analizza prima le entrate poi le uscite degli anni 1488, 1489 e

1490. Le indagini sono limitate solo a questi anni perché quando Fügedi scrisse il trattato, non

18 Le relazioni di VERESS sono conservate dalla Sezione Manoscritti dell’Accademia Ungherese delle Scienze

sotto il segno: Ms 459/1-30 VERESS Endre: Adalékok magyar-olasz kapcsolatokhoz. 13. Estei Hyppolit

hercegprímás esztergomi számadáskönyvei. (1490.)19 Il consiglio di scegliere questa via divenne da Carlo MALAGOLA, direttore dell’Archivio di Venezia.20 In seguito: Fügedi.

11

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erano ancora disponibili le materie delle scatole nr. 3° e 4° che ritenevano smarrite. Solo

prima della pubblicazione sono state ritrovate grazie a István Sinkovits che controllava anche

lo studio di Fügedi.21 Tuttavia la descrizione nella parte iniziale espande anche al contenuto

delle scatole appena trovate.

Le fonti22

Tra i cosiddetti codici d’Ippolito ci sono 29 volumi che riguardano la corte di

Esztergom. Questo materiale non è omogeneo: la maggior parte consta dei libri di conto scritti

da ungheresi in lingua latina e dei libri mastri scritti da italiani in italiano. Oltre questi però ne

troviamo ancora altri tipi: un libro dell’inventario, un giornale e due libri dei salariati. Dai

libri mastri ne abbiamo 18 secondo i calcoli di Fügedi23 - però questo numero si riferisce ai

libri in senso separato, giacché secondo i concetti moderni le uscite e le entrate solo se prese

insieme equivalgono ad un mastro. I notai italiani utilizzarono il sistema della partita doppia

veneziana il che dimostra anche la segnalazione originale dei singoli volumi, per es. libro di

intrada 14B88, o libro di usita 14C90. Dalle copie non si può precisare il significato delle

lettere scritte tra i numeri dell’anno (A, B, C), secondo l’opinione di Fügedi, i libri con il

segno “A” avessero una funzione memoriale dove registrassero i requisiti e i doveri (per

esempio i contratti d’appalto). La redazione delle due parti dei libri mastri, cioè la parte delle

uscite e delle entrate è uguale: all’inizio troviamo un indice dei nomi riferendosi alla pagina

sulla quale si trova il conto della data persona. I proprietari sono registrati secondo il loro

nome di battesimo, ma per esempio la Duchessa di Ferrara si trova sotto la “D”. I libri mastri

vennero aperti di nuovo in ogni anno che testimonia anche il testo iniziale “1489 in Strigonio

a di primo genaro”. Secondo la tradizione medievale troviamo ancora all’inizio

un’invocazione in cui il notaio chiede l’aiuto della Vergine Maria, protettrice principale del

Regno d’Ungheria e di Sant’Adalberto, patrono dell’arcivescovato di Esztergom. Poi il notaio

descrive in alcune righe quante pagine contiene che il libro presente e quali specie di voci, chi

la condusse e sotto quale segnalazione. Dopo cominciano i conti: sulla pagina sinistra ci sono

le voci del “dare”, su quella destra però le voci di “havere”. Le singole voci contengono la 21 Cfr. Fügedi, pp. 82-83, nota 5.22 Fügedi non aveva la possibilità di vedere i codici originali, lavorava con quelle copie che si trovano anche oggi

all’Accademia Ungherese delle Scienze sotto le segnature Ms. 4996, 4997, 4998.23 Per quanto riguardano le date di questi libri, Fügedi indica gli anni 1487, 1489-1490, 1495 e 1497 per le uscite,

e 1487-1491, 1493-1495 per le entrate. Raffrontandole però con il contenuto delle scatole, ho trovato che le

uscite risalgono agli anni 1487, 1489-1494 mentre le entrate agli anni 1487-1494. Dall’anno 1497 però non ne

abbiamo nessun libro.12

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data del dato giorno a sinistra, in centro della pagina il testo necessario con la somma scritta

con lettere, a destra però la somma scritta con numeri. Il fiorino d’oro ungherese viene

consecutivamente scritto “ducato” e il denaro sempre “dinaro”. Alla fine della voce ci si

riferisce sempre al controfatturato che si trova nell’altro volume (entrata o uscita). A seconda

del loro tipo, le voci vennero collocate sulla pagina sinistra (dare) o destra (avere). All’inizio

di ogni conto sta il proprio luogo e l’intitolazione, alla fine però i singoli conti tipo dare o

avere sono sommati e le fatture personali quietanzate. Se un conto era così lungo che non

bastava una pagina, a piè venne totalizzato e sul foglio seguente ricominciato con il titolo,

luogo e risultato della pagina precedente. Dalle fatture più lunghe alle più brevi il quadro

contabile era uniforme per tutti i conti. Per quanto concerne il raggruppamento, nelle uscite

possiamo osservare una certa ordine secondo l’oggetto, per esempio i costi di spedizione, di

costruzione o d’abbigliamento avevano propri conti. Da un altro aspetto però ci sono tracce

del principio del luogo di spesa, come in caso della manutenzione della casa in Pozsony24. Il

sistema presente dei libri mastri non conosce il conto cassa, invece addebita le entrate il saldo

di quella persona che prende l’importo in questione. Questa persona però secondo le regole

della corte arcivescovile doveva essere il “provisor” che pagava e riceveva le spese della

corte; quindi il conto personale del provisor equivale al conto cassa in senso odierno. L’uso di

allora differisce da quello odierno solo in quanto mancava il prezzo pattuito; cioè venne

sempre registrato solo il fatto della transazione. La fattura del provisor significa nello stesso

tempo la chiusura del libro mastro. In quell’epoca mancava ancora il bilancio nella

contabilità, non lo troviamo nemmeno in questi codici, dobbiamo tuttavia sottolineare che

l’obiettivo principale di questa tenuta dei libri fu di registrate tutte le entrate e le uscite, vale a

dire tutte le operazioni economiche il che è senza pari nel Regno d’Ungheria nel Medioevo.

La base dei libri mastri foggiarono altri libri di conto al posto di attestazioni contabili

come nell’uso moderno. I redditi e le spese vennero registrati per la prima volta in un libro

detto “Giornale” che aveva una funzione quasi di brogliaccio. Ne abbiamo sia in forma

originale sia in copia un solo esemplare, che proviene dall’anno 1495. La forma è più

semplice in questo caso rispetto ai mastri: manca l’invocazione, il testo iniziale, comincia

immediatamente con le voci che si seguono in ordine cronologica. Inoltre manca la divisione

delle pagine secondo il carattere dare/avere, invece dall’inizio del libro furono registrate le

entrate, dal centro fino alla fine però le uscite. Il raggruppamento è secondo la data che venne

24 Per Pozsony si intende la città odierna Bratislava, la capitale della Slovacchia, che durante il Medioevo era una

città ungherese con il nome Pozsony, o in tedesco Pressburg. Per evitare l’anacronismo, nella presente tesi

useremo la forma originale ungherese.13

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sempre notata in centro delle pagine. La forma del testo e della somma delle voci non

differisce da quella dei mastri, a sinistra però troviamo dei riferimenti probabilmente ai fogli

di quel libro mastro su quale riportarono le date voci. Purtroppo proprio da quest’anno (1495)

non ne abbiamo nessuna parte, né le entrate, né le uscite, per poter raffrontare i fogli con i

riferimenti. Anzi, siccome non abbiamo più giornali oltre a questo che per altro analizza

anche la presente tesi, non possiamo verificare il sistema che Fügedi ritiene verosimile, quindi

che per la prima volta ogni operazione economica sarebbe registrata in un giornale simile. Tra

il giornale e il libro mastro ci sarebbe stata ancora una tappa - secondo Fügedi: il “Libro delle

spese” in cui avrebbero raccolto tutte le spese raggruppandole cronologicamente secondo i

conti, ma ancora senza la divisione di dare/avere. Da questo tipo ne abbiamo ugualmente solo

uno dall’anno 1495 e secondo le verifiche di Fügedi, i riferimenti trovati nel Giornale non

corrispondono ai fogli del Libro di spese.

Sopravvissero inoltre alcuni Libri di salariati, le cui forme assomigliano ai libri

mastri, in quanto hanno un testo iniziale, le pagine sono divise secondo il carattere dare o

avere, e la segnalazione originale è analogo, per esempio Salariati 14G94. Questi libri però

hanno tanti conti quanti impiegati e domestici lavoravano alla corte arcivescovile. Sulla

pagina “avere” furono indicati il nome, l’incarico, le condizioni di pagamento e la data

iniziale dell’assunzione di un dato dipendente, sulla pagina “dare” però quegli importi che

pagarono allo stesso impiegato. Così nelle fatture un anno significava il periodo che la data

persona trascorse in quel posto e non l’anno del calendario. In questi volumi incontriamo

tracce dell’intenzione di registrare gli impiegati secondo la loro sfera di lavoro, per esempio

se un domestico si licenziò a metà dell’anno di servizio, il suo conto venne continuato con il

nome del nuovo domestico e solo alla fine dell’anno venne chiuso.

Oltre i notai italiani anche altri ufficiali della corte arcivescovile tennero registri dai

quali ne abbiamo sei esemplari in copie. Questi libri sono scritti in latino, la datazione segue

le feste ecclesiastiche, le somme non sono indicate con lettere, solo con numeri romani alla

parte destra della pagina, e sono composti secondo le regole della partita semplice e non

quella doppia. Il volume “Registrum super distributionem vinorum Anno Domini 1489” tratta

in tre parti del resoconto di vino, l’“Introitus de piseto Zathmariensis” dei redditi delle tasse

provenienti dalla coniazione (in questo caso dalla città Nagybánya), il “Registro di cucina”

però delle spese della cucina dall’anno 1492. Ci sono inoltre tre volumi intermedi tra il

sistema italiano e ungherese: i libri di conto degli anni 1490, 1491 e 1492: sono scritti in

latino, ma in parte con numeri arabi, raggruppando le spese e i redditi come i mastri. Quindi

assomigliano di più al soprarriferito “Libro di spese”. Secondo Fügedi li avrebbero scritti 14

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senza dubbio ungheresi perché le somme sono indicate con numeri romani però i conti sono

totalizzati con numeri arabi. Si può tuttavia ipotizzare anche il caso in cui nei testi scritti da

scribi ungheresi un notaio italiano avrebbe fatto l’addizione. Tutte le voci dai libri di conto

ungheresi vennero riportate sui mastri italiani che testimonia anche un segno di visto messo al

lato sinistro della voce indicando anche la pagina del mastro dove la voce venne trascritta.

Insomma possiamo affermare che i mastri ricavano le informazioni dai vari tipi di libri

di conto: dai “Giornali” e “Libri di spese” in cui notarono per la prima volta le voci, dai

registri di altri ufficiali della corte scritti generalmente secondo la tradizione ungherese, e dai

“Libri di salariati”. L’obiettivo del sistema era di registrare ogni dato economico e che queste

azioni siano controllabili grazie alla partita doppia.

Le entrate della corte arcivescovile di Esztergom

Fügedi analizzava tre anni: 1488, 1489 e 1490 in base alle copie che trovò a Budapest,

ma questi anni sono stati così ampiamente elaborati che possiamo raffrontare con quei dati

che troviamo nel Giornale. La parte delle entrate è particolarmente importante perché le voci

della prima metà del Giornale che tratta la presente tesi, contengono ugualmente questi

benefici e imposte.

L’arcivescovo di Esztergom poteva ottenere redditi a due titoli: come proprietario

fondiario pretendeva le tasse feudali e come vescovo le decime della sua diocesi.

Generalmente i benefici ecclesiastici erano maggiori, secondo i calcoli di Fügedi negli anni

singoli la percentuale di essi: 71,5% (1488), 81,8% (1489), 66% (1490).

Il podere dell’arcivescovo in quel periodo fu assai grande, era uno dei più ricchi

possidenti dell’Ungheria, ma la possessione non creava mai un unico corpo, i luoghi e le città

si situavano in modo sparso. Pure i loro tipi variavano di paese in paese: l’unica città di

minatori fu Rozsnyóbánya, negli altri luoghi dominava piuttosto l’agricoltura o altri rami di

produzione: Mátyusföld fu una zona fertile dove coltivavano grano; la gente di Vágköz viveva

da pesca; a Szentkereszt fioriva l’ovinicoltura; mentre ai borghi nei dintorni di Drégely si

sviluppava la vinicultura. Il podere arcivescovile però era situata in gruppi separati e non

avrebbe mai diventato una possessione coerente.

Le possessioni dell’arcivescovo si distinguevano da quelle laiche in più sensi: non

c’erano dei castelli che avevano in altri casi un ruolo centrale delle unità economiche, e così

mancavano anche i castellani e gli altri ufficiali tipici. L’organizzazione fu risolto dunque in

un’altra maniera: le terre vicine appartenevano ad un ufficiale (officialis) e formarono così

un’unità strutturale, l’officiolatus che aveva nei tempi di Ippolito ancora un nome precedente: 15

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districtus (distretto). Un elenco di questi officiolatus abbiamo dall’anno 157325 che dopo aver

raffrontato con i codici d’Ippolito, Fügedi conferma che le strutture coincidono. In dettagli,

questi distretti erano i seguenti: Drégely, Szentkereszt, Szöllős, Cétény, Verebély, Szalka, i

borghi dei quali corrispondono completamente ai dati del Liber Sancti Adalberti; inoltre:

Vadkert, Sajópüspöki e Udvard, le cui dimensioni non si può determinare. I distretti vennero

diritti sempre da due ufficiali che ebbero verso il giudice castellano (che corrisponde al

soprarriferito provisor) il dovere di conteggiare, consegnare i soldi e di effettuare le sue

disposizioni.

A titolo di proprietario fondiario si conoscevano tre tipi delle rendite feudali: il censo

(census o terragium) pagato in monete che significava un fitto per quel terreno che usavano i

servi della gleba, gli omaggi in natura (munera) e il servizio fisicale eseguito con lavoro

(servitium). Le rendite dei singoli paesi furono prescritti in un documento: nell’urbarium, in

cui stabilirono le prestazioni obbligatorie dei servi della gleba dovute al signore feudale. In

questo caso Fügedi usava due volumi del Liber Sancti Adalberti26, dagli anni 1527 e 1553 per

raffrontare con i dati dei codici d’Ippolito. La rendita più grande era senza dubbio il censo che

ammontava generalmente ad una somma che costruiva la maggioranza assoluta dei contributi

feudali, come anche negli anni analizzati, tranne 1490, quando fu imposta una tassa

straordinaria alle ville dell’arcivescovo che diminuiva la percentuale del censo. I termini del

versamento del censo differiva a seconda dei luoghi: alla festa di San Michele (29 settembre)

si pagava la maggior parte di quest’imposta, che segue il giorno di San Giorgio (24 aprile) con

cui ci incontriamo anche nel Giornale. La somma venne versata generalmente in due rate a

questi giorni, ma in alcuni casi si poteva pagare in più rate. I termini meno frequentati erano:

San Martino, Sant’Andrea, Ognissanti, Pentecoste e Natale.

L’ammontare del censo variava sempre a seconda dei luoghi. La somma da pagare era

preindicata nell’urbarium per un intero terreno di un servo della gleba. La più bassa fu a

Hetény, 36 denari, mentre la più alta a Patak, 2,92 fiorini. Dal Liber Sancti Adalberti però non

possiamo dimostrare che queste somme furono realmente riscotibili o rimasero solo esigenze.

Per stabilire l’ammontare del censo da pagare secondo l’urbarium mandarono dalla corte in

ogni anno un familiare27. Nel mastro del 1491 che fu probabilmente compilato da un letterato 25Liber Sancti Adalberti, Magyar Országos Levéltár, Urbaria et Conscriptiones 45:26 26 Archivio dell’Arcivescovato di Esztergom. Archivium seculare. Acta protocollata. Urbarium Olahi (Filmoteca

dell’Archivio Statale).27 Sotto familiare si intende un termine tecnico medievale ad un nobile ungherese che apparteneva ad un altro

nobile più ricco e che svolgeva servizi in cambio di doni (possedimenti terrieri). Il rapporto non assomiglia al

quello che fu tra domino e vassallo nell’Europa Occidentale perché la donazione non rimaneva nella proprietà 16

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ungherese, vennero notate anche queste esigenze e da questo volume possiamo conoscere

anche il metodo dell’iscrizione delle esigenze: il familiare ponderò in ogni paese il numero

dei terreni usati dai servi di gleba, scontò quelli che erano esentati dalla tassa, infine

moltiplicò il risultato con la tassa prescritta dall’urbarium. Ma durante l’allibramento

notarono sempre il prezzo incassato in effetti, cioè aggiungendo altre tasse o togliendone

spese del familiare, e non solo quello che entrò a titolo del censo. Quindi dall’importo che

contiene una voce nel mastro, non possiamo determinare la tassa precisa di un dato luogo

perché il mastro non lo dettaglia.

Abbiamo ancora un altro fenomeno da descrivere che riguarda il tema del censo: il

pagamento forfettario. In questo caso i luoghi avevano una determinata annata da pagare che

potevano effettuare anche a rate. L’arcivescovato aveva 22 paesi che pagavano il censo a

questa maniera, e le cui somme variavano dal fiorino 1 (Farkasd) ai 100 (Patak).

Gli omaggi consegnati in natura (munera) spettavano il proprietario fondiario

ugualmente sulla base dei terreni usati dai servi di gleba. I munera venivano consegnati

secondo l’abitudine in occasione delle feste (Natale, Pasqua, Pentecoste ecc.) e constavano di

pollame, formaggio, uova ecc. Effettivamente avevano l’unico scopo di alimentare la corte

alle feste più grandi. La terza rendita verso il proprietario fondiario era il servizio fisicale

eseguito con lavoro (servitium, robot) che secondo l’urbarium significava uno o due giorni di

falciatura, di eseguire trasporti oppure altri lavori simili. Tuttavia questi carichi non erano

ancora così gravi come poi sarbbero diventati alla fine del Cinquecento. La cosiddetta nona

era una tassa tradizionale dei proprietari fondiari nel Regno d’Ungheria, ma in quest’epoca

aveva già perso la sua importanza precedente e, secondo le notizie dei mastri, la metà dei

possedimenti arcivescovili non aveva più l’obbligo di pagare quest’imposta. Nel Giornale non

possiamo trovare alcuni cenni a questa tassa, per questo qui non la dettaglieremo. Le altre

rendite a titolo di proprietario fondiario erano i dazi (telonium), per esempio il dazio del

mulino o dei luoghi che si situavano alle vie mercantili (Nyárhida, Udvard, Nyergesújfalu) o

tra Esztergom e le città di minatori (Szentkereszt, Ókremnicska).

Tra le rendite incassate a titolo ecclesiastico era la più importante senza dubbio la

decima che caratterizzava tutta l’Europa cristiana nel Medioevo. Nel Regno d’Ungheria la

introdusse ancora Santo Stefano, il primo re. Gli aventi di questa tassa erano prima solo i

vescovi, durante i secoli però anche altre autorità ecclesiastiche, come i proposti, conventi,

abbazie ecc. ebbero questo diritto, e in seguito si formava una struttura abbastanza complicata

dell’incasso della decima. L’arcivescovo otteneva la decima dai comitati di Esztergom,

del donante, invece la si poteva ereditare.17

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Pozsony, Nyitra, Komárom, Nógrád, Torna, Gömör, Zólyom, Árva, Liptó, Turóc. Secondo la

tradizione appaltavano la maggior parte della decima, tranne Pozsony da dove ricevevano la

decima in vino. Prima dello scambio delle sedi di Esztergom ed Eger tra Ippolito e Tamás

Bakócz, dovevano già dare in appalto anche la decima di Pozsony, perché Ippolito era già

molto indebitato. I vantaggi dell’appalto per il proprietario fondiaro erano che non lo

gravavano le spese dell’incasso, riceveva la somma in contanti e non in natura, e il processo

era più veloce. Secondo la testimonia dei mastri, da questi vantaggi si realizzava

completamente solo il primo. Una decima particolare era la decima della coniazione, il

cosiddetto diritto di pisetum degli arcivescovi di Eszterom. Questo diritto spettava

esclusivamente l’arcivescovo come il primo pontefice d’Ungheria. Dalle città di minatori la

corte di Esztergom riceveva un pondus dopo ogni marca del metallo nobile dal quale

facevano monete. Il pondus era la quarantottesima parte della marca e da una marca

dell’argento battevano circa 416 denari in quest’epoca. Quindi l’arcivescovo riceveva circa

8,67 denari dopo ogni marca.28 Tra le tasse ricevute a titolo ecclesiastico troviamo ancora il

census plebanorum: alcune pievi appartenevano immediatamente alla giurisdizione

arcivescovile senza la mediazione dell’arciprete. Questi plebani dovevano pagare una

determinata tassa per un anno. Nei mastri sono trenta plebani che possedevano questo diritto.

La seconda parte del saggio di Fügedi tratta le uscite della corte arcivescovile. Poiché

il testo trascritto nella presente tesi di laurea esamina solo il gruppo delle entrate, qui non ho

la possibilità di dettagliare anche le uscite, solo abbozzarle in grandi linee. Le uscite non

possono essere distribuite secondo i titoli come le entrate, variavano secondo le necessità

attuali della corte. Prima di tutto le spese dell’alimentazione della corte comprendevano i

bisogni della cucina, i foraggi per gli animali, il vino, la legna da ardere ecc. Spendevano

molti soldi agli abbigliamenti, essendo la corte numerosa, e compravano molti tessuti e

pelliccie dall’Italia mediante mercanti fiorentini, come Raggione Bontempi e Piero Antonio.

Le fatture delle uscite dei lavori di costruzioni e di riparazioni della corte hanno un contenuto

misto. Questo tema peraltro è stato elaborato dalla storia d’arte, soprattutto negli articoli di

Pál Voit29. I dipendenti della corte che potevano essere ecclesiastici o laici, potevano ricevere

il loro salario in contanti, in natura o in forma di resoconto. Le spese di spedizione e della

cancelleria avevano conto proprio nei mastri, come inoltre erano separati anche i tipi dei costi

28 Cfr. Magyar történeti fogalomtár I-II a cura di Péter BÁN, Budapest, 1989 p. 85 sv. dénár; pp. 30-31 sv.

márka; p. 104 sv. pisetum; p. 113 sv. pondus29 Cfr. Fügedi, p. 508, nota 131

18

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ecclesiastici. Infine c’erano spese occasionali come per esempio l’onorario per una poesia

lodativa scritta a favore del re ecc.

Fügedi compilò il bilancio della corte arcivescovile sugli anni di 1489 e 1490 e gli

risultò che il bilancio era deficitario in entrambi gli anni. Ippolito aveva speso più che aveva

ricevuto. Questi ammanchi approdavano l’arcivescovo ad assumere mutui, e infine ad avere

debiti accumulati.

I. 3. Le ultime ricerche seguendo il filo abbandonato

Il filone della ricerca dei registri continuava anche negli anni ’90 dopo una pausa di

quasi una ventina di anni. Nel 1992 si è realizzata la pubblicazione di alcuni registri, per

eccellenza la materiale che riguarda il vescovato di Eger. Il compilatore, Péter E. Kovács

comincia l’introduzione con quel debito del quale i medievisti ungheresi tengono conto per

quanto riguarda la mancanza dell’edizione dei codici di Ippolito d’Este che si faceva aspettare

da più decine di anni, malgrado le segnalazioni dei bravi studiosi, come Albert Nyáry e Erik

Fügedi.30 All’inizio degli anni sessanta l’Archivio Statale Ungherese ha fatto microfilmare i

documenti relativi alla storia ungherese e tra questi anche i registri di Ippolito, ma a causa di

macchie d’acqua la riproduzione risulta illeggibile per pagine. E. Kovács ha cominciato a

lavorare con queste fonti per consiglio di András Kubinyi che ha assunto l’iniziativa di

pubblicare i volumi e l’adattamento della materia. E. Kovács ha trascritto il testo dai

microfilm che si trovavano nell’Archivio Statale Ungherese e con la sovvenzione della

Fondazione Soros aveva la possibilità di confrontare la trascrizione con l’originale a Modena.

In questo modo gli è riuscito finalmente di realizzare la pubblicazione della parte di Eger.31

L’edizione critica segue le regole del Sodalizio Storico Ungherese32: per quanto riguarda i

testi latini, nel principale si figurano solo le forme corrette e le espressioni che sono stati

giudicati errati sono passati alle note. E. Kovács considerava errate tutte le forme degeminate

come per esempio: abatia, alodium, quatuor, sabato, videlizet ecc., che ha corretto senza

30 Cfr. gli articoli menzionati sopra di NYÁRY e di FÜGEDI. L’edizione è stata proposta anche da Vidor PATAKI

(Az egri vár élete. Különnyomat a ciszterci rend egri Szent Bernát-Gimnáziumának 1933/34. évi értesítőjéből.

Budapest, 1934. p. 11) e da Domokos KOSÁRY (Bevezetés a magyar történelem forrásaiba és irodalmába.

Budapest, 1951. pp. 155; 205).31 Estei Hippolit püspök egri számadáskönyvei 1500-1508. A cura di E. KOVÁCS Péter. Ed.: KOVÁCS Béla. Eger.

1992.32 A Magyar Történelmi Társulat forráskiadási szabályzatai. Melléklet a Századok 1920. évi folyamához.

Budapest, 1920. pp. 22-2419

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lasciare una nota come era nell’originale. L’assenza di “h” veniva segnalata solo se alterebbe

il senso del testo; mentre l’e caudata è stata sostituita con e in grassetto. Per quanto riguarda i

testi italiani, li ha lasciati in forma originale tranne la divisione delle parole scritte insieme e

gli apostrofi.33 Nell’indice dei nomi sono presenti le forme trascritte e sono segnalati con

lettere corsive quei nomi che non si trovano nel testo originale, ma sono determinabili grazie

alla letteratura professionale scientifica. I toponimi sono indicati in forma moderna, e se un

luogo oggi non appartenesse più a Ungheria, veniva indicata sia il nome attuale (generalmente

slovacco), sia quello ungherese con i loro comitatus ai quali appartenevano nel Medioevo.

Dopo i toponimi non identificabili ha messo un segno interrogativo.

Seguendo il filo abbandonato

Oltre i codici di Eger, anche i registri riguardanti Esztergom meriterebbero

un’edizione moderna, secondo i criteri della filologia e della scienza storica. Questa volontà

dell’arcivescovato di Esztergom ha incontrato gli interessi e le intenzioni della ricerca del

Dipartimento d’Italianistica dell’Università Cattolica di Péter Pázmány. La presente tesi ha

quindi un carattere introduttivo, sia dall’aspetto della pubblicazione dei registri, sia da quello

delle ricerche di essi sperando che tra gli studenti saranno ancora degli interessati verso

questo tema.

Sotto la direzione del Professore Armando Nuzzo, ho cominciato a lavorare

all’Accademia Ungherese delle Scienze dove sono conservate le copie manoscritte fatte dagli

archivisti veneziani34. Prima abbiamo esaminato il contenuto delle scatole per poter scegliere

un plico dal quale poi avrei avuto un brano da trascrivere ed analizzare da sola. Il fascicolo

che infine abbiamo scelto era il decimo, nello stesso tempo l’ultimo dalla terza scatola: 1495.

Libro “Giornale”. Come ulteriormente si è dichiarato, la scelta era fortunata perché il testo di

questo codice è interessante, ben analizzabile e la copia rende completo e più comprensibile il

testo del registro originale che oggi si trova a Modena.

Il mio compito era di copiare una parte del testo e di annotare tutte le ossrevazioni per

l’apparato. Mi ha svegliato l’attenzione che il copista segue rigorosamente la rottura delle

righe originale anche se la misura del quaderno non glielo permette facilmente e deve

rompere le righe prima, poi di nuovo per segnalare come era nell’originale. Con il programma

di editore di testi (Microsoft Word) ho potuto riprodurre la rottura originale che infine ha

33 Le correzioni di E KOVÁCS sono basate al lavoro: Giampaolo TOGNETTI: Criteri per la trascrizione di testi

medievali latini e italiani. Roma, 1982. (Quaderni della Rassegna degli Archivio di Stato 51.)34 Accademia Ungherese delle Scienze, Sezione dei Manoscitti, Ms 4996, 4997, 4998

20

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coinciso con l’originale anche nella realtà. Il testo riprodotto in questo modo è stato d’aiuto al

Professore Nuzzo nel confrontare la trascrizione con l’originale, quando aveva la possibilità di

consultare il codice personalmente a Modena. Nello stesso tempo si è scoperto che il codice è

stato ancora danneggiato dopo che ne era stata fatta la copia dagli archivisti veneziani, e per

questo il codice di Budapest ci può aiutare nella lettura e vale la pena di confrontare queste

copie con i testi originali. Grazie ad una possibilità inaspettato e agli aiuti

dell’Autoamministrazione dello Studente (HÖT), ho potuto pure io consultare il codice

originale a Modena e anche fare delle foto digitali dalle quali ho allegato alcune alla presente

tesi.

21

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II. Presentazione dei registri di Esztergom

II. 1. Descrizione generale dei codici di Esztergom

Tra i registri d’Ippolito sono in maggioranza i codici riguardanti Esztergom, secondo

le notizie di Endre Veress, ne sono 29 che sono stati fatti copiare dagli archivisti veneziani

prima della prima guerra mondiale, e queste copie apografe oggi sono conservate

dall’Accademia delle Scienze a Budapest. In dettagli i codici in questione sono i seguenti:

Magyar Tudományos Akadémia, Kézirattár (Sala dei Manoscritti), Ms 4996, fasc. 2.

Esztergom Libro dei provisionati (1487), fasc. 3. Esztergom Libro di intrada e usita (1487),

fasc. 4. Esztergom Registro delle entrate (1488), fasc. 5. Esztergom Libro de intrada (1488),

fasc. 6. Esztergom Libro di entrata e di uscita (1489), fasc. 7. Esztergom Alredacione dele

decime di questo anno (1489), fasc. 8. Esztergom Registretto dei vini (Registrum super

distributionem vinorum) (1489), fasc. 9. Esztergom Intrada e usita (1489), fasc. 10.

Esztergom Libro d’entrata (1490), fasc. 11. Esztergom Usita (1490); Ms 4997 fasc. 1.

Esztergom (1491), fasc. 2. Esztergom Libro generale (1487), fasc. 3. Esztergom Libro introiti

(Introitus de piseto Zathmariensis) (1488), fasc. 4. Esztergom Libro di uscita (1489), fasc. 5.

Esztergom Libro Proventi (1487), fasc. 6. Esztergom Libro di Entrata (1489), fasc. 7.

Esztergom Libro d’uscita (1490), fasc. 8. Esztergom Libro di entrata e di uscita (1491), fasc.

9. Esztergom Libro de intrata et de usitta (1491); Ms 4998 fasc. 1. Registro di cucina (1492-

1493), fasc. 2. Libro di entrata e dei debitori (1493), fasc. 3. Registro dei salariati (1493), fasc.

4. Registro di entrata (1492-1494), fasc. 5. Libro di entrata e di uscita (1492-1494), fasc. 6.

Libro di entrata e di debitori (1494), fasc. 7. Libro dei salariati (1494), fasc. 8. Libro dei

salariati (1494-1495), fasc. 9. Libro di spese (1495), fasc. 10. Libro Giornale (1495).

I codici originali si trovano a Modena, nell’Archivio di Stato, sotto la segnatura

Camera Ducale, Amministrazione dei Principi. Durante la visita a Modena avevo la possibilità

di vedere due dei codici, il Giornale (1495) che descriverò nel capitolo seguente, e il Libro

dei salariati (1494-95). Lo stato di entrambi è buono, sono stati restaurati e adesso sono

conservati in modo conveniente. Bisognerebbe però effettuare la descrizione possibilmente di

tutti i codici conservati in quest’archivio che riguardono la storia ungherese, poiché nell’epoca

di Albert Nyáry ed Endre Veress il catalogo non era ancora completato, non erano ancora

elaborati tutti i materiali conservati dall’archivio, e così non è escluso che ci possono essere

ancora documenti latenti che interessano la nostra storiografia. Speriamo che in un prossimo

futuro si offrirà un’occasione di svelare e descrivere tutte le fonti che hanno un’importanza 22

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ungherese e possono avere contributi per conscere e capire meglio la nostra storia medievale e

rinascimentale.

II. 2. Il Giornale di 1495

La filologia

È ancora una domanda irristolta a quale disciplina appartenga la filologia, ma secondo

più opinioni35 essa è piuttosto un insieme delle discipline al cui centro sta la ricostruzione di

un testo antico cercando la forma originaria attraverso l’analisi critica e comparativa delle

fonti nelle quali si trovano le varianti del dato testo. Secondo una definizione la filologia è una

"scienza e disciplina intesa a indagare una cultura e una civiltà letteraria, antica o moderna,

attraverso lo studio dei testi letterari e dei documenti di lingua, ricostituendoli nella loro forma

originale e individuandone gli aspetti e i caratteri linguistici e culturali."36 Lo scopo principale

della filologia è quindi di pervenire ad un’interpretazione che sia la più corretta possibile che

rispecchia quel testo originale che lo scrittore immaginava. Per ottenere questa forma

c’incontriamo con due problemi principali: la ricostruzione dello stato del testo e

l’interpretazione del significato vero. Anche nel caso presente dopo la presentazione del

codice originale e del suo apografo dai quali ho lavorato, ho seguito questa via prima

commentando la forma del testo, poi attraverso l’interpretazione del contenuto.

Il documento originale

Il codice originale oggi si trova nell’Archivio di Stato di Modena sotto la segnatura

Camera Ducale. Amministrazione dei Principi No 705. Il registro, secondo la propria

determinazione ha una misura di 215 x 290 millimetri che posso confermare io stessa in

seguito a misurazioni effettuate a Modena e all'esame autoptico del documento: quindi il libro

è largo 23 e lungo 30 centimetri che corrisponde ad un semplice foglio A/4 di norma odierna.

Secondo il titolo il codice ha 44 carte dalle quali, secondo i controlli alcuni possono mancare.

Eppure non lo considererei incompleto perché tutte e due le parti, le entrate e le uscite, sono

intere in quanto i loro periodi sono identici: dal 1° maggio al 10/11 agosto 1495.

35 Cfr. KRISTÓ Gyula – MAKK Ferenc: Filológia. In: A történelem segédtudományai, a cura di Iván BERTÉNYI,

Budapest, 2003. pp. 186-200 36 Emidio DE FELICE - Aldo DURO: Dizionario della lingua e delle civiltà italiana contemporanea. Palermo

1974. p. 767. sv. filologia23

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Il libro è stato restaurato negli ultimi tempi e il danneggiamento delle carte è stato

fermato. Tuttavia le prime pagine purtroppo sono rimaste gravemente rovinate37. I fogli sono

lacerati proprio al dorso, ma la restaurazione li ha riuniti, e rilegati di nuovo in forma di libro.

Il codice ha ricevuto una nuova copertina di cartone che non corrisponde però alla copertina

originale dalla quale sopravviveva solo una piccola parte che è stata inserita sul lato interno

della copertina anteriore attuale.38

Su questo frammento però è presente senza dubbio il titolo originale con più righe le

cui grafie risultano differenti. Le parti leggibili sono i seguenti:

IS Marie Filius miserere mei

[LI]BRO DICTO GIORNALE DEL 149[5]

[.......]

24° 1495

ordinali per corte di Strigonia

. 33 .

Questa iscrizione stava sulla copertina originale, probabilmente sul lato frontale. La

prima riga è senza dubbio un’invocazione: l’autore dedica la sua opera a Gesù Cristo, Figlio

di Maria. Il nome di Gesù è abbreviato nella sigla usata: IS (Iesus Salvator). La riga seguente

contiene il titolo scritto con maiuscole e la data del codice. Sotto il titolo c’è una frase molto

sbiadita scritta con minuscole che è purtroppo tanto illeggibile che nemmeno sulle foto

ingrandite non sono riuscita ad identificarla. La segnalazione originale del Giornale è 24

dell’anno 1495, poi sotto troviamo la determinazione del genere del libro. Il numero 33

poteva essere una marcatura come il 24 sopra ma non è ancora chiarito il significato di queste

segnalazioni.

I fogli del codice sono di carte a mano preparate probabilmente in Italia: sui fogli

troviamo filigrane che ci danno la possibilità di rivelare la provenienza dei fogli. Su ogni

pagina si può vedere una bilancia a bracci in un cerchio. Nella raccolta delle filigrane di

Briquet39 possiamo trovare quasi trecento varianti delle bilance. Analizzando però

attentamente le forme e le linee, ho potuto ridurre le possibilità a quattro40, dai quali però la

più verosimile è quella che è disegnata sotto il numero 2472. Questa forma venne usata a

37 Appendice III. illustrazione 2° 38 Appendice III. illustrazione 1° 39 Charles M. BRIQUET: Les Filigranes I. Georg Olms Verlag Hildesheim. New York 1977.40 Ivi pp. 184-185, disegni: svv. 2472, 2473, 2474, 2476

24

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Venezia il 1464 la cui variante fu trovata anche in Ungheria dall’anno 1466. Quindi si tratta di

un’officina italiana dalla quale presero fogli anche per almeno un codice ungherese.

Per caratterizzare la scrittura del testo, possiamo riferire che è scritto con minuscole

corsive umanistiche41 e la grafia su le nove pagine la stessa tranne le ultime due voci che

differisce dal testo precedente. La spiegazione di questo fenomeno può essere che avrebbero

usato un altro tipo di inchiostro, o le voci sarebbero state scritte da un altro mano.

La copia

Da questo codice originale fu fatto un apografo dagli archivisti veneziani nel 1915 che

è conservato fino ad oggi dalla Sezione dei Manoscritti dell’Accademia Ungherese delle

Scienze sotto la segnalazione Ms. 4998, fasc. 10. Questa copia fu l’ultima che giunse in

Ungheria prima che scoppiasse la guerra tra l’Italia e la Monarchia Austro-Ungarica, per

questo ha anche una curiosità diplomatica. Ma la sua importanza è soprattutto che il copista

aveva ancora la possibilità di leggere un testo più completo in quanto il codice non era ancora

così danneggiato come ai nostri giorni. Pertanto ci sono parti del testo che conosciamo solo

dalla copia. Questi parti sono notate nel testo con le parentesi quadre [ ], per esempio 3,39:

omni anno; 3,73: Gismondo ecc. Per caratterizzare la copia e il lavoro del copista possiamo

affermare che segue fedelmente la rottura delle righe e delle pagine, oppure se non glielo

permette la misura della pagina, nota la rottura per esempio con una linea in caso delle pagine.

Per la divisione delle parole usa il segno d’uguaglianza (=). Se comincia una nuova pagina

nell’originale, il trascrittore indica il numero del foglio seguente. Sebbene il codice fosse

ancora in una condizione migliore, anche il copista aveva alcuni brani che non poteva leggere.

Queste parti vennero segnate con punti (...). Inoltre le abbreviazioni dell’originale sono tutte

sciolte nella copia.

Possiamo comunque osservare alcuni errori tipici dei copisti: lo scioglimento sbagliato

di un’abbreviazione, per esempio 2,27: al posto di p(ro)x(im)o passato scrive per decime

passate, 8,41: al posto di s(cilicet) scrive fiorini; la dittografia, raddoppiando il sintagma a me

contanti (6,162); l’omissione di un numero: 3,54, o una parte intera del testo: 4,79-80, 4,87-89

(queste voci vennero poi inserite ulteriormente a piè della pagina); lettura o scrittura sbagliata

di una somma o di una parola: al posto di 3600 denari sta 2600 denari (8,3), al posto di

Mercordì c’è Martedì (3,62); scioglimento inesatto di un’abbreviazione: al posto di Martos

sta Mantos (3,51); e infine possiamo trovare esempi di grafia in dialetto veneziano: al posto di

argento troviamo due volte arzento (5,150, 11,44). Abbiamo ancora una parte che il copista 41 Esempio: Appendice III. illustrazione 3°

25

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avrebbe frainteso: magari all’analogia delle voci precedenti il trascrittore avesse pensato che lì

doveva essere un nome di un luogo e scrisse Lore, mentre qui si tratta di una tassa de lo re

(10,19).

Malgrado questi errori, la trascrizione è tuttavia molto utile nell’analisi dei codici

d’Ippolito perché gli archivisti veneziani potevano lavorare ancora con i libri meno rovinati e

potevano ancora leggere più parti dei testi. Inoltre dobbiamo sottolineare anche la competenza

di questi specialisti che lessero la maggior parte dei testi bene e sciolsero la maggior parte

delle abbreviazioni in modo corretto. Così le trascrizioni, trattate con la dovuta attenzione

critica, possono aiutarci nell’interpretazione dei testi originali.

II. 2. 1. Osservazioni metodologiche e filologiche

Il metodo della trascrizione

Innanzitutto desidero sottolineare che si tratta di un codice e di un testo

rinascimentale: il registro presente naque nel 1495, nella corte dell’arcivescovo di Esztergom,

nel Regno d’Ungheria. Il Giornale serviva proprio per quello che indica il suo nome: aveva un

ruolo quotidiano, perché in questo quaderno venivano allibrati gli importi appena entrati o

appena usciti. Da questo volume riportarono le voci sul libro mastro, cioè aveva una funzione

quasi di una prima stesura della partita. Ovviamente non si tratta di un testo letterario che è

ben composto e redatto, però rispecchia un linguaggio veramente usato nel suo valore

quotidiano, e anche il suo scopo fu più usuale che lasciare qualcosa alla posterità.

Inoltre va notare una situazione incomparabile, in cui un notaio italiano doveva

lavorare in un ufficio ungherese, dove il linguaggio dell’amministrazione era il latino mentre

la lingua parlata dal popolo, l’ungherese. Il notaio non poteva sfuggire all’influsso di queste

circostanze, mentre provava ad utilizzare nello stesso tempo quel ritmo di lavoro che prima

aveva studiato ed esercitato in Italia. Fu quindi costretto ad usare parole e termini ungheresi, e

anche latini che però avevano un significato determinato dall’abitudine ungherese.

Quindi possiamo considerare il testo presente come un documento della lingua italiana

di un determinato luogo e periodo, e che possiamo comprendere se analizziamo in queste

circostanze speciali. Per capire il contenuto bisognerà spiegare alcuni concetti specialmente

ungheresi, ma anche alcuni latini e italiani che però hanno diverso significato tra le condizioni

medievali in Ungheria. Attraverso queste spiegazioni potremo interpretare il testo nel migliore

dei modi il che è uno degli scopi pricipi della filologia.

26

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L’altro suo scopo, come abbiamo già visto è la ricostruzione del testo fedelmente alle

intenzioni dell’autore. Per ottenere la trascrizione migliore del testo, ho usato due fonti che

sono state presentate sopra. Più esattamente la parte elaborata era la prima nove pagine del

Giornale42 la cui copia apografata si trova all’Accademia di Budapest tra i manoscritti43. Il

lavoro è stato cominciato con la valutazione delle copie che sono conservati all’Accademia

delle Scienze di Budapest. Il risultato della ponderazione è che lo stato delle copie è buono, il

loro testo è ben leggibile che ci permette di lavorare con esso abbastanza facilmente. Avendo

la speranza in una futura edizione di tutti i registri, abbiamo scelto un brano dei testi sul quale

abbiamo voluto dimostrare l’adattamento immaginato del materiale. Però gli errori scoperti

dei copisti durante la trascrizione hanno fatto opportuno che il testo venga confrontato con

l’originale. Per fortuna quest’intenzione è diventata realizzabile e oggi abbiamo già delle foto

digitali sulle pagine del Giornale originale (M). Già durante la prima comparazione si è fatta

luce su più errori del copista dai quali i più appariscenti sono: M: “3600 denari” mentre in B:

“2600 denari” (8,3), M: “Mercordì” B: “Martedì” (3,62) ecc. Però ci siamo resi conto che le

parti del testo che il copista non potè leggere, non le vediamo nemmeno noi, anzi, l’originale

oggi è meno leggibile come era nei tempi dei copisti veneziani, dunque senza l’apografo

possiamo riconoscere meno del testo. Come risultato della comparazione abbiamo ricevuto

una trascrizione la cui base è già il testo originale però contiene anche quei complementi che

il copista potè ancora leggere cento anni fa. Alcune volte ho potuto controllare ed

eventualmente correggere le incertezze della copia con l’ingrandimento delle foto digitali, per

esempio B: scaso, M: sconto (3,53). La copia mi poteva aiutare nello scioglimento giusto

delle abbreviazioni, però i malintesi evidenti della copia naturalmente li ho corretti e poi

segnalati nell’apparato critico, per esempio: B: per decime passate M: proximo passato (2,

27), B: fiorini M: scilicet (8,41).

Il notaio, fedelmente alle tradizioni medievali, usava le abbreviazioni d’abitudine

consacrata. Ho potuto risolvere tutte quante il che è dovuto anche alla copia. Posso

distinguere tre gruppi delle abbreviazioni che ho incontrato nel testo: l’abbreviazione più

semplice è generalmente di una sola lettera, nel secondo gruppo appartengono le composte

che riducono una o due sillabe, e infine le abbreviazioni più forti sono quelli che indicano

un’intera parola in una o due lettere. Le abbreviazioni più frequenti del Medioevo che ho

messo nel primo gruppo sono quelle delle consonanti nasali (m,n) con una lineetta orizzontale

42 Modena, Archivio di Stato, Camera Ducale. Amministraione dei Principi. No 705 1r.- 5r (M)43 Budapest, Magyar Tudományos Akadémia, Kézirattár, Ms 4998 fasc. 10. 1r. – 11v. (B)

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sopra le lettere vicine, della vibrante r, dei prefissi pro-, pre-, per-, por-, par- e con-, e del

suffisso que. Le abbreviazioni composte riducono le parole con almeno una sillaba, per

esempio: q(ue)sto, giug(no), de(nar)i, l(ite)rato, p(ro)x(im)o, di(cto), s(anc)to, ave(re),

l(ette)re, moli(no), c(ontan)ti ecc. Le più forti riducono la parola alle lettere minime, come

f(iorini), d(enari), q(uando), M(on)s(ignor) R(everendissimo), x: (decima), s(cilicet),

m(aestro) ecc. Anche i nomi propri venivano abbreviati: Ant(oni)o, Franc(esc)o, Gio(r)gio,

Gismo(n)do, He(r)na(n)do ecc. Più raramente, ma tra i toponimi troviamo ugualmente esempi

alle abbreviazioni: Na(n)dor, Ma(r)tos. Quest’ultimo esempio è stato risolto dal copista

veneziano in “Mantos”, perché il segno sopra le lettere non è univoco, e probabilmente il

trascrittore abbia scelto la variante più frequente, siccome non potesse conoscere il nome del

villaggio. L’uso delle abbreviazioni non è sempre conseguente, c’erano casi, quando una

parola veniva abbreviata a diversi modi, oppure non veniva affatto abbreviata.

La forma delle voci sembra di seguire un’ordine prestabilita, in cui le singole

informazioni occupano certi posti a seconda del loro genere. Di solito comincia con

l’indicazione del luogo o della persona da cui entra l’importo che poi segue la somma stessa

descritta con parole che grammaticalmente equivale all’oggetto diretto. Il posto secondario

dell’importo è esclusivo e segue l’ordine locale dei valori, per esempio fiorino venne scritto

anche se il dato importo era sotto un fiorino: per esempio 3,65-66: “f(iorini) d(ena)ri

ottuagi(n)ta duo d(ena)ri” dove dai fiorini ne portarono nulla e magari la doppia scrittura

della parola denari serviva per segnalare la mancanza dei fiorini, e che l’importo è

esclusivamente in denari. Solo dopo l’oggetto diretto troviamo il verbo che generalmente è

“portò” e che può anche mancare essendo un’informazione a volte superflua. L’agente, che

porta la data somma non sempre viene indicato all’incontro del titolo al quale riceve la corte il

pagamento che manca dal testo molto raramente. Oltre queste informazioni, nella maggior

parte dei casi troviamo ancora qualche dettaglio o sulla transazione o sulla sorte seguente

dell’importo ecc. Dunque possiamo affermare che le voci seguono una formula comune in cui

le informazioni occupano posti fissi.

I fenomeni trovati nel frammento presentato potrebbero preannunicare anche

l’importanza del complesso dei codici ancora non pubblicati. Per esempio oltre l’importanza

storico-economica, il testo ha anche un valore linguistico essendo un documento che

rispecchia un linguaggio usato. Per poter dimostrare il processo della trascrizione, i fenomeni

ricorrenti e i problemi principali trovati nel testo trascritto, ho esaminato di voce in voce uno

da i quattro mesi: il mese di maggio perché essendo il più lungo, contiene le più voci.

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Osservazioni filologiche

La prima pagina del Giornale comincia con la data del giorno attuale: p(ri)mo d[i]

magio (2,1). Poiché il foglio è gravemente danneggiato, non si vede ma possiamo ipotizzare

che o al capo della pagina o all’inizio della riga era presente anche l’anno (1495) che per

esempio nei mastri appare sempre in cima alle pagine.

2,2-4: Potrei riassumere in questo modo il senso della voce: Da Udvard furono portati

6 fiorini in contanti per il censo di San Giorgio. Secondo l’analogia alcune parole sono

facilmente recuperabili malgrado il guasto meccanico del foglio: Da la villa all’inizio e

proximo nella terza riga. Però l’inizio della riga seconda è incerto, non si vede niente dalla

parola. Esaminando la frase invece possiamo accorgerci che dalla costruzione possessiva

manca il possesso che è nello stesso tempo il soggetto della frase. Probabilmente la parola

mancante era “giudice” o “giurato” come vedremo nei seguenti casi. A quest’ipotesi

contraddice però la preposizione in che sta alla fine della prima riga. Altri fenomeni da

menzionare di questa voce sono le forme latineggiani, come proximo, sancto, la parola logo

senza dittongo, e l’articolo maschile lo davanti alla parola censo.

2,5-6: Da questa voce possiamo conoscere che il giudice della villa Gyarmat portò 17

fiorini in contanti per il termine di San Giorgio trascorso. A causa del danneggiamento del

foglio le prime parole delle due righe sono illeggibili, ma sulla base dell’analogia possiamo

recuperare la maggior parte delle parole: Da la villa, e la fine della parola giudice. Tra giudice

e per sicuramente c’è ancora una parola (probabilmente loro), ma portroppo è completamente

illeggibile. L’identificazione del luogo non è facile, anche la forma della parola è incerta

perché nell’originale si vede “Giamae” che lesse anche il copista veneziano, ma la lettera

finale è dubbiosa: l’e che scelse il copista potrebbe essere anche una t. Sulla base del Liber

Sancti Adalberti ho scelto la forma con la t perché l’unico possedimento con un nome simile è

Gyarmath dalla quale però ne abbiamo subito due: uno nel comitatus di Hont e uno in Bars.

La forma variante del toponimo è stata segnalata nell’apparato critico.

2,7-9: Il contenuto della voce in questo caso è meno univoco: Stefano portò 5 fiorini

da Kissáró per il censo di San Giorgio ... dice maestro Monaro. Più parti della presente voce

non sono leggibili a causa di guasto meccanico e purtroppo in questo caso non ci aiuta

nemmeno la copia di Budapest, perché nemmeno il copista vide le parole in questione. Si può

eppure affermare alcuni dati: il notaio sbagliò nello scrivere la somma, e cancellò la parte

quatro et de(nar)i che ho segnalata con le parentesi angolari. Ne sono consapevole che in

un’eventuale pubblicazione del testo, questa parte dovrà essere tolta dal testo principale e

segnalata solo nell’apparato critico. Siccome però i presenti materiali hanno un carattere 29

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rappresentativo del documento originale in modo fedele, nella trascrizione dell’appendice ho

lasciato nel principale le parti cancellate segnalando nell’apparato che l’apografo di Budapest

le omise. Per quanto concerne le parole illeggibili, purtroppo possiamo recuperarne solo

l’inizio della prima riga (2,7) secondo l’analogia: Da la villa. La riga ultima così ha senso

dubbioso: adesso sembra essere un’affermazione su una transazione tra Stefano e il maestro

Monaro che poi avrebbe dato notizia su quest’azione al notaio che infine avrebbe allibrato la

somma. Però la parola dice può anche essere la fine di giudice come nelle altre voci. In questo

caso il senso della frase dovrebbe essere risolto dalle parti non visibili.

2,10-11: Il giudice di Szentgyörgyfalva portò 10 fiorini e 60 denari per il censo di San

Giorgio. La frase ha un senso completo malgrado la mancanza di qualche parola all’inizio

della seconda riga. La forma della voce rispecchia la cornice tipica: comincia con il luogo,

segue la somma indicata con parole, poi il titolo, infine il verbo e l’agente. Qui possiamo

osservare inoltre l’oscillazione degli articoli maschili tra lo e il dai quali la prima forma risulta

più frequente nel testo. È una curiosità che il nome della villa è parimente San Giorgio, come

la festa, e fu tradotto ugualmente in italiano.

2,12-16: Il contenuto della presente voce è più complesso: Dal pisetario di

Körmöcbánya, Giovanni Guldino ricevettero 204 fiorini, dai quali abbonai il resto di 25

fiorini a maestro Agustino Horzo che andò in Italia per la commissione di Monsignor

Reverendissimo. La voce è una proposizione ripetutamente composta il cui significato non è

completamente chiaro a causa della mancaza di ancune parole sempre per guasto meccanico e

anche della lettura incerta delle parole Horzo, acattati. Il copista veneziono scrisse alcune

volte z al posto di g, e h al posto di b, e non è escluso che anche nel caso di Horzo si tratti di

questo fenomeno essendo la scrittura delle due lettere molto simile, ma siccome non posso

raffrontare il nome con più varianti, l’ho lasciato in tale forma nel principale. La parola

acattati è sempre incerta perché l’inchiostro è molto sbiadito e il copista scrisse una parola

diversa (acoltati) ma ingrandendo la foto digitale sembra la t raddoppiata tra due a. Dal senso

del testo però è chiaro che deve stare qui un verbo con il significato di prestare. Alla fine della

voce però venne allibrata eppure la somma 204 fiorini senza la riduzione dell’importo di 25

fiorini accreditarono al maestro Agustino Horzo. Per quando riguardano i fenomeni

grammaticali, in questa frase abbiamo più forme verbali: forme finite: presente (sono),

passato remoto (dedi, andò) che è la forma verbale più frequente del Giornale, passato

prossimo (ho renduti) dove la forma coniugata dell’ausiliare eccezionalmente è scritta con la

h iniziale, e imperfetto in una struttura passiva (erano acattati); forme non finite: participio

passato (conputati, fatti).30

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2,19-22: Dal plebano di Csetnek, don Valentino ricevettero 24 fiorini in contanti per

quel censo che lui paga in ogni anno all’arcivescovato al termine della festa di San Giorgio.

Questa voce riferisce ad un’entrata dell’arcivescovo a titolo eccesiastico del census

plebanorum. La tassa pagata non deriva da un possedimento dell’arcivescovato, ma da un

plebano che fu estratto dalla mansione dell’arciprete e subordinato direttamente

all’arcivescovo. Grammaticalmente possiamo menzionare che dalla principale mancano il

predicato e il soggetto che tuttavia sono evidenti (per es. ricevei), per il pronome personale

usa la forma lui, le preposizioni e gli articoli non si uniscono e la consonante iniziale degli

articoli non viene raddoppiata (a lo, a la), e nella parola arcivescoado troviamo un’iato che il

copista non se ne accorse e scrisse arcivescovado.

2,23-28: Questa voce è molto simile al precedente: Da don Pietro plebano di Örs

ricevettero un carro ferrato con cento lame di ferro per conto della decima che lui paga in

ogni anno all’arcivescovato al termine della festa di San Giorgio. L’importo entra

ugualmente da un plebano, ma secondo il testo qui non si tratta di un census plebanorum, ma

di una decima annuale che il plebano in questione paga annualmente al termine del giorno di

San Giorgio. È inoltre interessante che la tassa in questo caso viene “pagata” in natura, ma la

registrazione dell’entrata non differisce dalle altre voci, cioè la quantità e il genere dell’entrata

è indicata nella colonna destra dove in atri casi gli importi. Solo in testo troviamo che il carro

e le lame sono per conto della decima. Vale la pena anche di controntare la presente formula

della motivazione con la precedente: ...per lo ce(n)so, che lui paga om(n)e anno a lo

arcivescoado a la festa di S(anc)to Gio(r)gio, et questo per lo te(r)mine di S(anc)to Gio(r)gio

passato (2,20-22), ...p(er) co(n)to de la (decima) che lui paga om(n)e anno a l’a(r)civescoado

i(n) la festa di S(anc)to Gio(r)gio, et q(ue)sto p(er) lo te(r)mi(n)e di S(anc)to Gio(r)gio

p(ro)x(im)o passato (2,24-27). Le due formule sono quasi uguali, ma ne troviamo alcune

differenze: nella prima davanti alla parola arcivescoado usa l’articolo maschile lo, che in

genere preferisce, ma nella seconda troviamo già la sua forma ridotta l. Nel primo caso

vediamo che il plebano paga a la festa, mentre nel secondo esempio in la festa di San

Giorgio. Quest’ultima forma ci può dimostrare che usarono le preposizioni e gli articoli in

modo separato. In tutte e due le frasi sono scritti a tutte lettere la parola anno che

generalmente è abbreviata, e l’iato nella parola arcivescoado rimane anche nel secondo caso.

Infine in questa voce possiamo incontrare le abbreviazioni forti delle parole decima (xa), cento

(co).

2,29-31: L’esempio presente è più semplice: Alberto, il giudice della villa di Mocsa

portò 8 fiorini e 7 denari per il censo di San Giorgio. In questa voce il notaio scrisse prima 31

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Sancto Michele che poi cancellò con una linea e scrisse sopra la riga Giorgio. Però la

correzione è così sbiadita che prima ho letto solo la forma errata e preferivo Michele al

contrario della copia apografata dove il copista scrisse solo Giorgio, e solo durante l’analisi

del testo ho incontrato la correzione, quando ho ingrandito ripetutamente la foto digitale. Le

altre curiosità della voce sono che il nome del numero sette assomiglia alla forma latina

(septe) perché la consonante p non assomigliava alla t; e troviamo un’apposizione dopo il

nome Alberto (loro giudice) dove il pronome possessivo precede il sostantivo e l’articolo

determinato non è indicato.

2,33-35: Antonio, il scriba della corte diede 4 fiorini e 40 denari dalla villa di Imély

per il censo di San Giorgio. In questa frase incontriamo un’apposizione simile alla

precedente: Antonio, diac nostro, ma in questo esempio il pronome possessivo è preceduto dal

sostantivo. È ancora da menzionare che la parola diac è già una forma ungherese per

segnalare lo scriba e che deriva dalla parola latina diaconus44.

2,36-3,37: La parte superiore della seconda pagina è ugualmente danneggiato, per

questo alcune parole non sono visibili dalla seguente voce: Dal giudice di Kéménd ricevettero

fiorini ... 8 per il censo di San Giorgio trascorso. Purtroppo non vediamo la somma finale

nella colonna destra per questo non possiamo decidere quante sono i fiorini e quante i denari.

Lo spazio tra fiorini e otto non ci permette di pensare che la somma intera fosse 8 fiorini, ci

deve stare ancora almeno una parola. La lettura della villa è ugualmente incerta, perché le

lettere finali sono già illeggibili, per tanto ho seguito in questo caso la copia, in cui però

traviamo la forma Kemez con una z alla fine. Da questa voce però nella colonna sinistra della

pagina appaiono i riferimenti ai fogli del mastro, sul quale riportarono i dati del Giornale.

3,38-41: Biasio diac, il mandato del piovano di Pelsőc portò 8 fiorini per la tassa che

il piovano paga in ogni anno per il termine di San Giorgio. Purtroppo qui non si vede

ugualmente la somma precisa, e manca anche il titolo del pagamento. Sappiamo che il

plebano in questione deve pagarlo in ogni anno per il termine di San Giorgio, e sulla base di

quest’informazione possiamo ipotizzare che il titolo era il census plebanorum. Questa

supposizione viene confermata anche dalla 21. tabella di Fügedi45, dove sono elencate le

parocchie subordinate all’arcivescovo tra le quali ci troviamo anche Pelsőc. Come fenomeno

grammaticale possiamo osservare in questa voce una costruzione passiva (è obligata pagare),

e sempre un’apposizione dopo il nome Biasio (suo mandato). Per quanto riguarda il lessico,

qui troviamo un sinonimo della parola “plebano” che usava finora: “piovano”.

44 Cfr. Etimológiai szótár. a cura di Zaicz Gábor. Tinta Könyvkiadó. 2006. sv. deák45 Fügedi, p. 549, tabella 21.

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3,42-46: La registrazione di quest’importo è più complessa: Da Biasio “letterato”

portò 7 fiorini e 70 denari per il dazio di Szentkereszt e diede ancora 3 fiorini a Ridolzi per la

mia commissione, insomma 10 iorini e 75 denari che è la parte della corte, l’altra metà ebbe

il familiare di Janus. In questa voce troviamo più parti incerte che rendono difficile sia la

trascrizione sia l’interpretazione del passo. Nella prima riga la parte p(er) lo telonio di

S(anc)ta Croce è scritta sopra la linea sia nel documento originale sia nella copia, che ho

segnalato con le parentesi angolari nel testo principale, facendo riferimento nell’apparato

critico. La riga è divenata così lunga che non ho potuto scrivere in una linea, e la parola

settanta è passata alla prossima riga. Dopo settanta non appare nessun numero, né dopo i tre

fiorini, tuttavia troviamo nella seguente frase - quando indica il totale - 75 denari. La rubrica

delle somme nel documento originale risulta purtroppo illeggibile, nella copia però vediamo f.

10 d. 70 che non corrisponde al totale indicato nel testo. In questo caso è difficile a decidere

se si tratti di un errore dello scriba oppure del copista veneziano. Poiché lo scopo della

trascrizione presente era l’interpretazione del testo originale in modo più fedele, ho corretto

l’importo presente nella rubrica della copia, e scritto d. 75, come appare nel testo

dell’originale. C’è una seconda differenza tra l’originale e il copia: il nome di Ridolzi, che il

copista veneziano lesse Rivolzi, mentre nel codice possiamo leggere senza ingrandendo la foto

una bella d. La differenza è stata segnalata nell’apparato critico e secondo il testo seguente

abbiamo una conferma sulla correttezza del nome. Però non è chiaro nella frase seconda che il

fameglio de Janus chi fosse e perché potè avere l’altra metà della somma. Il fameglio

probabilmente corrisponde al termine “familiare” del mondo medievale ungherese che

significava un uomo nobile che dipendeva personalmente da un magnate avendo sevizi

economici, amministrativi o militari come dovere verso il suo magnate, e che consideravano

come un appartenente alla famiglia del magnate.46 Un altro termine da spiegare, presente in

questa voce, è il telonio che deriva dalla parola latina telonium, ii, n. con il significato dazio.

L’arcivescovo aveva otto luoghi sui suoi possedimenti ai quali si doveva pagare dazio.

Szentkereszt si situava tra Esztergom e le città di minatori e l’arcivescovo partecipava agli

scambi di questa via commerciale.

3,48-50: Il giorno seguente è martedì, 5 maggio, e comincia con un pagamento di

censo: Giovanni Picolo, il giudice della villa Tardoskedd portò 9 fiorini e 70 denari per il

censo di San Giorgio. Per il danneggiamento del foglio ho avuto bisogno anche in questo caso

dell’aiuto della copia in cui per fortuna ci troviamo tutte le parole e anche la somma. Il nome

del giudice è interessante perché la persona era molto verosimilmente ungherese (potermmo 46 Cfr. Magyar történeti fogalomtár. I. A cura di Péter BÁN, Budapest, 1989. pp. 125-126 sv. familiáris

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anche tradurre in Kis János) essendo un ufficiale di una villa ungherese, ma il notaio tradusse

il suo nome in italiano. Anche nella parola Picolo possiamo osservare la tendenza delle

consonanti semplici, non geminate. La voce comunque è tipica, in quanto mantiene la forma

precedente delle voci che trattano dei censi. Anche Fügedi dimostrava nel suo articolo le voci

del Giornale attraverso questo esempio.47

3,51-53: Non è raro la prima persona singolare nel testo, che lo scrivano avrebbe

dovuto scrivere in nome della cassa secondo i concetti odierni, come nell’esempio presente:

Dalla villa di Martos entrarono 13 fiorini e 75 denari comprendendo quei 2 fiorini e 25

denari che ho scontati per i nove mucchi di fieno che mi avevano venduti. Il copista veneziano

ha sciolo la lettera abbreviata del toponimo come una nasale, ma siccome non esiste alcun

borgo con un nome simile, ho rivisto l’abbreviazione ingrandendo la foto digitale e ho trovato

che il segno non è univoco in quanto comincia con un tratto verticale che può riferire ad una r,

mentre la parte maggiore della linea è orizzontale che in genere significa veramente

un’abbreviazione nasale. Alla fine ho scelto la forma con la r segnalando la variante

nell’apparato critico. Il notaio scrisse due volte la parola doi, la seconda delle quali fu

cancellata. Nella registrazione presente troviamo alcuni riferimenti al notaio stesso che

ridusse una parte della somma pagata con il prezzo di una quantità del fieno che gli avevano

venduto. Usa i pronomi personali io e me in posizioni atone. Troviamo qui ancora un

pronome atono: li che però è visibile solo nella copia. Per quanto riguarda i verbi, nella

principale non è presente alcun verbo, mentre nelle subordinate ce ne sono due in passato

prossimo: ho sconto, anno venduto. Il primo di questi verbi è indicato nella copia in una

forma incerta “scaso” che però non ha senso.

3,54-55: Da Hetény entrarono un fiorino e 20 denari per il loro censo di San Giorgio.

In questa semplice voce è interessante il nome di Hetény senza l’h iniziale e che il notaio

mette il pronome possessivo loro dietro del sostantivo censo.

3,56-57: Da Bersen entrarono 2 fiorini e (più di 60) denari per il resto del loro censo

di San Giorgio, l’altra parte è stata pagata il 25 aprile. Qui abbiamo più parti incerte: le fine

delle righe non sono leggibili e dalla copia possiamo recuperare solo alcune parole (contanti e

parte), poi dopo l’abbreviazione di fiorini nella terza riga (3,57) troviamo un segno non molto

comprensibile che ho interpretato come un’abbraviazione “ri” della stessa parola fiorini.

L’identificazione della villa era veramente difficile perché la copia indica un nome non

riconoscibile: “Herten” che ho segnalato nell’apparato critico. Anche in questo caso ho potuto

recuperare la forma giusta ingrandendo la foto ed esaminando le lettere e l’abbraviazione. La 47 Fügedi, p. 85

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lettera iniziale assomiglia veramente ad una h, ma la consonante che sta dopo l’abbreviazione

e che il copista ha letto t, è senza dubbio una s. Così ho potuto alla fine identificare il

paesaggio in Bersen che è un nome medievale di Nagybörzsöny. Purtroppo la somma precisa

non si vede né ingrandendo la foto né nella copia, possiamo sapere solo che la quantità dei

denari dev’essere tra sessanta e settanta. L’importo pagato comunque è solo il resto della tassa

dovuta, il testo indica che la prima parte (in preciso 8 fiorini) era stata già pagata il 25 aprile,

cioè dieci giorni prima. Il censo della villa per questo termine fu quindi 11 fiorini e di poco

più di 60 denari. Grammaticalmente è ancora interessante che il verbo pagare che sta in

passato remoto terza persona plurale ha un forma ridotta: pagaro.

3,59-61: La voce presente descrive un’entrata differente: Da Michele di Strigonio e

dai suoi compagni entrarono 160 fiorini per il conto delle decime che loro avevano comprate

in questo anno. La registrazione si tratta di un introito venuto dai appaltatori di una parte della

decima ecclesiastica. Dalla voce non possiamo rivelare quale parte appaltassero delle decime,

solo che gli appaltatori lo comprarono in “questo anno”, quindi il saldo valeva per un anno. È

interessante che si tratta di un gruppo che paga insieme all’arcivescovato, quindi anche il

profitto sarebbe stato distribuito tra i membri. La frase presente è ben leggibile nell’originale,

la parola decime è abbreviata in modo già presentato: xe. Nella subordinata troviamo due

parole omonime: anno, dalle quali il notaio abbreviò la seconda che probabilmente è il

sostantivo, mentre la prima che è la forma coniugata dell’ausiliare avere, venne scritta a tutte

lettere. Siccome il notaio non indicava con una h il verbo avere, ho messo un accento grave

sulla a iniziale.

Il giorno seguente è mercoledì, 5 maggio ed entrarono pagamenti da otto luoghi. È da

menzionare che il copista scrisse martedì che ho segnalato anche nell’apparato critico, e che la

parola presente nell’originale ha una forma più arcaica: mercordì.

3,63-64: Da Szerdahely entrarono 5 fiorini 36 denari per il censo di San Giorgio. La

voce non dettaglia l’importo, non sappiamo chi lo portò, solo il fatto del pagamento.

L’identificazione del luogo non era molto difficile, perché l’arcivescovo possedeva solo una

villa con questo nome che era situato nel comitato Pozsony.

3,65-66: Da Farkasd entrarono (0) fiorini 82 denari per il censo di San Giorgio.

L’importo qui è il più basso, secondo Fügedi Farkasd aveva come tariffa forfettaria un fiorino

in un anno che poteva pagare in due rate. La voce qui dimostra quella tendenza che gli importi

fossero scritti in ordine del loro valore, dato che la parola “fiorini” venne scritta senza alcun

numero, poi segue immediatamente “denari” che comunque dopo il numero venne riscritta

35

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probabilmente per errore al posto della parola solita “contanti”. Il numero è in forma

latineggiante: ottuaginta duo che non è l’unico esempio nel testo.

3,67-71: Antonio, lo scriba portò da Gúta 45 fiorini e 65 denari per il censo di San

Giorgio, dai quali gli ho rimborsato 4 fiorini per una (quantità di pane) che mi avevano

venduta. Lo scrivano indica un’acquisto in questa voce che però non appartiene alle entrate,

ma poiché deduce il pagamento dal censo di San Giorgio, indica la transazione

immediatamente dopo l’incasso della tassa. Ho controllato nella parte delle uscite sotto la data

6 maggio, e ho trovato davvero la voce corrispondente: Al giudice di Gurta fiorini quatro li

quali la rilassai de lo censo di Sancto Giorgio per lo prezo di una fegna di fieno che lui mi

vende per uso di castello (...)48. Le circostanze sono conforme a quelle che troviamo tra le

entrate, ma l’oggetto non è uguale. Devo aggiungere comunque che la parola pano, indicato

dal copista, non è leggibile affatto nell’originale, perciò dovevo accettare la versione della

copia apografa. Poiché i limiti di questa tesi di laurea non sono sufficienti per fornire

un’analisi completa sul Giornale, prima di un’eventuale pubblicazione del codice bisogna

anche confrontare le voci corrispondenti delle due parti del volume. La parola fegna segna

una quantità, ma il suo significato preciso non è chiaro. Per quanto riguarda la villa, lo

scrivano sembra di scrivere per la prima volta Gurta, con una r in centro che non appare per

esempio nella versione del Liber Sancti Adalberti (Gwtha)49, ma tra le uscite è già in forma

Gwta. Il luogo tuttavia corrisponde senza dubbio a Gúta che oggi appartiene già a Slovacchia

e si chiama Kolárovo.

3,72-74: Gismondo Safar mi portò 7 fiorini da Cétény per il censo di San Giorgio.

Cétény era il centro di un officiolatus dell’arcivescovo a cui appartenevano Üzbég, Egerszeg,

Kinorány e Riblény, proprio quei luoghi che susseguono la voce presente. Gismondo Safar

così doveva essere il loro ufficiale che amministrava quest’unità economica e che

probabilmente raccolse anche in questo caso le sue tasse e portò alla corte di Esztergom.

Anche il suo secondo nome allude alla sua professione, in quanto la parola ungherese sáfár

significa uno che si occupa dell’amministrazione economica50. Interessante è ancora a livello

linguistico la subordinata relativa con la quale lo scrivano sottolinea un poco la somma, e in

cui mette anche il pronome indiretto mi.

48 Modena, Archivio Statale, Camera Ducale. Amministrazione dei Principi No 705. 22r.49 Liber Sancti Adalberti, Magyar Országos Levéltár, Urbaria et Conscriptiones, fasc. 45:25, fol. 4 r.50 Cfr. Magyar értelmező szótár a cura di JUHÁSZ József, SZŐKE István, O. NAGY Gábor, KOVALOVSZKY

Miklós, Budapest, 1972 p. 1188, sv. sáfár36

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3,75-4,76: Gismondo Safar mi portò 9 fiorini dalla villa di Üzbég. La forma di questa

voce non differisce molto dalla precedente. Una curiosità che vorrei sottolineare è che lo

scrivano non abbreviò la parola fiorini, e scrisse in forma latineggiante, florini. La villa di

Üzbég appartiene oggi alla Slovacchia con il nome Zbehy.

4,77-78: Gismondo Safar mi portò 5 fiorini e 75 denari dalla villa di Egerszeg.

4,79-80: Gismondo Safar mi portò 23 fiorini dalla villa di Kinorány.

4,81-82: Gismondo Safar mi portò 32 fiorini dalla villa di Riblény. Nyitraegerszeg,

Kinorány e Riblény facevano parte ugualmente in quest’officiolatus, e oggi si trovano nella

Slovacchia.

4,84-86: Il censo ricevuto dalla villa di Ölved, 12 fiorini, viene dato a Gaspari da

Bresia per comprare biava per il castello. L’identificazione di Ölved è difficile perché

esistevano ed esistono ancora due ville con lo stesso nome (Kisölved, Nagyölved), ed entrambi

appartenevano ai possedimenti dell’arcivescovo.

4,87-89: Il censo ricevuto dalla villa di Kéty, 4 fiorini, viene dato a Gaspari da

Brescia per comprare avena per il castello. In queste due voci possiamo vedere il lavoro del

provisor del castello mentre dirige l’economia della corte dando commissioni di acquisti.

Tuttavia qui non rivela la funzione esatta di Gaspari da Brescia che eseguì le disposizioni del

provisor.

4,91-93: Dalla villa di Nándor entrò 14 fiorini e 8 denari dai quali il provisor scontò 8

fiorini e 66 denari per il fieno dato per l’uso della casa. Nella frase non è indicato il soggetto

che portò il censo. La forma impersonale alla fine allude agli abitanti di questa villa dalla

quale comprarono fieno per il castello dalla stessa somma pagata per il censo di San Giorgio.

4,94-96: Da Szalka il giudice portò 13 fiorini per il censo di San Giorgio. È una

semplice forma in cui il notaio sottolinea che il giudice era del detto luogo scrivendo queste

parole con forme latineggianti.

4,97-99: Giovanni, il familiare di Michele de Püspöki e i suoi compagni portò 40

fiorini a conto della decima appaltata da loro. L’importo è una rendita dell’arcivescovo

incassata a titolo ecclesiastico in modo che davano la tassa in affitto, in questo caso ad un

gruppo dei nobili. Gli appaltatori sono nominati nel testo “decimatori” specificando il tipo

della tassa appaltata. Questa parola appare in modo differente nel codice originale e nella

copia: de cimatori (M) e de decimatori (B). Ho scritto insieme la parola senza la preposizione

poiché non figura nell’originale, e le varianti sono segnalate nell’apparato critico. La terra

grande non è specificata nel testo, probabilmente la parola seguente l’avesse nominata che è

purtroppo illeggibile, quindi non ho potuto identificarla. 37

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4,100-101: Il proposto di Santo Stefano mandò 100 fiorini per la decima appaltata.

Qui incontriamo un altro appaltatore della decima arcivescovile che è peraltro un proposto,

quindi un’altra autorità ecclesiastica. La seconda riga che è l’ultima della pagina è illeggibile,

la conosciamo solo dalla copia. L’identificazione in questo caso è difficile, probabilmente si

tratta di una pieve della città di Esztergom, ma per sostenere quest’affermazione bisognerà

svolgere ulteriori ricerche.

4,103-104: Miser Francesco portò da Nyergesújfalu 3 fiorini e 40 denari che il

provisor consegna a Giovanni Serafin. In questa voce non è stato specificato il titolo del

pagamento, posso solo ipotizzare che si tratti ugualmente del censo del termine di San

Giorgio. Non possiamo venire a sapere nemmeno che la somma venne data a Giovanni

Serafin per ammortare un prestito per pagare un salario o per comprare qualcosa per il

castello.

4,106-108: Da Naszvad portarono 44 fiorini e 9 denari per il censo di San Giorgio. La

seconda parte della presente voce è difficilmente comprensibile, probabilmente la villa

avrebbe dovuto dare 46 fiorini e il resto glielo condonarono forse a causa di un prestito

oppure di un acquisto. La parola ultima non è chiara, non la potè interpretare nemmeno il

copista veneziano.

4,110-112: Nicolò Safar presente che dal distretto di Szentkereszt 55 fiorini sono stati

riscossi da Ridolzi per il censo del termine di San Giorgio. Il distretto o destretto è il nome

precedente dell’officiolatus, unità economica dei possedimenti ecclesiastici. Ridolzi e Nicolò

Safar erano probabilmente due ufficiali della corte.

5,113-115: Dal detto distretto mandarono 24 fiorini come munere straordinario

mediante Ridolzi a Ippolito d’Este per le spese del suo viaggio a Buda. La voce presente e la

precedente si concatenano, due diversi importi sono allibrati da Szentkereszt che sono stati

gestiti da Ridolzi e comunicati da Nicolò Safar alla corte di Esztergom per poter registrare le

azioni economiche.

5,117-121: Giovanni, il prebendario della corte arcivescovile portò 29 (o 25) fiorini

da miser Giorgio, piovano di Berzence per il censo della sua pieve e resta a dare un fiorino.

Il piovano avrebbe dovuto pagare in oro, invece diede monete. La voce abbastanza dettagliata

allibra un censo dei plebani (census plebanorum). La somma è incerta perché nell’originale

non si vede il numero nella rubrica degli importi, e il testo indica vintinove fiorini, mentre

nella copia appare sia nel testo che nella rubrica 25 fiorini. Dal censo manca ancora un fiorino

che il plebano avrebbe pagato due giorni dopo che troviamo sotto la data di 18 maggio (5,128-

130). Una struttura interessante è la parte ultima della frase: et non che lui dovia dare oro et à 38

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dato moneta. Il piovano ha pagato in monete al posto d’oro, e il notaio sottolinea questo fatto

con una particella negativa che sembra superflua dal punto di vista lingustico.

Nell’identificazione del luogo mi aiutava il saggio di Fügedi51, in cui troviamo un elenco delle

pievi che pagavano il census plebanorum.

5,123-124: Il giudice della villa di Leléd portò 3 fiorini per il censo di San Giorgio. La

voce rispecchia il standard dell’allibramento dei censi. L’articolo del giudice nel caso presente

è il che è la variante meno frequente degli articoli maschili nel testo. Nella seguente voce

troviamo di nuovo lo.

5,125-126: Il giudice di Bajcs portò 7 fiorini 50 denari per il censo di San Giorgio.

5,128-130: Giovanni, il prebendario della corte arcivescovile portò 1 fiorino da miser

Giorgio, piovano di Berzence per il resto del censo pagato per il termine di San Giorgio. Qui

il plebano di Berzence saldò il suo debito sempre mediante il prebendario della corte. La

parola piovano qui venne scritta con n doppia (una abbreviata e una iscritta), mentre il

raddoppiamento di consonanti non caratterizza il testo.

5,132-134: Da Középső Vadkert enrtarono 17 fiorini 86 denari per il censo di San

Giorgio. La somma nella rubrica è f. 17 d. 80 secondo la copia, ma nel documento originale

non si vedono. Siccome nel testo possiamo leggere denari ottantasei, ho corretto il numero

della rubrica e segnalata la differenta nell’apparato critico.

5,135-136: Da Alsóvadkert entrarono 5 fiorini e 15 denari per il censo di San Giorgio.

Alsóvadkert e Középső Vadkert sono due ville vicini che si sono già uniti in Érsekvadkert,

intitolati all’appartenenza all’arcivescovo (érsek).

5,137-138: Da Hugyag entrarono 4 fiorini e 70 denari per il censo di San Giorgio .

Érsekvadkert e Hugyag erano situati nel comitatus di Nógrád e il loro censo entrò lo stesso

giorno. Possiamo quindi ipotizzare che i soldi fossero portati insieme, forse dall’ufficiale di

questo territorio.

5,139: La data di 19 maggio è indicata due volte a causa dell’inizio di una nuova

pagina. Possiamo affermare che la registrazione del notaio italiano era davvero conseguente

nel seguire le forme precise.

5,140-141: Il proposto di Santo Stefano mandò 200 fiorini per la decima appaltata.

Qui è allibrata una somma ricevuta da quel proposto che dodici giorni prima mandò 100

fiorini, sempre per la decima appaltata. Le espressioni che usa il notaio per indicare l’appalto

sono differenti: prima che lui tene, poi che lui à affitto.

51 Fügedi, p. 54939

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5,143-145: Cristoforo giurato portò 32 fiorini dal giudice di Rozsnyóbánya per il

censo di San Giorgio. Questa e le due prossime somme sono portate insieme da un giurato

della città di Rozsnyóbánya. Dalla voce possiamo venire a conoscenza al fatto che il censo era

stato mandato dal giudice della città.

5,146-148: Il sopraddetto Cristoforo portò 2 fiorini e 50 denari dal giudice della villa

di Csucsom per il censo di San Giorgio. L’identificazione del luogo in questo caso era davver

difficile, il copista veneziano scrisse Ciushidu che apparentemente non era una conforme alla

forma originale. Prima aver visto l’originale cercavo un luogo con un nome di “Kishida” che

risultava una villa inesistente. Nell’originale ho trovato una forma quasi meno comprensibile:

Ciuchioa. Mi ha aiutato infine il giurato che portò le tasse di tutti e due luoghi, così ho cercato

una villa nei dintorni di Rozsnyóbánya che apparteneva all’arcivescovato. Così sono riuscita a

trovare Csucsom, e il risultato finalmente è stato confermato anche dal Liber Sancti Adalberti

(Chuchan). La variante ricorrente nella copia l’ho segnalata nell’apparato critico.

5,149-151: Il giudice di Rozsnyóbánya mandò 28 marche e 18 pisetti di argento che il

provisor consegnò a Lodovico guardarobba. L’importo viene sempre da Rozsnyóbánya e

verosimilmente lo portò lo stesso Cristoforo. Questa è l’unica voce nel testo trascritto in cui la

somma non è indicata in fiorino. Se facciamo un calcolo sulla base delle definizioni del

Magyar történeti fogalomtár52 possiamo ricevere che le 28 marche corrispondono a 116,48

fiorini, ed i 18 piseti fanno 156 denari, insieme sono 118 fiorini e 4 denari. Comunque è

veramente interessante che la tassa fosse mandata in argento ancora non coniato.

6,153-156: Da Szakállas entrarono 8 fiorini per il censo di San Giorgio e il provisor

ne scontò 3 fiorini per il fieno comprato per il castello. Come precedentemente anche in

questo caso possiamo osservare che il provisor fa un acquisto dal censo appena entrato da

quella gente che lo consegnò.

6,157-158: Da Nadabula entrarono 6 fiorini e 28 denari per il censo di San Giorgio.

6,159-162: Dal proposto di Santo Stefano entrarono 700 fiorini dai quali 650 sono

mandati da Nicolò Safar al provisor e 50 a Gismondo Safar per le spese della casa di

Esztergom. Da questa iscrizione possiamo conoscere che Gismondo Safar si occupava della

casa di Esztergom. Il titolo del pagamento è sconosciuto, però il proposto di Santo Stefano

mandò già la terza alta somma durante il mese di maggio.

II.2.2. Osservazioni linguistiche

52 Cfr. Magyar történeti fogalomtár I-II a cura di Péter Bán, Budapest, 1989 p. 85 sv. dénár; pp. 30-31 sv.

márka; p. 104 sv. pisetum; p. 113 sv. pondus40

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Il Giornale è scritto in lingua italiana medievale con caratteristiche dell’uso della corte

arcivescovile di Esztergom. Prima di Ippolito d’Este qui si usarono esclusivamente la lingua

latina come lingua ufficiale dell’amministrazione. Dopo l’intervento del figlio del principe

però apparì anche la lingua italiana accanto al latino. Gli ungheresi naturalmente continuarono

ad usare la lingua latina, mentre gli italiani, seguendo la consuetudine della loro patria,

scrissero i registri in italiano.

Per descrivere le principali caratteristiche del linguaggio usato dal notaio ho esaminato il

testo dal punto di vista linguistico. Le voci sono abbastanza brevi, una voce corrisponde

generalmene ad una frase semplice. Nella parte trascritta troviamo solo poche voci in cui ci

sono due o più frasi. Il vantaggio di questo fatto è che possiamo raffrontare con facilità le

singole voci ed esaminare le parti simili o differenti.

In questo capitolo vorrei quindi riassumere brevemente i fenomeni linguistici più

rilevanti nel frammento presentato partendo dalla fonologia e dalla morfologia fino alla

sintassi e al lessico. Le osservazioni sono puramente descrittive perché la quantità di questo

testo non è sufficiente per trarre conclusioni esagerate.

A livello fonologico possiamo osservare che il testo è caratterizzato dallo scarso uso dei

dittonghi: tene, dede, vene, logo, feno, homo; dalle forme degeminate: magio, prezo, quatro,

apare, acordo, azuri, obligata; da molte consonanti non assimilate: septe, dicto, omne,

conposizione, stanpe; e dal raro uso dell’h iniziale per le forme coniugate del verbo avere.

Distingue in maniera inconseguente o non distingue affatto gli articoli il/lo/l’ secondo la

lettera iniziale delle parole maschili, si può trovare nello stesso tempo lo arcivescoado e

l’arcivescoado, il giudice e lo giudice, ma possiamo dire che generalmente preferivano

l’articolo lo. È interessante ancora lo iato nella parola arcivescoado che è utilizzato

conseguentemente (2,21; 2,25), mentre nella parola simile vescovo (8,2) è già presente la

lettera v. Una problematica curiosa è quella dei nomi e dei toponimi ungheresi nel testo. Il

notaio era italiano ma era costretto di scrivere anche parole ungheresi, e non poteva tradurre

tutto, come per esempio poteva la “Villa di San Giorgio” (Gyentgyörgyfalva). In altri casi il

notaio scrisse le parole sentite con i suoni italiani o all’analogia della forma latina dei nomi.

Così abbiamo un sacco di parole che sono difficilmente identificabili a causa della differenza

tra i suoni ungheresi e quelli italiani e latini. In genere possiamo dire che una lettera può

segnalare più suoni, come la lettera z indica anche s (Zerdael, Nazvad, Zakalos), z (Berzete), ts

(Pelsuz); la lettera s può segnare il suono s (Salcha), ʒ (Bersen), ʃ (Tardashedi, Chisaro,

Farkasd, Alsovatkert ecc., e ancora in nome Safar); le lettere “ch” possono notare una volta k

(Chisaro), e poi anche tʃ (Chetnek, Macha). Inoltre un suono può essere segnalato da più 41

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lettere, per esempio tʃ viene notato da ch (Chetnek, Macha) e c (Ciuchioa), k da ch (Chisaro)

c (Cremitia) h (Tardashedi) e k (Kemez, Kesepse Vatkert).

Dai fenomeni morfologici vorrei mettere in rilievo prima di tutto le forme coniugate dei

verbi. Possiamo affermare che il tempo verbale preferito nel testo è il passato remoto perché

la maggior parte dei verbi è coniugata in questa forma (portò, dede, andò, relassai, scontai,

consegnai, mandò, feci, asegnò ecc.). Le forme coniugate in terza persona plurale possono

essere ridotte: pagaro (3,58; 4,89), mandaro (4,113). Naturalmente appaiono ancora molte

forme verbali che vorrei presentare attraverso le varianti raccolte del verbo avere prima come

verbo autonomo: indicativo presente: ànno (4,99), à (7,4); indicativo passato prossimo: à

avuta (3,45), ho avuto (11,44); infinitivo: dovesse avere (8,37), participio passato: avuti

(10,33); poi come ausiliare: in passato prossimo: ho renduti (2,16), ànno venduto (3,53), ànno

conperate (3,60-61), à dato (5,121), ho vendute (8,15-16), ò consegnato (9,42) ecc.; in

trapassato prossimo: aviano venduta (3,70), avevano fatta (8,6-7); passato prossimo e

trapassato prossimo in una struttura fattitiva: à fatti pagare (11,48), avia fatti pagare (11,50);

infinitivo passato: aver rescossi (4,111), aver scorssi (10,7). Attraverso questo esempio

appaiono le forme più frequenti, ma non tutte. Nel testo ho trovato solo pochi esempi

all’imperfetto indicativo: era (11,69), [erano acattati] (2,17) e dovia dare (5,120) che ha

piuttosto un senso di condizionale passato (“avrebbe dovuto date”). Le forme dovia, avia e

aviano corrispondono all’uso medievale secondo l’affermazione di Maiden53, in quanto le

terminazioni -ea e -ia dell’imperfetto indicativo coesistevano con -eva e -iva. Per il

congiuntivo ho trovato un solo esempio in congiuntivo imperfetto: dovesse avere (8,37). Ci

sono alcuni esempi anche alla forma passiva: [erano acattati] (2,17) la cui lettura è incerta; è

obligata pagare (3,39), è stata data (8,36), sono obligati (10,5). Infine in un caso è difficile

decidere se si tratti di presente o di passato remoto siccome il notaio non distingue le due

forme: vende (7,29) che potremmo interpretare anche come vendette.

Tra le questioni morfologiche è ancora interessante l’uso degli articoli. Abbiamo già

visto che il notaio preferisce l’articolo lo, ma utilizza nello stesso tempo le sue varianti il e l’.

Vorrei inoltre notare che gli articoli quando sono preceduti da qualche preposizione, non si

uniscono in una forma comune come nell’italiano odierno, invece rimangono separati il che

verifica nel migliore dei modi l’esempio di in la festa (2,25), dove la preposizione conservava

la sua propria forma e non è diventata “ne”. Naturalmente ho anche controesempi: dal giudice

(2,36), dal piovano (2,38) ma in questi casi l’articolo è in forma semplice. Non ho trovato

esempio di raddoppiamento della consonante dell’articolo. Così nella trascrizione ho preferito 53 Martin MAIDEN: Storia linguistica dell’italiano, Bologna Il Mulino, 1998 p. 154

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scrivere separatamente gli articoli e le preposizioni. Le voci generalmente cominciano con la

determinazione del luogo da dove viene l’entrata, e qui possiamo vedere che la preposizione

da e l’articolo determinato di solito vengono scritti insieme, ma solo affinché il notaio non

avesse bisogno si sollevare la penna. Vorrei aggiungere che a quest’insieme venne ancora

scritta alcune volte anche la parola seguente: villa, e così possiamo leggere in molti casi:

dalavilla. La consonante iniziale dell’articolo non venne raddoppiata quasi mai, come

neanche il raddoppiamento fonosintattico non caratterizza generalmente il testo.

Il testo del Giornale non è continuo, non esiste un rapporto organico tra le voci, è

piuttosto un elenco cronologico di somme entrate. Sintatticamente possiamo dire che le voci

corrispondono generalmente ad una frase che è più volte ridotta in quanto il soggetto e il

predicato possono mancarne. Nel testo trascritto sono in maggioranza le frasi semplici, ma in

alcune voci possiamo trovare più di una frase. Per analizzare questi tipi, vediamo esempi ai

casi presentati: Da la villa de Eghersek, f(iorini) ci(n)que et den(ari) setta(n)[ta cinque]

po(r)tò dic(to) Gismo(n)do, p(er) lo ce(n)so di S(anc)to Gio(r)gio. (4,77-78) In questo caso

abbiamo una frase che ha un soggetto, un predicato, oggetti diretti e altri complementi. Al

secondo luogo troviamo l’oggetto diretto, cioè la determinazione dell’importo pagato.

Grammaticalmente è un’inversione dell’ordine delle parti sintattiche, dal momento che

l’accusativo nella lingua italiana non ha altro segno che la sua posizione nella frase. Qui

invece non è stato segnalato in nessun modo il caso accusativo, né con un pronome diretto

prima del predicato, né trasformando il verbo transitivo in forma passiva. Possiamo tuttavia

affermare che quest’ordine delle frasi non era sconosciuta nel Medioevo. Anche Lorenzo

Renzi comincia la presentazione della struttura delle frasi nelle lingue romanzi medievali con

la stessa ordine54 dove l’oggetto diretto precede il predicato e il soggetto segue il verbo. Se

osserviamo le altre frasi nel Giornale troveremo generalmente un’ordine simile. Perciò

possiamo concludere che le voci seguono una norma uniforme in cui i singoli complementi

possiedono una posizione determinata. All’interno di questa logica troviamo una gerarchia

delle informazioni: si comincia sempre con il luogo (o con le persone) da dove (o da chi)

entrò la somma in questione. Al secondo luogo c’è l’importo scritto con parole, che viene

ripetuto alla fine della voce con numeri, in una colonna alla parte destra della pagina. Gli altri

posti sono meno fissati: segue il verbo, che può anche mancare, poi alcune volte la persona

che porta i soldi, e infine viene indicata sempre il titolo della tassa o la causa del pagamento

con il termine che è in questa parte del Giornale è generalmente il giorno tradizionale di San

54 Cfr. Lorenzo RENZI – Giampaolo SALVI: Nuova introduzione alla filologia romanza. Il Mulino, 1994. pp. 267-

275 43

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Giorgio. Possono trovarsi anche più informazioni, ma queste vengono descritte solo dopo la

formula della voce. Anche da questo esempio possiamo vedere che il testo del registro ha un

senso esclusivamente informativo, dove le informazioni principali occupano le posizioni

iniziali, e le seguono le altre parti della frase. Siccome il testo è fissato e la maggior parte

delle voci sono costrutte in questo modo, il notaio ha tralasciato alcune volte anche il

predicato, come in questa frase: Da la villa de Zerdael, f(iorini) ci(n)que et d(ena)ri

tre(n)tasei c(ontan)ti, p(er) lo ce(n)so di S(anc)to Gio(r)gio p(ro)ximo passato. (3,63-64) Qui

sono descritte puramente quelle informazioni necessarie che dovevano notare per la

contabilizzazione della tassa incassata. Manca sia il predicato che il soggetto (o il

complemento d’agente), si concentra solo sull’oggetto, sul complemento di luogo e sul

motivo. Lo scrittore ha tralasciato proprio gli elementi nucleari della frase che comunque è

rimasta sempre comprensibile. Essendo l’agente sconosciuto il predicato venne considerato

superfluo che comunque è evidente (potrebbe essere entrò o ricevetti ecc.). Tuttavia questo

esempio presenta proprio quegli elementi che non possono mancare da nessuna voce.

Naturalmente ci sono anche frasi più “informative” con più parti sintattiche, ad esempio:

Da m(iser) Gio(r)gio, piovano di Be(r)zete, f(iorini) vi(n)tinove c(ontan)ti po(r)tò do(n)

Giova(n)ni, no(stro) p(re)bendario p(er) co(n)to de li ce(n)si [di S(anc)to] Gio(r)gio passato

de la sua pieve p(re)d(ic)ta, et resta a dare f(iorino) uno p(er) dicto te(r)mine, et no(n) che lui

dovia dare oro et à dato moneta. (5,117-121) La frase è composta da più proposizioni

coordinate nelle quali troviamo regolarmente i predicati. Grammaticalmente la parte più

interessante di questa frase è quella ultima: et non che lui dovia dare oro et à dato moneta che

vuole esprimere che miser Giorgio, il plebano di Berzence avrebbe dovuto dare oro, invece ha

pagato in moneta. In questa struttura la frase matrice sembra essere superflua, senza “non

che” sarebbe più semplice e comprensibile la frase, ma lo scrittore probabilmente avesse

voluto sottolineare così questo fatto.

Per quanto riguarda il lessico del frammento trascritto, ho osservato che ci sono delle

locuzioni ovviamente per facilitare l’andamento della contabilità, come fiorini ... et denari ...

in contanti, per lo censo di Sancto Giorgio proximo passato, che lui paga omne anno, che lui

tene ecc. Queste locuzioni e le loro varianti mi aiutavano nel riconoscere alcune parole

illeggibili per il danneggiamento del codice. Essendo il documento dall’epoca del

Rinascimento, non è sorprendente che tra le parole appaiono alcune in forma latineggiante,

come proximo, homo, omne, dicto, septe, ottuaginta, item, extreordinario, florini, scilicet, ecc.

Le parole più ricorrenti che caratterizzano ancora il testo sono i numerali. Appaiono

soprattutto numeri cardinali, ma ho trovato anche un numero ordinale: vigesima (10,21) e nei 44

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fatti anche il nome della tassa “decima” era originalmente un ordinale. Nella scrittura dei

numeri ho osservato un’oscillazione, per esempio diciotto è scritto prima dece otto (5,150),

poi disdotto (11,59); ottanta prima è ottuaginta (3,65), poi ottanta (8,19), due è duo (3,65) poi

doi (8,32). Anche in altri casi ho potuto trovare varianti e sinonimi delle parole ricorrenti del

testo: piovano (5,117) e plebano (2,19); fiorini (5,143), florini (3,75) e ducati (7,18) che

aveva lo stesso valore. Tra i nomi propri incontriamo ugualmente varianti: Gismondo (3,73) e

Sigismondo (10,38), Michele (11,45) e Miale (11,71), Rosina (10,9) e Rusina (10,13). Il

lessico è ancora arricchito dalle parole ungheresi, non soltanto in livello dei toponimi, ma

anche di nomi propri, come Antonio diac, Gismondo Safar (che assomiglia alla forma

ungherese Zsigmond), Lorenzo Farkas, Giorgio Porculab, Stefano Eseni, Benedicto Coaci,

Anbrosio Bot, Chis Miale ecc. Infine vorrei menzionare una curiosità che riguarda il lessico

del Giornale: leggendo il testo non possiamo incontrare la parola giorno, solo dì con i

sinonimi termine e festa, ad onta di tutto ciò il titolo non è per esempio diario, ma Giornale

come appare anche al titolo originale del registro.

II. 2. 3. Osservazioni al contenuto del testo elaborato

I luoghi

Una problematica abbastanza complessa è quella dei toponimi. Anche Fügedi

menziona all’inizio del suo articolo che è una grave difficoltà di riconoscere i toponimi

ungheresi che subivano due deformazioni: una dal notaio e l’altra dal copista veneziano.55

Anche nel caso del Giornale il copista veneziono modificò in parte la forma dei toponimi o

scolse erroneamente un’abbreviazione trasformando così il nome, come in quell’esempio che

ho già citato nel capitolo precedente (B: Mantos M: Martos). Il riconoscimento di un luogo

solo dalla copia alcune volte è impossibile, ad esempio una forma presente nella copia:

Ciushidu che nell’originale appare come Ciuchioa (5,146). In questo caso mi aiutava il nome

del giurato, Cristoforo, che aveva portato il censo dalla villa in questione insieme con quella

da Rozsnyóbánya, quindi ho cercato un possedimento arcivescovile nei dintorni di

Rozsnyóbánya e trovato così la soluzione giusta: Csucsom. Anche Fügedi dimostra la difficolà

dell’identificazione attraverso alcuni esempi (Somogy = Szunyogdi, Chierzu = Csejkő, Dejton

= Dejtár), ma non indica direttamente il metodo con cui abbia identificato i luoghi. Suppongo

però che la sua fonte fosse stata lo stesso Liber Sancti Adalberti con il quale confrontava

anche i dati delle tasse da pagare. Questa fonte è già raggiungibile anche in forma digitale 55 Fügedi, 1. pp. 87-88

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sull’internet grazie al database di Arcanum56 che tra l’altro condivide anche la sezione

Urbaria et Conscriptiones57 dell’Archivio Statale Ungherese gratuitamente con i ricercatori

dal 2010. Così ho potuto raffrontare più facilmente i toponimi presenti nel Giornale con quelli

negli urbarium. Dal Liber Sancti Adalberti sono disponibili tre volumi da diversi anni: 1553,

1558, 1571–1573, dai quali il primo nacque 58 anni più tardi del Giornale. Per raffrontare i

toponimi ho utilizzato soprattutto il primo volume completando alcune volte con il secondo.

Nella seconda appendice ci si può trovare un elenco che ho composto dai luoghi

ricorrenti nel testo in ordine alfabetica, segnalando le forme presenti nel Liber Sancti

Adalberti, i loro comitati, il nome ungherese, e il nome odierno che nella maggior parte dei

casi è slovacco. Il mio metodo dell’identificazione dei luoghi è cominciato con le ricerche

effettuate nei volumi di Dezső Csánki58, ma mi aiutava anche il fatto che dovevo riconoscere

luoghi vicini alla mia abitazione (Ipolyszalka, Érsekvadkert, Nagybörzsöny ecc.). Durante le

ricerche però mi sono accorta che alcuni territori non sono elaborati nell’enciclopedia di

Csánki, come i comitati Bars e Hont dove si situavano molti dei possedimenti

dell’arcivescovo. A questo punto ho controllato la fonte di Fügedi e così ho trovato i Liber

Sancti Adalberti in cui ci si può ricercare quasi tutti i luoghi ricorrenti nel testo che

appartenevano ai possedimenti dell’arcivescovo. Purtroppo non sono riuscita a risolvere tutti i

casi nemmeno con questa fonte suprattutto nell’identificazione della forma odierna, ma

almeno ho potuto dissipare alcuni dubbi.

La maggior parte dei luoghi ricorrenti nel testo trascritto appartenevano ai

possedimenti arcivescovili. Questi possedimenti possono essere ancora raggruppati secondo i

loro officiolatus (che possiamo chiamare anche distretto), che significavano le unità

economiche dei possedimenti ecclesiastici. Un officiolatus poteva constare di più paesi

appartenenti a diversi comitati. Gli officiolatus che Fügedi poteva ricostruire sulla base dei

mastri esaminati, sono i seguenti: Nagysalló, Szöllős, Cétény, Verebély, Szalka, Udvard,

Szőgyén; ma poteva identificare i territori solo in quattro casi: Nagysalló: Nagysalló, Helvény,

Kissalló, Szentgyörgy, Füzesgyarmat, Perbete; Szöllős: Szöllös, Csejkő, Nempti, Berzence;

Cétény: Cétény, Üzbég, Egerszeg, Riblény, Kinorány; e Verebély: Verebély, Aha, Tild. Da

questi esempi vorrei sottolineare l’officiolatus di Cétény che appare anche nella parte trascritta

del Giornale esattamente con questi luoghi (3,72 - 4,82) che si susseguono in uno stesso

giorno: 6 maggio 1495. Sappiamo anche il nome del loro ufficiale (officialis), Gismondo

56 www.arcanum.hu57 Liber Sancti Adalberti, Magyar Országos Levéltár, Urbaria et Conscriptiones 45:2658 CSÁNKI Dezső: Magyarország történelmi földrajza a Hunyadiak korában. I-V. kötet. Budapest.1890-1913.

46

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Safar che poi appare ancora con il nome Sigismondo Safar. Con questo dato possiamo

confermare il sistema descritto da Fügedi, ma in altri casi non ho trovato accenni a queste

unità economiche. Può essere interessante ancora che le somme portate dall’ufficiale vennero

allibrate a seconda dei luoghi e non insieme (76 fiorini e 75 denari), come probabilmente

portò Gismondo Safar in nome del suo officiolatus. Le cinque ville di quest’unità non

appartenevano allo stesso comitatus: Cétény, Üzbég, Egerszeg e Kinorány si situavano nel

comitatus di Nyitra, mentre il borgo che pagava la somma più alta, Riblény apparteneva a

Trencsén. Oggi tutte le ville fanno già parte della Slovacchia, per questo non è facile

riconoscere i loro nomi medievali sulle carte odierne. La prima mappa (Tabula Hungariae59)

che conosciamo sul paese d’Ungheria risale all’anno di 1528 e fu preparata da Lasarus deak,

lo scrivano dell’arcivescovo Tamás Bakócz che peraltro segue immediatamente Ippolito

d’Este. Su questa carta appaiono i toponimi in lingua tedesco, latino o ungherese. Per

identificare i luoghi in questione ho composto una tabella che ho già presentata sopra, in cui

ho cercato di fornire anche i nomi odierni delle ville. Purtroppo più volte non possiamo essere

sicuri di quale luogo si tratti, a causa dell’uguaglianza dei nomi, come per esempio Ölved

(4,84) può essere Nagyölved (com. di Esztergom) oppure Kisölved (com. di Hont). Poiché la

nostra fonte non specifica il suo prefisso (Kis- o Nagy-) e siccome entrambi appartenevano ai

possedimenti dell’arcivescovo, non possiamo identificare il luogo con certezza. In alcuni casi

abbiamo forme completamente diverse, come la villa medievale di Cacato (10,14), il cui

nome deriva dalla parola ungherese kakas (gallo) che appare anche sulla stemma della città

odierna, nel Giornale lo incontriamo anche in forma Hahat (10,6) e nel Liber Sancti Adalberti

troviamo Kakath, però il nome ungherese nell’epoca moderna è già Párkány, mentre oggi,

poiché non appartiene già all’Ungheria, si chiama Štúrovo.

Ho trovato un esempio interessante nel testo alla provenienza di un toponimo: la villa

di Sarló che aveva il dovere di falciare fieno all’arcivescovo (10,4-5; 10,23-24),

probabilmente aveva ricevuto il suo nome proprio da questo dovere, in quanto la parola

ungherese sarló significa falce. Il nome è già trasformato durante i tempi e diventato

Nagysalló che era tra l’altro il centro di un officiolatus dell’arcivescovo; oggi appartiene

ugualmente alla Slovacchia sotto il nome Tekovské Lužany.

L’unica città di minatori tra i possedimenti arcivescovili era Rozsnyóbánya che pagava

sia il censo dovuto sia una tassa a titolo del pisetto, sui quali riceviamo notizie anche dal

Giornale (5,149-151; 11,42-46). Le altre città di questo genere che ricorrono nel testo (come

59 Tabula Hungariae : Lázár térképe és változatai : Ingolstadt, 1528, Országos Széchényi Könyvtár, Archivio di

Carte Gerografiche, ST 6647

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Kisszeben e Körmöcbánya) non appartenevano ai possedimenti arcivescovili, ma pagavano

ugualmente la tassa del pisetto secondo la legge di Santo Stefano.

Durante la trascrizione e le analisi del testo ho incontrato alcuni luoghi che non sono

riuscita ad identificare: il proposto di Sancto Stefano e Sancto Nicolò di Casa Grande

probabilmente erano due pievi nella città di Esztergom, ma non ho trovato sufficienti dati per

confermare quest’ipotesi. Inoltre non ho potuto identificare il paese di Kelemente, sul quale

possiamo sapere che si situava nel territorio della diocesi di Esztergom, ma non apparteneva ai

possedimenti dell’arcivescovo perché non appare nel Liber Sancti Adalberti. Dal Giornale

sappiamo solo che la sua decima spettava all’arcivescovo (8,14-16). In sede di tesi di laurea

non ho potuto condurre ricerche di prima mano in archivi e biblioteche al fine di identificare il

luogo in questione. Questo lavoro di ricerca dev’essere fatto in sede di edizione.

Le persone

Nella parte trascritta del Giornale incontriamo vari tipi dei ceti sociali, come il giudice

di una villa, un ufficiale della corte arcivescovile, nobili, mercanti fino all’arcivescovo e al re.

Alcuni di essi conosciamo anche per nome, alcuni però possiamo nominare conoscendo la sua

posizione in quest’epoca. Prima di tutto la figura più importante era ovviamente l’arcivescovo

stesso, Ippolito d’Este che appare nel testo con l’apostrofe di Monsignor Reverendissimo (per

es. 2,16), o più semplicemente Monsignor (per es. 11,69). Su egli sappiamo che nacque il

1479, quindi nel 1495 aveva 16 anni, e occupava già da 8 anni la sede arcivescovile di

Esztergom essendo nominato nel 1487. Dalla fonte presente possiamo ricevere alcune

informazioni sull’arcivescovo riguardanti questo periodo, tra l’altro che maestro Agustino

Horzo andò in Italia per la commissione dell’arcivescovo a conto di 25 fiorini (2,14-17); che

Ippolito viaggiò a Buda alle spese di un munere extraordinario (24 fiorini) ricevuto dal

distretto di Szentkereszt (5,113-115); che Ippolito aveva un debito verso Ambrosio Bot e lo

saldò a conto della decima (36 fiorini) di Nyergesújfalu (8,34-39); che secondo una legge del

re, l’arcivescovo riceveva la ventesima parte di una tassa regale, della dica (10,19-22). Qui

appare per un momento anche il sovrano di Ungheria di questo periodo, Vladislav II (1490-

1516).

Una terza dignità nel testo è il vescovo di Eger, che era in quel tempo Tamás Bakócz, e

che, secondo il Giornale, pagò il prezzo della decima di Pozsony all’arcivescovo che è

un’informazione veramente interessante perché contraddice alle notizie di Fügedi60, in quanto

questa parte della decima non sarebbe stata mai data in appalto, ma rimaneva sempre in 60 Cfr. Fügedi, p. 115

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gestione propria dell’arcivescovato. Qui vediamo invece che il vescovo paga 3600 fiorini fra

oro et moneta all’arcivescovo per la decima di Pozsony che è davvero la somma più alta tra le

entrate del Giornale. Sappiamo però che fra due anni, nel 1497, sarebbe stato effettuato lo

scambio delle sedi vescovile e arcivescovile tra Ippolito e Tamás Bakócz con la mediazione

del re, quindi quest’informazione può essere un cenno che il vescovo di Eger stava prendendo

in mano la gestione economica della corte di Esztergom.

Per quanto riguarda il ceto dei nobili, non possiamo riconoscere in alcuni casi se la

data persona avesse nobiltà o no, ma alcuni attributi possono aiutarci nel decidere la

questione. Per esempio l’apostrofe maestro allude allo stato nobiliare in quanto segnalava un

ceto dei nobili sotto il livello dei magnati.61 Nel testo presente ne abbiamo uno, maestro

Agustino Horzo che compié una commissione dell’arcivescovo (2,14-17). Probabilmente

l’antecedente miser era un richiamo meno alto dei nobili che appare nel testo più volte: miser

Stefano Esegni (8,14), miser Tadeo di Lardi (tra l’altro: 8,18), miser Francesco (4,104), miser

Giorgio, piovano di Berzence (5,117), o in forma più breve: ser Nicolò Safar (6,160). Poiché

il richiamo è usato anche agli chierici, come il piovano di Berzence, quest’attributo aveva

probabilmente un senso più largo. Un altro segno che ci aiuta nel riconoscere un nobile è lo

stato familiare che alludeva ad un nobile dipendente da un altro più ricco e influente, ma la

familiarità caratterizzava anche gli uffici, in quanto i sostituti di un ufficiale erano spesso i

suoi familiari62. Nel testo incontriamo veramente questo ultimo tipo nell’esempio di

Geronimo, il familiare del pisetario di Körmöcbánya (7,6-8) che poi appare ancora una volta:

Da Giova(n)ni Guldino, pisetario n(ostro) i(n) Cremitia, fiorini ce(n)to dieci c(on)ta(n)ti

p(er) mano di Gerolimo, suo fameglio, a co(n)to del d(icto) pisetto. (8,10-12). La forma

fameglio è usata più frequentemente che incontriamo ancora due volte: il fameglio de Janus

(3,45-46) e Giovanni, suo fameglio (4,98-99). Uno stato speciale tra i nobili avevano i

cosiddetti nobili prediali (praediales) che apparivano soprattutto sui possedimenti ecclesiastici

per questo si chiamavano anche nobili ecclesiastici (nobiles ecclesiastici). Essi non

possedevano i terreni a buon diritto come i nobili in genere, ma avevano degli impegni verso

il loro signore. Non dovevano pagare le tasse, avevano propri giudici, ma non potevano tenere

dei servi di gleba e non potevano acquistare altri possedimenti oltre quello ricevuto dal

signore, il praedium.63 Possiamo incontrare questi nobili alcune volte nel testo, in quanto nella

villa di Vajka ne abitavano in quest’epoca. Dal Giornale possiamo sapere su di essi che

61 Cfr. KUBINYI András: Egységes nemesség? In: Rubicon 4-5 (1994) p. 1662 Cfr. KUBINYI András: Egységes nemesség? In: Rubicon 4-5 (1994) pp. 17-1863 Cfr. Magyar történeti fogalomtár. I. A cura di Péter BÁN, Budapest, 1989. p. 119

49

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facevano scrivere le pergamene sulle loro sentenze dagli scrivani di Esztergom. Nel primo

caso lo scrivano probabilmente era lo stesso che scrisse il Giornale (7,10-11), nel secondo

caso però Ambrosio litterato che era residente a Pozsony (8,5-8).

Possiamo distinguere le persone anche secondo l’appartenenza alla Chiesa. Oltre

l’arcivescovo e il vescovo troviamo molti chierici nel testo, come sono prima di tutto i

plebani: don Valentino plebano di Csetnek (2,19), don Pietro plebano di Örs (2,23), il

piovano di Pelsőc (3,38), miser Giorgio, piovano di Berzence (5,117 e 128). Siccome la

parola diac deriva dalla forma latina diaconus che è un grado più basso del prete nella

gerarchia ecclesiale, annoverarono questi scribi in quell’epoca ancora tra i chierici. Questi

scrivani eseguivano servizi alla corte e tra essi possiamo incontrare più volte Antonio diac che

si occupava di vari tipi degli affari della corte (tra l’altro 2,34-35; 3,68; 10,20; 11,54 ecc.), e

inoltre il sopra citato Ambrosio litterato che scrisse una pergamena ai nobili di Vajka (8,7).

Biasio diac verosimilmente non apparteneva alla corte arcivescovile perché secondo il testo

era il mandato del piovano di Pelsőc (3,41). Nella voce seguente troviamo ancora un Biasio

litterato che porta una somma del dazio da Garamszentkereszt (3,42), ma l’uguaglianza non è

certa, in quanto Garamszentkereszt e Pelsőc non sono vicini e il testo non indica direttamente

che si tratti del dicto Biasio come fa in altri casi.

Molti ufficiali appartenevano alla corte arcivescovile oltre gli scribi chierici. Prima di

tutto il provisor, il capo dell’amministrazione economica della corte, a cui entrarono i vari tipi

di pagamenti e che nel nostro caso era verosimilmente identico con il notaio che scrisse il

Giornale. I sáfár erano ufficiali sempre di carattere economico che gestivano gli officiolatus e

provvedevano il castello di viveri e mezzi necessari sotto la sorveglianza del provisor.

Gismondo o Sigismondo Safar e Nicolò Safar probabilmente avevano questo nome per

mestiere e non perché erano parenti, ma non possiamo escludere neanche questa possibilità.

Tadeo Lardi aveva una posizione speciale perché secondo Fügedi egli era l’amministratore

della casa dell’arcivescovo a Buda, poi il tesoriere.64 Dall’articolo non è chiaro quali fossero

le sue funzioni nei vari periodi, ma possiamo ipotizzare che nel 1495 era già il tesoriere

perché nella seconda parte delle entrate è indicato egli che dava la maggior parte dei soldi per

pagare agli impiegati della corte. Debrico di Galsa e Hernando Tomori erano gli ufficiali e gli

amministratori della casa a Pozsony e anche della decima di Pozsony. Abbiamo visto però che

in questo anno la decima era gestita dal vescovo di Eger, e gli amministratori consegnarono

solo le decime di Fülekpüspöki e di Velkenye (8,31-33). Hernando Tomori verosimilmente è

64 Fügedi, p. 51450

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identico con Tomori Bernát, indicato da Fügedi65, il suo compagno però non è già Vas András,

invece Debrico Galsa.

Nella seconda parte del testo che riguardono i mesi di luglio e agosto, possiamo

trovare molti dipendenti della corte e alcune persone che avevano qualche posizione non

chiarita: Rosina o Rusina66, Ridolzi, Lodovico di Conpagno, Gaspari da Brescia e Barnabas

eseguivano le disposizioni del provisor. Rosina aveva commissioni nell’interno e nei dintorni

(Cacato) di Esztergom (10,6-14), Ridolzi eseguiva disposizioni ricevute dal provisor e

dall’arcivescovo (3,43; 4,111; 5,114), Barnabas comprò delle candele per la chiesa (11,56-

57), Lodovico di Conpagno portò i soldi da Tadeo di Lardi (10,26-27), Gaspari da Brescia

comprava biava e avena per l’uso del castello (4,84-89). Dai servi consciamo alcuni anche per

nome: Ghezu, homo d’arme (9,29-30), Emerico Oliani, nostro homo d’arme (11,60-61),

Lodovico guardarobba (5,150-151) e verosimilmente Chis Miale che apparteneva ai tronbetti

(11,71). Gli altri servi non sono nominati, è annotato solo il loro mestiere, come soldati,

cacciatore ecc., dai quali vorrei mettere in rilievo li bonbardieri et li vigilatori per le stampe

(8,19) che può essere un contributo interessante alla storia della stampa in Ungheria.

Tra le persone che non appartenevano alla corte arcivescovile troviamo giudici e

giurati che portavano le tasse dalle ville dai quali il nome di Cristoforo giurato mi aiutava

nell’identificazione della villa Csucsom che altrimenti probabilmente non avrei riconosciuto.

Conosciamo ancora altri mandati per nome: Giorgio Porculab (11,41) e Giovanni Iurato

(11,44). Ufficiali molto più importanti erano i cosiddetti pisetari che si occupavano di questa

speciale tassa che spettava l’arcivescovo dopo la coniazione (dopo ogni marca del metallo

nobile dal quale facevano monete, si paga per l’arcivescovo un pondus, la parte

quarantottesima della marca). Da questo diritto l’arcivescovo riceveva somme significanti che

possiamo vedere anche nel testo presente: da Körmöcbánya 204 fiorini (2,12-17), 120 f. (7,6-

8), 110 f. (8,10-12), 126 f. (10,37-38); da Kisszeben 200 f. (8,40-9,47); da Rozsnyóbánya 28

marche e 18 pisetti (5,149-151). In quest’epoca da un marca battevano 416 denari, quindi

circa 4,16 fiorini.67 Ovviamente queste somme venivano pagate dalle città di minatori come

quelle elencate, ma dal Giornale conosciamo alcuni dei loro pisetari per nome: Giovanni

Guldino a Körmöcbánya, Nicolò Proll a Kisszeben.

65 Fügedi, p. 11566 Rosina appare anche nei registri riguardanti il vescovato di Eger: Estei Hippolit püspök egri számadáskönyvei

1500-1508. A cura di E. KOVÁCS Péter. Ed.: KOVÁCS Béla. Eger. 1992. pp. 26, 29, 32, 34, 37 ecc.67 Cfr. Magyar történeti fogalomtár I-II a cura di Péter BÁN, Budapest, 1989 p. 85 sv. dénár; pp. 30-31 sv.

márka; p. 104 sv. pisetum; p. 113 sv. pondus51

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Un gruppo abbastanza importante sarà stato quello degli appaltatori che il testo

nomina spesso decimatori poiché appaltavano le decime della diocesi. Michele Pispeki de

Strigonia et sui conpagni relativamente spesso ritornano nel testo: 3,59; 4,97; 7,4; 7, 21; 7,28

pagando somme importanti. Stefano Esegni aveva probabilmente un territorio non molto

significativo - che purtroppo non ho potuto identificare - poiché paga una somma

relativamente bassa, 28 fiorini (8,14-16). Benedicto Coaci, Giovanni Vitrario e sua mogliera

sono nominati conduttori della decima di Kér e Cétény sempre con un’alta somma, 335

fiorini. Riceviamo alcuni contributi dal testo riguardanti il reddito dei decimatori, in quanto

l’appaltatore del comitatus di Hont, il cui nome non appare nel testo, mandò la ventesima

parte della decima, 12 fiorini (10,39-41). L’intera somma allora doveva essere 240 fiorini,

dalla quale 228 fiorini rimaneva all’appaltatore.

Possiamo incontrare anche alcuni mercanti da cui compravano merci per il castello di

Esztergom. L’entrata del pisetto di Kisszeben è stata spesa presso Tomas Tenca mercante de

Buda e Rasone mercante fiorentino (8,40-9,47). Possiamo considerare mercante anche

Lorenzo Farkas di Strigonio che vendette vino al castello per 125 fiorini (11,62-65). Non

riusciamo ad attribuire una funzione alle persone citate quando sono solo menzionate senza

specificazione della loro funzione o del rapporto con la corte. Su Ambrosio Bot sappiamo che

diede prestito all’arcivescovo che gli rimborsarono dalla decima di Újfalu (8,34-39), e poteva

essere simile il caso di Giorgio Boemo (11,49-51). Giovanni Serafin ricevette 3 fiorini e 40

denari per la commissione del provisor, ma il motivo non è indicato (4,103-305).

Infine c’era ancora un personaggio molto importante dal nostro punto di vista, l’autore

stesso del testo, il notaio che verosimilmente era nello stesso tempo il provisor della corte

arcivescovile perché dava istruzioni e commissioni. Non conosciamo il suo nome, posso solo

far notare che Fügedi conosce due scrivani per nome: Laurenzo Theodato da Aversa che

succedeva a Pietro Pincharo di Parma nel 1488, ma non sappiamo di più su di loro. Nel testo

troviamo molte allusioni alle azioni del notaio che sono indicate in prima persona singolare,

ma dettagli non possiamo conoscere da queste espressioni.

Le imposte

La parte essenziale delle entrate nel Giornale è la registrazione delle tasse incassate.

Dobbiamo sottolineare anche qui che l’obiettivo della contabilità era di allibrare ogni azione

economica in modo dettagliato per la chiarezza e per la correttezza, e per questo la

descrizione è molto precisa in ogni voce. Oltre la somma indica generalmente il luogo, il

titolo al quale viene versato il dato importo, la persona che lo consegna e se è necessario, 52

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anche le ulteriori informazioni che possono essere importanti per la rintracciabilità dei soldi

(per esempio acquisti effettuati o altri pagamenti dalla data somma ecc.).

L’arcivescovo pretendeva imposte a due titoli: come signore feudale le tasse feudali

dai suoi possedimenti (censo, omaggio in natura, servizio lavorativo, nona e atri fitti e dazi) e

come vescovo la decima dalla sua diocesi e altri benefici ecclesiastici.

Nella parte esaminata sono in maggioranza le voci in cui ci si registra il ricavato a

titolo di censo. In maggio incontriamo quasi esclusivamente con queste registrazioni, più

dettagliatamente tra le 49 voci di questo mese ne troviamo 33 che si iscrivono come entrate a

questo titolo, e tre probabili, in cui il titolo non è specificato, ma possiamo ipotizzare lo stesso

caso. La spiegazione di questo fenomento è semplicemente che fu appena scaduto il termine

secondo del versamento del censo, vale a dire la festa di San Giorgio (24 aprile). Tuttavia è

interessante che troviamo due esempi anche per il censo pagato al termine di San Michele: il

primo dal villaggio di Mocsa (2,29-31) che è tuttavia un semplice errore del notaio

nell’indicare il nome di San Giorgio che comunque aveva corretto scrivendo Giorgio sopra la

riga, ma si vede da questo sbaglio che il notaio si era molto abituato a questo termine più

frequente. Il secondo esempio (11,42-46) sicuramente non è un errore, perché indica una

compravendita a conto del censo di Sancto Michele proximo che vene (11,45-46), cioè il

notaio deduce il prezzo dei colori azzurro e argento appena comprati da quel censo che la

gente di Rozsnyóbánya avrebbe pagato per la festa prossima di San Michele.

Nell’analisi di Fügedi abbiamo già visto che il censo venne pagato a seconda di un

intero terreno di un servo della gleba. Sulla tabella quarta nell’appendice del saggio di

Fügedi68 troviamo alcuni dati relativi a queste somme prescritte dall’urbarium dai quali il più

interessante è il borgo di Leléd perché lo troviamo anche nel Giornale a titolo di un

versamento del censo al termine di San Giorgio. Sulla tabella è indicato che in questo

villaggio si pagava il censo nel 1491 per 18 quarto di terreno, nel 1527 e 1553 dopo 16 quarto

di terreno, e la esigenza prescritta per un intero terreno era in ogni anno 25 denari. Nel

Giornale possiamo vedere che da questo borgo la corte arcivescovile ricevette 3 fiorini tondi

dal loro giudice (5,123-124), quindi possiamo facilmente calcolare che al termine di San

Giorgio dell’anno 1495 il paese pagò il censo secondo 12 quarti di terreni. Se partiamo dai

dati dell’anno 1491, riceviamo che il borgo deve pagare per il seguente termine solo dopo sei

quarti terreni. Comunque nel Giornale non sono registrate le esigenze come per esempio nei

libri di conto degli anni 1490, 1491 e 1492 che verosimilmente compilò un ufficiale

ungherese.68 Fügedi, p. 539

53

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Per quanto riguarda i luoghi che avevano una tariffa forfettaria, ho trovato quattro casi

che posso raffrontare: secondo Fügedi il paese che aveva il censo più basso, era Farkasd, che

doveva pagare un fiorino per un anno. Nel Giornale figura una somma di 82 denari (3,65-66),

quindi la villa ammortò più di 80% dalla sua annata. Gli esempi più significativi sono

Rozsnyóbánya (5,143-145) e Kakat (10,6-8), i cui pagamenti forfettari secondo i mastri dei

1488-90 erano 64 fiorini e 10 fiorini, e nel Giornale troviamo pari a 32 fiorni e 5 fiorini,

dunque in tutti e due casi la metà dell’annata. Il quarto esempio è Imély (2, 33-35) che doveva

pagare 12,40 fiorini e nel Giornale furono allibrati 4 fiorini 40 denari che sono un poco più di

un terzo dell’annata.

Le altre tasse a titolo di proprietario fondiario erano gli omaggi in natura (munera) e il

servizio fisicale (robot) ai quali nel testo trascritto abbiamo uno-uno esempio. Per munere

extraordinario l’arcivescovo ricevette 24 fiorini dal distretto di Szentkereszt, quindi questo

cenno non è la munera tradizionale, ma un pagamento unico al quale l’arcivescovo aveva

appena bisogno per poter andare a Buda (5,113-115). I munera in altri casi erano un dono in

natura generalmente in occasione delle feste (Natale, Pasqua ecc.). Per quanto concerne l’altro

utile feudale, riceviamo notizie sulla villa di Sarló che aveva l’obbligo di falciare fieno in

ogni anno (10,4-5). Alla fine del testo possiamo leggere su alcuni servi della corte che però

ricevevano salario per il loro servizio, quindi non annoveranno fra i servizi a titolo feudale.

Altri tipi delle rendite feudali il censo di un mulino (10,11-12) e un dazio ( telonio) ricevuto

dal distretto di Szentkereszt (3,42-46).

Le altre tasse tra le entrate sono pagate a titolo ecclesiastico, come la decima, il census

plebanorum, il pisetum ecc. Questi redditi entravano dal territorio della diocesi di Esztergom,

ma non solo l’arcivescovo beneficiava per esempio della decima, ma anche il convento di

Esztergom, le abbazie della diocesi ecc., cioè altre autorità ecclesiasctiche. Una maniera della

riscossione della decima era di dare in appalto la tassa, così la corte poteva evitare le spese

della riscossione. Gli appaltatori o decimatori pagarono una determinata somma per il

territorio dal quale incassarono il profitto, come nel caso del decimatore del comitatus di

Hont, la corte arcivescovile ricevette la parte ventesima della decima (10,39-41). È

interessante che una volta appare il proposto di Santo Stefano come appatatore della decima:

Dal proposto di S(anc)to Stefano, f(iorini) duce(n)to c(ontan)ti a co(n)to de le decime che lui

à affitto (5,140-141). Il census plebanorum invece spettava esclusivamente all’arcivescovo.

Alcune pievi appartenevano immediatamente sotto l’arcivescovo senza la mediazione

dell’arciprete. In questo caso la tassa era una determinata somma per un intero anno. Le pieve

ricorrenti nel testo che pagavano quest’imposta, sono Csetnek, Pelsőc e Berzence. Infine il 54

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sopra presentato pisetum era un’imposta speciale che riceveva solo l’arcivescovo di

Esztergom nella storia dell’Ungheria.

II. 2. 4. I criteri della trascrizione

Lo scopo principale della presente tesi è di creare la trascrizione moderna di una parte

del testo del codice Giornale, secondo i criteri della filologia moderna. Il caso è particolare,

perché il testo ha un importanza sia per la storiografia ungherese sia per quella italiana, quindi

dovevo provare ad avvicinare e soddisfare le esigenze metodologiche provenienti da entrambe

le parti. Siccome il testo è in italiano, ho seguito le indicazioni di Arrigo Castellani, descritte

nella premessa del volume I più antichi testi italiani69 nel trascrivere l’originale, completando

secondo l’abitudine tradizionale degli archivisti per quanto riguarda i segni e gli apparati70. Ho

ritenuto molto importante mantenere la forma originale, dal momento che si tratta di un libro

di conto che ha una forma speciale. Quindi avevo un compito doppio, poiché dovevo

mantenere fedelmente la forma originale, e nello stesso tempo modernizzare il testo secondo

certi criteri, per rendere comprensibile il testo stesso.

La forma del testo è determinata dal suo genere, quindi le voci creano un corpo

principale, le cifre sono indicate nella colonna destra, e infine nella colonna sinistra troviamo

riferimenti alle pagine del libro mastro, sul quale riportarono le singole voci. I riferimenti non

sono sempre rimasti, e quelli che mancano a causa di guasti meccanici, purtroppo non sono

recuperabili dal testo, mentre invece le cifre possono essere recuperate dal testo. Le voci si

susseguono cronologicamente, e le date sono indicate nel centro della colonna principale. Per

la rintracciabilità ho numerato le righe cinque alla volta, ma per la chiarezza e per evitare un

numero troppo elevato, ho ricominciato la numerazione a seconda dei mesi, insomma quattro

volte. Poiché la forma prescritta delle tesi di laurea presso codesta università esige la

numerazione continua delle pagine, ma nello stesso tempo avevo bisogno di chiarezza

inequivocabile per i riferimenti, la trascrizione ha una doppia numerazione. La prima (sopra)

indica i numeri delle pagina dell’unità (1-11) e la seconda (sotto) segue la numerazione della

tesi. Il riferimento di una parte del testo è quindi un insieme della data pagina e il numero

della riga per esempio 2,23 che segna la riga questo per lo te(r)mine di S(anc)to Gio(r)gio

passato. f. 24 d. 0.

69 Arrigo CASTELLANI: I più antichi testi italiani. Bologna, 1976. pp. 5-7.70 Cfr. KRISTÓ Gyula – MAKK Ferenc: Filológia. In: A történelem segédtudományai. A cura di Iván BERTÉNYI,

Budapest 2003. pp. 197-199.55

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Non ho segnalato la rottura delle pagine perché in questo caso non ha un’importanza

particolare. Ho mirato però a mantenere la rottura delle righe per rendere visibile dove non è

leggibile il testo originale a causa di guasti meccanici, e perché è incerta la lettura di alcune

parole. Solo in un caso dovevo divergere dalla rottura originale e scrivere una parola nella

riga seguente a causa dello spazio mancato: 42-43 maggio: settanta. Tra le voci e le cifre

appartenente ad esse, fu tirata una linea, se la frase non giungeva il margine, magari per

evitare la possibilità di aggiungere qualcosa posteriormente alla voce. Questa linea non è stata

riportata nella trascrizione perché è evidente quale cifra appartiene ad una voce e non ha più

nessuna funzione.

Ho usato le parentesi quadre ([ ]) per indicare la lettura incerta o la mancanza per

guasto meccanico di una parola nel testo originale, che però ho potuto recuperare dalla copia

di Budapest oppure ho potuto ricostruire secondo l’analogia delle voci (congetture). Per

esempio la prima pagina del testo riportato è gravemente danneggiata. Il copista veneziano

non poté leggere le parole nel margine sinistro delle prime voci. Secondo l’analogia però ho

potuto integrare con alcune parole: “[Da la villa] de Udvard” (2/2); “p(er) lo ce(n)so di

S(anc)to Gio(r)gio [proximo] passato” (2/3-4).

Le parentesi tonde ( ) marcano le abbreviazioni sciolte. Tutte le abbreviazioni sono

state risolte, tranne i nomi delle monete nella colonna destra, in cui ho segnato fiorino/fiorini e

denaro/denari con le lettere f. e d., come sono presenti anche nel testo originale. Dove lo

scioglimento di un’abbreviazione è incerto o differisce dalla soluzione della copia di

Budapest, l’ho segnalato nel primo apparato. Le parole et e che nel registro sono state scritte

sempre con dei segni tipici che non ho considerato abbreviazioni, quindi non ho messo tra

parentesi. Il notaio scrisse le cifre generalmente con numeri arabi, raramente con numeri

romani che ho lasciato in forma originale. Però la parola decima è stata generalmente

abbreviata con il numero romano x che ho risolto sempre senza alcuna segnalazione

nell’apparato.

Tra parentesi angolari (< >) stanno le parole cancellate nel testo originale secondo

l’indicazione di Castellani. Ho considerato importante di notare le eliminazioni perché non

sempre si trattava di qualche correzione di errori: ci sono anche parole e cifre tirati perché

sono state trascritte nel libro mastro o per qualche altro motivo e possono avere un significato

da considerare. Ad esempio desidero menzionare la parte ultima del testo riportato: accanto

alla penultima voce (11,67) ci troviamo una cifra cancellata che non appartiene a nessuna

voce. Bisognerebbe esaminare attentamente a che cosa riferisce perché sicuramente non si

tratta di un errore. Il notaio non determinò nemmeno il tipo della moneta, non mise né f. né d. 56

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La mia proposta è che magari si tratti di una somma parziale che il notaio calcolò e poi

avrebbe tirato dal Giornale.

Per indicare le parti che sono assolutamente illeggibili per qualche guasto meccanico,

ho usato puntini (...) provando a dimostrare approssimativamente lo spazio che non è più

disponibile, però a causa delle abbreviazioni, le parole possono essere più lunghi di quello

spazio che ho lasciato. Il segno d’uguaglianza (=) marca la divisione delle parole nella copia

che è stato utilizzato dal copista veneziano. Al posto di questo segno ho usato il semplice

trattino per le divisione delle parole.

Per quanto riguarda la modernizzazione del testo, ho seguito anche in questo caso

l’istruzione di Castellani. Ho messo gli accenti e gli apostrofi in ogni caso in cui oggi li

metteremmo secondo le regole dell’ortografia italiana. Per poter distinguere le forme

coniugate del verbo avere dagli omofoni (anno; o; a), essendo mancata l’h iniziale

nell’originale, ho messo un accetto alle forme del verbo, come ha fatto anche il copista

veneziano. Per quanto concerne l’interpunzione del testo, ho seguito sempre le regole

moderne. Anche se in alcuni casi mancavano i predicati, ho considerato le voci come frasi e

ho messo le virgole quando era necessario, e alla fine il punto fermo o i due punti. Il notaio

utilizzò raramente e non conseguentemente le maiuscole. Per la chiarezza e per la regolarità

ho scritto con maiuscole i nomi propri, i toponimi, la parola Sancto prima dei nomi di santi, i

nomi delle dignità (soprattutto le apostrofi di Ippolito d’Este) e naturalmente ho usato

maiuscole all’inizio delle frasi. Tendevo a mantenere la rottura delle righe originale anche nei

casi, in cui le parole sono state divise. Però la divisione non corrispondeva sempre alle regole

moderne, per questo dovevo modernizzare anche qui il testo. Si tratta solo di alcuni esempi,

come commi/ssione – commis/sione (2,15-16), pa/ssato – pas/sato (3,73-74) ecc.

Diversamente da Castellani, le preposizioni e gli articoli sono riportati separatamente.

Da una parte ho seguito il copista veneziano che scrisse le preposizioni articolate sempre

separatamente, dall’altra parte perché si può vedere che nel testo originale non si tratta di

un’unione grammaticale quando queste parole sono scritte insieme, solo di quella tendenza

dello scrittore di provare a facilitare l’azione della scrittura evitando il sollevamento della

penna. Questo parere è sostenuto da quel fenomeno che lo scrittore generalmente scrive

insieme più parole, per esempio: dalavilla, liquali ecc.; e anche dal fatto che non unisce l’in e

la in nella (2,25). Possiamo parlare di unione grammaticale in quelli casi, quando dall’articolo

manca la vocale (per esempio del) e naturalmente queste sono scritte insieme in tutti i casi.

Ho creato due apparati per distinguere le note. Il primo apparato serve per le

osservazioni filologici. Ho segnalato qui le varianti ricorrenti nella copia di Budapest 57

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segnalandole con la sigla B; alcuni fenomeni caratteristici che ci sono nel testo originale ecc.

Per distinguere il codice originale e la copia presente nell’Accademia Ungherese delle

Scienze ho usato due sigle: M per indicare il codice di Modena, e B per la copia di Budapest.

Nel secondo apparato però ho spiegato i termini tecnici riguardanti alla tematica della

medievistica ungherese che non sono comprensibili in italiano o dal latino; ho indicato i

toponimi che appaiono nel testo segnalando anche il nome del paese odierno. In alcuni casi

però ho potuto indicare solo una proposta non essendo sicura nell’identificare del dato luogo.

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IV. Bibliografia

Fonti archivistiche:

Il Giornale:

Originale: Modena, Archivio di Stato, Camera Ducale. Amministraione dei Principi.

No 705. 1r.- 5r (M)

Copia apografa: Budapest, Magyar Tudományos Akadémia, Kézirattár, Ms 4998

fasc. 10. 1r. – 11v. (B)

Liber Sancti Adalberti, Budapest, Magyar Országos Levéltár, Urbaria et Conscriptiones

45:25; 45:46; 100 : 52 (a)

Bibliografia:

Charles M. BRIQUET: Les Filigranes I. Georg Olms Verlag Hildesheim. New York 1977.

Arrigo CASTELLANI: I più antichi testi italiani. Bologna, 1976.

CSÁNKI Dezső: Magyarország történelmi földrajza a Hunyadiak korában. I-V. kötet.

Budapest.1890-1913.

Emidio DE FELICE - Aldo DURO: Dizionario della lingua e delle civiltà italiana

contemporanea. Palermo 1974.

Estei Hippolit püspök egri számadáskönyvei 1500-1508. A cura di: E. KOVÁCS Péter. szerk.

Kovács Béla. Eger. 1992.

FÜGEDI Erik: Az esztergomi érsekség gazdálkodása a 15. század végén. Századok. 94

(1960)/1. 82–124. (1960)/4. 505–556.

KRISTÓ Gyula – MAKK Ferenc: Filológia. In: A történelem segédtudományai, a cura di Iván

BERTÉNYI, Budapest, 2003.

KUBINYI András: Egységes nemesség? In: Rubicon 4-5 (1994) pp. 13-19.

LUKINICH Imre: A Magyar Tudományos Akadémia Történettudományi Bizottsága másolat- és

Kéziratgyűjteményének ismertetése. Budapest, MTA. 1935. p. 33-36.

Martin MAIDEN: Storia linguistica dell’italiano. Il Muliono, 1998.

Magyar értelmező szótár. A cura di JUHÁSZ József, SZŐKE István, O. NAGY Gábor,

KOVALOVSZKY Miklós, Budapest, 1972.59

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Magyar történeti fogalomtár. I-II. A cura di Péter BÁN, Budapest, 1989.

NYÁRY Albert: Az esztergomi érsekség és az egri püspökség számadási könyvei a XV – XVI.

századból. Századok 1867. 378-384.

NYÁRY Albert: A modenai Hyppolit kódexek. Századok. 1870. 275-290., 355-370., 661-687.

Századok. 1872. 287-305., 355-376. Századok. 1874. 1-16., 73-83.

Esztergomi érsekek 1001-2003. szerk. BEKE Margit, ADRIÁNYI Gábor, MUDRÁK Attila. Bp.

2003.

Lorenzo RENZI – Giampaolo SALVI: Nuova introduzione alla filologia romanza. Il Mulino,

1994.

Sitografia:

www.arcanum.hu

http://www.mol.gov.hu/

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