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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
DIPARTIMENTO CULTURE, POLITICA E SOCIETA’
CORSO DI LAUREA IN COMUNICAZIONE INTERCULTURALE
Tesi di laurea in Antropologia Culturale
IL PROSECCO COLFONDO: UNA RIFLESSIONE
ANTROPOLOGICA SU TERRITORIO, VINI E PERSONE
Candidata Relatore
Alice PETTENO’ prof. Adriano FAVOLE
Matricola n°328314
ANNO ACCADEMICO: 2012- 2013
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… and though our bodies lie alone here in the dark
our souls and spirits rise to carry the fire and the light the spark
to fight shoulder to shoulder and heart to heart to stand shoulder to shoulder and heart to heart
we are alive
BRUCE SPRINGSTEEN, We are alive
A Fabio.
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Sommario
Introduzione ........................................................................................................................... 7
Disegno della ricerca: prefigurazione. ........................................................................... 8
La pratica. ...................................................................................................................... 9
La ricerca degli informatori e le interviste. .................................................................. 10
CAPITOLO 1 IL TERRITORIO TREVIGIANO E LA VITICOLTURA .......................... 12
1.1 Le colline e la pianura trevigiane ............................................................................... 13
1.2 Cenni storico-economici. ........................................................................................... 15
1.3 La viticoltura nella provincia di Treviso. ................................................................... 18
1.4. La storia del vitigno di Prosecco ............................................................................... 19
1.5 Tra varietà e monocoltura. ......................................................................................... 21
CAPITOLO 2 IL VINO E LA SUA RIPRODUCIBILITA’ TECNICA: DALLA VIGNA
ALLA CANTINA ................................................................................................................ 27
2.1 Dalla viticoltura all’enologia. .................................................................................... 27
2.2 Con lo sguardo verso la Francia: la spumantistica italiana. ....................................... 28
2.3 Il colfondo. ................................................................................................................. 31
2.4 Il lavoro in vigneto. .................................................................................................... 32
2.5 Questione di tecnica: il lavoro in cantina. .................................................................. 36
CAPITOLO 3 I SIGNIFICATI DEL VINO ........................................................................ 40
3.1 Il vino come oggetto estetico. .................................................................................... 40
3.2 “Te lo do io il vino… naturale”. ................................................................................ 43
3.3 I prodotti territoriali ed il loro consumo. ................................................................... 46
3.4 Turismo e prodotti locali: l’immagine fuorviante del Proseccoshire. ....................... 52
3.5 Creare legami con un semplice bicchiere di vino. ..................................................... 55
3.6 Un nuovo modello: il vino critico. ............................................................................. 60
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Bibliografia .......................................................................................................................... 64
Sitografia .............................................................................................................................. 68
Immagini .............................................................................................................................. 69
Ringraziamenti ..................................................................................................................... 73
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Introduzione
“Lo so, me ne rendo conto: il mio è un sogno di una controrivoluzione. Ma è un sogno di
cui, assolutamente, non possiamo fare a meno. Forse nella stessa misura in cui riusciremo
a trasformare questo sogno del vino genuino ed artigianale in una realtà, riusciremo
anche ad arginare, e poi ad annullare, lo spaventoso progresso degli inquinamenti
dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, dei fiumi, delle spiagge e delle
campagne, tutto il veleno che ci minaccia di morte”.
Mario Soldati
I motivi che mi hanno spinta nell’intraprendere una ricerca sul vino e i suoi produttori sono
molti e diversi tra di loro. Negli ultimi anni mi sono trovata a stretto contatto con il mondo
dell’alimentazione per ragioni non proprio di studio, bensì lavorativi. Da questa esperienza
di lavoro sono nate le mie prime curiosità: ho cominciato ad interrogarmi sulla filiera, sul
modo in cui i prodotti che utilizzavo venivano realizzati e sugli impatti che tale lavoro
aveva sull’ambiente. Ho cominciato a leggere dei libri cercando alcune risposte alle
domande che mi facevo finchè non ho scoperto dei lavori sul vino ben lontanti da trattarlo
semplicemente come un oggetto puramente estetico.
Non si tratta di scritti su punteggi delle etichette tantomeno sui retrogusti, bensì di
contributi che raccontano il territorio e le storie dei protagonisti che realizzano un vino. Ho
letto, ed anche ascoltato, racconti di un mondo molto diverso da quello a cui la moderna
enologia ci ha voluti abituare e continuato ad aproffondire l’argomento fino ad arrivare al
contatto diretto con questo protagonisti.
Nello stesso momento infatti, mi sono trovata a dare un contributo all’organizzazione di
Enodissidenze, una fiera di vini artigianali che si è svolta a Torino; qui ho potuto avere la
testimoninza diretta di un nuovo modo di “fare il vino”.
Dall’esperienza di Enodissidenze e dall’incontro di questi vignaioli nasce questa ricerca
che vuole presentare il vino di questi vignaioli andando oltre al semplice esercizio della
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degustazione organolettica, mettendo così in luce la loro dimensione artigianale, il loro
rapporto con il territorio, il rispetto per la terra e per chi la abita.
Per farlo, ho scelto di concentrarmi sul colfondo, un Prosecco artigianale completamente
diverso da quallo a cui ci hanno abituato a bere.
Disegno della ricerca: prefigurazione.
Pensando al Prosecco balzano subito alla mente le colline tra Conegliano e Valdobbiadene
in cui ogni centimetro quadrato di terra è occupato da vigne. Si tratta di un luogo in cui
l’uva rende, il marchio spinge e soprattutto attrae ma la qualità è difficile da trovare. La
progressiva introduzione di un sistema di produzione industriale (di stampo capitalistico)
ha portato nel territorio diversi cambiamenti.
Da un punto di vista prettamente economico si osserva la nascita e lo sviluppo di industrie
vinicole che si affermano sempre di più nel mercato italiano e mondiale1 che hanno
modificato le tecniche produttive del Prosecco.
Un altro cambiamento è rappresentato dalla trasformazione antropologica del contadino:
esso diventa “imprenditore agricolo” e di conseguenza opera una trasformazione radicale
del paesaggio circostante.
Infatti, quello che è in atto nelle colline (ma anche in altre zone agricole nella provincia di
Treviso) è una vera e propria devastazione ambientale: scompare l’agricoltura contadina
multi-produttiva per far posto alla monocultura industriale e chimica.
Esistono però alcuni vignaioli, che si trovano a confrontarsi con un quadro segnato da rese
abbondanti su terreni seviziati dalla chimica e di fatturati che conquistano vecchi e nuovi
mercati che decidono di perseguire la controrivoluzione di cui parlava Mario Soldati: far
emergere un modello differente di produzione enologica.
Questo modello differente non si trova solo nelle strategie di lavorazione in vigneto e in
cantina per realizzare il proprio vino, bensì si tratta di un diverso modo di approcciarsi
all’enologia poiché si vanno ad evidenziare dei legami profondi tra chi produce vino e il
territorio da cui nasce, e tra produttore e consumatore.
1A titolo esemplificativo si possono citare alcuni grandi nomi dell’industria vinicola che produce ed esporta Prosecco in tutto il mondo: Mionetto, Bisol e Carpané.
9
L’oggetto della ricerca sono dunque i vignaioli della provincia di Treviso che oggi
producono Prosecco utilizzando il metodo colfondo, definito da molti il metodo storico di
produzione del vino frizzante, che viene sostituito quasi completamente dal metodo
Martinotti-Charmat2, poiché riduce di molto i rischi d’impresa legati alla fermentazione.
L’intento finale di questa ricerca è scoprire la dimensione sociale dell’agricoltura
interrogando alcuni custodi della Terra, così come li chiama Corrado Dottori nel suo Non è
il vino dell’enologo, coloro che hanno deciso di r/esistere di fronte all’avanzare della
modernità.
La pratica.
Lo sguardo della ricerca è puntato verso una zona del Veneto, la provincia di Treviso.
Il concetto guida è stato quello di capire le motivazioni che hanno portato i soggetti della
ricerca resistere proporre un vino diverso all’interno di un mercato incentrato
sull’omologazione del Prosecco.
Per arrivare a comprendere alcune di queste ragioni nel Capitolo 1 si è cercato di
ricostruire un quadro storico-economico del territorio in cui siamo, cosa è successo e cosa
sta ancora accadendo in quelle zone. Come ci suggerisce Nadia Breda l’intento è di “dare
una prima lettura di alcuni nodi di interesse antropologico delle avventure di questi
paesaggi, nodi che prendono interesse proprio dalla situazione di conflittualità in cui essi si
trovano” (Breda 2001). Ecco uno dei motivi che mi hanno portato all’incrocio di diverse
fonti impiegate nella ricerca.
Nel Capitolo 2 invece il lavoro si è svolto verso la ricostruzione del panorama enologico
italiano che, inseguendo l’esempio della Francia che già da molto tempo prima dell’Italia
vantava una propria tradizione enologica nazionale, comincia a muovere i primi passi
verso l’affermazione di un prodotto di qualità. Queste innovazioni avranno delle
ripercussioni sui produttori della zona in cui si è svolta la ricerca ma soprattutto hanno
potuto spianare la strada alla realizzazione di un prodotto di massa.
Nel Capitolo 3, realizzato utilizzando le testimonianze raccolte lunghe durante le interviste
discorsive, la ricerca si concentra sui produttori di Prosecco che hanno deciso di 2 Metodo introdotto da Federico Martinotti che permette di tenere controllata la rifermentazione in grandi recipienti, le autoclavi.
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intraprendere una strada diversa da quella della produzione di massa. Queste interviste
sono servite a comprendere le scelte imprenditoriali che “prescindono almeno in parte dalla
razionalità economica e dal perseguimento del profitto”, che nella tradizione della ricerca
sociale sono state studiate “come le uniche determinanti dell’agire economico ma
rispondono anche da altre ragioni” (Papa 1994), diventando in questo modo oggetti della
ricerca antropologica.
Infatti, queste interviste mi sono servite a far emergere al meglio una visione del vino come
un bene culturale contrassegnato da un legame profondo con il territorio che viene
realizzato dai vignaioli sfruttando un sapere legato all’artigianalità piuttosto che alla mera
tecnica industriale.
La ricerca degli informatori e le interviste.
Nella sua vasta accezione il termine intervista indica un tipo particolare di relazione
sociale, un particolare modo di espressione della socialità.
Come si può apprendere dai manuali di metodologia della ricerca sociale esistono due tipi
di intervista: l’intervista strutturata e quella discorsiva.
Partendo dalla considerazione che all’inizio del lavoro l’argomento non è ancora ben
delineato ho deciso di utilizzare la seconda forma di intervista, quella discorsiva.
Si è proceduto con la definizione di un tema di conversazione3 che una volta sottoposto
all’intervistato ha dato origine ad un discorso molto più vasto rispetto alla domanda
iniziale.
Si sono cercati produttori locali che conducono aziende vinicole medio-piccole e che
lavorano senza utilizzare la chimica (a regime naturale o biologico o biodinamico).
La prima informatrice è stata Carolina, una produttrice di colfondo che ho conosciuto
durante il mio lavoro ad Enodissidenze, una fiera di vini artigianali svoltasi a Torino un
paio di anni fa. Carolina poi ha saputo mettermi in contatto con altri produttori della zona
del Piave.
Un altro aiuto per allargare il numero di vignaioli mi è stato dato da Mario, il quale ama
definirsi “architetto mancato che da giovane si è illuso di fare il boscaiolo”. L’apporto di 3La traccia dell’intervista usata per tutti gli informatori: presentazione della ricerca e richiesta di parlare del proprio lavoro.
11
Mario è stato molto importante perché mi ha fatto conoscere Eros (altro vignaiolo) ma non
solo; mi ha fatto conoscere alcuni libri che mi sono serviti per inquadrare al meglio il
panorama del vino artigianale e mi ha regalato dei racconti sul territorio molto preziosi.
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CAPITOLO 1
IL TERRITORIO TREVIGIANO E LA VITICOLTURA
Il “Vino de Venexia”, fin dal Medioevo, ha rappresentato una buona parte della produzione
enologica che veniva esportata dai mercanti fuori dalla Repubblica della Serenissima.
A partire dalla seconda metà del Cinquecento i signori veneziani usavano tenere delle ville
nella terraferma, acquistavano terreno dagli ordini monastici o dagli incolti e migliorarono
la produzione di vino locale che diventò un elemento essenziale per la nuova vita
dell’aristocrazia di campagna che progressivamente si stava creando.
Si apprezzava e si gustava il vino proveniente dalle diverse province del Veneto, che
ancora oggi si distinguono per una produzione con qualità e varietà differenti.
La gran parte del territorio della regione Veneto, grazie alle caratteristiche morfologiche
adatte, rappresenta una zona di produzione di uve apprezzate; la lavorazione del vino
costituisce un tassello molto importante nel mondo agricolo veneto.
Ogni provincia ha i propri vitigni dai quali trae del vino di buona qualità, ma quelli che si
affermano maggiormente sulla scena sono ben pochi rispetto ai vitigni autoctoni.
Se, nel complesso i vini veneti rimangono nell’ombra rispetto ai loro omologhi piemontesi
ad esempio, troviamo però alcune produzioni enologiche che s’impongono nella scena non
solo italiana ma anche internazionale4.
Oltre le colline del Soave, nel veronese, c’è la Valpolicella con il suo tanto decantato5 vino
rosso omonimo e altri vini importanti come l’Amarone e il Recioto6.
4“Il Veneto è la prima regione italiana nell’export del settore vino, in quantità e valore, che nel 2011 ha superato i 1.331 milioni di euro.” Dichiarazione ANSA della Giunta Regionale del Veneto (8/01/2013). 5 "Secco, rosso e cordiale come la casa di un fratello con cui si va d'accordo", il Valpolicella viene definito così da Hemingway nel romanzo “Across the river and beyond the trees”. 6 “Vino ricavato dalle quattro uve del Valpolicella: Corvina, Molinara, Rondinella e Rossignola o Tintarella. Recioto, da recia (piccola orecchia) perché una volta questo vino si faceva spremendo solo le orecchie, ossia la parte superiore, la più delicata e gustosa di ogni grappolo” (Soldati1977:106).
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Un’altra provincia famosa per i suoi vini è quella trevigiana: lungo il corso del fiume Piave
troviamo una forte presenza della viticoltura che ha portato alla creazione della Strada Vini
del Piave7 e di un suo consorzio di tutela dei vini di questo territorio.
Ma è soprattutto per la Valdobbiadene, ed i suoi vini, che la provincia di Treviso è famosa
nel mondo.
In queste aree troviamo il Prosecco: un vino frizzante che attraverso la sua produzione
sempre più massificata ha portato a modifiche nell’ambiente, nell’economia e nella cultura
locale.
Si rispecchia anche in queste zone una tendenza generale, cominciata alcuni decenni fa: si
è scommesso sul nascente settore turistico facendo riferimento alle attrattive
dell’enogastronomia locale. Le capofila di questo tipo di turismo sono state la Toscana e
l’Umbria, infatti si sente parlare di distretto del Chianti; in anni recenti le colline del
Prosecco sono state inserite in questo settore.
Girando per le colline si può affermare che oramai la Marca non è più un semplice puntino
posto sopra ad una carta geografica: è diventata la tappa obbligata per il turismo
enogastronomico, che porta molte persone ad avventurarsi tra i colli e tra le cantine alla
ricerca dei gusti e dei sapori della zona, ed è diventato soprattutto un “marchio” stampato
in milioni di bottiglie.
1.1 Le colline e la pianura trevigiane
Innanzitutto localizziamo la provincia di Treviso: questa si trova nella parte centro-
orientale del Veneto. A nord confina con le Dolomiti bellunesi, ad est con quelle friulane a
sud con le province pianeggianti di Venezia e Padova mentre ad ovest con le colline
vicentine.
Quella che un tempo era la marca trevigiana8 presenta diverse tipologie di paesaggio: la
maggior parte del territorio è pianeggiante mentre la fascia settentrionale ha diversi tratti
collinari fino ad arrivare alla montagna.
7Si tratta di un percorso creato dagli enti locali (provincia di Treviso e comuni) e da associazioni di promozione turistica ed enogastronomica di circa 170 chilometri. Si suddivide in tre percorsi tematici incentrati sulle vigne: “Le vigne dei Dogi”, “Le ville dei veneziani” e “Le terre del Raboso del Piave”.
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Parallelamente alla catena montuosa settentrionale, si estende una zona collinare
caratterizzata da rilievi molto elevati e che comprende tutta la zona che parte da
Valdobbiadene ed arriva al vittoriese.
Recandosi sul posto ci si trova in un paesaggio variegato, segnato da montagne
caratterizzate da fitti boschi: qui si trovano ancora delle malghe, quelle rimaste ancora
attive sono poche ma continuano a rivestire un ruolo importante nel settore
dell’allevamento mentre in tempi più recenti cominciano ad inserirsi nel settore turistico
come luoghi da riscoprire oppure sotto forma di agriturismi.
In contrapposizione alle montagne lo sguardo cade su un paesaggio difficile da immaginare
a causa dei pendii: i filari di vite.
La ricerca che presenterò in queste pagine si concentra sulle scelte intraprese da alcuni
vignaioli che producono vini tra queste vigne: questi vigneti, che si ergono senza
terrazzamento, vengono coltivati in particolare sulle colline che dal comune di Conegliano
si estendono verso il comune di Valdobbiadene.
L’affermazione della produzione enologica è legata soprattutto all’ottimo terroir9: infatti il
“vino buono” è il frutto di una “terra buona”, che deve la sua particolare configurazione
fisica ad un ghiacciaio che, in epoca primordiale, è sceso dalle vicine Dolomiti scavando
così il letto del Piave e lasciando assorbire sostanze preziose alla terra che alimenta le
numerose viti.
Lo sviluppo del settore vinicolo ad oggi è andato a intaccare la diversità vinicola e
vegetazionale delle diverse porzioni di territorio. Alcune zone conservano una biodiversità
8“Monti, musoni, ponto dominorque naoni” (significato: dai monti del bellunese alle lagune venete e dal fiume Musone) è un detto del XII secolo che definisce i confini della Marca trevigiana, ovvero il territorio che si estendeva all’epoca attorno alla citta di Treviso. 9Il termine terroir è intraducibile e la sua definizione fa riferimento a quattro fattori da considerare insieme: il clima, la geologia, la topografia ed il suolo. Studi recenti, anche nel campo delle scienze sociali come quello di P. Minelli, “Il valore del vino tra marketing e cultura”, in Minelli, Meglio, Anselmi, Vino e sviluppo locale, Perugia, Morlacchi, 2011, pp 95-103 cercano di dimostrare come il concetto di terroir vada ben oltre la dimensione naturale e catastale; il terroir può rappresentare un sistema complesso che racchiude al proprio interno sia il lavoro del vignaiolo, poiché è quest’ultimo che coltiva la vigna sia un uso controverso del concetto a scopo di marketing.
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ricca, ed è l’esempio delle cosiddette colline storiche10, altre invece hanno visto ridursi tale
ricchezza.
Nel momento in cui la dicitura del marchio doc è stata estesa ai nuovi vitigni coltivati nella
zona pianeggiante della Marca, numerose coltivazioni ortofrutticole e vitigni autoctoni
sono stati spiantati per far posto a nuovi insediamenti monoculturali. Nel caso del vino è
stata previlegiata l’uva Glera, quella da cui si ottiene appunto il Prosecco.
Volendo costruire una ricerca che vuole indagare i motivi che spingono ad intraprendere
un metodo di lavorazione artigianale del Prosecco, ci si è mossi quindi oltre queste colline.
1.2 Cenni storico-economici.
La storia di queste zone del Veneto, ma soprattutto di queste genti che vi abitano è
dominata dal fiume Piave che, nel caso della Valdobbiadene dona proprio il nome alla
vallata e al paese stesso11.
Il Piave, l’acqua insieme al resto del paesaggio della zona formato da paludi, boschi,
foreste e pascoli, hanno sancito un legame con Venezia sin dal XIV secolo. Da questo
periodo, nello specifico dal momento in cui Venezia stava accentuando la sua politica di
espansione nelle zone di terraferma, la Serenissima si servì del legname dei boschi e delle
terre di quei luoghi.
Come attestato dai volumi di storia locale, la Serenissima si è fatta promotrice di diverse
opere di bonifica gettando in questo modo le basi per un’agricoltura fiorente.
Con la lenta decadenza, che ha portato alla perdita dell’indipendenza della Repubblica di
Venezia, il territorio della Marca è rientrato sotto il dominio napoleonico a cui segue
quello austro-ungarico. Il Veneto in generale è stato un campo di battaglia degli scontri
militari tra le forze austriache e quelle francesi; il territorio preso in esame in questa ricerca
10Con collina storica si indica la zona di vitocoltura “originale” che preserva ad oggi la biodiversità ad oggi parzialmente perduta. Uno degli aspetti particolari della collina storica sta nel fatto di non essere meccanizzabile richiedendo un lavoro di tipo manuale (intervista Eros Zanon 21/05/2013) 11Dal latino: Duplavenses, Duplavilenses, Duplavis (Gobbato 2008:13).
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rimane piuttosto estraneo agli episodi militari delle guerre d’Indipendenza e lo stesso
accade nel momento dell’Unità d’Italia12.
In questo periodo povertà e malattia regnavano sovrane: c’erano i “padroni” della terra e i
contadini che si inserivano in un’economia ancora legata ad un sistema legato ad equilibri
antichi13; c’erano poi malattie come la “spagnola” e la pellagra (anche detta malattia della
polenta) che mietevano numerose vittime.
Il settore primario rimane quello maggiormente redditizio, tanto da creare un forte legame
con il settore industriale. Ritengo opportuno accennare brevemente ad una attività
lavorativa diversa dalla produzione di vino poiché c’erano anche altri lavori di tipo
agricolo che contribuivano al sostentamento delle famiglie della Marca.
Oltre alla fienagione, il taglio della legna, la coltivazione di cereali e l’allevamento, le
famiglie contadine hanno saputo dare molta importanza all’allevamento dei bachi da seta,
tanto da rendere in alcuni casi questa attività più redditizia della produzione e vendita di
uve. Quando la produzione di vino era legata al consumo da tavola, la bachicoltura
permetteva un guadagno in denaro molto proficuo per le famiglie14.
L’allevamento dei bachi cominciava a maggio con l’acquisto della semente e durante la
fase iniziale, quando i bachi erano di dimensioni ridotte erano accuditi dalle donne; col
succedersi delle mute il lavoro diventava più faticoso e venivano coinvolti anche gli
uomini della famiglia poiché si dovevano potare i rami del gelso per utilizzare le foglie.
12Il 21 e 22 ottobre del 1866 si svolge in Veneto, allora comprendeva anche la provincia di Mantova e il Friuli centro-orientale, il plebiscito che decreta l’annessione del territorio al Regno d’Italia. 13tra fine del XIX e inizio del XX secolo la proprietà terriera era diversificata: le proprietà più piccole si chiamavano chiusure (da 1 a 3 ettari) e comprendevano la casa, la stalla e il fienile; abitate da una famiglia mononucleare e che lavorava come bracciante. Le masserie invece erano più grandi, abitate da famiglie multiple e quindi con più terreno (cfr. “La vite ed il vino nella provincia di Treviso”, Vianello e Carpanè, Loescher, 1874, pag. 38) 14 Ho scelto di concentrarmi sul caso della gelsi-bachicoltura perché durante le interviste svolte con i produttori e soprattutto nei giorni di permanenza in collina ho notato che il gelso ancora oggi caratterizza il paesaggio locale; il gelso, anche se in numero minore rispetto al passato, lo si trova ancora ad inizio filare nelle viti, proprio a dimostrazione che spesso le attività agricole (oggi aziende vinicole) erano legate ad altre attività di sostentamento.
17
Quest’attività, di cui ci rimangono testimonianze nella flora e nell’architettura del
paesaggio15, getta le basi per lo sviluppo del settore laniero: si passa da una produzione
manuale a quella semi-industriale.
Questo sviluppo può sembrare duraturo date alcune condizioni, come le caratteristiche
geografiche, ma a causa del mancato ammodernamento tecnologico e della scarsa
intraprendenza imprenditoriale il settore subisce un declino.
E’ interessante però il caso della filanda di Valdobbiadene: in passato si trattava di un
piccolo opificio che è stato rilevato da una famiglia locale che lo ha ammodernato grazie
all’apporto di macchinari moderni per la lavorazione tessile. Nasce così la “Filanda-
calzificio Piva-Sisi” che ha impiegato molta manodopera femminile della zona fino
all’acquisto da parte della multinazionale “Golden Lady- s.p.a.” che ha cessato l’attività
nel 2008 a causa della de-localizzazione.16
E’ proprio nel secondo dopoguerra che l’industrializzazione comincia a diffondersi e
quella minima parte di settore secondario già presente nella provincia di Treviso comincia
a connettersi con l’agricoltura; in collina predominava la vite, ma non vi è ancora l’attuale
specializzazione colturale17, mentre in pianura si pratica molto l’allevamento.
Una delle informatrici durante l’intervista racconta, infatti, che l’attività famigliare prima
che lei diventasse la titolare e trasformasse l’azienda anche in vinicola era totalmente
agricola: il padre, oltre ad avere delle vigne e l’orto, allevava vacche da cui otteneva latte18.
15Oltre ai numerosi gelsi presenti nell’ambiente ci sono numerosi stabilimenti bacologici le cui sorti sono però incerte. Alcune strutture sono state recuperate attraverso progetti degli Enti locali altre invece si trovano in stato di abbandono. Recentemente l’Istituto Bacologico di Vittorio Veneto, chiuso da lungo tempo, è stato messo all’asta dalla Regione Veneto e si sta ancora discutendo sulla sua conversione (Un miniospedale all’ex bacologico, 21/10/2011 La tribuna di Treviso) 16Questo episodio è descritto nella tesi magistrale in Antropologia Culturale di Sol Carolina Buffoni, Vino e Paesaggio. La Valsana ai tempi della glera (relatore Vallerani), Ca’Foscari. 17Della viticoltura nella provincia di Treviso e la sua evoluzione tratto nel prossimi paragrafo. 18 Inf. Carolina Gatti (21/04/2013)
18
1.3 La viticoltura nella provincia di Treviso.
Dopo aver brevemente illustrato alcuni aspetti della storia economica locale che hanno
avuto un forte legame con il mondo agricolo, la ricerca passa a occuparsi più da vicino
della viticoltura poiché la vite, quindi l’uva ed il vino, hanno rappresentato uno dei punti di
partenza per l’economia locale.
Prima di procedere occorre precisare che pur nei cambiamenti storico-economici che
hanno portato a grosse trasformazioni nel settore della viticoltura rimane sempre molto
importante l’origine geografica della vite.
Nonostante lo sviluppo di tecniche di stampo chimico che hanno portato alcuni enologi di
oggi a creare vini in territori poco adatti, quindi completamente slegati dal loro terroir,
l’immagine del vino è sempre stata legata ad un terroir specifico.
Questa affermazione si presta bene al caso del Prosecco, non solo per l’origine del
vitigno 19 bensì per il legame che si andrà a creare tra questo tipo di vino e
l’industrializzazione della sua produzione.
Torniamo allo sviluppo della viticoltura nella nostra area di ricerca; la ricostruzione delle
origini della viticoltura non è facile, ma se si considerano alcune fonti storiche
archeologiche la vite è sempre stata una presenza costante nella Marca trevigiana e questo
territorio ha da sempre presentato tutte le caratteristiche adatte (composizione del suolo,
conformazione e clima) per questo tipo di attività.
E’ interessante focalizzarsi nei tempi più vicini ai nostri per capire meglio l’evoluzione
della viticoltura locale per cui inizio con il citare un lavoro molto importante che
ricostruisce una mappatura del settore vitivinicolo nel trevigiano: La vite ed il vino nella
provincia di Treviso (1874).
Si tratta di un’indagine effettuata da Angelo Vianello, docente di agricoltura e Antonio
Carpenè, docente di chimica che tutt’ora rappresenta uno strumento di studio molto
importante per chi si vuole avvicinare all’apprendimento del settore vitivinicolo locale.
Il testo si presenta come un trattato approfondito sulle condizioni della viticoltura nel XIX
secolo; tra le pagine del volume i due autori fanno trapelare la loro convinzione che questa
coltura potesse trovare risultati positivi, sia per la qualità che per la quantità, nel trevigiano:
19 Sull’origine e la storia del vitigno di Prosecco parlo nel prossimo paragrafo.
19
“I nostri contadini esercitano l’agricoltura colle cognizioni tradizionali alle quali sono
tenacemente avvinti. (…) Quando per due o tre anni di seguito i contadini videro gli effetti
delle solforazioni bene eseguite, si convinsero, ed ora basta che il proprietario somministri
lo zolfo perché venga ben eseguita.”20
Nella loro operano i due autori descrivono la geologia, la pedologia e il clima della
provincia mettendo in relazione tra loro tutti gli elementi che vanno a definire il terroir
ideale di cui sopra si parlava.
Oltre a disaminare i fattori fisici, Vianello e Carpanè hanno messo in rilievi alcuni fattori
antropici che contribuiscono a determinare le condizioni ottimali per la buona riuscita della
viticoltura.
Nelle loro pagine si dà risalto alle reti di comunicazione tra singoli comuni della Marca che
vanno a rilevare la relazione tra produzione e flusso del prodotto, in questo modo sembra
che i due autori anticipino la fortuna della richiesta dei vini delle colline trevigiane. Un
altro fattore antropico è dato dalla forte densità abitativa che viene vista come una forza
lavoro da impiegare nel settore.
Vianello e Carpanè quindi hanno descritto la vite inserita in un regime di sussistenza,
legata alla quantità di uve e non alla qualità.
Quello che emerge da una lettura odierna di questo immenso lavoro è che la biodiversità
delle viti abbia ostacolato l’industria vitivinicola e che con quel lavoro si siano gettate le
basi verso la tipizzazione della biodiversità che ha portato alla monocoltura.
1.4. La storia del vitigno di Prosecco
Prima di soffermarmi sulle conseguenze del processo che ha portato alla monocoltura nella
provincia di Treviso, la ricerca si sofferma sulla storia del vitigno di Prosecco. Il motivo di
questa scelta è riconducibile al fatto che questo vitigno, cui segue la fama della produzione
enologica del vino omonimo, ha creato nell’ambiente una specie di monopolio colturale. 20 Da Vianello A. e Carpanè A., La vite ed il vino nella provincia di Treviso, 1874, Torino, Loescher pag.40
20
Il vitigno di Prosecco è caratterizzato da un grappolo lungo anche più di venti centimetri,
detto spàrgolo21, con acini di colore giallo e caratterizzato da un sapore dolce. A causa dei
molti incroci, delle selezioni e di alcune mutazioni il vitigno che oggi viene coltivato non è
lo stesso di secoli fa.
Diverse documentazioni archeologiche, intente a ricostruire la cultura enologica del
Veneto orientale, attestano che in epoca romana il vitigno del Prosecco fosse già
conosciuto.
Queste attestazioni riportano la presenza di un vino originario di “un golfo dell’Adriatico,
che si trova non lontano dalla sorgente del Timavo, da una collina sassosa dove la brezza
marina porta a maturazione una quantità d’uva che dà vino per poche anfore (…)”22.
Il vino, di cui Plinio ci fornisce questa breve descrizione, è il Pucino.
Oggi è un vino scomparso del tutto, ma che attraverso il lavoro di molti studiosi viene
identificato come antenato del vitigno di Prosecco, originario quindi della zona del Carso,
in Friuli Venezia Giulia, da dove con la denominazione di Glera verrà esportato nei colli
Euganei.
Il maggiore apporto pervenuto che tenta di ricostruire la storia di questo vitigno, insieme a
quelli autoctoni italiani, è legato al nome di Giovanni Dalmasso. Costui è una delle figure
più autorevoli nel panorama della cultura enologica italiana del secolo scorso: è stato
Preside della facoltà di agraria dell’Università di Torino ed ha fondato, per poi dirigerla,
l’Accademia italiana della vite e del vino.
Nella sua opera Storia della vite e del vino in Italia (1937) studia non solo il ruolo del vino
nella cultura italiana partendo dalle origini e soffermandosi sul tardo Ottocento, cerca
anche di ricostruire le diverse vicende legate ai principali vitigni italiani.
Nel terzo volume di questo lavoro, Dalmasso concorda nel confermare come origine del
Prosecco il vino Pucino nonostante la controversia sul colore di questo vino: “che si tratti
del bianco Prosecco (…) oppure che esso debba identificarsi col rosso o nero Terrano del
Carso triestino, quello che tu più genericamente chiami Refosco. Bianco o nero,
21Grappolo aperto con acini radi e liberi. 22Plinio, Storia Naturale XIV 59-60 in Dalla vite al vino: antropologia e storia di una cultura enologica nell’angolo più orientale della pianura veneta, Portogruaro, Fondazione Antonio Colluto, 2004
21
dunque?”23. Si tratta quindi di un’uva non autoctona di cui non si sa con esattezza il
periodo di inizio della sua coltivazione tra le colline di Conegliano ed il Piave.
Gli agronomi e gli enologi stabiliscono una data definita che appare più virtuale che reale,
che è la fine del Settecento.
In quel secolo, esattamente nel 1769 fu istituita l’Accademia di Conegliano: un circolo
culturale formato da proprietari terrieri, tecnici, studiosi di realtà agricole ed intellettuali.
Il lavoro di questa élite si concentrò sulla creazione di cataloghi dei vigneti (estensione,
quantità e qualità) con l’intento di ammodernare il settore agricolo e vinicolo.
Durante un lavoro di redazione di questo catalogo troviamo nominato il Prosecco: “chi non
sa quanto squisiti siano i nostri marzemini, bianchetti, prosecchi, moscatelli, malvasie,
grossari ed altri”24.
Oggi il biotipo più diffuso nelle zone di produzione è il tipo tondo, chiamato Prosecco
Balbi dal nome del viticoltore che lo diffuse: il conte Marco Giulio Balbi Venier. Egli
proveniva dalla Scuola Enologica di Conegliano che dai tempi della sua fondazione ad
oggi, riveste il ruolo di una delle più importanti istituzioni enologiche25 del territorio.
1.5 Tra varietà e monocoltura.
Come accennato in uno dei paragrafi precedenti, Vianello e Carpanè descrivono un
paesaggio segnato da una ricca biodiversità dei vitigni nella provincia di Treviso. Un
decennio dopo il loro volume La vite ed il vino nella provincia di Treviso, Stefano Jacini
che all’epoca ricopriva il ruolo di presidente della Commissione di Inchiesta
sull’agricoltura pubblica un’opera conosciuta come Inchiesta Jacini.
23da Dalmasso G. e Marescalchi A., Storia della vite e del vino, 1937, Milano, Arti Grafiche E. Gualdoni, vol.III, pag. 346 24Citazione di Francesco Maria Malvolti verbale del 1772 di una riunione dell’Accademia di Conegliano, in Rorato Giampiero, Il Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene, 2006, Sona (VR), Morganti editori 25La Scuola Enologica di Conegliano è stata istituita nel 1876 da decreto regio; è stata la prima scuola enologica fondata in Italia (ce ne sono undici in tutto); oggi è un Istituto Statale di Istruzione Secondaria Superiore che porta il nome del primo direttore, G.B. Cerletti. Dal punto di vista scolastico offre percorsi formativi sia nel ramo agrario che in quello enologico e, grazie ad un accordo con l’Università di Padova, offre la passibilità di continuare gli studi enologici a livello universitario.
22
L’ Inchiesta Jacini (1884) elenca le varietà di uve presenti nel territorio e si nota come il
Prosecco non fosse il vitigno predominante; era un vitigno secondario: i vitigni più
coltivati erano il Verdiso, la Bianchetta, il Pignolo, la Perera, il Dall’occhio e la Boschera
mentre tra i rossi si coltivavano il Raboso, lo Schiavone ed il Corbino.
Sia Jacini che Vianello-Carpanè hanno realizzato un censimento dei vitigni, anche se con
numeri differenti nei due lavori risulta che il vitigno più coltivato è il Verdisio (23.445
ettolitri per i secondi autori, sui 25 mila ettolitri per Jacini), mentre il Prosecco solo 3709
ettolitri.
Queste uve che primeggiavano, oggi rappresentano una varietà coltivata raramente poiché
molti produttori hanno estirpato vigneti antichi della zona per favorire l’impianto di
Prosecco, assecondando la forte richiesta di quest’ultimo rispetto ad altri vini.
I motivi di questa scelta possono essere trovati nell’ambito economico, nella scelta
consapevole di voler puntare tutto su un prodotto di qualità per portare ricchezza in queste
località.
“Milleduecento ettari coltivati a vite, allora, erano distrutti o gravemente danneggiati. Ci
siamo detti: perché non ci uniamo tra enotecnici e diamo una mano ai viticoltori? Qui ne va
del pane di tutti!”26
Questa citazione di Giuliano Bortomiol dimostra la volontà del tempo e ricopre un ruolo
guida nell’intento di costruire un gruppo solido di persone che decidono di investire nella
produzione di Prosecco.
Nasce così la Confraternita del Prosecco che inizialmente si presta come luogo fisico che
riunisce i giovani allievi della Scuola Enologica di Conegliano e che ad oggi rappresenta
un’associazione che ha come obiettivo “valorizzare il Prosecco, tranquillo o spumante che
sia, secco o amabile”.
In questo periodo, quello della ricostruzione, si introducono diverse innovazioni tecniche
che vanno a favorire la produzione di massa di vino nel territorio trevigiano.
26Cit. da Gobbato E., Giuliano Bortomiol- Il sogno del Prosecco, Curnasco di Treviolo, Veronelli pag. 33
23
I primi cambiamenti si notano nella struttura dei filari che portano ad una evoluzione del
filare.
Un cambiamento riguarda la struttura a raggio, chiamata bellussèra. Questa struttura, che
ad oggi è rara da trovare nel paesaggio, viene ancora utilizzata da un’informatrice che
spiega i motivi della sua scelta di mantenerla: c’è una scelta di rimanere legati alla
tradizione ma ci sono anche dei motivi tecnico-pratici; la bellussèra ha di vantaggioso che
riesce a produrre tanta uva e a proteggerla dalle temperature molto alte che caratterizzano
le ultime estati27.
Avendo una struttura a raggio, in cui attorno ad un palo (nella tradizione un tronco di gelso
così da permettere l’allevamento del baco da seta) si innalzano quattro viti, le foglie
riescono a proteggere i grappoli evitando così di vendemmiare anticipatamente28:
“avendo la bellussera che fa tutte le foglie ti copre hai meno evapotraspirazione ti copre
anche i grappoli e riesci a mantenere una temperatura che non è quella del vigneto a filare
che trovi normalmente29”.
Inoltre, Carolina spiega come sia molto importante questa struttura per il suo colfondo30:
utilizzando lieviti naturali, che si trovano proprio sulla buccia dell’acino, l’ombra creata
dalla bellusèra garantisce la produzione di lieviti, passaggio importante al momento della
fermentazione e su cui si basa la produzione colfondo.
La sostituzione avviene perché è una struttura che necessita molta manodopera e quindi
non si può meccanizzare, inoltre è una struttura che in collina risulta scomoda.
27 Inf. Carolina Gatti (21.04.2013) 28 Le vendemmie anticipate sono un fenomeno degli ultimi anni, a causa delle temperature elevate delle ultime estati e della conseguente siccità in molti territori si è costretti a vendemmiare già da agosto anziché nel periodo tradizionale (fine settembre/primi di ottobre. 29 Inf. Carolina Gatti 21/04/2013 30 Il colfondo è il Prosecco ottenuto senza ricorrere alla fermentazione in autoclave. Su questa tecnica tradizionale, come si ottiene e che valore assume, mi soffermerò nei prossimi capitoli.
24
Per la coltivazione sui pendii le radici dei filari devono penetrare in profondità così da dare
stabilità alla vigna senza farle franare31. Risulta più facile coltivare viti basse e disposte a
cavalcapoggio32.
Con l’introduzione di nuovi filari, comincia la diffusione di colture specializzate che fino
ai primi anni Sessanta erano alquanto sconosciute nella zona, e nella maggior parte del
Veneto33.
Avviene un processo di razionalizzazione che vede l’abbandono di una policoltura in
favore della specializzazione che ha come obiettivo incrementare una sola produzione e
andare oltre al mero fabbisogno34.
Giuliano Bortolomiol, considerato da alcuni il pionere delle bollicine, coltivava da giovane
un sogno35 che differisce da quello di Eros, ex allievo della Scuola enologica di
Conegliano che oggi fa il vignaiolo solo di vino colfondo. Davanti alla quasi totale
scomparsa della varietà l’informatore racconta che:
“(le varietà autoctone) sono presenti solo nelle colline storiche l'uva è quella storica quindi
han componenti, profumo molto diverso dai nuovi impianti// inoltre oltre a questo ci sono
altri vitigni storici, il verdisio, la perera, la boschera, la bianchetta che sono in piccole
percentuali e le vinifichiamo insieme così riesci a dare sfumature diverse (sono) rimaste
solo in microzone ogni microzona ha la sua caratteristica i vecchi dicevano che riuscivano
in base all'esperienza a riconoscerle adesso è diverso, causa lieviti e lavorazioni.”
E svela come per lui 31 Le frane di viti, causate da problemi ambientali, sono molto frequenti. 32 Sistema di filari disposto parallelamente al pendio. 33 Cfr. Scarpa Giorgio, L’agricoltura del Veneto nella prima metà del XIX secolo: l’utilizzazione del suolo, Torino, ILTE, 1963 pag.17 si parla del ruolo della coltura promiscua che all’epoca di tale ricerca ricopriva dal 70 al 90% del suolo seminativo del Veneto. Si tratta di coltura promiscua di vite e cereali che davano al contadino la possibilità di pagare l’affitto del terreno e il fabbisogno. 34 Tale processo di razionalizzazione viene descritto anche da Papa C. nel saggio Il prodotto tipico come ossimoro: il caso dell’olio extravergine di oliva umbro in Siniscalchi Valeria, Frammenti di Economie: ricerche di antropologia economica in Italia, 2002, Cosenza, Pellegrini 35 Giuliano Bortolomiol nell’immediato dopoguerra concentra tutti i suoi sforzi per trasformare il Prosecco da vino locale a spumante prestigioso. E’ tra i primi a fondare un’azienda vinicola a sola produzione spumantistica.
25
“sarebbe bello valorizzare queste differenze, i terreni, i microterreni magari ce la farò”36.
La monocoltura ha dato origine ad alcune modificazioni che, in seguito soprattutto
all’allargamento della zona doc e docg voluta dall’attuale Governatore della Regione
Veneto Luca Zaia37, risultano evidenti agli occhi di chi si trova a vivere in quelle zone.
Dal 2009, entrata in vigore del decreto Zaia, la denominazione Prosecco non fa più
riferimento alla sola area tradizionale38(che diventa DOCG) bensì si amplia alle altre
province venete (tranne quella di Rovigo) e quelle di Pordenone, Gorizia, Udine e Trieste.
L’entrata di alcuni territori nella DOCG presuppone quindi la creazione di un prodotto
locale, frutto di un legame stretto con il proprio territorio di produzione.
Il simbolo di questo territorio diventa il Prosecco che viene prodotto in maggiore quantità
e che viene ricercato da chi vuole apprezzare il territorio e i suoi prodotti39.
Proprio attraversando la zona in automobile durante la ricerca si nota un aspetto razionale
nella sistemazione delle viti che sono tutte ordinate, della stessa altezza e posizionate molto
vicine una con l’altra40.
L’ambiente è mutato e si è trasformato in un paesaggio specializzato nella viticoltura
moderna che, dando più importanza al tornaconto economico non rispetta i ritmi stagionali
e quelli della produzione di vino.
36 Inf. Eros Zanon (Follina, 21/05/2013) 37 Tra il 2008 ed il 2010 Luca Zaia ricopre il ruolo di Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ed emana attraverso il D.M. del 17 luglio 2009 un allargamento della zona DOC della produzione di Prosecco: tale zona viene estesa anche alle province di Udine, Pordenone, Gorizia e Trieste evitando una controversia tra Regione Veneto e Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia simile al “caso Tocai” di cui parlerò nel corso della ricerca. 38 L’area tradizionale ora DOCG è formata da 15 comuni: Conegliano, San Vendemiano, Colle Umberto, Tarzo, Cison di Valmarino, San Pietro di Feletto, Refrontolo, Susegana, Pieve di Soligo, Farra di Soligo, Follina, Miane, Vidor e Valdobbiadene. 39Qui entra in gioco il turismo enogastronomico che assume un ruolo significativo anche nella zona della Valdobbiadene; ho ritenuto opportuno acennare di questo fenomeno e del legame con la tipicità e il paesaggio nell’ultimo capitolo di questa ricerca. 40Nelle vigne antiche lo spazio tra un filare e l’altro era molto ampio per consentire la coltivazione di altri prodotti che consentivano il sostentamento dei contadini, aspetto di cui ho parlato in un paragrafo precedente.
26
Negli ultimi anni grazie soprattutto all’iniziativa di alcuni cittadini e alcune istituzioni si
sta svolgendo un lavoro di recupero e tutela della biodiversità che parte proprio dalla
volontà di recuperare i prodotti oramai dimenticati41. La viticoltura moderna ha anche
messo a rischio le persone: abitanti e associazioni ambientaliste hanno riscontrato insieme
al livello elevato di inquinamento ambientale un incremento di patologie tumorali.
E’ Andrea Zanzotto, il poeta scomparso di recente, che ci aiuta a cogliere questo
sentimento di delusione nei confronti di un paesaggio che lentamente si sta distruggendo.
Da sempre Zanzotto nelle sue poesie descrive i borghi e il paesaggio di cui è un amante,
prevedendo che “ i dispensatori di acidi, tossici e veleni” (Zanzotto : 2005) alla fine
l’avrebbero impoverito.
Il poeta porta avanti il suo impegno a difesa del paesaggio fino all’ultimo; nei mesi
precedenti la morte di Andrea Zanzotto (avvenuta il 18 ottobre 2011), il poeta si fa primo
firmatario di un appello del WWF in difesa delle colline di Prosecco chiedendo il bando
dei fitofarmaci42.
41Cito qui il caso della Compagnia della Boschera di Fregona che nell’ottobre 2012 ha vendemmiato l’uva Boschera, rara da trovare poiché è stata spiantata per dar posto al Prosecco. Le prime bottiglie di Boschera, prodotte da Eros Zanon (informatore in questa ricerca) secondo il metodo artigianale del colfondo, sono state presentate nell’estate 2013. Si tratta di una produzione piccola, 500 bottiglie totali, che sta facendo riscoprire un vitigno autoctono. 42Articolo del 26 luglio 2011 apparso su La Tribuna di Treviso.
27
CAPITOLO 2
IL VINO E LA SUA RIPRODUCIBILITA’ TECNICA: DALLA VI GNA ALLA
CANTINA
2.1 Dalla viticoltura all’enologia.
La viticoltura di fine Ottocento in Italia era orientata verso una produzione volta a
soddisfare esigenze quantitative piuttosto che qualitative; le cause maggiori di questa
mancanza di vini di qualità sono da ricondurre ad alcune scelte dei vitigni, alla loro
coltivazione e soprattutto alla scarsa conoscenza di metodi innovativi di vinificazione che
concilino la quantità con la qualità.
Il vino, pur per aspetti differenti per ogni classe sociale, rappresentava una componente
alimentare importante nel corso del XIX secolo che vede aumentare il consumo di questa
bevanda.
Quello che inizia in questo periodo nel settore vitivinicolo, è un graduale passaggio da un
sistema produttivo rurale ad uno che si fa sempre più complesso che porta a distinguere il
campo della viticoltura con quello dell’enologia. Il primo settore, la viticoltura, rimane
confinato alla sfera contadina mentre il secondo apre la strada a delle attività di stampo
industriale43.
Queste attività, che hanno come fine ultimo quello di soddisfare un consumo di massa
richiedevano però dei luoghi di produzione molto più vasti di quelli esistenti all’epoca: la
43E. Sereni parla di un processo di formazione di un mercato nazionale dei prodotti agrari che si sviluppa pari passo con la formazione di un mercato nazionale nell’Italia di fine Ottocento ed inizi del Novecento; i prodotti industriali che servono ad aumentare la produzione contadina devono venire acquistati nel mercato e non più prodotti artigianalmente nella propria azienda familiare quindi, citando “Per questo occorre del denaro, e questo denaro il contadino può procurarselo solo portando a sua volta al mercato una parte dei prodotti della sua azienda agricola (…)” (Sereni 1968: 200)
28
chimizzazione44 che lentamente si va a imporre svuota progressivamente il ruolo della
cantina contadina poiché non più adeguata ai processi richiesti per la vinificazione.
Per dare un sostegno organizzativo alla nascente industria enologica vengono sperimentati
e poi introdotti dei nuovi metodi di vinificazione; questi nel corso del tempo verranno
perfezionati fino ad arrivare a quelli odierni, sostituendo in larga parte la lavorazione
tradizionale.
Prima di andare a descrivere nello specifico i diversi metodi di vinificazione, è importante
sottolineare il modo in cui le chimizzazioni introdotte nascono con un obiettivo preciso,
quello di rendere più stabile un vino: ovvero, garantire la sua conservazione, facilitarne il
trasporto e di conseguenza la sua commercializzazione.
Le novità riguardano soprattutto il travaso del vino che viene velocizzato e facilitato grazie
l’utilizzo delle pompe, l’introduzione di ampie cisterne per lo stoccaggio del vino e la
nascita di grandi luoghi ospitanti i cicli di lavorazione ovvero l’azienda vinicola.
2.2 Con lo sguardo verso la Francia: la spumantistica italiana.
Nello specifico la storia spumantistica italiana nasce dall’esigenza di poter inserire nel
mercato un prodotto spumeggiante che potesse competere con i prodotti francesi.
La Francia gode di un’identità gastronomica ben solida che le conferisce lo status di
modello prestigioso che nasce proprio dall’alleanza tra un’arte culinaria elaborata, i vini
rinomati e di una letteratura gastronomica affermata.
Oltralpe già negli ultimi anni del XVII si conosceva il processo di spumantizzazione che
porterà nel XIX secolo all’invenzione dello Champagne; la tradizione attribuisce a Dom
Pierre Pérignon, un monaco dell’abbazia di Hautevillers questa scoperta che, senza entrare
nel merito dell’affidabilità, introduce alcuni elementi che concorreranno alla nascita dello
Champagne moderno.
Le condizioni che contribuiscono al raggiungimento della fama dello Champagne vengono
individuate da Perrier-Jouët Devroey nel suo saggio “Champagne! Ovvero l’esportazione
44Termine utilizzato nel saggio di Giorgio Pedrocco “Industria del cibo e nuove tecniche di conservazione” in J.-L. Flandrin e Massimo Montanari “Storia dell’alimentazione”, 1996, Laterza, Bari.
29
del territorio” (Devroey : 2002). Attraverso una ricostruzione di fonti storiche che
risalgono al Medioevo l’autore individua la fortuna del prodotto francese nella formazione
di un vigneto di qualità, nella comparsa della bottiglia e del tappo, nelle prime diciture di
vino spumante, nell’elaborazione moderna dello champagne e nella comparsa di un gusto
uniforme.
Esigenze simili spingono il lavoro di Antonio Carpanè che durante la sua carriera di
enologo, ma soprattutto di chimico, si è occupato di introdurre nella cultura enologica
italiana un metodo di spumantizzazione con l’intento di realizzare un prodotto italiano di
qualità da inserire nel mercato.
Il metodo di vinificazione che si conosceva nella fine dell’Ottocento è il metodo classico,
detto champenoise. Il metodo classico ha origine nel nord della Francia durante il XVII
secolo e si contraddistingue per la rifermentazione (detta presa di spuma) in piccoli
recipienti, come le bottiglie per esempio. La lavorazione parte da un vino di base, al quale
si possono aggiungere a discrezione vini di annate precedenti per standardizzare il
prodotto, da cui si va ad aggiungere un liquer de tirage e si imbottiglia tappando con un
tappo a corona. Le bottiglie vengono poi riposte in cantina orizzontalmente dove restano
per alcuni mesi mettendo in atto la presa di spuma. Al termine della rifermentazione si
stappa la bottiglia e si esegue un’operazione di sboccatura (dégorgement) che consiste
nell’apertura della bottiglia con l’intento di espellere quella che si chiama “feccia”, ovvero
il residuo della fermentazione. Arrivati a questo punto, il vino spumante privato della sua
feccia si imbottiglia in una nuova bottiglia, con l’aggiunta o meno di uno sciroppo45, si
tappa utilizzando un tappo di sughero a fungo e risulta pronto per la sua
commercializzazione.
Antonio Carpanè applica le conoscenze scientifiche-tecnologiche dell’epoca ai processi
produttivi del vino italiano; il risultato è l’introduzione di un metodo diverso da quello già
conosciuto, poiché quest’ultimo risultava difficoltoso nell’applicazione in Italia a causa
soprattutto del bisogno di abbondanti capitali di partenza.
45 Si tratta del liqueur d’expèdition, uno sciroppo composto da vino vecchio e zucchero. A seconda della quantità di zucchero si vanno a determinare le caratteristiche dello spumante: da demi-sec ad extra-brut.
30
Il metodo di Antonio Carpanè, chiamato dai manuali metodo italiano, viene messo a punto
tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento nella zona di Conegliano con l’intento di
estenderlo alla nascente industria enologica italiana.
Il metodo Carpanè si basava sulla produzione di anidride carbonica partendo dal
bicarbonato di sodio e dall’acido solforico, il gas prodotto andava successivamente
incanalato attraverso l’impiego di una pompa in una caldaia di rame contenente il vino
base. Il vino in seguito era spillato dalla caldaia e direttamente imbottigliato per essere
venduto.
Gli spumanti vinificati attraverso il metodo italiano non hanno però trovato apprezzamenti
tra i bevitori e gli studiosi tanto che nel primo dopoguerra questa tecnica, assieme al
metodo champenoise, viene abbandonata a favore di un altro tipo di lavorazione impiegata
ancora oggi.
Il direttore dell’Istituto Sperimentale per l’Enologia di Asti, il casalese Federico Martinotti,
inventa negli anni Venti un metodo di rifermentazione controllata in grandi recipienti che
viene in seguito adottata dal francese Eugène Charmat che ne brevettò l’attrezzatura. La
tecnica detta Metodo Martinotti-Charmat, permette di ottenere dei vini spumanti dalle
caratteristiche note fruttate attraverso l’utilizzo di autoclavi, rispondendo in maniera idonea
alla richiesta sempre maggiore di vino e anche al gusto amabile richiesto dai consumatori.
Risultando maggiormente idoneo rispetto agli altri metodi, trova larga diffusione: le uve
utilizzate possono essere quelle del metodo classico ma il vino prodotto secondo il metodo
Martinotti ottiene colori più tenui, sapori più freschi, meno strutturati e profumi meno
intensi. La giacenza in autoclave permette al produttore di gestire meglio la lavorazione
controllando la temperatura e intervenendo per migliorare la qualità del prodotto finale.
Esistono quindi diversi procedimenti che se abilmente combinati tra loro possono
provocare alcune intensificazioni aromatiche che un numero crescente di vini oggi
utilizzano.
Un’altra caratteristica importante da tenere in considerazione è che, mentre nella
lavorazione classica il tempo di spumantizzazione è lungo, utilizzando il metodo Martinotti
si riducono i tempi: tenendo controllate le temperature del vino, in due massimo tre mesi
viene filtrato ed imbottigliato, quindi commercializzato in tempi molto brevi.
Per quanto concerne l’affermazione del Prosecco spumantizzato nella zona di
Valdobbiadene gli anni successivi al termine della Seconda Guerra Mondiale sono i più
31
importanti poiché la maggior parte di viticoltori decidono di puntare sulla costruzione di un
mercato d’eccellenza per il vino locale. Lo sforzo viene impiegato nel lasciarsi alle spalle il
legame con il mondo rurale inseguendo una maggiore innovazione: a fare da motore per
questo sviluppo è l’azione dei giovani studenti della Scuola Enologica di Conegliano che
danno vita alla Confraternita del Prosecco46.
Le pratiche messe in atto nascono proprio tra i filari, già nei primi anni del Dopoguerra la
Confraternita interviene nella viticoltura aiutando i contadini a rimettere in sesto le viti
distrutte dalla guerra cercando di impedire l’esodo verso la pianura. Salvaguardato il
territorio dal degrado e dall’abbandono l’aspetto più professionale si va a consolidare: il
lavoro si concentra nel trasformare quel vino “pissariol” in uno spumante secco da
commercializzare oltre i confini della Marca.
2.3 Il colfondo.
Dopo aver illustrato le diverse tecniche di vinificazione sviluppate nel corso degli anni e
che ancora ad oggi vengono utilizzate, in questo paragrafo cercherò di presentare il
colfondo spiegandone le differenze con il Prosecco convenzionale.
Il vino colfondo, dove l’aggettivo evidenzia un legame stretto tra il vino e il territorio
trevigiano47, è un vino che si ottiene utilizzando il metodo di vinificazione storico; quando
in passato non si impiegavano i macchinari costosi che servono ad ottenere la
spumantizzazione del vino i contadini imbottigliavano il prodotto della vendemmia a
Pasqua, lo lasciavano fermentare su i suoi lieviti per alcuni mesi e solitamente per l’estate
era pronto da bere.
A differenza dello champagne o degli spumanti su i quali si è voluto intervenire per trovare
un momento preciso di nascita del prodotto, l’origine del colfondo è abbastanza incerta.
46Della Confraternita del Prosecco se n’è già parlato nel Capitolo 1. 47“El vin col fondo” è l’espressione dialettale utilizzata per descrivere il vino con il fondo (ovvero con il residuo di fermentazione); viene adattata in colfondo ed in alcuni casi si preferisce utilizzare l’espressione francese sur lie (sui lieviti).
32
Il metodo colfondo per alcuni informatori esiste “da sempre”48 mentre per altri si tratta di
un metodo che nasce per caso e da un errore umano avvenuto durante la vinificazione: si
racconta che i produttori di vino hanno fatto abbassare la temperatura del vino della
vendemmia durante la vinificazione bloccando così la fermentazione. Mettendo questo
vino bloccato in bottiglia dopo un periodo imprecisato si sono accorti che si erano create
delle bollicine ed il vino era diventato frizzante. Questo aneddoto ha portato all’invenzione
di una tradizione49 che ha fatto in modo che il colfondo diventasse un prodotto locale della
tradizione delle campagne della provincia di Treviso.
Chiedendo agli informatori di tracciare un confronto tra un Prosecco spumantizzato e il
loro Prosecco colfondo emerge una spiegazione in cui le differenze tra le tipologie di
vini 50sono essenzialmente due e riguardano campi ben distinti tra loro: una diversità
evidente che riguarda la tecnica di produzione mentre una che riguarda più la
“filosofia” 51della scelta colfondista.
Nei prossimi paragrafi del capitolo verranno affrontate le questioni relative alla tecnica di
lavorazione di questo vino, non solo soffermandosi sul lavoro in cantina ma volgendo uno
sguardo anche all’altro luogo di produzione: il vigneto.
2.4 Il lavoro in vigneto.
Prima di spostarsi in cantina, il lavoro del colfondista parte dal vigneto: per riuscire ad
ottenere un vino colfondo i viticoltori sono obbligati a lavorare in una certa maniera nel
vigneto. 48 Ho tenuto il virgolettato non solo perché si tratta di una citazione da un’intervista ma anche perché ritengo che si tratti di una locuzione piuttosto ambigua che però viene sempre più utilizzata soprattuto quando si parla di prodotti alimentari. 49Sull’invenzione della tradizione proprio in questi giorni è uscito un articolo interessante su Internazionale che riprende dei concetti già utlizzati da Hobsbwan (Hobsbawn, Ranger 1983) per rilettere sull’origine di alcuni prodotti tipici. Questo è il link per leggere l’articolo di Lee Marshal http://www.internazionale.it/opinioni/lee-marshall/2013/10/17/linvenzione-della-tradizione/ 50Anche se si tratta dello stesso vitigno effettivamente il prodotto finale lavorato con un metodo piuttosto che con l’altro risulta alla vista e al gusto diverso. 51“Filosofia” è proprio il termine utilizzato più di una volta nel corso delle interviste quando si chiedeva di tracciare le differenze tra il metodo di rifermentazione in bottiglia e quello spumantistico.
33
Possedendo pochi macchinari e mezzi52per intervenire nella modifica della materia prima, i
vignaioli si trovano in una condizione in cui l’uva deve essere rispettata il più possibile in
tutta la sua fase di vita, cioè dalla paianta fino ad arrivare alla vinificazione. Se l’uva è
danneggiata, ad esempio a causa del maltempo, nel caso di una vinificazione spumantistica
il risultato finale si può alterare durante la fase di fermentazione in autoclave, aggiungendo
i lieviti selezionati53. Facendo invece un vino colfondo, quindi una vinificazione secondo il
metodo tradizionale che non prevede l’impiego di aiuti di tipo chimici, l’aggiunta dei
lieviti selezionati non avviene.
L’obiettivo primario del lavoro del vignaiolo è di poter arrivare in cantina con un’uva che
non dia problemi, ovvero matura e sana il più possibile e “c’è poco da fare, per non aver
problemi bisogna lavorare in vigneto e farlo bene”54.
I trattamenti antiparassitari impiegati per curare le vigne rappresentano uno degli aspetti
fondamentali per tutti i produttori di vino e nel caso dei colfondisti questi devono essere
pochi e fatti in maniera particolare: niente chimica, nessun aiuto “esterno” volto a facilitare
e migliorare il lavoro. Questi produttori di colfondo non hanno cambiato metodo di
springàr le vì55rispetto ad una volta, i pochi trattamenti che si possono decidere di
effettuare variano di numero e di intensità lavorativa a seconda della zona di produzione56,
vengono effettuati a mano come ci spiega l’informatore:
52La lavorazione colfondo richiede pochi capitali iniziali e pochi macchinari rispetto ad una lavorazione spumantistica. 53Quando si parla di lieviti selezionati ci si riferisce a lieviti allogeni, cioè che non provengono dall’uva o dalla cantina. 54 Inf. Eros Zanon (Follina 21/05/2013) 55Espressione dialettale (lett: spruzzare le viti) che indica i trattamenti parassitari da svolgere. Questa espressione, che viene anche utilizzata da L. Sanson nel suo libro “La vite in collina: Valdobbiadene tra tradizione ed innovazione” l’ho sentita pronunciare dal padre di uno degli informatori. (interivsta Eros Zanon, 21.05.13) 56In pianura il terreno rende meno difficile il trattamento, mentre in collina a causa dei pendii il lavoro è più faticoso, ad esempio Eros Zanon racconta che per fare un trattamento (manualmente visto che la collina non è meccanizzabile) di un ettaro impiega otto ore. (inf. Eros Zanon, Follina 21/05/13)
34
“Allora noi, non essendo come la Gatti o Donadi che sono in piano, siamo in collina
storica. La collina storica non è meccanizzabile, in nessun aspetto. Devi andare a piedi e
trattare a piedi.”57
Le minacce alla viticoltura, che facendo ricorso ai trattamenti si cercano di fermare sono le
malattie fungine che si possono manifestare. Una grave minaccia è la peronospora, che
macchia di bianco la parte inferiore delle foglie in presenza di umidità e contro la quale si
interviene con il solfato di rame. Eros spiega che una volta si riempiva una vasca d’acqua e
vi si scioglievano i cristalli di solfato di rame, poi si aggiungeva la calce per diminuire
l’acidità e infine si versava il verderame ottenuto nello zaino-pompa. Questo lavoro era ed
è molto faticoso, soprattutto se deve essere svolto tra le vigne arroccate sui pendii delle
colline58.
Per facilitare il lavoro, velocizzando i trattamenti ed avviando dei processi di
industrializzazione nel settore recentemente si sono introdotti dei mezzi meccanici, ad
esempio l’atomizzatore, che riescono a sparare gli antiparassitari da un trattore oppure, in
alcuni casi, si ricorre ad un servizio di elicottero che anche settimanalmente spruzza sui
vigneti di sostanze antiparassitarie sorvolando a bassa quota59.
L’irrorazione si deve eseguire sulle viti asciutte perché in questo modo il solfato di rame si
fissa meglio alle foglie. Il trattamento con il verderame si inizia con lo spuntare delle prime
foglie e si procede effettuandolo a intervalli di circa una settimana facendo attenzione a
non tralasciare nemmeno una foglia.
Un altro trattamento che si effettua è quello a base di zolfo in polvere e serve a combattere
l’oìdio, una malattia fungina che si manifesta con chiazze bianche e farinose su foglie e
frutti della vite. Lo zolfo in polvere veniva spruzzato con un soffietto a mantice, la
solferina, quando la rugiada mattutina si dirada. Quest’ultimo trattamento viene ancora
57 Inf. Eros Zanon (Follina 21/05/2013) 58La lavorazione di vigne sui pendii prende il nome di viticoltura eroica ed è una situazione che si sta guadagnando una propria notorietà nell’enologia. Recentemente si è svolta una manifestazione dal titolo “Gli estremi del Vino” a Pisogone (BS) dove i diversi produttori eroici han potuto raccontare il proprio lavoro, il territorio e far assaggiare i vini. Al sito http://gliestremidelvino.it/il-manifesto-di-vo-gli-estremi-del-vino/ si può trovare il manifesto della fiera. 59L’impego degli elicotteri per eseguire i trattamenti antiparassitari mi viene raccontato da più di un informatore insieme a diversi abitanti della zona con cui ho parlato.
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oggi utilizzato vista la bassa tossicità dello zolfo e viene spruzzato quando il germoglio
della vite emette le prime foglie, prima della chiusura del grappolo (allegagione) e quando
i chicchi d’uva diventano verdi e gommosi (invaiatura).
Esiste un’altra minaccia che rappresenta uno dei problemi più temuti dai produttori di vino,
ma non solo: si tratta del maltempo, più nello specifico della grandine. Laura Sanson in
“La vite in collina: Valdobbiadene fra tradizione ed innovazione” (2002) dedica proprio un
paragrafo della sua ricerca al più temuto fenomeno meteorologico della grandine.
L’autrice, attraverso le interviste svolte tra i suoi informatori, descrive le pratiche rituali
tradizionali che venivano utilizzate in campagna per scongiurare le grandinate.
Nel giorno della Candelora, il 2 febbraio si accendeva una candela, oppure si bruciava un
ramo d’olivo di Pasqua o si suonavano le campane se si vedevano delle nubi minacciose in
arrivo. Quest’ultimo rituale prende il nome di sonàr da nèola60 poiché si trattava di un
utilizzo fuori orario delle campane che quindi non aveva nessun legame con il campo
religioso, anzi Sanson evidenzia una duplice funzione: si invitavano i fedeli alla preghiera
per ottenere l’aiuto divino e si emettevano delle vibrazioni che secondo il credo popolare
allontanavano le nubi incombenti.
In conclusione il lavoro in vigneto non solo deve essere fatto da persone abili e brave nel
trattare e rispettare l’uva per realizzare un prodotto il più naturale possibile, ma bisogna
anche essere fortunati nel trovare un clima che consenta di lavorare il meglio possibile61.
I due trattamenti sopra descritti, il verderame e lo zolfo, sono i soli metodi che si
conoscono e che vengono utilizzati anche dai produttori che decidono di lavorare a regime
biologico62. Il trattamento che pone maggiori problemi è quello a base di rame: una
normativa europea stabilisce che entro al 2016 il trattamento anti peronospora venga
vietato del tutto. Anche se per ora rappresenta l’unica alternativa ai prodotti chimici
60Così nel testo di Laura Sanson (pag 93), in italiano significa “suonare da nuvola”. 61Le interviste sono state svolte in primavera e proprio durante una di queste uno degli informatori mi spiega come quest’anno sarà dura per lui vendemmiare. Infatti il maltempo di quel periodo ha fatto scendere quasi 200 ml d’acqua in un solo pomeriggio che è la piovosità media dei mesi di Febbraio-Marzo ed Aprile. 62Alcuni informatori che lavorano seguendo le direttive del regime biologico, nell’ultimo periodo han deciso di convertire il lavoro in biodinamico. L’agricoltura biodinamica prevede l’utilizzo di specifici preparati di origine vegetale e non chimico (per esempio, si impiega un decotto di ortiche contro la peronospora invece del verderame).
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endoterapici (che agiscono nel circuito linfatico della pianta) il rame tende ad accumularsi
nel suolo nel corso del tempo, trattandosi di un metallo pesante va a creare diversi
problemi di fitotossicità ed impoverimento dell’attività biologica del suolo. Alcuni
produttori hanno scelto di utilizzare in via sperimentale il Gluconato di rame che ha dei
dosaggi ridotti rispetto al rame minerale.
Un discorso leggermente diverso riguarda lo zolfo; quest’ultimo ha un impatto minore
sull’ambiente rispetto al rame ma recenti studi hanno evidenziato che l’uso di zolfo
rappresenta un problema di nocività nei confronti dei lieviti presenti nella buccia dell’uva.
Il danneggiamento dei lieviti rappresenta un duplice problema per i produttori: da un lato
può compromettere la rifermentazione in bottiglia per chi decide di produrre un vino
secondo metodo classico, dall’altro si va a perdere la biodiversità che a sua volta influisce
sul profilo aromatico del vino.
L’Associazione Vinnatur che dal 2011 collabora con il Centro sperimentale per la
Viticoltura Sostenibile che si trova a Panzano in Chianti sta operando verso un lavoro di
ricerca volto a trovare delle soluzioni che riescano a conciliare la sostenibilità ambientale
con il lavoro in vigneto. Le sperimentazioni avanzate vengono praticate da alcuni
produttori che hanno deciso di lavorare in modo sostenibile saranno illustrate in un
capitolo successivo di questa ricerca.
2.5 Questione di tecnica: il lavoro in cantina.
Le differenze maggiormente evidenti, che si riescono a cogliere ricorrendo alla nostra
percezione, tra un Prosecco convenzionale e il Prosecco colfondo riguardano soprattutto il
lavoro in cantina.
Se un Prosecco risulta più frizzante dell’altro, meno “spuzzone”63 oppure meno torbido
agli occhi i motivi si devono individuare nel metodo di produzione utilizzato per la
63Espressione dialettale utilizzata più di una volta dalla produttrice di colfondo Carolina Gatti; il termine (puzzone in italiano) viene utilizzato in modo ironico per descrivere il suo vino, ma il riferimento al cattivo odore, di conseguenza al cattivo gusto, viene spesso utilizzato in modo polemico nella discussione molto attuale tra enologi e produttori di vino artigianale di cui parlerò nel prossimo capitolo. Questo gennaio su il “Gambero Rosso” si è aperta una querelle di alcuni autori della rivista che accusano “(…) i vini rossi puzzano, i
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vinificazione. Come illustrato nei precedenti paragrafi di questo capitolo, le aziende
vitivinicole dispongono di differenti tecniche per lavorare il loro vino; sta al produttore
decidere il modo in cui lavorare.
Scegliere la fermentazione in autoclave significa orientare la propria scelta verso un
investimento all’interno del mercato che abbia poi un ricambio in termini specialmente di
guadagno: per fare dello spumante si ha bisogno di un elevato capitale di inizio da investire
in macchinari adatti a reggere una produzione molto elevata dal punto di vista quantitativo.
“Uno che fa spumante deve fare determinati numeri, non è che può fare cinque bottiglie di
spumante deve fare di più per ammortizzare gli impianti e i costi deve fare i numeri.”64
L’informatore continua e utilizzando degli esempi concreti mi fa capire che fare spumante
richiede un grosso investimento iniziale che va poi a giustificare i grossi quantitativi di
bottiglie prodotte:
“A me per fare spumante servono soldi, molti soldi, autoclavi, imbottigliamento di azoto si
parla di cento mila euro forse molti di più il problema è che per iniziare a fare spumante
devo fare dei numeri tali che mi ammortizzano l’investimento ti faccio un esempio: se
spendo mezzo milione per mettere in piedi una cantinetta per fare spumante non posso fare
cinque mila bottiglie devo farne minimo venticinque mila. (…) Io quando ho le vasche,
una pompa, un filtro se lo voglio posso tranquillamente fare il mio vino colfondo. Posso
fare anche mille bottiglie perché tanto l’investimento è relativo.”65
La tendenza generale in Valdobbiadene, e nel resto della Marca in seguito all’allargamento
della doc/docg del Prosecco, è stata quella di trasformare i produttori d’uva in produttori di
spumante.
loro colori sono torbidi e instabili; i vini bianchi sono – se possibile- ancora più cattivi (…)” da Gambero Rosso pag.146 64 Inf. Eros Zanon (Follina 21/05/2013) 65 Inf. Eros Zanon (Follina 21/05/2013)
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Nessuno ha mai pensato di investire sul colfondo, o almeno in passato poiché alcune scelte
commerciali oggi messe in atto da alcune aziende spumantistiche smentiscono questa
affermazione66.
Nella lavorazione colfondo si devono avere dei macchinari appositi che non per forza
devono essere all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, bensì devono essere
macchinari che rispettino la bacca e non la distruggano. Serve quindi una raspatrice,
ovvero la macchina che separa il raspo dall’acino e che non rompa il grappolo troppo
violentemente così da poter permettere una bassa estrazione di molecole che possono
andare ad interferire con la struttura del vino e con la fermentazione.
Dopo aver separato l’acino dal raspo si va a mettere il mosto e gli acini in vasca a
macerare67a temperatura ambiente per poter estrarre anche del colore. Nella lavorazione
colfondo la buccia è a contatto quindi con il mosto, mentre per lo spumante questo contatto
non deve assolutamente avvenire. Avvenuta la macerazione si prosegue con la svinatura in
cui si va a separare la parte liquida da quella solida che a sua volta viene pressata, messa in
vasca e così inizia la prima fermentazione. Questa prima fermentazione è termo-
condizionata, cioè avviene monitorando la temperatura e aggiungendo i lieviti indigeni,
ovvero i lieviti che derivano dal vigneto e dalla cantina. Finita la prima fermentazione
iniziano i primi travasi, si separa la parte grossolana che contiene i lieviti morti dal vino
“vivo” e si tiene in ambiente fresco fino ai mesi di dicembre o gennaio. Dopo un
trattamento che va ad eliminare macromolecole che rendono opalescente il vino, a
primavera si mette in bottiglia e qui inizia la seconda fermentazione quella fondamentale:
la fermentazione che dà origine al vino con il fondo.
Come si può notare si tratta di una vinificazione molto lunga: dalla vendemmia al prodotto
finito ci vuole poco meno di un anno, mentre se si sceglie di vinificare in autoclave già nei
primi tre o quattro mesi dalla vendemmia si possono avere le bottiglie pronte.
66Negli ultimi anni si è notato un boom dell’acquisto di prodotti biologici, compreso il vino, insieme ad una riscoperta dei cibi locali; prendendo atto di questi interessi da parte dei consumatori alcune aziende spumantistiche hanno lanciato nel mercato un prodotto sur lie. 67La parte di vinificazione mi è stata spiegata molto bene da Eros, che ha conseguito il diploma di enotecnico e poi la laurea in Enologia presso la Scuola di Conegliano. Qui mi spiega che la macerazione è un punto fondamentale della vinificazione per l’uva. Dalla macerazione si ha un’estrazione da parte del mosto si alcune sostanze che caratterizzano la varietà dell’uva.
39
“C’è bisogno di pazienza col vino colfondo // i vecchi dicono che deve passare l’estate e
anche l’autunno// quindi vendemmi ad ottobre e lo bevi a ottobre o novembre dell’anno
seguente.” 68
68Inf. Eros Zanon (Follina 21/05/2013)
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CAPITOLO 3
I SIGNIFICATI DEL VINO
Nel capitolo precedente la ricerca si è soffermata sulle diverse fasi di lavorazione del
colfondo: partendo dal lavoro svolto in vigneto fino ad arrivare alla cantina, si è provato a
mettere in luce la diversità che caratterizza questa lavorazione artigianale da quella
spumantistica industriale.
Con questo capitolo, invece, si cercherà di far emergere un altro tipo di diversità che
distingue il colfondo dal Prosecco convenzionale. Per capire meglio questa differenza
bisogna distogliere lo sguardo prettamente estetico o gastronomico dal prodotto “tipico” di
una comunità locale per trovare altri significati ben lontani dal sapere enologico. Il vino
infatti esprime come valore il modo in cui viene svolto il lavoro necessario realizzarlo
tenendo conto delle trasformazioni delle risorse; si tratta di modalità con le quali si
identifica il senso delle proprie ed altrui azioni sull’ambiente circostante.
3.1 Il vino come oggetto estetico.
A un certo punto si è smesso di considerare il vino come una sola bevanda, un alimento o
un farmaco e si è cominciato a pensarlo in qualità di oggetto estetico. L’atto che mira a
cogliere il valore estetico è la degustazione, ovvero la valutazione delle qualità estetiche
dell’oggetto. L’intento principale delle degustazioni si trova nel dover “addestrare
nuovamente i sensi, riacutizzare la percezione, affinare una sensorialità atrofizzata”
(Peynaud : 2002) a causa del contesto urbano in cui l’uomo cerca volontariamente di
indebolire il senso dell’odorato perché ne trae più disturbo che piacere; si cerca di fornire
agli interessati un linguaggio adatto a descrivere le sensazioni che si provano bevendo vino
attraverso una rieducazione dei sensi.
La degustazione va intesa come ricerca e fruizione del valore estetico di un vino e si deve
distinguere in due forme: una forma emotiva, che mira al godimento del valore estetico ed
41
una forma giudicativa che ha l’obiettivo di creare un giudizio ( De Caro, Guigoni a cura di
: 2004 : 11).
Nella tabella seguente sono riportati tutti gli attributi da utilizzare quando si svolge l’esame
visivo, olfattivo e gusto-olfattivo: il “rituale altamente formalizzato” (Guigoni 2009: 117)
della degustazione enologica richiede che questa tabella venga imparata e riprodotta dai
partecipanti dei corsi per sommelier.
Organi Sensi e sensazioni Si percepisce nel vino
OCCHIO
vista
sensazioni visive
colore, limpidezza, fluidità o
viscosità, effervescenza
NASO
olfatto
(per aspirazione diretta)
sensazioni olfattive
odore, aroma, profumo o
bouquet
NASO
olfatto
(per aspirazione
retronasale)
sensazioni olfattive
“aroma di bocca”
BOCCA
gusto
sensazioni gustative
tatto
sensazioni cutanee:
chimiche, tattili, termiche
sapore o gusto propriamente
detto
astringente, pungente,
frizzante, consistenza,
scorrevolezza, morbidezza –
temperatura- calore
BOCCA/NASO
gusto/olfatto
sensazioni gusto-olfattive
persistenza aromatica o “fin
di bocca”
Figura 1.1. da Il piacere del Vino, Slow Food editore.
42
Durante l’insegnamento frontale, ma soprattutto poi nell’esercizio pratico di ciò che
s’impara, molta importanza è affidata all’olfatto: s’insegna che quel che non sa la lingua, lo
sa il naso. Infatti, a conclusione del corso è richiesto ai partecipanti di superare un esame
olfattivo che rappresenta lo sforzo più impegnativo.
Come si può notare dalla tabella riportata sopra, l’insegnamento adottato corrisponde nel
ricercare delle corrispondenze tra ogni organo ed una sensazione, tra ogni sensazione e una
caratteristica del vino e tra quest’ultima e un aggettivo.
Il superamento dell’esame olfattivo conferisce uno status di tecnica ricercata acquisita,
molto elevata e molto formalizzata che riconosce nel sommelier una professione stimata
ma che al tempo stesso viene schernita come spiega Galofaro in un passaggio di un suo
saggio: “Spesso il metalinguaggio del degustatore è materia di presa in giro, da parte dei
profani, ma svolge senza dubbio (…) una sua funzione ideologica. E tale funzione è
connessa all’istituzione di un rituale della degustazione” (Galofaro 2005: 10).
L’olfatto non ha sempre avuto questa importanza in un’accezione positiva: in passato
l’olfatto era associato all’animalità mentre in epoca moderna ha subito diverse
connotazioni; nel caso della degustazione enologica cambia segno diventando qualcosa di
positivo e da riscoprire.
Questa importanza sempre crescente nei confronti dell’olfatto da educare è da attribuire al
ruolo della cultura nel quadro circoscritto della degustazione, e la cultura gioca un ruolo
fondamentale nel consentire ad un istinto molto spesso considerato animale di diventare
qualcosa di socialmente e culturalmente riconosciuto. (Guigoni 2009).
Esiste però un rovescio della medaglia: se da un lato vi è stata una riscoperta dell’olfatto,
questo senso continua a funzionare come canone di classificazione dei gruppi sociali.
Considerando il vino come qualcosa di vivo ed utilizzando i concetti dell’antropologia
sensoriale, la costruzione dell’alterità avviene utilizzando l’“odore dell’Altro”(Gusman
2004: 47): l’olfatto diventa strumento di classificazione in gruppi anche nel panorama
enologico.
43
E’ proprio attraverso l’impiego della dicotomia buono/cattivo odore69 che negli ultimi anni
si misura una tendenza da parte della critica enologica a distinguere il vino d’avanguardia
dal resto dei vini, ovvero i vini detti naturali, artigianali o biologici.
Chi produce un vino non d’avanguardia, considera il vino come un legame con la natura e
con la storia ben lontano dalla tendenza che si è costruita negli ultimi anni che ha portato
ad un linguaggio urbano del vino (Nossiter 2007: 130). Si esige dunque che il vino venga
considerato come un oggetto inanimato, un trofeo in sé e che può venire compreso
solamente da chi diventa un abile degustatore; i critici del vino oggi cercano di imporre i
loro criteri scientifici all’arte della degustazione, i ristoratori basano la loro fortuna
gonfiando i prezzi del vino mentre la grande distribuzione guarda al vino come un tassello
della catena alimentare.
I termini utilizzati per indicare questi produttori di vini non d’avanguardia pongono delle
ambiguità dal punto di vista linguistico e non solo; per cui prima di continuare nell’intento
del capitolo cercherò di illustrare tali ambiguità e motivare la terminologia da me adattata.
3.2 “Te lo do io il vino… naturale”.
A prova del rovescio della medaglia a cui si accennava sopra troviamo le parole utilizzate
da due critici apparse in un articolo della famosa rivista enogastronomica Gambero Rosso.
Cito dall’articolo di Michel Bettane e Thierry Desseavue:
“I loro prodotti si riconoscono facilmente: i vini rossi puzzano, (…), i loro colori sono
torbidi ed instabili (…)”.
In questo articolo dal titolo “Te lo do io il vino… naturale” (2013) possiamo leggere e
capire il metodo con cui l’odore, in questo caso si aggiunge anche la vista, viene utilizzato
per indicare una categoria di vini cattivi ovvero quelli chiamati “naturali”.
69 Cito da Gusman: “Grazie all’elevato grado di simbolismo che vi è associato, l’olfatto può divenire infatti un potente strumento di classificazione dell’Altro. (…) in entrambi i casi, gli odori contribuiscono a tracciare delle linee di confine che delimitano uno spazio non solo fisico, essendo tali attribuzioni dettate nella maggior parte dei casi da criteri più culturali che percettivi.”
44
L’utilizzo dell’aggettivo naturale rappresenta una dicitura malintesa che va a creare
un’elevata confusione nella definizione di un vino e che soprattutto offre l’opportunità di
far leva su alcuni preconcetti per alimentare polemiche come quella sopra riportata.
In un secondo articolo, a firma di Eleonora Guerini che continua ad assumere una
posizione di critica nei confronti della produzione “(al) naturale”70 di vino, si mette proprio
sotto accusa l’aggettivo naturale. L’accusa che viene mossa riguarda il recente tormentone
mediatico che si è creato attorno al mondo del vino naturale: per l’autrice la colpa
maggiore risiede nel parlare di naturalità del vino quando la produzione enologica prevede
necessariamente l’intervento umano. Cito dall’articolo: “Come si può, con tutto
l’intervento umano che il produrre vino implica, parlare di naturalità?”. Ecco la risposta
che mi ha dato un informatore durante l’intervista:
“Io sono il primo a dire che non può esistere un vino completamente o esclusivamente
naturale, però io dico che il vino è un prodotto culturale perché sono l’uomo e la natura che
lavorano insieme per farlo. “.71
Tutti i produttori intervistati provengono dalla Scuola Enologica di Conegliano, quindi
hanno ricevuto una formazione molto qualificata da utilizzare nella viticoltura moderna; la
loro scelta di utilizzare un metodo ancestrale72 riguarda un determinato progetto di
produzione alternativo a quello messo in atto dai produttori convenzionali:
“Anche io come lei vengo dalla scuola di Conegliano, lì ti inculcano in testa tutta la parte
chimica, convenzionale dell’agricoltura insieme ad una serie di trattamenti e pratiche anche
di viticoltura moderna ma che è “commerciale”. Io ho deciso di trasformare la mia azienda
70 “(al) naturale” si riferisce al titolo del libro scritto da Alice Feiring, giornalista statunitense che negli ultimi anni si è dedicata al vino e ai produttori di vino senza chimica. La stessa autrice decide di utilizzare in tutto il suo libro il termine “(al) naturale” spiegando tutte le ambiguità dell’aggettivo naturale. 71Inf. Eros Zanon (Follina, 21/05/2013) 72E’ proprio questo l’aggettivo utilizzato da Loris Follador, uno dei maggiori produttori di colfondo, quando descrive il metodo di vinificazione da lui utilizzato. Loris Follador, fa parte di una famiglia di produttori di vino (lo indica anche il cognome che rimanda alla follatura) di Valdobbiadene che ha sempre vinificato prosecco colfondo e non prosecco spumantizzato.
45
in biologico e adesso sto studiando la biodinamica perché ho bisogno di stimoli e di fare
cose nuove. Anche sbagliando, ma è solo in questo modo che si crea un rapporto tra me e il
mio vino.”73
Cos’è naturale, quindi? E’ noto che nella preparazione del cibo interviene da sempre la
manipolazione umana cui segue la tecnologia; per produrre il vino c’è dunque bisogno
degli esseri umani. Dalla consapevolezza che non può esistere un vino esclusivamente
“(al) naturale” e che questo termine risulta inadeguato e non esaustivo, è bene definire
con altre parole questa tipologia di vini che vengono nominati nella ricerca. Un contributo
a trovare una giusta definizione lo dà un’informatrice che spiega:
“Io li chiamo artigianali, a scuola mi hanno insegnato tutto ciò che riguarda la
vinificazione, le tecniche, usa il freddo questo o quell’altro ma a me non interessa. Siamo
sempre stati abbastanza artigianali. Mio padre imbottigliava per la famiglia o gli amici, poi
io mi sono messa a venderlo perché volevo far conoscere alla gente il colfondo.”74
Quindi, il vino diventa il prodotto delle scelte dei singoli vignaioli, in altre parole di coloro
i quali lavorano nel vigneto e ne trasformano le uve in cantina.
Proprio per questo legame ben definito tra il lavoro che svolgono e il progetto ideale a cui
far riferimento il termine che più si adatta a definire questi vini è vino artigianale, perché
questi vignaioli più che produttori sono proprio artigiani: insieme al talento ci deve essere
la motivazione a spingere un individuo a mettere impegno personale nelle cose che si
fanno (Sennet : 2008) il rimando al mondo dell’artigianato è d’obbligo.
Quando si arriva a discutere di ciò che può venire aggiunto al mosto durante la lavorazione
in cantina, è proprio uno degli informatori che ricorre alla parola “naturalità” spiegando
che :
“Parlare di maggiore o minore naturalità di un vino diventa però sensato e anche
importante visto che la legge ti lascia aggiungere al mosto una quantità esorbitante di
73Inf. Maurizio Donadi (San Polo di Piave, 21/04/2013). 74Inf. Carolina Gatti (Ponte di Piave, 21/04/2013).
46
sostanze. Non ricordo bene la convenzione, ma credo che siano diverse decine. Io non ci
butto niente, per cui sì, in un certo senso il mio vino è naturale.”75.
I diversi vignaioli sono arrivati a compiere le loro scelte di produzione facendo delle
considerazioni differenti, ma l’intento comune diventa quello di lavorare in un contesto
sostenibile mantenendo una condotta commerciale etica nel promuovere un vino che
altrimenti si sarebbe perso, non solo a livello di tradizione.
“Sta passando la parola colfondo per cui, almeno secondo me, sarebbe bene dargli
un’identità più precisa magari lavorando tutti insieme noi piccoli vignaioli. Il colfondo
deve essere così come lo facciamo noi piccoli (…) Non vorrei perdere questo prodotto che
è la nostra tradizione per colpa di qualche cretino a cui interessa solo far schei e far
veloce.”76.
Rimane dunque ancora da capire, ed è questo il punto su cui vorrei porre l’accento e su cui
si cerca di far luce con questa ricerca, fino a che punto si debba spingere l’intervento
dell’uomo.
3.3 I prodotti territoriali ed il loro consumo.
Il successo delle produzioni locali è determinato da due fattori: il loro luogo d’origine ed il
cambiamento degli stili di consumo in atto soprattutto negli ultimi anni. Questi prodotti,
comunemente definiti “prodotti tipici” hanno sia un valore economico e commerciale che
si lega al territorio d’origine che viene attestato attraverso le certificazioni e le
denominazioni, sia un valore identitario di una comunità locale ben precisa.
Analizzando il prodotto locale come un oggetto culturale si può osservare che il
comportamento dei consumatori si indirizza nella ricerca di un prodotto che rappresenti al
meglio il territorio di origine, la qualità e che il prodotto sia l’emblema di una comunità
locale che lo riconosce come tale.
75Inf. Eros Zanon (Follina, 21/05/2013). 76Inf. Maurizio Donadi (San Polo di Piave, 21/04/2013).
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Sulla produzione della località, vengono messe in atto delle vere e proprie politiche di
produzione della località che passano attraverso lo sviluppo, o la riscoperta dei saperi
locali; il prodotto locale può essere definito un bene materiale, poiché concreto ma anche
un bene immateriale in quanto al proprio interno sono incorporati dei saprei e delle
tecniche, degli usi e delle tradizioni che appartengono alla comunità che li produce (Papa
:160).
Si vanno a creare dunque dei beni che si fanno portatori di una duplice implicazione
territoriale: da un lato l’utilizzo di saperi artigiani locali e dall’altro l’affermazione di
un’identità culturale legata a una comunità locale. La prima implicazione attribuisce ai
produttori di colfondo un ruolo molto importante poiché diventano realizzatori di prodotti
che testimoniano antiche abilità produttive che, se strettamente connesse alla biodiversità
rendono il loro lavoro, un bene che ridona importanza alle differenze territoriali che sono
andate perdute negli ultimi anni.
Come suggeriscono diversi studi dell’antropologia economica bisogna fare attenzione a
non irrigidire troppo il prodotto locale attraverso l’impiego dei dispositivi77, perché in
questo modo il prodotto che si caratterizza come parte integrante della comunità allo stesso
tempo si trova ad obbedire a delle regole che favoriscono la perdita e riduzione della
diversità:
“Quando c’è stato il boom del Prosecco che tutti lo volevano e tutti lo facevano, tutti hanno
abbandonato le altre varietà. Mi chiedo allora, nelle colline storiche che vedi lì ci sono
ancora le uve storiche di ste zone, perché buttarle vie? E’ pieno di boschera, perera,
bianchetta, verdisio che ormai la gente non apprezza più perché non è abituato a bere quei
vini che si facevano una volta.”78.
Un discorso simile lo fa anche Carolina che riporta la situazione della zona di pianura della
provincia di Treviso:
77Qui si fa riferimento ai disciplinari che garantiscono l’origine di un prodotto che viene espressa attraverso il rilascio di marchi, ad esempio DOC-DOCG-IGT. 78Inf. Eros Zanon (Follina, 21/05/2013)
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“Il mio vicino ha tolto tutto e fa solo Prosecco da quando hanno esteso la zona DOC-
DOCG. Io non vado a spiantarmi tutti i vitigni poveri, io di “povero” avrei il raboso, il
cabernet, il merlot addirittura il verduzzo ma non li spianto perché per me non ha senso
spiantarli. In questa globalizzazione dove tutti piantano prosecco per far schei79 non mi va
di entrare in sto giro dello sfruttamento del nome, del marchio e dell’ambiente
soprattutto.”80.
Ad oggi il colfondo non è riconosciuto da nessun dispositivo di protezione perché si
riferisce ad un metodo di vinificazione81 ma rimane un prodotto contadino con un
fortissimo legame con il territorio.
Il legame stretto tra vino e località può essere letto in un modo fuorviante: ma ciò che
emerge dalle interviste svolte è che la difesa del terroir non deve essere letta come il
sinonimo di un attaccamento reazionario alla tradizione, anzi:
“Se noi ci mettiamo lì come dicevo a lei qualche sera fa, riuniamo il gruppo di noi piccoli
colfondisti così decidiamo come comunicare sto colfondo e la nostra diversità. Bisogna che
ci troviamo tutti insieme per dire che sì, facciamo un vino tradizionale ma non perché ci
piace la tradizione e basta. Lo facciamo perché non ci interessano le mode o vendere cento
mila bottiglie o diventare pien de schei. Bisogna comunicare l’approccio diverso, che non
rincorre le mode, che rispetta l’ambiente, le persone e l’uva e che vende in modo
diverso.”82.
Da questa battuta dell’informatore emerge l’idea di una volontà comune di procedere verso
il futuro rimanendo radicati in un passato collettivo le cui radici crescono e si spingono
79Traduzione in italiano: soldi 80Inf. Carolina Gatti (Ponte di Piave, 21/04/2013). 81L’emergere di questo prodotto colfondo e la sua ascesa al di fuori della comunità locale fanno in modo che venga considerato come un vino in particolare. Proprio per questa tendenza in questi giorni si è svolto un primo incontro tra diversi produttori per discutere anche dell’adozione di una disciplinare per tutelare il prodotto oppure no. Ecco il link dell’articolo uscito su Intravino: http://www.intravino.com/grande-notizia/prosecco-colfondo-degustatori-valdobbiadene/. E’ stato molto interessante leggere i commenti al post inerenti alla questione se adottare o no una disciplinare. 82Inf. Maurizio Donadi (San Polo di Piave 21/04/2013).
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verso il presente con l’intento di costruire una nuova contadinità che si presenti come
comunità con il compito di far emergere le relazioni sociali ed ambientali che il vino,
spogliato della sua aurea di trofeo, possiede.
Tornando all’analisi del prodotto locale, si accennava alla qualità che il prodotto racchiude
in sé e che utilizza come caratteristica d’attrazione per il consumatore.
Per poter spiegare il concetto di qualità in relazione al prodotto locale, prendo a prestito ciò
che scrive Carlin Petrini in “Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia”
(2005): la qualità è un concetto complesso che si sostituisce alla quantità e che corrisponde
all’interesse per le varietà locali, al rispetto per l’ambiente e gli ecosistemi e dei ritmi della
natura. Assieme a questi fattori ambientali entra in gioco anche un fattore umano, che
corrisponde alle scelte compiute da chi produce per creare il proprio prodotto locale,
rispettando il territorio ed anche le persone. Questo elemento del rispetto delle persone,
corrispondente alla dignità umana a cui Petrini si riferisce, l’ho potuto riscontrare
soprattutto intervistando l’informatore Maurizio: nel suo caso, egli è arrivato a produrre il
colfondo dopo aver lavorato per diversi con metodo convenzionale. La sua scelta di
abbandonare il metodo convenzionale è legata non solo al recupero di una tradizione legata
al prodotto enologico: nelle sue parole è ben evidenziata anche la scelta di abbandonare la
chimica per motivi di salute. Cito proprio le sue parole:
“Quando facevo i trattamenti in vigneto alla fine della serata stavo male; facevo il
trattamento e io per un giorno o due la sera avevo la febbre e il giorno dopo non mi sentivo
a posto, ero un po’ intontito per cui mi sono detto perché star male o far star male la gente?
E da là ho iniziato un po’ alla volta a cambiare modi di trattamento e lavorazione”83.
Appare in maniera significativa il legame sempre più forte che si va a creare tra chi
produce e il consumatore; le strategie di produzione vanno sempre di più verso una scelta
che tenga conto del “fare bene” a chi acquista. Lo stesso informatore continua e racconta:
“L’altro giorno sono venuti qua una coppia di vecchietti. Il marito mi ha chiamato l’altra
mattina e mi fa che ha visto la mia intervista del TG3, poi il nipote ha cercato il mio
83 Inf. Maurizio Donadi (San Polo di Piave, 21.04.2013).
50
numero su Internet e ha visto che faccio vini naturali. (…) arriva qua con la moglie e mi
raccontano che sta qua povera non riesce più a bere vino perché le viene uno sfogo al vino,
tossisce e le vien l’asma. Io ho subito detto che non so se i miei vini fanno bene ma
insistono, quindi apriamo una bottiglia. La signora ne beve un sorso, dopo tre minuti pensa
e poi si è bevuta la bottiglia. Ed era viva. Vedi, sono queste le cose che ti danno la
soddisfazione e che ti dicono che stai lavorando in una direzione giusta.”84.
Il concetto di qualità dunque non si identifica più con il solo aspetto del gusto, bensì
cambia radicalmente i riferimenti: insieme alla sfera del piacere individuale comincia a
diventare importante la sostenibilità del prodotto. Un prodotto è buono anche perché il
modo in cui viene prodotto è compatibile con l’ambiente (la sfera della sanità pubblica) ed
utilizza metodi che non recano danno alle persone (la sfera della sanità individuale).
L’attenzione nei confronti della sostenibilità fa in modo che il rapporto tra produttori e
consumatori cambi; il consumatore che da sempre viene pensato come un attore passivo,
interessandosi e richiedendo questo tipo di qualità si interessa ai processi produttivi e i loro
impatti mentre il produttore presta maggiore attenzione al proprio comportamento e alle
conseguenze di esso. Lo stesso informatore Eros si è accorto che il rapporto tra produttore
e consumatore è cambiato e spiega come sia diventato importante :
“Parlare, parlare e parlare. E magari far vedere anche alla gente come lavoriamo. Si deve
creare un rapporto di confidenza tra me e chi vuole il mio vino. Solo così posso spiegare
perché non faccio il solito Prosecco o sbatto la testa nel provare a recuperare vitigni che
non si usano più.”
Per questi motivi penso sia più utile parlare di co-producers e prouducers85 anziché
consumatori e produttori. Queste prese di responsabilità da tutte e due le parti non sono
immediate, bensì si costruiscono lentamente: per quel che riguarda il consumatore
ricoprono un ruolo importante attori che hanno lavorato e continuano a farlo nel diffondere
84 Inf. Maurizio Donadi (San Polo di Piave, 21.04.2013). 85Il termine prouducers contiene al proprio interno il termine inglese “proud” che significa fierezza o orgoglio.
51
un messaggio che faccia conoscere a più persone quello che prende il nome di consumo
critico. Non solo Slow Food, l’associazione nata come Arci Gola nel 1986 che cerca di
tutelare attraverso i Presidi (dal 2000) i prodotti in via d’estinzione oppure raccogliendo
esperienze ed aspettative da chi lavora la Terra ed è a contatto con la base della filiera
produttiva; c’è il grosso contributo delle Guide al consumo critico, ma per quel che
riguarda il mondo del vino l’inizio di una riflessione nuova è da trovarsi nei contributi di
due intellettuali del panorama culturale italiano.
Il primo è Mario Soldati, giornalista e sceneggiatore italiano che ha fatto del vino uno
strumento di indagine antropologica per eccellenza: attraversando la penisola italiana ha
potuto collegare le tante identità presenti nel territorio realizzando un racconto corale che
prende il nome di Vino al Vino (1971)86.
L’altro è Luigi Veronelli, uomo eclettico (filosofo, enologo, gastronomo) che negli ultimi
anni della sua carriera ha reinventato il modo in cui parlare del vino: non più un vino da
ammirare come fosse un trofeo, bensì un prodotto sovversivo che racchiude in sé un
legame profondo con il territorio e con la convivialità.
Per terminare questo excursus sulle produzioni locali, si può affermare che ciò che prende
atto nei luoghi di produzione è un processo che ha il compito di recuperare le produzioni
locali partendo dalla riscoperta delle competenze tecnologiche contadine o meglio ancora
artigianali. Con un fattore in più, ovvero la consapevolezza dei prouducers di avere in
mano la creazione di un prodotto sano e pulito che va a creare un prodotto destinato a
consumatori consapevoli che ricercano un prodotto con queste caratteristiche.
Quindi i produttori di colfondo continuano o scelgono di vinificare seguendo un metodo
tradizionale del luogo per far riscoprire un prodotto contadino che a causa della produzione
industriale si stava perdendo e scelgono anche di commerciare un vino rispettoso delle
persone e dell’ambiente.
86 Accenno al contributo di Mario Soldati nel seguente paragrafo in cui ho intenzione di parlare del turismo enogastronomico come veicolo di diffusione dei prodotti locali.
52
3.4 Turismo e prodotti locali: l’immagine fuorviante del Proseccoshire.
Le attività economiche legate al settore turistico risultano essere delle attività produttrici di
“località” che a sua volta diventa un oggetto di commercializzazione; la comunità locale e
la sua cultura diventano quindi i prodotti da vendere al mercato turistico.
Il turismo assume un ruolo sempre più importante nella diffusione dei prodotti locali che
portano a fissare e normalizzare la tipicità da vendere al turista. Infatti, la tipicità, costruita
per il turista o per il mercato esterno alla comunità, lascia spazio alla sovrapposizione di
logiche globali e locali che creano un ossimoro del prodotto tipico (Papa 2002): come già
osservato nel paragrafo precedente l’irrigidimento che si ottiene dall’utilizzo delle
certificazioni porta alla standardizzazione del prodotto locale, andando a perdere così le
sfumature peculiari che si troverebbero all’interno di uno stesso prodotto.
Un altro effetto di questo irrigidimento è quello che porta il fenomeno turistico a lasciare
tracce significative nello spazio geografico, visivo e relazionale, portando con sé delle
conseguenze di varia portata sull’ambiente (Croce, Perri 2008: 20) spesso frutto di
un’organizzazione turistica banale, di massa che genera impatti negativi in quanto basata
su miopi valutazioni di profitto a breve termine.
I caratteri sopra elencati possono essere estesi all’area presa in considerazione dalla ricerca,
la Marca trevigiana. Se la meta preferita dai turisti di tutto il mondo erano le colline
toscane ed umbre del Chianti, negli ultimi anni assistiamo ad un incremento di turisti ed
amanti del paesaggio collinare anche nell’area del doc-docg del Prosecco.
Ecco che, come sul modello del Chiantishire87 , si va a creare l’immagine del
Proseccoshire, termine che si deve ad Emanuela Da Ros, autrice di un articolo pubblicato
sulla rivista Il Quindicinale che titola: “La meta del turismo estivo: il Proseccoshire.”
(1999). La lettura dell’articolo diventa interessante poiché utilizza la presenza del turista
87Il termine Chiantishire è stato utilizzato la prima volta dallo scrittore inglese John Mortimer ed indica il triangolo che collega le città di Arezzo, Siena e Firenze: qui il paesaggio collinare è ricco di casali e vigneti.
53
inglese, che nell’immaginario collettivo incarna una sensibilità particolare nei confronti del
paesaggio88, intento ad ammirare i panorami rurali della Marca.
L’autrice utilizza una delle costanti del marketing territoriale: viene valorizzato l’uomo
locale che ha saputo dare importanza al territorio circostante utilizzando dei canoni
pittorici89. Per rendere concreto questo legame nell’articolo si parla delle opere di pittori
come Giovanni Bellini o del Cima da Conegliano che contribuiscono alla creazione di
un’immagine ancestrale del paesaggio che va ammirato per la sua bellezza. In questo modo
il turista inglese in visita nelle colline può ammirare “l’atmosfera serena, tersa, limpida di
colline che non sono solo uno sfondo ma le protagoniste della composizione”90 (Da Ros :
1999).
Il riscontro nella realtà si può trovare nelle diverse impronte turistiche che hanno delle
conseguenze di varia portata sull’ambiente: come già accennato nel Capitolo 1 l’immagine
del paesaggio è da cartolina, quindi un paesaggio ordinato costituito da filari di viti
ordinate, della stessa altezza, dello stesso colore per attirare lo sguardo incantato di un
maggior numero di viaggiatori come racconta Eros:
“Sì, qua è sempre tutto pettinato, in ordine, non c’è mai niente fuori posto. E’ facile per
loro, magari è un’azienda bella grande che fa spumante e vende, quindi hanno i soldi, i
mezzi e soprattutto le persone che possono star dietro a pettinare le vigne piuttosto che ad
accompagnare i turisti. Le mie vigne? Intanto sono lì in alto, vedi quella collina? Ecco,
sono io da solo o qualche volta porto mio padre o qualche amico. Prova ad immaginare te
che casino.”91
88 Utilizzo le note per condividere un mio pensiero sulla figura del turista inglese: non solo ho letto che l’articolo sul Proseccoshire utilizza il turista britannico, ma seguendo alcuni progetti legati al vino ho sempre osservato questa tendenza a rivolgersi agli inglesi. Anche durante una riunione con la redazione di Slow Wine e durante la presentazione di questa guida si facevano continui riferimenti a come catturare le attenzioni dell’ “inglese” verso i nostri vini e territori. Si tratta di una cosa che mi ha destato molta curiosità e alla quale, non in questa ricerca però, cercherò di dare risposta. 89 Nel XVI secolo proprio in Inghilterra nasce il termine landscape che deriva dall’olandese landschap, termine dall’origine proprio pittorica. (Hirsh, Ahnlon : 1991) 90 Così nel testo. 91 Inf. Eros Zanon (Follina 21/05/2013).
54
L’immagine che viene immortalata per i dépliant turistici fornisce un’immagine
destrutturata e ricostruita del paesaggio reale, che citando Yves Lacoste diventa “strumento
di mistificazione ed occultamento, complice della mercificazione del paesaggio spettacolo
operato dal potere economico.” (Lacoste 1997). Le immagini ancestrali che i depliant
turistici offrono rappresentano proprio questo paesaggio spettacolo fatto di scatti che
devono apparire spontanei, come il cielo terso, i vigneti sempre verdeggianti e le case in
ordine a chi deve decidere di soggiornare in questa zona. Per quel che riguarda la presenza
umana vale un discorso analogo: ho osservato che è sempre riportata secondo dei canoni da
cartolina in cui gli agricoltori vendemmiano in allegria, spostano i loro attrezzi ridendo e
senza fare il minimo degli sforzi nella loro cantina ordinata. L’immagine che ho trovato
visitando il luogo e che ho potuto ricostruire attraverso i racconti degli informatori è ben
diverso, per esempio Carolina sul marketing turistico dice:
“Quelli che devono promuovere il vino, il paesaggio e attirare turisti hanno la loro idea.
Per carità, sono loro gli esperti e non io, ma fanno vedere una cosa falsa o che solo in pochi
possono permettersela forse. Se tu prendi i depliant, sono tutti lì che ridono mentre tirano
su le casse. Io sinceramente, visto che mi alzo all’alba per vendemmiare quando tiro su la
ventesima cassa so copada92, non sto lì a ridere. Poi fanno vedere queste cantine perfette,
tirate a lucido con tutto in ordine o l’azienda col prato bello tagliato. Hai visto qui? La
cantina non te le faccio manco vedere, sennò ti spaventi.”93
Infine, per alcuni versi il paesaggio trasmette paura perché la realtà quotidiana è fatta da
elicotteri94 o altri macchinari molto grandi che spargono pesticidi in buona parte del
territorio; con le conseguenze inevitabili dell’avvelenamento di ambiente95 ed in alcuni
casi di persone.
92Traduzione in italiano: “sono distrutta”. 93Inf. Carolina Gatti (Ponte di Piave 21/04/2013). 94 L’utilizzo di elicotteri per fare i trattamenti al vigneto usando pesticidi sono stati vietati da regolamento UE; parlando con alcuni informatori e sentendo anche ciò che dicevano altre persone (parenti degli informatori, loro amici, ecc.) ho appreso che ogni tanto c’è ancora qualche elicottero che vola. 95 A livello ambientale l’inquinamento si sposta anche all’interno della viticoltura che non prevede l’utilizzo di fitofarmaci o chimica: infatti la coesistenza tra due regimi (convenzionale e biologico) è molto difficile. La legislazione italiana sul biologico prevede
55
A far paura è soprattutto il contatto aereo poiché questa esposizione ai pesticidi avviene
senza la consapevolezza del rischio, si tratta di trattamenti che sono stati imposti da
qualcun altro (Douglas, Wildavsky 1983: 16) e che compromettono anche le vigne di chi i
pesticidi decide di non utilizzarli:
“Nel 2012 è entrata in vigore questa direttiva che vieta l’utilizzo degli elicotteri però la
gente fa un po’ come vuole. Mi è capitato qualche settimana fa di andare su a Guia, dove lo
zio della mia ragazza ha un po’ di terreni e salendo abbiamo visto sto aereo. Volava basso
e mi sa che spargeva proprio pesticidi. Ho chiesto ed infatti mi hanno detto che qualcuno lo
fa ancora, non capisco perché. Per quanto dubbia sia la direttiva per me almeno, comunque
è vietato, c’è il reato penale e poi mettono a rischio tutti alla fine, chi beve quel vino e chi
invece coltiva senza pesticidi.”
3.5 Creare legami con un semplice bicchiere di vino.
Fino a qui si è potuto notare come attorno alla produzione di vino si sia creato un
patrimonio culturale che rimanda non solo alla cultura alimentare di una località ma anche
ad altre articolazioni, ovvero il legame con il territorio in cui viene prodotto e il modo di
produrre.
E’ durante lo sviluppo industriale del secondo Dopoguerra che si assiste ad un rapido e
assai generalizzato cambiamento degli assetti e delle abitudini alimentari; questo avviene
in modo diretto attraverso la messa a punto tecnico-organizzativa di nuove modalità di
produzione, di circolazione e di conservazione degli alimenti. Questo cambiamento parte
dai centri urbani ma raggiunge velocemente la maggior parte della società.
All’interno di questo quadro si inserisce la nascita delle prime manifestazioni
controculturali di resistenza enogastronomica che ancora oggi si fa sentire all’interno della
società globalizzata; per quel che riguarda il panorama enologico il primo a fornirci degli
elementi di questa controcultura che insegue la “genuinità” è Mario Soldati con il suo già che ci sia una separazione, non solo spaziale ma anche fisica (ad esempio siepi, alberi o cespugli) che facciano da protezione all’agricoltura biologica. Usando l’elicottero per spruzzare pesticidi chimici, la probabilità di trovare residui e compromettere il biologico è alta.
56
citato Vino al Vino (1971). Si tratta di una raccolta di articoli frutto di tre viaggi attraverso
l’Italia degli anni Settanta alla ricerca del vino da lui definito “migliore”, cioè quello dei
produttori locali lontani dalla grande realtà industriale e commerciale. Ritengo opportuno
citare qui un passo del suo libro che rappresenta una delle sue osservazioni ancora oggi
attuali per comprendere la valenza culturale di chi si appresta a riscoprire i prodotti del
territorio:
“Perché, fare sul serio la conoscenza di un vino non significa affatto, come forse si crede,
assaggiarne due o tre sorsi, o anche un bicchierotto. Significa innanzi tutto, sulla località
precisa e ben delimitata dove si pigia il vino che vogliamo conoscere, procurarsi alcune
fondamentali nozioni geologiche, geografiche, storiche, socio-economiche. Significa, poi,
andare sul posto e riuscire a farsi condurre esattamente in mezzo a quei vigneti da cui si
ricava quel vino. Passeggiarvi, in lungo e largo. E studiare, intanto, la fisionomia del
paesaggio intorno (…). “ (Soldati : 1971).
Mario Soldati è tra i primi a far emergere una nuova visione del vino che va ben oltre al
solo esercizio della degustazione organolettica e alla vocazione edonistica del prodotto.
Parafrasando Veronelli, il vino diventa una specie di individuo portatore di una narrazione
e le persone che si accontentano della sola volontà di bere un bicchiere lodandone le
percezioni sensitive non sapranno mai il racconto che da vino a vino esiste (Veronelli
1968). Questa tendenza a porsi solamente come degustatore di un vino e non di scopritore
è stata legittimata in un certo senso dalle autorità viti-vinicole che hanno favorito la
produzione di vini adatti alla massa: vini facili, vini di grande consumo, senza carattere e
carenti di identità. L’enologia moderna ha fatto l’errore di massificare ed omologare i vini
facendoli entrare in concorrenza con altre bevande omologando il gusto e quindi il palato
dei consumatori:
“Ormai c’è tutto un altro concetto di Prosecco. La gente ti cerca le aromatiche di mela e di
pera che vengono spacciate per le note tipiche del Prosecco dai critici ma non si trova nel
prosecco che rifermenta in bottiglia come i nostri.”96
96Inf. Maurizio Donadi (San Polo di Piave 21/04/2013).
57
In questo panorama standardizzato che rischia di escludere dal mercato i produttori di
colfondo alla luce delle fortissime differenze che porta con sé, torna ad essere molto
importante il legame che si crea tra il produttore e consumatore. Già Eros suggeriva che è
molto importante parlare con le persone e costruire un rapporto di fiducia, ma non tutti i
consumatori sanno come muoversi in questo mondo enologico ridondante.
Seguendo le indicazioni di Mario Soldati, nel 2004 sono nate proprio le prime fiere di vino
artigianale fortemente volute da Luigi Veronelli che consentono ai contadini/artigiani di
portare i propri prodotti genuini all’interno di un contesto metropolitano come quello delle
grandi città degli anni Duemila. L’intento è quello di portare i prodotti della Terra a
disposizione di chi la campagna oramai non la conosce più: in questo modo si fanno
conoscere prodotti che rompono con il gusto standard, si accorcia la filiera distributiva
contribuendo a creare un solido legame di fiducia tra co-producers e prouducers:
“Una volta c’era solo Vinitaly, solo che è tutta un’altra filosofia di vini quella lì rispetto
alla nostra. Per fortuna poi è arrivato questo circuito delle fiere di vini artiginali che hanno
avuto il merito di non essere troppo fronzolose, insomma vai lì col tuo banchettino e i tuoi
vini e la gente incuriosita si ferma. E in questo modo si può parlare del lavoro che faccio in
vigneto, di come vinifico, del mio vino e del territorio. Posso spiegare le differenze. Ed il
bello è che la maggior parte della gente che viene non è un critico ma è solo gente
curiosa.”97
Nasce un nuovo modo di commercializzare il prodotto vino, esterno completamente alla
filera tradizionale e alla grande distribuzione ma ponendolo all’interno di reti e legami che
si basano sul rapporto diretto; questi vini cominciano ad imporsi attraverso a forme
alternative alla grande distribuzione come ad esempio entrando a far parte della lista di
prodotti dei gruppi d’acquisto che rappresentano un’esperienza importante. Partendo da
queste esperienze di commercio alternativo GAS oppure fiere, riescono anche ad arrivare
alla grande ristorazione, per esempio Carolina racconta:
97Inf. Carolina Gatti (Ponte di Piave 21/04/2013).
58
“Capita che sei lì e si avvicina il ristoratore che ti chiede di assaggiare il Prosecco. Magari
all’inizio rimane deluso perché non è dolce e non ha le bollicine che ti aspetti, ma poi ci
parli e col tempo si accorgono che non è un prosecco che ti gonfia la pancia o che ti dà alla
testa subito. Così si interessano e magari va a finire che si portano via dei cartoni dà far
assaggiare.”98.
Continua:
“Se poi sono bravi a proporre il vino con il cibo alla gente, questa comincia ad apprezzare
questo nostro colfondo e quindi, se c’è domanda io riesco a vendere. Il mio colfondo lo
trovi qua in zona, ma anche a Torino, Milano e adesso me lo hanno chiesto anche in
Australia!”.
Attraverso questa rete di mercato il colfondo è uscito dal contesto locale e si è fatto
conoscere, ma le scelte d’impresa dei singoli produttori rimangono le stesse; come spiega
Maurizio l’idea di praticare un’economia sostenibile è molto forte:
“Non vivi nel lusso e non stai nemmeno mai tranquillo perché in agricoltura i rischi come
pioggia, grandine o caldo sono sempre all’erta. Però se stasera voglio andare fuori a
mangiare lo posso fare. Non tutti i giorni ma si può. Almeno, mi pare di avere più
dell’indispensabile. Anche se dipende dai punti di vista sì, non avrò comprato il
macchinone ma mi sono sistemato la casa e la cantina.”.
Il concetto di sostenibilità diventa molto importante e va a focalizzare l’attenzione sulla
limitata capacità di farsi carico della terra e della salvaguardia delle risorse ipersfruttate;
siccome la definizione di sostenibilità rimanda ad un referente rurale si rischia di tagliare
fuori da questo discorso chi vive in città (Wikan 2002: 117). Portando però questi prodotti,
in questo caso il vino dalle campagne alla città, le fiere si pongono l’obiettivo di creare
degli orientamenti a favore di un’economia sostenibile valorizzando le funzioni sociali e
culturali del vino.
98Inf. Carolina Gatti (Ponte di Piave 21/04/2013).
59
Ad intrecciarsi con questo aspetto c’è un altro tema d’interesse di cui il vino e i suoi
produttori si fanno carico, cioè la salvaguardia della biodiversità.
Gli interessi per la biodiversità e per la sostenibilità si accompagnano in alcuni casi
all’interesse nei confronti dell’agricoltura biologica, della viticoltura senza l’utilizzo di
additivi chimici e della biodinamica. Negli ultimi anni si manifesta anche una maggiore
consapevolezza su questi temi e per quel che riguarda il vino ho riscontrato che si assiste
quotidianamente al crescere di etichettatura certificata biologica; è soprattutto nella
produzione di Prosecco che avviene il grosso adattamento della produzione alle richieste di
mercato.
Durante le interviste gli stessi informatori hanno sottolineato, cercando di prendere le
distanze da questa tendenza, che una buona parte di aziende spumantistiche di stampo
industriale hanno lanciato una linea di colfondo99 proprio perché in anni recenti la
domanda dei consumatori di un prodotto rispettoso dell’ambiente e che riproponga un
metodo tradizionale di vinificazione è aumentata. Gli stessi informatori parlano di questa
connessione tra le indagini di mercato e la scelta di lanciare una linea di colfondo, ecco ad
esempio ciò che Eros mi dice durante l’intervista quando gli chiedo se ha un’idea sul
motivo per cui molte aziende hanno puntato sia sullo spumante e sul colfondo:
“Scelte commerciali fondamentalmente. Se il mercato ti chiede un bene io glielo fornisco.
L’azienda spumantistica è lì per vendere: se mi chiedono un milione di brut, faccio un
milione di brut. Se chiedono colfondo, faccio colfondo. Quindi si sono accorti che c’è una
nicchia che può assorbire questa produzione.”.100
Ma continua e afferma:
“Noi facciamo colfondo, siamo nati colfondo e moriremo colfondo. E’ una differenza bella
e grossa. Con tutti i rischi che comunque comporta perché non è vino stabile ma fare
colfondo ti fa rimanere attaccato alla terra e all’uva. Non mi interessa fare spumante ed
essere abile a gettare in autoclave tutte quelle schifezze. Mi piace stare in vigna, mi piace
sperimentare usando l’uva e basta per non parlare di provare a vinificare uve ormai perdute 99 In alcuni casi il dialetto col fondo sparisce e si usa il termine francese sur lie. 100 Inf. Eros Zanon (Follina 21/05/2013)
60
come la Boschera. Solo così diventa il mio vino. Se mi mettessi lì a far spumante, più che
mio sarebbe il vino delle aziende che mi vendono i lieviti!”.
La differenza tra i due tipi di produzione torna ancora una volta in questa ricerca (cfr.
Capitolo 2) ed in questo caso rimanda ancora una volta alla sfera dell’artigianato. Dalle
parole dell’informatore emerge quello che Sennett chiama il divorzio tra la mano e la testa
(Sennett 2008: 44): l’idea di una cosa è già completa nella concezione prima di essere
costruita, quindi l’idea di un Prosecco dolce, che sa di mela o pera e frizzante in un certo
modo sancisce una separazione tra il produttore ed il suo vino.
Esercitando la mano si riproduce una forma di sapere con non solo trasmette delle
conoscenze tecniche ma forma una persona sociale (Lai 2207:34) perché non si tratta solo
di riprodurre le competenze tecniche ma anche acquisire consapevolezza in quello che si
sta creando:
“Sicuramente quei prosecchi lì saranno fatti in maniera impeccabile, avranno anche quella
marcia in più rispetto al colfondo. E saranno anche migliori, non lo metto in dubbio. Ma è
routine perché sai già quello che deve venire fuori e sai come fare. Non è un lavoro
artigianale dove sei completamente immerso nel creare il tuo vino, se sbagli qualcosa
l’errore è tuo o se c’è un difetto dipende anche un po’ da te. Agli inizi sbagli, poi col tempo
ti fai la mano e viene fuori un vino che alla gente piace. E sono soddisfazioni quando trovi
qualcuno che ti riconosce il merito.”101
3.6 Un nuovo modello: il vino critico.
Tornando all’interesse per la biodiversità e la sostenibilità di cui parlavo ad inizio
paragrafo, all’interno del panorama dei vini artigianali nasce il progetto politico conosciuto
oggi con il nome di Terra e Libertà/Critical Wine.
Questo progetto, collegato alle già citate fiere, nasce nel 2004 dal contributo congiunto di
centri sociali italiani e intellettuali e con lo scopo di contribuire alla costruzione di nuovi
modelli di produzione e consumo partendo dalla creazione di un nuovo legame con la terra. 101Inf. Carolina Gatti (Ponte di Piave 21/04/2013).
61
Citando proprio le parole di Luigi Veronelli, già menzionato in precedenza, egli ha saputo
dare i maggiori input alla nascita di questo progetto Terra e Libertà/Critical Wine:
“è anche un forcone terragneo piantato dritto al suo obiettivo: sovvertire le catene di
distribuzione e di commercializzazione dei beni, ridurre la distanza alimentare, svelare le
modalità di privazione della sensorialità che si sviluppano a livello globale mediante
l’espropriazione dei produttori e l’idiotizzazione dei consumatori.” (AA.VV : 2004).
I vignaioli hanno saputo riconoscere questo modello agricolo nel quale prevale su tutto la
tecnologia e che trova come luogo ideale il laboratorio dove attraverso sofisticati mezzi si
vanno a produrre cibo e vini sempre più alterati ed omologati dal punto di vista sensoriale.
A questo modello si contrappone il loro, un modello che sostituisce l’industria ed il
laboratorio con le Aziende Agricole, o cooperative e con la terra, intesa proprio come
campo. La peculiarità, e allo stesso tempo il punto di forza del loro modello è di non far
riferimento all’immagine stereotipata di un’agricoltura contadina priva di macchine;
evitando quindi di venir accusati di luddismo, nel manifesto di Terra e Libertà/Critical
Wine si legge proprio che l’obiettivo è quello di combattere l’utilizzo dei prodotti di sintesi
da laboratorio, ad esempio i fertilizzanti e gli altri prodotti della chimica industriale.
Consapevoli che la forte industrializzazione del settore agroalimentare ha portato a
concepire il nutrirsi come la semplice introduzione di cibo, quindi energia, al nostro corpo,
la deindustrializzazione dell’agricoltura che i vignaioli cercano di mettere in atto è molto
legata ad una dimensione culturale e sociale della terra e del vino che negli ultimi anni si è
andata a perdere.
Parte della loro critica si è rivolta e continua a farlo verso chi pensa al vino come un
oggetto inanimato, spogliato del tutto della sua dimensione storica e agricola: la terra, le
sue storie e i prodotti diventano un bene collettivo perché rappresentano l’alternativa al
modo di produrre, di vivere e consumare a cui siamo abituati.
Bere un bicchiere di vino non si ricollega più solamente al mero atto estetico, bensì
acquista un significato più ampio come si legge nel primo Manifesto di Terra e
Libertà/Critical wine:
62
“Gli alimenti sono il risultato di un’intensa attività di scambio uomo-natura, di relazioni
sociali radicate nella storia e nella cultura, di straordinarie creatività produttive. Cibarsi
vuol dire avere sensibilità di tutto ciò, cibarsi non vuol dire soltanto alimentare il proprio
corpo ma nutrire la socialità, le reti di sapere, i piaceri che ruotano intorno alla sua
attività”. (AA.VV. :2004)
Emerge l’esistenza di un circuito virtuoso che unisce la produzione al consumo e questo
circuito deve essere costruito sulla qualità dell’ambiente in cui viviamo, sulle qualità delle
relazioni sociali e sulla qualità dei prodotti.
Alla luce di ciò che ho potuto osservare e studiare, a mio parere il grande merito di questo
movimento e dei vignaioli che hanno aderito102 sta nel fatto di aver creato la
consapevolezza che la bottiglia di vino non è solo un semplice oggetto inanimato; per loro
che partono dal presupposto che il vino è qualcosa di vivo, tutto ciò che compone la
bottiglia, l’etichetta insieme al nome della famiglia o dell’azienda e l’anno della
vendemmia, rimane in vita anche dopo che il vino è stato bevuto.
Questo messaggio viene veicolato attraverso l’immagine del vino artigianale che però,
arrivati a questo punto della ricerca prende una nuova denominazione: non è più un vino
nato dalla creatività e dall’abilità artigianale del vignaiolo bricoleur (Sahlins 1973), ma si
connota politicamente e diventa vino critico acquisendo un lessico particolare.
Lo stesso Veronelli parla del vino utilizzando gli aggettivi declinati politicamente come
sovversivo, eversivo o dissidente enfatizzando il merito del vino di esser diventato
testimonianza di qualcosa di diverso e autentico.
E’ Carolina che coglie questa prospettiva maggiormente politica del suo modo di fare vino
e si lascia scappare quanto segue:
“Siamo resistenti e dissidenti, per forza. Te l’ho già detto mi pare, comunque: noi siamo
resistenza nel senso che veramente facciamo un’agricoltura, un modo di pensare, vinificare
102 L’adesione va da intendersi in maniera ampia: il movimenti del vino artigianale è molto ampio e trasversale quindi ci sono diversi modi per aderire. C’è chi ha aderito fin dal 2004, chi ci è arrivato dopo; altri che prendono proprio parte alle Critical Wine e altri no.
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e commerciare diversi rispetto alla maggioranza. Siamo un po’ i Pertini delle nostre
zone!”103
La produzione di colfondo costruisce dunque un modello capace di creare un’economia
sostenibile dove la dignità del lavoro si antepone ai profitti e dove si praticano culture, ed
anche colture, capaci di contrastare la monocoltura della mente104.
L’autenticità o genuinità di questi vini come il colfondo non ha nulla a che vedere con la
sincerità del parlante: l’effetto della verità consiste nella possibilità di cogliere le relazioni
produttive, sociali e di scambio con l’ambiente da cui il vino proviene.
Per concludere questo lavoro, le “fermentazioni antiomologanti” dei vignaioli di colfondo
diventano il pretesto per utilizzare il vino come testimonianza di una varietà e di una
differenza all’interno di una società sempre più omologante: tolto il valore estetico, il
colfondo diventa il racconto delle persone, di un rapporto con il territorio e di un nuovo
agire.
103L’intervista si è svolta all’indomani della rielezione di Giorgio Napolitano come Presidente della Repubblica, quindi la battuta di Carolina si riferisce ai fatti di quelle giornate. 104Il riferimento è al libro di Vandana Shiva “Monocolture della mente: biodiversità, biotecnologia e agricoltura”.
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Numeri del vino, statistiche produttive, dati di mercato e di consumo, risultati
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http://www.inumeridelvino.it/
Regione Veneto:
http://www.regione.veneto.it/web/guest/home
Strada dei vini del Piave:
http://www.stradavinidelpiave.it/
Veneto agricoltura:
http://www.venetoagricoltura.org/
ViniVeri:
http://www.viniveri.net/lettera-aperta-al-gambero-rosso
Vinnatur:
http://www.vinnatur.org/
69
Immagini
Immagine 1: la Provincia di Treviso (www.marcadoc.com).
Immagine 2: l'area della DOC-DOCG (http://www.prosecco.it).
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Immagine 3 e 4: Il fondo (foto dell’autrice).
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Immagine 5 Struttura a bellussi (foto dell’autrice).
Immagine 6 Schema bellussi (da http://primobicchiere.wordpress.com/).
72
Immagine 6 Rolle di Cison di Valmarino (TV), nel 2004 è diventato il primo borgo italiano
tutelato dal Fondo per l’Ambiente Italiano (foto dell’autrice).
Immagine 7 Le colline di Valdobbiadene (da “La strada dei vini”, dépliant realizzato dalla
Provincia di Treviso).
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Ringraziamenti
Devo ammettere di aver esitato fino all’ultimo sulla possibilità o meno di dedicare una
pagina del mio lavoro ai ringraziamenti poiché avevo timore di cadere nella banalità.
Alla fine ho ceduto, perché ci tengo veramente a ringraziare alcune persone che più di tutte
mi sono state vicine in questi lunghi mesi e in questo periodo particolare.
Innanzitutto la mia famiglia: ci tengo particolarmente a ringraziare tutti per essermi stati di
sostegno in questo periodo che non è stato particolarmente facile per nessuno di noi. Un
ringraziamento speciale va a mamma e papà, che mi hanno come prima cosa sopportata per
tutto questo quarto di secolo e supportato in questi anni fuori casa; inoltre li ringrazio per
star rendendo concreto uno dei miei sogni più grandi. Un grazie a mia sorella Ilaria e uno a
mio fratello Emiliano. Poi ci sono i nonni, tutti e quattro. Un abbraccio grande a mio
cugino Giacomo e mia zia Simonetta. Per chiudere con la famiglia, il grazie più grande va
a chi ha pensato alla mia laurea e alla speranza di esserci fino all’ultimo istante.
Allargando un po’ il concetto di famiglia, i ringraziamenti passano alla mia “nuova”
famiglia: Acciughina, la mia gatta, che molto spesso è intervenuta con un modo tutto suo
nella scrittura della tesi e un ringraziamento a Davide. Probabilmente senza il suo impegno
nel svegliarmi presto la mattina, i suoi caffè e la sua secchionaggine non sarei mai riuscita
ad arrivare a questo punto.
Una menzione anche ad Ivana, la mia amica sgangherona incontrata il primo giorno di
Università e con la quale ci sopportiamo amorevolmente ancora oggi.
Ringrazio tutti gli amici e le amiche di sempre, i compagni e le compagne che ho
incontrato in questi sei anni di vita torinese e con i quali ho passato momenti bellissimi
dalle serate in compagnia alle nottate sul tetto di Palazzo Nuovo, passando per i turni tra
bar e fornelli alle Officine Corsare. Sarebbe impossibile nominarli uno per uno, però ci
tengo a ringraziare Alice (che mi ha pure avuto come coinquilina), Luca, Andrea, l’altro
Andrea, Carolina, Ivan e Pasqualina. Un destroy al mio buon amico Mauro ringraziandolo
per le risate che mi regala ogni volta che ci sentiamo e per i consigli musicali. Un grazie
speciale a Marco, a tutti quei “Ape, ti chiamo più tardi” e poi passavano settimane ma
soprattutto grazie per i suoi insegnamenti enodissidenti.
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Un grazie ai momenti di pausa dagli infarti quotidiani, anche se faticosi mi hanno reso
felice.
Ringrazio Mario, Carolina, Maurizio ed Eros che mi hanno dato moltissimi spunti per
questa tesi e altrettanti per riflettere di mio su questo fantastico mondo del vino artigianale.
Un grazie al loro colfondo e a tutti gli altri vini che realizzano.
Last but not least, ringrazio il professor Adriano Favole per la disponibilità, la cortesia e la
franchezza dimostratemi in questi lunghi mesi di lavoro.