uno sguardo (sub specie aeternitatis) · web viewquante lodi esagerate, invece, si sentono...
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L’etica, che cos’è
Forse non vi è termine di uso comune più abusato nella contemporaneità, come quello di “etica”. Non
vi è politico, giornalista, conduttore di talk show che non ne faccia uso, spesso a sproposito, soprattutto
perché non vi è chiarezza sul suo reale significato, ovvero, il suo uso è talmente generalizzato che ha
provocato uno slittamento di significato verso aree semantiche di dubbia validità. Etica oggi significa
un po’ di tutto, e quindi sta diventando un termine ambiguo e perfino fuorviante. Occorre dunque
ricondurre l’attenzione intellettuale ad un’analisi rigorosa del termine, e del suo utilizzo, secondo le
accezioni variamente sedimentatesi.
Vediamo perché. Etica è termine derivato dal greco antico, ethos, il cui significato era riferibile ai
nostri termini “usi” e “costumi”, e dunque, inizialmente, non aveva alcun significato connesso alla
nozione di un giudizio sulla qualità morale delle azioni umane (libere). Tant’è che a Sparta vigeva
una sorta di eugenetica infantile, mentre ad Atene no. Fu con la grande tradizione platonico -
aristotelica e con lo stoicismo che la nozione di “etica” assunse progressivamente un’accezione
relativa al merito dell’agire umano, per rapporto al bene, e al bene umano per eccellenza. Basta
scorrere le pagine dell’Etica Nicomachea di Aristotele, per trarre quelle suggestioni e quelle
indicazioni che poi costituirono l’ossatura della stessa etica cristiana antica, e fino ai nostri giorni.
Il sistema delle virtù (a partire dalla fortezza, o coraggio che per i Greci era la virtù per eccellenza,
l’aretè, per continuare con la prudenza, la giustizia e la temperanza), e dei vizi come l’invidia, la
superbia, l’ira, la gola, etc., diede di fatto inizio ad una visione dell’etica, che conobbe successivi
sviluppi, fino ai nostri giorni.
In altro modo si può dire che l’etica, o la morale (secondo la derivazione etimologica latina, da mos,
moris), è un sapere pratico che appartiene alla sensibilità naturale dell’uomo (nella teologia cristiana
si parla addirittura di Legge Naturale). Un altro aspetto da considerare è che la sensibilità etica si è
sviluppata in modo diacronico nelle varie culture e civiltà umane, a seconda del valore attribuito alla
vita umana e alla persona come soggetto. Ad esempio, se in occidente abbiamo da duecento anni
sviluppato forme di stato di diritto, solo quest’anno, un grande paese musulmano come l’Egitto ha
dichiarato reato penale l’infibulazione delle bambine, pratica arcaica di origine tribale che denota
una visione “etica” di tipo ferocemente maschista.
L’evoluzione dell’etica è pertanto lenta e talora contraddittoria. Se da un lato, sotto altri profili, vi è
una grande preoccupazione per la qualità della vita degli adulti, dall’altra, sempre in occidente, non
ci si fa problema a considerare disturbante la vita mutilata di un vecchio in demenza, o di un
infortunato in stato vegetativo, che comunque respira autonomamente (cf il caso di Eluana Englaro).
Lo stato di diritto in occidente si accompagna a concezioni implausibili dell’uomo, che sarebbe tale
solo se cosciente e perfetto, o quasi (cf. le tesi di Peter Singer, Melbourne, 1977-2008).
Serve dunque, per riordinare un concetto condivisibile di etica, definirne le caratteristiche, per
trovare un minimo comun denominatore concettuale.
Restando alla nostra cultura, sono individuabili almeno sei scuole o indirizzi etico - morali:
l’utilitarismo, che presuppone la centralità dell’accumulazione individuale di beni; l’edonismo, che
pone al centro degli interessi la pura fruizione di ciò che dà piacere; il prescrittivismo o
deontologismo, che indirizza l’azione umana verso il rispetto delle regole date, purchessiano (fino
all’adesione a dottrine e prassi aberranti, come nel caso del dibattimento su Adolf Eichmann, o nel
caso dei processi farsa delle purghe staliniane); l’emotivismo, che privilegia il “fare ciò che ci si
sente”, cioè quello che le emozioni spingono a fare di volta in volta. La domanda che ci si deve
porre è: esiste una visione che possa superare il limite di queste etiche parziali? Si può dire di sì,
individuando nel valore della vita umana, in primis, e nel rispetto dei viventi e della natura in
secundis, un’etica del fine, che ricomprende e nobilita tutte le etiche parziali sopraelencate.
Un’ultima questione è quella che viene posta dalla domanda se l’etica possa considerarsi un sapere
scientifico. Non si può che rispondere affermativamente, poiché anche ad essa si può applicare il
principio della ricerca induttivo – deduttiva tipica di un’epistemologia intellettualmente corretta,
potendo definire l’etica stessa come la “scienza del giudizio sull’agire libero dell’uomo”, che è e
rimane l’unico soggetto, in quanto autocosciente e libero, di un sapere e di una prassi eticamente
fondati.
Da ultimo, si può dire che il sapere etico deve essere applicato a tutti i saperi correlati all’agire
umano, a partire dal diritto, e coniugando poi soprattutto i due grandi campi dell’etica della vita
umana e dell’etica economica, socio - politica e ambientale.
“Hable con ella”, parla con lei
Non è un film recentissimo, ma è molto attuale per i temi che tratta.
Marco è un periodista argentino che lavora per il Touring Club spagnolo.
Lydia una torera, che ama el Niňo de Valencia, un toreador valoroso. Lidya è segaligna e decisa,
autonoma. Benigno lavora in ospedale come infermiere e Alicia è la giovane amatissima figlia del
dottor Roncero, uno psichiatra.
Almodovar li intreccia a coppie, prima Marco con Lydia mentre el Niňo resta sullo sfondo, poi
Benigno e Alicia, e infine…
Il tema è quello del viaggio e del dolore, come accade nella vita di ciascuno. E della vita, quella
magnifica della gioventù sana, e quella limitata da una condizione di malattia persistente.
Ambedue le donne, Lydia e Alicia rimangono vittime di due incidenti che le riducono nella medesima
condizione di stato vegetativo. Lydia viene incornata da un possente toro, e Alicia travolta da un’auto
mentre sta andando alla sua scuola di balletto. Benigno già conosceva Alicia, perché lei andava a
scuola di ballo di fronte alla casa di Benigno, che a vedeva dalla finestra, e poi l’aveva vista nella casa-
studio di Roncero.
Alicia viene trovata incinta, mentre si trova in quelle condizioni. Benigno viene accusato da un
collega, licenziato, processato e incarcerato, anzi internato in un manicomio criminale.
Giunge notizia a Marco, che si trova in Giordania, della morte di Lydia, e poi dell’incarceramento
di Benigno.
Marco lo incontra e riceve da lui la disponibilità ad utilizzare il suo appartamento, oramai vuoto.
E poi riceve anche una lettera di Benigno dal manicomio, con la quale egli si congeda. Per andare a
congiungersi con Alicia, che lui ritiene trovarsi sempre nello stesso stato. Assume barbiturici e non
ce la fa.
Ma Alicia, che ha partorito un bimbo morto, si è risvegliata. Nessuno lo dice a Benigno, che prende
una dose di barbiturici da morirne.
Alicia è in piedi e Benigno è morto.
Il corpo di lei si è svegliato quando qualcosa è successo per via del congiungimento carnale che è
costato a Benigno l’internamento. Lui le ha usato violenza e l’ha fatta rinascere.
Violenza mallevadrice di vita, sembrerebbe.
Però quella violenza, di un uomo così come è Benigno, era proprio violenza, oppure una
manifestazione d’amore, come solo poteva darsi in quella situazione? Benigno l’ha vista, accudita,
accompagnata nelle sue giornate per anni, lavandola, e vestendola, guardandola e parlandole. Qual è
il valore morale dell’atto di un uomo che vive ai confini del libero arbitrio? Perché forse Benigno è
un po’ autistico, deprivato fin dall’infanzia di rapporti affettivi, e cresciuto nell’anelarli. E alfine si è
concentrato sull’unico “altro” che non poteva dirgli di no, Alicia. Muovendole la vita, dentro, con il
suo atto.
Solo Marco, nella vita di Benigno, era stato un “altro” che gli aveva badato.
Nel tempo il suo “parlarle” è diventato (forse) un gesto avventato e gravissimo, sconvolgente per la
comunità ospedaliera e per la famiglia di Alicia. Che l’ha condannato all’internamento e alla
disperazione di non sapere più nulla di lei.
In un tempo nel quale pare quasi impossibile consolidare un sentimento, la vicenda di Benigno
racconta che ai limiti del sentire normale vi può essere ciò che sembra scomparso, finito, dissolto.
È a i limiti dell’umano, quasi asintoticamente, che si può recuperare ciò che è disperso, allucinato,
sconvolto, reso banale, commerciale, comunicativo e non più dialogico: l’amore.
È ai limiti dell’umano che anche gli altri, quelli “sani” possono contemplare un dolore che è tale
perché ha reso, sia pure nella violazione delle regole ancestrali e penali, veritiero l’amore.
Alla fine Marco e Alicia si ritrovano al cinema, insieme, l’uno in una fila, l’altra più indietro.
Uno sguardo di Marco all’indietro scopre Alicia. Non si sa il seguito, perché il film finisce lì.
Il caso o l’imperscrutabile?
Almodovar esplora l’umano ai suoi confini più estremi, non fornendo risposte, ché non ve ne sono,
o sono troppo aldilà dell’umana comprensione.
Amore e morte, morale e dolore …
Almodovar resta al di qua dell’estremo rifulgere di ogni vita, come sa che deve fare chi non ha
dimenticato la virtù di umiltà, e il senso creaturale dell’essere a questo mondo. Quando senso
creaturale non significa necessariamente una fede in un Creatore, ma semplicemente senso del
limite, e un sobrio, pacato sentimento del nostro passaggio per questo mondo.
Martin Waldseemüller (cioè “il mugnaio del lago nel bosco”), geografo, o cosmografo, come si diceva
allora, cinquecento anni fa denominava “America” la “terra incognita”, scoperta ufficialmente da
Cristobal Colòn nel 1492. Di lì iniziarono le controversie sul nome, sul perché fosse stato così
individuato, e circa le sue origini. È almeno curioso, osserva Vittorio Zucconi (cfr. Repubblica del 16
aprile 2007), che questo enorme continente, “ignoto per quasi diecimila anni a tutti coloro che non
fossero arrivati a piedi dagli altopiani asiatici, come gli Inuit, gli Iroquesi, gli Anasazi, i Maya, i
Toltechi, gli Aztechi, sia stato battezzato con il nome di un fiorentino (Amerigo, o Amerrigo, o
Alberigo, Vespucci, uomo di Piero de’ Medici) mandato in Spagna per l’allestimento di navi (…) è un
romanzo che sa di complotti e forse di inganni. Una storia del nome “America” che profuma di
conventi, di abbazie, di documenti falsi, di salsedine, di vento, di ambizioni umane, di muffa, e
dell’inchiostro spalmato sui blocchi di legno inciso che Waldseemüller (il “Mugnaio”) usò per tirare
mille copie della mappa che cambiò per sempre l’anagrafe della terra.” Il mugnaio si trovava a
lavorare nell’abbazia di San Deodato (Saint-Dié-des Vosges, in Lorena). “Provincia invenita est,
(America), per mandatum regis Castelle,” cioè “E’ stata scoperta una provincia, (l’America), per
mandato del re di Castiglia”. E non fu chiamata Colombia, come molti chiedevano nella diatriba che si
era scatenata. Il fatto è che il “Mugnaio” si era fidato di alcune lettere, firmate dal Vespucci, nelle quali
si raccontava che egli aveva visitato il Sud America dalla Patagonia al Nicaragua, che poi si sarebbero
rivelate apocrife. La sua resipiscenza tardiva gli fece correggere la prima versione della mappa
denominata Cosmographiae Introductio, denominando la “provincia invenita” “Terra incognita”. Ma
fu troppo tardi. Oramai “America” era il nome, che tra l’altro, somigliava molto al nome di una catena
montuosa nicaraguegna, i monti Amerrìk. Riporta ancora Zucconi: “Mi hanno rubato anche il nome, il
nome della mia terra, lamenta Danilo Antòn, nel suo libro “Gli orfani del paradiso”, perché Vespucci,
gli italiani, gli euros (non la moneta, s’intende) si sono impadroniti del nome di una provincia
montagnosa nella cordigliera del Chontales, oggi Nicaragua, chiamata Amerrique nel linguaggio
lenca-maya della gente che la abitava molto prima che arrivasse Cristoforo Colombo.” Gli Algonquin,
popolazione del corso del fiume Hudson affermano che in passato usavano chiamare la loro terra “Em-
merika”. Pare che i Vichinghi di Erik il Rosso, quasi certamente giunti in America prima di Colombo,
la chiamassero “Ommerika” o “Amterik”. Il Webster, che è il dizionario più diffuso degli Stati Uniti
definisce l’America così “(…) è nome derivato da Amerigo Vespucius. Amerrique era il nome usato
dai primi esploratori”. Vi è infine la notizia che lo storico Rodney Broome ha registrato nel suo saggio
“Terra incognita” il nome di un mercante gallese che giunse in America dal porto di Bristol nel 1497
(cinque anni dopo Colombo), e si chiamava Richard Amerike. Pablo Neruda scrisse “America, non
invoco il tuo nome invano”. Quasi a significare come questo nome, attribuito all’intero continente, è
diventato nella vulgata dell’uso comune, una specie di sineddoche (ma anche antonomasia e
metonimia), che spesso significa gli U.S.A., e null’altro. Quando si dice gli “Americani” si intende
spesso gli “Statunitensi”, mentre invece “americani” sono gli Inuit del grande Nord così come gli
indios delle Ande patagoniche. E Neruda ha ragione. La controversia americana continua poi nella
discussione politica e nei conflitti che angustiano. Andare oltre sembra necessario, ma partendo da una
nozione corretta del tema. Occorre elevarsi in una posizione meta-storica, per comprendere come
l’America è dentro un processo lungo, come le altre parti del mondo. L’America non è solo
l’”impero”, e nella versione peggiore del “bushismo”, ma è anche terra di grandi promesse, di
frontiera, di spazi di libertà inconiugata e imperfetta, ma reale. È la terra dei grandi giornali
newjorkesi, ed è la terra di caudilli neri e rossi, di polizie corrotte e di campesinos poverissimi. È come
lo specchio dell’Europa, ingrandito, con un nord e un sud, con un est e un ovest moltiplicato per
cinque, e una popolazione tripla. Viva l’America, ma tutta, dalla foce dello Jukon ai fuochi di Capo
Horn.
Autunni
San Vito Chietino. Pare che al promontorio del Vate la signora Eleonora Duse non sia mai venuta.
Mentre la nobildonna Barbara Leoni sì, con il suo amante imaginifico. Il pannello che ricorda le
frequentazioni di Gabriele celebra questa presenza. D’Annunzio amava soggiornare alla Marina di San
Vito, perché vi trovava la quiete per scrivere. Lì sotto, vicino allo sciabordio delle onde compose La
figlia di Iorio e forse abbozzò alcuni dei suoi romanzi erotici. Forse che sì, forse che no, il dubbio
pervade il serpeggiante susseguirsi dei promontori e delle linee della costa. Il traffico è diminuito
rispetto alla piena stagione, e solo raramente si sente un rumore d’auto in avvicinamento da sud.
Prevale lo sciabordio delle onde sulla scogliera e sulla spiaggetta di sassi, che sono di tutte le tonalità
tra il bianco e il nero
Il mare ottobrino si presenta con un’azzurrità tersa e indistinta all’orizzonte, dove si confonde con la
bruma. La temperatura consiglia alle coppie giovani di scegliere uno scoglio per darsi perduti al resto
del mondo. Un ragazzo e una ragazza son lì, ad attendere che scenda il crepuscolo.
Sopra, su uno sbalzo di cento metri, nella contrada Foresta crescono gli ulivi, inframmezzati da piante
di limone, mandarini e arance. Un rustico, vasto e diruto, attende di diventare un resort per
meditabondi, sul mare, mi dicono. Giuseppe Bianco, alpino del ’20, è ancora lì a presidiare il podere.
Racconta, a tratti, della campagna di Grecia e d’Albania nel ’41. Dei pidocchi e degli attacchi
partigiani. Ricorda. E a volte sembra soffermarsi in silenzio su quelle lontananze spazio – temporali.
L’essere un po’ sordo lo aiuta ad isolarsi dal cicaleccio dei nipoti che talora lo circonda. A volte la
natura sembra ci assecondi, quando siamo troppo stanchi per continuare a dare retta agli altri, a
occuparci di tutto. E il tempo aiuta la natura.
Dopo la mescita dell’olio il pranzo: pecora a”yu cottoru”, un giorno di sobbollimento su un fuoco
continuo nella caldaia di rame. Cibo di stanziali e transumanti, che dal Gran Sasso si spingevano un
tempo per l’altopiano delle Rocche fino nel Molise e ai confini della Daunia. Sanniti. I tratti del viso di
Giuseppe rimandano ad ancestrali pastori appenninici. Ma prima c’è la pasta “scarcitti”, cioè stracciati,
stracciatella, con pomodoro e olio dell’anno prima. E alla fine i “…cellippieni”, dove l’elisione rinvia
di sottecchi al termine completo “uc… e ciò che segue”, metafora della vigoria maschile, perché così a
immagine e somiglianza son fatti e finiti. Pieni di marmellata nera d’uva di Montepulciano d’Abruzzo.
Dolci dei poveri. E il vin cotto di Trebbiano. C’è Anna che si dà da fare, maestra a L’Aquila, e
Mimmo, suo marito, che filosofeggia sul terrazzo.
Il parlottio degli astanti si confonde, a volte, in un brusio indistinto, e così bisogna ripetere le parole,
ché gli accenti del viandante friulano definiscono colori sconosciuti del discorso al Sannita, e
viceversa.
Tra i frondi dell’ulivo tricentenario (dicono) occhieggiano nuvole disperse, che trascolorano nell’ora,
come filtri eterei della luce.
Le vigne vendemmiate ondeggiano al vento che viene, e le foglie rifrangono i raggi del sole autunnale.
Campane annunziano la messa serale al di là della valle, su in paese, dove un tempo le donne si
recavano, per sentieri, a vendere i prodotti dell’orto, e i bambini alla scuola. Ora è diverso, perché in
paese si va in macchina, e non più per i tratturi tra le viti e gli ulivi, che si stanno riempiendo di erba e
pian piano scompaiono.
Qui dicono che gli inverni son rigidi, perché la costa è battuta dal vento che attraversa l’Adriatico
scendendo dall’Alpe Dinarica. Autunni.
La distesa di verde si interrompe nei valloncelli dove appare qualche striscia di terra scura.
Il percorso dei viandanti si snoda lungo le dorsali appenniniche, lento. Le foglie cominciano a
trascolorare verso le ultime sfumature di giallo, rosso e marrone, prima di abbandonare il ramo e
scendere volteggiando sull’erba seccata dai primi freddi.
L’altrieri a Greccio dove Francesco cercava l’origine di tutto il suo esempio, la Grotta, e il Bambino e i
pastori eterni che vivono sotto le stelle, e gli angeli del cielo che consolano i raminghi. L’alta valle
reatina è memore del passo lento dei frati, che lo accompagnavano nei freddi inverni, in perfetta letizia.
E ieri alla Badia di Sulmona. Silenzio dell’eremo di frate Pietro/Celestino, che rifiutò il primato e stette
lì nel silenzio, con le ghiandaie e i merli, a meditare sul loro Creatore. Transfuga dal compromesso e
dalla potestà somma. Di sopra il Monte Morrone, confine del cielo che trascolora nella sera, e
antemurale della più grande Maiella. Foglie mature volteggiano e cadono. Una ghiandaia e un merlo si
nascondono negli scoscendimenti di arenaria della montagna. Autunni.La vita procede negli interstizi dell’essere.
Confusione lessicale e rigore terminologico
Sacro, di fede, religioso, filosofico, giuridico, sono tutti ambiti da distinguere con rigore. Soprattutto se
si affrontano i temi della bioetica o di ciò che concerne la vita umana e sociale.
Martin Heidegger afferma che la verità dell’essere è, in greco, a-lètheia, cioè non-obliamento o
disvelamento che si manifesta tramite il linguaggio umano: “Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella
sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora”. La filosofia, come la
poesia, è un pensiero poetante mentre è pensiero pensante. La verità, dunque, si manifesta attraverso il
linguaggio e tutte le sue figure, a partire dalla metafora, che dà respiro al pensiero, come ossigeno
spirituale, e in tutte le stratificazioni polisemiche della parola. Ogni parola interpella il tutto, ogni
parola rinvia ad altro, come l’io al tu, simboleggiando (sùmbolon, simbolo è ciò che unisce, ed è il
contrario del diàbolos, che è ciò-che-divide, il separatore, l’avversario) indefinitamente lo
scivolamento dei significati e dei sensi nei contesti infiniti, e negli ambiti di ricezione del messaggio.
Metalinguaggio e linguaggio si intersecano e si ausiliano, esigendo un rigore distintivo nella scelta dei
termini, ma lasciando nel contempo una grande libertà all’ermeneuta, all’interprete, al lettore-
ascoltatore. Occorre distinguere per unire, occorre separare per collegare. Esempio: se non si distingue
tra le dimensioni del “sacro”, del “religioso e del “fideistico (o pistico)”, si favorisce l’enorme
confusione oggi presente sullo scenario politico-culturale odierno, là dove non si rigorizzano (credo
più per insipienza che per convenienza di parte) né concetti, né proposizioni logiche, né conclusioni
razionali (cfr. la vicenda dei Dico o i discorsi sulle patologie sociali, come il bullismo, il mobbing, la
violenza negli stadi, etc.). Parlare solo degli effetti come devastazione umanistica e sociale è parlare
del nulla in senso logico: occorre riprendere una riflessione sulle cause profonde della crisi della
verità, che risalgono a modelli culturali avallati dal “politicamente corretto” post sessantottino, come
ad esempio la messa in questione radicale del principio di autorità, come dimensione naturale della
vita umana. In questo caso la militanza politica ha stupidamente posto in mora un principio razionale,
analogo al principio di non contraddizione.
La questione dell’essere (Seinfrage) come linguaggio (sapere ontologico) differenzia la questione
dell’essere come esistere (sapere ontico o esistentivo), che va considerato nel tempo. Ancora
Heidegger: “Ciò che determina ambedue, essere e tempo (Sein und Zeit), in ciò che è loro proprio, cioè
nella loro coappartenenza, noi lo chiamiamo Das Ereignis (l’Evento)”. Vale a dire che è-in-ciò-che-
accade che avviene la conoscenza della verità. E in ambito etico : “(…) se in conformità al significato
fondamentale della parola ethos, il termine etica vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno
(terreno) dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere (…) è già in sé l’etica
originaria”. Il filosofo tedesco vuol dire che l’uomo è valore-in-sé, non valore derivato, come
vogliono altre prospettive. Genesi (1, 27) conferma ciò con più forza, essendo l’uomo a immagine del
divino.
Dunque, l’uomo deve porsi davanti all’essere rispettando e coltivando il linguaggio, rifuggendo la
sciatteria e l’approssimazione, ponendosi in una situazione di ascesi (gr. àskesis, che vuol dire
letteralmente “esercizio”), di raccoglimento-che-lascia-essere (Gelassenheit), ma avendo presente il
rischio di un ottundimento che oggi può essere causato dalle tecnoscienze e dalla sottovalutazione
della crisi cognitiva ed etica in atto.
Woody Allen nel film Melinda&Melinda introduce nella sceneggiatura il dialogo “Cara, ho
l’impressione che noi due non comunichiamo”, e lei risponde, per rassicurare il partner “Certo che
comunichiamo. Ma possiamo non parlarne”. E poi lui dice “Devi imparare ad amarmi per quello che
sono”. E lei “Infatti sei uno che non è fatto per me”.
Boaz Keysar, dell’Università di Chicago, ha scritto sulla rivista Cognitive Science (2006) “La
confidenza confonde … tutto dipende dal dare per scontato che l’altro sappia … comunicare tra
confidenti è uguale a non comunicare. A uno sconosciuto si comunica meglio.
Docendo discimur, discendo docemus (insegnando impariamo, imparando insegnamo). E l’in-segnare è
un dare-segni, così come educare è un attuare un accoglimento di verità ex interiore nomine, ubi
habitat veritas (Agostino) (dall’uomo interiore, dove abita la verità).
De nova insula Utopia
Edoardo Bennato canta Utopia (il non-luogo) come “isola che non c’è”, ma il copyright appartiene a
sir Thomas More, nato a Londra nel 1478 e ivi decapitato il 6 luglio del 1535 per avere “fatto contro” a
re Enrico VIII, il quale volle modificare l’Atto di successione a favore dei figli che avrebbe avuto da
Anna Boleyn, dopo avere divorziato da Caterina d’Aragona. Ma il More non sottoscrisse quell’atto,
anche perché con esso il re si proclamava tutore della chiesa d’Inghilterra, decidendo per lo scisma da
Roma.
Ma questo è l’ultimo atto di un grand’uomo, che ebbe modo di pensare, di fare politica fino a diventare
Lord Chancellor del Regno d’Inghilterra, e di scrivere molto: versi latini, gli Epigrammi, tradusse
Luciano insieme con Erasmo da Rotterdam, suo grande amico; disputò con la Riforma luterana e
scrisse di morale e ascesi, come nel Trattato sulla passione e il Dialogo del conforto.
Ma ad Anversa, dove si trovò nel 1515, a casa dell’amico Pieter Gilles, redasse il secondo libro di
Utopia, che completò con il primo, una volta tornato in Inghilterra nel 1516.
Utopia è un resoconto di fantasia, basato su una conversazione tra l’autore, il suo ospite Gilles e un
compagno portoghese di Amerigo Vespucci, Raffaele Itlodeo.
Nel primo libro Thomas More polemizza contro gli ordinamenti penali del suo tempo, specialmente
contro la pena di morte per il reato di furto, che egli (giustamente) ritiene “sproporzionata” e perciò
“ingiusta”, “illegittima” poiché contraria al precetto “non uccidere”, ma anche “assurda”, e fin da
allora, dunque, “inefficace”, anche come deterrente. Itlodeo spiega i reati del tempo come conseguenza
delle enclosures, atto politico con cui furono cacciati i contadini dalle loro terre rendendoli miseri, ma
anche con le divisioni inique delle risorse, e per il mancato rispetto del principio di giustizia fra ricchi e
poveri. Per rimediare, il “portoghese” ipotizza una specie di welfare e di keynesismo ante litteram. Ma
ciò non basta, secondo gli interlocutori: bisogna seguire l’insegnamento di Platone, che ipotizza un
comunismo radicale, come si è attuato in insula Utopia. (Non basta, dunque, il riformismo aristotelico,
keynesiano e socialdemocratico). Utopia si estende su un territorio adeguato e comprende
cinquantaquattro città, ciascuna delle quali ha un territorio congruo per creare condizioni di
autosostentamento economico. Tutta la produzione agricola confluisce nei magazzini pubblici. In città
si lavora nei pochi mestieri assegnati perché ritenuti necessari, e non più di sei ore al giorno. Pochi, i
più dotati, vengono avviati a studi elevati. Ad Utopia, quindi, non può prendere piede il vizio di
superbia “(…) serpente infernale che impedisce all’uomo di imboccare la strada che lo conduce ad
una vita migliore (…)”, ma tutti sono moderatamente contenti, quasi quasi in una situazione di tipo
epicureo. L’educazione dei giovani è fortemente curata, ed è una specie di paidèia di tipo etico, dove
un ruolo di rilievo hanno la famiglia monogamica, la Sifograntia, un insieme coeso di trenta famiglie, e
lo stato. Il valore fondamentale è l’obbedienza a un capo, sia esso il padre di famiglia, o il maschio più
anziano, sia il Filarco, magistrato annuale, sia infine l’Adémo, il magistrato supremo, eletto a vita.
Le leggi a Utopia non sono prescrittive, ma orientative, poiché fin dall’infanzia gli Utopiani hanno
introiettato la distinzione fondamentale fra atti buoni, o del bene, e atti cattivi, o del male. Ogni anno
nella capitale Amauroto si discutono i problemi generali cui partecipano tre rappresentanti di ogni città.
Thomas More, così vicino al potere assoluto, ne ha conosciuto i terrori e le disumanità, e perciò ha
immaginato potesse porsi come ipotesi un luogo-non luogo, (si vedano in proposito i vari nomi in
negativo: U-topia, An-idro, A-demo), nel quale sperimentare la possibilità di un regime civile e
politico improntato alla giustizia, là dove ambizione e superbia individuali fossero messe sotto
controllo, e così attenuate e sconfitte.
Così come ipotizzò anticamente Platone magno ne La repubblica, Tommaso Campanella ne La città
del sole, i socialisti Fourier con la proposta dei falansteri, e Robert Owen con New Harmony. E furono
i casi migliori. Come anche le reductiones dei Padri gesuiti nel Paraguay del diciassettesimo secolo.
Non certo ciò che fece Pol Pot nel ventesimo, per tacere dei soliti noti.
Utopia, pensiero utopico, non-luogo. Accettabile come contrasto e paradosso, ma pericoloso se posto
in alternativa al paziente realismo, cui improntò l’intera sua vita Thomas More. Il realismo che conosce
l’uomo e fa i conti con il cuore dell’uomo, più che con le intenzioni dichiarate e la propaganda. Il
realismo che smaschera le anime belle e i sepolcri imbiancati.
Per l’utopia ci resta senz’altro lo spazio della vis immaginativa, che è fomite e forza di cambiamento
interiore e di esercizio del coraggio di esplorare, soprattutto ciò che interiore all’uomo.
E di cedere anche, con un sorriso, all’invito del comandante James T. Kirk, che risponde alla domanda
secondo ufficiale dell’ Enterprise “dove andiamo, comandante?”: “seconda stella a destra, e poi avanti
fino al mattino”.
Di famiglia&figli et cetera*
“Dal dì che nozze e tribunali ed are/ diero alle umane belve esser pietose/ di sé stesse e d’altrui,
toglieva i vivi/ all’etere maligno ed alle fere/ i miserandi avanzi che Natura/ con veci eterne a sensi
altri destina./ (Dei Sepolcri, vrs. 91 - 96, U. Foscolo). Inizio con questi sei endecasillabi che il grande
e agnostico Ugo dedicò alla fondazione delle istituzioni civili, nel poemetto che ha come motto
“Deorum Manium iura sancta sunto”, cioè Siano sanciti i diritti degli Dei Mani, dedicato a Ippolito
Pindemonte, per parlare di tombe, giustizia, famiglia e dintorni. Nozze e tribunali ed are, scrive il
poeta, mettendo a fuoco la nascita del diritto da un lato, con la fondazione della famiglia (nozze), del
diritto delle comunità nascenti di giudicare gli atti umani nei tribunali, della codificazione di un culto
religioso (are), al fine di togliere l’uomo stesso dalla ferinità iniziale e sempre in agguato, come
dimostrasi in ogni tempo e oggi.
Dalle popolazioni nomadi alla stanzialità si è svolto il lungo itinerario della famiglia come istituzione
sociale universalmente riconosciuta, anche se diversamente tipologizzata, ma comunque nel contesto di
una struttura unitaria di riferimento socio-economico, psicologico e affettivo. Le regole sono state
codificate come riferentesi all’esercizio sessuale unitivo e generativo, al divieto di incesto e alla
differenza dei ruoli di genere nel mutuo soccorso. E. Durkheim ha considerato la famiglia un punto di
arrivo socio-evolutivo; S. Freud una istituzionalizzazione; M. Weber una ottimizzazione socio-
economica; F. Engels una istituzione socio-economica storicizzata nel percorso di formazione della
famiglia stessa, della proprietà privata e dello stato; C. Levi-Strauss ha sottolineato la presenza,
accanto alla monogamia, anche di forme di poligamia e di poliandria: presso i Nayar (Malabar, India),
i Tupi – Cawatib (Brasile), i Mossi (Alto Volta), i Nuer (Sudan).
Se ne deve parlare anche perché la cronaca ha occasioni quotidiane di proporne anche le patologie, le
sofferenze, perfino i delitti che accadono tra le mura di casa, nella famiglia classica.
Dell’antichità si può citare il diritto semitico, che prevedeva anche il goelato, cioè un soccorso nei
confronti delle vedove, che potevano essere sposate dal cognato per toglierle dalla strada. Il
matrimonio era in quel contesto un mero contratto (mohar) tra la famiglia della sposa e quella dello
sposo. Il diritto romano ha distinto tra famiglia come gens (figli e parenti) e famiglia come agnatio (o
cognatio), estesa a anche ai servi non liberi e ai liberti. Il paterfamilias, fin dalle norme scritte nelle
XII tavole, era depositario della persona in mancipio, in manu, in potestate (cioè aveva potere di vita e
e di morte), potere non esercitato nella generalità dei casi. Modestino così scriveva “Nuptiae sunt
coniunctio maris et foeminae, consortium omnis vitae, divini et umani iuris, communicatio”, cioè “Le
nozze sono un’unione di un maschio e di una femmina, consorzio di tutta la vita, comunicazione di
diritto umano e divino”.
A Sparta vigeva una specie di eugenetica nei confronti dei bambini malformati, ma ad Atene, no,
perché lì si sviluppava la paidèia, cioè la prima grande pedagogia. Socrate, Platone, Aristotele erano i
didàskaloi. Ma la prima legge che tutelò veramente i bambini fu opera di Costantino, con gli editti del
315-318. Il Cristianesimo trasse ispirazione dalla Scrittura: Genesi 2, 18 “(…), Dio disse, “Non è bene
che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”; Genesi 24, 49; Giudici 14, 7; Matteo
19, 6 “Quello che Dio ha unito l’uomo non lo separi”; san Paolo agli Efesini 5, 21 – 31 “(…) per
questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne
sola”. L’indissolubilità religiosa del matrimonio si fonda su questi testi. Il Codice di diritto canonico
del 1983, al canone 1055 recita “Matrimoniale foedus, indole sua naturali ad bonum coniugum atque
ad prolis generationem et educationem ordinatum”, cioè “Patto matrimoniale, di carattere naturale,
ordinato al bene dei coniugi e alla generazione ed educazione (dei figli)”. L’elemento essenziale, sia
del diritto romano, sia della dottrina cristiana è il consenso, che costituisce il vincolo responsabile tra i
due sposi. Tutto ciò, mentre nel mondo germanico era in vigore il mundio, una specie di
compravendita della donna fra suocero e genero, almeno fino all’anno mille. Attorno al sec. X
troviamo il brocardo giuridico-religioso “Consensus facit nuptias, non concubitus”, cioè “Il consenso
costituisce le nozze, non l’atto sessuale”. Fino al secolo precedente era stato invalso, invece il
contrario, come nella posizione del vescovo Incmaro di Reims. Ivo di Chartres, per contro, due secoli
dopo scriveva “Matrimonium consensu initiatur, copula autem carnali perficitur”, cioè “Il matrimonio
ha inizio con il consenso, ma viene perfezionato con l’atto sessuale”. Sono le premesse del Decretum
di Graziano, che orientò il diritto comune sul matrimonio fino al Concilio di Trento, con i contributi di
Pietro Lombardo e Tommaso d’Aquino. Nel 1439 il matrimonio è dichiarato dalla Chiesa come
settimo sacramento (Decretum pro Armenis). Nel Medioevo sorgono gli xenodocheia (ospedali-
orfanotrofi) e nei monasteri e conventi si mettono a disposizione dei bimbi abbandonati le ruote degli
esposti. Suona interessante annotare alcuni nomi degli abbandonati: Esposito, Degli Esposti, Proietti,
Fortuna (eh, sì, pure questo), etc.. Nella modernità intervengono a favore del matrimonio vari
pronunciamenti pontifici: Pio IX con il Sillabo, Leone XIII con la Arcanum divinae sapientiae, Pio X
con la Lamentabili, Pio XI con la Casti connubii, Paolo VI con la Humanae vitae, Giovanni Paolo II
con la Familiaris consortio. Avversari storici della famiglia e del matrimonio furono, fin dagli inizi del
cristianesimo gli encratiti, i priscillianisti, gli gnostici, i marcioniti, e poi, dall’XI secolo gli albigesi e i
catari. Dal XVIII secolo, con l’Illuminismo si diffusero diverse visioni utopistiche anti-familiaristiche,
con le teorie di autori come Fourier, Morelly, dom Duchamp.
Giuridicamente, in Italia, oggi troviamo l’art. 29 della Costituzione, che recita “La Repubblica
riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è
ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia
dell’unità familiare. ”, e così in coerenza gli artt. 143, 144 e 147 del Codice Civile. Nel 1970 la legge
898 ha introdotto il divorzio, poi confermato dal referendum popolare del 1974. Nel 1975 è stato
emanato il nuovo diritto di famiglia (L. 151), che ha esteso la patria potestas ad entrambi i coniugi.
Nel 1985 è stato regolamentato il matrimonio concordatario. Da ultimo, nel 2006 è stata emanata la L.
54, che tratta dell’affido condiviso dei figli di genitori separati o divorziati, per consolidare la prassi
etica e pedagogica della bigenitorialità.
Tutto ciò detto, oggi si assiste ad un dibattito insufficiente e talora surreale, simile a quello di due anni
fa sulla fecondazione assistita. Si parla di Pacs e di Di.Co. senza fare un minimo cenno a ciò che è
famiglia, senza una riflessione etico-antropologica sul percorso che ha portato l’uomo a codificare tale
istituzione. Ci si limita a constatarne le difficoltà, citando statistiche sociologiche sulle separazioni e
sui divorzi. La questione è dunque estremamente seria, e fa il paio con l’incapacità di individuare le
cause prime della crisi etico-cognitiva che attanaglia la contemporaneità. Si applica la cura senza
preoccuparsi della prevenzione, ritenendo di dovere semplicemente prendere atto che i nuovi costumi
possono e debbono diventare norma pubblica. Questa è la questione di fondo. Si discuta pure dei
Di.Co. e di altre forme di convivenza, circa le quali vanno garantiti i diritti civili, senza
discriminazioni, ma non si perda di vista il dato costitutivo della coppia umana. Forse basterebbe
richiamarsi all’etimologia di matrimonio, che fa mater munus, cioè ufficio della madre, per capirsi
meglio. Così come patrimonio si rifà a pater munus, cioè ufficio del padre. E allora si tratti anche della
famiglia, del matrimonio e dunque della coppia umana, che scoppia perché non c’è un’educazione alla
costruzione della coppia stessa, confondendo l’innamoramento e le sue estasi con l’amore, non
spiegando che l’amore è fatto di èros e di agàpe, cioè di passione, ma anche di condivisione,
comprensione e mutuo soccorso. Per cui, non appena finisce lo “stato nascente” (Alberoni, 1975), pare
che tutto sia finito, morto e sepolto. Su ciò non è esente da colpe anche la Chiesa cattolica, che ha
alimentato una sessuofobia feroce nei secoli, sulle tracce di un malinteso agostinismo, e trascurando la
lezione forte che viene dai Padri (cfr. Origene e il suo Commento al Cantico dei cantici), dai mistici
medievali (Bernardo di Clairvaux, Beatrice di Nazaret, Meister Eckart, Gertrude la Grande; Ildegarda
di Bingen, Johann Tauler) e carmelitani (Teresa d’Avila e Giovanni della Croce), e soprattutto da una
lettura evangelica un po’ più attenta. La coppia umana va istruita circa la sua essenza e il suo
significato, e di questo nessuno se occupa come se ciò fosse un automatismo, e non anche frutto di
educazione e di esempi buoni, evitando di banalizzarne il fondamento e le scorciatoie minimaliste.
Senza fare confusione tra ciò che è il matrimonio, e ciò che è altro, che di quello non ha la natura, né la
struttura ontologica.
Don Chisciotte e il Gigante
In un giorno qualsiasi di quest’ultima estate, nell’ora meridiana quando il sole è più alto, la grande
vettura si era fermata nella piazza della città.
Forse era Murcia o Toledo, forse Massafra o Carcassonne, forse era Gubbio o Pordenone. L’esperto
del bar Sport aveva sentenziato: è un Cayenne 500 S da quattrocento cavalli. Da 0 a 100 KM/H in
quattro secondi. Quattro chilometri con un litro. Il rombo che l’aveva accompagnata era stato
premonitore: pareva fossero aperte le cateratte della benzina, quasi un rotolare rabbioso di pistoni e un
caldo insopportabile all’intorno. Le ruote erano alte settanta centimetri e larghe trentacinque.
Messa di traverso, scura brillante, sembrava “La Macchina Nera” di spielberghiana memoria. Ne era
sceso un giovanotto strafottente e un po’ trasandato, di quelli che pensano di non dover nulla a
nessuno.
Fu allora che si senti sull’acciottolato della piazzetta il rumore, insolito per i tempi, dello scalpitio di
un cavallo, accompagnato dal più lieve trepestio di un altro animale, e si vide subito, un asino o un
mulo.
Alto, bardato di tutto punto, ieratico e altero, la corazza leggera indosso e con la picca in resta, era
apparso Don Alonso Chisciano, più conosciuto con il nome che il suo biografo Don Miguel de
Cervantes y Saavedra aveva consegnato alla storia, Don Chisciotte, o per meglio dire Don Quiyote de
la Mancha, Hidalgo insigne e Grande de Espaňa. Appena dietro caracollava il suo servitore e scudiero,
noto al popolo come Sancho Panza.
Stavano da tempo viaggiando per salvare donzelle e vedove da pericolosi pretendenti, e per aiutare i
derelitti negli ardui perigli che la vita poneva loro davanti. Avevano affrontato giganti immani, e feroci
briganti agli angoli delle strade, dove erano in agguato nella penombra.
Ora i due si trovavano di passaggio per quella città.
Quando Don Chisciotte vide quel grande oggetto nero su quattro ruote, esclamò: “Mio buon scudiero,
siamo di nuovo chiamati ad affrontare un grande periglio. Non vedono forse i tuoi occhi valorosi un
nero gigante in agguato? Non sentono forse le tue narici il puzzo degli effluvi mefitici che esso emana?
Vedi, mio buon Sancho! La nostra vita è per questo, dobbiamo esporci a ogni rischio per l’onore della
Spagna”.
Sancho, un poco interdetto, non capì la filippica del suo padrone e signore.
Si limitò ad annuire e, sceso dal mulo, che impastoiò rapidamente vicino a un negozio, dette una mano
a Don Chisciotte, che pure desiderava scendere dal suo nobile destriero, chiamato, com’è noto nei
cinque continenti, Ronzinante.
Il portamento dell’Hidalgo era superbo, ma non della superbia viziosa di chi si sente superiore a ogni
altri, quell’albagia che ristagna negli occhi dei prepotenti, quando marcano il territorio, con parole, atti
o simboli. Egli era fiero di una nobiltà che gli apparteneva nel cuore e si rifletteva nel portamento.
Il Nobile della Mancha, sgranchitosi dopo la lunga cavalcata, si era portato vicino al Suv,
commentando: “E’ un grosso gigante dormiente, Sancho, dovremo intervenire non appena si sarà
svegliato, o quando sarà necessario”.
Con gesti tranquilli, poi, si era seduto sul sagrato della vicina Collegiata, e aveva condiviso del pane e
fichi con il suo buon scudiero. Si erano poi dissetati alla fontana di acqua fresca che borbottava in un
angolo della piazza.
A un certo punto Don Chisciotte, che non aveva mai perso di vista il Gigante-Suv, notò un crocchio
che si stava formando intorno, dove un tale gesticolava più degli altri, come stesse spiegando qualcosa
di importante e dovesse così aiutarsi con i gesti.
L’Hidalgo percepiva, qua e là, qualche parola. “…con questa … lasci sul posto … te ne freghi …
parcheggi dove vuoi … quei pirla delle utilitarie … se ti presenti con questa sei … tutto a posto…”, e
altri borbottii dello stesso tenore.
Allora Don Chisciotte sollecitò Sancho: “Andiamo mio buon scudiero, ché dobbiamo fare giustizia di
tanta protervia. Quell’uomo dice che con il gigante può convincere chiunque, spaventandolo, che lui ha
sempre ragione. Andiamo a fargli capire che questo non è onorevole”.
I due si avvicinarono al gruppetto e Don Chisciotte apostrofò lo stupito e orgoglioso proprietario del
Suv: “Voi, che credete di poter fare ogni soperchieria, perché avete al guinzaglio quell’orrido essere,
quel mostro nero come la pece, venuto dal più profondo degli inferni, voi, sì, dico a voi, state in
guardia, perché se io e il mio valoroso scudiero vi troveremo sulla nostra strada, vi avverto, assaggerete
la durezza della punta delle nostre picche!”.
E, girati i tacchi, l’Hidalgo se ne tornò verso la scalinata per finire il suo pane e fichi.
La risata dei quattro cinque perditempo fu fragorosa, e tutto finì lì, per il momento.
La strada per la prossima città era lunga, il caldo sole di piena estate faceva ansimare Ronzinante e il
mulo.
Don Chisciotte era immerso nei suoi profondi pensieri di giustizia, e forse anche nei ricordi della sua
Dulcinea, che aveva lasciato nel Toboso, per adempiere ai suoi alti doveri.
Un frinir di cicale accompagnava il lento ma continuo procedere delle bestie.
Ad un tratto, da lontano, si levò una nuvola di polvere, sulla loro stessa strada. Sancho avvertì il
padrone e Don Chisciotte si rese conto che quel gigante nero si stava avvicinando a velocità
preoccupante. Si limitò a porsi sul ciglio della strada e attese. Quando l’auto fu a meno di cento metri
da loro, pose la picca in resta, e ordinò a Ronzinante di caricare. Il vecchio fedele destriero abbozzò un
passo di carica, ma poi desistette caracollando verso l’erba del ciglio della strada. Il Suv li oltrepassò
come un lampo, con l’autista incredulo che continuava a guardare e a ridacchiare, la testa girata verso i
due.
Alla curva successiva il Suv, che era un Gigante, capitombolò nella spoglia brughiera.
Fece innumerevoli rotazioni su di sé e poi si fermò in una nuvola di polvere. Nel frattempo i due
cavalieri avevano ripreso il cammino e si erano avvicinati al luogo dell’incidente. L’autista del Gigante
era seduto nell’erba secca, pesto e sanguinante, ma vivo. Belava: “aiuto, aiuto”.
L’Hidalgo, senza indugiare, ordino allo scudiero di trarre dalla sacca le bende e l’olio d’aloe per curare
il ferito, che li guardava attonito.
Finita l’incombenza Don Chisciotte e Sancho risalirono sulle loro cavalcature e sparirono all’orizzonte.
Il sole stava finalmente tramontando, e due ombre, di cui una più lunga, si stagliavano nella sera, lente
nel loro incedere, ma sicure, inesorabilmente dirette verso nuove avventure.
Un uccello notturno li salutò quando entrarono nella città turrita, e la ronda, che aveva riconosciuto
l’Hidalgo, li salutò con rispetto incrociando le alabarde.
Edith Stein
Dove sarà Edith Stein, si chiede una canzone struggente con la voce intensa di Giuni Russo. Dove sarà,
anche lei, e il suo mèlos. Ascolto il canto che si spegne lontanandosi, sul nome di Edith, la ragazza
ebrea tedesca. E riascolto questo cd che mi intriga con la sua melodia, e le parole. La parola, che resta
come impressa sub specie aeternitatis, nel tempo e nello spazio ordinari, miei.
Il Carmelo di Echt è lontano nel tempo e nello spazio, oramai. Il suo grande silenzio.
Così è lontana Breslavia e le lunghe discussioni con la madre. E gli studi amatissimi con il professor
Husserl a Gottingen, e le discussioni con Max Scheler e Adolf Reinach sulla possibilità di avere
nozione della verità delle cose e di una morale, approfondendo la scheleriana nozione di empatia,
chiosando le Quaestiones disputatae de veritate e il De ente et essentia di san Tommaso d’Aquino.
Edith studia Bonaventura e Giovanni Duns Scoto. Le riesce una meravigliosa sintesi filosofica fra il
realismo tommasiano e la fenomenologia di Edmund Husserl, specialmente con l’opera “Potenza e
Atto”, e un commento al pensiero di Heidegger in “Endliches und ewiges Sein “ (Essere finito ed
Essere eterno).
A Bergzabern, nel Palatinato, a casa di Hedwig Conrad-Martius legge l’autobiografia di Teresa
d’Avila, tutta d’un fiato, in una sola notte. Hedwig le vede piangere, lei e sua madre che la rimprovera,
e dice “Vedi, due israelite e nessuna è insincera”.
Nelle ultime pagine della sua dissertazione di laurea c’è un pensiero “(…) Ci sono state persone che in
seguito ad un’improvvisa mutazione della personalità hanno creduto di incontrare la misericordia
divina”. Diventa cristiana.
Insegna a Speyer e a Münster, tiene conferenze a Praga, Vienna, Salisburgo, Basilea, Parigi, dove
incontra Jacques Maritain, e, quando Hitler va al potere, nel 1933, il 14 ottobre Edith ottiene il
sospirato permesso dal suo direttore spirituale, il padre Erich Przywara, di entrare nel Carmelo di
Beuron a Colonia, come suor Teresa Benedetta della Croce.
Quando l’anno dopo torna a Breslavia per salutare la madre, che non vedrà più, questa le dice “(…)
Non voglio dire niente contro di Lui. Sarà stato anche un uomo buono. Ma perché s’è fatto Dio?”
Il primo gennaio del 1938 fugge dalla Germania, dove bruciano le sinagoghe, e si ferma in Olanda, nel
Carmelo di Echt. Il 9 giugno 1939 scrive nel testamento “Già ora accetto con gioia, in completa
sottomissione e secondo la Sua santissima volontà, la morte che Iddio mi ha destinato. Io prego il
Signore che accetti la mia vita e la mia morte (…) in modo che il Signore venga riconosciuto dai Suoi
e che il Suo regno venga in tutta la sua magnificenza per la salvezza della Germania e la pace del
mondo (…).
La ragazza ebrea, nata il 12 ottobre del 1891, mentre la famiglia festeggiava lo Yom Kippur, è
arrestata dalla Gestapo, assieme a sua sorella Rosa, fattasi carmelitana con lei, e prelevata da Echt il 2
agosto del 1942. Viene portata al campo di raccolta di Westerbork. All’alba del 7 agosto parte un treno
carico di 987 ebrei per Oswiecim (Auschwitz). Muore con la sorella e molti altri deportati, il 9 agosto
del 1942.
Dove sarà Edith Stein? Non riesco a staccarmi da questa domanda, perché mi viene da rispondere
“ovunque”, come è perenne ciò partecipa dell’essere.
Viaggia sempre il suo treno piombato, e stridono le ruote frenate nelle soste alle stazioni, che
rallentano il viaggio verso la pianura sarmatica, mentre il vapore si innalza nella campagna, presagio e
segno di altri fumi sparsi nell’aria. Urla e comandi secchi e raffiche, a rompere il silenzio di quella
notte estiva. Viaggia sempre, nella sua terra di origine, in quel Vicino Oriente che oggi si torce nel
tormento della storia, in quel Vicino Oriente che ci insegna e ci scandalizza da tremila anni. Viaggia
sempre con la sua messa in discussione di ogni sicurezza, di ogni consuetudine rassicurante, di ogni
banalità, che è sempre male (Hannah Arendt). Viaggia sempre con il suo sentimento di donna ebrea
tedesca cristiana maestra sorella nostra.
Edith Stein è anche qui, mentre ne scrivo, venuta con il vento che scende dalle pianure settentrionali, e
si infila nelle valli alpine fino alle grandi pianure, per indugiare sulla sponda dele nostre anime.
Eubiosia piuttosto che eutanasia
Una delle emergenze contemporanee è quella cognitiva, che va esaminata ancor prima di quella, a
parere mio altrettanto evidente, che concerne l’etica. La confusione dei linguaggi e dei messaggi causa
e denota l’emergenza cognitiva, influenzando nel contempo anche un’accezione rigorosa dell’etica,
come scienza del giudizio morale sull’agire libero dell’uomo.
Si tratta dunque di una dimensione critica della contemporaneità che si pone con forza crescente.
La conoscenza si esprime attraverso il linguaggio e i suoi codici (linguistico-verbali, non-verbale,
prossemico, etc.). L’elemento più determinante del linguaggio è la parola, detta e scritta. Solitamente si
intende la “parola” come un segno codificato il cui significato è noto e condiviso, e nella quale,
tuttavia, convivono accezioni diverse, ma quasi a titolo di sfumature culturali, locali o connotate
temporalmente (una parola cambia di senso nelle varie culture e tempi). A meno che non i tratti di
omografie, magari diversamente accentate, che hanno anche significati molto diversi, come nel caso di
“tradìto” (participio passato di tradire) e “tràdito” (forma participiale elegante di trasmettere, ad
esempio, un testo).
Dire che “la parola è simbolo” è affermazione apodittica, ardua in sé e di non facile mostrazione.
La Parola, con tutto il suo retaggio Loghico (da Lògos) e Verbale, con tutta la sua pregnanza extra-
semantica, che ad esempio è rappresentata dalle scritture sacre (e più dal Corano che dalla Bibbia,
opera quest’ultima di umani ispirati, non codice come il Corano, ex abrupto, divino), ma anche dalla
grande letteratura (Omero, Dante, Shakespeare, Eschilo, Tacito, Virgilio, Dostoevskji, Lutero,
Agostino, etc..).
Il Simbolo è quasi contraddictio in adjecto rispetto alla parola, poiché, se la parola è il segno-
significante-qualcosa, il simbolo, di per sé, in tutte le sue varianti metaforiche, è un segno-significante-
qualcos’altro.
Ecco il punto: cercare di mostrare come in qualche modo e misura anche la parola, inserita nel contesto
(cum-textum), diventi sempre simbolo, e dunque ogni testo, scritto o parlato, sfugga sempre (come
sensus rerum) ad un primo approccio o ad una lettura immediata. Si pensi, ad esempio, al linguaggio
poetico.
Il non-detto-conscio-inconscio, il non-voluto-dire-conscio, il detto-male, si aggiungono al non-capito-
letterale, al non-capito-metaforico, all’equivoco, alle infinite declinazioni, sfumature e varianti
dell’analogo.
Dunque, è primariamente perché non si ha nozione rigorosa dei termini e dei fatti rappresentati
verbalmente, che si scivola inesorabilmente nell’anomia, nella confusione concettuale prima e morale
poi.
Ad esempio, circa la drammatica vicenda di Piergiorgio Welby, molti media sono incorsi in un vero e
proprio cortocircuito semantico, continuando a definire un suo possibile esito con il termine di
eutanasia, termine esso stesso equivoco e utilizzato impropriamente. Infatti, eutanasia (dal greco eu –
thànatos) significa dolce o buona morte, ben altro dunque da ciò che è stata la soppressione per fame e
per sete di Terry Schiavo.
Nel caso di Welby, ciò su cui le istanze giurisdizionali si stanno esprimendo è l’accanimento
terapeutico, non l’eutanasia, così com’è intesa nella vulgata contemporanea. Non si parla, invece, mai,
di eubiosia, che significa buona-vita, il cui ultimo momento è quello della morte, secondo natura.
Evidentemente latitano in qualche misura le basi lessicali e cognitive per accedere a un flusso logico,
tale da poter proporre una posizione forte, sostenibile, indagatrice rigorosa dell’uomo e del suo mondo.
Ora si può
Ora si può fare (novembre 2008), dal momento che la Corte di cassazione ha rimosso ogni
impedimento formale. Il padre, tutore di Eluana Englaro, in stato vegetativo persistente (non
permanente, come scrive il disinformato) da molti anni, può organizzare quanto serve per il distacco
del sondino naso-gastrico che la alimenta e la idrata. Naturalmente con l’assistenza medica che la
sederà per non farla soffrire. Abbiamo visto qualcuno gioire per tutto ciò: vittoria ideologica da
festeggiare prima che uno muoia. In nome della libertà. Di quale libertà, di quella della ragazza,
definita “purosangue della libertà”, o di quella di chi sopravvive. Qual’è il dolore che va lenito? Quello
di chi soffre perché colpito direttamente dal male, o quello di chi soffre perché non riesce più a
sopportare il proprio dolore? Volenti o nolenti, con questo pronunziamento giuridico si sta
introducendo nell’ordinamento italiano qualcosa che non è solo il rifiuto dell’accanimento terapeutico.
Ma vediamo perché ciò che sta per accadere è eticamente illegittimo e illecito.
Se l’uomo è il razionale autocosciente, si differenzia, appunto, da tutti gli altri viventi per la capacità di
discernimento, e dunque anche per la naturale inclinazione a considerare le sue proprie azioni e quelle
degli altri secondo il criterio di “buone” o “male”. L’uomo, dunque, ha in sé dei principi morali chiari,
formatisi in molti modi, per cultura e per mutuazione ambientale: non uccidere, non rubare, non
truffare, rispetta i bambini e i fragili, aiutali, etc..
La vita che ha non proviene da un atto libero della sua volontà, bensì della libera volontà dei genitori, i
quali comunque non lo “possiedono”, come, al contrario, era previsto fosse per il padre-padrone-re
pastore nell’antico diritto romano e anche semitico. In ogni caso ogni uomo è un essere razionale, e
quindi tutti, nessuno escluso, sono depositari di una pari dignità ontologica.
Noi non possiamo “possedere” un essere umano, poiché si può possedere solamente una “cosa”, un
oggetto.
L’essere umano, anche quando è fragile, debole, malato, vecchio, non si configura mai come “cosa”,
che si può possedere e di cui si può disporre.
Da un punto di vista meramente etico-razionale, se gli assunti di cui sopra sono condivisibili, nessuno
di noi può decidere della vita e della morte di un altro.
E vengo alla tesi sostenuta dalla famiglia.
“Voglio rispettare le volontà di mia figlia, non quelle della chiesa, etc..”. Però, coerentemente con
quanto detto sopra, se nessuno di noi possiede alcuno, come essere umano, neppure noi stessi “ci”
possediamo, in quanto non ci siamo autodeterminati, né abbiamo diritto di agire su noi stessi come se
ci possedessimo. Come genitori, quando mettiamo al mondo un figlio, abbiamo solo il supremo dovere
di fare i genitori fino in fondo, fin che basta, fin che viviamo. Abbiamo “solo” un “mandato” sui figli:
non possiamo esercitare un diritto di proprietà.
Come esseri umani abbiamo il dovere di rispettare il “mandato” che ci è stato conferito, sulla nostra
vita, rispettando il nostro corpo e la nostra psiche, accettandoci anche quando non siamo più in salute
perfetta, o siamo nella malattia e nel dolore. Circa poi l’opinione che si dice avesse Eluana (a
vent’anni) nei confronti di una vita che meritasse d’essere vissuta, basti solo dire che chiunque di noi, a
vent’anni e non solo, probabilmente direbbe le stesse cose.
E infine, chiediamoci che cosa significa “qualità della vita”, o “vita degna d’esser vissuta”. Chi decide
quale è il punto oltre il quale questa dignità non c’è più? Chi può sapere con assoluta certezza se e che
cosa ora prova Eluana. Chi può sapere che cosa avrebbe pensato oggi? Semmai è urgente una legge sul
“fine vita”, che, nel caso in questione, potrebbe addirittura regolamentare la possibilità di affidamento
della persona inabile a chi volesse/potesse occuparsene, come, nel caso di Eluana, alle suore
dell’Istituto dove è ricoverata.
E infine: chi può decidere che la vita umana è degna di essere vissuta solo se si è nel pieno delle nostre
facoltà possibili? Nessuno. La stessa espressione linguistica che fa riferimento allo “stato vegetativo” è
un’analogia partecipativa, e non va presa in senso proprio. Da ultimo, si dice che dobbiamo lasciar fare
alla “natura”. Bene, ma non dimentichiamoci che l’uomo è anche “cultura” e sapere scientifico, di cui
ha il dovere di usufruire con equilibrio e raziocinio.
Perché si continua a parlare di Eluana
Da quando il caso è stato reso di dominio pubblico dalla famiglia, gli echi della vicenda continuano a
risuonare, nonostante i poco credibili appelli al silenzio, spesso violati da chi li lancia.
Una domanda che ci si può fare riguarda il perché di tanta e accorata partecipazione di persone, che
intervengono, dicono la loro con passione, analizzano, contestano, imprecano.
Me lo sono chiesto e l’ho chiesto ad alcuni pensatori contemporanei alle tesi dei quali mi sento molto
affine. Buber, Ricoeur e Jaspers, se pure sotto diversi profili, hanno smascherato l’intangibilità
cartesiana dell’essere di coscienza, das Gewissen, che sarebbe il giudice unico delle azioni umane,
accettando in parte la lezione dei cosiddetti maestri del (legittimo, ndr) sospetto Marx, Nietzsche e
Freud, che a loro volta avevano smascherato la coscienza come giudice intangibile delle azioni umane,
e in parte criticandola per avere ridotto la colpa soggettiva (soprattutto Freud e Marx) al senso di colpa,
che andrebbe meramente elaborato e superato.
Perché si pone il problema della colpa? Perché la colpa coesiste con l’agire umano libero, che per sua
natura è imperfetto, e non si nullifica con il superamento del senso di colpa. Buber, ad esempio,
suddivide i fori del giudizio sulla colpa in tre dimensioni: il diritto, la coscienza e l’ambito religioso.
Non v’è dubbio che il diritto, che è il locus pubblico-politico, ha voce in capitolo sulla colpa, che va
confessata ed espiata con la pena. Nel caso in cui l’uomo sia un credente in Dio, hanno voce in capitolo
anche le forme della confessione e dell’espiazione, pubblica (come nell’ebraismo e nel primo
cristianesimo) o privata (come nel cristianesimo cattolico e ortodosso odierni). Resta la questione della
coscienza, cioè del foro interiore. Ma Buber accetta la lezione di Freud e di Marx ammettendo che la
coscienza può essere falsificata. Vi è infatti la falsa coscienza. Anche la dottrina morale classica
distingue tra retta coscienza e coscienza erronea in vari gradi e per vari motivi.
E allora Buber propone un processo in tre movimenti: l’autorischiaramento (Selbsterhellung), che è un
processo doloroso di ammissione della colpa, la perseveranza (Beharrung), che consiste nella costanza
virtuosa dell’ammissione della colpa, e infine l’espiazione (Sühnung), che si rende necessaria come
riparazione di una violazione che ha ferito l’essere stesso, cioè se stessi, gli altri e il mondo (e Dio).
Ecco: mi pare di poter azzardare che le persone che intervengono sul caso della carissima Eluana
sentono in qualche modo una specie di lesione dell’essere di cui fa parte (nel senso che partecipa del)
ineluttabilmente anche Eluana, la quale conserva, anche nel suo stato, il patrimonio antropologico di
cui è dotato l’umano, sia come struttura di persona (corporeità, se pure ferita, psichismo, se pure ferito,
e spiritualità, di cui non sappiamo nulla), sia come struttura di personalità (genetica, che l’ha
biologicamente costituita, ambientale ed educazionale, che l’ha fatta crescere fino all’incidente, e
comunque, fino ad ora, di cui sappiamo non tutto).
Queste persone, in qualche modo forse anche confuso, si “sentono in colpa” perché non possono di più
per Eluana, che considerano sorella, figlia, amica. E si sentono di tutelare anche quell’essere-di-
coscienza di Eluana, che, anche se non possiede attualmente le sue prerogative operative, comunque è
stato tale e nessuno può dire che in qualche modo non sussista ancora. E in ogni caso intuiscono che
non basta l’essere-di-coscienza per decidere ciò che è bene e ciò che è male, ma bisogna fare i conti
con l’essere stesso dell’umano, e per chi crede, del divino. E allora intervengono, scrivono, sollecitano,
si inquietano. Come me.
Galateo
La maleducazione dilaga, il bullismo devasta le scuole, i telefonini pervadono i luoghi e le sensibilità,
si fanno miserevoli esibizioni di sesso in aula (Ancona, Firenze, Sardegna, e altrove), e i presidi
minimizzano o sono presi in contropiede, l’approssimazione cognitiva si diffonde, l’impoverimento
semantico e la confusione lessicale nei linguaggi sono oramai una pandemia, la disattenzione impera e
l’arte dell’ascolto latita. Uno scenario quasi post-umano. Un elenco che rappresenta il bicchiere mezzo
vuoto della realtà effettuale odierna. Non tutto ovviamente è di tal fatta, ma occorre preoccuparsi
severamente di codesta deriva. Che nasce non casualmente, né per genesi e processi non indagabili.
Osservo che alcuni fenomeni degenerativi che investono il sociale, come il bullying (a scuola) o il
mobbing (sul lavoro), vengono spesso analizzati come effetti di una società incapace di metabolizzare
gli stessi stress che induce e produce. Ma si tratta di una lettura insufficiente, che pecca di
sociologismo e di politically correct. Bisognerebbe convenire sulla necessità di un’analisi profonda
delle cause, dell’humus, della struttura valoriale (o dis-valoriale) che l’hanno prodotta, in decenni di
diffusione del pressappochismo cognitivo ed etico. Si è iniziato con il contestare i principi (di realtà, di
causalità, di identità e di non contraddizione, etc.), confondendo il principio in se stesso con la qualità
della sua applicazione (ad esempio non distinguendo tra l’autorità esercitata autorevolmente e l’
autoritarismo), si è proseguito con la denigrazione del principio del potere, che va esercitato nei vari
ambiti, sia esso naturale (genitorialità) sia esso delegato (democrazia rappresentativa), sebbene sempre
con juicio (Pedro!), e così affidando tutta la conoscenza al sofisma estremo del soggettivismo, negando
la conoscibilità oggettiva del reale, sia pure nei limiti definiti, ma sempre in movimento, della ricerca
scientifica attuale.
In seguito si è silenziosamente accettato che anche la scienza etica sia sprovvista di principi primi,
cosicché si è potuto ritenere opinabile perfino il giudizio sull’infibulazione o su altro di lesivo
dell’integrità psico-fisica dell’essere umano. Anche sulle tracce, ma seguite maldestramente, di un
Levi-Strauss e di un “culturalismo” approssimativo e inetto. La stessa strage di Erba si innesta e trova
delle concause in questa vacuità, in questa approssimazione, in questa confusione, che ha generato
permissivismo inetto e silenzi conniventi nei processi pedagogico-sociali dell’ultimo trentennio.
E ora ci si sta chiedendo “che succede?”, incapaci di individuare le cause profonde di tanta
devastazione. Se lo chiedono attoniti, stupiti (e un po’ stupidi) miriadi di maestri di opinione, di
intellettuali, di terapeuti, di politici, senza neppure sognarsi di guardare se stessi allo specchio. Se lo
facessero noterebbero alcune rughe di espressione ai lati degli occhi, dovute alla consuetudine dei
miopi, di strizzare le palpebre per mettere a fuoco, non rassegnandosi all’occhiale. L’occhiale che
manca è la disponibilità alla ricerca e all’approfondimento intellettuale dei tematismi che sono base e
origine di ogni riflessione razionale: il discorso antropologico sull’uomo, innanzitutto, e dunque la
qualificazione di un’etica declinata secondo il principio della persona come fine.
Ho una modesta proposta da farti, lettore gentile, una breve bibliografia: oltre allo studio dell’Etica
Nicomachea del padre Aristotele, lettura obbligatoria per qualunque persona di buon senso,
riprendiamo in mano l’Enciclopedia della Fanciulla (Fabbri Editori, 1963) e il leggero volumetto Si fa
non si fa, (di Barbara Ronchi della Rocca, edito da Vallardi - Garzanti, 1992). Se qualcuno lo trova,
consiglio anche Il Galateo di monsignor Giovanni della Casa, vescovo di Benevento e poi nunzio
papale a Venezia (1503 - 1156). Una curiosità: Galateo deriva da Galatheus (Galeazzo), e il della Casa
utilizzò il termine in onore del vescovo Galeazzo Florimante, vescovo di Sessa Aurunca, il quale lo
incoraggiò nell’impresa di scrivere un manuale delle buone maniere e del comportamento. E infine,
magari, può essere divertente dare uno sguardo al Trattato della vita elegante, scritto dal signore
Onorio di Balzac attorno al 1830 sulla rivista La Mode a Parigi, (Savelli Editori, 1982), o, per finire,
può essere conveniente dare una sbirciatina alle Istruzioni per la servitù di Jonathan Swift (Piccola
Biblioteca Adelphi, 1984), allo scopo di riscoprire il de minimis, non altro.
Garganica
Bardali, Baruli o Bardulos sono i nomi arcaici di Barletta. Di lì, dall’Hotel dei Cavalieri, non so se di
Fieramosca o di La Motte, mi muovo per il Gargano una domenica mattina dello scorso giugno, con
l’ingegnero Francesco e Orazio, suo figlio. Le saline di Margherita di Savoia pullulano di fenicotteri
rosa nella bruma di una stagione strana. Il promontorio si staglia e i tornanti sinueggiano verso Monte
S. Angelo. San Michele è stato qui, dicono le tracce antichissime nella roccia dove è scavata la
Basilica. Si scende nelle viscere della montagna dai tempi bizantini, longobardi e svevi. Giù fin nella
navata angioina della chiesa rupestre. “Terribilis est Locus iste/ hic Domus Dei est/ et Porta Coeli/”
(Questo è un luogo terribile, qui è la casa di Dio e la porta del Cielo).
La manifestazione del Superno e del Sacro. La Traditio afferma che apparve al vescovo Lorenzo
Majorano di Siponto l’8 maggio del 490, e poi nel 492 e nel 493. Un’altra apparizione è tràdita
dell’anno 1656 al vescovo di Manfredonia Giovanni Alfonso Puccinelli, per intervenire sulla epidemia
di peste che imperversava, con grazie di guarigione. Il Puccinelli iscrisse in latino “Al principe degli
angeli/ vincitore della peste/ patrono e custode/ monumento/ di eterna gratitudine/ Alfonso Puccinelli/
1656/”. Meta obbligatoria dei Crociati, saccheggiata dai Saraceni, punto di arrivo e di partenza per i
pellegrini che di lì andavano a Mont Saint Michel di Francia, e da lassù tornavano.
“Il Santuario di San Michele è dovunque conosciuto ed esaltato non per lo splendore dei suoi marmi,
ma per gli eventi prodigiosi che qui sono avvenuti: di forma modesta, esso è, però, ricco di celesti
virtù, poiché si degnò di edificarlo e consacrarlo lo stesso Arcangelo Michele, il quale, memore della
fragilità umana, scese dal cielo per fa sì che in quel tempio gli uomini potessero divenire partecipi
delle cose divine”, così un anonimo scrittore del 1000. Ne parla il Martirologio Geronimiano e una
lettera inviata da papa Gelasio I nel 493 al vescovo Giusto di Larino e in un’altra lettera al vescovo
Herculentius di Potenza. È in seguito ne parla il Liber de apparitione sancti Michaelis in Monte
Gargano dell’VIII secolo, in modo più circostanziato.
La Foresta Umbra copre metà promontorio con un paesaggio di tipo prealpino, mucche al pascolo e
ombra, foresta umbrae di roverelle, lecci e lentischi.
In fondo, a picco sull’Adriatico è Vieste, arroccata a chiudere la conca sabbiosa di Pizzomunno. Si
legge nelle cronache locali che “Pizzomunno, valente pescatore, era un giovane bellissimo di cui si
innamorò perdutamente monna Cristalda. Ma le sirene che volevano Pizzomunno tutto per loro una
notte che i due giovani si erano appartati, rapirono Cristalda e la trascinarono in fondo al mare.
Allora Pizzomunno rimase pietrificato dal dolore. Davanti alla spiaggia sta di presidio un faraglione
bianco, che da allora ha avuto il nome dello sfortunato pescatore. Ma si dice che ogni cento anni
Cristalda ritorni dai flutti per stare ancora insieme a lui che l’aspetta”. Ma forse Cristalda si chiamava
Viesta. Abitata dai tempi dei Romani, vide passare Bizantini e Longobardi e Veneziani, che ne fecero
sacco nel 1239. La pietra di Chianca Amara, vicino alla cattedrale, ricorda un eccidio: Dragut Rais fece
decapitare migliaia di viestani nel 1554.
I trabucchi da pesca sono tesi sul mare attorno alla città che attende l’alba. Stradine e vicoli quieti si
inerpicano verso il castello offrendo scorci silenziosi verso oriente. Una targa ricorda che ivi fece sosta
Celestino V, fra’ Pietro di Morrone, quello del gran rifiuto.
Il percorso sinuoso della costa va verso Pugnochiuso e Mattinata. Due alberghi di lusso in fondo alla
Baia delle Zagare. Ricordi lontani e dolci, (e non mai domi), d’altre zagare. “Si può vedere il mare?”,
“Sì, dice la guardia armata, diventando ospiti dell’albergo”. La bellezza in vendita. Forse a chi
commissiona gli incendi. Per dieci chilometri la macchia è bruciata, moncherini di pini italici anneriti.
Che dire dell’insipienza umana di fronte a tanto disastro? Che questo “andare-contro-gli-astri” è un
andare contro il cielo. Nemesi si invoca alla vista di tale rovina e ti prende lo sconforto. Si invoca San
Michele e la sua spada. Poi la strada ritorna verso la pianura. Orazio dorme, stremato dalla lunga corsa
e sogna di galee e di cavalieri, prima del risveglio attonito, al crepuscolo.
Lo scetticismo come ricerca (la skèpsis).
Nel terzo secolo a. C. la scuola platonica dell’Accademia mutò orientamento, sotto la spinta di
Arcesilao di Pitane, allievo del matematico Autolico e dell’aristotelico Teofrasto. Arcesilao non
scrisse alcunché, come Socrate, perché riteneva che nulla di certo si potesse assolutamente affermare
sulla realtà, o molto raramente e solo per le evidenze oggettive e le certezze soggettive, e che su tutto il
resto bisognasse, dopo avere ragionato, sospendere il giudizio (epochè).
Pirrone di Elide (365 – 275 a. C.) continuò sulla strada di Arcesilao, dopo un’esperienza militare che
lo segnò profondamente (fu con Alessandro il Macedone fino ai confini dell’India), e non scrisse nulla.
Il suo discepolo Timone di Fliunte, il quale invece lasciò dei testi sul maestro, riferisce che forse
Pirrone fu influenzato dai sapienti indiani, i gimnosofisti, che se ne stavano nudi a meditare senza
esprimere mai giudizi. Pirrone emerge dagli scritti dell’allievo Timone come uno scettico puro,
dubbioso anche delle sensazioni (cfr. l’esempio del remo che sott’acqua appare spezzato), sostenitore
del silenzio e dell’afasia, cioè di un atteggiamento improntato ad una grande prudenza cognitiva. Forse
anche Carneade (quello del quesito di don Abbondio), aderì in qualche modo alla scuola scettica. La
filosofia scettica si scompone per quattro secoli in mille rivoli, sopraffatta dal medio-platonismo,
dall’aristotelismo e dallo stoicismo, ma riemerge nel II secolo d. C. con Sesto Empirico, il quale, negli
Schizzi Pirroniani, polemizza duramente contro tutti i filosofi che egli chiama dogmatici, cioè gli
appartenenti a tutte le scuole maggiori (cfr. supra). Diogene Laerzio, nelle Vite dei filosofi, riporta
un’influenza stoica in Pirrone, ma Sesto Empirico lo nega: l’epochè (la sospensione del giudizio), e
l’acatalepsìa (l’incomprensibilità), sarebbero concetti attribuibili direttamente a Pirrone di Elide. Gli
scettici classici, dunque, sostenevano che fosse da credersi eventualmente vero solo ciò che fosse
ragionevole (èulogon), e probabile (pìthanon), e che l’unico atteggiamento saggio da tenere fosse
quello dell’imperturbabilità (ataraxìa). È il “sapere di non sapere” socratico, riportato alle origini, che
troverà un millennio e mezzo dopo un grande mentore nel cardinale Nicola da Cusa, con la sua
nozione di docta ingnorantia.
Nicola di Autrecourt nasce all’incirca nel 1295-98 (diocesi di Verdun), dopo avere studiato teologia
alla Sorbonne di Parigi con Marsilio da Padova, Siger de Courtrai e John da Jandun, è nominato
canonico e poi decano nella cattedrale di Metz. Muore nel 1369. Lo cito perché il suo pensiero può
essere ascritto allo scetticismo, come autore di alcune opere e corrispondenze (con fra’ Bernardo
d’Arezzo francescano), nelle quali sostiene che possa darsi come plausibile il solo principio logico-
metafisico di non contraddizione, il quale permette di dedurre la differenza fra due oggetti A e B,
negando invece ogni certezza al principio di causalità, e così quasi anticipando la critica humeana. Fu
anche processato ad Avignone presso la corte papale dal 1340 al 1346, quando furono condannate 66
sue proposizioni teoretiche. Gli scritti di Autrecort furono bruciati al Pré-aux-Clercs o al Pré-de-Saint-
Germain a Parigi, e il teologo fu costretto a ritrattare pubblicamente le proprie posizioni sia ad
Avignone, sia all’Università di Parigi.
Michel, Seigneur (conte) de Montaigne nel Périgord, nasce da una famiglia mercantile nobilitata due
generazioni prima, verso il 1520, e studia diritto a Tolosa e/o a Parigi. Dopo essersi occupato delle
proprietà di famiglia per una ventina d’anni, si ritira “a vita privata” (beato lui), dedicandosi alla
meditazione e alla scrittura. I classici latini, Virgilio, Cicerone, Plutarco, Seneca, Lucrezio, lo
accompagnano nel lungo viaggio di esplorazione dell’essere umano, delle sue passioni, delle sue virtù,
dell’educazione, della sua varia condizione, del dolore, della morte. Negli Essays, Monsieur de
Montaigne delinea quello che dovrebbe essere il compito del saggio e del filosofo, la conoscenza di se
stesso, dei propri limiti, nella complessità che lo contraddistingue, anche contraddittoriamente. Egli
esalta in ogni modo la libertà di pensiero, di ricerca e di azione: “(…) sono così assetato di libertà che
mi sentirei a disagio anche se mi venisse vietato l’accesso ad un qualsiasi angolo sperduto dell’India
(…)”, afferma in un passo dei Saggi.
David Hume (Edimburgo 1771 – 1776), è solitamente accomunato ad altri due pensatori inglesi, i
British Empiricists, Locke e Berkeley, con i quali certamente condivise un’impostazione gnoseologica
empirista, ma dai quali va distinto rigorosamente. Infatti, i suoi interessi maggiori furono la filosofia e
la letteratura. Nella Ricerca sull’intelletto umano (Londra, 1748) perfezionò la posizione per la quale
risultò così importante nella storia del pensiero successivo (Kant). Criticò il principio di causalità, per
il quale il fatto B sarebbe causato dal fatto A (cfr. l’esempio del biliardo dove la pallina A colpisce la
pallina B e la mette in movimento). Hume sostiene che l’intelletto umano non deve assuefarsi
all’abitudine della credenza dell’evidenza (hoc propter hoc, questo a causa di questo) poiché non è
detto che in qualche modo tale evidenza possa venire meno (hoc post hoc, questo dopo questo),
quantomeno in termini relativi, cioè in qualche zona dello spazio (e del tempo, ndr).
Con Hume inizia con chiarezza il percorso epistemologico che porterà il pensiero filosofico e
scientifico contemporaneo alla relatività generale (Einstein), e al principio di indeterminazione
(Heisenberg).
Il potere e gli scodinzolanti
Ovvero, potremmo dire, il potere e i genuflessi. I potenti di ogni tempo e luogo hanno sempre avuto (e
hanno) bisogno di seguaci, più o meno dignitosi o, di converso, servili, appunto, gli scodinzolanti che,
come i cani degli antichi castelli, si affannano attorno al loro signore e padrone, per avere un osso da
leccare o una prebenda da portare a casa. E si fanno manipolare e dominare e comandare, ma proni,
non mai eretti, dignitosi, uomini. Lo osserviamo nel mondo della politica innanzitutto, ma anche in
quello economico, delle imprese.
Ho appena riletto il bel libretto di Hugh Freeman, (Le malattie del potere, Garzanti – I Coriandoli,
1994, trad. dall’inglese The Human Brain and Political Behaviour, articoli tratti da “The British
Journal of Psychiatry”, 1991, 159, 19 – 32) psichiatra inglese, studioso di biografie (e cartelle cliniche)
degli uomini politici, da cui si evincono molte cosette interessanti. Da Hitler alla Thatcher, da Stalin a
Franklin Delano Roosevelt, Freeman individua dei minimi comun denominatori che hanno, da un lato
“prodotto” il leader carismatico, dall’altro le accentuazioni anche patologiche che hanno portato alcuni
di questi capi a superare il limite e ad agire in modo criminale, talora assecondati da una folla di
ipnotizzati o di personaggi che basavano il loro piccolo potere sul grande potere del leader, e dunque lo
tutelavano, anche quando diventava preda della paranoia (Stalin), del parkinson precoce, istrionismo,
paranoia (Hitler), di handicap fisici (il kaiser Guglielmo II) o della senilità (Breznev, Mao, Thatcher,
Franco, etc, e oggi, forse, Fidel Castro).
Un altro aspetto segnalato dal Freeman è quello relativo all’atteggiamento delle masse nei confronti dei
leader. E qui lo studioso inglese si appoggia alla non scarsa letteratura psico-sociologica dell’ultimo
secolo e mezzo, a partire da Max Weber. In particolare, tra molti altri, egli cita G. Bateson, (1972)
autore di Steps to an Echology of the Mind (San Francisco, Chandler, trad. it. Verso un’ecologia della
mente, Adelphi 1988), J. Van Ginneken (1992) autore di Crowds, Psychology&Politics, 1871 – 1899
(Cambridge, Cambridge University Press, trad. it. Folla, psicologia e politica, Pieraldo, Roma 1991),
Y.Y.I. Vertzberger (1990) The World in their Minds, (Stanford, Stanford University Press), A.
Sinjavskij (1990), Soviet Civilisation: a Cultural History, (New Jorh Arcade/Little Brown), il francese
G. Le Bon (1895), autore di Psichologie des Foules (Paris, Alcon, trad. it. Psicologia delle folle,
Mondadori, 1982), e H. L’Etang (1969) Pathology of Leadership, (London, Heinemann).
Per Freeman è soprattutto Le Bon lo studioso cui riferirsi per la psicologia delle masse. In Psychologie
des Foules, troviamo una conclusione preoccupante: “(…) la folla è sempre intellettualmente inferiore
all’uomo isolato (…). Personalmente ed empiricamente l’ho sempre pensato. È come se, nella folla,
scendesse di diversi gradi la soglia critica dell’intelletto, per cui si è portati ad agire come fanno i più
(le adunate oceaniche nei regimi totalitari, le manifestazioni che sconfinano nella violenza, magari
pilotate da provocatori, l’ambiente del calcio, ma anche, più modestamente, i gruppi gregari nell’agire
del bullying, i branchi giovanili, gli autori di bossing e mobbing aziendali, etc.).
Diversamente dagli animali che nel gruppo, nel branco o nello stormo trovano il loro sviluppo e
sopravvivenza (lupi, uccelli, api), l’uomo si degrada.
Ma lo fa anche nell’individuale, nel piccolo, quando si sottomette al suo capo rinunziando anche alla
dignità dei tratti personali. Ho assistito innumerevoli volte alla prostrazione informale del
cambiamento del tono di voce, dell’accelerazione del parlato, dell’imitazione della postura, al fine di
rassomigliare sempre di più al capo. Beninteso, si tratta di comportamenti esplicitamente non richiesti
dal leader stesso, ma altrettanto implicitamente ritenuti utili, se non addirittura necessari da parte del
subalterno. E così accadendo le cose, il capo, che può già avere le caratteristiche e i tratti di carattere
descritti sopra, matura il convincimento inconscio prima, per poi evidenziarlo, che tutto ciò gli è
gradito, anzi, dovuto.
I capi spesso amano la teatralità, il völkisch, cioè la popolarità populista, la recitazione del ruolo,
fors’anche qualche livello di ipnosi, e gli scodinzolanti, i genuflessi si adeguano, accettando di essere
manipolati.
Viene da chiedersi se ciò sia inscritto nelle strutture mentali arcaiche fino da quando eravamo
“cacciatori-raccoglitori”, cioè l’altro ieri, o se possa esservi una qualche evoluzione positiva, nel senso
dell’autonomizzazione e del rispetto di se stessi. Indomiti, proviamo.
I “santoni del nulla”
Da anni mi annoio di “santoni” (che mi paiono del “nulla”), cuginanza evidente con i “professori del
nulla”, e in qualche caso coincidenti, i quali “professori” già trattai su questo foglio, ahimè, circa od
oltre due anni or sono, mi pare.
Beppe Grillo, da anni fa le stesse denunce: sappiamo quello che sta per dire prima che apra bocca.
Costui apostrofa tutti ritenendosi forse il giustiziere del popolo. E talora sproloquia vergognosamente
come si può leggere sul suo blog. Un Tex Willer poco in forma, privo della tonicità di Aquila della
Notte, un Charles Bronson loquace e rotondo, uno Steven Seagal senza arti marziali, e poco meno
inespressivo. Un “Pasquino” televisivo a senso unico e sempre più pingue.
Giorgio Faletti, o del libro di indubbio successo e di un qualche altro dubbio, come quello che sorge
leggendo il Necronomicon di H.P. Lovecraft. No capis. Ce ne sono anche altri che improvvisamente si
sono inventati scrittori. Se penso che il Manzoni ci ha messo trentacinque anni per licenziare il suo
Romanzo, mi chiedo come facciano questi, a meno che non siano dei Wilbur Smith o degli Stephen
King, autori sotto contratti miliardari, perché generano miliardi accontentando un pubblico desideroso
di relax o di tensioni.
Fabrizio Corona lo considero, per dubbio metodico, accomunato ad un omonimo: l’allure modaiola e
metropolitana dell’uno, quella ruspante dell’altro. L’omonimia, anche in questo caso, è figura retorica
classica (cfr. Isocrate e Quintiliano), utilizzata per distinguere diversi significati connotati dallo stesso
segno grafico.
Alessandro Cecchi Paone, stesse (romanescamente) un po’ più zitto, o sull’Isola dei famosi, o altrove,
e ci resti.
Per Marco Pannella oramai il tempo sta facendo il suo corso. Come per tutti, me incluso, ovviamente.
Il dottore Gino Strada, facesse (romanesco) eccellentemente il medico e non il professionista dei
media.
Il professore Gianni Vattimo, dispiace sentirgli affermare che il Cristo alla destra del Padre è un
messaggio politico anti-progressista, (da lui che è un teoretico). Come se destra e sinistra fossero state
ipotesi del tempo di Tiberio Cesare. Anacronismi puri. E come se oggi significassero ancora qualcosa
di cartesianamente chiaro e distinto. Flens dico.
Pippo Baudo, senza parole, oramai, anche lui, troppo impegno nel trattarsi la coppola, come
Berlusconi.
Maurizio Costanzo, pftt, pftt, egg, egg, mmgn, ...
Fabio Fazio, o dell’ammiccamento, senza tema di stancare anche i suoi fans. Attenzione,
lombrosianamente, al mento sfuggente, appena dissimulato dai due millimetri di barba. Vorrei vederlo
di fronte a un pericolo.
Carlo Taormina, scomparso, non più petulante dal video con i suoi trucchi avvocateschi.
E .. le “santone”: belle (si fa per dire), vecchie che sono (o diventeranno), e anche brutte nonne.
Franca Rame, ma perché deve cimentarsi in un campo (la politica) nel quale è analfabeta?
Marina Punturieri in Lante della Rovere in Ripa di Meana, ha il nome più lungo della lunghezza totale
delle sinapsi il cui lavorio emerge dall’eloquio.
Sabina Guzzanti, o della violenza verbale priva di adeguati collegamenti etico-neurali.
Marta Vacondio in Marzotto in non so cosa. Chi è?
Serena Dandini, o “di chi potrebbe parlare tranquillamente sul divano di casa propria”, con chi
preferisce, senza che il mondo perda molto.
Luciana Littizzetto, che pena per le amiche che ha, e anche perché ne parla pure. E poi anche ne scrive
per qualcuno che legge. Come faccio anch’io, però in bagno, di prima mattina.
Annamaria Franzoni, le consiglio la clausura, anche sull’Appennino, e non se ne parli più.
Le sorelle Cappa da Garlasco (Pavia), meno male che non ce l’hanno fatta, ma sono riuscite a inserirsi
in questo pezzo.
Amanda Knox, orrore angelicato.
Scomparissero tutte costoro e sarebbe una benedizione, ma non dalla faccia della terra, ma dalla faccia
farfugliante della televisione.
A modo di rassegnazione intanto mi dolgo un poco della dipartita di altri, men famosi, come leggo su
un quotidiano del Piemonte, un giorno di questa ultima tarda stagione, seduto a guardare le acque
increspate del Verbano in quel di Arona. Di ritorno da un’opera di amicizia reciproca, dal carcere di
Biella: “Munita dei conforti religiosi è serenamente mancata la contessa Elisabetta de Rege Thesauro
Provana del Sabbione. Lo partecipano il figlio Carlo con Susan, i nipoti Chiara e Francesco (sic!) e
parenti tutti. New Jork,… 2007”.
E così sia.
Il principe servo
C’era una volta (e c’è anche adesso) un servo che è diventato principe.
Un tempo egli serviva ai tavoli di commensali villeggianti, che sperava venissero all’osteria, dove un
padrone buono lo aveva preso per fargli fare il cameriere e, all’occorrenza, il lavapiatti.
Le stagioni passavano in quella plaga del Sud italiano rinomata per il mare, per il vento tiepido e per le
rocce, chiamata Salento, nome ereditato dal mitico re Sale, o forse dalla salsedine del mare che qui
diventa Mediterraneo. Per il dono dell’ulivo e per i vini calorosi.
E per il retaggio di popolazioni arcaiche, come i Messapi e i Dauni, e principi colti. Ivi lo spirito di
Federico II aleggiava e aleggia.
Il vecchio oste morì e il servo chiese alla vedova di poter rilevare l’osteria. Nel frattempo egli aveva
superato in abilità e prontezza tutti i suoi colleghi, cosicché la buona donna acconsentì, permettendogli
di pagare il bene acquistato con convenienti rate annuali, proporzionate al reddito prodotto.
Nei pressi vi era anche un uliveto, una vigna e uno stazzo per pecore e maiali, che un contadino
incanutito curava, ma a un certo momento non fu più in grado di farlo. Il servo si informò e propose al
contadino l’acquisto rateale anche di quel podere. In pochi anni l’antico servo riuscì a comperare
ambedue i beni.
Nel frattempo lo stato aveva legiferato sugli agriturismi, e quel servo, fattosi oramai giovane padrone,
ne approfittò con arguta intelligenza. Riparò, costruì, fece propaganda al posto, che era immerso nella
campagna. Coltivò amicizie, attività non banale e non priva di risvolti vari e molto pratici.
Amava ancora stare fra i tavoli dei clienti, che sempre più numerosi chiedevano di desinare alla sua
osteria, nel frattempo assurta alla denominazione di “trattoria tipica”. Si informava sul gradimento dei
cibi e dei vini, con un largo sorriso.
Con i proventi sempre più consistenti fece costruire dei capanni di legno, che oggi si chiamano
bungalows, muniti di ogni comfort, per chi gli chiedeva di soggiornare lì, a due passi dal mare, nella
pineta che confinava con la macchia di lecci, lentischi e tamerici, e le prime dune alte, a difesa dalla
tramontana e dallo scirocco. Aveva costruito anche una grande piscina, dove gli ospiti potevano
trattenersi per interi pomeriggi con in mano i classici long drinks. Talora faceva compagnia a qualche
ospite di riguardo che aveva scelto il luogo come buen retiro, con motivazioni varie ed eventuali. Non
mancavano di fargli visita diversi politici locali, dei vari schieramenti, cui non veniva negato un pasto
speciale e un vino ancora più speciale. Tutto il mondo è .. et cetera.
Le stagioni passavano. Nel frattempo, da novello padrone, aveva assunto dei collaboratori.
Fu così che, a un certo momento, qualcuno notò un cambiamento nel “servo”, che oramai non era più
tale.
Il suo modo di fare, così naturalmente gentile, per come si era manifestato negli anni, era molto
cambiato.
Se un tempo si faceva in quattro per combinare i tavoli per tutti e sistemare anche gli ospiti più
ritardatari, ora esigeva la prenotazione, pur avendo aumentato i coperti a dismisura.
Altrimenti non accettava nessuno, salvo i clienti raccomandati da qualcun altro.
Si aggirava con non celata arroganza fra i tavoli, quasi infastidito dalla ressa di villeggianti che
ambivano sedere al desco del “Contadino”. Così aveva denominato il locale.
E troneggiava tra i suoi “servi” e i clienti, come un principe, spesso sdegnoso e scostante,
pronunziando dei “sì” e dei “no” che avevano il tono e il sapore delle sentenze.
Si era fatto, da servo, principe, dimentico del suo passato, ora impegnato solo a moltiplicare la sua
ricchezza. Senza sorridere più, mai.
È il destino più usuale dei servi baciati dalla fortuna. E di coloro che nascono “principi”. Molto spesso.
Dicono che vorrebbe comprare anche un altro locale, nei dintorni, per svilupparlo.
Ma il tempo osserva, immoto, il transitare della gloria del mondo. Anche per il servo diventato
principe.
Il contrasto e la verità
Se la verità è la conoscenza dell’incontrovertibile, il paradosso che più le si attaglia è il detto “strano
ma vero”. Così si dice correntemente, quasi a sottolineare che la verità non è scontata. E dunque, la
verità è stranezza, è contrasto, non mera verosimiglianza, non mai banalità. Jean Guitton, filosofo
francese contemporaneo (1901 - 1999), sostiene che la verità è sempre plurale, manifestandosi nella
certezza soggettiva e nell’evidenza oggettiva, in coppie, come il giorno e la notte, il bosco e la radura.
Lux demonstrat umbram. È il contrasto che illumina la verità, ciò che è traslucido tra l’ombra notturna
e la chiarità del giorno. Il condannato a stare sempre nella luce sta peggio di chi è gettato nell’ombra.
Vi è il maschile e il femminile, il bianco che respinge tutti i colori e il nero che tutti li raccoglie. Vi è la
vita e la morte, la gioia e il dolore, la sofferenza e l’equilibrio psico-fisico. Il dolore rende ragione
della gioia, così come la morte esplica l’esser-ci al mondo (Heidegger), e lo staglia contro l’essere-del-
mondo. La verità è “adeguazione dell’intelletto alla cosa conosciuta” (adaequatio intellectus et rei),
come sosteneva la Scolastica classica del Dottore Aquinate (San Tommaso). Ma, tornando alla visione
dinamica del contrasto, sembra interessante fare un confronto con la fenomenologia della
comunicazione. Shannon e Weaver, studiando gli ambienti militari e civili, fin dalla metà degli anni
’50 hanno proposto un diagramma di tipo cibernetico, per stabilire in modo scientifico ciò che
accadrebbe nella comunicazione interumana, a partire dai due soggetti interessati, il parlante e
l’ascoltatore. I due studiosi americani hanno posto tra i due il “messaggio”, e dunque un contesto nel
quale il messaggio può essere veicolato, che è l’ambiente e il supporto (cartaceo, fonico diretto,
telefonico, oggi telematico, etc.), e i relativi “disturbi” i quali possono interferire con il messaggio
stesso, completando poi con l’esigenza che si verifichi un feedback ad ogni messaggio emesso. Più o
meno, fino ad oggi, questo si è insegnato nei “corsi di comunicazione” di livello accademico o
aziendale. Recentemente altri studiosi (cfr., ad es., C. Galimberti, 2005) hanno ampliato lo scenario,
introducendo elementi diversi o dando un peso diverso al messaggio che intercorre fra due soggetti.
A me è capitato di approfondire l’argomento studiando l’ermeneutica antica, quella dei Padri cristiani
dei primi quattro secoli, (cioè l’ars interpretandi classica) per compararla a quella contemporanea di
un Hans Georg Gadamer o di un Paul Ricoeur. La mia sorpresa è stata grande. Shannon e Weaver, e i
loro emuli contemporanei, che si sono limitati a studiare la fenomenologia della comunicazione attuale,
concreta, parlata, non sono andati oltre, mi sembra, alla lezione di quegli antichi indagatori. Già per
costoro, che scrivevano o dettavano testi su carte pergamene, magari cancellate per riscriverci sopra
(palinsesti) o su papiri, non sfuggiva che la “verità di ciò che era detto e scritto” andava indagata con
cura, non era immediatamente evidente. Ad esempio, Origene di Alessandria, forse il maggiore di
questi maestri (didàskaloi), suggeriva di sottoporre ogni testo, fosse esso Sacra scrittura o di un poeta
classico, ad una tripla indagine: una letteralista, che oggi potremmo dire etimologico-strutturalista (per
evidenziarne i significati intrinseci e i rapporti tra i lemmi), una morale, che oggi potremmo chiamare
etico-politica (per indagare gli eventuali messaggi contenuti), una spirituale (per approfondirne il senso
finalistico, ove sia rinvenibile). Il testo-messaggio, dunque assumeva una vita, una “verità” sua propria,
quasi resa indipendente dall’autore (si trattava spesso di autori, di pseudoepigrafie: nell’antichità non vi
era la nozione del diritto d’autore), e anche dai lettori, i quali dovevano fare uno sforzo interpretativo
ogniqualvolta si accostavano a uno scritto. Perciò, nei nostri anni, riprendendo questi antichi testi e
comparandoli alla letteratura contemporanea, Gadamer ha parlato di “fusione degli orizzonti nel Zirkel
des Verstehens – Circolo ermeneutico”, cioè dell’esigenza di “creare” un ambiente interpretativo adatto
a comprendere l’ambiente che ha prodotto il testo esaminato, mentre Ricoeur ha proposto il tema della
“metafora infinita”, secondo la quale ogni sostantivo, ma ogni parola è in qualche modo “simbolo”,
cioè un qualcosa che rinvia indefinitamente a qualche altra cosa. Che dire allora della “verità”? Che si
può ammetterne la conoscenza come “certezza della corrispondenza fra la cosa conosciuta e la nostra
mente conoscente”, e quindi si realizza “lo sfuggire a un giudizio falso e irriflesso”, ma che la verità
stessa può anche sfuggirci a sua volta, come se ci chiedesse un impegno maggiore, un’attenzione, un
accorgerci (ricordiamo che accorgersi è un correggersi) che ci passa vicino, come la bellezza.
Il destino
E’ un compito arduo, che perseguo: contribuire con altri volenterosi a sbanalizzare una vasta
terminologia in uso, che accezioni sedimentatesi nel tempo hanno contribuito a rendere sempre più
imprecisa e distante dai significati e sensi originari (nel senso di originanti) e fondazionali.
Destino, libertà, ordine, dignità, persona, pathos, etc. sono spesso usati in modo oramai equivoco, ben
lontano dal gioco straordiniario della metafora e della polisemia, in uso presso gli autori classici,
declinandosi oggi in accezioni spesso imperfette e quasi sempre fuorvianti.
Qui parliamo del Destino. Destino è forza misteriosa, “vis a tergo”, è causa necessaria del divenire. Il
destino pone una contraddizione evidente: quello della Provvidenza divina o Sistemico-naturale, contro
il Libero Arbitrio: infatti, se il destino è determinato da una forza provvidenziale o comunque
causativa, come si può dare contemporaneamente il Libero Arbitrio? Non è che la struttura biografica
di un umano condiziona indefettibilmente il suo proprio destino? Non è che il Sistema di cause che
producono effetti, cause derivanti anche da vettori non controllabili dal singolo, è molto più forte e
decisivo delle scelte derivanti dal Libero Arbitrio del singolo stesso? Anche se il caso in sé
propriamente non si dà, poiché ogni effetto è conseguenza di vettori causali, il più delle volte
sconosciuti all’osservatore. Causalità non casualità.
O forse che il destino è un qualcosa di fortemente sistemico, e dunque può farsi derivare dal lemma
greco epistème, scienza, e dunque mutua l’infisso centrale con “ste”, dal verbo ìsthemi, sto, sto in
piedi? (E. Severino, 2005)?
Proviamo a vedere le componenti di quello che si può definire un Progetto destinale: eredità
genetica, cioè ciò che i cromosomi hanno riportato su filogeneticamente dai primordi, imprintings
infantili (K. Lorenz), vale a dire ciò che l’autocoscienza nel suo farsi ha interiorizzato come messaggi
educazionali e formativi primi primi, condizione (ambiente), nel senso che la condizione di
accoglienza è determinante: decisivo è nascere al buio e al freddo, piuttosto che nell’agio, situazione
(circostanza), intendendosi ciò che non ricade nell’ambito delle scelte individuali volontarie, ruolo
(leadership o meno), poiché esso pone o meno nelle condizioni di poter decidere o meno di sé e anche
di altri, classe o ceto o categoria sociale (Marx), poiché non è indifferente avere disponibilità per
studiare o non averle, censo, idem come per la classe, ma con un sovrappiù quasi castale. Non è,
infatti, scontato, se si deriva da un ceto sociale, poter frequentarne un altro. Provare per credere. Si può
condividere, provenendo da ceti diversi, idee politiche e livelli di cultura (più o meno), ma, a meno che
non si adegui ai modi del ceto superiore, chi proviene da quello inferiore non sarà mai accolto per
come è in quello superiore. Ai miei tempi, figlio di Pietro operaio emigrante, ho frequentato la “meglio
scuola” di Udine, lo Stellini, ma, pur avendo un profitto scolastico elevato, non sono mai entrato nel
novero degli stelliniani doc. Oggi, che “sono studiato” in diversi saperi accademici è la stessa cosa.
Non me ne dolgo. È il mio destino. Fuori del Friuli, siccome non muoio qui (si fa per dire), non trovo
barriere, ma un’accoglienza proporzionata e cordiale. Il destino interpella la Libertà in senso
esistentivo, più che esistenziale, cioè essenzialmente pratico, ed è la greca eleutherìa, libertà relativa,
parziale, che abbisogna della logica razionale per essere esercitata.
Del discorso sul destino fa parte anche l’idea di Predestinazione, particolarmente studiata da Agostino,
e ripresa drammaticamente da frate Martin Luther, che parlò di “Servo Arbitrio”, contro l’opinione di
Erasmo da Rotterdam, convinto com’era della debolezza umana nella ricerca della salvezza. Se per
Agostino, pure collocando la fede al centro della storia della possibilità di salvezza individuale,
l’umana volontà conserva un ruolo importante, per il monaco tedesco, pur seguace del vescovo di
Ippona, le opere dell’uomo a nulla servono se non interviene la grazia che tocca il cuore di chi si affida
a Dio.
Più vicino ai nostri tempi, Nietzsche sostiene che l’uomo non può sottrarsi all’ineluttabile amor fati,
all’accettazione del proprio destino, così come Heidegger afferma che il destino è il ritrovare se stessi
nell’esser-ci (Da-sein), e Sartre che l’uomo vive la costrizione della libertà, ossimoro drammatico,
testimone veritativo della sfida che accoglie chi è accolto al mondo. L’uomo è costretto dalla sua stessa
ragione ad essere libero, e talvolta ne ha paura al punto da rinunziarvi, come bene hanno spiegato Erich
Fromm (Fuga dalla libertà), e Hannah Arendt (La banalità del male).
Inganni: qualità della vita, tenore di vita...
Percorrendo la Pontebbana da Gemona a Sacile e oltre, si presenta davanti agli occhi una serie
ininterrotta di edifici commerciali, pieni di luci sfavillanti, ma spesso di estetica dubbia come lo può
essere il ridondante e il ripetitivo.
I parcheggi, anche di questi tempi, sono pieni di auto e la strada è intasata dai rallentamenti agli
ingressi. Se e quanto la gente compri, riempia i carrelli o carichi in macchina oggetti più o meno
ingombranti e costosi non è dato sapere al viandante che si annoia in coda.
I media sono pieni di espressioni come “benessere in calo”, “crisi mondiale”, “riduzione del tenore di
vita”.
Vale la pena di approfondire qualcosa. Partiamo da “benessere”. Dovrebbe essere inteso secondo
l’etimologia composta dal sintagma bene-essere, cioè essere-bene, ovvero godere di un essere-buono, il
proprio essere-stare al mondo, connotato da un bene percepibile, costante, intenso. Ma non è così,
perché la nozione comune di benessere coincide con una accezione prevalentemente quantitativa:
benessere uguale agio, soprattutto di tipo economico, relativo al molto, non al bello-buono-vero, cioè
dunque, al contrario, relativo all’”avere”. Già Erich Fromm, alla fine degli anni ’60 ne trattò
diffusamente in un suo libro che invitiamo a rileggere: “Avere o essere”, là dove poneva “essere” e
“avere” in maniera antinomica, non integrata, simmetrica, non complementare. Benessere, dunque,
come “struttura di sicurezza”, misurabile con criteri socio-statistici, economici e, magari, anche di
quote di potere gestibile. Tutto al più come uno stare-come-dicono-in-televisione sul benessere, essere
in forma, equilibrati psichicamente, liberi di mente, autonomi, perfino “laici”, ché è più politicamente
corretto, tutto un minestrone.
“Qualità della vita” è concetto che deriva par pari da quello di sopra: la vita sarebbe qualificata da un
benessere inteso come assenza di preoccupazioni, abbondanza di beni materiali, disponibilità
economiche, salute, bellezza e attrattive fisiche, fruizione (anzi uso) delle stesse come offerta ad una
domanda speculare, etc.. In poche riflessioni e in pochissimi autori contemporanei, si legge che la vita
è qualificata anche e soprattutto dal godimento di ciò che non ha valore di scambio materiale, cioè
dallo spirituale, dal creativo, dal contemplativo, dalla bellezza come oggetto di puro godimento
estetico, immateriale, sia essa delle persone, sia della natura, sia dell’intelligenza, come strumento del
godimento estetico, ed estatico. “Tenore di vita” è infine la versione più economicistica dell’intero
plesso concettuale. E’ quasi un parametro di tipo fiscale, da analisi di settore. Eppure è un parametro di
scelta, discriminante, nella sua cruda oggettività. Appunto, spesso discrimina amicizie (se non amori),
frequentazioni, tipi di vacanza, cene tra pari o supposti tali, è classista nel senso marxiano del termine.
Il “tenore di vita” è il modo attuale di determinare e denominare le nuove classi sociali, che persistono
a dividere il popolo esattamente come un tempo, con la differenza che oggi il popolo minuto, se
protesta, non viene messo in galera come un tempo. Dunque, parlare di questi inganni ci permette di
aggiornare un “discorso di classe” da proporre utilmente a molti che sono sempre “di parte” e
“radicali”, ma senza rinunziare ai propri privilegi, borghesi di sinistra, ché lì sono nati e lì stanno,
criticando tutto e tutti dallo scranno del loro benessere-qualità della vita-tenore di vita.
Per contro, ho visto spesso buona qualità di vita in chi è ammalato, in chi è povero, in chi è carcerato.
Ho constatato che le opere di misericordia corporale e spirituale sono tali soprattutto per chi le attua,
come sanno bene i volontari di tutte le specie.
Si fa qualcosa perché se ne ha bisogno, rasentando con il lato interiore-inferiore del nostro essere la
pura animalità istintuale che è inscritta nella corteccia arcaica dell’encefalo, e sfiorando con il lato
interiore-superiore del nostro essere la scintilla divina che ci differenzia dagli altri esseri sensibili.
La vera qualità della vita è la libertà interiore, come insegna l’Uomo di Nazareth, capace di dire di dire
di sì al calice della sofferenza, che è un portare-un-peso-sulle-spalle (sub-ferre), di far chiamare Padre
nostro il Padre Suo, di non giudicare, di fare perdonare settanta volte sette, di chiamare “beati” gli
ultimi, in tutti i modi. La sua lezione è auto-trasparente, epistemica, e travalica la storia delle religioni
e le culture umane, tutte, indicandone la filigrana escatologica, la finalità ultima.
La crisi metterà finalmente in questione anche tutto questo, forse.
I “professori del nulla”
Professore è “chi pro-fessa, o pro-ferisce qualcosa in termini di linguaggio” (dal greco pro-phemì, cioè
“dico davanti”), è un qualcuno che dice delle parole davanti a un altro. Per analogia sono stati chiamati
“professori” gli esperti nel parlare di fronte a un pubblico che ascolta. Nella zona sana dell’umanità ci
sono i professori veri, quelli che formano i giovani e che loro insegnano le varie discipline, spesso mal
pagati e trascurati, ma ciò nonostante pazienti e responsabili.
Altrove vi sono molti “professori del nulla”.
Circa il “nulla” qui non si intende il nulla – nihil della metafisica, il ni-ente, cioè il non-ente, ciò-che-
non-è, e sta intenzionalmente di fronte a “ciò-che-è, vale a dire l’ente che possiede l’essere per
partecipazione: il non-essere come diverso. Altrove ne ho parlato: qui intendo, invece, la “metafora
del nulla”, l’infinita allegoria del nulla, quella che vuol dire con una parola l’insignificanza, la noia, la
trasparenza nebbiosa e malsana di un dire o un fare pretenzioso nella sua vuotaggine. È ciò che
caratterizza i “professori del nulla”. Tanti, troppi che pontificano da cattedre mediatiche proponendo (e
imponendo agli incliti) la loro paralisi intellettuale e morale.
Prendiamo Moggi,o della falsità. Costui, dopo avere imbrogliato una SpA gloriosa come la Juventus e
qualche milione di tifosi, continua a pontificare dalle reti televisive, anche pubbliche. Egli afferma
l’inaudito, smentendo ciò che è provato, e così scambiando la realtà dei fatti con la sua, parallela:
proferendo, una dietro l’altra, menzogne a cielo aperto, come fogne. Per l’audience, naturalmente..
“Professore”, comunque, e di che? E perché? C’è qualcuno che lo ascolta e ne parla, e dunque è
“professore”.
E poi Briatore, o dell’ingordigia, vizio capitale chiamato anche gola, che fa parte della concupiscenza.
Dicono che metà degli italiani lo invidi, perché con la Renault batte spesso la Ferrari e perché si
circonda di giovinette in carriera. Non credo.
E George W. Bush, o della menzogna politica. Costui è l’uomo più potente del mondo, come lo era
Elio Adriano nel secondo secolo. Ma di quell’antico ispanico colto ha solo un analogo potere.
Null’altro. Non la cultura, non l’esercizio del dubbio, non la passione per la bellezza. Meno male che
la grande democrazia americana prevede al massimo un doppio mandato di quattro anni, e poi spedisce
nel dimenticatoio anche un imperatore “professore del nulla”.
Oppure Bonolis, o della mancanza di rispetto. Qui si tratta di un laureato che non parla italiano ma
romanesco, come Totti. Eppure il dott. Bonolis è pagato per parlare in italiano. La sua è arroganza da
miliardario, superficialità da guitto, sicumera da superbo.
E perfino la Ventura, o della volgarità urlata. Costei è irritante come una polverina, agitata e
ingombrante. Non vorrei averla per casa. Dominante sui galletti spennacchiati che ospita, dà e toglie la
parola come una maestrina. “Professoressa del nulla”.
E poi Floris, o di colui-che-ti-parla-sopra, seguendo un pensiero che intende superiore, il suo. E
Vespa, o dell’immarcescibile, che viene dai precordi della untuosità paleo-democristiana. E Santoro, o
dell’ammiccamento iper-democratico, captivus del proprio eroismo, si fa per dire. E Gad Lerner,
ghignante, strutturato, prepotente. E anche Ferrara, preda di una convulsione perenne da “sindrome
del voltagabbana”, della cui species è forse l’eponimo contemporaneo. Uno dei campioni e maestri di
tanto scempio è Costanzo, o del borborigmo preverbale. O tale Fiorello, ovvero della piacioneria
televisiota (echeggiano assonanze?), così per quasi finire. “Professori del pressoché nulla”, maestri in
televisione, da prendere come cinque gocce di sonnifero.
Avrei messo in questo elenco anche la Fallaci, ma mi astengo per buon gusto.
Non posso comunque trascurare infine Eugenio Scalfari, o di-colui-che-si-sente-inferiore-a-Dio-
soltanto per la “D” maiuscola iniziale.
E anche Prodi, o della testardaggine. Purtroppo. E mi dispiace dirlo: quando, come uno scolaretto
s’impunta a voler fare il “professore”, sempre e comunque, a tutti i costi (cfr. dibattito parlamentare
sull’affaire Telecom, il 28 di settembre scorso). Anche lui, diversamente arrogante, in questo caso
“professore del nulla”.
Jean Baudrillard, la realtà e il suo segno.
Jean Baudrillard è morto a Parigi il 6 marzo scorso. Era nato a Reims nel 1929. Filosofo e sociologo,
può essere collegato alla “scuola” di pensiero che ha riflettuto molto sulla post-modernità, insieme con
Roland Barthes, Edgar Morin, Marshall Mc Luhan, Zygmunt Bauman, Karl Popper e altri. La sua
carriera universitaria, non lunga, si è svolta tra Nanterre Paris X e Dauphine Paris IX. È stato piuttosto
uno scrittore e uno studioso della società dell’informazione e della virtualità contemporanea.
Ho trovato una sua intervista rilasciata (cfr. www.mediamente.rai.it) nel 1999, che mi sembra di
grande attualità. Per sommi capi.
Esordisce dicendo che è entrato in crisi il “principio stesso di realtà”, messo in questione dal network
globale della rete internet, e dunque è in crisi la stessa distinzione fra soggetto e oggetto, di
plurimillenaria acquisizione ed evidenza. La nuova realtà della rete non consente all’uomo un
confronto “frontale” come accade nella realtà “reale”: in quest’ultima io sono un soggetto che conosce
e agisce su un oggetto, in quella sono un soggetto che si fa oggetto tra gli altri, entrando nella virtualità
interattiva.
Le vecchie distinzioni tra realtà e finzione, realtà e fantasia vengono nel nuovo ambiente quantomeno
modificate. Si pensi alla realtà dei “reality show” e a quanto in essi inerisce il fatto che essi sono un
reale-dentro-il-virtuale. Sono un racconto dal vivo fatto da esseri consapevoli di essere-in-mostra. Sono
una predic-azione di azioni. Finisce, nel virtuale, ogni possibilità di discrezione, di riservatezza, di
segretezza, di misteriosità.
Scompare in questa dimensione anche la classica nozione del tempo lineare fatto (aristotelicamente e
agostinianamente) di un prima e di un poi, sostituito dal cosiddetto “tempo reale” o just in time delle
produzioni della supply chain. Paradossalmente, quello che viene oggi definito “tempo reale” è
virtuale, e ciò che è definito meramente “tempo” è il vero tempo reale.
L’uomo della post-modernità è come avesse perso la propria ombra, quella del mito della caverna di
Platone, che fa capire come gli oggetti reali siano almeno lo specchio delle idee eterne. Non vi è più
neanche l’ombra dell’uomo nella realtà virtuale, come se egli avesse perduto la propria consistenza
ontologica, lo spessore profondo che lo distingue dal nulla. “Egli ha smarrito la sua ombra”.
Il peggior delitto (cfr. Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina Raffaello, 1996, e
Violenza del virtuale e realtà integrale, Le Monnier 2005) di questa situazione è quello di avere tolto
spazio alla fantasia, all’illusione stessa, ai sogni, a tutte le virtualità che si possono definire “naturali”,
cioè verificabili come la realtà concreta della veglia, poiché anche essi sono delle “res”, delle “cose”.
La perfezione artificiale, quindi, rischia di uccidere la perenne tendenza al perfezionamento dell’uomo:
con le bioingegnerie, con la chirurgia estetica, con la clonazione, con tutto ciò che pretende di togliere
difetti al reale-reale.
In questo mondo i media sono protagonisti, perché sono il centro attorno a cui ruota la mistificazione. I
media mediano tra il pubblico e la realtà, ma falsificandola costantemente, perché la distanziano, la
manipolano, la rendono o edulcorata o eccessivamente sintetica, e così operano un toglimento radicale
dell’oggetto della conoscenza dal soggetto conoscente.
Si pensi a Bin Laden, realmente vivo o morto, o virtualmente vivo o morto? Anche se fosse morto
continua ad operare come se fosse vivo, perché i suoi, forse, non hanno interesse ad informarci e il
gruppo di potere bushiano, altrettanto, per motivi opposti, ma simmetrici a quelli dei qaedisti.
Internet, poi, non opera seduttivamente, perché è un freddo strumento di connessione, ben diverso da
un altro-da-sé con cui interloquire. Anche il chatting è un parlare virtuale, pur potendo preludere ad
incontri reali. Fintantoché resta sulla rete, non fa altro che connettere testi, non teste. La cibernetica del
Web e del Net, dunque, è collocata in un fuori, anche se è dentro l’agire quotidiano dei fruitori, ma è
soggetta a catastrofi come e più del mondo reale. Nella realtà concreta oggi può succedere di tutto e lo
sappiamo subito, anche se con torsioni e distorsioni mediatiche e informative. (Non dimentichiamo che
l’intervista è del 1999, con il 2001 alle porte).
E poi, infine, c’è la morte, che la contemporaneità sta cercando di scongiurare, magari occultandola, o
esibendola come un videogioco.
E una morale è possibile in tutto questo? Baudrillard è pessimista ma non privo di speranza. L’uomo
può e deve trovare sempre la forza di mettere delle briglie a ciò che produce, perché ne ha la possibilità
intellettuale. E forse vi è anche una recta ratio sottesa (la coscienza morale), operante sotto la
precessione dei simulacri.
La lode, il biasimo (e la politica)
Sia a Dio la lode, si dice da millenni. Ma anche all’uomo. La lode è grazia come dono e benevolenza.
Il biasimo è un rilievo del male che si fa, ma è anche una sottolineatura e un’esortazione per indurre le
azioni umane libere verso il bene. La lode e il biasimo sono collegati. Non vi deve essere un biasimo
senza la lode per un qualcosa di buono che anche il peggiore di noi fa, né una lode senza che si lasci
trasparire una sospensione di giudizio, tale da mettere in guardia chi viene lodato dal rischio costituito
dal montare in superbia.
Lodare e biasimare sono una modalità comunicazionale difficile. La lode non deve essere sperticata,
smisurata, senza un richiamo all’esigenza dell’umiltà, all’esercizio della virtù somma della pazienza.
Le due virtù proposte sono la via maestra per l’esercizio della lode e del biasimo, perché proiettano in
una prospettiva di verità e di equilibrio il giudizio stesso.
Il biasimo deve lasciare la porta del dialogo sempre aperta, deve valere come correzione, come
richiamo ad una dirittura morale che non può assopirsi dietro le scelte facili o furbesche, o truffaldine.
Quante lodi esagerate, invece, si sentono correntemente nell’ambito mediatico, e soprattutto politico.
L’alleato, l’amico, talvolta il complice, è sempre una specie di eroe, un divino fanciullo, un
condottiero.
Di contro, quanto disequilibrio, se si criticano gli avversari, i nemici, i rivali! Essi sono sempre dei
reprobi, dei ribaldi, ovvero dei reietti, dei falliti, dei perdenti.
Si pensi in particolare al linguaggio della politica, recentissimo. Di quest’ultima, infuocata, ma arida di
contenuti profondi, campagna elettorale.
Per criticare qualcuno che modifica i propri assetti ricomponendo schieramenti politici, lo si accusa di
mero maquillage (Veltroni vs Popolo della Libertà). Maquillage è una diminutio, e quindi un’offesa.
Per banalizzare le scelte di un altro gli si dà del patetico (Fini vs Veltroni). Il pathos di “patetico” non
ha più la grave accezione classica di sofferenza, ma è quasi uno scadere nel ridicolo.
Per convincere un popolo che si ritiene incolto si caricano i toni, dicendo scelleratezza, là dove si
dovrebbe dire accordo non condiviso (Diliberto vs Veltroni e Berlusconi, nell’ipotesi di un’intesa su
una nuova Legge elettorale). Ah, Diliberto, professore di Diritto romano! Un consiglio: consulti il
Vocabolaro Latino-Italiano Campanini-Carboni, Ed. Paravia, p. 630, alla voce scelus, sceleris, della
terza declinazione: scelleratezza, crimine, delitto, misfatto, assassinio, ribalderia, empietà, etc..
Addirittura, oh, Diliberto.
Si stracciano i programmi degli avversari con gesto plateale, invece di leggerli e di controdedurre altre
proposte (Berlusconi vs Partito Democratico).
Occorre il rispetto sia per lodare, sia per biasimare. Senza rispetto è la barbarie, cioè il farfugliamento,
il bar-bar ancestrale, di prima della formazione dei linguaggi, come dicevano i Greci, che se ne
intendevano di barbari.
E a livello locale, regionale? Le conosciamo le mascherine. Che dire di chi proprio non riesce a fare a
meno della politica? Che non saprebbe fare altro? Ma almeno potrebbe imparare a parlare, mehercules!
Il teatrino continua imperterrito. Le situazioni cambiano, il tempo scorre, ma le facce restano ad
occhieggiare dai fogli locali. Ogni tanto qualcuno (o qualcuna) resta fuori gioco, facendo finta di
prenderla bene.
Come considerare il biasimo e la lode in politica? Come fidarsi di chi ti loda? E, se ti meriti un
biasimo, chi ha il coraggio di fartelo, se sei potente?
Chi dei potenti si dà il tempo per la lode e per il biasimo con la ponderatezza della riflessione radicale
sui comportamenti propri e degli altri?
Quaestiones pusillae, direbbero gli antichi Romani, sapendo bene che si tratta di domande retoriche.
L’esigenza mediatica di pronunziare sempre frasi brevi, apodittiche, icastiche, induce a semplificazioni
terminologiche inaccettabili, a sciatterie espressive e a inganni discorsivi. Quasi nessuno si sforza (non
essendo in grado di farlo, forse, in molta parte dei casi) di operare la comunicazione della lode o del
biasimo utilizzando il flusso della logica formale, che è la stessa logica grammaticale, sintattica e
semantica.
È questione di onestà intellettuale e di scelta eticamente finalizzata, quella di usare un linguaggio
chiaro, rigoroso, rispettoso dell'altro anche nella critica, con il quale esprimere la lode e il biasimo
secondo il fine buono della correzione e della comprensione dell’uomo.
Le multiformi facce del male
Se leggiamo il Padre Nostro, al capitolo VI del vangelo di Matteo, versetti da 1 a 9, troviamo
l’espressione, all’ultimo versetto “(…) ma liberaci dal male (…)”. In greco l’espressione “πονερός”
(poneròs) si può intendere sia nel senso di “male” sia nel senso di “maligno”, quindi di
personalizzazione del male.
Eugenio Montale si pone il problema del male in una sua celeberrima lirica “Spesso il male di vivere
ho incontrato/ era il rivo strozzato che gorgoglia/ era l’incartocciarsi della foglia, riarsa,/ era il
cavallo stramazzato. (…)”. Si noti la durezza ricercata delle consonanti. Come si può constatare vi è
un emergere del senso del male persino nell’espressione vitale della poesia somma, così come nel
pensiero dei grandi filosofi: in Severino Boezio (VI sec.”(…) si Deus est unde malum, et si non est
unde bonum?”, cioè se Dio c’è da dove proviene il male, e se non c’è come si può concepire il bene?.
Ma, se ci si chiede che cosa sia il male, ci si deve anche mettere d’accordo circa ciò che sia il bene.
La dottrina tradizionale (di Platone, Aristotele, sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino) ci spiega che il
Bene coincide con l’Essere, e anche con il Bello. “Verum, Bonum et Puchrum convertuntur”, vale a
dire “Il Bene, il Vero e il Bello si convertono l’uno nell’altro”. Sono i famosi “trascendentali” della
metafisica.
Ma il Bene, se coincide con l’Essere non è detto che qualsiasi bene sia tale per chiunque, per me, per
te, per l’altro. Il bene deve essere ordinato al Fine, cioè all’Uomo, se possibile illuminato dalla Grazia
(divina).
E dunque, a questo punto si pone l’esigenza di un’Etica. Ma quale Etica? Anche l’etica va qualificata:
innanzitutto come scienza, cioè “conoscenza certa (soggettivamente) ed evidente (oggettivamente)
(…), e poi va qualificata: si tratta di utilitarismo (John Stuart Mill, Jeremy Bentham e liberalismo
classico), di edonismo (marketing contemporaneo), di proibizionismo (teorie e prassi penitenziali post
– tridentine), di deontologismo (meramente professionale), di emotivismo (Nietzsche e modernità) o di
un’Etica del Fine (l’Uomo)? Cioè di un eudemonismo teleologico: come un tendere alla felicità
(sempre sfuggente), ma nella prospettiva di un fine di vera autorealizzazione dell’Ente Uomo.
Tornando al Male, esso si può configurare come metafisico, morale e fisico - come dolore e morte
(sant’Agostino e Gottfried Leibniz).
Il male metafisico è la “defectio boni” cioè una mera mancanza di un bene, una mutilazione
dell’Essere.
Il male morale si configura, invece, nel peccato (religiosamente) e nella colpa (laicamente).
Il peccato (colpa) è un “mancare il bersaglio” (tradizione semitica), un “commettere ingiustizia”
(tradizione greco-latina).
Il peccato si commette indulgendo nei vizi, a partire dal caput vitiorum (origine dei vizi), secondo san
Gregorio Magno ed Evagrio Pontico, della Superbia (soprattutto se intellettuale o spirituale, il peccato
del satana e dell’uomo che ritiene di bastare a se stesso), e continuando con l’Avarizia, l’Invidia, la
Lussuria, la Gola, l’Ira (la quale, però, se si configura come passione e non come collera distruttiva,
può diventare utile per superare ostacoli e prove ardue), l’Accidia, cioè il male di vivere, che oggi
chiameremmo “depressione”, e rifuggendo le quattro principali virtù (qualità virili, secondo
l’etimologia greco-latina di αρητή, aretè, e virtus) umane, o morali (come da elenco risalente a Platone,
poi ripreso dai Padri della chiesa): Prudenza (come connectio virtutum, o giusto equilibrio dell’agire
umano), Giustizia (in tutte e tre le sue dimensioni: generale, di scambio e distributiva), Fortezza (o
coraggio), fomite della pazienza, e Temperanza, o misura della qualità del vivere individuale.
Ancora, circa il “male”, lo troviamo come “radicale-radicato” nell’uomo (in Immanuel Kant), e
pertanto, per il grande solitario di Könisberg, deve essere combattuto con l’impegno individuale al
rispetto delle regole: “(…) fai in modo che la massima del tuo agire possa costituire legislazione
universale” (Critica della ragione pura pratica); in Dostoevskij, in personaggi come Rask’olnikov di
“Delitto e castigo”, in R.L. Stevenson “Doctor Jekill (la faccia rassicurante del “bene”) e Mr Hyde (la
faccia angosciosa del male)”; in Leopardi come “pessimismo cosmico”; nel libro biblico di Giobbe, là
dove il satana ha perfino un posto dialogante alla “corte di Dio”.
San Tommaso d’Aquino, nella quaestio disputata “De malo” (il male), spiega come esso si possa
configurare come conseguenza di ignoranza (colpevole o incolpevole), di debolezza, e di malizia,
annettendo a questa ultima la maggiore gravità e responsabilità nell’ambito di un atto umano libero.
Il male peccaminoso radicale, per il Doctor Angelicus si configura come atto compiuto con
caratteristiche di “materia grave” (ad es. omicidio, stupro, pedofilia, etc..), “piena avvertenza” (salute
mentale, consapevolezza e lucidità psicologica) e “deliberato consenso” (libertà di agire).
In tutte le culture, infine, sia del bacino mediterraneo, sia nordiche, sia orientali, vi sono “luoghi di
espiazione”, l’inferno, abitato dal separatore (il greco dià-bolos – διάβολος, l’ebraico satàn, l’arabo al-
shaitaan), che comunque, con la sua azione di persuasore, attenta sempre alla lucidità mentale
dell’uomo, dis-orientadolo verso il male. E talvolta, pare, anche secondo recentissimi studi comparati e
integrati, di psichiatria e demonologia, addirittura, possedendolo, come potenza che governa, a tratti, la
stessa personalità individuale.
E’ consigliabile, pertanto, stare lontani dalle cosiddette “porte del maligno”, che sono lo spiritismo, i
vari occultismi, comprese le magie, che, in quanto “e-vocative” e non “in-vocative” come la preghiera
umile, sono sempre pericolose, il satanismo in tutte le sue forme, e da tutte quelle culture sincretistiche,
modaiole, che pretendono di semplificare la grande questione del bene e del male, applicandovi criteri
cognitivi irrazionali ed approssimativi.
Le scarpe del morto
Lausanne, Suisse, località Moudon fine anni ’60. Francò e Louise sono due giovani italiani, friulana
lei, calabrese lui, qui emigrati. Lo sfondo è quello del Lac Leman, al di là del quale si indovina il
Monte Bianco, e, sulla costa di fronte Evian e Thonon Les Bains, Francia.
Gioventù italiana. Franco e Luigina, giovani e belli sono nel paese delle montagne e dei laghi, degli
orologi e della cioccolata. Delle banche e di una certa xenofobia. Franco, prima che lo raggiunga la
moglie, dorme addirittura con l’alano del suo padrone. Odori e afrori misti, nell’emigrazione.
Luigina è incinta della prima figlia e Franco lavora nei cantieri edili. Sa fare di tutto, il muratore,
l’idraulico, il piastrellista, l’elettricista e il falegname. Lo chiamano da Montreux fino a Gèneve, lungo
tutta la costa settentrionale del lago. A volte gli capita di lavorare anche in montagna. Davos, Les
Diablerets.
Lui viaggia veloce con la sua Giulia Super 1600, la macchina “giusta” di quegli anni. Chi non l’ha
provata non conosce la gioia che dava il rombo del motore alimentato dal albero a due cammes in testa
e dal carburatore doppio corpo marca Weber o Dell’Orto. Il rumore era cupo e rotolante, annunziatore
di potenza razzente e giovanile su strade non intasate, e per curve dove bisognava sapientemente
scalare e riprendere. Un rumore oggi evocato solo dalle Golf Gti terza serie anni ‘90, e nel settore delle
moto dalla leggendaria Ducati Monster. Attorno al grande lago, Franco si muoveva con dimestichezza.
Fanno economia, Franco e Luigina, perché vogliono tornare in Italia e costruirsi una casetta tutta loro.
Franco lavora dieci ore al giorno e guadagna bene. Il franco svizzero, allora come ora è moneta forte e
sicura. Non gli dispiace fare anche altri piccoli lavoretti o affari per arrotondare.
Una volta, da un buco di escavazione effettuato per costruire le fondamenta di un edificio, trova un
teschio. Non trova altro. Chissà di chi era. Di un cavaliere medievale, forse, o di un poveraccio, un
boscaiolo lasciato lì in qualsiasi giorno di un qualsiasi anno degli ultimi due o tre secoli. Sapeva,
Franco, che i soldati contadini svizzeri erano considerati nel Medioevo i più preparati e temibili. Come
gli svedesi. Lo ripulisce e lo lava, rendendolo lucente come un reperto da museo di storia naturale.
Trova un acquirente: cinque franchi e non se ne parla più.
Cinque franchi erano buoni e tanti, facciamo conto come cinquanta euro di oggi.
Aveva da tempo bisogno di un paio di scarpe, di quelle nere, lucide, per la domenica, quando gli
emigranti italiani si mettono anche la cravatta. Va in un negozietto che conosce alla periferia di
Lausanne e compra un paio di scarpe che sembrano fatte su misura.
Torna a casa e le mostra orgoglioso alla moglie che gli chiede che scarpe siano.
Risponde che le ha comperate di seconda mano, erano le scarpe di un morto. Cinque franchi in tutto.
Un teschio di morto per il paio di scarpe di un morto. Simmetrico.
Ma Luigina non è d’accordo e lo spedisce a restituirle. Lui tenta di resisterle, ma poi ubbidisce. Erano
anni in cui si ubbidiva.
Non si sa come sia finita la storia, perché il racconto scivola su altri gustosi aneddoti di una vita
trascorsa e ancora viva. Una vita viva. Sì, perché ci possono essere anche vite morte, contraddictio in
adiecto, intrinseco paradosso.
Le vite di quei tempi, anni e luoghi erano ardue. Come quella di mio padre che stette quattordici anni
in Germania, dipendente della Ditta Westerwaldbrüche, che forniva pietrame grezzo per i pölder
olandesi e per i terrapieni delle ferrovie tedesche. Lui viveva, con gli altri italiani che aveva portato via
con sé, ricerca&selezione ante litteram, due corriere di uomini ancora giovani, in baracche di legno,
molto simili a quelle di Dachau. In mezzo ai grandi boschi della Sassonia occidentale, a venti
chilometri dal confine della DDR. Mi mancava, mentre crescevo in statura e fisime. Fors’anche in
sapienza e grazia.
Le baracche le vidi con lui tanti anni dopo, in un viaggio della memoria.
Oggi, mentre sento rievocare da Francò e Louise quegli anni lontani, sento mio padre, mancato
diciassette anni fa. Lui è con me, esempio e simbolo di ciò che si deve fare indefettibilmente, discreto e
silenzioso, fino alla fine della mia vita. E anche oltre.
L’ultimo suono del corno
La boscaglia è fitta e il suono del corno è attutito dal vento che cambia continuamente direzione. Il
vento porta gli odori della macchia, così come la luce, più cristallina dopo che è spiovuto, porta i colori
del bosco e del prato, dei coltivi inframezzati alla dolina. Animali bradi.
I cacciatori si chiamano alla voce, i cani schiamazzano ruzzando nella macchia. Borbottii in sloveno e
triestìn del Carso.
Ora sono sulle orme di ungulati, ora di volatili. Joze ricorda ancora quando da giovane seguiva le
tracce degli urogalli verso il Triglav o in alta Val Trenta. Talora lo accompagnava il sussurro del Rio
Coritenza nella profonda forra smeraldina.
E così raccontano Ladi e Edward, il più massiccio e affabulatore. Sul tavolo il vino e la pancetta
dell’altopiano. Cicale che salutano l’occhieggiare del sole tra le nuvole. È rinfrescato e si sta bene sotto
la pergola.
Il verde ondulato che porta ad Aidussina e a Tarnova accompagna il viandante verso foreste di
latifoglie miste a conifere. A volte i cacciatori si spingono fino alle sorgenti del Vipacco, e oltre.
Raccontano di storie di caccia d’inverno, quando la neve avvolge i boschi e le radure, attutendo i suoni
in un biancore attonito.
Ogni tanto un cacciatore muore e allora tutti i compagni si mobilitano, per il funerale, che è religioso
ma anche sacrale, della sacralità amicale ed esclusiva della caccia.
L’uomo è stato cacciatore fin dai primordi, e lo è ancora, evocato da ancestrali richiami.
Alla Messa partecipa il Coro Sloveno dei Cacciatori, il “Lovski pevski sbor doberdob”. Unico in Italia,
eredità mitteleuropea. In divisa. Sul cappello portano un pezzo di ramo di abete sul lato destro quando
sono in caccia, ma sul lato sinistro quando muore un compagno.
Il primo canto è sul finire della cerimonia religiosa, ancora in chiesa.
Il secondo canto accompagna la bara dal catafalco alla sepoltura. E le voci virili si alzano.
Il terzo canto viene intonato quando la bara viene tumulata al suolo, terra bruna e silenzio. Allora inizia
lontano a suonare il corno da caccia: prima indistinto, poi sempre più nitido il suono arriva agli astanti,
e da lontano si sentono le salve di spari, che si diradano, a mano a mano che il canto finisce e il suono
del corno pare allontanarsi. I cacciatori, alla fine, gettano i pezzi di abete che hanno sul cappello nella
buca, come pezzi delle loro anime che accompagnano il defunto nel lungo viaggio verso l’aldilà.
Edward Kemperle mi dice che è come un diradarsi dei suoni, che accompagnano l’anima del cacciatore
verso terreni di caccia più propizi. È il saluto al cacciatore, il “Lovski zalni posdrau”. “Tu non sei
andato via,/ sei rimasto sempre fra di noi,/ ogni volta che andiamo nel bosco a cacciare/ sei sempre
con noi.// Ti auguriamo di cacciare ancora/ come quando eri con noi./”
Questo è a un dipresso il testo della canzone ultima, quella che si confonde con il suono del corno e
con gli spari sempre più lontani.
Non è il silenzio che segue la cruenta battaglia, non vi è gracchiare di corvi. Solo una nuvola compare
verso settentrione.
Poi nella baita dei cacciatori si svolge il “Loski ropot”, il battito delle dita, accompagnato dalle
libagioni con il vino Vitozka o Teràn, in onore del defunto, e in auspicio di amicizia tra i viventi.
A Stanjel, San Daniele del Carso, arroccata sul colle, il Teràn è eccellente da Marja e Dravko.
L’amicizia si rinsalda nella condivisione e nel discorso, nell’ironia e nelle manifestazione di ritroso
affetto. La piccola cagna, Soça, Ladi l’ha chiamata Isonzo, si intorcola tra le gambe degli umani.
Beatriz l’ha subito amata e ne piange il distacco.
Il viandante osserva e ascolta nella sospensione del tempo. Lo spazio si amplia e si dispone per il
racconto. Vi è il tempo presente che pulsa e vibra di risonanze arcane. Non esiste altro che il nunc (ma
non nel senso di “Life is now”) che prende le mosse dalla narrazione e di questa si nutre
indefinitamente, proiettando chi ascolta nel futuro del racconto che sarà, questo presente, e vivo di
sonorità prestate in quel pomeriggio di luglio, nel cortile di Rebulla, a Sales, Sgonico, Carso. Pietra e
sole. Il mare nascosto dalla macchia respira in fondo.
Malinconia slovacca
Nord est di Bratislava. Quasi sul confine ungherese.
Il picchiettare della prima pioggia autunnale sulle coperture semitrasparenti del capannone industriale
mi era sfuggito, tanta era la concentrazione nel lavoro.
Ero entrato in azienda di prima mattina. Giornata di colloqui individuali con le prime linee, quadri e
ingegneri dell’azienda friulo-slovacca.
Il volti si susseguono con le loro storie e le loro emergenze genetiche ed etniche, zigomi forti e occhi
lievemente obliqui negli ungheresi; volti più diafani nelle donne slovacche. L’ingegner Miroslav
Cmiko, trentaquattro anni, un metro e novanta, sembra un incrocio fra il nostro povero Marco Pantani
e L’uomo di marmo di Andrzeij Waijda. L’ingegner Walter Zerer, ventisette anni, alto come me ma
con trenta chili di più, sembra appena uscito dal set di un film finanziato dal Cominform negli anni
’50. L’ingegner Anton Simko, ventisei anni, è basso e solido come i contadini della puszta. L’ingegner
Tibor Taksony è ungherese come Zerer, ha ventisei anni e un volto da giovane Werther. Le donne si
chiamano Deneza (Dionigia), Andrea (a cui spiego che Andrea è il nome più maschile che esiste), Eva,
Zuzana, Gabriela, Iveta, Michaela, Csilla, Katarina, Monika, e hanno per cognome quello del padre o
del marito (l’ultimo) declinato al femminile (come Farkašovà da Farkaš).
La lingua è ostica, ma l’interprete è brava e gli ingegneri parlano inglese con me. Capisco molte parole
di slovacco che sono traslitterazioni greco-latine. Tutti i termini che descrivono l’uomo, la psiche, il
comportamento, le emozioni. Ci sono le declinazioni come in latino e greco.
Oggi le multinazionali italiane (Banca Intesa, Assicurazioni generali, quella, più piccola, per cui mi
trovo lì), tedesche (Wolkswagen, Bosch), francesi (PSA – Peugeot), giapponesi (Samsung) prendono
piede aprendo stabilimenti. In albergo breakfast alle 7.15 di mattina accanto ai managers giapponesi
della Samsung, piccoli, gentilissimi con le loro segretarie slovacche che li vengono a prendere.
Il vento pannonico ha spazzato le nuvole rifacendo azzurro il cielo. Budapest è a cento chilometri a est-
su-est. Più vicina è l’ansa del Danubio di Ezstergom, ultimo baluardo mitteleuropeo prima dell’Est e
dei Balcani.
La strada che porta a Galanta, dove mi trovo, è sulla direttrice che volge ai Monti Tatra, a Cracovia e,
tra le brume del tramonto, di qui si intravede la linea azzurrina dei Piccoli Carpazi.
La sensazione è buona. Taliansko (italiano) è un aggettivo che desta ammirazione, oltre ai meriti
indubbi che ha la nostra vecchia Patria, così percorsa da brividi di miseria morale e mentale, ma pure
sempre erede, nell’immaginario collettivo di queste genti, della più grande storia antica d’Europa, e
depositaria della bellezza.
Il fondo antropologico di questa gente, che ci guarda con attenzione e gratitudine, è la malinconia,
quasi metafora personologica e presagio delle nebbie autunnali che stanno per scendere sulle pianure.
Appena accennata nei maschi, che sono di poche parole, capaci di articolare non molto più di
monosillabi puntuti come spigoli, e piccole frasi nervose presto concluse.
Evidente nei volti già maturi delle donne ventenni, che sono solitamente belle e alte. Con gli occhi
verdeazzurri e le mani grandi. Spesso al secondo matrimonio a venticinque anni. Figli e figlie di
divorziati scomparsi, come se, dopo la fine dell’utopia burocratica comunista, e l’incontro con il sogno
di plastica capitalista, si fosse creato un diabolico mix esplosivo. La costrizione sostituita dalla libertà
sembra avere fatto implodere le coscienze, che stanno brancolando nel sommovimento e
nell’incertezza esistenziali. Ma si tratta di libertas minor, di una libertà rivoltosa e incazzata. È il tipo
di libertà che sta spegnendo l’Occidente. Spero non ci vogliano molti anni perché se ne accorgano.
I tre angoli delle case e delle famiglie sono sostenuti dalle donne, con gli uomini che spariscono a
folleggiare in nottate di birra e racconti di caccia.
I Suv e le auto tedesche sono il sogno dichiarato dei trentenni in carriera.
Dovrò tornarvi tra un paio di mesi per portare gli esiti della mia indagine e per visionare degli
ingegneri giovani dall’Ucraina, perché il Gruppo italiano si sta sviluppando e ha portato a casa una
grande commessa. L’Europa sta cambiando. La domanda è: come? Si sarà capaci di trovare una strada
che sia diversa sia dalla burocrazia sovietica, sia dalla tecnocrazia? Non ho risposte. Sto ad osservare
nel mio piccolo, dal vivo, quello che accade, cercando di seminare fiducia nell’intelligenza umana, e
nella convinzione che solo la consapevolezza che un Io esiste solo se c’è un Tu può salvare l’Io.
Manicheismi contemporanei
Uno dei grandi problemi dell’etica politica e dell’etica tout court della contemporaneità è la
categorizzazione, cioè la visione idealistico-marxiana per cui si possono classificare gli umani in modo
tale da creare ambiti che contengono idealtipi della stessa specie, ad esempio, i “buoni”, i “meno
buoni”, e i “cattivi”, prescindendo dall’assoluta individualità e individuazione dei singoli, i quali
esprimono, come dovrebbe essere noto, un’irriducibile soggettività. Tutti faremmo parte, dunque, di
categorie, classi, specie, con minimi comun denominatori elementari e massificanti. Ma, come ci
spiegano da tempo, da duemila anni o giù di lì, le scienze dell’uomo, su su fino alle neuroscienze
contemporanee, una visione del genere è delirio puro.
In realtà il plesso teoretico originario di questa visione va ricercato in uno gnosticismo sempre redivivo
(quello dei perfecti, proficientes, incipientes) e forse in una certa traditio agostinista e luterana,
pessimista e desolata dell’uman genere.
Nulla di ciò, però, si trova nell’Agostino dei testi che sono a disposizione di bene intenzionati lettori,
cui non possono bastare le vulgate e i compendi.
Dunque: leggo qua e là su organi di stampa che qualcuno teorizza che vi sono categorie bene definite
di uomini, e presenta le cose così bene che molti creduloni ci cascano, anzi lo ritengono una specie di
“santo”. Ad esempio, nella categoria dei preti vi sarebbero quelli che sono “evangelici “ tutti d’un
pezzo, gesuani fino alla morte, senza compromessi di alcun genere (come se il “compromesso”, che è
un promettere-insieme, fosse un male in sé), e quindi per ciò pagano, perché di solito avrebbero contro
il vescovo, la maggior parte dei confratelli e della gente. Degli eroi buoni.
Poi ci sono i “don Abbondi”, che abbondano, perché la maggior parte degli uomini è timorosa, ha
rispetti umani, non si compromette, vivacchia, non disturba nessuno, fa il suo da fare senza creare
scandali, né controversie: in una vertenza sindacale si limita a perorare la moderazione. Questi
farebbero solamente pena, per il “santo” censore.
Infine vi sono i profittatori, gli opportunisti, gli amici dei potenti e del potere, che ambiscono a fare
carriera e a ricevere il titolo di “monsignore”. Abietti dunque.
A questi “teorici” chiederei, ad esempio, in quale categoria inserirebbero Don Emilio De Roja.
Una piccola osservazione: io che non sono nato ieri, e qualcosa di teologia, chiesa e preti so, conosco
alcuni “monsignori” che sono dei galantuomini, che non sono particolarmente superbi, e di cui mi fido.
Non faccio nomi, ma lavorano tra le anime in tutto il nostro Friuli, dalla Carnia a Codroipo, da Udine
città alla collinare, a Rosazzo, al tarcentino, da Pordenone a Fiume Veneto e a San Vito.
A che serve dunque categorizzare se non a confondere le idee, se non a creare ulteriore entropia
cognitiva, che è il prodromo drammatico di quella etica?
Io non accetto di essere inserito in una categoria, così come non lo accetta nessun razionale vivente,
poiché ognuno di noi è commistione inestricabile, chiaroscuro indipanabile, di positività e negatività.
Anche i più asceti, sobri, rigidi, duri, soffrono di una qualche magagna: sono spesso ammalati di
vanagloria, e talvolta di pura superbia intellettuale, che, come dovrebbero sapere se hanno studiato un
po’ di teologia, è caput vitiorum. Il peggiore dei vizi.
Mediterranea. Da Matera a Torrepaduli
La grotta si apre allo sguardo di chi si ferma sul biancore della pietra tufacea.
La scalinata si era persa nei meandri della pietra del Sasso Barisano, iniziato a caso dal viandante, che
aveva l’occhio quasi accecato dall’incontro frastagliato del cielo azzurrissimo con la pietraia.
Oltre un muretto si indovina la gravina profonda quasi centocinquanta metri, sul cui fondo un
microclima particolare fa crescere una flora verdissima e lussureggiante, che contrasta con la desertica
distesa di pietre della parte superiore.
In mezzo ai due sassi, il Barisano e il Caveoso, alta, si staglia la cattedrale, di pietra tufacea come i
palazzi avvinti ai Sassi.
Matera è una stratificazione geologica, facendosi cogliere da chi passa come un libro arcaicamente
dispiegato al vento della Murgia, che si insinua tra le pietre naturali e le pietre collocate dall’uomo,
secondo un disegno.
La città sembra essere stata anticamente chiamata Mataia ole dai greci, che deriva da Mataio olos, il
cui significato è "tutto vacuo", con riferimento alla gravina, fossa attraversata da torrenti; un’ulteriore
ipotesi è che il nome derivi da Mata (cumulo di rocce), radice utilizzata per diversi toponimi.
« Arrivai a Matera verso le undici del mattino. (…). Allontanatomi un poco dalla stazione, arrivai a
una strada, che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case, e dall'altro costeggiava un
precipizio. In quel precipizio è Matera. La forma di quel burrone era strana; come quella di due
mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso in un apice comune, dove
si vedeva, di lassù, una chiesa bianca, Santa Maria de Idris, che pareva ficcata nella terra. Questi
coni rovesciati, questi imbuti, si chiamano Sassi. (…)». Così Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato a
Eboli.
Le grotte sono vestigia sparse lungo la gravina. Oggetti risalenti al neolitico testimoniano la presenza
di cacciatori. Nel periodo neolitico gli insediamenti diventarono più stabili, come testimoniato da
tracce evidenti di diversi villaggi trincerati. Con le età dei metalli nacque il primo nucleo urbano.
Scavati e costruiti a ridosso della gravina, i Sassi, rioni che costituiscono la parte antica della città, si
distendono in due vallette, che guardano ad est, separate tra loro dallo sperone roccioso della Civita. La
posizione ha reso la città invisibile agli occhi dei suoi nemici per millenni.
Matera, dunque, è tra i più antichi e meglio conservati esempi di architettura biologica al mondo. Si
vede come tutte le civiltà e le tradizioni costruttive più antiche, abbiano numerosi punti in comune,
anche se distanti nel tempo e nello spazio.
Strutture apparentemente semplici e rudimentali appaiono come dei prodigi di efficienza. Le tecniche
arcaiche, dimenticate dagli stessi abitanti, acquistano un fascino ed un valore straordinario. I
"trogloditi" che scavano canali e cisterne, costruiscono giardini pensili, ed attorno agli spazi collettivi,
oggi chiamati vicinati condividono le proprie risorse, appaiono d'un tratto geniali.
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Il dionisiaco è vivo. La pietra è immota ma i gesti degli uomini e delle donne sono frenetici. Se Matera
propone una storia ancestrale e il biancore della sua pietra stagliata nella luccicanza mattutina del cielo
abbacinato, più giù, molto più a sud, dopo la terra delle gravine e della Murgia, a metà della penisola
salentina, tra i due Mari nei quali è protesa, si trova Torrepaduli, immersa nella pietra delle serre. Lì
risuonano da millenni i tamburelli della taranta. La taranta è sia la malattia e anche la sua guarigione,
spiega Pierpaolo De Giorgi. Tamburelli, violini e la fisarmonica disegnano nell’aria ritmo e melodia,
nella notte. È trance indotta dal ritmo iterato che viene da precordi ancestrali e archetipici del sud
italiano e non solo. Il silenzio di Matera si lega al tambureggiare frenetico, che si perde nella notte
salentina, riconsegnando verità vitali a chi ascolta e si fa prendere dal ritmo, dal rito e dal mito.
Attorno al Mediterraneo da tremila anni si muove in maniera carsica un modo di essere che è comune
alle varie popolazioni. Il grande sole e il mare, la fecondità della terra e il destino dell’uomo hanno
suggerito la profondità del pensiero (egiziano, greco, giudaico, cristiano, islamico) e la ricerca delle
ragioni della vita e del dolore. I tarantati invocano san Paolo, come loro archetipo. La spina nella
carne di cui parla nelle Lettere può essere stata una forma di epilessia, che richiedeva l’intervento della
sapienza antica dei guaritori taumaturghi emersi dai millenni e ri-con-sacrati in ambiente cristiano.
La pazienza che richiede ogni cosa complessa, senza semplificazioni, è la virtù necessaria per entrare
nei fondamenti di questi misteri. Così come il sapere e la sapienza sono qualcosa che cresce nella
(della) vita e nel (del) dolore dell’uomo, non solo nel dipanarsi della teoresi dei trattati.
München, Dachau
L’Isar è un fiume turbinoso che scende dalle Alpi bavaresi per incontrare il Danubio più a nord. Ci
arrivi da sud-est per Rosenheimstrasse, e sei in centro, a Monaco di Baviera, con già sullo sfondo i due
possenti campanili della Frauenkirche. Il traffico è ordinato, le strade larghe, fraü Erika Bratnik
accoglie spigliata chi arriva dalla bella Italia.
Il cielo si fa dei colori del tramonto, limpido, profili di chiese che si susseguono nella passeggiata verso
Marienplatz. Musikanten sotto la loggia oltre Michaelkirche. Dopo avere esplorato, dicono loro,
Ioachinus Rossinius e Antonius Lucius Vivaldius, concludono con il Canone di Johann Pachelbel, nella
luce rosata della sera incipiente. La Neuhauserstrasse continua oltre fino al Palazzo di Giustizia e al
grande slargo dove giocano bambini sotto l’occhio vigile di donne musulmane.
Mi volto indietro e vedo i due campanili del Duomo dedicato alla Signora dei cieli, e la torre dell’Altes
Rathaus, oramai stagliati nell’azzurrità vespertina. Si fa a tempo a dare uno sguardo alla grande, gialla
e barocca Theatinerkirche, e al capolavoro rococò della Johann Nepomuk Kirche dei fratelli Asam,
delirio melanconico di marmi e stucchi.
L’indomani è il tempo del Deutches Museum, la scienza e la tecnica spiegate dal Medioevo a oggi,
sedici chilometri di cammino. In un’isola in mezzo all’Isar.
Non bastano otto ore per osservare tutti gli itinerari del sapere umano sulla natura.
La città è grande ma non troppo, il traffico ordinato, il cibo banale.
Maximilianstrasse è la grande via delle griffes italiane e francesi. La mia piccola salta dall’ una
all’altra, tutta presa, nella notte che incombe.
Gli italiani comandano all’Alte Pinakothek, insieme con Rembrandt van Rijn. Di quest’ultimo il ciclo
della Passione, Morte, Resurrezione e Ascensione di Cristo, quadri messi consecutivamente nella
parete come in una narrazione teologica. Elencando i nostri, e non tutti: Antonello da Messina e una
variante della sua Madonna classica dell’Annunciazione, con il velo, un’Incoronazione di spine del
Cristo, e il ritratto di Carlo V di Tiziano da Pieve di Cadore, una Madonna con bambino di frate
Filippo Lippi, e un’altra di suo figlio Filippino, una di un crepuscolare Ghirlandaio, con il suo trittico
di S. Maria Novella, Luca Signorelli, Pietro Vannucci da Perugia, tre Raffaello, con due Madonne e
una Sacra Famiglia, un Mantegna, Leonardo con una Madonna, messer Sandro Botticelli con una
Pietà, Giotto, Ultima Cena, e Paolo Caliari Veronese, Tiepolo con l’adorazione dei Magi, Giorgione
con ritratto virile, e Iacopo Robusti Tintoretto, soprattutto con un Gesù in casa di Marta e Maria
(quest’ultima estatica e Marta polemica), Antonio Canal, Francesco Guardi, e Guido Reni. Del Murillo
colpisce un ritratto di ragazzi che giocano a dadi, uno di loro somiglia a Ronaldo. E vi è Velazquez,
con un ritratto di giovane spagnolo, El Greco Theotocopulos con un Cristo spogliato delle vesti. Di
Rubens, al solito ridondante di quadri ed di carni, ricordo un bel ritratto di giovane nobile. Di Dürer un
ritratto di giovane, e di van Dick molte opere di oggetto sacro e profano.
I francesi non incantano, qui. Ci sono Poussin e Boucher, e altri. Bisognerebbe spostarsi alla Neues
Pinakothek per trovare Monet, Cezanne, Renoir e Pissarro, ma sarà per un’altra occasione.
Dachau. È l’altra faccia del viaggio nella bella città. Nel verde intenso della primavera tedesca c’è il
recinto del KZ-Gedänkstätte, il campo di concentramento e sterminio. Si cammina in silenzio verso i
due forni crematori. Si indugia nella camera a gas e poi nelle chiese votive di confessione evangelica e
di religione ebraica. In fondo vi è un Carmelo di suore. Delle baracken sono rimaste 2, come
campione: di 34 restano le fondamenta. Posti per 6.000 reclusi, gli alleati ne trovarono 36.000, quel 29
aprile del 1945, quando giunsero. Le foto, le facce, i suicidi indotti, i manifesti, la storia della
Germania e della sua abiezione, che non nasconde, che ha oggi soffertamente elaborato. Consiglio di
osservare una foto del 1929: Hannover, file di disoccupati e di operai rimasti senza lavoro. E i
manifesti che denunziano il miope trattato di Versailles che ridusse il popolo tedesco alla fame, e aprì
le porte alle condizioni di possibilità della scorciatoia criminale e criminogena del Nationalsozialismus.
Himmler in visita. I tabelloni dei reclusi e delle varie nazionalità: quasi diecimila italiani in soli due
anni di funzionamento del campo, tra cui un Goruppi da Muggia che ho sentito per Radio regione il 25
aprile scorso. Lì è bel ragazzo, appena ventenne. Vivo, tra i pochi rimasti. Liberatorio, un pianto
segreto e privatissimo.
“Non è un paese per vecchi”
Gli spazi sono quelli classici del western contemporaneo, con rettilinei d’asfalto a perdersi verso un
orizzonte polveroso e desertico, ingobbiti a tratti da enormi dossi sabbiosi, petrosi, nascondigli di
crotali, silenzio non assoluto, stridi di uccelli, vento.
Non vi sono parole che si dicono umane.
Llewellyn Moss si imbatte in una strage, tutt’attorno a un camioncino carico di dollari. Osserva
attonito, ma non troppo, l’orrenda visione dei corpi abbandonati dalla vita, senza nemmeno pudiche
lenzuola insanguinate a coprirli. Si aggira non incredulo, si ferma al sussurro lamentoso di un
moribondo che chiede acqua. Lo soccorre o non lo soccorre? Una scena di violenza primordiale, come
per il controllo e l’uso di una pozza d’acqua tra i preominidi di Kubrick, homines quasi erecti et iam
captivi. Prigionieri. Qui, nel film dei Cohen, è per denaro. La struttura antropologica fondamentale
dell’umano non cambia.
La tentazione del possesso vince. Llewelliyn Moss prende la borsa dei soldi, che era stata sottratta da
uno oramai cadavere sotto un albero, in disfacimento con le mosche e il loro signore. Di lì si scatena
una violenza che nessuna forza, e tantomeno il disincantato sceriffo Bell può fermare. Il killer ha già
ucciso, e si muove verso altre vittime, Llewellyn Moss in primis.
Con una determinazione ineluttabile, che marcia dentro l’assassino, spietatamente.
Javier Bardem e Tommy Lee Jones non sono neanche avversari diretti. L’uno è il killer spietatissimo,
l’altro è l’attempato sceriffo. Il secondo potrebbe abbattere il primo solo con un fucile di precisione,
poiché da vicino non avrebbe scampo. E infatti se ne sta alla larga. Le uccisioni sono seriali, effettuate
come un lavoro. Stai fermo, che mo’ ti ammazzo. La volta che i registi Cohen ti risparmiano il
massacro è per un’estrema pietas verso una vittima femmina. Ma sappiamo che morirà anche lei. Il
killer è già uscito dalla casa e cammina, cammina…
Un camminare ineluttabile, espressione del volto assente, quasi robotica. L’uomo-che-uccide cammina
come preda di una trance, assente, come un automa programmato dall’angelo di luce.
Uso d’armi: dalla pistola per la macellazione al fucile a pompa. Tutto può andare bene allo scopo
dell’uccisione di umani. Il killer seriale è freddo, lucido, non ha emozioni verso le vittime, che sono
solo oggetti-ostacoli che si frappongono sul suo cammino, come un feticcio da non difendere, ma da
abbattere. E il male cammina con lui.
Motel perso nelle periferie. Lì si arriva nelle notti livide e si riparte prima dell’alba per un non si sa
dove. Paura che arrivi. E arriva. Fuga. Notte piovosa.
L’uomo così com’è: lasciato a un destino. Dove può veleggiare la sua anima, brancicante nella melma?
Per recuperare l’umano che ha dentro gli serve riprendere a veleggiare con l’anima. Non ha altre
strade.
Dovrebbe sollevarsi a splendidi teatri aurorali, come gli impone il senso della vista. Veleggiare (in
splendidi teatri aurorali) perché la vista è leggera, spazia, galleggia, sfiora. Che cosa impedisce al killer
di veleggiare in splendidi teatri aurorali? Ha la vista ottenebrata dall’ombra, di cui si fa vanto. La sua
linea d’ombra (Conrad).
In splendidi (teatri aurorali), perché basta ciò che giunge dalla luce che splende per vedere i colori e le
forme del mondo, a ciascuno di noi, ma non a lui, che ha la vista ottenebrata dall’ombra.
Teatri (aurorali) perché il teatro è l’ambito della vista (te/atròn, dal verbo greco orào, vedo).
Aurorali perché basta la luce cristallina dell’aurora per la contemplazione.
Udito, che significa ubbidire alla parola. A quale parola ubbidisce il killer del nostro film? A una
parola che emerge da precordi inimmaginabili e cupi, da una violenza subìta, da silenzi d’angoscia e
solitudine, da altro?
Fantasia che è la forza immaginativa. Quale è la fantasia che lo sorregge. Una fantasia del male subìto
e da far subire, senza requie e senza ripensamenti. Fantasia non controllata dalla ragione.
Olfatto. Che odori gli rimangono nelle narici dopo che ha ucciso. Di sangue? Di paura? Di sudore?
Non se ne cale nemmeno. Così almeno appare, dall’assenza di espressioni vitali. Il male cammina con
lui.
Essendo tutti a rischio, coltiviamo (congiuntivo esortativo) le emozioni ed esercitiamo (idem) la
ragione, per la vita, la nostra vita.
Palinodia Salentina
Finis terrae, così come quella affacciata sull'oceano i Lusitani chiamarono la terra, anche l'estremo
lembo della Puglia, fichi d'India e canne e scogli, per sfuggire all'estrema spremitura degli impegni.
Il sole sorto dall'Epiro si effonde sulle rocce a Leuca, e verso le basse Serre steppose tutt’intorno.
Il viaggiatore è giunto, infine.
Fuori dal gran caldo in cerca di città di pietre, d'altre scansioni della terra: Gallipoli d'estate, la Bella
Città, e Galatina, indugio meridiano, splendore della pietra leccese a sant'Irene e a Santa Croce. I muri
a secco definiscono la strada dove l'ulivo e la terra offrono l'approdo alla masnada turca, in quel di
Otranto. Ottocento “santi” attendono il passaggio del viandante.
Il mare ha trasparenze e sabbie sinuose in fondo, il sole s'appoggia pigramente sulle aspre ingobbature
della costa. Biancheggiano le case sulla baia che la risacca sfiora pigramente, rivelandone il profilo,
come un abito di seta il corpo di una giovane.
Si ripete un rito antico: l'abluzione nell'onda dello Jonio, fatto cinerino dal crepuscolo, là dove le sue
acque mescolate all’Adriatico, cambiano nome, Mare di Mezzo, Mediterraneo.
Le chiese di Lecce sono aperte, afa pesante di santoni, ma santa Irene è sempre lieve, ché prende luce
da una finestra alta. La pietra della Murgia si scalfisce al caldo al vento, e la pioggia la dilava. Le
colonne percolate dal tempo ne effondono l’odore. Vecchiezza testata dal tempo.
Al ritorno i presepi costeggiano il cammino. Calimera, buon giorno e buon augurio. I Grichi ti
guardano sottecchi, all’ombra del palazzo baronale di Martano. Eterna azzurrità si staglia oltre l’orlo
del tetto terrazzato, abbacinante il bianco delle case. Fichi d’India ai bordi della strada, lentischi rari,
polvere, pajare dell’età del bronzo: silenti dirute abitazioni.
Silenzio sull’altura della Madonna del Casale, tra gli ulivi e una scritta che invita alla contemplazione.
I più fortunati vengono da Tangeri, altri da più remote plaghe: percorrono la spiaggia con collane e
statuette e strass, vi chiedono un regalo, barcollanti, tra gli ombrelloni e i bagnanti imbambolati.
Pensare a Marrakèsh e alle sue rive, solitudini frustate dall'Atlantico.
Alimini azzurreggia prima di Porto Badisco e Castro Marina sullo scoglio, macchia Mediterranea ante
il mare increspato dal perenne respiro settentrionale, che scende per di lì come per Durazzo, poche
miglia di fronte.
Alimini, laghi increspati al vento del mattino, sentieri fra lecci e salmastre tamerici. Un politico di
grido che fa jogging, ma piano. Il viandante, allenato da sempre, lo stacca facilmente: “Buonasera”.
Chi suona la taranta indugia sulla falce di spiaggia che da Torre dell’Orso giunge a Otranto, traversata
dal vento che traversa il mare. Le onde spumeggiano frangendosi sulla bianchezza striata della sabbia.
Cicale vagule.
Peccato per l’ànthropos privo di nozione del bonum commune, che sporca e brucia, e sprezza.
Fors’anche perché nel meridione non fa mai freddo e non c’è bisogno di preservare il legno per
l’inverno, come da noi. Torre Guaceto prima dell’incendio, verde nella sua macchia ai limiti delle
dune, arsa, al ritorno, per chilometri. “Volevo sentirmi importante”, ha spiegato il diciassettenne
incendiario, reo confesso. L’incuria a tratti, dove non si paga il mare, si sporca, tanto non è “roba mia”.
I trulli sono museo per giapponesi, nella calura.
Buoni, però, i cibi della terra, gli odori, i vini, i fichi raccolti per le infinite strade polverose
nell’oceano di ulivi. Il Leverano e il Primitivo del Salento, il rosso Leone de Castris, il Rosato Musivo
d’Otranto, il Gravina bianco, freddo e secco, e altri, non da profano, come il viandante che di lì passa,
poco aduso alle finezze.
Stralunato a Teramo, infine, giunse, con la corsa, dalle Murge per la val d'Itria, dopo avere scorto nella
sua bianchezza Ostuni, nel crespuscolo.
E con la memoria al vento che trasporta una preghiera di pietà per i soldati morti a Canne, nel
silenzioso vento.
Ultima tappa, per la piccola ragazza che cresce, a Recanati. La sorpresa della stanza dove il Conte
Monaldo Leopardi osservava apparire il genio del giovane Giacomo, e Paolina e Pier Francesco. Ma
Giacomo, appena tredicenne, stava chino su sinossi comparate di ebraico e greco. Sudate carte, studio
matto e disperatissimo. E poi sul Colle a dire l’Idillio verso l’Infinito.
Possedimento, produzione o accoglimento?
Possediamo o produciamo la nostra vita, noi umani, o la accogliamo? Siamo i padroni della nostra vita
perché l’abbiamo decisa fin dal suo inizio, e successivamente determinata nel suo evolvere e nei suoi
esiti o ne siamo mandatari? Si possono dare i diritti senza un accoglimento speculare e proporzionato
dei doveri? Si può pensare che sia plausibile, legittimo, equo e giusto un sistema nel quale oggi sono
chiaramente espressi quasi solo i diritti e non del tutto i corrispondenti doveri? Forse che l’essere a
questo mondo autocoscienti e liberi non comporta una contemporanea e parallela responsabilità su ciò
che liberamente scegliamo di fare? O dobbiamo solo chiedere risposte agli altri, a partire dallo stato
democratico che, con tutte le sue imperfezioni, è ciò che di meglio nei millenni, noi coeredi di
centinaia di generazioni, l’uomo è riuscito a configurare? Sono domande ineludibili. Ma la stessa
complementarietà tra diritti e doveri va compresa bene, altrimenti si presta alla manipolazione
ideologica, come spiega anche Stefano Fontana (Udine, 2007). La questione è ardua, perché oggi non è
facile schiodare dalla mentalità corrente l’idea che si debba procedere indefinitamente solo e solamente
sulla strada della conquista di sempre maggiori “diritti” civili, sociali, politici, etc., senza porci il
problema della reciprocità e del valore dei doveri.
Ad esempio, si può dire che noi umani possediamo la vita, o è invece vero che accogliamo la vita, la
quale quando ci viene data, fin dalla fecondazione dell’ovocita, è frutto e conseguenza di una decisione
altrui? Noi accogliamo la vita progressivamente, a mano a mano che crescono, fin dalla prima infanzia
e per tutte le tappe evolutive della psiche, la nostra coscienza, autocoscienza e senso morale. Noi non
produciamo ciò che invece è la natura a decidere.
Si tratta quindi di convenire sul primato dell’accoglimento sulla produzione e sul possedimento. Il
dovere si fa dunque presente nell’accoglimento come un “essere a disposizione”, in quanto la stessa
coscienza umana si presenta come una coscienza di essere (a questo mondo), non una coscienza che
possiede l’essere.
Bisogna coniugare il potere fare del diritto con il dovere di essere a disposizione.
È da queste premesse che si deve partire per ogni riflessione radicale che abbia il pregio dell’onestà
intellettuale, quando si ragiona sulla vita in generale e sulla vita umana in particolare, poiché ogni atto
o modifica legislativi che abbiano a che fare con queste tematiche, di fatto si ingeriscono nel delicato
rapporto sussistente fra diritti e doveri.
Ancora Stefano Fontana: “La nostra società sta morendo di diritti, perché sta assolutizzando la tecnica
e usando la scienza quasi come fine, come se l’uomo desiderasse prometeicamente conseguire un
livello di potere, tale da scimmiottare ciò che è stato sempre chiamato il Divino, o comunque una
potestà e una dimensione sempre sfuggente e trascendente la condizione umana”.
Occorre porre dunque dei limiti ai diritti, e questi limiti vengono dall’accoglimento e dalla dimensione
del dovere.
Kant sosteneva l’etica del dovere: devo perché devo, perché ciò che devo fare è bene. Non posso, come
uomo, conoscere la realtà intrinseca delle cose (i noùmeni), sosteneva l’uomo di Königsberg, ma la
loro manifestazione (i fenomeni, dal greco fàinomai), però posso conoscere la bontà o la malignità
delle azioni,e dunque posso decidere di fare ciò che devo, perché conosco ciò che è bene e ciò che è
male.
San Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, IIa - IIae) seguendo in ciò Aristotele (Etica a
Nicomaco), suggeriva invece un’etica del fine, proponendo di scegliere il bene per il bene stesso, al cui
vertice vi è Dio.
Forse occorre, dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, una Dichiarazione
Universale dei Doveri dell’uomo.
Un’etica del fine è superiore alla stessa etica delle virtù, di ascendenza platonico-aristotelica, perché il
bene morale relativo alla bontà di un fine è antecedente alla stessa riflessione razionale sul bene e sul
male. Il fine è la stessa coscienza di sé, autocoscienza di essere collocato, come uomo, al vertice
dell’oceano archetipico dell’intelligenza, al vertice di tutti gli psichismi presenti in natura, e perciò
stesso capace di giudizio e di decisione con capacità superiore di penetrazione della verità.
Perché la verità, come insegnava Pareyson, anche se non appare facilmente nella sua evidenza e
certezza all’indagine umana, è e resta sempre una: all’uomo il compito diuturno della paziente e umile
ricerca dei suoi barbagli provenienti dall’infinito.
Dice il sapiente Qoèlet
Qoèlet, figlio di Davide parla così: “Vanità delle vanità, tutto è vanità./ Quale utilità ricava l’uomo da
tutto l’affanno/ per cui fatica sotto il sole?/ Una generazione va, una generazione viene/ ma la terra
resta sempre la stessa./ il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà./
(…) Tutti i fiumi vanno verso il mare,/ eppure il mare non è mai pieno:/ raggiunta la loro meta,/ i
fiumi riprendono la marcia (…). (Bible de Jérusalem, Qoèlet 1, 1 – 7)
E ancora: “(…) Per ogni cosa c’è il suo momento,/ il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo./ C’è
un tempo per nascere e un tempo per morire, / un tempo per piantare e un tempo per sradicare le
piante,/ un tempo per uccidere e un tempo per guarire,/ un tempo per demolire e un tempo per
costruire,/ un tempo per piangere e un tempo per ridere,/ un tempo per gemere e un tempo per
ballare,/ (…) un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la
pace.” (Bible de Jérusalem, Qoèlet 3, 1 – 8)
E poi Qoèlet, giudeo della Palestina, che scrive in un ebraico tardivo, pieno di aramaismi, attorno al III
– II secolo a. C., si richiama all’esigenza di non vivere da stolti, abbarbicati al possesso delle cose, al
conseguimento di sempre maggiori benefici, potere, ricchezze. Ammaestramento anche per i nostri
tempi, in cui valori e dis/valori si connettono in un crogiuolo nauseabondo di profumi, ovvero nel
vortice delle mode/consumi, nell’omologazione del gusto, nel sempiterno e sempre nuovo dispiegarsi
del potere.
Occorre pazientemente ricercare un nuovo equilibrio vitale, consono ai bioritmi e alla natura
individuali, dove gli affetti, il lavoro, l’impegno, la politica, gli affanni non abbiano il sopravvento sui
tempi della contemplazione e anche del silenzio. Riscriviamo oggi il libro sapienziale di Qoèlet, con le
nostre parole.
Lo scorso tempo del positivismo, liberalismo, marxismo fece convenire a tutti, senza stipulare
protocolli d’intesa (come quello di Kyoto che vigila sul rischio di autodistruzione dell’uomo), che le
risorse e la natura tutta erano al servizio dell’uomo stesso, che egli poteva disporne a piacimento, che
tutto poteva farsi purché servisse ad aumentare il “piatto”, cosicché si stabilirono i principi della
compravendita del lavoro salariato e della produzione. Si erse soprattutto il feticcio del “prodotto
interno lordo” (di ciascuna nazione), il concetto dell’inesauribilità delle risorse e dello sviluppo
quantitativo. Anche sulla scorta di una malaugurata lettura dell’affidamento biblico del mondo
all’uomo, da parte di Dio, confondendo la proprietà privata e pubblica (che deve avere dei limiti etici),
con il principio del “mandato”, dell’affidamento. È crisi dell’umano: si comincia a considerare della
finitezza dello sviluppo, dei limiti della conoscenza da Aristotele e Confucio a Dirac, del poter essere
come bambini nudi e capricciosi roteanti su un corpuscolo alla periferia della Galassia, perduti nel
cosmo, esserini facenti trekking tra le stelle. L’angoscia dell’infinito e del non-conosciuto non si
risolve nella metafisica; le religioni, a tratti aiutano, a tratti danneggiano; perfino le fedi vacillano. In
terra l’economia si globalizza (horribile dictu!), e le proprietà frammentatesi, si riaccorpano sui
mercati finanziari guidate dalla cibernetica del virtuale e del network telematico.
Ma ci resta ancora tutto l’uomo, i suoi luoghi, le etnie, le lingue infinitamente flesse o agglutinate degli
idiomi del mondo, le mentalità differenti, le distanze, le albe australi e i tramonti tropicali, la musica
delle grandi acque e quella di Bach che echeggia le armonie delle sfere celesti. Che ci manca? Forse
che ci manca un fermarsi accanto alle cose elencate, ma soprattutto la capacità di ascolto degli uni
verso gli altri? Troppe trombe squillano ignorando le bùccine altrui, anzi, troppi ottoni rimbombanti
suonano, non lasciando spazio a suoni differenti. Nella politica vige il linguaggio manicheo-
palingenetico dell’”o noi o loro”, nella cultura talora un senso di appartenenza, non tanto alla comunità
delle lettere, che per sua natura è sconfinata, quanto all’hortus conclusus che comunque garantisce,
nell’economia .. altro ancora. Mi vien quasi da invitare un gruppo di amici, non so quando, non so
dove, magari così: “Alcuni giovini homeni et femine/ tutti gli uni per gli altri/ o per amistà/ o per
vicinantia/ o per dovere conjunti/ tutti belli et garbati et costumati molto,/ han desiderio di ritrovarsi/
il II venerdì sera del mese di dicembre, / cosicché la gentil brigata/ fuori della trista città ammorbata,/
in campagna,/ in una bella locanda apprestata a riceverla,/ per trattenerla insieme piacevolmente/ ove
vino e libagioni convenienti non mancheranno,/ ma anche orazioni varie/ finemente saranno enunziate/
in amicale serenità.”
I re-pastori
Abramo e Davide ne sono gli archetipi, diversi sul piano sociologico e storico-politico, ma coessenziali
nel senso proprio, quello antropologico. Poi seguiti nei millenni da migliaia di sceicchi, capi-clan,
padri-padroni, emiri e pascià nel mondo semitico e mediterraneo. Fino ai nostri strani giorni. Oggi i re-
pastori sono i politici immarcescibili e redivivi di tutte le stagioni. Un re pastore contemporaneo è stato
Gamal Abd’el Nasser, raìs dell’Egitto moderno, popolare, amato dal suo popolo anche se sconfitto, in
ultimo (1967, guerra dei sei giorni), e un altro è stato Saddam Hussein, dalla triste fine. La figura del
re-pastore è archetipica perché rappresenta un modo di essere della cultura mediterranea e vicino-
orientale da almeno quattromila anni, ed è ancora viva. Non ha strettamente a che vedere con il
maschismo afgano-pachistano intriso di un islam tribale e violento. Si tratta proprio di un ruolo che è
diventato cultura, modo dì essere e di autocomprendersi. Sopravissuto fino ai nostri tempi, ma senza la
dignità dei modelli arcaici.
Re-pastori sono certi maschi nostrani convinti di avere solo diritti, salvo poi nascondersi dietro un dito
se si tratta di farli valere con i propri figli in via di disadattamento. Padri timidi e cagionevoli, anche se
capaci di alzare la voce e le mani con le proprie donne. Re-pastori sono certi dirigenti-imprenditori che
ritengono di poter esercitare il loro potere in azienda sine die, senza maturare un sano senso della
precarietas di ogni vicenda umana, e quindi anche della loro. Dovrebbero ascoltare le parole che si
sussurravano un tempo ai papi appena assurti al soglio pontificio: “Sic transit gloria mundi (così passa
la gloria del mondo)”. Re-pastori sono certi politici intramontabili, che non nascondono la volontà di
continuare a “contare” sempre e comunque, dalla “prima” alla “seconda” alla “terza” (prossima
ventura) e alla, se ci sarà, “quarta” repubblica. Capaci anche di riciclarsi in un regime para-monarchico
futuribile, quale potrebbe essere quello dei grandi poteri mass-mediatici e finanziari. Eppure anche per
questi ultimi il tempo sta preparando il suo conto: capelli che si diradano e incanutiscono, la struttura
ossea che cede (perché questi non hanno tempo di fare ginnastica). A proposito, mi capita di sentirmi
dire: ma tu sei cresciuto ancora (io faccio ginnastica e i miei centottantacinque centimetri originali li ho
conservati), no sei tu che sei calato, rispondo. Ma soprattutto la struttura mentale e valoriale che si
fossilizza in una perenne ricerca di mantenimento della posizione di privilegio e di potere, millantata
come senso di responsabilità per la cosa pubblica. Balle spaziali. Re-pastori sono certi uomini di
spettacolo che ci stanno deliziando con il loro decadimento (mediatico) fisico e mentale. Re-pastori
sono certi preti che predicano pace e amore, ma che non sono in grado di aiutare nessuno, perché
troppo occupati ad aiutare se stessi nel far finta di aiutare gli altri barcamenandosi tra la curia e i
parrocchiani, e a volte il sistema mass-mediologico. Ne conosco di tutte le età, anche se, per grazia di
Dio, sono una minoranza. Ma qui si tratta di una questione molto complessa. Re-pastori sono certi
cacciatori di titoli e di premi esigiti e ricevuti davanti a un pubblico (ipocritamente o stupidamente)
osannante. Re-pastori sono certi “ordinari” universitari, sia in età, ma anche giovani-giovani, che
ritengono quasi di diritto divino la prebenda raggiunta con tanta fatica, e putano di avere diritto ad
ulteriori riconoscimenti, presidenze, direzioni, retribuite, ovviamente. Re-pastori sono i capimafia,
capicamorra, capindrangheta, capintriti e capibastone, che si ritengono depositari dello ius capitis e lo
praticano, magari tra bibbie e santini, forti della loro ignoranza primordiale, che gli permette
semplificazioni e manicheismi crudeli: o con me, e ti pago, o contro di me, e ti uccido. Regine-pastore
sono certe madri e suocere che ritengono di avere fatto e sposato, o meno, figli e figlie allo scopo di
starle ad ascoltare, e fors’anche obbedire, finché morte naturale non li separi. E sono le stesse che
hanno educato nuovi re-pastori, ad libitum.
Il re-pastore è un modo d’essere che travalica i secoli. È una semplificazione del ruolo soprattutto del
capo-maschio, connotata da rozzezza e da orgoglio non celato. Quell’orgoglio che è parente stretto
della superbia, il caput vitiorum di Evagrio Pontico e di papa Gregorio Magno. Il re-pastore ritiene che
gli sia concesso fare tutto, decidere tutto, proprio perché è re-pastore.
Neppure il ’68 è riuscito ad uccidere questo padre perverso, perché, sbagliando clamorosamente
obiettivo, ha ucciso il padre fragile, tuo padre, mio padre. Il padre.
Roma
Da quale parte prenderla, non sai. Sono a Roma, pur avendola vista cento e passa volte. Per lavoro,
s’intende, con, ogniqualvolta possibile, un’appendice d’arte e di cultura: una chiesa qui, un pezzo di
mura là, un museo, un contesto archeologico, pini italici e fontane.
E il vento che taglia radente mulinando le foglie a Villa Borghese. La “ggente”, poi. Da tutto il mondo.
E i contrasti: dal Marriott Hotel di via Veneto, dove scendono i vip (importanti per chi poi?) del jet set,
ai sovrappassi del metrò alla Garbatella, odore di pipì e cocci di bottiglia, dormitorio occasionale e
accesso ai pub“cattivi”, lungo muri di graffiti e polvere. Tra il sordido e il sublime. Consola (poco,
stamani) papa Ratzinger e la sua “gioia”, ma tanto di meno la bagarre dei manifesti della politica, i
volti del potere romano, circonfusi di notorietà televisiva. E sei poco incline a cimentarti nel paragone
con i potenti della Roma antica, Senatus Populusque Romanus in carica. Le res gestae di Marco Ulpio
Traiano e di Marco Aurelio, sono ben diversamente ricordabili, rispetto a quelle di Rutelli, e così
quelle di Settimio Severo, Sempronio Gracco, di Gneo Pompeo Magno, di Caio Giulio Cesare, di
Marco Vipsanio Agrippa, di Ottaviano Augusto, di Flavio Vespasiano, di Elio Adriano, e perfino, vien
da dire, vista la mediocrità oggi imperante, di Caio Tiberio, a paragone delle “glorie”, si fa per dire, dei
Casini, degli Schifani, dei Cento, dei Diliberto e degli Storace, così fragili, così cagionevoli, così trite,
così noiosamente risapute. Pure se involte nella grande e nobile democrazia parlamentare. E pure se
oggi non si strangola più l’avversario (o nemico) politico come Seiano (per ordine di Tiberio) al
carcere Mamertino. Ma, Roma è anche seguire le orme di Michelangelo Merisi, dai “Matteo” della
Chiesa di San Luigi dei Francesi, a Santa Maria del Popolo (conversione di Saulo-Paolo sulla via di
Damasco, e crocefissione di Pietro), alla Galleria Borghese (San Girolamo, la Madonna dei
Palafrenieri, e altro che non ricordo), è girovagare tra i vari strati delle chiese, che erano degli dei
greco latini, e poi mitrei (San Clemente), e poi chiese cristiane, o le tracce delle domus ecclesiae
primitive. O anche indovinare i percorsi gelosi del Buonarroti nerboruto, fra la Sistina, la Pietas
d’infinita et dulcis beatitudo, la Cupola e San Pietro in Vincoli, seguito dai cauti passi del Sanzio,
Raphael, l’angelico giovane che le tracce del grande Michelangelo ha seguito: stanze Vaticane della
Segnatura, deposizione di Cristo, dominio della costruzione della Basilica basilicarum. È anche
indugiare con l’occhio sugli scorci del Palatino, lato Circo Massimo, o di traverso, dal mastio
occidentale della Mole Adriana verso San Pietro e il Gianicolo. È lasciarsi trasportare sull’onda del
tempo tentando traduzioni ardue di lapidi e cippi che ricordano e celebrano, lì come testimoni
silenziosi e nel contempo facondi di una grandezza indelebile. Viene da sorridere al ciangottare
interessato dei turisti anglosassoni (inglesi in specie), che consultano baedeker, esperti di romanità,
loro che erano allora estrema periferia, e poi si sono atteggiati a dominatori. La loro lingua non vince,
neppure in razionalità, il latino classico, e neppure quello medieval-popolare di san Tommaso
d’Aquino, che da queste parti insegnò teologia (al convento di Santa Sabina). Bello osservare i turisti
dell’Estremo Oriente, curiosi di una civiltà cui loro, figli di grandi civiltà, non possono che
riconoscere, e anche, a modo loro, inchinarsi. Ferus victor a Graecia capta captus est. Roma dà la
sensazione di essere « troppa », invincibile, inconoscibile in tutti i suoi meandri, parlante da tutte le
facciate delle cinquecento chiese, dai palazzi e dal laterizio inconsutile delle mura Aureliane, delle
terme di Caracalla e di Diocleziano, dai marmi dei Fori imperiali. Epperò, stratificata com’è,
costituisce quasi simbolo del perenne transire dell’uomo, della sua incontentabile ricerca di sé
attraverso le cose, gli edifici, gli spazi urbani, i chiaroscuri dei monumenti, delle piazze .. E attraverso
il riutilizzo dei materiali, che non sono mai « di risulta », ma sempre come « ri-creati » a un nuovo
utilizzo, a una nuova scansione linguistica e significante. Le colonne romane classiche, con i capitelli
corinzi, che troviamo nelle antiche chiese paleocristiane, nelle basiliche, a loro volta circondate da
manufatti successivi del Medioevo e poi del Rinascimento e del Barocco, inserti di altari
fiammeggianti e soffitti a cassettoni in legno, comunque lì stanno benissimo, hic manebunt optime in
saecula saeculorum. Roma solfeggia una sinfonia metatemporale che scandisce il paesaggio e gli
scorci più sorprendenti : all’occhio umano è quasi impossibile dirimere il colloquio estetico tra le
colonne del Foro di Traiano, che emergono di là del Vittoriano, ma introducono immediatamente lo
scorcio alto dell’Anfiteatro Flavio e i Fori, ma anche la chiesa di San Lorenzo in Miranda, così come ci
si può solo accontentare di una visione d’insieme, quando si scende dalla scalinata del Campidoglio,
avendo il teatro di Marcello sulla sinistra e una selva di cupole borrominiane che si alternano tra
palazzo Venezia e la colonna Traiana. Lo spirito di Lucio Anneo Seneca indugia sul diruto Palatino.
Roma è faticosa da camminare, carica d’anni e venusta di gloria, condita, dicunt, nel 753 a. C. sulle
colline oltre Tevere da pastori sedentarizzati e forse da Eneidi, transfughi dal Mediterraneo orientale.
La leggenda si confonde con la storia documentata, come una polisemia, che dà respiro al linguaggio e
ali al comprendere.
Antica Salumeria Tassini
La strada che da Forlì sale al passo del Muraglione, e di lì per tornanti scende a Firenze, passa per
l’antico confine del Granducato di Toscana, a Rocca San Casciano.
Memorie di Bakunin, il diavolo al Pontelungo, di ribellioni e scioperi, di Mussolini e Nenni uniti nelle
battaglie sociali delle Romagne di inizio ‘900 (1911 - 1914). Sempre nei dintorni, il 14 ottobre del
1911 il governo fa arrestare Mussolini, Nenni, che era segretario della Federazione Braccianti della
“Nuova Camera del Lavoro” di Forlì, e Aurelio Lolli, impiegato del sindacato. Condannati in primo
grado il 23 novembre, sono trasferiti in carcere a Bologna ad attendere l’appello, dibattuto il 19
febbraio 1912: il giudice infligge sette mesi e mezzo a Nenni e cinque mesi a Mussolini. Riportano le
cronache del tempo che donna Rachele soccorse in carcere tutti e due.
Predappio e la Rocca delle Caminate sono lì, a pochi chilometri.
Memorie di Stefano Pelloni, il Passator cortese, che per il Pascoli era “re della strada re della foresta”
(cf. “Romagna”, in Miricae, Ed. Mondadori, p.35, vr. 8.60).
Raccontano nelle osterie che i carradori che andavano verso Firenze facevano testamento se dovevano
salire al Passo del Muraglione, per paura dei briganti che erano appostati verso la cima, là dove la
strada si fa più erta.
Le strade di Marco Pantani si inerpicano sull’Appennino Tosco-Romagnolo come quando nel silenzio
dei tornanti lui si misurava con il cuore e i polmoni tesi, fendendo l’aria frizzante dei mille metri, lo
sguardo in fondo ai brevi rettilinei, o oltre le cime dei castagni di primavera. La sua sagoma pare
ancora inerpicarsi per la salita e scomparire dietro la curva.
Di là dello spigolo montano vi è Marradi, memore di Dino Campana e di altri itinerari della mente e
del cuore del viandante silenzioso.
Il tempo pare che scorra più lento sull’Appennino, anzi sui contrafforti che dalla pianura romagnola
salgono lentamente fino al fitto dei boschi e all’azzurrità del cielo attonito.
Bruno raccoglie i racconti degli avi alla Rocca, richiamo genetico di una durezza ancestrale, quando i
valichi erano percorsi da bande di predoni e da reparti di soldati. Dura memoria dei tempi dei
Lanzichenecchi, che di lì sortirono dopo avere superato in battaglia anche Giovanni delle Bande Nere,
attorno al 1525.
A Rocca San Casciano si celebra da tempi immemorabili la Festa dei Fuochi, l’ultima domenica di
marzo, e in piazza e per le vie sciamano i bambini festanti. La Festa dei Fuochi è un rito di
propiziazione delle forze naturali, presente lungo la dorsale Appenninica e anche nelle valli Alpine. In
Friuli conosciamo la tradizione del Las Cidulas, lancio di fuochi nella notte carnica. La notte ha
bisogno di tracce luminose, come lo spirito umano che si ottenebra e talora si perde nei suoi meandri
oscuri.
Lì si tramanda la tradizione della biancheria del corredo nuziale con le iniziali che, per risparmiare,
dovevano essere sempre quelle, e allora la famiglia Tassini enumerava negli anni tutta una serie di
Guido, Giacinto, Giacomo, Giovanni, Giosuè, Girolamo, Generoso, Gualberto, Gelsomina, per far
valere l’acronimo delle iniziali “G.T.” Generazioni.
Salumeria Tassini. Bruno mi racconta del nonno, che aveva ereditato e condotto a lungo la salumeria di
famiglia.
Mi dice dei tempi in cui il Paese alle falde dell’Appennino era un rifugio per chi si muoveva lungo le
strade malsicure che portavano ai valichi e più a sud, ma anche a nord. Mi parla dei leggendari
viandanti che scendevano dai passi e proseguivano per le pianure verso il grande fiume, per superarlo e
andare ancora oltre e oltre.
Si sofferma sul nonno e sul suo carattere forte, che lui ritiene di avere ereditato, duro come la pietra
delle Balze e della Rocca.
Sono qui di passaggio e ammiro l’Appennino e i suoi borghi, l’edilizia spontanea, le case affiancate
lungo la via principale, schiere solidali di usci e cortili. Donne affaccendate e crocchi di anziani, ancora
dialoganti. E confronto con il nostro cosiddetto laborioso e glorioso nordest.
Decollando da Venezia per altrove, Marco Polo airport, vedo sempre più indistinta la brutta
conurbazione veneta, orrido contributo dell’uomo, sbeffeggiamento della bellezza, quasi
manifestazione di vacuità mentale, e pavento il rischio che anche il Friuli si avvii per quel crinale di
sviluppo del quantum senza tenere conto del quale.
Spiritual-mente
Non sfugge all’osservatore attento la temperie morale e culturale di questi tempi, nei quali si è diffuso
un certo agnosticismo circa le condizioni di possibilità di un giudizio di merito sulle azioni umane,
secondo il criterio di “buone” o di “male”. Non parlerei neppure di relativismo etico, ma di abbandono
di un campo nel quale si può (e si deve) esercitare l’intellezione e la riflessione razionale sulla stessa
realtà delle cose.
La nozione di “senso di colpa” additata da molti al ludibrio dei contemporanei, non ha trovato altra
consolazione che il suo “superamento” incondizionato, trascurando, però, le orme profonde che esso
lascia a livello esistenziale.
In realtà ogni colpa si dà come traccia inestinguibile dell’atto compiuto, lasciando residui di uno “star
male”, e una specie di rimpianto, quasi una nostalgia della verità del proprio “io”, cioè una specie di
anossia spirituale.
Per questo il senso di colpa non è superabile se non con la resipiscenza, con la conversione (la greca
metànoia), che è un “cambiare la mente”, cioè acquisire un nuovo approccio al giudizio sul valore
delle scelte individuali.
In tutte le società e culture l’uomo ha cercato consigli e orientamenti dagli anziani, dai saggi e dai
sapienti. Fino all’altro ieri gli anziani sono stati interpellati come i saggi per antonomasia, perché
depositari di autorevolezza e capaci di una visione complessa, sistemica. I sapienti sono stati
variamente individuati nell’ambito religioso, medico, filosofico. Con il cristianesimo si sono proposte
le figure dei confessori e dei direttori spirituali cui per duemila anni molta parte dell’umanità ha fatto
riferimento.
Ma specialmente in occidente, da circa un secolo e mezzo, si è sempre più affermata la figura dello
psicologo, che ha sviluppato ricerca e terapie sulla psiche umana, quasi in concomitanza con una certa
difficoltà del sacramento della confessione cristiana in quanto struttura operativa e simbolica del
pentimento.
Vi sono inoltre sempre più problemi di sofferenza psichica, un disagio crescente ad inquadrare la vita e
i suoi problemi, ad accettare l’incertezza del futuro, una difficoltà a conciliare il proprio io con il sé,
cioè ad integrare in modo sano le personalità individuali, le quali non appartengono ad alcuna
tassonomia assoluta, non costituiscono mai uno standard. Ciononostante, e anche in presenza di tutta
questa “offerta” di saperi, il “male di vivere” sembra non trovare requie. Azzardo un’ipotesi: forse che
non si stia sottolineando troppo una prospettiva di salute mentale, cui non si collega mai un giudizio di
merito circa la qualità morale delle azioni libere dell’uomo? In altre parole, si studia spesso il
meccanismo psichico senza integrare l’indagine con gli aspetti di valore rilevabili dalla compresente
coscienza responsabile di chi agisce e di chi osserva l’agire, possedendo il senso morale, cioè l’uomo.
La questione mi sembra proprio questa. Essendosi reso più raro il riferimento classico ai confessori e ai
direttori spirituali, che si occupano delle scelte morali dell’uomo, la mera dimensione di una ricerca del
benessere psicologico basato sulla coerenza e sulla “salubrità” dei processi mentali, non basta,
palesemente.
Vi è una dimensione etica e valoriale che sfugge, per definizione, al campo di indagine delle scienze
psicologiche, e che non può essere trascurata. Penso ad esempio alla scuola, al lavoro dei consultori
sulle crisi delle coppie, sui problemi dell’educazione dei figli di coppie divise: in quei contesti
mancano saperi indispensabili, discipline come l’antropologia filosofica e la morale della vita umana.
Così viveva un tale che sentiva dentro di sé quanto detto sopra.
“Si cammina e ci si affida allo spirito dei luoghi. Ci sono luoghi che ti attirano e ti accolgono, che ti
danno l’impressione di essere atteso. E altri che ti respingono: persona non gradita”. (David Le
Breton, antropologo)
Il futuro gli appariva come un muro impenetrabile. Un muro posto a poca distanza dagli occhi, tale da
interdire, talora, la vista.
L’agnoscenza di ciò che sarebbe accaduto creava dei vuoti corrispondenti. Come affrontare ogni giorno
che poteva presentarsi all’alba? Come darsi fiducia?
L’agenda del lavoro e degli impegni poteva supplire solo in parte, poiché molto ne rimaneva escluso.
Il senso del tempo e delle cose andava interpretato momento per momento, come se nulla fosse sicuro e
solido.
La follia era compagna usuale del procedere.
Ma si trattava della follia come malattia divina, quasi come quella del Rabbi di Nazaret o del povero
grande Federico Nietzsche. Come quella di Edgar A. Poe o di Modesto Mussorgskij.
Dioniso vs. Apollo.
La vita nel suo pieno. Da riconquistare ogni giorno.
“The departed”. I dipartiti (di Martin Scorsese)
La pantegana che cammina sul muretto di una terrazza è l’inatteso soggetto dell’ultima inquadratura
del film di Martin Scorsese, suggello di un racconto che non dà tregua, una finestra sullo spegnersi
dell’umano, e insieme sulla sua perennità, crinale aspro sul quale si gioca la battaglia senza fine fra la
manifestazione insopprimibile della dignità altissima della ratio e l’abominio della rinunzia alla ratio
stessa. Una pantegana curiosa, che scruta la terrazza e lo sfondo europeizzante del municipio di
Boston, Massachussets. Quasi umana, anch’essa.
Mi trovo solo, al cinema, la condizione forse ottimale per guardare il film in un altorombante (e un po’
squallido) multisale di periferia. Prima visione, in oltre due ore adrenaliniche, sempre sul filo di una
tensione misurata e di una violenza senza requie, si alterna un cast di primo livello, a partire dal
sommo Jack (Nicholson), rappresentazione del male che un uomo può fare, e poi vi è un Matt Damon
così perverso e così perbene da farsi odiare, un Leo Di Caprio maturato, non più improbabile
giovanetto imberbe, un Martin Sheen all’altezza (sua) e dei grandi caratteristi hollywoodiani, e infine
un convincente, ma imbolsito, Alec Baldwin.
Il sottotitolo recita “il bene e il male”. Forse sono andato a vedere questo film più per il sottotitolo che
per altro.
La questione che emerge dal racconto concerne il groviglio delle due polarità morali del
comportamento umano. Non esiste l’uomo del tutto “buono” e l’uomo del tutto “cattivo”. Epperò
l’uomo può essere, perché può deciderlo, prevalentemente cattivo, o prevalentemente buono. Può de-
cidere, cioè tagliare (è il latino caedere), può rifiutarsi o accettare, può stare con chi uccide o può
distogliersi da lui. Scorsese non è un manicheo contemporaneo, e riesce dunque a schizzare dei ritratti
umani probabili. Non conosco le intenzioni del regista, ma osservo che il cinema possiede mezzi forse
superiori alle altre espressioni artistiche per raccontare l’ambiguità e il tormento dell’uomo di fronte
alla scelta libera, all’atto umano deliberato e attuato senza costrizioni, il quale è sempre eticamente
rilevante. Il cinema può contare sul visibile e sull’udibile, sul movimento e sulla sorpresa causata dalle
inquadrature, dal montaggio, dal ritmo, dai cambi di scena. Il ghigno di Nicholson-Frank Costello che
ribadisce, come rappresentazione superomistica (nell’accezione più letteralista, non nietzscheana) quasi
il suo diritto a comandare e a uccidere immergendosi talora nella più trucida macelleria, fa il paio con
l’ondivagare mentale cinicamente osceno di Matt Damon, la talpa di Costello dentro la polizia di stato.
Se il giovane Di Caprio, l’infiltrato della polizia nella malavita, si accredita con la violenza dentro
l’ambiente delinquenziale, e ne subisce quasi una trasformazione antropologica verso il male, (anche se
a fin di bene), ha rigurgiti di senso di giustizia insopprimibili, quando difende un bottegaio e sua figlia
da due mafiosi provenienti da Providence, che pretendono il pagamento del “pizzo”. Fare il male fa
male, sembra di sentir dire all’autore.
Lo sfondo della nobile Boston è quello della città piena di relitti umani, dove latita la speranza. Piani
sequenza illuminati da una luce sghemba, di giorno e di notte. Nel racconto cinematografico l’uomo si
staglia come un essere che si manifesta e nel contempo si nasconde nella ferinità ancestrale, appena
successiva al “peccato d’origine” e precedente ad ogni redenzione. Che non è certo costituita dal
povero rito del funerale metodista, dove un pastore nerovestito biascica una stanchissima nenia sulla
vita eterna.
Pare che l’uomo non possa salvarsi. Lontano è l’Uomo di Nazaret, Jehoshua ben Josef, quello delle
beatitudini (Cfr. Matteo 5, 3 – 10, infra: Beati i miti .., beati i puri di cuore .., beati gli operatori di
pace ..,), lontano il Buddha compassionevole, quasi assente ogni segno di speranza.
Nella catarsi (o nemesi che sia, è lo stesso) del finale, piena di spari e di omicidi, dove il sangue esce a
fiotti come affrettandosi a togliere le vite, dove la catena della morte si srotola sui protagonisti e li
avvinghia irresistibilmente, come un contrappasso o una pena da scontare, perché non rinviabile, resta
un barlume di speranza nel Bene di un bimbo che cresce nella pancia di una donna, fidanzata a uno dei
morituri e straziata dalla fragilità di un altro morituro.
Morituri te salutant, homo (homini lupus). Quomodo resurges ad humanitatem tuam tuendam?
The Lord of the Rings
Da Isildur dei tempi antichi a Minas Tirith. Dove Aragorn, il re di Gondor deve tornare. La fiaba di
Tolkien si dipana tra prati ridenti e gole minacciose, tra grotte paurose e paludi mefitiche. La Nuova
Zelanda è la location, ma se il regista Jackson avesse visto la Carnia, forse sarebbe venuto qui. Ogni
luogo rappresenta stati d’animo e condizioni della psiche. Gli uomini si alleano agli elfi per combattere
il grande male di Sauron, ma essi stessi hanno conosciuto nei tempi antichi il male, e conoscono il
male di oggi. Come gli uomini, che siamo noi. Gli orchi, servitori di Saruman, antico sodale del grande
Gandalf, sono schiavi condannati alla pena della brutalità instupidita. La minaccia di Sauron si fa
incombente e chi possiede l’ultimo degli anelli forgiati a suo tempo nel fuoco del Monte Fato, rischia
continuamente di esserne attratto fino alla perdizione. Non vi è nulla di esplicitamente legato ai
mitologemi dei testi biblici nella saga, eppure si registrano echi lontani, quando la simbologia si fa più
nitida e pressante sul contrasto perenne fra bene e male. Si intravede qua e là un qualche rischio
manicheo, ma questo viene poi scongiurato. Boromir (Sean Bean), il valoroso principe di Gondor,
viene attratto dal potere dell’anello, ma poi si comporta da valoroso e cade al termine di un’epica
battaglia con gli orchi Uruk-ai, e viene mandato verso la luce di Valinor, su una zattera di sepoltura,
giù per il grande fiume. La tentazione contenuta nell’anello percorre tutta la narrazione, così come la
tentazione del serpente antico è presente nella Bibbia fin dal capitolo terzo di Genesi. Qualcuno
sostiene che il lavoro dell’illustre linguista britannico sia permeato di una sottile filigrana di new age o
di superomismo fascistoide. Penso di no. Si tratta invece di una simbologia che travalica ogni lettura
legata a schemi socio-culturali o politici attuali. Tolkien usa la dimensione del tempo collegato al
racconto, e del racconto consegnato a un tempo fantastico, indecidibile e indicibile, in qualche misura
evocante le antiche saghe del nord o del mondo nibelungico, ma anche da esse separato. Prevale
piuttosto il senso del mysterium tremendum et fascinans che, secondo Rudolf Otto, avvolge Das
Heilige (Il Sacro), che è una “manifestazione assoluta dell’essere” (A. Olmi O.P.). Tutto ciò che è
grande e incombente, il mare, le grandi montagne, operano un doppio e contrario effetto di attrazione e
di repulsione. Quando Gandalf il Grigio soccombe, “tirato giù” nell’abisso di Khazad-dûm da un colpo
di coda del Balrog, un demone antico, risvegliato dal suo sonno pauroso, per salvare la Compagnia
dell’Anello che fugge dentro gli antri delle miniere di Moria, tutto sembra perduto. Ma Gandalf ritorna
su un cavallo bianco (apocalittico? Cf. Apocalisse di Giovanni al cap. XIX), Ombromanto, e la sua
capigliatura è completamente bianca. Risuscitato? Echi del mistero pasquale cristiano? E la
resurrezione è attiva o passiva, cioè, vi è una forza che l’ha resuscitato, o lui ha usato una forza che
intrinsecamente gli appartiene? E che dire di Arwen, che rinunzia all’immortalità delle creature elfiche
per amore di Aragorn? In mezzo a questo fragore di battaglie, e al sibilo dei cavalieri neri, però,
emerge un personaggio piccolo, minuscolo, uno hobbit dei boschi, Frodo Baggins, che si fa
accompagnare da un suo amico-servitore, Sam. È con Sam che Frodo parte con l’anello per la sua
missione sovrumana, dopo avere accettato l’incarico dal consesso di elfi ed umani riuniti da Gandalf
nella residenza di Lorien. Frodo è il vero protagonista del racconto, più del valoroso Aragorn (Viggo
Mortensen) e dell’agilissimo Legolas (Orlando Bloom), più del sapientissimo Gandalf (Jan McLellan).
Kate Blanchett-Galadriel è una regina degli elfi bellissima, un po’ Atena e un po’ Artemide, notturna e
lunare, ma non del tutto in grado di evitare la tentazione dell’anello. Questi nomi in elfico, poi,
Galadri-el ad esempio, evidente prestito ebraico con il suffisso in “el”, che indica il semantema del
divino. Le cavalcate dei cavalieri di Rohan hanno l’impeto irresistibile della leggenda, anche quando
tutto finisce con la morte gloriosa del loro re, Theòden, che soccombe sotto il suo cavallo, ma invita a
tenere duro, perché il grande male deve essere sconfitto. Con l’aiuto decisivo degli Ent, alberi che
appartengono non solo ai viventi, ma si collocano in un punto di passaggio con la vita cosciente. Gli
Ent borbottano, parlano, promettono, attaccano, vincono le schiere degli orchi, spazzandole via con
furia devastatrice. Creature strane (il nano Gimli con la sua scure terribile), brutte, valorose, buone e
cattive, talora nel contempo, si accompagnano agli uomini, quasi a dire che tutto ciò che è a questo
mondo ha dignità d’essere e merita rispetto.
Ne sono rimasto intrigato per via di mia figlia, che è diventata una tolkieniologa di tutto rispetto. Lei si
è messa di buzzo ad approfondire la conoscenza guardando i dvd della trilogia in inglese, ed
esplorando il backstage di Peter Jackson, con grande pazienza. E quando mi parla del Gollum con pietà
partecipata, considerando la compresenza del male e del bene in questo essere deforme e infelice, così
come in ognuno di noi, ne sono lieto.
Warhol, la New Factory a Parma
Traversetolo, Fondazione del filantropo Luigi Magnani Rocca sulle colline parmensi, a pochi
chilometri da Langhirano e in vista dell’Abetone innevato.
Tutto questo in una domenica di pieno aprile per vedere la New Factory di Andy Warhol (alias
Andrew Warhola, figlio di boemi emigrati a Pittsburgh). Andiamo a vedere Warhol, quello di Marylin
e della Coca Cola, Beatrice dixit. Andammo.
L’ambiente è magnifico, in questa primavera che rende l’aria sempre fresca come appena nevicato. Il
parco enorme, Cedri Libanenses e platani, giardino all’inglese da purosangue al galoppo e all’italiana
da meditazione metafisica.
Giorgio Morandi, amico di Magnani Rocca è rappresentato da decine di opere, litografie, acquerelli e
chine. C’è un bassorilievo, che rappresenta un satiro, di Manzù, una Tersicore con lira del Canova da
Possagno, le ambientazioni realistiche de l’Infante di Spagna di Francisco Goya, una Vergine del
Tiziano, una di frate Filippo Lippi, un San Pietro del Ghirlandaio, il Cezanne acquerellato dei paesaggi
provenzali, e un Monet normanno con le falesie alte sull’oceano. Nelle ampie e signorili stanze trovano
posto anche un clavicembalo e un’arpa classica su cui si sofferma la giovane arpista anonima, come
rapita.
Solo, si fa per dire, il contorno alla mostra dell’uomo della pop art del secolo scorso. Penso il contrario
e lo dico alla reception ottenendo un sorriso complice.
Si entra, tralasciando una saletta dove si stanno proiettando i suoi lavori cinematografici live, per solo
pubblico adulto, e le musiche dei Velvet Underground, voce aspra di Lou Reed, ti avvolgono. La pop
art di Wahrol è iterativa: “I’m an artist, don’t ask me why”. Il motto di mastro Wahrol è stampato su
piccole spille in vendita. L’arte, secondo lui, si può ripetere, copiare, cosicché l’artista si fa conoscere e
conosce il suo pubblico. La democrazia artistica del ’68 al potere (?).
Nella prima stanza vi sono foto dell’artista con Bertolucci, Madonna, il Bob Dylan dei tempi del
Greenwich Village, bottiglie di Coca Cola disposte sul pavimento della Factory originale. Le zuppe
della Campbell, simbolo dell’approssimazione alimentare nordamericana.
E poi, nel salone centrale, le serigrafie dei Ten Jews of Twentieth Century, tra cui Kafka, Gershwin, i
fratelli Marx (Zeppo, Harpo, Groucho), ma non Karl che è dell’’800, Golda Meir, il dottor Freud,
Martin Buber, ricette spiritose illustrate e angioletti sessualmente attivi, Norma Jean Marylin in otto
versioni.
Il presidente Mao dei tempi della lunga marcia, stempiato e monacale, la sedia elettrica che giustiziò
per spionaggio nel 1953 i coniugi Rosenberg, ripetuta almeno i dieci copie, e poi, nell’ultimo salone
Geronimo, il generale Custer, John Wayne, un Mick Jagger del ‘75, quello di Honky Tonk Hotel e
Jumping Jack Flash, Man Ray, The last Supper e Gesù stesso filtrato in violetto dal Leonardo delle
Grazie di Milano. Mi fermo sulla poetica Mother and Child, filogenesi dei nativi americani, che amo
da sempre. E infine, tutta su una parete, l’accolta di transessuali e travestiti che Wahrol incontrava per
le vie ai confini del Bronx, cui conferisce una patente di malandrina simpatia colorata.
Copertine di riviste con la Kathleen Turner e Susan Sarandon, Travolta e i Beatles, firmate da Warhol
come quadri.
La copiatura e la sbavatura delle linee caratterizza le sue opere, riprese da copie sovrapposte e scivolate
l’una sull’altra a creare un effetto di imprecisione approssimativa, quasi a dire che la realtà odierna
deve essere altrettanto considerata non meritevole di credito ontologico.
Ci si chiede cosa rappresenti Wahrol, tra il dandysmo estetizzante della upper class americana degli
anni Sessanta e Settanta e l’attenzione per le diversità stridenti, per la vitalità destrutturata
rappresentata simbolicamente dalla pop art, senza che traspaia un giudizio o un’appartenenza
dell’artista. E men che meno una prospettiva eticamente leggibile. Le sue scelte, i soggetti
appartengono a tutti gli ambiti sociologici. Wahrol non privilegia nessuno: legge le persone nel mondo,
ne studia i tratti, i contorni, i chiaroscuri, e li ripropone in modo seriale, a mezzo tra l’umiltà del
fotografo e un’autostima da demiurgo, quasi, talora, a ri-creare le immagini, come se ogni
rappresentazione non fosse mai quella definitiva, quasi a ricordare che ogni giorno ha il suo ritratto,
per ognuno di noi.
In questo Wahrol è artista vero, nel suo stare dentro e contemporaneamente nel chiamarsi
continuamente fuori dalla rappresentazione dei soggetti della sua poetica.
Zygmunt Bauman e la virtù
Leggendo Amore liquido, ed. Laterza 2006, (Liquid Love. On the frailty of Human Bonds, Polity Press,
Cambridge 2003, e Blackwell, Publishing Ltd, Oxford 2003) di Zygmunt Bauman, sociologo polacco
premiato se non ricordo male anche dalle grappiste di Percoto, mi è venuto un senso di precarietà e
nausea. Non so come tradurre questo sentimento dal friulano rivignanese: “a mi si son drezâz i čjiavei”.
E dunque ho deciso di ricorrere a degli anticorpi contro un pensiero così liquido, pur se condito da
citazioni numerose, tratte prevalentemente da periodici di costume di lingua inglese. Per Bauman,
oramai, quasi tutto si è liquefatto, la società, i linguaggi, gli affetti, e non sembra esserci possibilità di
recupero, possibilità di imbrigliare queste acque disordinate, di dipanare i meandri e arginarle.
L’uomo è anche altro, molto altro da quello che traspare dagli eleganti e patinati schemi analitici
dell’emerito professore, anche se la scienza che lui pratica è per definizione descrittiva. Ma c’è
descrivere e descrivere: vi è un dire rassegnato, quasi come da osservatore esterno, metaposto, da
entomologo sociale, e un dire partecipato, magari sofferente, ma vivo, non rassegnato. Sarà per l’età
dello studioso, però anche altri sono vecchi, e anche più “esposti” di lui, eppure non si pongono di
fronte ai problemi in modo così disincantato e privo di speranza.
La virtù umana, e anche la virtù dello stare-in-relazione con gli altri, che non è morta come sembra
concludere Bauman, si estrinseca in modi innumerevoli. Dai modi più blandi a quelli più eroici.
Quante madri e padri oggi, nel mondo, e anche qui da noi, hanno cresciuto figli numerosi superando
ostacoli indicibili. Quanta sofferenza e quanto dolore silenziosi fecondano e alimentano positivamente
le situazioni delle persone e delle comunità locali. La virtù è habitus dei forti, dei coraggiosi, dei
pazienti, dei silenziosi. Sentivo un emigrante che raccontava come dovette rubare pannocchie, uova,
galline, per sfamare i figlioletti. Cinquanta anni fa, nella Bassa, non tra le bidonvilles di Nairobi,
Mombasa o Mumbay. So di mio padre, che per integrare la dieta, bimbo delle elementari, andava “a
crôz” nei rivi e nelle polle abbondanti del paese delle acque.
Se per “miracolo” si intende una sospensione delle leggi di natura, allora le virtù non producono
miracoli, perché sono potenzialità espressive della struttura psichica e dell’organismo spirituale
naturale. I santi non sono solo quelli proposti dalle varie religioni al culto e alla venerazione del
popolo, ma molti di più, altrimenti il mondo non avrebbe retto. L’Apocalisse di Giovanni narra di una
schiera innumerevole di perfetti che sfilano davanti al trono dell’Agnello (Ap 7, 9 - 10). Quanto
migliore di me è stato mio padre, eppure io non sono (molto) cattivo, nel senso di captivus, prigioniero
(di se stesso). Ma mio padre non sarà mai elevato agli altari. Gli antichi cristiani, ai tempi di San Paolo,
si chiamavano tra di loro “santi”, ma non per sancirne (stessa radice di “santificazione”) una
particolarità irraggiungibile, ma per spiegarne la normalità. Questi e altri santi sono stati capaci di
essere vinti, o “perdenti” come si dice oggi in vulgarissimo modo, serenamente. Sono stati e sono
padri, madri, figli, vecchi, bambini, che hanno vissuto soffrendo, più o meno, nell’indigenza o nella
medietà di una condizione nascosta.
Oggi è difficile parlare ed essere ascoltati, è difficile riflettere e trovare interlocutori. Pare che stia
prevalendo una specie di welfare mentale e biologico, che mutua da quello socio-politico tutta una
gamma di diritti e di garanzie. Ma non c’è gioia dopo l’acquisizione di tutti questi diritti, prevale quasi
una tristezza, quasi un senso di appagamento che rallenta il flusso dei pensieri e riduce la forza
dell’agire.
L’invisibile, ma percepibile, l’inudibile, ma coglibile, il silenzioso, ma eloquente, rischiano di
scomparire perfino dal pensiero intenzionale, dai concetti che la mente crea nell’umano, e lo
caratterizza al di sopra del non-umano, dell’irriflesso. Il condizionato umano si riflette
nell’incondizionato, sia pure come concetto puro, ma anche come possibilità di essere Qualcuno.
La virtù non è morta: è aretè, forza, anzi fortezza, che è composta dalla pazienza (intesa come
sopportazione), e dal coraggio. Il professor Bauman, forse, con il suo occhio oramai avvezzo al
desencanto, non è interessato a ciò che non muta sotto il cambiamento superficiale della liquidità
sociale. Certamente ha il merito di segnalare il pericolo che la liquidità diffusa faccia marcire anche gli
strati profondi dell’essere umano, questo sì, ma vale la pena ammettere che sotto la faglia che sta
slittando vi è ancora un intangibile e potente strato di coscienza. Intangible asset, sapere immateriale,
“cosa” spirituale, e perciò immarcescibile.
Il fantasma di Milazzo
La porta si era aperta con delicatezza e Maria si era girata per vedere se fosse l’Anna di ritorno dal
bagno. Ma … nulla.
Più tardi le aveva chiesto se fosse un attimo ritornata in camera. Al diniego parlarono d’altro. Sarà
stato un colpo di vento, Grazia pensò.
Grotta di Polifemo, spiaggia sabbiosa e spiaggia sassosa. Le amiche sono andate a visitare il mito.
Silenzio sospeso sullo sfondo del mare.
Milazzo è stata fondata dagli Zanclei. Luogo della battaglia navale tra i Cartaginesi e i Romani di Caio
Duilio nel 260 a. C.. Poi arrivarono gli Arabi dall’VIII secolo, che lasciarono la mihrảb nel Castello,
posta come freccia a indicare La Mecca. E lì vi è anche, scolpito, il Simbolo, lo scarabeo con le ali
come occhi, mistico segno di Dio. Non mancò di intervenire Federico II che ingrandì, more solito, e
abbellì il castello.
Gli indigeni si ricordano di Garibaldi che mangiò pane e cipolle sulla scalinata di Santa Maria
Maggiore nel 1860. E del colpo di cannone incastonato nel muro della chiesa di San Francesco di
Paola.
Alloggiano dalla vedova, che le tratta come figlie.
La vedova (del tipo Loren giovane o Cucinotta), cinquantottenne, aveva un marito che è morto…
Lui aveva gli occhi azzurri ed era bello, figlio degli antichi Normanni. Navigava quando voleva per le
Eolie: Salina, Lipari, Vulcano, Stromboli, Panarea, mare nero come la pece, spiagge. Marinaio,
pescatore. A volte si spingeva fino alla solitaria Ustica, il più alto vulcano d’Europa, ormai spento. Ed
è morto.
Le amiche erano in vacanza e una aveva il moroso str.. Uno che veniva a trovare l’Anna, ma non
pranzava mai con loro per non rischiare di tirar fuori il portafogli.
Quella porta si era aperta e non era entrato nessuno. Non ci aveva fatto caso, la Maria, ma le era
rimasto impresso, il fatto. Chissà come mai quella porta le era parso si fosse aperta.
Poi, una mattina erano andate con la vedova dal sindaco, a protestare per gli schiamazzi notturni di
alcuni giovinastri.
Il sindaco era azzimato e mafioso nei modi. Il modo di fare mafioso viene prima (e li fonda) degli atti
di mafia. È un tratto antropologico, un approccio al mondo e alle cose. “Venga da me che le combino
io”. Al di fuori delle regole e del diritto. Le aveva promesso che sarebbe intervenuto, ma tutto continuò
come prima.
A Maria ritornava in mente spesso quella porta che si era aperta, finché non sognò. E sognò che era lì,
proprio lì, in vacanza, e stava bene in casa della vedova, che aveva perso il marito dagli occhi azzurri.
Una mattina di domenica, pieno agosto, mare splendente, cristallino, sullo sfondo le isole del mito, e la
porta si apriva… Lei era ben sveglia, le pareva, e, ecco che qualcuno stava per entrare, perché sul
pavimento si sentivano cauti passi. Ancora un momento, ed ecco che, sulla soglia oramai aperta, era
apparso l’uomo, ma sì, l’uomo, il marito della vedova, quello bello, marinaio, pescatore, con gli occhi
cerulei, ora che lo poteva vedere bene. Cercò, la Maria, di parlargli, ma le parole non le uscivano di
bocca. E neppure a lui, che si esprimeva, però, con gli occhi, vividi, come da distante.
Lei tacque il fatto alla sua ospite, finché, una delle ultime sere del loro soggiorno a Milazzo, che erano
uscite tutte e tre alla festa della Madonna della Neve, improvvisamente la vedova parlò. Di suo marito
che tornava ogni tanto a visitare la casa che li aveva visti felici, furtivo, leggero, e apriva le porte e
camminava di stanza in stanza, e ogni tanto si riposava sul terrazzo guardando il mare. Lei sapeva
benissimo che lui era lì, immobile, appoggiato alla balaustra di pietra di tufo, con lo sguardo perduto
nelle lontananze.
Che cos’è che resta di uno che è morto, tra i vivi? Solo il ricordo? L’uomo ha sviluppato il culto dei
morti e costruito i cimiteri, non per i morti, ma per i vivi. Un tempo e ora di nuovo si custodiscono le
ceneri dei morti anche in casa.
Che cosa si spera? Chi crede nella vita eterna ha anche questa consolazione. Ma la vedova sentiva
qualcosa d’altro. Sentiva che i suoi sensi esterni le dicevano di una presenza ancora viva, come di un
corpo sottile, echeggiando tradizioni antichissime della spiritualità. I morti sono tali per un certo
aspetto, quello biologico, ma per altri aspetti, essi continuano a vivere nel cuore di chi li ha amati,
facendosi sentire da sensibilità accese, e, se si vuole ammettere come plausibile un qualcosa che non
può essere conosciuto dalle facoltà corporali, vivendo una vita completamente nuova, in un’altra
dimensione del reale.
Erano uscite per la processione e così si erano perse nel chiassoso vorticare della gente e dei portatori.
Come sempre i bambini ruzzavano da un lato all’altro della strada, facendo incespicare i vecchi e le
signore con i tacchi.La statua della Madonna della Neve girava e girava per le strade fino allo stancamento dei portatori e al sorgere dell’alba.