verona è - dicembre 2011

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Quinta Parete V erona cultura e società mensile on-line www.quintaparete.it Anno II - n. 12 - Dicembre 2011 Diretto da Federico Martinelli Musica L’altra Sanremo Fotografia Camera Work Viaggi Torino e dintorni Premio Tenco 2011, una manifestazione canora “alter ego” di quella che tutti conoscono A Berlino, appassionati della fotografia e non, non possono mancare di vedere questa galleria Ai piedi dei monti alpini lungo il Po si stende la città più misteriosa d’Italia e forse del mondo a pagina 3 a pagina 12 alle pagg. 28-31 Verona e il flamenco di Chiara Guerra e Rossano Tosi Non vado mai al cinema, la vita è troppo breve di Valeria Giarola Al Cinema Teatro San Massimo inedito appuntamento danzante Avete voglia di una ventata Andalusia? L’occasione irripe- tibile per dimenticarsi del gelo invernale è domenica 4 dicem- bre presso il Teatro San Mas- simo (VR) dove la compagnia Flamenco Caracoles presenta “Proxima parada: Calle fla- menco Dos”. Lo spettacolo vedrà la parteci- pazione dei solisti e coreogra- fi Chiara Guerra e Rossano Tosi, accompagnati dalla voce di José Salguero, dalla guitarra Antonio Porro, dal cajon Paolo Mappa, con la partecipazione del corpo di ballo formato da 5 ballerine. Dichiarato Patrimonio Cultu- rale dell’Umanità nel novembre del 2010, il flamenco è conside- rato come ballo popolare spa- gnolo. Le sue radici sono molto antiche, anche se la sua origine etimologica non è ancora stata chiarita del tutto. In Orìgenes de lo flamenco y secreto del canto jondo, Blas Infante ipo- tizza che questa danza derivi dalla parola ispano-araba fla- menco, ovvero contadino sen- za terra; altri ipotizzano che abbia a vedere con le Fiandre, ritenute la terra d’origine degli zingari, altri ancora da flameante (ardente) esecuzione degli arti- sti. Il flamenco è una tecnica dalle mille sfaccettature, i palos, ovvero gli stili musicali sono più di 50, alcuni prevedono la pre- senza di chitarra, canto e ballo, altri solo canto, altri solo canto e chitarra, ma senza ballo. In quest’occasione assisteremo ad uno spettacolo dove musica e danza si intrecceranno anima- tamente regalando momenti coinvolgenti. Chiara Guerra, coreografa e ballerina dello spettacolo assie- me a Rossano Tosi, ci descrive il flamenco in una parola: ani- ma. La sua passione per questo ge- nere di danza, diventa profes- sione appena dopo l’esame di maturità, quando appena mag- giorenne fa le valige, direzione: Jerez de la Frontera, da sempre centro importantissi- mo per la cultura del flamenco e che ospita ogni anno festival e ferias più importanti in materia. Una disciplina, che come tutta la danza richiede ore di inten- so lavoro e passione per l’arte, la musica e il movimento. Ispi- rata da inquietudini, malinconia e nostal- gia, Chiara Guerra e Rossano Tosi anche in questo appunta- mento invernale svilupperanno uno spettacolo che vi coinvol- gerà e appassionerà. Un’occasione anche per sfatare quello stereotipo che stigma- tizza il flamenco come: “quel ballo che si balla con la rosa in bocca!!! Ma il flamenco è quel- lo dove si battono i tacchi???” ( Cit. intervista a Chiara Guerra) Occasione irripetibile per vede- re sul palco una danza spetta- colare, intrigante e coinvolgen- te…e se volete un assaggio: http://www.youtube.com/ watch?v=gzxsgMtxIi8 Informazioni Inizio spettacolo ore 21:00 Costo d’ingresso: 12 € Info e prevendite: Cinema Teatro San Massimo, via Brigata Aosta, 8 Tel.: 045 8902596

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Il nuovo numero del mensile online "Verona è"

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Page 1: Verona è - Dicembre 2011

Q u i n t a P a r e t eVeronacultura e società

mensile on-linewww.quintaparete.itAnno II - n. 12 - Dicembre 2011 Diretto da Federico Martinelli

© STEVE SCHAPIRO, MARTIN LUTHER KING

Musica

L’altra SanremoFotografia

Camera WorkViaggi

Torino e dintorniPremio Tenco 2011, una manifestazione canora “alter ego” di quella che tutti conoscono

A Berlino, appassionati della fotografia e non,non possono mancare di vedere questa galleria

Ai piedi dei monti alpini lungo il Po si stende la città più misteriosa d’Italia e forse del mondo

a pagina 3a pagina 12 alle pagg. 28-31

Verona e il flamenco diChiara Guerra e Rossano Tosi

Non vado mai al cinema, la vita è troppo brevedi Valeria Giarola

Al Cinema Teatro San Massimo inedito appuntamento danzante

Avete voglia di una ventata Andalusia? L’occasione irripe-tibile per dimenticarsi del gelo invernale è domenica 4 dicem-bre presso il Teatro San Mas-simo (VR) dove la compagnia Flamenco Caracoles presenta “Proxima parada: Calle fla-menco Dos”. Lo spettacolo vedrà la parteci-pazione dei solisti e coreogra-fi Chiara Guerra e Rossano Tosi, accompagnati dalla voce di José Salguero, dalla guitarra Antonio Porro, dal cajon Paolo Mappa, con la partecipazione del corpo di ballo formato da 5 ballerine.Dichiarato Patrimonio Cultu-rale dell’Umanità nel novembre del 2010, il flamenco è conside-rato come ballo popolare spa-gnolo. Le sue radici sono molto antiche, anche se la sua origine etimologica non è ancora stata chiarita del tutto. In Orìgenes de lo flamenco y secreto del canto jondo, Blas Infante ipo-tizza che questa danza derivi dalla parola ispano-araba fla-menco, ovvero contadino sen-za terra; altri ipotizzano che abbia a vedere con le Fiandre, ritenute la terra d’origine degli zingari, altri ancora da flameante (ardente) esecuzione degli arti-sti. Il flamenco è una tecnica dalle mille sfaccettature, i palos, ovvero gli stili musicali sono più

di 50, alcuni prevedono la pre-senza di chitarra, canto e ballo, altri solo canto, altri solo canto e chitarra, ma senza ballo. In quest’occasione assisteremo ad uno spettacolo dove musica e danza si intrecceranno anima-tamente regalando momenti coinvolgenti.Chiara Guerra, coreografa e ballerina dello spettacolo assie-me a Rossano Tosi, ci descrive il flamenco in una parola: ani-ma. La sua passione per questo ge-nere di danza, diventa profes-sione appena dopo l’esame di maturità, quando appena mag-giorenne fa le valige, direzione: Jerez de la Frontera, da sempre centro importantissi-mo per la cultura del flamenco e che ospita ogni anno festival e ferias più importanti in materia.Una disciplina, che come tutta la danza richiede ore di inten-so lavoro e passione per l’arte, la musica e il movimento. Ispi-rata da inquietudini, malinconia e nostal-gia, Chiara Guerra e Rossano Tosi anche in questo appunta-

mento invernale svilupperanno uno spettacolo che vi coinvol-gerà e appassionerà. Un’occasione anche per sfatare quello stereotipo che stigma-tizza il flamenco come: “quel ballo che si balla con la rosa in bocca!!! Ma il flamenco è quel-lo dove si battono i tacchi???” (Cit. intervista a Chiara Guerra)Occasione irripetibile per vede-re sul palco una danza spetta-colare, intrigante e coinvolgen-te…e se volete un assaggio: ht tp://w w w.youtube.com/watch?v=gzxsgMtxIi8

Informazioni

Inizio spettacolo ore 21:00Costo d’ingresso: 12 € Info e prevendite: Cinema Teatro San Massimo,via Brigata Aosta, 8Tel.: 045 8902596

Page 2: Verona è - Dicembre 2011

Musica2 Dicembre 2011

Segue dalla prima

Non vado mai al cinema, la vita è troppo breveTitolo

Biografie dei protagonisti

Vita e carriera di Chiara Guerra:

Nata a Verona nel 1979, a 7 anni inizia a stu-diare danza classica presso il “Laboratorio Danza Verona” e conseguendo il diploma di insegnante nel 2006. Oltre alla danza clas-sica studia danza moderna, contemporanea e tip-tap.A 12 anni si avvicina al flamenco e dal 1996 ogni anno va in Spagna per studiare con i maestri andalusi, la Chiqui de Jerez, Ra-faela Carrasco, Javier Latorre a Sevil-la e Jerez de la Frontera e con Ciro, Ma-nuel Reyes, Carmela Greco, La China, Adrian Galia, a Madrid, presso l’accade-mia Amor de Dios. Dal 1996 è insegnante di flamenco e tiene corsi sia per bambini che per adulti. La sua carriera vanta partecipazioni impor-tanti nel mondo della danza: nel giugno 2001 è in tournè in Giappone con la compagnia “Alborea”, che presenta “Carmen” e sem-pre con la stessa compagnia balla al Teatro

Donizzetti di Bergamo. Nel 2004 la ritro-viamo con la Carmen nell’arena svizzera di Avenches , dove balla insieme alla compa-gnia “Flamencos en route” di Brigitta Luisa Merki. Nel 2009 è impegnata in una tourneè italiana con “Dos Almas” presentato dal-la compagnia “Flamenquevive” di Gianna Raccagni. Dal 2000 è inoltre ballerina del quartetto “Mediterranea”, spettacolo che ha riscosso grande successo nella Penisola, ispi-rato a Garcia Lorca.

Vita e carriera di Rossano Tosi:

Si appassiona allo studio del flamenco in Ita-lia con Elena Vicini e Maria José Leòn Soto. Trasferitosi a Madrid, si perfeziona all’Acca-demia de flamenco y danza espanola “Amor de Dios”. Partecipa a numerosi stages a Jerez de la Frontera e Siviglia e nel mentre appro-fondisce anche la danza classica, moderna e contemporanea. Il suo curriculum vanta nu-merose partecipazioni importanti: nel 1999 è

ballerino solista al Festival di danza di Fri-burgo con la compagnia Laura Farret Jime-no; nello stesso anno è in turnè in Giappone con la compagnia di Mara Terzi. Nel 2007 è sullo schermo televisivo ospite, in una punta-ta dedicata al flamenco e all’Andalusia, del programma di viaggi su La7 “Come Thelma & Louise”. Nel 2003 è il Torero della “Car-men”, presentata dalla compagnia Arte Dan-za 95 presso il teatro S. Domenico di Crema. Insieme all’attrice Pilar Perez Aspa e al chi-tarrista Antonio Porro, partecipa a “El Dun-de”, spettacolo presentato per la prima volta alla rassegna “La rosa dei venti”, VII edi-zione del festival dell’Argentario e nel 2009 balla con la compagnia Arte y flamenco per la Carmen di Zeffirelli all’Arena di Verona.Dal ’98 unisce la passione di ballerino alla professione di insegnante di tecnica, coreo-grafia del flamenco, nacchere, danza spagno-la sia a bambini che ad adulti. (val. gia.)

Società13Novembre 2010eronacultura e società

V èQ u i n t a P a r e t e

Omologati in TV. Peggio, omoge-neizzati. No, non mi riferisco aiprogrammi televisivi, che sem-brano tutti “fatti con lo stampino”da almeno dieci anni, peggio an-cora dei vari telegiornali che sonoproprio tutti uguali.Sto parlando dei concorrenti delGrande Fratello, tutti conformi a unmodello standard tristissimo, quellodella volgarità estrema. Sì, la volga-rità dei gesti, delle parole, degli at-teggiamenti è il denominatorecomune che unisce, tra loro, quasitutti i reclusi della “casa”. E li uni-sce anche alla presentatrice, Alessiaa gambe sempre aperte Marcuzzi. Mapossibile che nessuno abbia maifatto notare a questa povera ra-gazza – addirittura capace la scorsaedizione di sedersi sul pavimentodello studio, sempre rigorosamentea gambe aperte, spalancandoun’ampia panoramica sulle propriabiancheria intima – che, in video,assume delle posture che fanno a

pugni con un minimo di eleganzae di buon gusto? Oddio, non è chesiano tanto più signorili gli autoridella trasmissione, che ricordano aogni piè sospinto il premio finale dialcune centinaia di migliaia euro,come fosse l’unica molla a spingerequesta variopinta umanità aesporre le proprie miserie alla vistadi qualche milione di guardoni. Equi cominciano le rogne vere, per-ché sarebbe necessaria una com-missione di psicologi, sociologi eantropologi per cercare di capireche cosa possa indurre alcuni mi-lioni di persone normali ad abbrut-tire il proprio spirito davanti alleincredibili esibizioni dei “ragazzidella casa”. Forse la solita voglia disentirsi migliori?A farci respirare, fortunatamente,c’è la Gialappa, che non ne lasciapassare una sia alla conduttrice siaai concorrenti. Di più, per farci ca-pire il livello di squallore (o di cru-deltà?) dell’ufficio casting del

programma, non ha mancato diproporre una selezione – mamma-mia! Una selezione… Chissà glialtri! – dei provini, dove quasi nes-suno dei candidati, per esempio, hasaputo dare una risposta sensata, oalmeno non insensata, alla richiestadi dichiarare il proprio “tallone diAchille”.A ben pensarci, coloro che neescono meno peggio sono proprioi reclusi del Grande Fratello. Perchéfanno pena, fino alla tenerezza. Ab-bagliati dal miraggio di diventareVip, e di guadagnare un sacco diquattrini, si prostituiscono fino a unpunto di non ritorno, rimanendomarchiati a vita da quel suffisso –“del Grande Fratello” appunto –che li accompagnerà per tutta lavita. Pochi finora hanno avuto lacapacità di affrancarsene, e di fardimenticare questa squallida ori-gine mediatica. Per tutti, Luca Ar-gentero; e pochi altri che si possonocontare sulle dita di una sola mano.Non ritengo sia indenne da questobaratro di volgarità l’editore ditanto spettacolo. Vorrei chiedergli – se mai fosse per-sona abituata a rispondere alle do-mande – se sarebbe contento di farassistere i suoi figli adolescenti, o isuoi nipoti, a una porcheria simile.Ma forse conosco la risposta, diret-tamente ispirata dal dio denaro.Mi sono sempre ribellato a ogniforma di censura, come espressionedella più proterva volontà di an-nientare, nella gente, il senso e lacapacità di critica. Ma devo dire

che, di fronte a questo osanna allavolgarità, comincio a capire quellastriscia di carta bianca, incollata, aitempi della mia adolescenza, suimanifesti e le locandine dei film edegli spettacoli più “sconvenienti”,che prescriveva «V.M. di 16 anni».Forse, adesso, sul cartellone delGrande Fratello si dovrebbe scrivere«V.M. di 99 anni»…Per continuare con il giro di volga-rità e stupidità sui media di oggi, virimando all’ultima pubblicità diMarc Jacobs. Ma tenetevi forte, eh!

Tutti vediamo la volgarità del GrandeFratello, ma nessuno ne parla

Sono in video, ergo sumdi Silvano Tommasoli [email protected]

Vi diremo qualsiasi cazzata vorrete sentire

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Page 3: Verona è - Dicembre 2011

3MusicaDicembre 2011

L’altra SanremoEcco la buona canzone d’autore: sensazioni dal Tenco 2011

Il teatro è uno dei più famosi, sicuramente il più noto al po-polo televisivo, così come la città che lo ospita. Si tratta del mitico Teatro Ariston di San-remo, dove per una settimana all’anno, attraverso la televi-sione, entra quasi tutta l’Italia, a celebrare l’evento mondano per eccellenza: il festival della canzone italiana. Ma questa volta il festival è un altro, quello della canzone d’autore del Club Tenco. Sembrerebbe quasi un caso di omonimia, ma la dif-ferenza tra le due manifesta-zioni è sostanziale. Il Tenco è una sorta di figlio minore, che solitamente non finisce sotto i riflettori, anche se, a ben guar-dare, dovrebbe essere quello l’evento canoro per eccellenza, se la protagonista fosse la qua-lità della produzione, non solo italiana, della canzone d’au-tore. E invece il “Tenco” rimane una manifesta-zione poco parlata, che guadagna si e no qualche trafiletto sulla stampa nazionale. Quest’anno la 36a edizione ha addirit-tura rischiato di saltare a causa del taglio del 60% dei finanziamenti. Per ca-rità, i tempi sono duri ed è comprensibile che si co-minci con il rinunciare al “superfluo”, ma prima di definire ciò che davvero è superfluo, sarà interessan-te vedere se la stessa parsi-monia verrà messa in atto tra qualche mese, quando il rito si ripeterà con ben altra pompa. Ci è voluto un contributo straordina-rio della SIAE, una volta tanto vista di buon occhio dai fruitori di proprietà intellet-tuale, e soprattutto la caparbie-tà di un gruppetto di organiz-zatori, il Club Tenco appunto (tra essi il veronese Enrico De Angelis), che non se l’è sentita di rinunciare proprio quest’anno, nella ricorrenza del centesimo anniversario della nascita di Amilcare Rambaldi. Quell’A-milcare cantato da Paolo Con-

te nella canzone che presta il titolo a questa edizione: “robe di Amilcare”, appunto. L’Amil-care inventore di questo festival e riferimento per generazioni di giovani e promettenti talen-ti, che grazie al Tenco hanno avuto la meritata visibilità e, a vario titolo, il loro successo. Bastano pochi nomi di artisti legati al “Tenco” ed alla figura di Rambaldi in particolare, per dare l’idea di cosa stiamo par-lando: da Fabrizio De Andrè a Francesco Guccini, da Paolo Conte a Roberto Vecchioni, solo per dirne alcuni tra i più noti al pubblico italiano. Da questo festival è passato il gotha della canzone d’autore interna-zionale, quella canzone che è un artefatto di qualità, a partire dalla forma e dai contenuti dei testi, fino alla musica, veicolo privilegiato dei pensieri e delle

emozioni. Non proprio la stessa cosa della meglio nota manife-stazione invernale, dove la qua-lità delle canzoni è un fatto del tutto secondario, poiché il loro successo si basa molto su fattori extramusicali, e dove il fine ul-timo è la commercializzazione ed il profitto. E pensare che tra i suoi ideatori vi fu proprio Amil-care Rambaldi. Un “errore di

Ne hanno viste di cose, questi occhidi Paolo Corsi

gioventù”, per dirla con lui, o forse un’esperienza utile a correggere poi il tiro. Paradossalmente, la mancanza di fondi che quest’anno ha imposto un ridimensionamento alla manifestazione, l’ha an-che riavvicinata a quello che era stato il suo spirito originario: un’essenzialità che va molto d’accordo con la qualità. Anche se è un vero peccato privarsi della sigla (quella “Lon-tano, lontano” di Tenco, cantata ogni anno da un artista diverso), come è un peccato la riduzione degli incontri pomeridiani ad una sola occasione (anche se con l’autentica “chic-ca” del cortometraggio su Rambaldi) e i momenti di

fine serata, riservati solo all’ul-tima del sabato. Infine niente “Il Cantautore”, l’interessante programma di sala caratteristi-co di ogni edizione. Con questi presupposti era chiaro che l’A-riston non si sarebbe presen-tato tutto agghindato come lo si vede in televisione, ma non ci si aspettava di trovarlo così spoglio. Nessuna, ma proprio

nessuna, scenografia: il fondale non è un neutro telo nero, ma il retro palco nudo e crudo, con tanto di saracinesche per l’in-gresso delle scene, corde, scale, paranchi e finestroni che dan-no sulla piazza retrostante. Il pavimento del palcoscenico è percorso da metri di cavi fissati con il nastro adesivo, che col-legano casse, microfoni e stru-menti, mentre un gruppetto di instancabili tecnici li sposta e maneggia in tempo reale per le esigenze degli artisti che si sus-seguono. Eppure è difficile con-cepire un allestimento più bello e più appropriato di questo. Tra i tanti artisti ce n’è qualcuno di richiamo (Edoardo Bennato, Vinicio Capossela, Luciano Li-gabue, a cui è andato il Premio Tenco, assieme a Jaromir No-havica), ma i più sono giovani cantanti e musicisti di talento, che ancora non si sono affac-ciati alla grande ribalta della musica leggera (cosa, del resto, che non pare nemmeno interes-si loro più di tanto). L’obiettivo principale è fare musica, colti-vare una passione che ha già influenzato le loro scelte e con-dizionato le loro vite. Li cono-sciamo nelle conferenze stampa del mattino, dove parlano di sé con semplicità, raccontando la loro passione. Sembra di stare in una grande famiglia, dove la gente si conosce, artisti, gior-nalisti, semplici appassionati, e condivide un comune sentire. C’è una simpatica complicità tra chi presenta, chi intervista, chi fa le domande (per lo più degli appassionati che per com-binazione fanno anche i gior-nalisti) e gli artisti. Ed è un’at-mosfera che si respira anche in teatro. Unico denominatore comune: la musica fatta bene. Il festival della canzone d’autore è un’esperienza che merita di essere vissuta, ma soprattutto è una realtà che merita di essere sostenuta, perché la buona can-zone d’autore ci fa buona com-pagnia, ci arricchisce, divenen-do talvolta la colonna sonora di tanti nostri momenti.

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di Michele Fontana

Non vado mai al cinema, la vita è troppo breve

il buon umore negli spettatori e un clima di allegria e legge-rezza portato in scena dagli attori attraverso gag, battute, musica e balli che si mescolano offrendo uno show sicuramen-te gradito.

cardo Pippa. Lo spettacolo ha l’obiettivo di raccontare la vita attraverso la gestualità del corpo, la musica e i suoni, per una rappresentazione origina-le dove ogni attore metterà in scena un personaggio raccon-tando aneddoti, momenti di vita e ricordi che avrebbero potuto popolare una balera di provincia dagli anni Trenta agli anni Settanta. Verranno ripercorsi, attraverso gli in-terpreti, i vari momenti stori-ci che hanno contraddistinto la nostra civiltà: dalla secon-da guerra mondiale al boom economico, vissuti all’interno della balera, che rappresenta il luogo di aggregazione dove le varie vicende dei protagonisti si intrecciano.Appuntamento pre-natalizio sabato 17 dicembre, per uno spettacolo carico di senso dell’umorismo e divertimento. I protagonisti saranno infatti i comici emergenti di Zelig e Colorado, quali Omar Fantini, Luca Klobas, Cristian Cala-brese, Diego e Paolo, Terenzio Traisci, Cani e Porci, Andrea Zappacosta, il Grezza, Gnol-lo, Giuseppe Forte, accompa-gnati dalle ballerine di Punto in Movimento/Shiftingpiont. Modo migliore per augurar-si un buon natale non poteva esserci, infatti lo spettacolo si preannuncia ricco di momenti esilaranti, capaci di infondere

Dicembre 2011Teatro

Teatro San Giovanni:importanti attori e comici in scena

È giunta alla 26 ma edizione l’importante rassegna teatrale della bassa veronese

Prosegue nel mese di dicembre la 26ma edizione di “Teatro San Giovanni” presso il Cine-ma Teatro Astra di San Gio-vanni Lupatoto. La rassegna, organizzata dall’associazione “Il Canovaccio”, da Arteven e dal Comune di San Giovanni Lupatoto, prevede diciassette spettacoli con importanti in-terpreti del panorama teatrale italiano e rappresentazioni che uniscono la cultura alla quali-tà e che, grazie alla varietà di opere messe in scena e di tema-tiche affrontate, possono avvi-cinare in maniera maggiore il pubblico al teatro.Il mese di dicembre ha aperto i battenti con Marina Mas-sironi, apprezzata attrice già protagonista di molte pelli-cole cinematografiche, che ha proposto il suo spettacolo “La donna che sbatteva nelle porte” di Roddy Doyle, per la regia di Giorgio Gallione. Ro-manzo che affronta tematiche quotidiane e racconta la storia di una donna, attraverso un monologo recitato dalla pro-tagonista, dal quale affiorano tutte le sue sensazioni e i suoi stati d’animo e dove lo sbattere la testa nelle porte nasconde un disagio interiore e un mondo di violenze vissute.Venerdì 9 dicembre sarà la vol-ta di “Balera paradiso”, regia affidata ad Alberto Bronzato con la collaborazione di Ric-

visita il sito internet di “Verona è”www.quintaparete.it

Page 5: Verona è - Dicembre 2011

5

mani infarinate, con la loro schiettezza e bona-ria volgarità. Il nuovo anno comincia il 5 e il 6 gennaio al tea-tro Camploy, e i residui dei giochi pirotecnici fluttuanti nell’aria, di-ventano le maschere dei carnevaleschi pro-tagonisti della fiaba che ci astrae dal tempo e ci conduce nel castello avvolto dall’incante-simo dove, nella notte dei tempi, una fata tra-sformò un principe in bestia e i suoi domestici in armadi, pentole, sco-pe, teiere, candelabri, porta-cappelli e poggia-piedi. La Compagnia dell’Arca riprende la storia di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont “La bella e la Bestia (una nuova storia d’a-more) e la trasforma in armonioso intreccio di teatro, musica, acroba-tica, armoniosamente legati tra loro in un spettacolo che vi lascerà senza fiato e nel quale la fiaba che incantò i bam-bini di ogni generazio-ne torna ad affascinare e a dare messaggi di un amore che va al di là di

ogni apparenza e pregiudizio, di un amore disinteressato che supera le barriere e unisce gli opposti, un amore gratuito e puro capace di tutto.

di Caterina Caffi

Non vado mai al cinema, la vita è troppo breve

sale sul palcoscenico senza che i suoi attori cambino d’abito o passino dal camerino per rifar-si il trucco. Vanno bene così, con i loro occhi cerchiati e le

cente burla.Venezia, 1755. “L’uso de’ fornai che vanno per la città avvisando col loro fischio alle case l’ora di fare il pane, per infornarlo a suo tempo, è cosa specialissima del paese. Tale è pari-menti la costumanza delle serventi ordina-rie, dette comunemen-te Massere, di avere la giornata di libertà in occasione del carneva-le; ed è un divertimento singolare de’ giovanotti di questa città tratte-nersi in divertimento con questa sorta di gen-te.” È lo stesso Goldoni a parlare, nella prefa-zione alla sua opera “Le Massere”, scritta e rappresentata nella Venezia del 1755, che verrà riproposta sabato 17 e domenica 18 di-cembre. La commedia porta in scena una fan-tasmagoria di uomini e donne che nel teatrino veneziano parlano di un frammento di vita quotidiana, di una vita segnata dal rintocco di una campana e del ri-chiamo dei fornai alla porta. Nel rifacimento della compagnia La Pocosta-bile e della regista Lucia Rui-na Peretti s’annusa il profumo goldoniano attraverso il quale la vita esce dalle case venete e

Dopo aver sognato insieme allo zio della favola di Mary Cha-se “Harvey”, uomo nel quale il fanciullino pascoliano era sopravvissuto ed aveva permes-so che il suo amico immagina-rio, il grande coniglio bianco, continuasse a vivere accanto a lui, torniamo a teatro saba-to 10 e domenica 11 dicembre per assistere a una diverten-te commedia ambientata nel 1500, intitolata “Margarita e il Gallo” e portata in scena dalla regista Laura Mistero e dalla compagnia Verbavolant. Fiorite proprio nel secolo delle arti ad ornamento del giardino rinascimentale, le tipografie conobbero una diffusione ca-pillare in particolare a Venezia e Firenze. Ed è proprio nella città medicea che vive e lavora il tipografo Annibale Guenzi, la cui attività però non riesce ad avere successo; il suo sogno è quello di diventare tipografo di corte e lui potrebbe ottene-re quel ruolo prestigioso grazie alla raccomandazione del Vi-sconte Morello, che in cambio del favore gli chiede di giacere con sua moglie Bianca. Sosti-tuita la donna con la servetta Margarita, che Annibale pensa ignorante ragazzetta di campa-gna, egli crede di poter beffare il Visconte ma la ragazza, figlia di una strega, con un incante-simo scambia il suo corpo con quello del padrone mettendo in scacco il Visconte e Annibale stesso e creando un gioco più di perversa malizia che di inno-

Dicembre 2011 Teatro

Al Camploy un’inverno ricco di sorprese!Il palcoscenico offre grandi spettacoli per dicembre e Natale. E i regali non finiscono

Assessorato alla Cultura

Prezzo e vendita

Il prezzo è definito dalle compagnie stesse. I biglietti possono essere acquistati direttamente

alla biglietteria del Teatro Camploy al momento dello spettacolo.

informazioni

Teatro Camploy - Via Cantarane 32 - Veronatel. 045/8009549 – 045/8008184

www.comune.verona.it/teatrocamploy

In caso di necessità il presente programma potrà subire delle variazioni

cv

Sabato 31 marzo ore 21.00Domenica 1 aprile ore 16.30

Modus Vivendi

me prestito to moier?di Adriano MazzuccoRegia di Adriano Mazzucco

Sabato 14 aprile ore 21.00Domenica 15 aprile ore 16.30

Trixtragos

Un nemico del popolodi Henrik Ibsen Regia di Nunzia MessinaA

prile

201

2

Sabato 3 marzo ore 21.00Domenica 4 marzo ore 16.30

Lavanteatro

Cognate disperate (L’amaro sapore delle verità)di Eric Assous Regia di Renato Baldi

Sabato 10 marzo ore 21.00Domenica 11 marzo ore 16.30

Tabula Rasa

e se tornassimo all’isolachenonc’e’?di Sara CallistoRegia di Sara Callisto

Sabato 24 marzo ore 21.00Domenica 25 marzo ore 16.30

G.T.V. Niù

amilcaredi Mary ChaseRegia di Roberto Adriani

Mar

zo 2

012

TeatroCamploy

Programmazione

Stagione 2011-2012Compagnie amatoriali

Dipinti di Sergio Piccoli

www.amicidellacattolica.com

Page 6: Verona è - Dicembre 2011

6

battute da recitare, è sostenuto però da Norman, il suo fedele servo di scena, che lo sprona a non rinunciare alla passione per il teatro nonostante le gran-di difficoltà. L’incoraggiamento di Norman sembra funzionare, ma quando tutto pare risolto sopraggiungono altri impedi-menti. Avendo perso ogni spe-

ranza e sentendosi vicino alla morte, Sir Ronald consegna al fidato servo una sorta di testamento spirituale, dove ringra-zia tutti i componenti della compagnia per il lavoro svolto. Il fina-le lascia molto spazio all’immaginazione. Nei ringraziamenti non vie-ne riportato il nome di Norman, concedendo a ognuno la possibilità di interpretare in modo personale la motivazione della scelta.

Atteso dal 13 al 18 dicembre lo spettacolo con protagonista Franco Branciaroli

Il Grande Teatro presenta Servo di scenain scena il Re Lear di William Shakespeare. Sir Ronald, in-terpretato da Branciaroli, è un vecchio attore shakespearia-no che, a causa di un malore, vuole rinunciare all’imminente rappresentazione. Il protagoni-sta, in un momento di grande confusione e sconforto che lo porta persino a dimenticare le

ficoltà, in una rappresentazione molto “british”, dotata dei tipi-ci connotati della narrazione shakespeariana. L’opera è am-bientanta nel 1940, durante la seconda guerra mondiale. Nel mezzo dei bombardamenti a Londra una compagnia teatra-le, nonostante le difficoltà della guerra, si appresta a mettere

Prosegue al Teatro Nuovo di Verona la rassegna “Il Grande Teatro”. Dal 13 al 18 dicem-bre si potrà assistere all’opera di Ronald Harwood Servo di scena, con protagonista il cele-bre attore Franco Branciaroli, anche regista dello spettacolo. Altri interpreti dell’opera sa-ranno Tommaso Cardarelli, Lisa Galantini, Melania Giglio, Valentina Violo, Daniele Griggio e Gior-gio Lanza. Servo di scena è un testo teatrale di Ro-nal Harwood, famoso drammaturgo e sceneg-giatore sudafricano, che nel 2003, grazie al film Il pianista, si è aggiudicato il Premio Oscar alla mi-gliore sceneggiatura non originale. I temi affron-tati nell’opera sono la tenacia e l’attaccamento incondizionato al mon-do del teatro, anche di fronte a momenti di dif-

Teatro Dicembre 2011

L’attore Franco Branciaroli

di Francesco Fontana

Non vado mai al cinema, la vita è troppo breve

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il 25 gennaio Paolo Romano presenta Moby Dick, la balena bianca. L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti.

dell’informazione, dai «big» del settore, come Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, David Seymour, George Rodger, Ma-ria Eisner, Rita Vandivert, El-liott Erwitt, Burt Glinn, Den-nis Stock e Bruce Davidson. Il percorso espositivo è un imper-dibile appuntamento per tutti gli appassionati di fotografia e cinema ed è tratto dall’esteso archivio storico frutto del lega-me artistico che i «paparazzi» dell’agenzia intrattengono con i registi dal secondo dopoguerra in poi.Magnum sul set è aperta al pub-blico da martedì a domenica dalle 10 alle 19, mentre il gio-vedì dalle 10 alle 21: tutti i gio-vedì alle 18 e la domenica alle 11 viene organizzata una visita guidata gratuita. Inoltre, in oc-casione dell’esposizione, il Co-mune di Verona organizza al-cuni incontri con esperti in Sala Farinati della Biblioteca Civica di Verona (Via Cappello, 43): il 14 dicembre alle 16 Paola Pal-ma presenta Luci della Ribalta, il 21 dicembre alle 16,30 Adamo Dagradi commenta Il pianeta delle scimmie, l’11 gennaio alle 16,30 Alberto Scandola illustra Gioventù bruciata, il 18 alle 16 Mario Tedeschi Turco propone La battaglia di Alamo e a seguire

Dagli archivi dell’Agenzia Magnum al Centro Internazionale di FotografiaScavi Scaligeri un’esposizione che punta dritta al cuore

Magnum sul set, mostra fotografica delle foto che hanno fatto la storia del cinema

La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisionedi Michela Saggioro

Cinema e fotografia è un bino-mio inscindibile sin dagli esordi della settima arte, ben rappre-sentato dalla mostra fotogra-fica Magnum sul set, aperta fino al prossimo 29 gennaio 2012 al Centro Internazionale di Foto-grafia Scavi Scaligeri (Cortile del Tribunale).La rassegna, curata da An-dréa Holzherr e Isabel Siben, ospita 117 immagini scattate dai fotoreporter dell’Agenzia Magnum sui set di 12 tra i più grandi capolavori della storia del cinema. Tra essi Le luci del-la ribalta di Charlie Chaplin, Quando la moglie è in vacanza di Billy Wilder, Gioventù bruciata di Nicholas Ray, Improvvisa-mente l’estate scorsa di Joseph L. Mankiewick, La battaglia di Ala-mo di JohnWayne, Il processo di Orson Welles, Gli spostati e Moby Dick, la balena bianca, entrambi di John Huston, Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner, L’importante è amare di Andrej Zulawski e Morte di un commesso viaggiatore di Volker Schlöndorff.L’Agenzia Magnum è una tra le più importanti agenzie fo-tografiche del mondo, fondata nel 1974, per proteggere il di-ritto d’autore e la trasparenza

FotografiaDicembre 2011

All’insegna della solidarietà

«Molto più di un pacchetto regalo», l’iniziativa natalizia di Feltrinelli e

Mani Tese - OnlusIl ricavato delle offerte per gli incarti

realizzati dai volontari andràa favore dei progetti d’istruzioneper migliaia di ragazzi di strada

del Brasile e Guatemala

Per il quarto anno consecutivo, dal 1 al 24 dicembre nelle librerie Feltrinelli, i volontari dell’associazione benefica Mani Tese pro-pongono incarti natalizi in cambio di un’of-ferta a favore del progetto «Molto più di un pacchetto regalo».

Il ricavato dell’iniziativa servirà alla Onlus per sostenere la campagna “Dalla strada alla scuola” promuovendo l’istruzione dei ragazzi che vivono nelle periferie del Brasile e del Guatemala e offrendo loro l’opportunità di un riscatto sociale. Secondo le ultime stime di Mani Tese si calcola infatti che ad oggi il numero di minori abbandonati a se stessi possa variare da 100 a 150 milioni nel mondo; in particolare in America Latina sono all’incirca 15 milioni. Le cause dell’abbandono familiare sono le più svariate: conflitti, abusi, la mancanza di politiche sociali adeguate, la cattiva distribuzione del reddito e la povertà

estrema. Per i bambini e ragazzi senza guida né protezione, alla mercè della sorte, vittime della miseria, abbandonati della società in generale, l’unica possibilità di salvezza sono le attività di recupero.Di questo si occupa dal 1964 la Onlus, che proprio attraverso proposte educative aiuta questi ragazzi a creare un vero e proprio progetto di vita, personale e continuativo.L’iniziativa natalizia «Molto più di un pacchetto regalo» è un bel gesto che tutti noi, assieme a Feltrinelli e Mani Tese, possiamo fare per creare un futuro migliore ai milioni di ragazzi di strada di tutto il mondo! (mic. sag.)

La fotografia con Marylin Monroeche fa da manifesto alla mostra

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agli occhi dei visitatori e verrà poi collocato presso la Tomba di Giulietta. In concomitanza con la mo-stra sono previsti itinerari alla scoperta dell’arte sacra presso chiese, palazzi storici e ville della città, come Palazzo Emi-lei Forti e Palazzo Salvi Erbi-sti, opere spesso sconosciute al grande pubblico. Infine, pres-so il Museo Archeologico del Teatro Romano, è stata alle-stita una mostra che mette in luce la fervida attività di scavi, collezionismo e studio delle antichità romane presente a Verona nel ‘700. Tale mostra rappresenta un’ottima occasio-ne, per veronesi e turisti, per conoscere uno dei musei più affascinanti della città.

Dicembre 2011Arte

trodotte da questi due giganti dell’arte veronese nella cultura classica del tempo sono stati patrocinate e promosse da un altro grande veronese del tem-po, Scipione Maffei.Nello snodarsi delle varie se-zioni della mostra, un posto di primo piano è dedicato ai vedutisti, tra cui Giambatti-sta e Giandomenico Tiepolo. Del primo, in particolare, la mostra riserva al suo pubbli-co una “sorpresa” tecnologi-ca. La ricostruzione virtuale del soffitto affrescato nel 1761 da Giambattista Tiepolo per Palazzo Canossa, danneggia-to durante la seconda guerra mondiale; nell’aprile del ’45, infatti, l’esplosione del ponte di Castelvecchio aveva fatto crollare il “Trionfo di Erco-le”, la più famosa opera d’arte veronese del ‘700. Oggi quel gioiello è possibile rivederlo grazie appunto a tecnologie che lo riportano virtualmente

Il Settecento a Verona. Tiepolo, Cignaroli, Rotari. La nobiltà della pittura

Al Palazzo della Gran Guardia, fino al 9 aprile 2012

di Isabella Zacco

La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione

Dopo il successo della rasse-gna dedicata a Corot e all’arte moderna, nel 2010, il Palaz-zo della Gran Guardia ha da poco aperto i battenti ad un nuovo grande evento artisti-co, che questa volta si rivolge al secolo dei lumi, il 1700, così come Verona lo ha espresso ar-tisticamente, nella sua ricchez-za e varietà di opere, e che ha rappresentato per la città un decisivo momento di crescita culturale, testimoniato anche dalla rete di prestigiosi com-mittenti internazionali, come principi e nobiltà di Polonia, Sassonia e Baviera, che richie-sero opere veronesi per le loro residenze.La mostra, curata da Fabrizio Magani, Paola Marini e An-drea Tomezzoli, sotto il patro-cinio del Comune di Verona, con l’Assessorato alla Cultura e il Museo di Castelvecchio, e la collaborazione della So-praintendenza per i Beni Stori-ci, Artistici ed Etnoantropolo-gici per le province di Verona, Rovigo e Vicenza, espone 150 opere, tra dipinti, disegni, do-cumenti e stampe, di maestri come Tiepolo e dei suoi con-temporanei Bellotto, Rotari, Cignaroli, opere provenienti dai più grandi musei italiani e stranieri, il Louvre di Parigi, il Prado di Madrid e l’Ermi-tage di Pietroburgo, solo per citarne alcuni. I curatori han-no selezionato quanto poteva esprimere al meglio la cultura e l’arte della Verona del tem-po, sottolineando soprattutto l’autonomia ed originalità del-la città scaligera rispetto alla vicina Venezia.Tra i protagonisti della rasse-gna, Pietro Antonio Rotari, definito “il pittore della corte russa” per il suo lungo sog-giorno artistico alla corte degli Zar, e Giambettino Cignaroli, Fondatore dell’Accademia di pittura che porta il suo nome; modernità e innovazione in-

A lato “Alessandro e Rossane” di Pietro Rotari. In basso “Pomponio II riceve gli

onori trionfali in Campidoglio”di Giambettino Cignaroli

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Il Rinascimento a Roma, nel segno di Michelangelo e Raffello

Un prezioso intreccio di opere cinquecentesche, fino al prossimo 12 febbraio 2012

di Michela Saggioro

La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione

ArteDicembre 2011

Grande numero di visitato-ri nei primi giorni d’apertura dell’esposizione Il Rinascimento a Roma, che rimarrà aperta fino al prossimo 12 feb-braio al Museo Fon-dazione - Palazzo Sciarra di Roma.Protagonista assolu-to della retrospetti-va è il Cinquecento romano, un’era me-morabile nella storia dell’arte durante la quale il mecenati-smo di papi lungi-miranti, come Giu-lio II della Rovere, Leone X de’ Medici e Paolo III Farnese, attirò in città mae-stri come Michelan-gelo e Raffaello. La Città dei Papi viene descritta come un luogo fondamenta-le d’incontro, ispi-razione e scambio

Psiche della Farnesina, l’antica Villa affrescata dalla scuola di Raffaello e della Cappella Si-stina di Michelangelo.Tutte le opere esposte confer-mano al visitatore quanto ricco fu il ‘500 romano, che prese avvio dal pontificato di Giulio II (1503-1513) per arrivare al 1564, anno della morte di Mi-chelangelo, che seguì di poco la conclusione del Concilio di Trento nel 1563. Questa data suggellò un’epoca aprendone contemporaneamente un’altra all’insegna di quella Controri-forma che, reagendo alla Ri-forma protestante, portò a un

radicale mutamento del cli-ma sociale, culturale e ar-tistico in tutto il Vecchio Continente. Il fortunato avvicendarsi al soglio pontificio di illustri e grandi mecenati e la concomitante presenza a Roma di Michelange-lo e Raffaello furono la

spinta propulsiva del se-colo, uno tra i più fiorenti

di tutta la Storia dell’arte.Per ulteriori informazioni in merito alla mostra Il Rinasci-mento a Roma è possibile visitare il sito della Fondazione Roma - Arte Musei (http://www.fon-

dazioneromamuseo.it/it/738.html), che ha organizzato l’espo-sizione col supporto di Arthemisia Group e Soprintendenza Speciale per il Patri-monio Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Roma. La mostra è stata cu-rata da Marco Bussa-gli e Claudio Strinati, con il coordinamento di Maria Grazia Ber-nardini e si avvale di un prestigioso comi-tato scientifico pre-sieduto da Vittorio Sgarbi.

d’idee per gli artisti: la mostra spazia attraverso 180 scultu-re, dipinti, disegni, incisioni e medaglie, riuscendo ad intrec-ciare in un’unica linea storico-culturale gli aspetti artistici e architettonici del Cinquecento nell’Urbe. Le sette sezioni sono dedicate a diverse tematiche, tra cui La Roma di Giulio II e Leone X, Il Rinascimento e il rapporto con l’an-tico, La Riforma di Lutero e il Sac-co di Roma, I fasti farnesiani, La Basilica di San Pietro, La maniera a Roma a metà secolo e gli arredi. Nelle sale spiccano per bellezza i capolavori di Raffaello, quali l’Autoritratto e il Ritratto di Fedra Inghirami, e di Mi-chelangelo, come l’Apol-lo-Davide proveniente dal Museo Nazionale del Bargello, oltre a numerose opere d’arte di artisti coevi, come Sebastiano del Piom-bo e Francesco Salviati. Tra le particolarità espo-ste anche capolavori anti-chi, come la Statua di Afro-dite accovacciata e il Dioniso ed Eros, che dialogano con le

opere moderne a testimoniare quanto l’antico favorì la radi-ce vitale del momento artisti-co cinquecentesco, divenendo fonte di ispirazione per alcu-ni e di emulazione per altri. Per non scordare le “chicche” dell’esposizione, tra cui la Pie-tà di Buffalo (Usa) attribuita a Michelangelo, esposta dopo il restauro realizzato dall’Isti-tuto Centrale del Restauro di Roma, e le suggestive ricostru-zioni virtuali in 3D della me-ravigliosa Loggia di Amore e

I volti, le tonalità e le forme tipiche del grande periodo artistico in esposizione

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10 Dicembre 2011Arte

accentuato lo identificano mol-to poco nella poetica dei trapas-si di colore graduali. Nel 1883 Gauguin perde il la-voro a seguito di una grave crisi economica: inizia un altro capi-tolo della sua vita accompagna-to da svariati trasferimenti tra Copenaghen, Parigi e l’Inghil-terra.Nel 1886 le vite di Gauguin e Van Gogh finalmente si in-trecciano: Gauguin conosce a Parigi Théo, fratello di Van Gogh, che gestisce una galle-ria nella capitale francese, dove Gauguin espone alcune tele. In queste ormai siamo ben lontani dalle poetiche impressioniste e dopo un soggiorno in Martini-ca i colori di Gauguin si sem-plificano. Rifiutando l’invito di Van Gogh che gli aveva proposto di

andare a vivere con lui nell’assolata città di Arles, Provenza, Gauguin riparte per Pont-Aven, in Breta-gna, affascinato dai suoi scorci selvaggi e primitivi; è qui che conosce Emile Ber-nard. In questo perio-do il colore si appiat-tisce ulteriormente rievocando le stampe giapponesi, che sono tanto care anche a

Van Gogh. Da quest’esperienza nascerà un nuovo periodo per Gauguin: il cloisonnisme, noto anche come sintetismo. Il colo-re qui si chiude in zone, richia-

vuole che fu a causa di una lite furibonda tra i due se quest’ul-timo si tagliò l’orecchio.Anche Gauguin è nato viaggia-tore: già da bambino emigrò con la famiglia in Perù a segui-to dell’avvento al potere di Na-poleone III. Sfortunatamente, durante la traversata oceanica, il padre muore e la famiglia, dopo il soggiorno sudamerica-no ritornerà in Francia. Il pit-tore s’imbarca in seguito, come allievo pilota in un mercantile viaggiando tra Rio de Janeiro e Le Havre; nel 1868 si arruola in marina, ma smobilitato tor-na a Parigi nel 1871 dove è im-piegato nell’agenzia di cambio Bertin. Con una spiccata passio-ne per l’arte, si iscrive all’Acca-demia Colarossi, dove incontra Camille Pisarro. Nel 1879 vive il suo momento impressioni-

sta partecipando alla quarta mostra di tale corrente presen-tando una scultura. Tuttavia i marcati connotati realistici e il cromatismo ben delimitato e

sua poetica, egli intende alla perfezione il viaggio fisico e introspettivo; ne sono testimo-nianza i venticinque dipinti e i dieci disegni, prestati a Genova dal Van Gogh Museum di Am-sterdam e dal Kröller-Müller Museum di Otterlo. Queste tele, questi schizzi ci accom-pagnano nel viaggio del folle pittore conducendoci dai cupi paesaggi del nord, alla calda luce della Provenza. I paesag-gi al loro interno, nascondono sempre l’immagine del pittore: l’artista si cerca e ricerca den-tro le sue tele, come prova di autoaffermazione e di ricono-scimento/accettazione della propria figura. È un’elaborazione psicologi-ca verso l’analisi di sé stessi. Il covone sotto un cielo nuvoloso, ad esempio, dipinto tre settimane prima che il pittore decise di

spararsi, racchiude in sé tutte le inquietudini ed è intriso di un sen-timento di morte: i co-lori più cupi e pastosi, il cielo minaccioso che predilige una tragedia incombente, dove si possono scorgere gli occhi spenti del pitto-re ormai disperato e disilluso. Insieme a Van Gogh il viaggio non poteva continuare senza aver prima trattato un altro grande del secolo XX: Paul Gauguin. A tutti è noto come questa figu-ra si leghi a Vincent Van Gogh: tra i tanti episodi, la leggenda

Il fil rouge dell’esposizione è il viaggio, che si sviluppa in un percorso emozionale ed emo-zionante presentandocelo nel-le sue molteplici sfaccettature: dallo spostamento geografico, al viaggio introspettivo nell’a-nimo dell’artista, fino scoperta di sé stessi tra inquietudini, an-gosce e paure. Fulcro della mostra sono le fi-gura di Vincent Van Gogh e Paul Gauguin.Oltre alla fruizione dei quadri, l’osservatore potrà viaggiare dentro ai capolavori: per l’oc-casione all’interno del Palazzo è stata costruita la riproduzio-ne fedele della camera di Van Gogh all’ospedale di Saint Rémy. Tale stanza è intrisa del-la poetica del viaggio: appeso alla parete c’è il quadro che raf-figura gli stivali del pittore, suoi instancabili compagni di viag-

gio, vissuti, consunti, infangati, che lo hanno condotto dall’O-landa alla Francia. Tra queste quattro pareti ci si può ritrovare il mondo; e allo stesso tempo da qui partono viaggi che fanno immedesima-re l’utente alla scoperta di nuovi paesaggi e nuove prospettive. Di fronte alla stanza sono po-sizionati anche due quadri di Giorgio Morandi, il quale intende il suo viaggio in una maniera complementare, più monacale rispetto all’impeto di Van Gogh. Un paragone, que-sto, che ci fa intendere le mille possibilità che il binomio arte e viaggio possono regalarci. Tornando a Van Gogh, nella

Fino al 15 ottobre 2012 appuntamento con l’arte al Palazzo Ducale di Genova

Van Gogh e il viaggio di Gauguin

di Valeria Giarola

La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione

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La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione

ArteDicembre 2011

mando le vetrate gotiche, dove la stesura del colore avveniva all’interno del filo di piombo, che ne faceva da contorno. Dalla forma al colore tutto si semplifica, mentre gli sposta-menti dell’artista si intensifica-no susseguendosi tra numerosi spostamenti tra la Francia e Bruxelles, fino alla partenza per la Polinesia, dove Gauguin potrà approfondire la pittura primitiva e godere della natura selvaggia. La nuova arte sfocia nel in uno stile simbolista dove la pittura altro non è che un’espressione dell’idea, che si concretizza in forma soggettiva perché modi-ficata dalla mente dell’artista. Tra i tanti quadri che dal 1891 rea-lizzerà a Tahiti c’è Da dove veniamo? Chi siamo? Dove an-diamo? (1897-98), esposto a Palazzo Ducale.Definito dallo stes-so pittore come “opera filosofica su un tema parago-nabile a quello del vangelo”, la gran-de tela vorrebbe ri-spondere a quesiti assoluti cercando di dare risposte alle domande che assalgono il genere umano. I tahitiani rap-presentati incarnano il ciclo, o meglio il viaggio, della vita. Questo quadro dunque centra appieno la tematica della mo-stra rappresentando il percorso fisico e interiore che ogni uomo deve fare durante la propria vita.Ma l’esposizione non finisce

qui. Dopo i due pilastri di Van Gogh e Gauguin, si sviluppa-no altre due sezioni espositive, la prima dedicata al contesto americano, la seconda a quello europeo.

La sezione americana si apre con il viaggio che contempla e tende all’infinito, sulla scia europea del viandante sul mare di nebbia di Caspar David Frie-drich (1818), Edwin Church per l’Est e Albert Bierstadt per l’Ovest, ritraggono la natura americana presentano pae-saggi ignoti. Si incontra poi la poetica di William Homer, che

insieme ad Edward Hopper si-gillano i paesaggi in un muti-smo impressionante. Il viaggio, poi, si interiorizza di fronte alle monocromie di Mark Rothko, per concludersi con le mareg-

giate di Richard Diebenkon, che rievoca i paesaggi burrascosi di Tur-ner. La sezione europea vede troneggiare, a fianco di Gauguin e Van Gogh, i ro-mantici Friedrich e Turner con i loro paesaggi tormen-tati. In questo caso la dimensione del viaggio è più romantica e nelle tele l’uomo tende a sfidare e ritrarre

una natura impetuosa, predi-ligendo paesaggi tormentati come l’animo umano degli ar-tisti stessi. Non è un caso che Turner, per meglio ritrarre l’incendio di Londra, si fece le-gare all’albero di una nave per poter dipingere “dall’interno” la furia della natura, per poter assaporare in prima persona il brivido della calamità naturale,

che è specchio dell’animo arti-stico. Il viaggio si tranquillizza poi tra le ninfee del giardino di Gi-verny di Claude Monet, l’espe-rienza si fa più intima e raccol-ta, tra evanescenze e luminismi che si dissolvono nell’acqua; Si conclude poi con un’astrazione concettuale del viaggio tra le tele di Wassily Kandinsky. Oltre all’occasione di vedere lo strepitoso quadro di Gauguin, la mostra presenta una collezio-ne che viaggia tra i big del se-colo XIX e XX, uno splendido pretesto per viaggiare nel tem-po e nello spazio accompagnati da poetiche artistiche ancora molto attuali e intrise di passio-ne per il viaggio. Ogni tela è, ol-tre a tecnica, una scoperta della psicologia degli artisti. Anche la cornice espositiva contestua-lizza al meglio la tematica del viaggio: chi meglio di Genova, storica città portuale, caratte-rizzata da un crocevia di gen-te e merci frenetico e costante nei secoli, poteva rappresentare contesto migliore?

Tra disegni e opere collaterali ai due artisti, la mostra propone

autentici capolavori

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12 Dicembre 2011Fotografia

La galleria “Camera Work” di BerlinoAndiamo a dare “un’occhiata” ad una leggendaria istituzione fotografica

di Silvano Tommasoli

La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione

Se vi occupate di fotografia e andate a Berlino, non potete mancare di visitare una delle più interessanti gallerie priva-te.“Camera Work” (www.came-rawork.de) è uno spazio intera-mente dedicato alla fotografia, in un loft su tre piani all’inter-no del 149 di Kantstraße, nella zona di Charlottenburg. Non lontano dal Museo nazionale della Fotografia, che ha sede nello stesso edificio dove si trova la Fondazio-ne Helmut Newton.“Camera Work” orga-nizza mostre di assoluta rilevanza, come la per-sonale d Steve Schapiro, che si è conclusa lo scorso novembre. Schapiro in “Eroi” – una serie di ri-tratti in bianco e nero dei principale personaggi che hanno caratterizzato la vita pubblica degli Stati Uniti negli Anni Sessan-

Steve Schapiro, che vive a Chi-cago, ha iniziato a lavorare come foto-giornalista nel 1961. Ha seguito la campagna eletto-rale di Robert F. Kennedy ed è stato il primo fotografo ad ar-rivare sul luogo dell’assassinio di Martin Luther King. Sue immagini sono state pubblicate su Life, Time, People, NewsWeek, Sports Illustrated e Vanity Fair.

ta del XX Secolo – è riuscito a cogliere e a mettere in eviden-za l’essenzialità della persona-lità e tutta la forza del fasci-no di Muhammad Ali, Andy Warhol, Ray Charles, Martin Luther King, Samuel Beckett, Robert F. Kennedy e di molti altri “eroi” della loro epoca.Così, essi sono consegnati alla storia e alla memoria collettiva del Paese, segnando definitiva-

mente quel decennio e tutte le generazioni successive con il loro prestigio.Davanti all’obiettivo di Steve, questi “eroi” non recitano il copione che li ha resi celebri al grande pubblico, ma sono fedeli a loro stessi, dando cor-poreità e consistenza ai fonda-mentali del carattere del popo-lo americano.

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13ArteDicembre 2011

Appuntamenti culturali

Presso il Circolo Dipenden-ti della Unicredit di Verona è stata tenuta a battesimo lette-rario l’ultima raccolta di poesie di Gilberto Antonioli, poeta e giornalista caro al pubblico ve-ronese, che lo segue con affetto in queste tappe sul cammino di una personale maturazione po-etica ed espressiva. Presentato dal dott. Roberto Tirapelle di Unicredit e dalla lectio del prof. Giuseppe Chiecchi dell’Univer-sità di Verona, che ne ha messo in luce i richiami con il Canzo-niere del Petrarca, Antonioli ha poi parlato di sé, come poeta, definendo tale veste come un condensato di parole, musica e colore, e in tale veste lo ritrovia-mo, nello scorrere dei suoi versi. “Attimi di dubbio e di certezza” è il titolo che emerge dalle pen-nellate di colore autunnale della copertina, in una prorompente rivelazione dell’anima che già dal titolo vuole presentare le sue sfumature. “Profumo d’erba e sapore di rugiada nell’ansia che attanaglia e produce delusioni”, e poi ancora un breve sottotitolo “Poesie della quotidianità”. La tentazione, davvero ingiusti-ficata, che prende quando ci si trova di fronte a un testo di po-esia e si vuole parlarne ad altri perché questi altri, attraverso le nostre chiavi di lettura, acceda-no alla lirica, è quella di usare gli stessi parametri linguistici, gli stessi voli semantici. Succede allora che un testo poetico, er-metico, perché in esso il poeta chiude i suoi stati d’animo, i suoi sogni, come anche i suoi incubi, e a cui si lascia andare, perché a lui è concesso di volare, viene “spiegato” in modo ermetico, di difficile, se non impossibile, in-terpretazione linguistica. Bello sarebbe invece, laddove la cri-tica o l’esegesi non arrivano, la-sciarsi andare anche noi, lettori e fruitori del testo poetico, solo alla sonorità del ritmo musicale, all’armonia dei versi che gioca-no a rincorrersi, alle parole che un mago sapiente sembra met-tere insieme, non per spiegare qualcosa, ma solo per il piacere

di giocare con esse e con gli stati d’animo da cui scaturiscono.Pennellate di colore, come quel-le della copertina, con gli stessi colori caldi, passionali, così si presentano i versi di Antonio-li, brevi e intensi, pagina dopo pagina. Sembra quasi un fluire libero di pensieri, non ci sono punti finali, non ci sono maiu-scole all’inizio, non ci sono in-terruzioni forzate lungo il corso di quello che sembra presentarsi come un bisogno impellente di dare voce all’anima. Anche i titoli sembrano più un omaggio al mestiere di poeta, che non vera esigenza di separare e di-stinguere le liriche, i momenti di affioramento di un ricordo o di un altro, spesso dolorosi (“quan-do la vita inciampa, come si rialza?”), dolori giovanili che emergono un attimo, “tormen-tate mie passioni contrastate”, “libera, ti prego, inganni e sof-

ferenza dagli amplessi più cru-deli del dolore…”, “esistenze sfregiate da rancori e seduzio-ni.... mentre le ore attendono la luce”. Momenti di dubbio e di certezza, perché.. “è assetata di certezze l’esistenza, ma si rifu-gia nei crocicchi incustoditi l’in-certo che scompare…”. In altri

passaggi sembra di intuire una depressione sopita “con la festa delle scorze e delle foglie si at-torciglia insieme al rosso il ver-de smorto, per impedire la vit-toria del grigiore”, “racconta il vento una storia di grovigli che riscatta dal grigiore della noia”. Spesso sono nominate ombre e oscurità, silenzi, oblio, nebbia, nubi, vento, lo spezzarsi di qual-cosa. Con immagini oniriche, il mare è a volte protagonista, con le sue onde, le risacche, gli schizzi sulle rocce, i gabbiani. Si coglie un abbandonarsi al flusso delle stagioni, con i loro diversi colori e umori, ma sicu-ramente prevale l’indugio sulle immagini autunnali, sulle bru-me invernali, che non un solare fondersi con le atmosfere dolci della primavera, con quelle cal-de dell’estate, che pure procura-no sollievo: “in un fremito d’er-ba schizza un fronte di quiete”, “s’affaccia il sole che danza…coccola il vento che ondeggia sul dorso del grano maturo”, “cerca il mio sguardo il ciliegio che fiorisce”.Ma in fondo, tutte le cupe atmo-sfere sono temperate da quella piccola, preziosa dedica iniziale, che vola alta sui ricordi più do-lorosi, su rimpianti e tristezze, sul domandarsi affannoso del senso della vita e il farsi scudo verso un ignoto minaccioso, lasciandosi finalmente andare alla dolcezza di chi “illumina il mio cielo con il suo sguardo di cerbiatta innamorata”.

Il nuovo libro di Gilberto AntonioliDopo averlo intervistato, ecco la presentazione del suo ultimo lavoro poetico

di Isabella Zacco - fotogafie di Stefano Campostrini

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14 Dicembre 2011Musica

solo da pochi anni il successo che merita. Lo stesso spettaco-lo, per l’organizzazione di Zed, andrà invece in scena al Gran Teatro Geox di Padova la sera

del 7 dicembre, aprendo la stra-da ad una serie di imperdibili appuntamenti targati Zed Live.L’8 dicembre è atteso infatti, sempre al Gran Teatro Geox, il cantante Marco Mengoni, che sarà sul palco con il suo nuovo tour. Il giorno successivo toc-cherà al “Gogol Acoustic Bor-dello”, unica tappa per il nord est italiano per il tour europeo della band. Poi un appunta-mento da non perdere al Teatro Malibran di Venezia con Ivano Fossati che, con questo ultimo

Dicembre riccoper Eventi Verona e Zed Live

Grandi appuntamenti con la musica leggera, il balletto e il cabaret

di Francesco Fontana

Venerdì 16 dicembre arrivano al Palcover di Villafranca “I soliti Idioti”, duo comico com-posto da Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio. Dopo il succes-

so del precedente tour e l’uscita

Idioti approdano sul palco di Eventi Verona con nuove esi-laranti gag comiche, accompa-gnati da alcuni dei personaggi tratti dalla serie televisiva an-data in onda su MTV che li ha resi celebri. Sempre per l’orga-nizzazione di Eventi Verona è atteso al Palcover di Villafran-ca per il 18 dicembre “An Eve-ning of Burlesque”, un appun-tamento di grande interesse per un genere che in Italia ha avuto

tour, dà l’addio alle scene musicali dopo oltre quarant’anni di carriera. In contem-poranea, al Gran Te-atro Geox, andranno in scena i Sonics, con il loro spettacolo inti-tolato “Meraviglia”. Sempre nello stesso contesto l’11 dicembre sarà la volta di “Le tentazioni dell’Anima-l”, spettacolo che vede sullo stesso palco Piero Pelù e l’Orchestra Parco della Musica Contemporanea En-semble, diretta da Tonino Bat-tista, eseguire brani come quel-li, tra gli altri, di Paul Simon e Philipp Glass. Il 12 dicembre arriva al Palasport di Trie-ste Jovanotti con il suo “Ora Tour”. Il 15 dicembre al Gran teatro Geox toccherà invece a True voice for Children, con il ricavato dello spettacolo devo-

Children Onlus. Poi il 16 di-cembre, sempre a Padova, sarà la volta del divertente spetta-colo del duo comico composto da Ale & Franz. Il 17 dicembre arrivano al Gran Teatro Geox i ritmi africani del Soweto Go-spel Choir e il giorno successi-vo toccherà invece al cantante Luca Carboni, che ha da poco presentato il suo nuovo album intitolato “Senza Titolo”.Altro genere di spettacolo at-tenderà gli spettatori il 25 e 26 dicembre quando andranno in scena al Gran Teatro Geox i balletti “Il Lago dei Cigni” e “Giselle”.Si chiuderà a capodanno con un appuntamento d’eccezione: al Gran Teatro Geox arrivano infatti Teo Teocoli e la Lavezzi band. Quello che si prospetta è uno show che mescola alla musica le esilaranti gag comi-che dell’artista milanese. Ma-rio Lavezzi proporrà sul palco alcune delle sue canzoni come apertura dello spettacolo.

Qui sopra “I soliti idioti”, sotto Ale & Franz, a destra in alto Ivano Fossati

Edito daQuinta Parete

Via Vasco de Gama 1337024 Arbizzano di Negrar, Verona

Direttore responsabileFederico Martinelli

Coordinatore editorialeSilvano Tommasoli

Assistente di redazioneStefano Campostrini

Hanno collaboratoDaniele AdamiPaolo AntonelliAlberto Avesani

Stefano CampostriniPaolo Corsi

Francesco FontanaMichele FontanaValeria GiarolaAgnese Ligossi

Lorenzo MagnaboscoFederico Martinelli

Ernesto PavanAlice Perini

Michela SaggioroSilvano Tommasoli

Isabella Zacco

Stefano Campostrini

Autorizzazione del Tribunale di Veronadel 26 novembre 2008

Registro stampa n° 1821

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15Musica

Dopo le date di ottobre e novembre grandi concerti in vista nei prossimi mesi

di Francesco Fontana

Verso l’infinito e oltre

I Virtuosi Italiani: gli appuntamentidi dicembre e gennaio

Dicembre 2011

La XIIIma stagione concertistica dei Virtuo-si Italiani, cominciata lo scorso 20 ottobre con l’eccezionale pianista di origine iraniana Ramin Bahrami, prosegue nei mesi di dicembre e gen-naio con alcuni dei più interessanti appuntamen-ti previsti nel program-ma che accompagnerà il pubblico con ben 20 con-certi domenicali, divisi tra la Sala Maffeiana e il Teatro Filarmonico di Verona, fino al mese di aprile 2012. Scorrendo il programma si trovano ospiti di grande spes-sore come, tra gli altri, Andrea Griminelli, Sergej Krylov, Pa-vel Berman, Pavel Vernikov, Uri Caine, Federico Mondelci, Giuliano Carella, Giuseppe Albanese, Ilia Kim, Nicolas Altstaedt e Cinzia Forte. Una delle novità della nuova stagio-ne è il nuovo direttore artisti-co dei Virtuosi Italiani Aldo Sisillo, direttore d’orchestra e attualmente direttore arti-stico della Fondazione Teatro Comunale di Modena, del Fe-stival delle Nazioni di Città di Castello e docente presso il Conservatorio Arrigo Boito di Parma Dopo i precedenti prestigiosi appuntamenti, domenica 11 dicembre toccherà alla piani-

la “Sinfonia da camera op.110a”, composizione di Dmitrji Shostakovich del 1953. Domenica 22 gennaio protagonista sarà la musica da ca-mera. L’esibizione, con inizio in Sala Maffeiana alle ore 11, prevede Al-berto Martini al violino, Marco Perini al violon-cello e Andrea Dindo al pianoforte. Si potrà assi-stere all’esecuzione di il “Trio”, di Maurice Ravel e di Sonate per violino e

pianoforte di Debussy e Ravel.sta di origini coreane Ilia Kim che, in Sala Maffeiana, si esibi-rà a partire dalle ore 11. L’arti-sta, assieme ai Virtuosi Italia-ni, interpreterà il caprise-valse “Wedding-Cake” per piano-forte e orchestra op. 76, opera scritta da Camille Saint-Saens, poi “Danza sacra e profana” di Claude Debussy e “Quintetto per pianoforte e archi in fa mi-nore”, di César Franck.Domenica 18 dicembre sarà la volta di Federico Mondelci, sassofonista e direttore, ac-compagnato al pianoforte da Leonardo Zunica. Lo spetta-colo si terrà in Sala Maffeiana dalle ore 11. Mondelci sarà sul palco sia in qualità di direttore che in quella di sassofonista e interpreterà “Rapsodia in blu” di Gershwin per sax, pianofor-te e archi e una selezione delle più belle composizioni di Astor

Piazzola come, tra le altre, “Adios Nonino”, “Oblivion”, “Violentango”, “Mi-longa Del Angel”.Sempre in Sala Maf-feiana, alle ore 11 del mattino, il 15 genna-io toccherà a Pavel Vernikov, violinista russo accompagnato sul palco dalla voce del tenore estone Mati Turi. Potremo apprezzare le esecu-zioni di “Kol Nidrei op. 47”, adagio su melodie ebraiche per violoncello e orche-stra di Max Bruch, “Divertimento ebrai-co” per violino solo, cantor e orchestra di Leonid Hoffmann, e a seguire la ver-sione per archi del-

per metterti in contatto con noi: [email protected]

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L’evento è organizzato da Mantova.com. I biglietti sono disponibili in prevendita sul portale www.mantova.com, al BoxOffice di Mantova (Pa-labam, via Melchiorre Gioia, 1) e sui circuiti TicketOne e Unicredit. Il prezzo in pre-vendita è di 20 euro (+ 2 euro d.p.), mentre al botteghino è di 25 euro. È ovviamente consi-gliato l’acquisto in preven-dita!L’inizio del concerto è previsto per le 21.30.

Dicembre 2011Musica

prevale sugli altri strumenti. In “Ces soi-disant amis” c’è un piacevole utilizzo di stru-menti a corda. A terminare la track list una canzone in acu-stico e su ritmi lenti dove il can-tante mette in risalto le proprie qualità vocali. Un ottimo lavo-ro che ancora una volta decreta Alpha Blondy uno tra i mi-gliori del reggae africano. Un album che non può mancare a qualunque cultore di questo genere.Oltre ad Alpha Blondy, la se-rata del 7 dicembre al Pala-bam sarà particolarmente ric-ca per tutti gli amanti del reg-gae e dell’afro. Non è un caso che, a seguire, protagonista del live & dj set sarà dj Yano. Con lui anche Kuma per una sele-zione di oltre 30 anni di afro.Insomma, un evento perfet-to per un tuffo nella migliore produzione mondiale reggae, roots, afro.

Passione reggae a MantovaSi esibisce un interprete simbolo della corrente afro-giamaicana

di Francesco Fontana

Verso l’infinito e oltre

Data unica in Italia per Alpha Blondy, il re del reggae africano!Mercoledì 7 dicembre al Palabam di Mantova pre-senterà in esclusiva il nuovissi-mo album “Vision”.La sua musica è roots reg-gae afro, riconosciuta a livello mondiale come fondamentale per il genere; il suo album “Je-rusalem” è considerato disco indispensabile per conoscere e approfondire la cultura reggae.Alpha Blondy canta i suoi testi in ebraico, inglese, fran-cese, arabo e in alcuni dialetti dell’Africa Occidentale (come ad esempio il baolé ed il dioula). Il nuovo album “Vision” è un altro (capo)lavoro del veterano Alpha Blondy che, anche in questo album, ha dato il meglio. Un sound senza precedenti, un cd fondamentalmente roots ma con solide basi afro e world music, proprio caratteristiche dell’artista che lo rendono uni-co nella sua qualità artistica.La track list è di 13 brani. All’ascolto delle prime canzo-ni si nota un solido roots. Poi si arriva al brano “Pinto” con forti contaminazioni del rit-mo africano, con la voce che si alterna al ritmo dei fiati. Segue “C’est Magic” con in-teressanti ritmi di percussioni a assoli di armonica. E dopo due brani prettamente roots si ascolta “Vuvuzela” con il suono di percussioni africane. Non di meno “Bogo” con l’ac-compagnamento della kora che

visita il sito internet di “Verona è”www.quintaparete.it

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Verso l’infinito e oltre

MusicaDicembre 2011

a cura di Stefano Campostrini

Nelle due immagini, la cantante spagnola Fatima Miranda,

accompagnata al piano

VeronaContemporanea FestivalHa preso il via la grande manifestazione dedicata alla musica

Il sottotitolo “intersezioni, im-provvisazioni & sinestesie” si rende protagonista degli ap-puntamenti della rassegna pro-mossa da Fondazione Arena di Verona, giunta alla IV edizio-ne. Da novembre fino a maggio 4 tappe indagheranno la mu-sica contemporanea appunto, senza dimenticare le sue radici nel secolo scorso, spaziando da quella “accademica” al jazz, dal rock al pop. Novità della rassegna 2011-2012 è l’attenzione verso la vocalità, l’improvvisazione e la sinestesia, in questo caso tra suoni e colori. In particolare l’edizione di quest’anno vuole rendere omaggio a John Cage, di cui si celebra il centenario

della nascita nel 2012, con tre programmi dedicati. Teatri degli eventi sono il Camploy, il Filarmonico, la Sala Maffeia-na, Palazzo della Ragione e il rinnovato Teatro Ristori.Il primo appuntamento si è te-nuto il 23 novembre e ha avu-to come primo protagonista il gruppo veronese Ensembre Hobocombo, composto da tre elementi, che unisce rock e minimalismo. Partendo come ispirazione e tributo a Louis Thomas Hardin (“Moondog”), compositore americano del se-colo scorso, pioniere delle ten-denze minimaliste, sviluppate poi da artisti come Philip Glass e Steve Reich.Si è poi esibita sempre al Teatro Camploy la performer spagno-la Fatima Miranda, sapiente

composta tra il 1963 e il 1967, è considerata la partitura gra-fica più importante e interes-sante degli anni ’60. Il percorso d’indagine del gruppo è sulle partiture grafiche e sulle ipotesi musicali sperimentali più avan-guardistiche del secolo scorso, nel tentativo di superare la no-tazione musicale tradizionale. L’Ensemble omaggia poi John Cage, con l’esecuzione della Variation VI. Gli strumenti uti-lizzati sono tastiere e sintetizza-tori, chitarra e sassofono, alla ricerca di effetti sonori anche psichedelici.Per il ciclo di dicembre, Con-clude gli appuntamenti al Camploy alle 21.30 un evento eccezionale di improvvisazio-ne guidata, con un numeroso ensemble che raduna musicisti di diversa estrazione, alcuni dei quali hanno partecipato ai precedenti appuntamenti di VeronaContemporanea. La perfor-mance è intitolata Chain e sarà condotta dal direttore, com-positore e sound artist svedese Staffan Mossenmark.

A seguire nei prossimi numeri gli altri appuntamenti di feb-braio.

interprete sperimentale, nota per il suo virtuosismo sia vocale che strumentale. Il suo spetta-colo “perVersiones” è una com-mistione di melodie medievali, canti indiani e sciamani con jazz, sonorità spagnole e fran-cesi, in un risultato complessivo molto particolare, tra musica popolare e contemporanea.Sabato 26 novembre l’incon-tro in Sala Maffeiana ha avuto come tematica sempre la voca-lità, sospesa tra passato e pre-sente. Si è esibita poi l’ensemble Odhecaton diretta da Paolo da Col, importante gruppo italia-no di sole voci maschili che ha proposto al pubblico “Tenebrae factae sunt”, viaggio tra le co-ralità polifoniche rinascimen-

tali poi messe in relazione con la scrittura contemporanea.Il 27 novembre è salita sul pal-co del Filarmonico la cantante Cristina Zavalloni, solista con l’Orchestra dell’Arena di Vero-na. Ha affrontato, con la sua ti-pica poliedricità, canti a partire da composizioni minimaliste fino a quelli di tradizioni popo-lari spagnole, italiane e russe, spaziando tra jazz, pop, folk music e musica d’avanguardia.A dicembre gli appuntamenti si concentrano sulll’improvvisa-zione nei suoi diversi tipi di ap-proccio, come elemento impor-tante della sensibilità musicale contemporaneaIn calendario il 6 dicembre alle ore 18 nel Cortile Mercato Vec-chio, spazio al duo norvegese Humcrush, singolare forma-

zione che spazia dal jazz ad un linguaggio sperimentale fatto di vocalismi ed elettronicaAlle ore 21 è la volta del Fran-cesco Bearzatti Tinissima Qtet, un ensemble jazzistico che pre-senta il suo ultimo album X (Su-ite for Malcolm). Sax, clarinetto, tromba, contrabbasso e batte-ria danno vita ad un concept album dedicato al personaggio afroamericano, presentato an-che tramite immagini durante l’esibizione, un insieme di sti-moli musicali tra rock, hip hop e sonorità liriche più delicate.Mercoledì 7 dicembre alle 15.30 nel foyer del Teatro Cam-ploy incontro dedicato sempre all’improvvisazione, condotto dal musicologo e compositore Walter Prati, autore del libro “All’improvviso. Percorsi d’im-provvisazione musicale”.Si prosegue in serata alle ore 17 con una performance solistica del batterista Roberto Dani, un personale percorso di ricer-ca e di esplorazione timbrica nell’ambito dell’improvvisazio-ne del suono delle percussioni.

Alle ore 18.00 è il momento dell’Ensemble Cardew con un programma di grande interes-se che mescola suoni acustici ed elettronica, tra cui spicca Treatise di Cornelius Cardew:

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samente genere, andando su un pezzo concentrato su basso e batteria. Erase This, dopo l’intro di piano, ci coinvolge in sonori-tà decisamente più rock. Sick e End of the Dream sono altri due pezzi basati su riff di chitarra, non particolarmente esaltanti. Lost In Paradise è una bellissima ballata di grande atmosfera, la seconda svolta del disco dopo la già menzionata My Heart Is Bro-ken. Dopo Oceans e Never Go Back chiude l’album Swimming Home, un pezzo diverso dagli altri, con l’uso dello strumento dell’arpa.Tirando le somme si può dire che “Evanescence” non è di certo l’album che ci si aspetta-va dopo cinque anni di attesa. Troppa varietà, troppa speri-mentazione e ricerca di suoni diversi dal solito. Ci si ritrova invece ad apprezzare i pochi brani in linea con la tradizio-ne Evanescence, in un album ibrido, che finisce per apparire privo di una vera identità.

Dicembre 2011Musica

in un locale di Little Rock, cit-tà da dove provengono i com-ponenti, è un grande successo e apre le porte alla carriera del gruppo. Le prime pubblica-zioni sono due EP: Il primo è

intitolato “Evanscence” (1998), che contiene sette tracce, men-tre il secondo è “Sound Asleep” (1999), composto da solamente sei tracce. Il primo vero e pro-prio album in studio è “Origin” (2000), disco che fa da apripi-sta ai successivi progetti disco-grafici. È una sorta di album introduttivo, tanto da essere stato prodotto in tiratura molto limitata, sole 2500 copie. Con “Fallen” (2003) la band arriva al grande successo. Il disco ha venduto circa 15 milioni di co-pie in tutto il mondo e contiene

Il nuovo disco degli EvanescenceA cinque anni dal precedente album “The Open Door” è uscito “Evanescence”

di Francesco Fontana

Verso l’infinito e oltre

Il titolo stesso dell’ultimo album “Evanescence”, potrebbe illu-dere i più di trovarsi di fronte a un disco che raccolga l’essenza delle sonorità della band statu-nitense, una sorta di punto di

arrivo dopo più di dieci anni di carriera. In realtà il nuovo progetto discografico delude, almeno in parte. Ripercorriamo prima la storia della band. Il duo che aveva iniziato l’avventura nel lontano 1995 era composto dalla can-tante Amy Lee e dal chitarrista Ben Moody, ai quali nel 1999 si era aggiunto il tastierista Da-vid Hodges, che da molti viene considerato comunque parte del gruppo iniziale e co-fonda-tore del progetto Evanescence. Il primo live della band, tenuto

pezzi stupendi quali Bring me to life, Going under, My Immortal ed Everybody’s Fool. Nel 2006 esce “The Open Door” che, nono-stante il disco di platino, è qua-litativamente di certo inferiore

a “Fallen”.E ora è finalmen-te arrivato l’atteso “Evanescence”. Il primo singolo estrat-to What You Want non è di certo un pezzo memorabi-le e tradisce quelle sonorità che ci si aspetta da un disco chiamato “Evane-scence”, apportando delle pericolose no-vità ai suoni e alle linee vocali. Made of Stone è un brano che ci coinvolge da subito in un riff di chitarra, già sentito e poco originale, per proseguire poi sen-

za particolari picchi. The Change è un altro brano che probabil-mente non sarà ricor-dato a lungo. Con My Heart is Broken ritro-viamo, finalmente, le sonorità degli Eva-nescence: pianofor-te in primo piano e atmosfere suggestive, il primo brano vera-mente valido ascol-tando i pezzi nell’or-dine. Con The Other Side cambiamo deci-

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Verso l’infinito e oltre

MusicaDicembre 2011

di Agnese Ligossi

Philharmonics: sussurri dal profondo NordUna musica intrigante e delicata ma che non può rimanere inascoltata

C’è un tipo di musica dal valore quasi metafisico, che trascende la realtà del mondo e che span-de i suoi raggi in ogni direzione attirando e accecando gli occhi di chiunque le si avvicini.Non è questo il caso di Agnes Obel. La bionda danese appar-tiene, invece, a quella schiera di artisti dal talento sommesso, ancora troppo umani ed imper-fetti per poter fare la differen-

za nel sovraffollato panorama musicale. Quelle in Philharmo-nics sono canzoni stagionali, da ascoltare guardando sottili rami nudi emergere dalla neb-bia invernale, da canticchiare mentre cade la neve. Con l’ar-rivo dell’estate si lasceranno di-menticare in un angolo ombro-so della mente, per poi riemer-gere con naturalezza ai primi grigi dell’autunno. La voce di Agnes si muove delicatamente su una ragnatela di echi, di suo-ni provenienti un immenso sa-lone di una villa in rovina – non

che dà il titolo a tutto l’album, la nota inquieta in mezzo a tut-to quel sottovoce che lascia un inaspettato brivido lungo la schiena cantando di morte e ri-nascita, di catene e liberazione. Qualche minuto di immobilità nervosa e poi possiamo tornare ai piccoli sentimenti, all’attesa, ai ricordi con Over The Hill.Questo è Philharmonics. A pen-sarci bene, è davvero niente di che, come lo spazio tra due pa-rentesi o una tazza di tè a metà mattina – come la vita di tutti, col suo concatenarsi di pensieri

fluttuanti, crudeltà indicibili e sorrisi abbozzati. A tutto questo Agnes Obel ha semplicemente dato una voce, la sua voce – senza età, tremante nel suo in-glese nordico eppu-re potente, proprio come saremmo vera-mente noi, come tut-te quelle parole che non riusciamo mai a dire. Niente di che, appunto.

s’impone, non rompe il silenzio ma gli dà forma, lo accompa-gna senza intromettersi. I più cinici (o i più musicisti) considereranno quest’album niente di che, cestinandolo sen-za alcuna pietà. E, in effetti, lo è: non abbaglia, non cam-bia la vita, non aggiunge nulla di nuovo alla scena musicale. Ma, a volte, è proprio questo di cui si ha bisogno: di una quasi

ninnananna come Riverside che culli la nostra mente senza ottenebrarla, del-le grandi distanze che Close Watch apre dentro di noi, della familiarità un po’ oscura di un brano tradizionale come Katie Cruel. Ogni tan-to abbiamo bisogno di affidarci a qual-cuno che metta tutto il suo cuore in quello che fa senza voler-

ci scandalizzare a tutti i costi; ogni tanto dobbiamo sentirci al sicuro tra braccia che non spa-ventino, addentrarci in luoghi che già conosciamo per ritro-vare noi stessi. Il viaggio non è comunque semplice: il paesag-gio è scarno (solo qualche pia-noforte, una chitarra e un’arpa qua e là), le voci che arrivano da lontano sono sottili e a vol-te indecifrabili nel loro intrec-ciarsi in cori obliqui, senza un equilibrio stabile. E la nebbia regna sovrana, bianca e densa. Il rumore dei nostri pensieri diventa fragoroso sotto il ritmo regolare del carillon alla Yann Tiersen di Louretta, i bassi del violoncello di Wallflower ci av-volgono in un’atmosfera quasi alla Tim Burton, Just So, senza preavviso, ci strappa addirit-tura un sorriso. È un mistero continuo. Anche le parole flui-scono, senza fretta, inesorabili, conosciute. Finché non arri-viamo a Philharmonics, il brano

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Beh chi più ne ha più ne metta! Siamo pre-senti su tutti i prin-cipali social network (Facebook, Myspace, Twitter), per le foto siamo su Flickr, per i video abbiamo il cana-le Youtube e abbiamo un nostro sito ufficiale (www.therockbrand.it).Sognate per un at-timo (tutti!): a qua-le band vorreste fare da spalla per aprire un concer-to?Non vorremmo cadere nel banale, ma… Led Zeppelin. E’ (stata) una band che simbo-

leggia il rock, ma a differenza di altri grandi gruppi come Deep Purple o AC/DC ha un alone di misticismo che la rende unica.Quali sono i progetti per il futuro? State già lavo-rando al secondo album o siete impegnati a far co-noscere quello inciso da poco?La cosa a cui stiamo lavoran-do ora è di creare un vero e proprio show, che non sia solo suonare dei pezzi su un palco, ma di far interagire il pubblico, aggiungere altri artisti che non è detto che debbano suonare (e qui non possiamo aggiungere altro…) per rendere il nostro spettacolo veramente unico. In secondo luogo stiamo pensando al secondo album, con già al-cuni brani in cantiere, che spe-riamo di far uscire dopo l’estate 2012.

rock è l’inglese.Da qualche mese è usci-to il vostro primo grande lavoro, “Original”. Quali sono le tematiche princi-pali trattate nelle canzoni presenti in tale album?La tematica trattata in più di metà album è l’amore, di certo non in chiave “mielosa” tipica del pop, ma attraverso storie che possono parlare di rotture o di riappacificazioni, insom-ma tutte le sfaccettature di questo sentimento. Fuori dai canoni sono “Searching for” e “Something”, rispettivamente l’inizio e la fine di un viaggio che non è altro che la metafora della vita.Farsi conoscere è impor-tante e i new media facili-tano sicuramente la vita a gruppi emergenti come il vostro. Quali canali di co-municazione adottate?

possono anche fischiettare, per-ché la musica complicata, fine a sé stessa è di poco utilizzo a nostro parere.Voi suonate sia cover che pezzi originali. Continue-rete con questo binomio o sentite la necessità di se-guire una strada in parti-colare?Fin quando non si acquisisce un certo livello di notorietà le cover sono d’obbligo, e questo lo si fa per il pubblico. Ma in al-tri ambiti, per esempio festival o contest, noi ci presentiamo sempre come original band.La scelta di cantare in in-glese deriva da una neces-sità commerciale o dal vo-stro gusto personale?In realtà se dovessimo seguire il trend commerciale la scelta da fare sarebbe l’italiano. Se can-tiamo in inglese è proprio per gusti personali, la lingua del

di Alberto Avesani

Ho cercato di diventare qualcuno

“The Brand”: rock ed energiaLa giovane band veronese coinvolge con la sua musica accattivante e travolgente

Dopo la vittoria del concorso “Noi Musica” di Lonato (BS), incontriamo oggi con immenso piacere i The Brand, un grup-po rock nostrano composto dalla cantante Alice Ferrigolo, dai chitarristi Stefano Pistone e Andrea D’Angelo, dal batteri-sta Michel To Van e dalla new entry Simone Orsolini al basso.Come nasce il vostro grup-po musicale e quali sono le tappe fondamenta-li della vostra evo-luzione artistica?Beh il gruppo è nato nel 2001, ed eravamo 3 ragazzi con la sola voglia di suonare. Col passare degli anni e l’aggiungersi di com-ponenti abbiamo capi-to l’esigenza di trovare una formazione stabile e di poter esprimere la nostra musica con de-gli inediti. Infine l’ul-tima tappa sino ad ora è stata quella di racco-gliere questi inediti in un unico album.Perché avete adot-tato il nome “The Brand”?Intanto il nome è stato adot-tato solamente all’uscita del nostro album (05/2011). Prima ci chiamavamo Sottomarca, quindi per sottolineare il fatto che d’ora in poi saremmo sta-ti un marchio a tutti gli effetti abbiamo deciso di passare da sottomarca a “LA marca” (ap-punto the brand).Lo stile musicale che pro-ponete al pubblico si ispira a qualche grande musici-sta/band o state cercando di esprimere qualcosa di innovativo?Di sicuro all’interno delle no-stre canzoni si può riscontra-re la presenza di stili tipici di grandi band del rock 70/80 ma anche contemporanee, ma lasciamo al pubblico scoprire di chi parliamo… Quello che invece cerchiamo di fare è una musica sì rock, ma anche di fa-cile ascolto con ritornelli che si

Dicembre 2011Intervista

Prossime date

Per chi volesse sentire del buon rock, la band vi da appuntamento il 9 dicembre 2011 al Porky’s (ex Lucille) e il 27 gennaio 2012 al Blocco Music Hall di San Giovanni Lupatoto.

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Il contributo richiesto al pubblico per assistere alle proiezioni è di 2 Euro a serata oltre a 3 Euro per l’iscrizione annuale all’Ass. Valpolicella Fiction. Tesseramenti e acquisto dei biglietti sono possibili in loco ogni sera a partire dalle 20.30. Durante la fase di registrazione, nell’attesa dell’inizio delle proiezioni, l’Azienda Agricola San Rustico offrirà un bicchiere di vino di benvenuto a tutti gli intervenuti.

Sabato pomeriggio alle 17.30 sarà inoltre possibile partecipare su offerta libera ad una visita guidata del museo. I posti sono tuttavia limitati a 20 è pertanto necessaria la preiscrizione all’indirizzo [email protected].

Ultriori informazioni sono disponibili al sito www.valpolicellafilmfestival.it, su facebook e su twitter.

Opere in concorso:

CORTOMETRAGGI

· Ainult meie kolm (Estonia) regia di Balia Giampietro

· Amargo porvenir (Spagna) regia di Herrero Rodolfo

· Angezettelt - Horst & Marie (Germania) regia di Utz Dominik

· Bucle (Spagna) regia di Moreno Aritz

· Clowntime is Over (Gran Bretagna) regia di Whelans Phil

· Covariance (USA) regia di Westlake Dawn

· El Espanto (Spagna) regia di Marcos J.J.

· Error 0036 (Spagna) regia di Fernàndez Rincòn Raùl

· Fotograma 23 (Portogallo) regia di Santos Victor

· La media pena (Spagna) regia di Barrejòn Sergio

· Peto (Finlandia) regia di Makkonen Joonas

· Sinucide-mà (Romania) regia di Hendi Jamil

· Son Souffle Contre Epaule (Francia) regia di About Emmanuel e Gautier

· Te odio (Spagna) regia di Rojas-Diez Rafa

· Zeinek gehiago irain (Spagna) regia di Muro Gregorio

SCENEGGIATURE:

· Tua Veronica di Pace Benedetto

· Daylight di Ceino Claudio

· Il biglietto di Scomazzon Giulia

· Irina e la fisarmonica di Santillo Vera

· L’ultimo sopravvissuto di Panzavolta Claudio

· L’umo della domica pomeriggio di Balboni Daniele e Solina Luca

· La vacanza americana di Marinelli Claudia

· Piccoli brividi in periferia di Marini Marco

· Sette Giorni di Bottura Chiara

· Voglia di evadere di Creazzi Alex

L’opinioneDicembre 2011

di Silvano Tommasoli

“Questa è una transazione, non una discussione”

Ci pensiamo molto spesso, quasi tutti. Sempre più spesso, quando gli anni incedono: per i giovani, la morte non rappre-senta una preoccupazione, anzi nemmeno il soffio di un pensie-ro. Più tardi, invece, si comin-cia a pensare che risolvere il problema della morte significhi trovare il senso della vita. Con un sacco di varianti, natural-mente. Ci sono i cattolici con-vinti, per i quali il decesso del corpo segna l’inizio della vera vita dell’anima, mentre la mor-te definitiva ed eterna si ha solo con la “morte seconda”, come è chiamata nell’Apocalisse la perdi-ta della vita divina e della feli-cità eterna come pena del pecc-cato originale. Per i materia-listi, che negano l’esistenza di un’anima, la vita è solo quella terrena. Dopo questa frontiera, non c’è proprio nulla. Anzi, come ha scritto Epicuro, quan-do ci siamo noi non c’è la mor-te e quando c’è la morte non ci siamo noi. E Wittgenstein, che, successivamente, ha negato la morte come un evento della vita («Non si vive la morte»), o Sartre, che la considera come un “puro fatto”, come la nasci-ta.Le cose si complicano molto quando la morte perde il suo aspetto di evento naturale, e la “frontiera” viene attraversata in conseguenza di un atto vio-lento, o volontario. Tralasciamo di occuparci della morte in guerra, per l’estetica della quale si sono versati fiu-mi di ottimo inchiostro – sarà anche bello morire da eroi,

Estetica della vita ed etica della morteDove si parla di suicidio, di sofferenza dell’anima e di sofferenza del corpo

ma a vent’anni, oggi, sembra più gradevole vivere, no? – e non sembra questo il luogo per trattare la morte cruenta del-le molte vittime innocenti che la barbarie umana miete ogni giorno. Vogliamo parlare del suicidio, indotti in questa rifles-sione dalla morte che si è dato, nei giorni scorsi, Lucio Magri. E prima di lui, Mario Monicelli e molti altri.Il punto centrale della vexata quaestio è capire, e valutare, la liceità di porre fine alla propria vita quando essa non corri-sponda più ai canoni e ai re-quisiti minimi di accettabilità da parte dell’individuo. Cosa apparentemente più facile, quando la parte conclusiva della vita sia sot-toposta all’inferno di una patologia gravissima, che impone sofferenze fisiche e morali in-sostenibili, senza alcuna speranza di poter lasciare quello stato. Ho detto “apparen-temente”, non è vero? Infatti, basta andare con il ricordo alle vicende terrene di Giorgio Welby, per avere davanti il caso più eclatante di malato terminale che chiede-va di essere lasciato morire. E poi, più difficile ancora quan-do il malato non sia in stato di coscienza vigile, e, per lui, do-vrebbero decidere altri.Ora, se c’è un’estetica del-la morte, ci dev’essere anche un’estetica della vita. Nel senso che ciascun individuo dovreb-be avere, sempre, contezza del suo piacersi e del suo piacer-gli la propria vita, secondo canoni estetici assolutamen-te individuali e personali che hanno l’unico obbligo di non limitare la libertà altrui. E se la propria vita non piacesse più? «Depressione», è spesso la troppo rapida sentenza.Certo, depressione è il nome della patologia che la cosiddet-

ta società civile appioppa a tutti coloro che escono dai canoni e dagli schemi definiti secondo il comune pensare. Insomma, tutti i “diversi” sono, in fondo in fondo, depressi. Se non lo fossero, sarebbero omologati e non diversi. Così, la normalità è definita a maggioranza rela-tiva!In realtà, è molto comprensibi-le che, a un certo punto dell’e-sistenza, la conduzione della propria vita possa non piace-re più. All’interno del canone estetico stabilito per essa, l’e-quilibrio tra bello e brutto, tra gradevole e spiacevole – fino al limite estremo dell’insoppor-

tabile – è quanto mai labile e delicato. Verso la naturale fine della vita, poi, quando il conto degli anni propone, inesorabil-mente, una prospettiva menta-le e fisica che corre veloce verso un decadimento senza ritorno, non appare così assurdo voler assegnare alla propria esisten-za una frontiera della dignità – sempre ricompresa in quella propria estetica del vivere – che non è tollerabile superare.Mario Monicelli, come autore cinematografico, è stato uno degli interpreti e dei narratori più intelligenti della realtà del-la vita italiana del Ventesimo Secolo. A novantacinque anni, sarebbe stato giusto che diven-tasse lui stesso un’icona di quel “miserabile” contro il quale tanto si è speso? La morte come catarsi di una vita miserabile è stata mirabilmente descritta da Monicelli in uno dei suoi capo-

lavori, La grande guerra del 1959; dandosi la morte, egli ha scritto l’ultimo capitolo del suo pensie-ro, rappresentando il suicidio come barriera verso una vita che stava diventando estetica-mente inaccettabile. Certo, il suicidio è stato con-dannato da molti grandi filoso-fi, perché contrario alla volontà divina come sosteneva Platone, oppure perché rappresenta la trasgressione di un dovere verso sé stesso, secondo Kant, o verso la comunità alla quale si appar-tiene, come sosteneva Aristote-le. Di contro, gli Stoici ritene-vano doveroso rinunciare alla vita, quando fosse impossibile

adempiere il proprio dovere, e Hume – che ha intitolato Of Suicide uno dei suoi Saggi – affermò che è questa l’unica via che consente di usci-re da una situazione insostenibile, il solo modo per salvare allo stesso tempo la propria dignità e li-bertà.Lucio Magri non era malato fisicamente;

almeno, non che si sapesse. A settantanove anni, si sentiva in-capace di condurre la sua vita senza la seconda moglie, l’ama-tissima Mara, morta di cancro tre anni fa. Ha scelto questa via di uscita da una situazione che ormai gli era intollerabile e che riteneva intaccasse la sua digni-tà.Non credo che sia giusto criti-care la sua scelta, quanto piut-tosto rispettarla e accettarla, nella sua grande complessità. Infine, è giusto considerare questo suicido, che egli ha vo-luto somministrare a sé stesso con modalità non cruente, non diverso dall’eutanasia alla qua-le hanno diritto tutti coloro che ne hanno chiesto l’applicazione prima di cadere in stato vege-tativo persistente e irreversibile. Perché le sofferenze dell’ani-ma non sono meno dolorose di quelle del corpo.

E quindi io ho paura della sof-ferenza. Perché nei confronti

della morte io,che in tutto il resto credo di

essere un moderato,sono assolutamente radicale.Se noi abbiamo un diritto alla

vita, abbiamo ancheun diritto alla morte.

Sta a noi, deve essere ricono-sciuto a noi il diritto di sceglie-

re il quando e il comedella nostra morte

Indro Montanelli

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22 Cinema Dicembre 2011

Visto abbastanza?di Stefano Campostrini

Valpolicella Film FestivalConcorso per sceneggiature e cortometraggi inediti

spazio alla loro vi-sione.Immancabile poi la sezione dedicata alle sceneggiature, in tal caso tutte ita-liane, con la consue-ta attenzione per le trame che potranno costituire futuri film o cortometraggi. Ad esse è stato dedicato un momento duran-te la serata conclusi-va, con la lettura del miglior progetto.L’Associazione Val-policella Fiction continua il suo im-pegno, offre e so-stiene anche la pos-sibilità di iscriversi e tesserarsi, per rima-nere in contatto con le attività e benefi-ciare delle opportu-nità che offre.

L’Associazione Valpolicella Fiction ha da sempre sostenuto e voluto valorizzare il proprio territorio di rappresentanza portando il cinema tra le col-line sopra Verona. L’intento degli organizzatori e della ma-nifestazione è quello di diffon-dere la cultura del cinema e il suo linguaggio, stimolando il dialogo e il pensiero. Una pro-posta culturale che ha portato alla creazione del Valpolicella Film Festival, giunto quest’an-no alla sua terza edizione, che si è tenuto dall’1 al 3 dicembre.Il bando del concorso è stato presentato lo scorso maggio in occasione della mostra d’ar-te organizzata dalla Scuola d’Arte “Paolo Brenzoni” di Sant’Ambrogio. Il Museo del Cinemagia e dell’Immagine di San Pietro in Cariano è stata la sede della kermesse, preparata nell’allestimento per mostrare l’evoluzione delle tecniche cine-matografiche.

Grande partecipazione al pro-getto, con oltre 120 candidatu-re provenienti da dodici paesi diversi, in particolare Spagna e paesi anglosassoni. Segno di un continuo e crescente interesse per l’ideazione e la realizzazio-ne di questo concorso, anche in concomitanza con la creazione di convenzioni e collegamenti con realtà del territorio, enti culturali, promotori turistici ed istituzioni locali, queste ultime rappresentate quest’anno dal Comune di San Pietro in Ca-riano, posto il patrocinio per l’evento.Risultato della selezione è sta-ta la presentazione di quin-dici cortometraggi e dieci sceneggiature inediti. I primi due giorni sono stati mostrati al pubblico giunto al festival e successivamente la giuria composta da esperti, tecnici e appassionati ha valutato e de-cretato i lavori più meritevoli, introducendoli e lasciando poi

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Visto abbastanza?

CinemaDicembre 2011

di Ernesto Pavan

Real Steel è un sogno infantile. E fin dalla la prima volta che il nome “Atom” (lo stesso nome del celebre robot nato dall’im-maginazione del regista e fu-mettista Osamu Tezuka) è pro-nunciato, si può stare certi che si tratta di un sogno fatto dan-natamente bene. Non importa se la trama è una riproposizio-ne dei classici holliwoodiani, non importa se, a mente fredda, ogni svolta potrebbe essere ra-

Voglio un robot e lo voglio adessoReal Steel è un film semplice che riesce a colpire

gionevolmente prevista (tranne l’ultimo, incredibile, ma perfet-to colpo di scena): Real Steel non è un film che si può guardare rimanendo impassibili. È un sogno che si muove e combatte con l’animo di un uomo d’ac-ciaio guidato da persone di car-ne. È la riscossa delle speranze di ognuno di noi. Durante le quasi due ore del film, ciascu-no spettatore è Max che non vuole arrendersi, è Charlie che

rialza la testa, è Atom che non cadrà nonostante tutti i pugni che prende. Infan-tile, certo; ma se l’infanzia è una culla dal potenzia-le immenso, che produce adulti realizzati, allora essere colpiti da qualcosa di infantile significa che parte di quel potenziale creativo è ancora vivo in noi. Film più complessi, articolati e originali non hanno la carica emotiva di Real Steel.

Dal punto di vista tecnico, Real Steel è realizzato in modo eccel-lente. Le scenografie sono per-fette per il tono delle scene a cui fanno da sfondo e le luci sono scelte e posizionate con cura. I robot sono animati con estre-mo realismo e chi ci ha lavora-to è riuscito nel difficile compi-to di creare volti immobili, ma immensamente espressivi. E la musica è l’accompagnamento perfetto per l’azione sullo scher-mo. Questa combinazione di elementi fa sì che lo spettatore possa immergersi nella visione del film come in un mondo re-ale, concreto, di cui anche lui può far parte. Che è quello che ogni buon film dovrebbe essere capace di fare.Il vero protagonista della vi-cenda è indubbiamente Max, il bambino interpretato da Dako-ta Goyo (sì, è un nome proprio); un personaggio a cui l’attore dodicenne riesce a dare un’e-spressività e una fisicità non co-mune. Anche Hugh Jackman non delude e, dall’alto dei suoi

43 anni, sfoggia un perfetto phisique du role da pugile in pen-sione, ma in forma. Il resto del cast appare un po’ sottotono, soprattutto quello femminile. con Olga Fonda che interpreta una donna algida al punto da risultate stucchevole ed Evan-geline Lilly che non riesce a dare pieno sviluppo a un perso-naggio forse troppo prigioniero del suo ruolo. Kevin Durand fa il suo mestiere come antagoni-sta viscido e gli altri più o meno se la cavicchiano, complice il fatto che un film come Real Steel ha veramente bisogno solo di protagonisti interessanti e che il vero antagonista non è un personaggio, ma la sconfitta: qualcosa che bisogna imparare ad accettare e da cui non ci si deve lasciar abbattere.Certamente Real Steel non è un film profondo, innovativo o che altro, ma cosa importa? Voglio un robot e lo voglio adesso.

per metterti in contatto con noi: [email protected]

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24 Dicembre 2011Libri

È la stampa, bellezza

Una leggenda della cultura po-polare vuole che, prima della morte, una persona riveda la propria vita con estrema chia-rezza. L’ultima lezione è questa leggenda resa realtà. Randy Pausch, professore universita-rio e uomo realizzato nel pieno vigore dei suoi quarant’anni, scopre un giorno che gli riman-gono pochi mesi di vita prima che il cancro lo uccida. Il suo pensiero va alla sua famiglia, in particolare ai suoi figli piccoli, e ai numerosi amici e allievi del presente e del passato: si chiede cosa potrà lasciare loro e decide che la cosa migliore è proprio la sua vita, sotto forma delle lezio-ni che questa gli ha insegnato. Queste sono gli argomenti della sua ultima lezione, tenuta come relatore esterno presso una pre-stigiosa università; e questi sono anche gli argomenti de L’ultima lezione, un libro limpido e privo di ogni retorica, che senza al-cuna pretesa rivela uno scorcio di vera umanità. Attenzione: L’ultima lezione non è una storia lagrimevole, né un caso di can-nibalismo editoriale. È l’opera di un docente universitario che ha pensato agli altri prima che a se stesso, cercando di fare del suo passato qualcosa di utile per chi verrà dopo di lui. Pausch non era un umanista, ma uno scienziato, e forse pro-prio per questo il suo stile è così leggibile: non c’è una metafora

Tirando le somme di una vita:L’ultima lezione

Un racconto asciutto e commovente

di troppo, una parola ricercata o un’espressione desueta. Que-sto da solo varrebbe la lettura del libro, per la lezione utile che molti potrebbero trarne. Ma non è tutto qui. Con l’at-tenzione che solo una mente non inquinata dalla presunzio-ne può avere, Pausch coglie e porta a galla una serie di inse-gnamenti che sfuggono a molti e di altri, che avremo sentito dire mille volte (“nessun lavo-ro è troppo umile”), riesce a dare spiegazioni nuove e con-vincenti. Anche se si può non concordare con alcune delle sue affermazioni, nessuna di essa è banale e nessuna si può scartare come “superficiale”. Quella che ci ha colpito di più è stato il modo in cui defini-sce William Shatner, l’attore che interpretò il capitano Kirk in Star Trek: “eroico”. Lui, un uomo che ha combattuto fino all’ultimo una battaglia persa e ha dato una grande lezione di ottimismo (non del tipo che illude, ma quello vero) e di spe-ranza, ha chiamato “eroico” qualcun altro per il semplice fatto che si trattava di una per-sona capace di approcciare una questione partendo dall’igno-ranza più completa e facendo domande senza stancarsi, fino a quando non poteva dire di aver capito tutto. E, a pensarci bene, in un’era di supponenza e arroganza, voler imparare an-

che quando all’apparenza non serve a nulla è davvero un atto eroico.L’ultima lezione è un testo breve, che si legge in poco tempo ma lascia il segno. Consigliatissi-mo.

Randi Pausch, L’ultima lezione, BUR, pp. 231, € 9,90

di Ernesto Pavan

Narrativa, poesia, vita vissuta, storia locale, didattica scolastica, cultura nel senso più ampio del termine.

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25Dicembre 2011 Libri

di Ernesto Pavan

È la stampa, bellezza

Lavinia è un romanzo strano. L’autrice vorrebbe soffermar-si sul personaggio in assoluto meno approfondito dell’Eneide (la sposa di Enea, a cui saranno dedicati sì e no una dozzina di versi in tutto il poema) e farne la protagonista di una storia, raccontata dal punto di vista della donna; così avviene, ma il risultato non è dei più convincenti, complici una serie di incongruenze che rendono la tra-ma poco credibile. In primo luogo, quello che è l’elemento di ori-ginalità del romanzo: Lavinia sa di essere un personaggio di fantasia. L’ombra di Virgilio moren-te la visita in un paio di occasio-ni (dopo le quali sentiamo parlare poco o nulla di lui), stupendosi delle differenze fra il personaggio da lui rozzamente deli-neato e la persona “reale”; in queste occasioni, solleci-tato da Lavinia, il poeta pronuncia alcune “profezie” (in realtà canti dell’Eneide), che naturalmente si avverano. In ciò sta il primo pro-blema: le enormi differenze riscontrate da Virgi-lio non hanno alcuna influen-za sulla storia, che si svolge esattamente come nel poema. Non solo, ma la vicenda con-tinua dopo la morte di Turno (il momento in cui l’Eneide ter-mina brutalmente), nonostante in teoria si debba concludere, essendo un parto della fantasia di Virgilio. Queste contraddi-zioni sono lasciate inspiegate e la stessa Lavinia, dopo essersi

Lavinia, moglie di Enea,racconta l’Eneide

Ursula Le Guin rende la donna protagonista dell’epica

interrogata al riguardo, non sa darsi delle risposte. Il finale, che non sveliamo, non ha fatto altro che aumentare la nostra perplessità, come il fatto che Latini e Troiani parlino la stes-sa lingua e si capiscano perfet-tamente.Lavinia ha anche un forte pro-blema per quanto riguarda la

gestione dei ritmi narrativi. A momenti di grande lentezza si alternano, soprattutto nell’ul-tima parte, sequenze rapidis-sime in cui tutto sembra acca-dere troppo in fretta. Inoltre, mentre l’inizio del romanzo è in qualche modo originale, la parte centrale è di fatto ricalca-ta dall’Eneide (cambia il punto di vista, ma gli eventi riman-gono quelli) e l’azione sembra fermarsi a questo punto, senza

che nulla di significativo ac-cada nella parte conclusiva. È un peccato, perché lo stile di LeGuin è veramente ottimo e il romanzo si legge con gran-de scorrevolezza, nonostante qualche momento di stanca.Meno soddisfacente è la carat-terizzazione dei personaggi, che esprimono ciascuno una

singola caratteri-stica: Latino è il padre arrendevole, Amata la madre che vede in Turno il figlio che non ha mai avuto, Enea l’uomo pius e via dicendo. Lavinia, la voce narrante, appare più convin-cente, ma anche vagamente estra-niata, come se in fondo le vicende da lei vissute non la riguardassero per davvero. Ti-rando le somme, il romanzo è più che mediocre, ma meno che buono.Va fatta menzione dell’orrida scelta della copertina italiana, comple-tamente in con-trasto con il conte-nuto del romanzo e la postfazione dell’autrice: men-tre quest’ultima ha voluto dipingere un Lazio primitivo

e povero, storicamente accura-to (il romanzo si svolge a caval-lo della fondazione di Roma), l’immagine rappresenta una matrona riccamente vestita su uno sfondo marmoreo. Una scelta forse mirata ad attrarre gli appassionati di un certo ge-nere storico che non ha molto a che vedere con Lavinia, il quale non è una celebrazione della romanità ma uno spioncino sul mondo che l’ha preceduta.

Ursula K. Le Guin, Lavinia, Cavallo di Ferro, pp. 314, € 16,00

Così parlò Eatwood

“Tutta colpa di Aladin!”, so-stiene imperterrito Eatwood da qualche settimana. Que-sta volta devo ammetterlo, ha proprio ragione lui. Di una cosa ero certo fino a poco fa...non l’avrei mai assecondato nei suoi turpi ragionamenti. E invece... ma tu guarda il tem-po come cambia le cose!“Ha la testa tra le nuvole!”, sostenevo, “Ma è una cosa passeggera...”, minimizza-va il ragazzino invecchiato con fratello appresso. “Non dite sciocchezze”, tuonava l’anziano fotografo panzone. Eatwood, sguardo celeste da prete triste, ascoltava tutti in silenzio con la Bibbia in mano e il rosario nel taschino. “Sie-te lontani dalla verità, qui c’è dell’altro. Ha mal d’Asia il ragazzo”, volle precisare. Un vociferare che diveniva sem-pre più assordante non fece che rafforzare l’impeto di Eat-wood. Ma c’era dell’altro. Non pago volle farsi sentire, volle dire la sua nuovamente. E, con scatto d’orgoglio, mollò i sacchetti che aveva tra le mani e, puntando il dito verso di noi, ci disse: “ve l’avevo detto, sempre a fare di testa vostra...non dovevate farlo partire”. Io a questo punto, con plate-ale scena d’artista, mi alzai e senza salutare nessuno uscii dalla porta, sbattendola con veemenza. Gli alti cosa fecero? Non mi interessa, chiedetelo a Eatwood.

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26 Dicembre 2011Giochi di ruolo

Nessun uomo è un fallito se ha degli amici

Di cosa hai paura (di Robin D. Laws, Janus Design, € 32,00) non è una novità per chi ha già avuto a che fare con Esoterroristi o Sulle tracce di Cthulhu: si trat-ta di un altro gioco basato sul sistema GUMSHOE, pensato per la creazione e la risoluzio-ne di scenari investigativi. La novità rispetto agli altri due sta nel tema, molto più basato sui classici film dell’orrore, e nei protagonisti: non più specialisti dell’investigazione, ma persone comuni che si trovano ad avere a che fare con orrori sopran-naturali. Siccome, a differen-za degli investigatori di Sulle tracce di Cthulhu ed Esoterroristi, costoro non hanno di base una forte motivazione che li spinga ad affrontare il Male, Di cosa hai paura introduce i Fattori di Rischio: impulsi individuali (curiosità, istinto di protezione, ecc) seguendo i quali i perso-naggi rimangono invischia-ti nello scenario, invece che abbandonarlo il più in fretta possibile. Ciascun personag-gio possiede inoltre un segreto oscuro, qualcosa di fortemente negativo che ha fatto o gli è ac-caduto in passato, che dovreb-be emergere durante il gioco; diciamo “dovrebbe” perché, a nostra conoscenza, il ruolo di questo elemento nelle meccani-che di gioco è talmente margi-nale da poter essere trascurato. Anche i Fattori di Rischio non

Occhi aperti e passo svelto,o vi prenderanno!

Di cosa hai paura: un gioco di orrore soprannaturale

ci hanno convinto, dal momen-to che il loro ruolo è quello di accordo sociale fra giocatori e Game Master: “i vostri perso-naggi non abbandoneranno lo scenario per un mo-tivo. Quel motivo lo scegliete voi.” Per quanto utile possa essere un accordo del genere, la neces-sità di esplicitarlo (non includendo, peraltro, i Fattori di Rischio in alcuna meccanica di gioco) ci fa pensare a una debolezza di fon-do del sistema che una premessa più forte come quella degli altri due gio-chi avrebbe potuto evitare.L ’ i m p o r t a z i o -ne pressoché to-tale del sistema GUMSHOE crea qualche problema di credibilità delle storie e di gioca-bilità: da un lato, queste “persone comuni” appaiono enormemente capa-ci e in grado di destreggiarsi in situazioni nelle quali ci aspette-remmo un minimo di tensione; dall’altro, la quasi totalità delle creature descritte nel manuale può fare a pezzi una dozzina

di personaggi-tipo con enorme facilità, richiedendo un notevo-le controllo da parte del Game Master per evitare che tutto fi-nisca in un grand guignol. Tutto

ciò non è necessariamente un male, ma ci sembra che il gio-co dia per scontato un livello di consapevolezza del sistema che non lo è per niente. Ciò detto, Di cosa hai paura è

un gioco che può interessare molto chi si avvicina ai giochi di nuova concezione partendo dal genere tradizionale (Kult, Il richiamo di Cthulhu e simili): in

esso ritroverà molti elementi familiari, uniti a un sistema più funzionale e co-erente. L’edizione italiana è come sem-pre di ottima quali-tà e include, oltre al gioco base, il Tomo dell’orrore incessante, un supplemento de-dicato ai mostri che può essere utilizzato anche nelle partite di Esoterroristi. Oltre alla versione carta-cea, Janus Design vende sul proprio sito il PDF del gio-co a 14 euro; chi acquista il manuale cartaceo riceverà quest’ultimo senza alcun costo aggiun-tivo. In questo caso, il rapporto fra prez-zo del PDF e prezzo del cartaceo (il 45% circa) non è ottimo, ma è pur sempre

molto buono; chi, letta la nostra opinione, considera il prezzo del manuale stampato un in-vestimento eccessivo, potrebbe ricorrere al PDF e fare comun-que un buon affare.

di Ernesto Pavan

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27Dicembre 2011 Giochi di ruolo

di Ernesto Pavan

Nessun uomo è un fallito se ha degli amici

Polaris (di Ben Lehman, Janus Design, € 30,00) è un unicum nel panorama dei giochi di ruolo. Lo è per il tema, una “tragedia cavalleresca all’estremo Nord”; lo è per l’ambientazione, una città costruita fra i ghiacci del Polo popolata da una civiltà avanzata; lo è per il sistema, fondato sulla ritualità del dialo-go. È un gioco che richiede un forte coinvolgimento emotivo e premia i partecipanti con storie che non avrebbero mai pensato di poter raccontare ed emozio-ni uniche.Le storie di Polaris sono am-bientate in quello che, di fatto, è un mondo morente. La not-te, in cui la civiltà di Polaris è nata è cresciuta, è stata violata dal Sole; con esso sono arrivati i Portatori dell’Errore, demoni di carne e sangue o corruttori invisibili che sussurrano agli animi delle persone, portan-dole verso la follia. Il popolo di Polaris, abbagliato dallo splen-dore del Sole, ha preso ad ado-rarlo, incurante del male che esso ha portato; solo i Cavalieri dell’Ordine delle Stelle combat-tono ancora per la salvezza del loro popolo, ma la loro è una lotta disperata, perché i Por-tatori dell’Errore sono infiniti, mentre il numero dei Cavalieri si assottiglia sempre di più. Di-sprezzati dalle stesse persone che proteggono, condannati alla morte o alla corruzione, i Cavalieri sono i protagonisti delle storie di Polaris.La particolarità di questo gio-

Quando i giocatori scrissero un canto epicoTema e regolamento rendono Polaris un gioco più unico che raro

co sono i ruoli dei partecipan-ti, che variano a seconda delle rispettive posizioni al tavolo. A turno, ciascuno sarà il Cuore di un Cavaliere e ne racconterà i pensieri e le azioni; il giocatore di fronte a lui sarà l’Errore, che introdurrà tentazioni e nemici; infine, i giocatori alla sua de-

stra e alla sua sinistra saranno le Lune, sui cui ricade la re-sponsabilità dei personaggi mi-nori. Il gioco in sé è un dialogo sottoforma di racconto cavalle-resco, al passato, ed è scandito da frasi rituali: “ma solo se...”, “e inoltre...”, “e fu così che...” possono essere usate, seguendo

determinate regole, per inte-grare o modificare il racconto di un altro giocatore. Nel turno di ciascuno, sono soprattutto il Cuore e l’Errore a farla da pa-droni, con le Lune in un ruolo che è principalmente di suppor-to; in conseguenza di ciò, l’auto-re ha dichiarato che il numero ideale di giocatori potrebbe es-sere tre invece dei quattro con-sigliati all’epoca della stampa del manuale. Personalmente, troviamo che Polaris sia un gio-co straordinario in tre come in quattro. L’atmosfera che riesce a generare, tramite il tono del manuale e l’utilizzo delle rego-le, è qualcosa di unico; le regole stesse, prevedendo solo due fi-nali possibili per un Cavaliere (la morte o la corruzione), spin-gono i giocatori ad analizzare il lato tragico di una vicenda umana piuttosto che a “giocare per vincere” come può acca-dere in altri giochi di ruolo. In effetti, da quest’ultimo punto di vista una partita a Polaris può essere un’eccellente lezione per chiunque.Come sempre, oltre al manua-le stampato Janus Design ha messo in vendita il gioco in formato elettronico, all’ottimo prezzo di 10 euro. Una politica commerciale lungimirante, che consente anche a chi qualche dubbio riguardo all’hobby di avvicinarvisi senza dover fare un grosso investimento eco-nomico. Inutile dirlo, per noi Polaris è un ottimo acquisto in entrambe le versioni.

visita il sito internet di “Verona è”www.quintaparete.it

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28 Dicembre 2011Viaggi

collocata sia in uno dei vertici del triangolo della magia bian-ca (assieme a Praga e Lione) che della magia nera (con Londra e San Francisco). Qui Nietzsche, in preda al delirio, scrisse L’An-ticristo, preoccupandosi di di-mostrare in che modo un solo uomo potesse distruggere il cristianesimo. Qui è conserva-ta, dal 1578, la Sindone, una delle reliquie più venerate da chi crede che questo lenzuolo abbia avvolto il corpo di Gesù nel sepolcro. Pare, inoltre, che la diocesi di Torino possa van-tare, assieme a quella di Napo-li, un nutrito gruppo di santi e beati. Che sia anche per que-sto che Venditti canta “Torino

vuol dire Napoli che fa monta-gna […] Torino è l’altra faccia della stessa Roma”? A lui lo si potrebbe chiedere, a Nietzsche e a Nostradamus diventa più complicato. Irrequieta: così vedo Torino oggi. Impaziente, preoccupata di sembrare decorosa, degna del passato che l’ha portata a essere una dei centri politici più importanti per la nascita e la formazione dell’Italia unita. Imitatrice, già dall’Ottocento, di quel nuovo modo borghese di vivere la città. I palazzi affac-ciati sui grands boulevards stile Pa-rigi, la smania di rassomigliare alla vicina Francia e l’ansia di non sfigurare di fronte a Napo-leone III. La prospettiva di un decennio vissuto come capitale d’Italia, forse un po’ snob, e la

rotta, fasulla, alla costante ri-cerca del fenomeno-evento; de-ciso nel descrivere la sua realtà per quello che è, cosa che in pochi si sentono di affrontare. Inquietante ed enigmatica. Lo

pensava anche De Chirico. E forse anche Nietzsche, che nell’inquietudine si trovava a suo agio. Enigmatica. Questo lo credeva Nostrada-mus, che elesse Tori-no, la città “dei due fiumi”, ovvero del Po, simbolo del sole per gli esoteristi, e della Dora, emblema della Luna, a luogo del mistero del bene e del male, essendo

fa soffrisse, oggi, di un’ansia da prestazione nel rincorrere quel-le città che hanno raggiunto lo status di metropoli perfette per il giorno (sempre più corto), ideali per l’happy hour, e uniche per la movida che ha cancellato la notte. C’era pure il reticolo fognario, all’epoca dei Romani: di certo, però, nelle fogne non scorreva cocaina, oggi presente a con-centrazioni elevatissime nelle acque di quella che fu la prima capitale d’Italia. Drogati, pa-lazzinari e modelle nel regno dei Savoia e nelle terre di Ca-vour? Lo racconta Culicchia, scrittore nato proprio in questa metropoli perversa il cui mo-dello, anche se non esplicito, è Las Vegas. Coraggioso nel de-scrivere la sua città come cor-

Torino, perché non farle la corte?Città in progress, all’ombra delle Alpi, alla ricerca della luce. Della ribalta e dell’evento

di Alice Perini

Houston, abbiamo un problema

Per secoli e secoli, Augusta Tau-rinorum non fu altro che un bor-go di dimensioni e importanza modeste: della sua fondazione, nel 28 a.C., non si trovano trac-ce nelle fonti storiografiche. Pri-ma di lei, nacquero, per volere dei Romani, molti altri insedia-menti, da Tortona a Novara, da Vercelli a Ivrea: del resto, il controllo territoriale del Pie-monte consentiva collegamenti rapidi con le Gallie, il dominio sul contado e lo sfruttamento delle notevoli risorse agricole della zona. Il silenzio nelle fonti si interrompe solo grazie a Ta-cito, che, malgrado il nome che porta, non esitò a raccontare la quasi totale distruzione del bor-go a causa di un incendio nel 69 d.C., tempi di crisi istituzionali ante litteram, di contese per la successione imperiale dopo la morte di Nerone.Contadini, scalpellini, fab-bri e tessitori abitavano que-sto rettangolo fortificato di 760x670metri, circa le misure di una centuria romana, uno spazio razionalmente organiz-zato, rispondente alle esigenze urbane, sia di carattere pubbli-co, con gli edifici per il culto, per l’amministrazione della giusti-zia e delle funzioni di governo, terme e anfiteatri, che privato, con le case ad insula, un fac-simile dei mo-derni appartamenti e casette a schiera, la domus, il “villone” di un tempo e le taber-nae. Di tanta intelli-genza edificatoria, Torino porta ancora il segno: la struttura urbana a maglie or-togonali dà a questa città in evoluzione un aspetto ordinato, quasi fin troppo pre-ciso, come se l’Augusta Taurinorum di secoli

In questa pagina, dall’alto: veduta con la Mole Antonelliana,uno scorcio del Parco del Valentino e il Palazzo Regio

Torino è la città più profonda, più enigmatica, più inquietan-te, non d’Italia ma del mondo

Giorgio De Chirico

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Houston, abbiamo un problema

steggiare il trasferimento della capitale ducale da Chambéry a Torino, Emanuele Filiberto di Savoia offrì simbolicamente alla città proprio una tazza di cioccolata. Dal gianduiotto, il primo cioccolatino a essere in-cartato, presentato al pubblico durante il carnevale del 1865 dalla maschera piemontese Gianduja, alle 85.000 tonnel-late di cioccolato prodotte nel distretto goloso di Turin e din-torni. Da quel gianduiotto a oggi ne sono passati di anni: - 4 per arrivare a 150. Nel frattem-po, siamo stati tutti molto im-pegnati nel festeggiare un altro 150 con (manco a dirlo) tanti tanti eventi… Viste le premes-se, Torino saprà re-inventarsi anche nel futuro.Solo a voi viaggiatori non ri-marrà nulla da inventare in

una città che già ha immagina-to tutto. E anche se qualcuno ha detto che «Firenze è una città per sposi, Venezia, per amanti; Torino, per i vecchi coniugi che non hanno più nulla da dirsi», sappiate che nel capoluogo pie-montese all’ombra delle Alpi potrà essere solo lo stupore che vi farà restare senza parole.

se mancare nulla, quando inve-ce arrivano i Giochi Olimpici invernali del 2006: nuove opere realizzate (oltre sessantacinque) tra villaggi per gli atleti e per i media, palazzetti dello sport e nuovi impianti e quella metro-politana che aspettava di vede-re il fondo della terra da alme-no settant’anni. Ha ancora successo la carta stampata, in questa città, lo dice la buona riuscita del Sa-lone Internazionale del Libro. Chi non affoga nell’inchiostro, lo farà in un bicerin di cioccola-to: nacque proprio qui, nel Set-tecento, questa famosa bevan-da calda a base di caffè, cacao e crema di latte, anche se, a dire il vero, non era certo una novi-tà per Torino vedere una tazza di cioccolata bollente. Bisogna risalire al 1560, quando per fe-

nanza della Francia ha dato i suoi frutti, nello stile dei pa-lazzi, nei viali lunghissimi che anche ad attraversarli con la macchina ci si mette un’eterni-tà, nella cucina raffinata. Stori-ca? È tutta una storia qui, dai Romani ai Savoia. E poi c’è il Museo Na-zionale del Cinema, perché fu proprio To-rino la capitale mon-diale della produzio-ne cinematografica dal 1906 al 1916. C’è il Torino Film Festi-val, con la sua 29° edizione conclusasi pochi giorni fa, il 3 dicembre scorso. E il Museo delle Antichi-tà Egizie, il secondo più importante al mondo, per numero di reperti, dopo quel-lo del Cairo. Sembrava non doves-

successiva smentita. La ricerca di una nuova identità, sfuma-ta quella politica-istituzionale, non fu cosa semplice: Torino aveva sviluppato un apparato burocratico- amministrativo di tutto rispetto (del resto sia-mo sempre stati bravi in que-ste cose noi): un settimo della popolazione era direttamente impegnato nelle mansioni go-vernative. Poi, meno male, arriva la Fiat, nel luglio del 1899; qualche anno dopo arriva addirittura un Lingotto. Una città che ha vissuto per decenni in simbiosi con i ritmi della fabbrica e con i turni degli operai: è uno dei volti, quello della Torino grigia e monotona, che in tanti, oggi, vorrebbero cancellare, con la speranza di spianare la strada a una metropoli accattivan-te, alla moda, divertente. Una Torino quasi eventuale, perché tutto qui può (e deve?) essere evento. Augurandosi di entrare a far parte di nuove triangola-zioni diversamente magiche, il capoluogo piemontese confida di aprire i propri orizzonti, so-stituendo alle città di Milano e Genova, gli altri due vertici di quel miracoloso triangolo indu-striale, capitali più… Culturali? Non credo, ce n’è da erudirsi qui. Verdi? Strano, perché non è poco potersi vantare di essere una delle città europee più gre-en: se i suoi viali alberati fossero messi tutti in fila, si otterrebbe una linea lunga più di 400 Km, senza contare i 300.000 fiori che abbelliscono ogni anno le sue aiuole. Chic? Mah, la vici-

ViaggiDicembre 2011

In questa pagina, dall’alto: un anticoponte sul Po dipinto da Bernardo Bellotto,

la cancellata del Palazzo Regioe la sede Fiat a Mirafiori con

la pista di collaudo sul tetto

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Houston, abbiamo un problema

Dicembre 2011Viaggi

testo e fotografie di Alice Perini

c’era bisogno di qualcos’altro, in particolare, di rivitalizzare l’economia locale: intorno al 1670, proprio per rispondere a quest’esigenza, venne chiama-to a Venaria un imprenditore del tempo, il conte Giovanni

Francesco Galleani, che avviò un filatoio per la produzione e la lavorazione della seta. Da allora, la cittadina registrò una notevole crescita dell’industria serica, con la nascita di altri setifici attivi fino al Novecento inoltrato. Se il popolo lo ha sopranno-minato “Re Tentenna” e Gio-suè Carducci “Italo Amleto”, Carlo Alberto di Savoia avrà forse avuto qualche momento di incertezza nel suo mestiere di sovrano. Noi preferiamo le-gare il suo nome a Racconigi e ricordarlo per altre imprese: in-fatti, il sovrano seppe applicare la sua cultura internazionale a favore dell’agricoltura pie-montese, creando una razza di mucche, la piemontese per l’ap-punto; amava passare gran par-te del suo tempo in una serra davvero all’avanguardia, consi-derata una delle più importanti in Europa per la varietà delle specie conservate, costruita non solo per dare riparo ai fiori più delicati, ma anche per permet-tere la crescita di piante tropi-cali come ananas, palme, ba-nani e orchidee provenienti da America, Asia e Africa. Il tutto

zi immensi, luminosi, smisura-ti: dalla Galleria Grande, alta 15 metri, larga 11 e lunga 75, al Salone di Diana progettato da Amedeo di Castellamonte, dalla solennità della cappella di Sant’Uberto, il santo protetto-

re dei cacciatori, realizzata da Filippo Juvarra, alle Scuderie, anch’esse opera dell’architetto messinese chiamato a Torino per fare di questa città una ca-pitale di rango europeo.

Parte della magia sta anche nel ripri-stino dei giardini, resi irriconoscibili da anni di incuria, nel restauro della Citroniera, l’antica serra creata per il ricovero degli agru-mi, e nel riutilizzo di questi ampi spazi, tra cui gli 8 mila me-tri delle ex Scuderie, per proseguire sulla strada del recupero del nostro patrimo-nio storico-artistico, tanto che a Venaria è attivo, dal 2005, un importante cen-tro per la conserva-zione dei beni cultu-

rali, il terzo in Italia assieme a quelli di Roma e Firenze. Del resto, l’intraprendenza di oggi non può essere da meno di quella del passato. Per diventa-re la “Versailles del Piemonte”

perficie, 3 mila tonnellate di pavimentazioni in pietra, mil-le metri quadrati di affreschi. Ecco qualche numero di una residenza in cui il duca com-mittente del progetto volle in-serire tutto ciò che poteva ser-

vire allo svago: feste, balli, ri-cevimenti, concerti, battute di caccia come manifestazione del proprio prestigio e come mo-mento di aggregazione fra no-bili. Raccontarvi di ciò che po-

tete vedere è quasi impossibile. Ogni salone ha il suo perché, ogni angolo è una testimonian-za di qualche importante fatto storico o di pettegolezzi di cor-te. È tutto un susseguirsi di spa-

Una magia dell’ingegneria: questa è Venaria Reale. A bat-tezzarla così fu il duca Carlo Emanuele II di Savoia, che la elesse sua residenza di piacere, luogo ideale per ristorarsi dalle fatiche cittadine e per pratica-re l’arte della caccia secondo lo stile dei re, come testimonia il nome stesso della reggia in lati-no, Venatio Regia (da cui il lega-me con l’arte venatoria). Opera di geniali architetti del Sei e Settecento, che realizzarono questo gioiello in pochi anni, dal 1658 al 1679, il complesso della Venaria Reale, a soli 5 Km da Torino, ha oggi ritrova-to il suo splendore, dopo oltre due secoli di utilizzo militare e di abbandono. Otto anni di la-vori in quello che è stato il più grande cantiere d’Europa nel recupero di un bene culturale hanno ridonato all’edificio la

magnificenza che merita: dal-la sua apertura al pubblico, nel 2007, questo luogo Patrimonio dell’Unesco è uno dei cinque siti più visitati in Italia.80 mila metri quadrati di su-

L’ingegneria che fu: le regge dei SavoiaVenaria Reale e Racconigi, il riscatto di due meraviglie d’altri tempi

Quello che per un uomo è “magia”, per un altro è inge-

gneria. “Sovrannaturale” è una parola inconsistente

Robert Anson Heinlein

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Nella pagina a fianco due vedute del Palazzo e del suo immenso giardinoIn questa pagina, sopra monumento con nido di cicogna sulla guglia, sotto carrozze a Racconigi. A destra pergolato di rose alla Venaria Reale

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lo spiedo, lavapiatti, oltre ai responsabili della sorveglianza del forno per la panificazione e chi era incaricato di prov-vedere alla ghiacciaia. Nella lunga lista del personale alle dipendenze del capo degli Uf-fici di bocca, il coordinatore di tutti questi dipendenti, esisteva anche una figura con l’unica mansione di portare via l’im-mondizia…Ufficio di Cucina, per la prepa-razione dei cibi, Ufficio di Frut-teria, Confetteria e Caffè, per l’approvvigionamento di frutta, cioccolato, tè, caffè, oltre a tut-to il necessario per torte di ogni genere, Ufficio di Someglieria, per l’acquisto e la conservazio-ne di vini e liquori e l’Ufficio di Credenza, per la distribuzione del pane ai tavoli, per la cura e la custodia del vasellame: un’organizzazione impeccabile all’opera, forse per l’ultima vol-

ta, nel 1925, anno in cui si ce-lebra il matrimonio di Mafalda di Savoia, la principessa morta tragicamente nel campo di ster-minio di Buchenwald. Mentre percorrete in carrozza i sentieri del parco, pensate a quanto sappiamo essere intra-prendenti, a volte, noi uomini, se siamo riusciti a recuperare, dopo anni di abbandono, que-ste due immense opere, rintrac-ciando le risorse necessarie per procedere al restauro, alla ma-nutenzione, alla conservazione e alla loro valorizzazione. In-somma, per qualcuno sarà ma-gia, per qualcun altro ingegne-ria; per me è entrambe le cose.

sailles; un secolo dopo all’ingle-se, con sentieri disegnati in una natura progettata per apparire selvaggia; romantico quello voluto da Carlo Alberto, con il lago, i ponticelli, le rovine, la grotta, l’alternarsi di grandi distese e di boschetti e le pro-spettive sempre diverse. Era il cosiddetto “effetto cannocchia-le”, studiato per dare risalto alla sontuosità del palazzo: gli ospiti, a bordo della loro car-rozza, potevano scorgere, at-traverso questi cannocchiali (viali alberati), una parte sempre diversa della facciata, per co-glierla nella sua interezza solo all’arrivo davanti alla scalinata d’ingresso. Mattoni rossi e tet-ti a pagoda per questo castello che fu testimone di importan-ti eventi di casa Savoia, dalla nascita, nel 1904, dell’ultimo re d’Italia Umberto II, che qui volle raggruppare gli oltre 3

mila ritratti di famiglia e tutte le notizie sulla Sindone, all’in-contro, nel 1909, con lo zar di Russia Nicola II. Dotato in quegli stessi anni di elettricità, ascensori, radio, acqua calda e termosifoni, di Racconigi colpiscono soprat-tutto le sue splendide cucine at-trezzate e l’ingegnosità di chi le ha realizzate pensando al gran da fare che avrebbero avuto i cuochi nel preparare banchet-ti per centinaia di invitati: nei sotterranei, dove si trovavano le cucine, erano all’opera ca-merieri, servitori, garzoni im-pegnati nello scarico delle mer-ci, potaggieri addetti a girare

noscimento va senz’altro a chi, negli anni, ha trasformato, con il proprio estro creativo, questo ambiente adattandolo di volta in volta al gusto e alla sensibi-lità dei regnanti. Geometrico e ordinato quello realizzato alla fine del Seicento da Le Nôtre, l’ideatore dei giardini di Ver-

Houston, abbiamo un problema

proprio a Racconigi, il castello reale preferito da Carlo Alber-to. Almeno due mesi all’anno, specialmente durante il periodo estivo, il re era solito “rifugiar-si” in questa dimora e nel parco sconfinato che la circonda, elet-to, nel 2010, “Parco più bello d’Italia”. E una parte del rico-

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Giro giro tondo, io giro intorno al mondo

Dicembre 2011Viaggi

testo e fotografie di Stefano Campostrini

e non pienamente compatibili con le libertà e le possibilità del mondo fin qui vissuto dall’occi-dentale.Differenze si, ma altrettante analogie, volontà e sogni, sen-timenti e forti pulsioni nate e maturate esplorando e cono-scendo quanto di più affasci-nante circondava lo straniero in una terra da lui sempre am-mirata e indubbiamente non priva di attrattiva. Tra lavoro e tempo libero, le opportuni-tà di poter andare alla ricerca delle bellezze e delle curiosi-tà locali non sono mancate. Il grande desiderio di avventura e di libertà hanno fatto gran parte del resto. Senza perdersi in uno shopping economica-mente infruttifero, in un bagno della solita piscina dell’hotel o nella generale “tenuta” da turista che ormai sempre più contamina incivilmente ogni angolo del mondo. Lasciati alle spalle, almeno in parte, orari e costumi occidentali, la mentali-tà e l’atteggiamento del nostro protagonista sono stati quello di affrontare con il massimo rispetto e smisurata passione l’ambiente locale, il paesaggio, le persone e i personaggi incon-trati, toccando con mano quel-la che può essere la quotidianità

Si tratta di impres-sioni, relative al nostro protagoni-sta, che prendono corpo in lui e fanno però da trampolino per una crescente volontà di ritornare e provare a stabilir-si per un certo pe-riodo, cercando o inventandosi un’oc-cupazione e perché no, coronare un sogno d’amore, con tutte le precauzioni e controindicazio-ni del caso, dovute alle inevitabili e proprio per questo sacrosante differen-ze culturali e reli-giose, non sempre

fidenze è auspicabile che ci sia un avvicinamento e un positivo scambio tra presenti e future ge-nerazioni. Utopia? Difficoltà di-plomatiche? Rancori bilaterali latenti? O magica realtà?

Coloro che ci seguono, almeno dallo scorso numero, ci augu-riamo ricordino dell’articolo dedicato all’inaugurazione del-la Royal Opera House di Mu-scat in Oman, il primo teatro

d’opera del Golfo Arabo. Un eccezionale avvenimento per un’imperdibile occasione di sco-prire il territorio circostante, il popolo che lo abita e la sua cul-tura, almeno come fosse stato un sopralluogo, vista la durata di “sole” due settimane della permanenza. Un soggiorno che ha dato la possibilità a chi scri-ve, protagonista di quel viaggio tra l’onirico e il missionario, di immergersi e stare a contatto invece concretamente con un Paese pressoché sconosciuto a noi occidentali, fortunatamente perché privo di evidenti tensio-ni politico-sociali, le quali sem-pre per prime trovano spazio nelle cronache e nelle memorie dall’estero. Sfortunatamente in-vece la sua fama è decisamente inferiore a quella che gli spetta perché si tratta in effetti di una nazione promettente, desidero-sa di aprirsi al mondo e in una innegabile situazione di svilup-po socio-economico. Parte di una zona geografica più ampia, legata al mondo arabo che da tempo, e da qualche anno mag-giormente, non viene vista con occhio benevolo e con intenzio-ne di apertura e accoglienza. Le cose stanno probabilmente cam-biando, superate le tensioni in-ternazionali e le reciproche dif-

Come un viaggio ti cambia la vitaSole due settimane, il destino di una persona, sogno o son desto?

Da aeroporto ad aeroporto, quante cose da scoprire,per chi non prende spesso questo mezzo ogni viaggo è sorprendente.

Le due foto in alto riprendono Malpensa, le restanti si riferiscono all’arrivo

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Ogni fotografia è un condensato di significati e sottotesti, evidenti o meno.Qualche ora tra le fila dei viaggiatori,

sia in volo che a terrariempie la mente di ispirazioni,

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zione di umanità, insieme lì e in quel modo, vista con gli occhi di colui che anche dalla fotografia è contagiato e rimane pratica-mente disarmato di fronte agli spunti e alle ispirazioni che un luogo come quello può offrire. Pare quasi un delitto non poter fotografare in determinate si-tuazioni e contesti, per motivi di sicurezza e di privacy. Alla ricerca quindi di obbiettivi ar-chitettonici, con qualche sfondo di umanità, per portare a casa ricordi, bagliori di istanti passa-ti a camminare, vedere, sentire.

Per il momento ci fermiamo qui, sperando di avervi almeno incuriosito e con la volontà di tornare presto in quei luoghi, per ora con la mente e il cuore. Il viaggio continua...

traltare al caldo estivo ma non solo dell’esterno. Un’ulteriore prova di forza che può aver scoraggiato alcuni ma divertito altri. Un sentimento prolunga-to poi ovunque nei terminal e nei saloni d’aspetto, invasi dalle persone più differenti, ognuna con il suo vestito, la sua storia, la sua lingua. Tutti in attesa del proprio volo, alcuni durante un riposo, altri connessi con il mondo, altri ancora alle pre-se con i propri bambini. Ogni aeroporto, ogni stazione, ogni autobus sono appunto luoghi di

incontro della società. Un incontro fisico e personale se si ricono-sce qualcuno e magari lo si saluta. Oppure, in tanti altri casi, un incontro virtuale ma altrettanto emozionale con innumerevoli altre persone di cui non si sa nulla ma delle quali si rimane comunque attratti e quasi conta-giati. Una piccola por-

lasciare quei luoghi, così sor-prendenti al primo impatto, visti poco prima dall’alto e ora tanto terreni quanto sempre onirici.L’attesa è per l’autobus, pro-prio quel tipo di autobus, quei grandi mezzi che attraversano le zone adiacenti alle piste degli aeromobili e che vanno a por-tare o a prelevare i viaggiatori. Un’attrazione strana quella per questi autobus, sarà per l’abitu-dine di utilizzarli ogni giorno nella propria città come luogo di spostamento e come luo-go di “incontro” della società, sarà forse la strana funzione che esercitano invece come luogo di decompressione dalla pressione atmosferica e dalla fusoliera all’aria salubre che si può respirare nei grandi am-bienti di un aeroporto e quin-di poi all’aperto nelle strade e nelle piazze in cui si è giunti. Nel caso in questione i potenti mezzi motorizzati hanno avuto anche la funzione di abituare il poco conscio visitatore agli sbalzi termici in quelle deter-minate parti del mondo in cui l’aria condizionata fa da con-

Giro giro tondo, io giro intorno al mondo

di quella parte di mondo. Verso i luoghi consigliati o più visita-ti, un punto comunque da dove cominciare per sfruttare tutti i cinque sensi e percepire quan-te più caratteristiche possibile, immagazzinando informazioni ed emozioni...Un viaggio in un tempo relati-vamente corto ma infinito nel-la sua intensità, a partire dalla trasferta in aereo. Ogni volo è un’esperienza unica, regala dei momenti indimenticabili che vorresti non finissero mai, qualunque sia la sua durata. L’arrivo intermedio è a Doha, in Qatar, in attesa della coinci-denza notturna per la capitale omanita Muscat, si scende dal-la scala dell’aereo e il caldo pre-gno di umidità assale il gruppo abituato, nel paese d’origine, ai primi giorni di autunno. L’effet-to è sferzante, quasi debilitante, ma offre una straordinaria sen-sazione di appartenenza al luo-go. L’aria è desertica e colorata infatti di sabbia, le luci fisse e lampeggianti si sovrappongo-no, da vicino e da lontano. Da qualche minuto il protagonista è convinto di non voler già più

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Tutti nati in una fetta di PiemonteBagna caöda, Barolo, Gianduiotto…e la calma dello slow food

Serviti il pasto, cowboydi Alice Perini

Dicembre 201134 Enogastronomia

burro, continuate a mescolare per altri dieci minuti e poi por-tate in tavola il recipiente con sotto un fornelletto (il fojòt), per mantenere calda la salsa. Ogni commensale vi immergerà le verdure, accompagnando ogni boccone con pane casereccio.

di acciughe sotto sale, ingre-diente di cui la zona del basso Piemonte è stata, in passato, molto ricca grazie alla via del sale che, partendo dalle saline di Hyères, nel sud della Fran-cia, attraversava le Alpi per ar-rivare nella valle del fiume Po. Olio extravergine di oliva, bur-ro e tante verdure da intingere: cardi, tagliati a pezzi e lavati con acqua e limone, peperoni con polpa grossa e senza semi, topinambur e carote, patate e cipolle bollite, fette di zucca… L’importante è che le verdure non siano aromatiche (da esclu-dere il finocchio, il sedano o i ravanelli), che le acciughe siano quelle “rosse di Spagna”, che l’aglio, privato del suo germo-glio, venga lasciato riposare in acqua fredda (alcuni suggeri-scono nel latte) per alcune ore e che as poncia, come si dice in dialetto da queste parti. Il pociar dei veronesi.Un tegame di coccio sarà per-fetto: fate cuocere lentamente, per circa trenta minuti, l’aglio assieme alle acciughe dissa-late e senza lische. Coprite il tutto con l’olio e, a fuoco mol-

to basso, lasciate che si formi una crema omogenea e soffice, mescolando di tanto in tanto con un cucchiaio di legno; fate attenzione all’aglio che non dovrà rosolarsi né friggere in pentola. Una volta ottenuta una poltiglia, aggiungete altro

Raffinata ed elaborata ma pur sempre di ispirazione contadi-na: questa è la cucina piemon-tese. Influenzato dai sapori delicati della vicina Francia, il bravo cuoco sa di non poter fare a meno di alcuni ingre-dienti strettamente legati alla tradizione e alla produzione agricola di quelle zone. La campagna offre un minestrone di verdure, mentre nei boschi che circondano Alba i tartufi sono in attesa di essere scoperti da cani addestrati. Qualche tempo fa, la raccolta di questo prezioso “corpo fruttifero ipogeo” (ovve-ro sotterraneo), era compiuta grazie all’aiuto di maialini, con l’unico inconveniente che que-sti animali ne sono a dir poco ghiotti… Burro, lardo, formag-gi, (di cui molti D.O.C.), riso e sanato, la carne di vitello di pochi mesi, nutrito solo con lat-te, sono la base per molti piatti della cucina locale. Che l’aglio sia largamente ado-perato, non è un mistero: del re-sto, se Torino è uno dei vertici del triangolo della magia nera, l’allium sativum può tornare uti-le per tenere lontani i vampi-ri, considerati dei parassiti e, quindi, da scacciare grazie alle proprietà antibatteriche e an-tisettiche di questa pianta. E nella bagna caöda, uno dei piatti regionali più conosciuti, l’aglio non può mancare. Poco impor-ta che nel Rinascimento questo bulbo dalle origini antichissime sia stato bandito, assieme alla cipolla, dalle cucine dei signo-ri (si dice per l’odore pungente poco adatto alle narici dei no-bili); pazienza se anche Shake-speare, in Sogno di una notte di mezz’estate, fa recitare a un suo attore di non mangiare aglio, perché tutti devono avere un alito gradevole. Almeno 200 grammi (3-4 spicchi a testa), nella bagna caöda dovete proprio metterli. Avrete bisogno anche

Può essere che il vostro appeti-to non sia sufficientemente sa-ziato, anzi: ciò spiega perché la bagna caöda sia classificata come “antipasto”. In questo caso, po-tete sempre imparare dai con-tadini che l’hanno inventata e, se avete ancora fame, rompere dentro al tegame qualche uovo e mangiarlo strapazzato assie-me all’intingolo rimasto. Un piatto così rustico abbinato a un signor vino? Senza dubbio, meglio ancora se un Barolo, “il vino dei re e il re dei vini”. E se a dirlo fu il sovrano Carlo Al-berto, un fondo di verità dovrà pur esserci. I sommelier ritrovano nel Barolo il profumo di lam-pone, violetta e vaniglia; chi lo acquista, a parte una buona bottiglia invecchiata di almeno tre anni, si ritrova con il porta-foglio un po’ più leggero.Prezioso e molto richiesto, so-prattutto nel 1800, era anche il cioccolato, già noto ai palati piemontesi. Ai tempi del blocco

Qui sopra il Castello di Barolo, sotto la bagna caoda,in basso nocciole per preparare i gianduiotti (pag. a fianco)

Tutti i funghi sono commesti-bili; alcuni una volta sola

Laurence

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Ingredienti per 4 persone

• gr. 250 di olio extravergine di oliva

• gr. 200 di acciughe sotto sale

• gr. 200 di aglio• gr. 40 di burro• verdure da intingere:

cardi, peperoni, topinambur, patate, cavoli, cipolle, radicchio, carote

• pane casereccio

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Serviti il pasto, cowboy

EnogastronomiaDicembre 2011

contro quella fast life folle che si nutre ai frenetici fast food, la cultura dello Slow Food si basa sulla convinzione che tutti han-no il diritto a un’adeguata por-zione di piaceri, da assaporare in modo lento, educando al gusto e alla corretta alimenta-zione, salvaguardando il rispet-to per le produzioni agricole tradizionali e promuovendo la consapevolezza di un modello alimentare legato alle identità locali. E lentamente, come la chioc-ciolina emblema di questo mo-vimento, ci avviamo verso la conclusione. Solo qualche con-siglio.La bagna caöda: gustatela con calma, come facevano i con-tadini di un tempo, magari in compagnia di amici, vicino a un camino in una sera d’au-tunno. Il Barolo: vista la spesa per l’acquisto, assaporatelo a piccoli sorsi. E il gianduiotto? Mangiatelo senza fretta, tanto dovete ancora prendere nota degli ingredienti qui a fianco…gnam gnam...cotto e sbafato!

pite gianduia”: sappiamo però che con 150 ore di lavoro, quat-tro pasticceri hanno creato il gianduiotto da record, alto due metri, lungo quattro e largo uno, per un totale di 40 quinta-li (il corrispondente di ben 400 mila gianduiotti normali!). Se di tempi vogliamo parlare, perché non ricordare lo Slow

food, l’associazione in-t e r n a z i o n a l e

no-prof it nata nel

1 9 8 6 d a

u n ’ i d e a di Carlo Petrini

proprio da queste parti? Pollenzo e Bra, due cittadine situate a metà strada fra Cuneo e Torino, sono la patria di que-sto movimento che vanta oltre 100 mila iscritti in 150 Paesi:

napoleonico, quando le quan-tità di cacao che giungevano in Europa scarseggiavano (pur presentando prezzi esagerati), l’idea di Michele Prochet dovet-te risultare ancor più geniale: amalgamare al cioccolato un prodotto tipico del territorio, la nocciola. Nacque così il gian-duiotto, cioccolatino che fece il suo ingresso in società nel 1865, mentre due anni più tar-di, il buon Prochet, cui vennero ri-conosciuti i suoi meriti

nella lavorazione del cioccola-to, venne inviato all’Accade-mia di Francia. Non sappiamo quanto tempo abbia impiegato costui nel dar vita al “caposti-

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to gli enormi baffi si riusciva a cogliere un timido sorriso. Ha chiesto una cosa, un piccolo de-

siderio: nell’ultima gara di Valencia, invece del consueto minuto di silen-zio, un minuto di casino. Un desiderio che non si poteva non realizzare. E così è stato. Domenica 6 novembre, poco dopo le 10 di mattina, tutte le moto hanno percorso un giro di pista in onore del giovane pilota roma-gnolo. Sulla sella della Honda di Simoncelli, il mito Kevin Schwantz, campione del mondo della classe 500 nel 1993. Giunte sul traguardo, i motori hanno fatto quel

casino. Davanti, la numero 58. Poi, a motori spenti, si è tenuto un toccante momento di racco-glimento. Lo sguardo di Valen-tino Rossi, il più silenzioso.Un ultimo pensiero, magari due. Il primo è intriso di tristezza. Quando un talento dello sport scompare, tenero e sincero nei confronti di chi lo circondava, il mondo dovrebbe prendersela con se stesso, dovrebbe arrab-biarsi, perché una parte di luce è venuta a mancare. Il secondo può essere di conforto. Stava vi-vendo la sua vita, il suo sogno, sino all’ultimo istante, col cuore e con accanto la sua famiglia e i suoi amici. Lo ha scritto Vasco: “la vita è un brivido che vola via”.

l’accusa alla troppa tecnologia presente in questo sport. Altre si sono fissate sul sentimento di ri-

morso che potrebbe essere nato nel cuore dei genitori di Simon-celli. Poche, davvero, quelle che sottolineavano l’aver voluto dare a un figlio tutto il possibile per realizzare un sogno. Perché si tratta di un figlio, una perso-na in cui credere. Una persona per la quale si devono fare delle rinunce, magari difficili.Lo sport di tutto il mondo si è stretto attorno alla famiglia di Marco. La sua Coriano l’ha protetto. Le sue moto l’hanno protetto. Anche quella che tene-va vicino al letto di casa. Papà Paolo, che indossava una felpa col numero 58, il giorno del fu-nerale si è seduto accanto alla bara, per terra. Sorpreso dal grande affetto della gente, sot-

patico?”. Sì, lui. Parole dense di tristezza, incredulità, dispiace-re. Il ragazzo coi riccioli, alto,

piuttosto magro, con un preciso e magnifico biglietto da visita: il sorriso.Il tempo scorre, e assieme al dolore si inizia a parlare di si-curezza, di pericolosità dei cir-cuiti, di alte velocità. Discorsi che fuoriescono dall’oblio ogni volta che accade una tragedia. Marco stava per scivolare nel-la via di fuga, invece è riuscito a rimettere le ruote in pista. Lo sport che amava gli avrà suggerito, in quei momenti, di non mollare la moto. Alcune trasmissioni televisive non sono state in grado di andare oltre

di Daniele Adami

Quando il gioco si fa duro

Marco, sogno, silenzio, casino, vitaA Valencia il saluto dei piloti a Simoncelli, quel giovane ragazzo con i riccioli in testa

Mi trovavo al lavoro, quella domenica. Dopo una pausa di circa dieci minuti (giusto il tem-po di bere un bicchiere di succo) si doveva ri-prendere. Mi dirigo alla mia postazione, e all’im-provviso vedo arrivare il mio responsabile, che mi dice: “Marco Simoncelli è morto”. Erano le 11.10. I miei occhi lo fissano e dalla bocca esce una sola parola: cosa? Come se non si volesse aver sentito. Mi siedo su uno sgabello, e così rimango per qualche istante. Non sentivo più le forze. Face-vo fatica ad alzarmi. Ma dovevo proseguire col mio compito. Una noti-zia del genere, però, ti inchioda al terreno e credi di essere sulla luna da quanto ogni movimen-to, anche il più banale, diventa difficile.Verso le 13 corro nella stanza dove si trova un televisore. Il telegiornale mostra le immagi-ni che avremmo poi rivisto nei giorni seguenti. L’incidente, il casco che vola via, le lacrime, gli sguardi gonfi che fissano il vuo-to. Telefono alla mia ragazza, le dico cosa è successo, lei lo riferi-sce ai suoi genitori. Poi si rivolge a me: “Il ragazzo romagnolo? Quello coi riccioli? Quello sim-

Dicembre 2011Sport

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Mese 201138Argomento

Ne hanno viste di cose, questi occhidi Pinco Pallino

TitoloOcchiello

Libri/TecnologiaNovembre 2011

Via Spighetta 1537020 Torbe di Negrar, Verona

Tel/fax: +39 045 750 21 88www.casalespighetta.it

Casale Spighetta, un nuovo spazio, un sorprendente gioco architettonico di salette che si intersecano pur rimanendo raccolte

nella loro intimità. L'atrio Nafura, il Lounge panoramico Gioia & Gaia, la cantina del Trabucco, il Coffee Lounge tutti con arredi eleganti, diversi, con un tocco d'oriente legati da toni materiali ed

effetti di luce e colore che rispecchiano alla logica di mirabili equilibri.

Il Casale la Spighetta è un ristorante collocato nelle colline della Valpolicella a Verona, i suoi ambienti eleganti sono indicati per cene

romantiche, banchetti e cene aziendali. Dal giardino estivo si può godere di un meraviglioso panorama.

Le sale esprimono un’atmosfera ariosa ed elegante perfettamente in linea con la cucina dello Chef Patron. Un’esigenza per chi, come lo Chef Angelo Zantedeschi va al di la dell’arte culinaria, un grande amore per la tradizione e l’arte moderma.

... dove la cucina tradizionale italianaviene rivisitata con un sapore d'Oriente ...

R I STORANTE

Casale Spighetta