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N° 17 - DICEMBRE 2007 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S. P. A.- SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA i n VERONA

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N° 17 - DICEMBRE 2007 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA

inVERONA

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Il 10 dicembre alla Gran Guardia,in occasione della Giornata mon-diale per la difesa e promozionedei diritti umani, da qualche an-no veniva premiata una personameritevole per il suo impegno afavore dell’umanità. L’iniziativasi chiamava “Verona Municipiodei Popoli” ed era stata avviatanel ricordo di Enzo Melegari, unconcittadino scomparso nel2002, a soli 54 anni, che si era di-stinto per il suo impegno per lapace e la giustizia.Con una delibera la Giunta co-munale ha cancellato l’iniziativache nel 2004 aveva premiato, susegnalazione del Centro Missio-nario Diocesano e del MovimentoLaici America Latina (Mlal), ladottoressa Chiara Castellani, vo-lontaria internazionale, missiona-ria laica, medico in Nicaragua e inCongo.Nel 2005 è stato premiato donLuigi Adami, parroco di San Zenodi Colognola, che condividevacon Enzo Melegari l’impegno peril pluralismo socio-culturale, po-litico e interecclesiale.Lo scorso anno è venuto a Veronaper ricevere il premio un concitta-dino di fatto, per il lungo tempopassato a Verona: mons. Giancar-lo Bregantini, vescovo di Locri,una figura certo non sbiadita nelpanorama cattolico italiano. È sta-to così riconosciuto il suo impe-gno per dare coraggio alla suagente contro la piaga della crimi-nalità organizzata, la ndrangheta,che soffoca la Calabria.Uomo di parte Enzo Melegari?tanto da non essere consideratocredibile e proponibile come testi-mone dei nostri tempi? Per chi lo ha conosciuto, e sonotanti, Enzo è veramente il rappre-sentante di un momento impor-tante della vita sociale, politica edecclesiale di Verona. Una personaumile ma decisa che pensava, scri-veva e con coerenza testimoniavacon il suo stile di vita ciò in cui

credeva, tenendosi lontano dall’o-stentazione e dalla pubblicità.Laureato in sociologia, sul finiredegli anni Sessanta aveva scossol’opinione pubblica la sua sceltadi obiettore al servizio militare,che non era certo un modo persottrarsi alle responsabilità versoil suo Paese, ma piuttosto per in-dicare che lo si può servire anchecon il servizio civile. Pagò con laprigione a Peschiera questa suaconvinzione: ricordo i giovani deltempo mobilitarsi davanti al car-cere per fare coraggio a Enzo. Poialtri l’avrebbero seguito.Scontata la pena, Enzo parte perdue anni di volontariato a Cara-cas, dove lavora nell’Ufficio rap-porti internazionali della Confe-derazione generale dei liberi sin-dacati. Uomo di pensiero e di ri-gore scientifico, una volta rientra-to fa confluire nell’organismo delMlal le sue nuove competenze e lasua esperienza. Cristiano militan-te, preparato teologicamente, eglitestimonia la sua fede nel dialogo,convinto che è nel confronto chesi fa strada la verità. Aderisce alMovimento nonviolento e si rico-nosce nel filone culturale dei Cri-stiani democratici.Sposo e padre, convinto dell’im-portanza dell’amicizia, Enzo tro-va anche il tempo per continuarei suoi viaggi in America Latinadove incontra i volontari impe-gnati su vari fronti. Quando tor-na ha sempre tanti motivi di ri-flessione, nella convinzione chemaggiori energie avrebbero do-vuto essere spese per esplorare lefrontiere dove nascono e si ripro-ducono i conflitti, gli antagoni-smi tra gruppi, etnie, classi: lì è ilposto del volontario internazio-nale.Siamo negli anni Novanta, al rien-tro da un lungo viaggio in BrasileEnzo scrive il risultato di una suaindagine sul tema-problema dellacittadinanza. Nel suo libro Soli-darietà al bivio si interroga sul

Primo piano

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e fondamento naturale-giuridicodella cittadinanza in un mondoglobalizzato, quando enormimasse di gente, di popoli diversi simuovono in cerca di lavoro.È il lavoro l’istanza prima, fonda-mentale, sulla quale milioni dipersone fondano la loro volontàdi essere riconosciuti cittadini enon il luogo di nascita, l’etnia, lacultura eccetera.Enzo Melegari aveva la forza delprofeta, sapeva guardare, analiz-zare, ipotizzare e indicare frontie-re nuove per una umanità in co-stante migrazione.

Don Giulio Alberto GirardelloParroco di Marzana

P.S. Caro direttore, penso che lagiunta comunale sia stata poco in-formata sulla questione. Ma unatto di umiltà può fare il miracolo.Per il bene della città e dei giovani.

Nella foto di copertina: Banchetti di Santa Lucia in via Roma

Con una delibera la giunta comunale ha

cancellato il premio“Verona Municipio dei

Popoli” intitolato a EnzoMelegari. Un’iniziativa

che nel 2004 avevapremiato anche il

vescovo di Locri, mons.Bregantini, per il suo

impegno contro la‘ndrangheta. Ma chi era

Enzo Melegari?

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Tradizioni

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DICEMBRE

L’incanto del NataleConsuetudini che un tempo costituivano il costante e commovente substrato

di una piccola società umana accantonata lassù tra i monti della Lessinia

zioni di origine pagana se ne in-nestarono, in un secondo tempo,altre specifiche del cristianesimoe delle ricorrenze dei suoi santipatroni. Oggi tutto questo patri-monio di feste e di usanze si èsfaldato al contatto con il mododi pensare spregiudicato, razio-nale e tecnologico dei nostri gior-ni; e quello che abbiamo potutosapere è stato raccolto ascoltandoi montanari più vecchi i quali, perrestare in argomento, ci hannoparlato dei momenti più impor-tanti e caratteristici dell’anno. Ri-proponiamo, dunque,nella loroveste più genuina ed autentica, unflorilegio di tradizioni e di con-suetudini che un tempo costitui-vano il costante e commoventesubstrato di una piccola societàumana accantonata lassù tra imonti della Lessinia. Sono ap-punti, in certo qual modo, che ri-flettono usanze e consuetudini ditutta l’area cimbra dei XIII Co-muni Veronesi, con qualche va-riante da un distretto all’altro.

Santa Lussia. Nei nostri paesi dimontagna la celebrazione di SantaLucia neanche... ricorreva, permodo di dire. Non c’erano doni diSanta Lucia in montagna o, forse,solo in qualche famiglia; e se didoni si poteva parlare, si riassume-vano in una corona de fighi séchi, oin una collana di nèspole, o in unamanciata di stracaganasse, casta-gne di scarto che i nostri genitoriandavano a raccattare (le famosecastagne de bina) nei boschi di ca-stani dopo che erano passati i ba-taóri, gli specialisti dell’abbacchia-tura, quelli di Sant’Andrea di Ba-dia. Neanche la Befana era ricono-

di Piero Piazzola

I miti e le credenze profonda-mente radicati in ogni culturapopolare rappresentano un ten-tativo per motivare fenomeni edavvenimenti altrimenti inspiega-bili, spesso legati allo svolgersidelle stagioni. Sono in qualchemodo la misura del grande sensodel mistero e della creatività dellafantasia che portava l’uomo a ri-correre a cerimonie e a riti di eli-minazione e di appropriazione,divenuti poi usanze tramandatedi generazione in generazione. Ilcostume di buttare dalla finestrail primo dell’anno robe vecie o dibruciare alcuni mobili ormai in-servibili, ricrea antichi rituali pa-gani di purificazione e di elimina-zione del male. Su queste celebra-

sciuta da noi; semmai in qualchefamiglia che si era evoluta un po’più delle altre a causa dei periodidi svernamento del bestiame “alleBasse”. La Befana, da noi, entravain scena per l’Epifania, perchéquella era l’appuntamento con ifuochi di cui faremo cenno in altraparte di questi ricordi; ma niente...calze da noi. Semmai qualche sgàl-mara.

La stéla. Una settimana prima delNatale – o anche qualche giornoprima – si mettevano insiemegruppi di ragazzini che andavanoin giro per le contrade con unastella infilata sopra un palo condentro un lumicino a chiederel’elemosina e, ovviamente, si ac-compagnavano con un canto na-talizio e con gli auguri di rito perla scadenza prossima. Ma i gruppipiù significativi di questuanti conla stella erano soprattutto i giova-notti con qualche anziano discorta per questioni di serietà e dicredibilità. Portavano anche lorouna stella di cartone infilata sopraun palo, foderata di carta colora-ta, con dentro un lume a petroliooppure un paio di candele. Neinostri personali ricordi il grup-petto s’era costruita una sua sin-golare stella con il telaio ricavatoda una fassàra da formaggio; pas-sando di porta in porta, si canta-vano alcune strofe di un cantopopolare di cui le prime due dice-vano: «Fati festa / o nobil gente /ch’egli è nato il ver Messia / fati fe-sta allegramente / ch’egli è figlio diMaria. / Fati onore e cortesia al Si-gnore Nipotente / Fati festa o nobil,gente.../.». I Cimbri, invece, canta-vano nella loro lingua l’ultima

Il patrimonio di feste e di usanze si èsfaldato a contatto con il modo di pensarespregiudicato,razionale e tecnologicodei nostri giorni.Quello che abbiamopotuto sapere è stato raccoltoascoltando i montanari più vecchi

Nella pagina accanto:banchetti di Santa Lucia in via Roma (Fotoservizio Silvia Andreetto)

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di Alessandro Norsa

Anche quest’anno è arrivato il periodo diNatale. Il 21 dicembre è il primo giorno diun ciclo di date speciali nel calendario. Av-viene, infatti, il solstizio d’inverno, cioè lanotte più lunga ed il giorno più breve del-l’anno. Dal 22 al 24 dicembre sembra, poi,che il sole nel suo moto apparente si fermi(solstitium significa “Sole fermo”). Nell’anti-ca Roma per salutare il solstizio d’invernovenivano celebrati i saturnali, in onore deldio Saturno, protettore dell’agricoltura. I fe-steggiamenti duravano dal 17 al 24 dicembreed in tale periodo si chiudevano scuole e tri-bunali; venivano scambiati visite e doni. Ilgiorno 24 si concludeva con un grande ban-chetto, con brindisi e scambio di auguri. Ilgiorno 25 era dedicato al Sole invicto: il solesembra sul punto di essere inghiottito dalletenebre ma invece risorge e torna a brillare, ascaldare, a riportare la vita sulla terra. Perquesto motivo in parecchi riti legati a questoculto si accendevano grandi fuochi al centrodi luoghi considerati spirituali.Bruno Schweizer, ricercatore bavarese chestudiò le tradizioni della nostra montagna,riferisce che fino al 1902 a Giazza si era soli-ti accendere un falò sulle cime dei monti edire: “Natale è acceso”.Questi riti fanno parte di tradizioni anti-chissime che hanno come riferimento que-sto periodo dell’anno: già 3600 anni fa ve-niva festeggiata in Persia la nascita di Mitra,figlio del Sole e Sole egli stesso. In Egitto siricordava la nascita di Osiride e di suo figlioOro. In Babilonia si festeggiava il dio Tam-muz, unico figlio della dea Istar rappresen-tata con il bimbo in braccio e con una au-reola di dodici stelle attorno alla testa. InMessico si festeggiava la nascita del dioQuetzalcoatl e nello Yucatan quella del dioBacab. Anche il dio azteco Huitzilopoctlivede la luce in questo periodo, lo stesso incui gli scandinavi festeggiavano la nascitadel dio Freyr. In Grecia nasce Bacco ed inSiria Adone. Ciò per far comprenderequanto questo giorno sia sempre stato spi-ritualmente carico nel corso del tempo.Ma veniamo alla storia che ci appartiene

più da vicino: con l’espandersi dell’imperoromano verso Oriente, soldati e mercantivennero a conoscenza del culto del dio Mi-tra, che lentamente venne introdotto a Ro-ma. Esso fece talmente presa sulla popola-zione che, nel 274 d.C., l’imperatore Aure-liano lo ufficializzò. E poiché anche Mitra,come già accennato, simboleggiava il Sole,la sua festa fu sovrapposta a quella del Sole

invicto e celebrata il 25 dicembre, come giàavveniva in Persia. Il suo culto in brevetempo si espanse rapidamente in gran partedell’Impero.Si riteneva che Mitra fosse nato in unagrotta e che gli fosse stato affidato dal pa-dre Sole il compito di contrastare Ahri-man, spirito maligno il cui intento sarebbestata la distruzione del mondo. Nel 353d.C. la Chiesa, nella figura di Papa Liberio,sostituisce il culto di Mitra con quello diCristo. Cambiò il nome ma non la santifi-cazione della giornata. Il Natale non è,quindi, unicamente la sovrapposizione diuna festa cattolica su credenze, miti e ritipagani, ma un insieme di profondi simbo-lismi spirituali che, emergendo nell’incon-scio collettivo ed originando dalla storiapiù remota, si intrecciano nella coscienza esi perpetuano di generazione in generazio-ne nei millenni. Sogni, speranze ed aspira-zione al Trascendente rimangono immuta-te nel cuore degli uomini, qualsiasi siano inomi con i quali, di volta in volta, vengonochiamati.

PESCANDO NELLA NOTTE DEI TEMPI

25 dicembre, una data non a caso

Il Natale non è solo lasovrapposizione di una festa

cattolica su credenze, miti e ritipagani, ma un insieme di

profondi simbolismi spiritualiche, emergendo nell’inconsciocollettivo ed originando dalla

storia più remota, si intreccianonella coscienza e si perpetuanodi generazione in generazione

nei millenni

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Tradizioni

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strofa della celebre canta nataliziaStille Nachtt:; Hõstar nacht, hoa-laghe nacht! / Asbia lachat, liabSon, / usar Helfar, dai suaze maul,/ ta du scenkast biotine haute, /Cristo, ‘un gasunt in tak! (Serenanotte, santa notte! / Come sorri-de, amato figlio, / nostro salvato-re, la tua soave bocca, / poché tudoni nascendo oggi, / Cristo, dellasalvezza il giorno, oppure unastrofetta che augurava bene e sa-lute che diceva: “Hoaliga Nachtun Guataz Jar. Eibala gruste unluste, for alje die bo da lesan”.

Le conte del nonno. Chi aveva unastua in casa (una cucina econo-mica), che il più delle volte eracostruita alla buona, con calce emattoni refrattari, oppure posse-deva un bel focolare dove bruciarla legna o, magari, il sòco (ceppo:come la socà de Nadal, rimasta fa-mosa), da poterlo scrioltolàr (ri-voltare) ogni tanto sottosopraper fargli sprizzare le sgìnse (fa-ville), restava a casa, dopo cena,seduto attorno al focolare, conl’immancabile caregòto per ilnonno, i più piccoli in braccio alnonno che raccontava le “storie”di una volta e si adoperava a fargiochetti puerili, ingenui, se sivuole, ma che sotto sotto nascon-devano una certa materialità, unadirettiva semplice per istruire eper educare.Erano distrazioni e passatempi inattesa di un evento. E l’eventoprincipe di fine dicembre era il

Natale, mentre quello di fine an-no era la notte di San Silvestro.Ma San Silvestro, da noi, in mon-tagna, neanche era conosciuto.Era l’ultimo dell’anno e basta, se-guito, a ruota, senza fuochi d’arti-ficio e bottiglie di spumante, dalprimo dell’anno. Un bacio sug-gellava la partita e apriva quellanuova. Poi a letto.Un giochetto per arrivare a mez-zanotte il nonno lo trovava sem-pre. Mentre sopra il fuoco, in unapentola, bollivano gli scarti dellepatate che sarebbero andati benepoi per goernàr el mas-cio (nutri-re il maiale), il nonno prendeva lamojéca (le molle), con la paléta(paletta da fuoco) stendeva unostrato di cenere sul letto del foco-lare, lo spianava per bene e poicominciava a recitare una tiritera

in simultanea con i movimentidella mojéca sul tappeto della ce-nere. Le due punte dell’arnese, ac-costate l’una all’altra, tracciavanodei segni, su tre file, di dieci im-pronte l’una, dette péche e mentrefaceva questo recitava: Cavra! /Sito cavra? / Se son cavra? / Si gheson! / Gh’éto i corni?/ Sì che i gò /Dove i gh’eto? / Dove i gò? /Sora elcol / Quanti ghe n’èto? Quanti ghen’ò? / Faghe el conto / Trédese inponto.Il gioco continuava ma il fuocodoveva restare comunque accesonon solo durante la notte di Nata-le, ma anche in quella di capo-danno, perché era convinzioneche la Madonna sarebbe passatada quelle case dove era rimastoacceso il fuoco per scaldare i pan-ni al Bambino, e anche la tavoladove si era consumata la cenaquella sera, doveva rimanere ap-parecchiata con tutti i residui delpasto. In quelle case, poi, dove latradizione era rimasta immutatafin dai tempi antichi, sulla tavolasi doveva depositare anche qual-che puòto (bambolotto di pastazuccherata, tipico della montagnaveronese), regalo particolare neipiatti poveri di Santa Lucia, maconservato anche per questa oc-casione, oppure una fetta di na-dalìn, dolce caratteristico del Na-tale dei nostri monti.

I foghi de la stria. Durante la not-te dell’Epifania era abitudine ac-cendere dei falò sulla sommità di

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«I più piccoli stavanoin braccio al nonno

che raccontava le“storie” di una volta e

si adoperava a fargiochetti puerili,

ingenui, se si vuole,ma che sotto sotto

nascondevano unacerta materialità, unadirettiva semplice per

istruire e per educare»

«Spesso i questuanticon la stella erano

giovanotti con qualcheanziano di scorta per

questioni di serietà e di credibilità»

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un dosso o di un monte, mentre,contemporaneamente, nei paesivicini, si faceva altrettanto, comeatto di cortesia e come segno-te-stimonianza di scambio-rispetto.Attorno ai falò, che la gente d’altripaesi chiamava bruijèi, ma da noi,in terra cimbra, erano detti piùsemplicemente fóghi de la stria,giovani e anziani si divertivano asaltare, a ballare, a far schiamazzicon le ciòche (i campani delle vac-che) o con dei vecchi recipienti (ibandòti), che inizialmente conte-nevano petrolio da ardere nellelucerne; i bottegai li acquistavanosui mercati della valle e poi li ri-vendevano come contenitori. Interra cimbra, però, era usanza ac-cendere dei falò anche la notte diNatale sulla cima di un monte osu un ampio dosso per far sì che ilfalò si rendesse visibile da altripaesi delle vicine montagne. Nonerano peraltro foghi de la stria,ma semplici esplosioni di allegria,di contentezza.

In stala o in leto. Nelle case, finchéfunzionava il camino, e meglioancora nei locali di cucina, ove siconfezionavano i cibi, un certotepore, d’inverno soprattutto, sidiffondeva nello stanzone cheserviva da sala da pranzo e da sa-lotto e da altro ancora. Passatal’ondata del calduccio, si dovevaper forza di cose riparare nellestalle. Altrimenti a letto. Ecco il fi-lò che prendeva forma e voltoverso le sette di sera. Il filò, diconoi chiosatori della lingua, era «una

riunione serale che la gente deicampi effettuava scambievol-mente nelle cucine o nelle stalleallo scopo di trascorrere le serateinvernali e mantenere o legarerapporti d’interesse e di amicizia;insomma, una veglia rurale nellestalle, luogo ove si filava la lana ola canapa e si andava dietro alleragazze». Noi aggiungiamo che ilfilò era anche il momento e illuogo per sparlare, per dir maledegli altri, per malignare, scredi-tare chi si aveva in mira di dan-neggiare.Quando nelle case non c’era an-cora un minimo di sistema di ri-scaldamento – le stufe a legna so-no venute alla fine degli anniQuaranta – o abbastanza legnaper ottenerlo, allora, dopo la fru-gale cena, ci si rifugiava al caldonaturale prodotto dalle vacchenelle stalle e, in quella occasionee in quell’ambiente, si potevanoosservare donne e uomini che siindustriavano a far qualcosa diutile. La stalla, dunque, diventavaanche luogo di lavoro, ma nelcontempo anche luogo di...“edu-cazione”, intesa come istruzione,insegnamento, cultura. Sì anchecultura.

La notte di Natale. Certe famiglie,che di boschi non ne possedeva-no, dovevano arrabattarsi allameno peggio per la legna sfrut-tando i ceppi delle piante rimastinei boschi e che davano segni diessere in via di disgregazione, an-date a male: i sòchi o anche le sò-

che. Chi non aveva boschi suoi,concordava con qualche amicosuo, che invece ne aveva ma non liteneva puliti dalle ceppaie in de-composizione, questo lavoro disradicamento. Poi si faceva pre-mura di trasportarli a casa dove listivava per farli disidratare e dis-seccare e poi pazientemente lespaccava in pezzi ragionevoli dafar bruciare sotto le pentole op-pure nelle stufe. Ma una sòca spe-ciale veniva scelta tra tutte per farbruciare la notte di Natale. Perchéproprio la notte di Natale? Il cep-po, continuamente rimosso e ri-voltolato perché risollevasse lafiamma, mandava su par la cappadel camino tante sdinse (faville) esi diceva che esse erano le animedel purgatorio che, in quella oc-casione straordinaria, il Signorechiamava a sé in Paradiso.Per far passare il tempo in attesadella mezzanotte, moltissime fa-miglie si buttavano avanti con ilavori, perché il dì seguente erafesta e non si poteva lavorare.Preparavano allora il pasto per imaiali. Si faceva bollire, cioè, inun pentolone molto grande, lepatate di scarto della raccolta au-tunnale che erano difettate e nonfacevano parte della qualità “me-dia” che, invece, veniva religiosa-mente messa da parte per la semi-na della primavera successiva; lepiù grosse si vendevano oppure sitenevano in serbo per il consumofamiliare.Quando il pentolone veniva riti-rato dal fuoco e il contenuto sco-lato dall’acqua di cottura, tutti sifacevano attorno ad esso per re-cuperare certe patatine ancora in-tatte o leggermente rotte, sicché ilmaiale che doveva essere alimen-tato con quella roba di scarto ri-schiava di restar a becco asciutto.Poi, subito dopo la mezzanotte,prima di andar a dormire, si dis-ponevano sul tavolo, in un piatto,un po’ di caldarroste, di fichi sec-chi, i famosi puòti, dolci tradizio-nali propri del Natale o un Nada-lin, altro dolce tipico dei Cimbri.Ma, intanto, mentre si attendevache si spegnessero le luci del pre-sepe, già si accendevano quelle diSan Silvestro; san Silvestro, peral-tro, da noi era un santo scono-sciuto. Quella era la notte degliauguri, delle superstizioni, deipronostici.

«San Silvestro, da noi,in montagna, neanche

era conosciuto. Eral’ultimo dell’anno e

basta, seguito a ruota,senza fuochi

d’artificio e bottigliedi spumante, dalprimo dell’anno.

Un bacio suggellava lapartita e apriva quella

nuova. Poi a letto»

Banchetti di Santa Luciain Piazza Bra

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di Elisabetta Zampini

La questione del genere, il porsidei due volti, quello maschile equello femminile dell’umanità,interroga l’attualità e chiede ri-sposte. La categoria di genere at-traversa diversi campi del sapere,è indagata, studiata e porta tal-volta a degli inediti approdi. Conpremesse comuni: prendere ledistanze dagli stereotipi e indivi-duare l’interagire di uomini edonne nel farsi della società. E sec’è bisogno ancora di porsi “dallaparte delle donne” è per eviden-ziare la necessità del riconosci-mento della presenza della don-na, farne emergere gli apportipeculiari sia nel presente che nelpassato, mettere in guardia dapericolose generalizzazioni.Si è voluto allora dare voce ad al-cune donne che vivono o lavora-no a Verona, che hanno assuntopercorsi intellettuali, di ricerca odi impegno pubblico e che han-no offerto dei punti di vista sullaquestione del genere a partiredalla proprio osservatorio speci-fico.

Adriana Cavarero. «La società ita-liana è molto arretrata, è forte-mente dominata da maschi e davecchi. Qui resistono stereotipimaschili e femminili che la filoso-fia indaga e critica da almeno ot-tant’anni». A parlare è AdrianaCavarero, docente di filosofia poli-tica all’ateneo veronese e fondatri-

ce della comunità filosofica fem-minile «Diotima». I suoi scritti sulfemminismo e sulle donne delNovecento, che hanno lasciato unsegno nella storia della filosofia,sono conosciuti non solo in ambi-to accademico. La Cavarero, senzamezzi termini, spiega: «La diffe-renza di genere è oggetto di speci-fici studi filosofici che analizzanola femminilità come modo pecu-liare di rapportarsi al mondo emolto più adatto ad affrontare lacrisi contemporanea grazie allaparticolare capacità di dialogo erelazione». E prosegue: «In realtà,lo vediamo dai giornali, dalle rivi-ste per lui e per lei, esistono deglistereotipi che si notano in manierapiù marcata nella pubblicità che èin definitiva un grande specchiodella società». Poi entra nel meritodella scuola dove le donne tenden-zialmente conseguono risultatimigliori dei colleghi maschi: «Pur-troppo questa marcia in più che ledonne dimostrano nello studio,con maggiori laureate e con votimigliori, non si riflette poi nelmondo del lavoro dove questo èancora governato da uomini e vec-chi; un esempio eclatante è pro-prio l’ambiente universitario».

Mimma Perbellini. Sostiene ladifferenza ma anche la comple-mentarietà di genere Mimma Per-bellini, assessore alla Cultura delComune di Verona, unica compo-nente femminile della giunta, chespiega: « Noi donne abbiamo que-

sto grande dono che è la capacitàdi procreare che ci rende necessa-riamente diverse, ma non per que-sto deve esserci un rapporto diforza dell’uno o dell’altro sesso.Siamo semplicemente differentinell’approccio alla vita e ai proble-mi. Certo, l’ideale sarebbe che lapolitica ascoltasse le istanze di en-trambi i generi». La Perbellini fapoi riferimento proprio al suo es-

Cultura

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PUNTI DI VISTA

Marte e Venere:due mondi, due visioniIl pensiero di alcune donne veronesi che hanno assunto percorsi intellettuali,di ricerca o di impegno pubblico e che hanno offerto dei punti di vista sulla

questione del genere a partire dalla proprio osservatorio specifico

“Gli uomini vengono da Martele donne da Venere”, il best sel-ler di John Gray continua a ri-comparire in libreria, cam-biando ora copertina ora for-mato. E raccoglie ad ogni nuo-va uscita, nuovi lettori. Per re-stare tra gli scaffali dei libri,Loredana Lipperini ha da pocopubblicato “Ancora dalla partedelle bambine”, ideale conti-nuazione a trent’anni di di-stanza del famoso “Dalla partedelle bambine” di Elena Giani-ni Beloti. Negli Stati Uniti si èrecentemente tenuto un conve-gno sull’educazione monoge-nere, a sostegno cioè dell’elimi-nazione delle classi miste perun migliore apprendimento.

Se c’è bisogno ancoradi porsi “dalla parte

delle donne” è perevidenziare la

necessità delriconoscimento della

presenza della donna,farne emergere gli

apporti peculiari sianel presente che nelpassato, mettere in

guardia da pericolosegeneralizzazioni

Mimma Perbellini è assessore allaCultura del Comune di Verona

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Il filone di genere è diventato da circa

vent’anni interessantecampo di indagine

della storiografia

sere donna in un mondo come lapolitica gestito quasi esclusiva-mente da maschi e dice: «Al matti-no, quando arrivo in Comune, nonè proprio nei miei pensieri il fattoche sono l’unica donna, penso soloa quello che devo fare e a farlo be-ne. Ma penso anche che se avessi fi-gli piccoli, con molta probabilitànon farei questo perché la politicati porta fuori di casa dodici ore algiorno. Ciascuno fa la propria scel-ta, ma la sensibilità femminile por-ta generalmente a dare una certapriorità alla famiglia».

La storia di genere. Il filone di ge-nere è diventato da circa vent’an-ni interessante campo di indaginedella storiografia. Spesso l’indagi-ne storica, avendo dalla propriaparte la distanza temporale, riescea dare una visione d’insieme deifenomeni sociali. E perciò può of-frire delle utili chiavi di lettura an-che per il presente. La storia di ge-

nere recupera anche il volto fem-minile della storia. Per leggerequesta storia bisogna però consul-tare le cosiddette fonti “minori”,poco esplorate in passato. Bisognafiutare negli archivi, ritrovare car-teggi privati, diari, registri, elenchidi nomi, stampe periodiche, cata-loghi, biografie, un pizzico di for-

tuna e ricomporre i pezzi. Perchéla storia di genere si pone comestoria “relazionale”. La memoria el’esperienza femminile recuperatedall’oblio vengono messe in rap-porto a quelle degli uomini in unareciprocità di influenze e di inter-dipendenze che aiutano a rileggerein maniera più completa e vera lastoria. Un’operazione di sano revi-sionismo.

Elena Sodini. «Durante il miodottorato ho studiato alcune figu-re di donne del Risorgimento Ve-neto e in particolare veronese –racconta Elena Sodini, storica –scoprendo che l’attività patriotticaera tutt’altro che gestita dai ma-schi. Anzi poteva diventare il col-lante dei legami familiari». Dallesue ricerche sono emerse in parti-colare due figure appartenenti auna influente famiglia di Verona,entrambe molto attive nella causadell’Unità d’Italia: Carolina Bevi-lacqua e la figlia Felicita, tra le fon-datrici dell’Associazione Filantro-pica delle Donne Italiane. «La cosastrabiliante è che di loro si era per-so quasi completamente il ricordo.In Biblioteca Civica e in Archiviodi Stato c’è un patrimonio enormedi lettere e scritti nella maggiorparte di mano femminile, prove-niente dal fondo Bevilacqua. Cisono anche poesie che per moltotempo erano state attribuite almarito di Felicita, Giuseppe LaMasa, famoso garibaldino. Questoper dire che pregiudizi passati rite-nevano improbabile l’attribuzionefemminile di scritti di quello stile:ma la scrittura è in tutta evidenzaquella di Felicita».Quando La Masa partì per la Sici-lia al seguito di Garibaldi, la mo-

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glie Felicita rimase a malincuore acasa ma agì a modo suo nella stes-sa direzione del marito: «Divental’informatrice degli umori di Tori-no nei confronti dell’evolversi del-l’impresa garibaldina – proseguela Sodini – e il 7 maggio 1860 lan-cia un appello sui giornali dei varistati italiani per costituire una retedi solidarietà tra le donne in favoredei feriti della Sicilia. La risposta fuimmediata e sorprendente. Sorse-ro comitati femminili in tante cittàe paesi. Raccoglievano soldi. E larisposta non veniva solo da unaprevedibile rappresentanza bor-ghese ma anche dal popolo. Neiregistri delle donazioni si trovanoinfatti scritte le professioni di chioffriva il contributo: c’erano ca-meriere, cuciniere, sartine».Elena Sodini si è occupata anchedelle donne che dal 1906 venneroammesse alla Società Letteraria,dimostrando subito grande cultu-ra e valore. Ma qual è la peculiaritàche emerge dagli scritti di questedonne? «Sono passionali . Rispettoa un uomo sono più scoperte ehanno meno paura di esprimersicon i linguaggi del sentimento. Sirimane coinvolti da questi perso-naggi. E si sente verso di loro undebito per tutto quello che hannofatto anche per le donne di oggi.Ed è un impegno, direi civile, ri-cordarle. Inevitabilmente in que-

comprendere al meglio l’altro, divivere qualsiasi tipo di rapporto inmodo più profondo e completo».

Antonella Anghinoni. La parolarelazione continua a ritornare e ariproporsi. Per Antonella Anghi-noni, biblista e docente all’IstitutoSuperiore di Scienze Religiose diMonte Berico, la donna è “la custo-de della relazione”. Questo ritrattoemerge dallo studio dei testi del-l’Antico Testamento nei quali lastudiosa ha recuperato le figurefemminili dimenticate: «La Bibbiaè un libro immenso. Non lo cono-sciamo tutto. Alcune donne sonorimaste sepolte nella polvere per-ché anche scomode. Raab, adesempio, era una prostituta. Masalvò i messaggeri che stavano peressere uccisi dal re di Gerico. Ognidonna è un storia e ha un messag-gio che emerge se approfondito.Abigail con la parola salva il maritoe il villaggio. C’è in queste donne

una costante. Con gesti o paroleportano la pace. In nome del valo-re principale che è la vita». Anto-nella Anghinoni sta approfonden-do e inseguendo i volti di questedonne della Bibbia; nasce sponta-neo capire il perché e soprattutto ilcontributo di queste ricerche:«Spesso la distanza sia linguisticasia temporale ci impedisce di com-prendere il senso del Testo. Ed èsemplice individuare solo la sotto-missione della donna. Inveceemerge anche una sua identità nel-l’ottica della relazione. Le donnericordate dalla Bibbia dicono alledonne di oggi la loro peculiare in-dole al dialogo. Fanno luce sull’i-dentità profonda della donna. Ciòè importante perché si instaurauna relazione con l’altro solo apartire dalla conoscenza di sé». Va-le per uomini e donne.

Hanno collaborato Giorgia Cozzolino

e Irene Lucchese

Cultura

inVERONA

«Inevitabilmente inquesta fase di ricercasi tende a dare rilievoal femminile, perché èstato tenuto in ombraper molto tempo e non

aveva parola, ma ilpasso successivo sarà

la sintesi. Dove ilmaschile e il

femminile vengonoentrambi recuperativerso una maggioreconsapevolezza diquelli che sono iprocessi storici»

sta fase di ricerca si tende a dare ri-lievo al femminile, perché è statotenuto in ombra per molto tempoe non aveva parola, ma il passosuccessivo sarà la sintesi. Dove ilmaschile e il femminile vengonoentrambi recuperati verso unamaggiore consapevolezza di quelliche sono i processi storici in un in-treccio continuo tra livello pubbli-co e privato. Attivare, in una paro-la, la complessità».

Corinna Albolino. La dottoressaCorinna Albolino, laureata in Fi-losofia e specializzata in scritturaautobiografica presso la LiberaUniversità dell’Autobiografia diAnghiari, sta tenendo presso l’Arcidi Montorio un interessante “La-boratorio di Scrittura Autobio-grafica” al quale hanno aderitoper una sorta di autoselezione na-turale solo donne: «Scrivere di sé edel proprio passato è una questio-ne di sensibilità – spiega la dotto-ressa – è un bisogno di raccontarsied esprimersi, ma anche aperturaverso l’altro e la sua personale sto-ria. Ed è proprio grazie a tuttequeste caratteristiche che tale ge-nere si adatta alla perfezione all’u-niverso femminile, per moltotempo chiuso in rigidi schemi,senza la possibilità di una propriastoria di vita. La scrittura autobio-grafica rappresenta, infatti, unmezzo e un metodo insostituibileper la conoscenza e la valorizza-zione di se stessi, per lo sviluppodella personalità nel suo com-plesso. La scrittura diventa, dun-que, una cura, non solo comeconsolazione o elaborazione disofferenze, ma come vero eserci-zio di crescita, di ricostruzionedella propria identità, di riscattodalle paure e dalle insicurezze». Ilracconto della memoria persona-le, della propria storia unica con-duce verso il dialogo, l’incontro:«Nonostante il genere autobio-grafico trovi la sua migliore pro-duzione nel mondo femminile,non bisogna pensare che essocomporti una separazione trauomo e donna. La profonda co-noscenza e consapevolezza di sé,la propria emancipazione e valo-rizzazione aiutano la comunica-zione e il rapporto con gli altri, inparticolar modo con l’universomaschile: accettare se stessi con ipropri limiti e difetti permette di

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di Irene Lucchese

Dal 2005 i veronesi hanno una possibilitàin più per migliorare la propria cultura eincrementare il proprio sapere: festeggia,infatti, il suo secondo compleanno la Fon-dazione Centro Studi Campostrini. Puntodi arrivo di un lungo percorso intrapresodall’Istituto omonimo allo scopo di incide-re in modo ancor più significativo nellarealtà sociale veronese, la Fondazione hacarattere e finalità esclusivamente culturali.In una società contemporanea permeatadalla superficialità e dalla confusione, essasi pone l’obiettivo di favorire lo sviluppo ela crescita della consapevolezza critica edetica del lavoro intellettuale e artistico: perfare ciò, le proposte spaziano dalla musicaalle varie forme artistiche, dalla politica allareligione, dalla scienza alla filosofia.La presidente della Fondazione, la dott.ssaRosa Meri Palvarini, sottolinea «l’inclina-zione del Centro Studi ad aprirsi verso lacittà, a diventare una realtà aggregativa sutematiche di attualità e cultura per tutti gliinteressati, con particolare riguardo ai gio-vani studenti». Per avvicinarsi a più utentipossibili la Fondazione offre due proposte:una di livello divulgativo, destinata ad unampio pubblico, anche privo di una com-petenza specifica che si realizza con cicli diconferenze, incontri, mostre e concerti, tut-ti ad ingresso libero, dove ogni partecipante

ha la possibilità di esprimere e dialogarecon esperti di ogni settore. La seconda pro-posta, invece, è dedicata a coloro che pos-siedo già una buona base culturale comestudenti universitari, ricercatori e professo-ri spinti dalla volontà di essere sempre ag-giornati; a loro sono rivolti seminari di ap-profondimento. Un modello in questo sen-so è rappresentato dalla “Scuola estiva inTeoria Politica” voluta dalla presidente Pal-varini che ritiene doveroso oggi recuperarei criteri di ragionamento necessari alla for-mazione di un pensiero politico più com-pleto possibile.La Fondazione collabora attivamente conl’Università di Verona e con altri atenei ita-liani, al fine di proporre le migliori compe-tenze. A livello economico, invece, essa è fi-nanziata quasi esclusivamente dall’IstitutoCampostrini ma, nonostante qualche ovviadifficoltà materiale, il Centro Studi si staoccupando anche di attività editoriale e dimusica; in entrambi i casi la volontà è quel-la di dare spazio ad autori poco conosciutiin Italia e a generi musicali non commer-cializzati nel mercato odierno.La sede di via S. Maria in Organo e le risor-se materiali in essa contenute sono elemen-ti significativi del ruolo sociale che la Fon-dazione ha ed è decisa ad incrementare: bi-blioteca, emeroteca, filmoteca e la futurafonoteca sono sempre disponibili e gratuiteper tutti i cittadini veronesi.

FONDAZIONE CAMPOSTRINI

Favorire la consapevolezza critica

La Fondazione collaboraattivamente con l’Universitàdi Verona e con altri atenei

italiani, al fine di proporre lemigliori competenze.

Rosa Meri Palvarini sottolinea«l’inclinazione del Centro

Studi ad aprirsi verso la città,a diventare una realtà

aggregativa su tematiche diattualità e cultura per tutti gli

interessati, con particolareriguardo ai giovani studenti»

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Cultura

Rosa MeriPalvarini

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di Oreste Mario Dall’Argine

Mentre si fa sera e la città rigurgi-ta il suo traffico di fine giornataentriamo nel palazzo della Curiadi Verona. Il silenzio che avvolgequesto ambiente è quasi irreale,in contrasto con il mondo appenalasciato. Attraversiamo lo spazio-so cortile e saliamo il severo scalo-ne che porta alle stanze vescovili.Monsignor Giuseppe Zenti ci ac-coglie gentilmente, con semplicitànel suo studio.Il suo porgersi personale è in tuttele forme colloquiale; anche nelmovimento delle mani che ac-compagnano le parole. Dopoqueste prime impressioni si profi-lerà nel corso dell’incontro la fi-gura di un prete linearmente le-gato alla sua cultura, alla sua for-mazione spirituale, alle sue espe-rienze di uomo di Chiesa.Nel rispetto di quella che ci pare lasensibilità di questo vescovo, nonprocediamo con domande e rispo-ste, ma con un normale colloquio.Ricordiamo quanto egli dissenella sua omelia di saluto alladiocesi di Verona, il giorno delsuo ingresso. «Lasciatemi fare ilvescovo», erano state le sue paro-le. Si tratta di un’affermazionemolto forte a sottolineare l’indi-pendenza della Chiesa, nell’eser-cizio della sua autorità e dellasua libertà. E infatti mons. Zentici spiega che l’autorità, per essereesercitata in modo organico, nondeve essere mortificata da millecompromessi.Se Dio ha bisogno degli uomini,come titolava un grande e vecchiofilm del regista cattolico franceseCayatte, ancor di più i suoi pasto-ri hanno bisogno della solidarietàchiara e non implosiva di tutti icredenti. E questo lo si legge an-che in quell’altra frase pronun-ciata da mons. Zenti, sempre nel-la stessa omelia, quando, rivol-gendosi ai sacerdoti, disse: «Vo-glio conoscervi uno ad uno».Questo concetto dell’aiuto ai ve-scovi lo aveva toccato anche donMilani, naturalmente con quellecaratteristiche espressive che avolte creavano apprensione in unlettore credente: «Non vi è vogliadi dire al vescovo ciò che si pen-sa… è più comodo trattarlo con i

soliti dorati guanti di menzognache danno modo a lui e a noi divivere senza seccature». (Pensierie parole di Don Milani, Ed. Pao-line 2007).In questi primi mesi di episcopatoa Verona mons. Zenti lo abbiamovisto spesso fra la gente, nelle ceri-monie ufficiali, in eventi impor-tanti per la città. Quando si ripo-sa eccellenza? «Mi riposo quandodormo» è la risposta accompa-gnata da un sorriso. E subito ag-giunge: «Soprattutto bisogna tro-vare il tempo per ascoltare». Maanche per comunicare, viene su-bito da pensare, visto che stiamoparlando di un prete che negli

stereotipi del linguaggio comuneè definito come “vescovo media-tico”. «Bisogna recuperare il sen-so del ragionare» ci spiega, evi-denziando quanto siano impor-tanti attenzione e riflessione.«Noi uomini di Chiesa non pos-siamo improvvisare. Dobbiamopensare e ripensare a quello chediremo ma poi quando è il mo-mento di parlare dobbiamo farlocon chiarezza. Non è infatti pos-sibile che ogni volta che diciamoqualcosa siamo superati da tuttociò che ci circonda. A volte, quan-do viaggio, anche in automobile,se mi spunta improvvisamenteun pensiero nuovo, mi fermo e lo

annoto, perché ogni pensiero chefugge è un’occasione persa per co-municare».A proposito di comunicazione, ca-pita che nella Messa la “predica”diventi un momento di apatiapartecipativa, perché non sempreil sacerdote dimostra di avere lapreparazione e l’esperienza perdare indicazioni non astratte sucome orientarsi nella quotidiani-tà. «L’omelia è il momento piùdifficile per il prete» spiega il ve-scovo «perché è quello dove eglisvela la sua personalità, la sua re-ligiosità, ma soprattutto la suapresenza nella comunità. Ci vuoleimpeto, passione, partecipazione enon parole senza contenuti. Inquesto campo a nulla serve lavuota retorica dei grandi oratori».Citiamo un’altra esortazionefatta dal presule durante l’ome-lia del suo ingresso: «Ciascunostia al suo posto», aveva dettomons. Zenti, che spiega come sianecessario «tornare a un rappor-to dove cattolici e laici ponganofine a quella contrapposizioneche da tanti anni tiene avvin-ghiati gli italiani, paralizzandoil confronto, il dibattito culturalee politico, come ho ricordato nel-la mia lettera al Presidente dellaRepubblica».Chiediamo al vescovo come ab-bia ritrovato la sua città, Verona,dove per tanti anni ha esercitato ilministero e dopo l’esperienza co-me pastore a Vittorio Veneto. «Mipare una città frammentata»spiega mons. Zenti. «La società ci-vile sembra divisa in blocchi, vedotanti singoli percorsi separati enon un lungo scorrere insieme, co-me quello di un fiume verso il ma-re con una navigazione comune,evitando insieme quegli ostacoliche si frappongono alla fratellan-za, alla comunità di intenti, allatolleranza (a volte comprensibil-mente difficile), all’accoglienza,alla valorizzazione di una grandestoria civile e culturale».È giunto il momento di congedar-ci e lo facciamo con uno scambiodi auguri per il Natale. Tornandonel caos cittadino ci accorgiamoche nonostante i tanti impegnidella giornata mons. Zenti nonha mai dato uno sguardo impa-ziente all’orologio.

Cultura

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A colloquio con il vescovo

Giuseppe Zenti«Noi uomini di Chiesa non

possiamo improvvisare. Dobbiamopensare e ripensare a quello che

diremo ma poi quando è ilmomento di parlare dobbiamo

farlo con chiarezza»

Mons. Giuseppe Zenti

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di Cinzia Inguanta

L’Arena del 7 maggio 1949 riporta,in seconda pagina, la scoperta dialcuni resti del cadavere di unadonna fatta a pezzi. Alcune partianatomiche (il tronco e gli arti in-feriori) sono ritrovate dentro unavaligia di cartone marrone, legatacon del filo di ferro, e in una cesta

da imballaggio nelle acque del ca-nale Camuzzoni, nei pressi dellacentrale elettrica di Borgo Roma.Non è possibile identificare il ca-davere perché mancano la testa ele braccia, si sa solamente che lavittima era bionda. I cronisti sisbizzarriscono in una ridda di ipo-tesi riguardo alla possibile identitàdella donna. Gli investigatori si af-

Storia

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DELITTI E MISTERI

L’omicidio StrapparavaCorreva l’anno 1949. La donna fu trovata senza testa nel Canale Camuzzoni.

Faticosamente si risalì all’identità della vittima orribilmente straziata da un exmaresciallo della Marina accecato dalla gelosia. La uccise per non perderla

fidano alla perizia necroscopica,eseguita da uno specialista di Pa-dova, il prof. Soprana, per acquisi-re elementi utili riguardo all’iden-tità della poveretta. Chi ha uccisoo quantomeno chi ha sezionato ilcadavere aveva una buona cono-scenza dell’anatomia, i tagli sonostati eseguiti con una lama moltotagliente in direzione delle variegiunture. C’è un testimone: il 6maggio poco prima di mezzogior-no si trovava in Borgo Milano, neipressi del canal Camuzzoni e videun individuo che reggeva unagrossa cesta sul manubrio della bi-cicletta. Il ciclista si fermò all’altez-za del terzo ponte; tolse la cesta dalmanubrio e, deposta la bicicletta,la gettò nelle acque del canale.“Balzò quindi in sella e si allonta-nò velocemente. Poteva avere 35 o40 anni e aveva un fare circospettoche attirò l’attenzione del testimo-ne il quale lo rincorse per un buontratto di strada” (L’Arena 8 maggio1949). Il 10 maggio, sempre nel ca-nal Camuzzoni vengono ritrovatele braccia di quella che per i vero-nesi è diventata “la donna tagliataa pezzi”. Erano racchiuse in un ta-scapane militare che era stato ap-pesantito da un grosso mattone.Più volte, in questo primo periodod’indagine, l’autorità giudiziaria faappello alla cittadinanza per cer-care di acquisire indizi utili. Qual-che giorno più tardi alcune donnericonoscono il cadavere: si tratta diGuglielmina Strapparava. La vitti-ma, conosciuta come Memi, erauna donna di 52 anni, originariadi Udine, abitava in Via Valverde alcivico 81, ed era scomparsa daqualche giorno. Per vivere faceval’affittacamere, sembra che duran-

te la guerra avesse guadagnato ildenaro che era poi servito all’ac-quisto dell’appartamento – pen-sione svolgendo il mestiere più an-tico del mondo. Ad ogni modo erauna persona gentile e benvolutanel vicinato. Una telefonata anoni-ma denuncia il suo convivente,Alessandro Marchese come l’auto-re dell’efferato delitto. Era il 13maggio quando L’Arena dava no-tizia di questo, ma il caso era tut-t’altro che risolto ed avrebbe tenu-to tutta l’Italia con il fiato sospesoancora per lungo tempo.Alessandro Marchese, 47 anni, èun ex maresciallo di marina dellarepubblica di Salò, che ha avutoproblemi con la legge per il suopassato politico. Nativo di Cerrosul Tanaro, in provincia di Asti, sitrasferisce in giovane età con la fa-miglia a Genova dove vivono lamoglie, dalla quale non si è mai se-parato, ed i tre figli, uno dei qualiallievo della scuola di polizia diCaserta. Nel 1945 il Marchese, inseguito a guai giudiziari trova rifu-gio e protezione a Verona doveviene assunto nell’officina mecca-nica San Zeno di Goffredo Ca-bianca, uno zio della moglie. PerCabianca svolge lavori di pococonto, piccoli servizi, giusto quelloche basta per una stentata soprav-vivenza. Conosce la Strapparava,mettendo un annuncio per cuorisolitari sul giornale. In seguito aquell’annuncio nel ’47 inizia la lo-ro relazione amorosa. Una relazio-ne tempestosa, come raccontanogli affittuari della Strapparava,Giuseppe Cordioli cameriere al-l’albergo Trieste ed un maresciallodei carabinieri con la moglie. Avolte l’uomo è violento con la

Ponte di Borgo Milano sul Canale Camuzzoni, da qui Marchese gettò in acquala valigia con il tronco e le gambe della vittima

Canale Camuzzoni, Centrale elettrica di Borgo Roma. In questo tratto delcanale, in una valigia, vengono rinvenuti i primi resti della Strapparava

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donna, è geloso, l’accusa di averealtre relazioni, di essere una pocodi buono. La Memi ha un amico“un buon consigliere”, probabil-mente un ex innamorato: StefanoDenaro. I due si vedono spesso eAlessandro Marchese non vede lacosa di buon occhio. Denaro è ori-ginario di Canicattì, è un impiega-to delle ferrovie dello stato ed è unex infermiere; la moglie è morta inun ospedale psichiatrico nel 1947,anche lui ha tre figli uno dei qualifrequenta un corso per infermieri.Alessandro Marchese in un primomomento nega tutto, afferma chela Memi è partita per andare a tro-vare i nipoti a Udine, ma a Udinela donna non è mai arrivata e i pa-renti non hanno sue notizie da ol-tre dieci anni. L’accusato ritratta,dà un’altra versione dei fatti, maanche questa non regge ai riscon-tri degli investigatori. Alla fineconfessa il delitto dicendo di averucciso in un eccesso di gelosia, diaver avuto un complice per l’oc-cultamento del cadavere. Entracosì in scena Stefano Denaro, cheera amico della coppia. Denaro loavrebbe aiutato, sezionando il ca-davere, facendo sparire la testa,fornendo la segatura per pulire ilpavimento della cucina di Via Val-verde nella quale Guglielmina èstata fatta a pezzi. Dal carcere De-naro si dichiara innocente. Neigiorni che avevano preceduto ildelitto i due avevano litigato piut-tosto violentemente, per poi ri-conciliarsi e spesso erano stati vistiinsieme in alcune osterie della cit-tà. Era tutta una macchinazionedel Marchese per vendicarsi del-l’uomo che riteneva avesse una re-lazione con la sua Memi? Da Genova arriva il fratello diMarchese che provvede a finanzia-re la difesa assumendo l’avvocatoDevoto. La famiglia di Denaro ècostretta a trasferirsi, i suoi figlinon possono più continuare a vi-vere nell’appartamento di Via S.Maria in Organo, sono oggetto ditroppe e malevole attenzioni daparte dei vicini. Stefano Denaro èdifeso dall’avvocato De Luca.Anche i nipoti della Strapparavasono arrivati da Udine per recarsisulla tomba della zia e per occu-parsi dell’eredità della donna cheoltre all’appartamento di Via Val-verde comprendeva un conto ban-cario di 49 000 lire.

Gli investigatori ascoltano moltitestimoni cercando di ricostruire ifatti, il movente, di farsi un’ideadella personalità della vittima e deidue uomini accusati del delitto.Ai fini dell’indagine è molto im-portante il ritrovamento della te-sta e “dopo aver battuto tutte lestrade possibili e dato che tanto ilMarchese quanto il Denaro non sidecidono a confessare il luogodove la testa è stata nascosta, laPolizia accetta anche l’opera deiradioestesisti” (L’Arena 25 maggio1949). In quegli anni, accadevacon una certa frequenza che ci sirivolgesse a questi sensitivi neltentativo di avere indizi sui solda-ti che non erano tornati dallaguerra.Finalmente a metà giugno Ales-sandro Marchese, durante un in-terrogatorio durato sei ore, rendeuna piena confessione dei fatti algiudice istruttore, il dott. Dassisti.Ha ucciso accecato dalla gelosia,dalla paura di perdere l’unica co-sa che possedeva: Memi. Memiche, oltre ad amarlo e accudirlo,pagava i suoi conti, sopportava lesue botte e taceva perché forsepensava di non poter meritare dimeglio. Ha accusato di complicitàStefano Denaro per vendicarsidell’uomo che riteneva essere lacausa del disamoramento delladonna. Dopo la follia ha agito contutta la freddezza e la consapevo-lezza che sono necessari per se-zionare un corpo, sfigurarne ilvolto per far sì che non si potessericonoscere la vittima nemmenoin caso di ritrovamento, ed infineoccultare il tutto.Questa confessione, insieme allatestimonianza di un collega, sca-gionano completamente StefanoDenaro, mentre l’ex marinaio, ol-tre ai reati di cui si è confessatoautore, assassinio, vilipendio dicadavere, dissezione e occulta-mento dello stesso, dovrà rispon-dere anche del reato di calunnia.Gli inquirenti, però, non chiudo-no l’istruttoria con la confessionedel Marchese, non essendo deltutto convinti riguardo al moven-te. Supponevano infatti, che que-sto in realtà, potesse essere di ca-rattere economico: l’assassinonon navigava in buone acque enon si erano ritrovati due librettidi risparmio ed alcuni oggettid’oro della defunta. A fine giu-

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gno, durante un’approfonditapulizia dell’appartamento, sonorinvenuti, nello stanzino in cuidormiva Giuseppe Cordioli, affit-tuario della vittima, i due librettiintestati alla Strapparava, unocon un deposito di 50 mila lire el’altro di 10 mila. Sembra cadereil movente del furto.Il 7 aprile 1951 prendeva il via ilprocesso più importante e attesodella Corte d’Assise, in cui furonogiudicati l’ex maresciallo di mari-na Alessandro Marchese e il fer-roviere Stefano Denaro. Il 10aprile si concluse la vicenda pena-

le di Alessandro Marchese conuna condanna a 30 anni di reclu-sione, mentre Stefano Denaro fuassolto con formula piena da ogniaccusa. Così commenta il fattoL’Arena dell’11 aprile 1951: “Siconclude così una tragica paginadella cronaca veronese; l’autore diuno dei più tremendi e impres-sionanti delitti del nostro tempo,comincia la sua espiazione. Lagiustizia, che è amministrata da-gli uomini ma si ispira a concettiche attingono alle ragioni supre-me dello spirito, lo ha raggiunto elo ha punito”.

Osteria di via Valverde, vicina alla pensione della Strapparava, frequentatadal Marchese.

Piazza Pozza nei pressi dell’officina meccanica in cui lavorava il Marchese.

L’officina di Goffredo Cabianca, in cui lavorava l’assassino, nel vicoletto ciecodi piazza Pozza.

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di Laura Muraro

Il tema delle “crociate contro lelucciole” ha occupato spesso, du-rante l’estate scorsa, le pagine deiquotidiani nazionali e locali inseguito ad alcuni provvedimentipresi anche dalla nuova Giuntacomunale di Verona.E così come al giorno d’oggi, purenel passato il “mestiere più anticodel mondo” fu oggetto di inter-venti da parte delle autorità pub-bliche della nostra città, che alter-narono periodi di indifferenza amomenti di rigore e repressione.Dalle cronache dei secoli scorsiemerge in particolare la storiacontroversa di una famosa mere-trice veronese vissuta nel XVI se-colo, Bernardina Ferrarese, e del-le sue “allieve-schiave” che aveva-no addirittura dai nove ai quin-dici anni.Si sa con sufficiente certezza chea quell’epoca molte prostitute ve-ronesi esercitavano la loro pro-fessione nel cuore della città: aSan Pietro Incarnario, a San Nic-colò, a sant’ Andrea e ancora sot-to gli arcovoli dell’Arena, così co-me è testimoniato da T. Folengonel Baldus (VIII 522-524).L’anfiteatro romano infatti era daalcuni secoli la forzata residenzadelle prostitute, dove queste era-no state relegate in seguito a dis-posizioni contenute negli statutialbertini (Alberto delle Scala) del1276 che recitavano “Item ordi-namus quod nulla meretrix pu-

blica vel ruffiana stare et habitaredebeat in civitate Verone vel bur-gis, excepto quod possint stare inArena”(cfr.Gli statuti veronesi del1276...a cura di G. Sandri vol.1.Venezia 1940).Qui erano rimaste fino alla finedel XV secolo, fin tanto che, acausa della continua asportazio-ne di pietre per la costruzione diedifici, era stato possibile trovar-vi riparo.Ma in qualche arcovolo, ancoraabitabile, alcune prostitute visse-ro fino al 1535 quando furono al-lontanate d’autorità per dar luo-go successivamente al restaurodell’Arena.Un illustre letterato e politico del‘500 è testimone e protagonistadi ciò: Niccolò Machiavelli in unalettera del 1509 a Luigi Guicciar-dini racconta dell’avventura oc-corsagli a Verona con una mere-trice «in una casa che è più dimezza sottoterra, né vi si vede lu-me se non per l’uscio» e che, se-condo Luigi Messedaglia in Vita ecostume della Rinascenza in Mer-lin Cocai, non può che essere unarcovolo dell’Arena.Inoltre la condizione delle prosti-tute e il loro mestiere erano notia tal punto alle autorità che que-ste donne figuravano nell’estimodi Verona con la chiara qualificadi meretrix.Proprio per questo motivo scon-certa la fine crudele e l’accani-mento subito da una di loro, lapiù famosa e forse la più ricca,

Bernardina Ferrerese, la cui vi-cenda è stata oggetto dell’atten-zione delle cronache sia del tem-po sia dei secoli successivi e chehanno dato vita a due differentiversioni relativamente alle causee alle conseguenze dell’interven-to delle autorità contro di lei.La versione che più a lungo haavuto credito presso gli storicidelle cose veronesi è quella diPlacido Piccoli, cancelliere del1735 che, nella prefazione all’in-ventario dei documenti patrimo-niali della S. Casa della Miseri-cordia, individuava in «danno,scandalo ed empietà» i motiviper cui le autorità veneziane nel1515 emanarono un pubblico de-creto con il quale l’«iniqua femi-na Bernardina Ferrarese... fu...arrestata, punita e tronca il naso,maltrattata così dal popolo chedopo essere stata condotta in lu-dibrio per la città, et alla fine ri-coverata semivivendo nell’ospe-dale di Pietà ivi disperatamentemorì...». Fu in seguito a questifatti poi che «alcune allieve dellasua (di Bernardina) brutale dot-trina... furono espulse dalla città,se si eccettuano quelle poche che,guaste del mal francese, furonoda alcuni pii uomini accolte, rin-corate e soccorse... ».Tra questi uomini di buon cuoresi cita lo spadaio Giacopo Anto-nio Ferrari, d’origine mantovanache «due di queste mal conciedonne ricoverò sotto i portici diSanta Agnese» (dove oggi si tro-

Storia

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I RISCHI DI UN MESTIERE ANTICO

A Bernardina Ferraresetagliarono il naso

Storia di una prostituta veronese dei primi anni del ’500, quando il meretricio siesercitava negli arcovoli dell’Arena e chi faceva questo mestiere era regolarmente

registrato. Era ricca e potente e forse per questo fece una fine orribile

Come al giornod’oggi, pure nel

passato il “mestierepiù antico del mondo”

fu oggetto diinterventi da parte

delle autoritàpubbliche della nostracittà, che alternarono

periodi di indifferenzaa momenti di rigore

e repressione

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va palazzo Barbieri, un tempoc’erano la chiesetta di santaAgnese e successivamente l’ospe-dale della Misericordia ndr) cosìda far fiorire «atti di carità doveinanzi spiravano sordidezze ebrutture».Dopo qualche mese lo spadaiomantovano non era più solo nel-la sua opera e così grazie ancheagli aiuti economici di altri «pie-tosi compagni» le povere donnefurono spostate proprio nelle ca-se difronte alla chiesa, dove pri-ma viveva Bernardina. Fu quelloil primo nucleo quindi dell’O-spedale S. Casa della Misericor-dia fondato il 3 marzo dello stes-so anno per «ricovero e asilo delliincurabili».Come si vede da una vicenda diabbruttimento e degrado sarebbenata una nobile iniziativa di soli-darietà e di dedizione al prossi-mo in difficoltà.Se non che Gian Paolo Marchi,docente di Letteratura italianapresso l’Università di Verona, nelsuo saggio “La vera storia dellaBernardina Ferrarese” dice che«il tradizionale racconto meritadi essere guardato con un certosospetto». Dalla lettura infatti diun’altra fonte storiografica, unabreve cronaca inedita di un ano-nimo veronese del ‘500, emergeinfatti una storia diversa.Innanzitutto le vicende sono am-bientate non nel 1515 ma nel1507, quando Berardina Ferrare-se, «la quale era stata una bellavacha et ha regnato molti anni ingran richeza, et tuto de meretri-cio l’aveva acquistato», tra l’altrocomprando giovani ragazze checostringeva alla prostituzione e alfurto, venne arrestata su ordinedel magnifico Podestà, messa allacorda e processata.Ma alle autorità ciò non bastava,come sottolinea l’autore («tamenl’era de volontà del magnificoPodestà e parte della corte la mo-risse...») che ne vollero appuntola morte.E così, letta in piazza dei Signoripubblicamente la sentenza, ladonna fu trasportata su un carrolegata ad un palo e condannata,oltre al pubblico ludibrio «a tor-no la piaza Grande per Corso a laBrà», a sevizie di ogni genere chel’anonimo descrive con macabraprecisione: ad essere «molto ben

frustà... bolata su la faza et le spa-le in cinque loghi... et ultimate lifosse cavato un occhio et tajato elnaso». La morte sopraggiunsequalche giorno dopo nell’ospe-dale di Pietà, presso il quale erastata portata ormai in fin di vita.La cronaca racconta poi come

anche la sua sepoltura fu tor-mentata e avvolta nella leggenda:«il suo corpo, rifiutato dalla terradella Rena, nella quale era statosepolto, una volta fu trovato ap-peso alla inferriata di una casa diun’altra meretrice veronese,un’altra volta in cima alla Rena eda ultimo presso l’Adige dove in-fine fu gettato e sparì».Ma come mai tanto accanimentoe tanta crudeltà contro una sem-plice prostituta? Quali erano levere ragioni che avevano spinto ilPodestà e la corte a volere la mor-te di Bernardina, che esercitavacome tante altre avevano fatto econtinuarono a fare?I motivi, secondo lo scritto delprof. Marchi sono ben altri e noncerto di carattere morale ma fi-

Storia

inVERONA 17

Sono due le versionirelativamente alle

cause e alleconseguenze

dell’intervento delleautorità contro

Bernardina...

Grazie allo spadaioGiacopo AntonioFerrari, di origine

mantovana, da unavicenda di abbrutimento e degrado sarebbe natauna nobile iniziativa

di solidarietà

Molte prostituteveronesi lavoravanonel cuore della città:

a San PietroIncarnario,

a San Niccolò, aSant’Andrea e ancora

sotto gli arcovolidell’Arena

L’ala dell’Arena e il sito destinato in un progetto cinquecentesco a LocusPostriboli, in una stampa ottocentesca

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nanziario: Bernardina Ferrarese,come testimonia peraltro la cro-naca del ‘500, era ricchissima e vi-veva in un lusso sfrenato. L’ano-nimo autore veronese favoleggiasui suoi beni parlando di «vesti-menti de oro e, de arzento... ri-cheze e zoie assai; mobili de casasenza mesura, fornita de coltre decremesi, de veludo negro et cumbalzane a torno a torno, coltrinede sede e raci et altri fornimentida letto estimati un precio innu-merebile... più di tremila duca-ti... una bella casa de lì pressoSanct’Agnese... tace anelli piro-ni... Animali in casa d’ogne sor-te: can zentili forse 30 de sorte,volpe, cunelli, oseletti... su unacarola adornatissima si faceva farvento le sue garzone...».Era quindi secondo il docenteuniversitario veronese «la più po-tente e la più ricca delle cortigianedel tempo: forse proprio per que-sto non figura nell’elenco deicontribuenti cittadini» come in-vece altre meretrici veronesi. Equesta invidiabile fortuna accu-mulata aveva spinto le autoritàveneziane a volerne la morte così

da potersene accaparrare partedei beni per poi venderli a favoredel fisco.Però non solo le cause ma anchele conseguenze di questa triste vi-cenda sono, secondo Marchi,molto meno nobili e moralmenteedificanti di quanto invece avevadetto il Piccoli.Infatti ad ostacolare i piani deiRettori veneziani arrivò l’ospeda-le di Pietà, dove Bernardina eramorta senza fare testamento, e alquale per statuto sarebbe dovutaandare l’intera eredità.Ne nacque perciò un contenzio-so legale che venne successiva-mente concluso (come risultadall’Archivio del Comune, reg. 16,f.56 v) con l’intervento salomo-nico del doge che stabilì che lacontroversia si fermasse sulle po-sizioni raggiunte: all’ospedaleandava tutta l’eredità ad eccezio-ne dei beni già incamerati e ven-duti (forse) dalle autorità vene-ziane per pagare le tasse.

Le immagini sono state gentilmente

concesse dalla Biblioteca Civica Co-

munale

Storia

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«La più potente e lapiù ricca delle

cortigiane del tempo:forse proprio per

questo non figuranell’elenco dei

contribuenti cittadini,come invece altre

meretrici veronesi.E questa invidiabilefortuna accumulata

aveva spinto leautorità veneziane avolerne la morte così

da poterseneaccaparrare parte

dei beni per poivenderli a favore

del fisco»

La Bra con, sulla sinistra, la sededella Casa della Misericordia

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LA CULTURA ITALIANA

FRA LE DUE GRANDI GUERRE

DEL ‘900

CON IL PATROCINIO DEL COMUNE DI VERONA

Seminario di studio

24-25 Gennaio 2008

Verona in collaborazione con:

Biblioteca Civica – Sala Farinati

Circolo Ufficiali del Presidio di Castelvecchio

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La cultura italiana fra le due grandi guerre del ’900

La cultura italiana fra le due grandi guerre

del ‘900

Il Seminario di Studio si propone, articolandosi in unaserie di relazioni specifiche, di proiezioni cinematogra-fiche, di materiale documentaristico di esaminare e ap-profondire il mondo della cultura italiana nel periodoche va dalla fine della prima guerra mondiale fino all’i-nizio della seconda.Non vi è chi non veda come il mondo culturale italiano,ma anche quello europeo in tutto il suo insieme, abbiaattraversato in questo periodo difficile e traumatico unpassaggio contrastato, contraddittorio, ma anche pie-no di fermenti.Il viaggio della cultura italiana con le sue nuove ten-denze e con l’affacciarsi di nuovi protagonisti avevaavuto già inizio prima dello scoppio della prima guerramondiale.Dal pensiero uscito dai fermenti nazionalisti ai preludidel futurismo, dai movimenti letterari che fanno capo aPrezzolini, Papini e a tutta la cultura fiorentina a quellamitteleuropea di Svevo, Stuparic e altri; dal pensierogobetiano a quello di Gramsci, da Croce a Gentile, daSpirito a D’Annunzio e Pirandello; attraverso queste fi-gure assieme a quelle di altri autori e pensatori qualiCecchi, Bacchelli, Saba, Ungaretti, Quasimodo, Mora-via, Vittorini, Pavese, Montale, Brancati, Pannunzio –e in certi casi perfino Bottai – si può costruire un itine-rario che ci consenta di approfondire situazioni am-bientali, ideologiche, politiche e personali influenti sullavita della cultura italiana.

La prima giornata, come dicevamo, sarà dedicata auna serie di relazioni specifiche, preparatorie alla rela-zione finale che avrà come il titolo “La seduzione delpotere, la macchina del consenso” (Dall’appoggio si-stematico all’industria cinematografica, alla creazionedell’EIAR: (Ente italiano Audizioni Radiofoniche); dall’i-stituzione del Centro Sperimentale di Cinematografia,alla costruzione di Cinecittà e alla nascita dell’IstitutoLUCE; dai Littoriali della cultura fino alla concentratainfluenza sul mondo accademico, sul mondo dell’infor-mazione e sulle imprese editoriali).La seconda giornata sarà dedicata alla cinematografiaitaliana dal ’20 al ’45, dai “telefoni bianchi” alle prime

avvisaglie del neorealismo che avrebbe caratterizzatola cinematografia italiana del secondo dopo guerra;con espresso riferimento ai giovani registi Rossellini,Comencini, Castellani, Blasetti, Lattuada Emmer e al-tri.

Vorremmo insomma raggiungere, o tentare di raggiun-gere, la descrizione di un paesaggio disegnato da per-sonaggi e da protagonisti attorno ai quali ancora si dis-cute; vorremmo cercare di penetrare nella sua comple-tezza il mondo della cultura italiana nella complessarealtà fascista dove, sotto la maschera immobile delregime, si agitavano, assieme a tanti compromessi, di-versi tentativi di rinnovamento e di apertura ad una cul-tura supernazionale.Dagli intellettuali, dagli ideologi, dagli scrittori che scel-sero o subirono un esilio duro e sofferto, a coloro chevivendo in Italia cercarono più o meno coerentementedi vivere e creare un mondo intellettuale adeguato epreparatorio di nuovi tempi.

Gli intenti di questo seminario, che può essere consi-derato estremamente ambizioso, sono quelli relativi aun tentativo di approfondimento e di ricerca che ha co-me principali destinatari soprattutto i giovani di questanuova generazione, molto spesso disinformati sul pe-riodo che noi desideriamo esaminare.

L’iniziativa voluta dall’Associazione Culturale DomusScaligera, con la collaborazione culturale specifica dellaBiblioteca Civica (anche per la valorizzazione della suanuova struttura) e del Circolo Ufficiali di Castelvecchioper la parte logistica, cinematografica ed espositiva, hanaturalmente richiesto quegli interventi e quei patrociniistituzionali, la collaborazione di altre associazioni cultu-rali, che certo contribuiscono a confermare la serietàdell’impegno culturale.Le relazioni e gli interventi saranno affidati a persone delmondo culturale veronese e italiano, tenendo conto delvalore e dello spessore degli argomenti che dovrannoessere programmati da un costituendo comitato promo-tore.

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La cultura italiana fra le due grandi guerre del ’900

PROGRAMMA

DI SVOLGIMENTO

DEL SEMINARIO DI STUDIO

24 Gennaio 2008 – Biblioteca Civica di Verona

Sala Farinati, ore 10.00

I lavori saranno preceduti dalla relazione introduttiva “Da Croce a Gentile”, per toccare, con una serie di altri interventi affidati a studiosi del tema del Convegno,

l’industria culturale in Italia, il percorso della letteratura italiana, l’orientamento delteatro

e del cinema, le arti, la scienza; per esaminare nel dettaglio l’organicità di un consenso e del formarsi di una prima fronda al regime.La prima giornata si concluderà con una relazione sul tema

“La seduzione del potere e la macchina del consenso”.

25 Gennaio 2008 – Circolo Ufficiali del Presidio di Castelvecchio

Salone d’onore, ore 10.00

Giornata non stop dedicata alla proiezione di film e documentari relativi all’epocaoggetto

del Seminario di Studio (in collaborazione con il Cineclub Verona). I film e i

«Con la sua retorica stregonesca plagia un popolo intero, lo disabitua all’esercizio della democrazia e ne ot-tiene un consenso acritico ed enfatico, senza basi reali, tanto che alla fine viene deposto dai suoi stessi se-guaci… Il tribunale della storia ha condannato Mussolini senza alcuna possibilità di riabilitazione. Ma al di làdella condanna c’è l’uomo, … un’arrivista pragmatico che voleva comandare,…che riesce a diventare il pa-drone d’Italia e che dichiara guerra a mezzo mondo; c’è un astuto manipolatore di folle e un grande comuni-catore che, dal balcone o attraverso i mass-media riesce a trasformare uomini comuni in piccoli super uominiin camicia nera, i protagonisti, ma anche in automi e vittime».

Antonio Spinosa, “Mussolini”

«C’è modo e modo di assistere allo spettacolo della storia: da un palco di proscenio, da una poltrona di primafila… Ma anche da un buco di serratura, essendo chiusi dentro o chiusi fuori (che è in pratica, lo stesso)».

Giovanni Giudici, “Eresia della Sera”

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pavese moravia brancati vittorini soldati montanelli pancrazi cecchi mascagni giordano

de chirico piacentini silone levi alvaro calamandrei gentile volpe croce valitutti d’amico

simoni gobetti enaudi pivano marinetti d’annunzio fabbri blasetti forzano rossellini moretti

comisso longanesi pannunzio spadolini albertini ungaretti mila prezzolini papini

quasimodo ojetti vergani jemolo marchesi zavattini sem benelli montale laterza

mondadori fermi caffè plebe buzzati gadda saba guttuso marotta salvemini russo pighi

pratolini fortini calvino mosca bontempelli cardarelli bacchelli gandolfi gramsci sarfatti

bonaiuti sereni campanile gemelli visconti valeri migliorini soffici vassalli piovene

mazzolari fortini longo de pisis asinetti chiarini aristarco chiarelli chiaromonte amendola

alicata bonaiuti toscanini pizzetti barilli tozzi borgese zanzotto angioletti argan argentieri

asor rosa baldacci barzini bo bobbio bertolucci petrolini tommaselli bernari bigiaretti

bodini sereni penna fellini siciliano manacorda borsa sapegno momigliano deledda

rebora campana govoni puccini gozzano corazzini pavolini serra roversi sanguinetti

slataper volponi montale palazzeschi jovine lucini luzi de benedetti de robertis cassola

bassani salvatorelli pende fermi comencini latuada de sica guareschi gatto geymonat

giacometti giannini ginzburg labriola lombardo – radice lussu maccari marconi malerba

manzù martini michetti abbiati modigliani morandi morante morlotti monelli pampaloni

pancrazi parise pintor silva manzoni d’amico bragaglia rosselli rosso di san secondo

sanesi savigno scarfoglio sinisgalli spagnoletti sturzo gonella tecchi treccani vigorelli

perosi luzzato galimberti dalla torre la pira guerra personè purificato volpicelli frediani

valori vedovato lilli fucini calcagno malagodi cibotto lamberti sorrentini montessori d’urso

ansaldo furst sbarbaro pizzetti dursi laiolo stuparich romano marinuzzi de sabata

castellani volpi preda beltrami dudovich jacovitti pavese moravia brancati vittorini soldati

montanelli pancrazi cecchi mascagni giordano de chirico piacentini silone levi alvaro

calamandrei gentile volpe croce valitutti d’amico simoni gobetti enaudi pivano marinetti

d’annunzio fabbri blasetti forzano rossellini moretti comisso longanesi pannunzio

spadolini albertini ungaretti mila prezzolini papini quasimodo ojetti vergani jemolo

marchesi zavattini sem benelli montale laterza mondadori fermi caffè plebe buzzati

gadda saba guttuso marotta salvemini russo pighi pratolini fortini calvino mosca

bontempelli cardarelli bacchelli gandolfi gramsci sarfatti bonaiuti sereni campanile gemelli

visconti valeri migliorini soffici vassalli piovene mazzolari fortini longo de pisis asinetti

chiarini aristarco chiarelli chiaromonte amendola alicata bonaiuti toscanini pizzetti barilli

tozzi borgese zanzotto angioletti argan argentieri asor rosa baldacci barzini bo bobbio

bertolucci petrolini tommaselli bernari bigiaretti bodini sereni penna fellini siciliano

manacorda borsa sapegno momigliano deledda rebora campana govoni puccini gozzano

LA SEDUZIONE DEL POTERE

LA MACCHINA DEL CONSENSO

La cultura italiana fra le due grandi guerre del ’900

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Storia

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IL RINASCIMENTO A VERONA

Il tempo in cui nelle casesi faceva buona musica

Verona nel ’500 diventa un centro d’irradiazione culturale fra i maggiori d’Italia.Sono gli anni del massimo splendore della Cappella musicale della cattedrale.

Nasce l’Accademia Filarmonica e proliferano i ridotti

Palazzo del Sammicheli situatonell’attuale corso Cavour.Al suo interno i Bevilacquaorganizzarono un ridottomusicale di altissimo livello

di Nicola Guerini

Il Rinascimento rappresenta lafioritura e il forte miglioramentodel livello professionale dell’am-biente musicale di Verona. Il climaculturale infatti richiama nella no-

stra città musici e maestri prove-nienti oltre che da diversi centriitaliani anche dall’area francese efiamminga. Al culmine del suosplendore cinquecentesco c’è laCappella musicale della cattedralecon la presenza di maestri del cali-bro di Jachet Berchem, fiammin-go, e il veronese Vincenzo Ruffo,formatosi nella Scuola degli Acco-liti. Egli fu prima insegnante e poimaestro di cappella dal 1550 al1563, anno in cui fu trasferito aMilano per volere del cardinaleCarlo Borromeo che in Ruffo rico-nosceva lo stile di una polifoniasacra “riformata” secondo i nuoviparametri del Concilio di Trento.Alla scuola di Vincenzo Ruffo siformarono altri musicisti moltoimportanti come Marc’AntonioIngegnieri (a sua volta maestro diClaudio Monteverdi a Cremona) eGio. Matteo Asola, in seguito allaguida della Cappella della nostracattedrale (1590-91).L’ambiente veronese non è fecon-do solo nell’ambito della musicasacra ma trova prestigio e soddi-sfazione anche nella produzioneprofana: Verona infatti diventa uncentro culturale d’irradiazione frai maggiori d’Italia.L’Accademia Filarmonica, sorta l’1maggio 1543 dalla fusione dellagià preesistente Filarmonica conl’Accademia Incatenata (alle duecitate si unirà nel 1564 una terzadetta “alla Vittoria”), diviene inquel periodo il canale preferenzia-le per la circolazione del reperto-

rio madrigalistico e centro di con-fluenza di questa produzione.Sono numerose le raccolte dedica-te alla “Nobile e virtuosa Accade-mia d’i Signori filarmonici vero-nesi”: da quella del fiammingoGiovan Nasco (1548) alle produ-zioni di Jaches de Wert, di Inge-gneri, Luca Marenzio e molti altriillustri compositori.I rapporti fra gli Accademici e laCappella della cattedrale divenne-ro intensi e sempre più stretti. Ri-cordiamo infatti che spesso gli Ac-cademici collaborarono con i mu-sici del Duomo nelle solennitàmaggiori e soprattutto per la ceri-monia che si tiene il primo mag-gio, data della fondazione dell’Ac-cademia. Sono frequenti i musici-sti che furono impegnati contem-poraneamente alle dipendenzedelle due istituzioni: VincenzoRuffo fu attivo dal 1551 al 52 pres-so la Cappella del Duomo oltre aricoprire l’incarico di “MastroMusicale dell’Accademia”. Nellostesso periodo la cultura cittadinasi sviluppava anche al di fuori delleistituzioni più importanti facendofiorire ritrovi artistici di stampointellettuale soprattutto nei salottidei palazzi nobiliari di Verona.Nella seconda metà del Cinque-cento spicca a Verona la figura delconte Mario Bevilacqua per la fa-ma di mecenate dell’arte, del colle-zionismo, ottimo intenditore d’ar-te e grande appassionato di musi-ca. Si ha notizia che già nel 1543 lacasa Bevilacqua ospitasse “una

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Storia

Dicembre 200724

Il conte Mario Bevilacqua

Il conte MarioBevilacqua organizzò

un ridotto musicalestipendiando buoni

musicisti edacquistando numerosistrumenti. Vi furono a

Verona altri ridottiprivati come quello

dei Ridolfi, diGiovanni Severino,

dei Giusti, diAlessandro

Lafranchino, diAlfonso Morando, i

quali mostravano unatendenza evolutiva nel

gusto musicale manessuno superava il

Bevilacqua nellosplendore, il livello

artistico e nellefinalità culturali

accolita “ di cultori della musica.Il nobile veronese infatti, nel pa-lazzo del Sammicheli situato nel-l’attuale corso Cavour, organizzòun ridotto (sede di un circolo)musicale stipendiando buonimusicisti ed acquistando nume-rosi strumenti. Vi furono a Vero-na altri ridotti privati come quel-lo dei Ridolfi, di Giovanni Severi-no, dei Giusti, di Alessandro La-franchino, di Alfonso Morando, iquali mostravano una tendenzaevolutiva nel gusto musicale manessuno superava il Bevilacquanello splendore, il livello artisticoe le finalità culturali. Il conte fumembro e padre dell’AccademiaFilarmonica e poi anche “Accade-mico forastiero aggregato” dell’O-limpico di Vicenza. Il luogo delridotto, la biblioteca e la galleria,nella quale il conte aveva raccol-to straordinari tesori, formavanoun’ottimo stimolo offerto al go-dimento alla Bellezza. Le primestampe dedicate al conte Bevi-lacqua segnano il periodo in cui ilridotto crebbe, diventato splendi-do dopo che il mecenate, avuta l’e-redità del fratello Camillo, lo arre-dò sontuosamente, acquistò stru-menti musicali e stipendiò i musi-cisti. Nel 1582 uscivano nellestampe di Angelo Gardano i “Ma-drigali di Paolo Masnelli Veronese,Organista nel Ridotto di Musicadell’Illustri Signori Bevilacqua”.Queste pagine erano dedicate “aiVirtuosissimi Musici dell’honora-tissimo Ridotto”.Fra questi Virtuosissimi eccellevaSebastiano Pigna che GabrieleMartinengo, dedicando due anniprima al Bevilacqua i Madrigali a 5voci lodava con queste parole:“Madrigali uditi nel suo onoratis-simo Ridotto di Musica... da queivirtuosissimi che li canteranno esopra tutti da M. Sebastiano Pignamio amicissimo”. Apprezzamentoconfermato poi da Leone Leoninel Quarto Libro de Madrigali a 5voci (1598).Sono pochissimi i dati in archivioche possano fornire un’immaginesoddisfacente della fama del Ri-dotto Bevilacqua nel panoramadella musica, certamente il più ce-lebre d’Italia nel ‘500. Di grandeimportanza è la quantità di operededicate al conte Mario “amico eprotettore della Musica e de’ Musi-ci” da Orazio Vecchi, Orlando di

Lasso a Filippo de Monte e LucaMarenzio. Tra i “virtuosissimi Mu-sici dell’honoratissimo ridotto”troviamo anche il giovane accolicoStefano Bernardi (1575-1637) cheporterà al massimo prestigio l’atti-vità della Cappella del Duomo.Con lui infatti la cappella fu tra leprime ad aderire alle nuove sensi-bilità della polifonia sacra in stile“policorale concertato” di matriceveneziana con i maestri G. M. Aso-la e I. Baccusi che ricoprirono lacarica fra il 1598 e il 1608. ConBernardi il complesso della Cap-pella si arricchì, oltre all’organo, dialtri strumenti come il cornetto, ilviolino e il trombone. Il suo profi-lo biografico e professionale si ar-ricchisce anche con il ruolo di can-tore dal 1602 al 1607 e con quellodi “Maestro delle Musiche” pressol’Accademia Filarmonica.Alla morte del conte Mario Bevi-lacqua (1 agosto 1593) le volontàdel testamento non furono tutterispettate: gli strumenti, circa ot-tanta, ad eccezione dell’organo,del regale e di alcune viole, furonoceduti con i libri a don GiovanniBattista Peretti, intimo e factotumdel conte, a saldo di un suo debito,nonostante fossero destinati allaFilarmonica. Successivamente ilnipote del Bevilacqua, il conteAlessandro, fu musicista sensibilee riaprì il ridotto coltivando l’atti-vità culturale lasciata dallo zio.Come già accennato prima l’am-biente culturale era così stimolan-te che anche in altre case facoltoseveronesi era possibile trovare unridotto dove circolava la culturadel tempo e dove musicisti e lette-rati di grido si incontravano.Un doveroso cenno merita PaoloNaldi che nella sua casa in contra-

da S.Stefano teneva un ridottomusicale. Verso la metà del ’500 lafamiglia Serego risulta essere unatra le maggiori casate del patrizia-to veronere. Nel 1558 il conteMarc’Antonio Serego stipendiavaun “maestro Bastian (Bormino)cantor” di anni 40. Il Serego fu“padre” della Filarmonica nel1577 e insieme a “D. Julio Peregri-no” segnò l’unione fra questa conl’Accademia “alla Vittoria”. Ancheil figlio, Giordano fu sensibilissi-mo alla musica e proprio per lenozze il musicista Paolo Bellasiogli dedicò nel 1591 i Madrigali a 3,a 4, a 5, a 6, a 7 e a 8 voci.Presso il palazzo del conte Agosti-no Giusti (suocero del conte Ma-rio Bevilacqua) nel 1584 fu inau-gurato un “ridotto letterario”.Marc’Antonio Ingegneri, dedi-candogli il Quarto libro dei ma-drigali a cinque voci (1584) ne at-testava la grande competenza estima. Di sicuro interesse è il cli-ma culturale che si respirarava an-che in casa di Pellegrino Ridolfi: idocumenti riportano infatti che il23 marzo 1543 si riunirono “partede li nob. Academici philarmoniciet cossì de l’Incatenati” per “farunion perfeta de Tutte due diteacademie”. Il giovane Leone Leoninel 1598 gli dedicò il suo Quartolibro dei madrigali a cinque voci,ricordando “il suo nobilissimo ri-dutto un Museo, anzi Parnaso”,retto dal Mag. Sig. Sebastiano Pi-gna musico eccellentissimo”.La ricca produzione di musichepolifoniche, monodiche e in stileconcertato fiorita a cavallo tra isecoli XVI e XVII, dimostra la vi-vacità culturale che confluiva aVerona attraverso le sue istitu-zioni armoniche conferendoleuna posizione di assoluto inte-resse nel panorama musicale deltempo che solo la grave calamitàdella peste nelle sua violenta de-cimazione del 1630 ne modificòil profilo. Non mancarono peròepisodi di rilievo, come il passag-gio in città de Maria Maddalenagranduchessa di Toscana e arci-duchessa d’Austria nell’ottobredel 1631, in cui le autorità citta-dine offrirono un sontuoso ban-chetto con musiche adatte, men-tre musiche sacre e solenni furo-no eseguite la mattina seguente,durante la messa celebrata in S.Anastasia.

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Storia

inVERONA 25

LA GUERRA DELLE BANDIERE

Policarpo Scarabello:martire o terrorista?

4 novembre 1920. Durante la guerra delle bandiere fascisti e socialisti si scontranoin città. Una bomba a mano che il parlamentare Scarabello tiene in tasca esplode

dilaniandolo. A lui la giunta del sindaco Gozzi dedicò una via

di Massimo Rimpici

Forse il sindaco Tosi e la giunta diVerona non lo sanno, ma con ladedica di una via a Nicola Pasetto(25 voti favorevoli e 10 contrarinella seduta del primo agosto2007), deputato del Msi e poi diAlleanza nazionale, hanno com-piuto una sorta di par condicio. Sìperché nel lontano 5 marzo del1979, la Giunta del sindaco Rena-to Gozzi aveva deciso di intitolareuna via anche a Policarpo Scara-bello: esponente dell’ala massi-malista del Partito Socialista Ita-liano.Come mai il sindaco Gozzi (insie-me alla Giunta di centro-sinistra)hanno preso quella decisione? Echi era, cosa ha fatto il deputatosocialista? La motivazione si è persa, pur-troppo, nei depositi polverosi emale organizzati dell’Ufficio To-ponomastica del Comune di Ve-rona. L’unica cosa che si riesce aconoscere è la composizione del-l’allora Commissione comunaledi Toponomastica guidata dalpresidente geometra Delio DallePezze, e composta anche dal pro-fessor Gino Beltramini, da Corra-dino Corsini, dal professor Alber-to De Mori e da Giorgio Forne-ron che nelle sedute del 3 novem-bre e del 19 dicembre 1978 hannoespresso parere favorevole all’at-tribuzione ad alcune aree di cir-colazione ben identificate deter-minati topònimi, fra i quali risul-

vinciali: per i socialisti il tricolorecon al centro lo stemma della mo-narchia rappresentava “l’Italia deipescecani, quattro anni di guerrae di odio selvaggio tra proletarifratelli per difendere gli interessidel capitalismo”. I fascisti invece,proprio in occasione della ricor-renza del 4 novembre, fecero ope-ra di propaganda affinché quellabandiera venisse esposta su tutti ibalconi e le finestre della città.Per tutta risposta i socialisti – cheguidavano, come si è detto, ilConsiglio comunale e provincialedella città – fecero issare sugli edi-fici pubblici le bandiere rosse.È una delle prime volte che i rap-presentanti del neonato movi-mento fascista veronese (sostenu-to e osannato dal quotidiano lo-cale L’Arena, guidato dal direttore– fascista della prima ora – Gio-vanni Cenzato) prendono l’ini-ziativa e il giorno della ricorren-za, il 4 novembre 1920 appunto,armi in pugno si dirigono in piaz-za Brà decisi ad ammainare l’o-diato vessillo rosso dal pennonedel Municipio.I socialisti si barricano in Comu-ne. Da fuori i fascisti tentano diforzare l’ingresso posteriore. Nonsi sa bene quale esponente di qua-le gruppo spara il primo colpo di

I socialisti si barricanoin Comune. Da fuori i

fascisti tentano diforzare l’ingresso

posteriore. Non si sabene quale esponente

di quale gruppo sparail primo colpo dirivoltella contro

l’avversario, sta difatto che nel giro di

pochissimi minuti siconsuma la tragedia

Policarpo Scarabello

L’“episodio Scarabello” lascerà un segno indelebilenella storia della città. Ad esso si fa risalire l’avvio e

il decollo del ventennio fascista veronese

ta quello appunto di via Policar-po Scarabello “1883-1920 – recitala descrizione – da via S.Marco 71a nuova strada del PRG”.Risaliamo a quel tragico 4 no-vembre del 1920 (anniversariodella vittoria e della fine della pri-ma guerra mondiale) quando incircostanze non ancora del tuttolimpide il deputato socialista per-de la vita a causa dell’esplosionedi una bomba a mano.I fatti raccontano della battaglia –tutta ideologica – innestata daquella che passerà alla storia co-me la “guerra delle bandiere” al-l’indomani della vittoria sociali-sta alle elezioni municipali e pro-

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Storia

Dicembre 200726

rivoltella contro l’avversario, stadi fatto che nel giro di pochissimiminuti si consuma la tragedia:esplode una bomba a mano emuore dilaniato dalla stessa ilparlamentare veronese PolicarpoScarabello.Inizialmente i socialisti gridanoall’assassinio, successivamente –anche a seguito della testimo-nianza di un vigile urbano pre-sente sulla scena della disgrazia –la versione ufficiale sostiene chela bomba si trovasse nelle taschedell’esponente socialista e chenell’atto di gettarla contro i fasci-sti che si trovavano nel cortilesbatte contro lo stipite della fine-stra ed esplode.Questa versione dei fatti però ver-rà contestata sessant’anni più tar-di dalla famiglia di Scarabello esoprattutto dalla figlia più giova-ne dell’onorevole, Factma. Laquale riporta la versione di Giu-seppe Mondini, amico fraterno diScarabello, che il giorno della tra-gedia era proprio accanto al par-lamentare socialista. Mondini –per la cronaca – raccoglierà edesaudirà le ultime volontà espres-se dal suo amico Policarpo «tiraccomando la mia famiglia»:sposerà infatti la vedova di Scara-bello, Myriam Dal Palù ed accu-dirà ai suoi tre figli.Per tornare a quel maledetto 4novembre, Mondini sosterrà perbocca della figliastra Factma chela bomba in Municipio l’avevaportata un giovane al quale Sca-

rabello decide di requisirla per ti-more che questi non fosse in gra-do di maneggiarla. Nel riporlanella propria tasca l’ordignoesplode. A sostegno di questa tesiFactma Scarabello consegna algiornalista de L’Arena che racco-glie l’intervista una foto della saladel Municipio con la chiazza disangue di suo padre causata dal-l’esplosione.A differenza di quanto riportatodai testimoni precedentemente, ilsangue si trova al centro della sa-la e non vicino allo stipite dellafinestra dalla quale – secondo l’exsquadrista Bruno Zeni – Scara-bello tentò, senza riuscirci, dilanciare la bomba a mano controgli avversari politici.Ancora oggi gli storici non han-no fatto piena luce sulla dinami-ca degli eventi e pertanto per-mangono entrambe le diverseversione dei fatti.Ad onor del vero bisognerebbeperò aggiungere un ultimo parti-colare relativo all’ordigno: si trat-terebbe infatti di una bomba amano di marca “Sipe” che all’e-poca – per esplodere – era statadotata di sistema di accensione afrizione su capocchia infiamma-bile. In buona sostanza – acci-dentalmente o meno – per esplo-dere la bomba avrebbe avuto bi-sogno di essere accesa dalla mic-cia presente nella parte superioredella granata.Resta fondamentale il ruolo poli-tico (non solo veronese) svolto

Tra le ipotesi anchequella sostenuta dallafiglia Factma secondo

cui la bomba inMunicipio l’aveva

portata un giovane alquale Scarabello

decise di requisirla pertimore che questi non

fosse in grado dimaneggiarla. Nel

riporla nella propriatasca l’ordigno era

esploso

dal socialista Policarpo Scarabel-lo nell’arco delle sua breve esi-stenza. Fu uno degli esponenti dispicco del partito e da sempresorvegliato speciale della polizia“regia”. La sua carriera politicaparte molto presto: in un primomomento come redattore del set-timanale La Semente, quindi co-me collaboratore di UmanitàNuova. In seguito si distingueràcome presidente della Cooperati-va tipografica della Casa del Po-polo di Verona e dell’Aziendaelettrica comunale. Ferroviere,durante la sua permanenza aLucca fonda la Camera del Lavo-ro di quella città e diventa presi-dente della locale Cooperativaferroviaria.L’“episodio Scarabello”, almenoper Verona, lascerà comunque unsegno indelebile ed inequivoca-bile nella storia della città. Ad es-so si fa risalire l’avvio e il decollodel ventennio fascista veronese.Scrive Maurizio Zangarini, presi-dente dell’Istituto veronese per lastoria della Resistenza, nel suo li-bro Verona Fascista: “...forse i fa-scisti avevano bisogno proprio diquesto, di quel colpo di fortunache, mostrandoli per una voltainnocenti del sangue sparso, nesottolineasse, esaltandoli, i tantoconclamati fondamenti demo-cratici... Sta di fatto che si può fardata da quel momento per segui-re lo sviluppo del fascio e dellanascita a Verona delle sezioni lo-cali...”.

6 novembre 1920. Una raraimmagine dei funerali

di Policarpo Scarabello.Piazza Bra è gremita di gente

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Personaggi

Dicembre 200728

di Oreste Mario Dall’Argine

Nel 1948 il Teatro alla Scala diMilano, propose a Renato Simonila regia del Barbiere di Siviglia diRossini. La notizia rimbalzò a Ve-rona e il sindaco di allora, AldoFedeli, pensò con altri amici diproporre al loro concittadino latrasposizione dell’opera in Are-na; ma Simoni, pur nel rispettodella proposta, disse che nonavrebbe mai accettato l’idea diessere regista di un’opera lirica«di prosa, sì!».Così la sera del 26 giugno del1948, alla presenza del capo delloStato Luigi Einaudi, con il capola-voro shakespeariano Romeo andJuliet, per la sua regia e come pro-tagonisti Giorgio De Lullo e EddaAlbertini nacque quell’Estate Tea-trale Veronese che doveva affer-marsi negli anni seguenti comegrande e unico Festival Shake-speariano italiano con il contri-buto e la partecipazione dei piùgrandi attori e registi italiani e in-ternazionali.Simoni nasce a Verona nel 1875 emuore a Milano nel 1952. Tea-trante nel senso nobile della paro-la, e nello stesso senso galantuo-mo nella vita e nella professione,studioso colto e mai chiuso all’a-prirsi di nuovi sipari, fu amico ri-spettato e rispettoso del lavoro ditutti i teatranti che ascoltò e fre-quentò dalla sua poltrona di criti-co e dalla sua scrivania del Corrie-re della Sera. È stato con Barbara-

ni e Dall’Oca Bianca un protago-nista di quel trio che esaltò Vero-na nella sua bellezza e nella suastoria, insegnando ai veronesistessi come amare e rispettare laloro città.“Il teatro per Simoni aveva i colo-ri e gli umori del suo dialetto, laluce dei suoi cieli veneti: la scrit-tura, il modo di porgere – fatto digrazia e di malizia, liquido e at-tento, con l’aggettivo sempre ade-rente in punta di penna – fannodi lui un maestro di stile… La co-noscenza, diciamo la parola, lacultura – profonda, minuziosa fi-no al dettaglio – non pesava maima filtrava fra le righe come filoprezioso per un arazzo che avevasempre una personale nota cro-matica. Più che “criticare” Simoniamava rivivere e far rivivere la fa-tica della creazione…”. (MarioBonetti - Cara gente di Teatro).Il mondo teatrale italiano devetanto a Simoni, così come moltiprotagonisti dell’universo scenicosono legati al suo nome per l’at-tenzione e umana passione dimaestro nascosto che Simoni do-nò loro. Valga per tutti, anche perstare in tempi relativamente vici-ni, la parte, spesso misconosciuta,che ebbe nella nascita e nei suc-cessi del Piccolo Teatro di Milano.Quando nel 1948 due giovani,Paolo Grassi e Giorgio Strehler,decisero, dopo un avventurososopralluogo a un edificio semi di-strutto in Via Rovello a Milano,che in quel posto sarebbe nato un

teatro, prima di recarsi dal sinda-co di allora Antonio Greppi, vol-lero parlare con Simoni. L’ormaianziano critico ascoltò con atten-zione l’appassionata perorazionedei due giovanotti senza mai in-terromperli; alla fine, usando ilsuo dialetto veronese, disse:«Guardate ragazzi, in teatro ne hoviste tante, ma come questa, dipazzie una sola, la vostra». Grassie Strehler avevano così compresodi avere dalla loro parte una voceimportante e lasciarono Simoniai suoi pensieri. Pensieri che sitramutarono in aiuti concreti coninterventi decisi e determinantipresso l’Amministrazione comu-nale e le altre istituzioni.Così quando il 15 maggio 1947 IlPiccolo di Milano debuttò conL’albergo dei Poveri di Gorkj, conun successo imprevedibile, siglatodalla recensione firmata R.S. sulCorriere della sera del giorno do-po, a chi gli chiedeva commenti epareri su questa avventura teatra-le, Simoni diceva «Sti putei qua,stò Grassi, stò Strehler i farà stra-da, te lo digo mi». Ma Paolo Gras-si, che non era certamente uomoda abbandonarsi a cerimoniosisentimentalismi, quando nel1953 Brecht venne a Milano allaprima del suo capolavoro L’Operada Tre Soldi, gli disse: «Questo ri-sultato ha un protagonista lonta-no, Renato Simoni».Formatosi alla scuola di quelgiornalismo veneto che tante fir-me diede alla nostra carta stam-

ANNIVERSARIO

Renato Simoni e i 60 anni dell’Estate Teatrale Veronese

Gli spettacoli al Teatro Romano iniziarono nel giugno del 1948 con Romeo and Juliet di Shakespeare. Simoni, Barbarani e Dall’Oca Bianca:

un trio che esaltò Verona nella sua bellezza e nella sua storia

Simoni si formò alla scuola di quel

giornalismo venetoche tante firme diedealla carta stampata,alla letteratura, alla

poesia; egli aveva dellacronaca il rispetto e laconcezione della base

dell’informazione

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pata, alla nostra letteratura, allanostra poesia; cronista, egli avevadella cronaca il rispetto e la con-cezione della base dell’informa-zione. Tanto che volle sempre chele sue famose critiche teatrali fos-sero chiamate “cronache”. Comecritico ebbe sempre la percezionedei limiti e del rispetto che unospettatore, pur privilegiato comelui, doveva avere verso il palcosce-nico, l’autore e gli attori.La sua poltrona a teatro era il suobanco di scuola e mai pensò di sa-lire in cattedra; capiva e conosce-va la fatica quotidiana dell’attore,dal protagonista all’ultima com-parsa e per questo non usò mainelle sue cronache quegli apprez-zamenti o quelle espressioni divolgare dileggio che oggi, purnelle scarsissime recensioni tea-trali, pseudo critici intellettualiusano offensivamente per stron-care autori e attori. Scriveva per ilpubblico, così come aveva impa-rato a scrivere le cronache quan-do era giovane praticante.Preciso, dettagliato fino alla con-ta degli applausi e delle disappro-vazioni e delle loro durate, non

tralasciava di nominare alcun in-terprete, porgendo a ognuno unaggettivo appropriato. Ripudiòsempre la sbrigativa formula“Bravi gli altri”, che concludeva,d’uso, le consuete critiche teatra-li. Le sue cronache avevano rego-le e argini precisi soffriva per icosì detti fiaschi, anche se questifanno parte naturale della vitadel teatro; ma Simoni, che nellasua esperienza fu anche un serioautore, non avrebbe mai volutovedere cadere morta una fogliasu un palcoscenico. Sapeva segui-re l’avvenimento scenico senzadimenticare o trascurare l’atteg-giamento, gli uomini e le reazionidel pubblico. Con molti grandi eanche attori minori ebbe profon-de amicizie donando loro con ge-nerosità consigli e suggerimenti.Principe della critica con D’Ami-co, anzi riformatore delle crona-che teatrali, il suo amore per ilteatro lo riversò anche nelle suecreazioni; nelle sue creature pro-tagoniste delle commedie chemolti supponenti studiosi spessohanno relegato nel repertorio delvernacolo veneto, mentre erano

dense di grande dignità, di ric-chezza umana e saggezza teatrale.A proposito di Simoni autorescrive Giuseppe Brugnoli: “Rena-to Simoni fu a suo modo un in-novatore;… svolgendo insiemeun’opera accorta di ripulitura dellinguaggio da tanti solecismi ver-nacoli che da Goldoni in poi ave-vano trasformato prima le ma-schere in personaggi, poi questiin macchiette. Dopo un secolo, sipuò dire che Simoni fu l’ultimocommediografo del teatro vene-to… La Vedova (1902), CarloGozzi (1908), Tramonto (1906),Congedo (1910), Il Matrimonio diCasanova (1910) sono quelle suecreazioni che gli consentono distare nel Pantheon del teatro ita-liano del primo ‘900”.Scrisse tanto altro: Piccola storiadi Arlecchino e c. (1946), Uominie cose di ieri (1952), Trent’anni dicronaca drammatica, a cura diLucio Ridenti, che iniziata nel1952 fu completata nel 1960, percitare le realizzazioni più impor-tanti.Collaborò alla stesura dei testidella Turandot di Puccini e a Ma-dame Saint Genes di Giordano.Legato al suo nome è anche ilgiornale La Tradotta, che nellaprima guerra mondiale redigevaal fronte con altre preziose firmecon le stellette. Fu anche registadi prosa, preciso, attento, maidissacratore e da questa sua voca-zione nacque, quasi per caso, l’i-dea delle magnifiche notti shake-speariane in riva all’Adige, nellospazio del Teatro Romano.Simoni muore mentre nella suacittà natale si prepara la messa inscena del Sogno di una notte dimezza estate, al Giardino Giusti.All’invito rivoltogli dagli orga-nizzatori perché assistesse allaprima, con un cuore ormai dive-nuto povero di battiti, si scusòcon essi e con Verona con questeultime parole «Sono tormentatodal respiro difficile. Ogni movi-mento mi spossa. Scusatemi. Mail’anima mia si è così protesa ver-so Verona in questi anni di me-moria e di addio». Lo vediamo,ancora seduto sulla sua poltronadi teatro, salutarci così con le ul-time battute del congedo: «Biso-gna che ve veda tanto, tuti, perportar via più che posso de vual-tri…».

La sua poltrona a teatro era il suo

banco di scuola e maipensò di salire in

cattedra; capiva econosceva la fatica

quotidiana dell’attore,dal protagonista

all’ultima comparsa eper questo non usò

mai nelle sue cronachequelle espressioni divolgare dileggio chevanno di moda per

stroncare autori eattori. Scriveva per il

pubblico, così comeaveva imparato a

scrivere le cronachequando era giovane

praticante

Personaggi

Renato Simoni

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di Alice Castellani

Uno dei grandi protagonisti dellaVerona culturale del primo Nove-cento (morì il 9 ottobre 1961) fuAntonio Avena, urbanista “esile manon fragile, tutto spirito, vivacitàed intelligenza” che dedicò tutta lasua lunga vita (era nato a Verona il23 maggio 1882) allo studio ed allavalorizzazione dei monumenti cit-tadini e della provincia. Apparte-neva ad una famiglia di commer-cianti che lo battezzarono AntonioBenvenuto Angelo Santo, ma ri-mase orfano di padre a soli sei an-ni. Unico maschio della sua nume-rosa famiglia, gli fu data la possibi-lità di studiare e, precocissimo, fuiscritto in terza elementare. Si lau-reò poi in lettere a Padova con ap-profonditi studi sul Petrarca ed

iniziò la sua carriera dapprima in-segnando nelle scuole cittadine equindi come vicebibliotecario del-la Civica di Verona, divenendo poibibliotecario, per passare infine,nel 1915, alla direzione dei Musei edelle Gallerie comunali (che man-tenne fino al 1955). Inizialmenterivolse i suoi interessi a letteraturae filologia, poi alla museologia ve-ronese e alle raccolte d’arte delMuseo Civico, che allora raccoglie-va, a Palazzo Pompei, tutte le colle-zioni archeologiche, artistiche enaturalistiche del Comune, cui de-dicò alcuni importanti studi. Fuproprio lui a convincere l’Ammi-nistrazione della necessità di tra-sferire in apposita e degna sede lecollezioni d’arte, di pittura e scul-tura in primis, divenute patrimo-nio della città, quelle delle chiese

soppresse dal demanio e i molti ca-polavori di diverse raccolte private,come quella del Monga, del Berna-sconi e dello stesso Pompei. A lui sideve dunque, tra il 1924 e il 1926, ilriscatto di Castelvecchio, destinatoda caserma a sede di uno dei piùprestigiosi musei civici del NordItalia, restaurato su progetto d’altrima da lui stesso arredato “in stile”,con finestre, fontane, portali etc.giunti da palazzi veronesi distrutti.In seguito diede vita al Museo Ar-cheologico al Teatro Romano, dicui proseguì gli scavi, e creò la Gal-leria d’Arte moderna ed il Museodel Risorgimento, presso il sette-centesco Palazzo Emilei donato alComune. Intorno agli anni Trentafece restaurare i palazzi scaligeri,ora sede di Amministrazione Pro-vinciale e Prefettura, e l’Arco deiGavi, i cui resti giacevano dall’epo-ca napoleonica negli arcovoli del-l’Arena. Nel 1930 partecipò anchead un particolare allestimento, al-lora ritenuto ardito e rivoluziona-rio, delle scenografie del Boris,abolendo le limitazioni del palco-scenico e creando “scene plastiche”che potevano spostarsi su piani in-clinati. Suoi anche alcuni progetti,solo in parte realizzati, per la siste-mazione a parco pubblico dei ba-stioni di Verona, da abbellire convecchi dispositivi bellici, e il recu-pero delle preziose vesti di seteorientali, di gran valore storico edocumentale, di Cangrande dallasua tomba. Ad Avena si devono an-che una quantità di pubblicazioni

Personaggi

Dicembre 200730

UN GRANDE URBANISTA DEL ’900

Ha creato i luoghidi Giulietta e Romeo

Antonio Avena dedicò la sua vita alla valorizzazione dei monumenti cittadini.Grazie a lui sono nati gli spazi dove collocare la tragedia di Shakespeare

Intorno agli anniTrenta Avena fece

restaurare i palazziscaligeri e l’Arco dei

Gavi, i cui restigiacevano dall’epoca

napoleonica negliarcovoli dell’Arena

Page 31: Verona In 17/2007

su aspetti e problemi dell’arte ve-ronese: alcune centinaia di titoli fravolumi, saggi, articoli e altro.Ma forse il progetto che meglio lorappresenta e che merita di esserescandagliato più a fondo per la suaprofonda lungimiranza è quelloche dedicò, in tempi ben lontanidall’attuale turismo di massa, allasistemazione delle cosiddetteTomba di Giulietta e Casa di Giu-lietta, con annesso “storico” balco-ne. È grazie ad Antonio Avena chei visitatori da ogni dove possonooggi trovare a Verona dei luoghi daammirare e dove collocare la tra-gedia dell’eroina immortalata daShakespeare, altamente scenogra-fici e suggestivi seppur poco ri-spettosi della verità storica. Giàdalle prime stesure, e poi nella piùcelebre versione shakespeariana, latragedia di Giulietta e Romeo e delloro infelice amore ambienta isuoi momenti chiave in due luo-ghi precisi: Casa Capuleti, teatrodella festa che vede il primo incon-tro tra i due giovani delle nobili fa-miglie nemiche, lo scoccare delcolpo di fulmine e il romanticocolloquio al balcone e, non menorilevante, la tomba di famiglia deiCapuleti, dove tutta Verona ac-compagna il feretro di Giuliettache si fa credere morta per evitareil matrimonio combinatole dalpadre, ignaro delle nozze già avve-nute con Romeo. Ovvero il luogodove il dramma trova il suo com-pimento: la morte per veleno diRomeo, ignaro della messinscena,e il finale suicidio di Giulietta chesi pugnala sul corpo dell’amato.Se casa Capuleti trovò posto in unedificio duecentesco sito a metàdella centralissima Via Cappello, latomba di Giulietta, così come laconosciamo oggi, risale al 1937,quando Avena decise di dare unnuovo volto al luogo identificatocome sede della sepoltura dellabella Giulietta, collocandola tra lemura dell’antico ex convento diSan Francesco al Corso, appenafuori da quelle mura oltre le quali,per l’esiliato Romeo, “non c’è piùnulla all’infuori del purgatorio,della tortura e dell’inferno stesso”.Nell’orto dell’ex convento giaceva,forse da secoli e soggetto alle in-temperie, un antico sarcofago dimarmo rosso, un avello forse d’etàromana, privo di coperchio e com-pletamente vuoto, identificato co-

me tomba di Giulietta già a inizioOttocento e meta di pellegrinaggiod’illustri visitatori, come Madamede Stael, George Byron, Maria Lui-sa d’Austria (vedova di Napoleo-ne), Antoine Claude Valéry, Hein-rich Heine, Alfred de Musset e al-tri. Il convento era allora delleFranceschine, che aprivano “uncancello sgangherato” per mostra-re a chi ne aveva sentito parlare ilsarcofago di Giulietta, che pocoimpressionò Charles Dickens, chelo raccontò in Pictures from Italy(1846). Già dal 1932 Avena medi-tava di dar vita ad un museo shake-speariano, per celebrare la leggen-

finitiva alla trasformazione delluogo che accoglieva la tomba diGiulietta: il soggiorno a Veronadella troupe della Metro GoldwinMayer, il colosso cinematograficostatunitense, alla ricerca di am-bientazioni ideali per un nuovocolossal su Giulietta e Romeo.Avena divenne subito il consulen-te dei cineasti americani, che purprendendo spunto dal soggiornosulle rive dell’Adige decisero dicreare una città di scenografie deltutto fantastica per il film firmatodalla regia di George Cukor, conprotagonisti Norma Shearer(Giulietta), Leslie Howard (Ro-

Personaggi

inVERONA 31

da che dava fama a Verona, cosa te-stimoniata dallo statuto di una mainata “Società del museo Giulietta eRomeo”, che doveva – recita la boz-za dello stesso Avena – “raccoglie-re, conservare, esporre ed illustrarein uno speciale museo tutto quan-to nel campo delle lettere, dei co-stumi, e delle arti belle ha avuto edabbia riferimento alla leggendariavicenda degli amori di GiuliettaCapuleti e Romeo Montecchi”. Se-condo le intenzioni di Avena, il Co-mune avrebbe affidato all’associa-zione sia le case sia la tomba degliinnamorati, e la società se ne sa-rebbe assunta “la piena e diligentemanutenzione, coll’apertura alpubblico (gratuita in certi giornidella settimana) e coll’illustrazionegratuita periodica del museo me-diante conferenze, lezioni, concorsistorici, letture e simili”, reinvesten-do tutti i proventi nel museo. Diquel progetto non se ne fece nulla equalche anno dopo fu un altro im-portante evento a dare la spinta de-

meo) e John Barrymore (Mercu-zio). Fu sull’onda dello straordina-rio successo della pellicola (uscitanel 1936) che Avena, immaginan-do un imminente e grandioso af-flusso di turisti a Verona, tutti allaricerca dei luoghi così ben descrittinel film, decise di dare al sarcofagouna cornice di maggiore suggestio-ne, visto che la scena finale deldoppio suicidio nel film non sisvolgeva nel chiostro del conventoma in una cripta. E così Avena ot-tenne dalla Soprintendenza l’au-torizzazione per realizzare unnuovo e più degno accesso alchiostro, e trasferì la tomba – co-me scrisse Alfredo Barbacci, alloraSoprintendente – “in due vanisotterranei d’ignota destinazione,probabilmente cantina, camuffatia imitazione di cripta”. E così ilmito fu trasformato in una realtàche conta oggi su un numero in-calcolabile di visitatori da tutto ilmondo, quasi sempre compresanei classici tour di visita a Verona.

Tra il 1924 e il 1926,ottenne il riscatto di Castelvecchio,

destinato da casermaa sede di uno dei più

prestigiosi musei civicidel Nord Italia. Diede

vita al MuseoArcheologico al Teatro

Romano, di cuiproseguì gli scavi, creò

la Galleria d’Artemoderna e il Museo

del Risorgimento,presso il settecentesco

Palazzo Emilei donatoal Comune

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Dicembre 200732

di Aldo Ridolfi

Straordinario! Imposti la via, il nu-mero civico, la città e come per in-canto arrivi dalla zia Maria che tiaspetta da tempo, da tanto di queltempo che hai perfino dimentica-to la strada. Una voce non piùfredda e metallica ti guida condolcezza; su un piccolo schermoimmagini in continuo movimen-to disegnano per te complessiraccordi, infinite periferie, tan-genziali trafficatissime. Mentreguidi, un senso di grande serenitàinvade il tuo essere, ma, devi am-metterlo, se ne va anche quel po-co (o tanto) di avventura e di in-certezza che consultare una cartastradale portava con sé.

La vecchia cartografia non c’è più!L’ultimo sogno di inguaribili ro-mantici sembra stia definitiva-mente svanendo! Scompaiono ilprofilo dell’isola del tesoro stam-pata nelle prime pagine del rac-conto di Stevenson e la “Pianta del-le montagne di San Nicola” che fada apparato illustrativo al Bàrnabodelle montagne, storia raccontatacon un fil di voce, quasi sussurran-do, da Dino Buzzati. E poi, com’è edov’è la cartografia vecchissima,quella, addirittura, del 1400! Quel-la conservata negli archivi, cosìlontana, così diversa dalla nostra!Quella venuta alla luce quando di-segnatori, spesso ignoti, tentavano,incatenati alla terra, di vedere, uto-pia delle utopie, il mondo dall’alto!

A quelle altezze è certo salito an-che Giovanni Pisato, l’autore del-la “Carta della Lombardia”, undocumento straordinario con-servato nella Biblioteca comuna-le di Treviso. Si chiama, appunto,“Carta della Lombardia”, ma vi èrappresentato anche buona partedel veronese. Giovanni Pisato,per dipingerla, si è idealmentesollevato in volo e per lungo tem-po ha osservato la terra tra le Alpie il Po. Ne ha tratto un disegnooriginale, unico nella sua eviden-te forzatura. Ovunque fiumi lar-ghi quanto il Nilo, castelli, im-pressionanti cortine di mura,torri imponenti, merlature, ves-silli dei Visconti e della Serenissi-ma, ponti in legno e in mattoni.

TERRITORIO

Quando non c’erail navigatore satellitare

Nella Carta del Pisato è rappresentato anche il territorio veronese. Un disegnostraordinario tracciato da una prospettiva aerea. Ma siamo solo nel 1400

La Carta della Lombardia di G. Pisato

La vecchia cartografianon c’è più!

Scompaiono il profilodell’isola del tesoro

stampata nelle primepagine del racconto diStevenson e la “Piantadelle montagne di San

Nicola” che fa daapparato illustrativo

al Bàrnabo dellemontagne di Buzzati

Page 33: Verona In 17/2007

La campagna appare come fago-citata dall’incastellamento; ara-tri, erpici e falci sembrano bandi-ti a vantaggio di una visione mili-tare che fa del castello l’essenzastessa di tutta la Terra. Visibilissi-ma è l’imponente muraglia tra“Vila Francha” e “Valezo”, il Ser-raglio, opera di origine scaligera;a nord della città, con sottile eminuta grafia a caratteri semigo-tici, compare il toponimo “Valpolexela”, e, nell’estremità in bas-so (cioè a est), ci sono Soave e“Chaldiero” con i loro manieri.“Lignago” emerge nitidissimonella pianura e un ponte gigante-sco lo collega a Porto. La fortezzadi Peschiera supera per impo-nenza la stessa città di Verona. IlGarda, “orribilmente” deforma-to, accorciato, deturpato (ma nonsono, questi, giudizi cartografici)pullula di barche, come gli altrilaghi prealpini; lungo la sua rivaoccidentale emergono nitidissi-mi Lazise e Garda; oltre la lineadelle colline e ai piedi del Baldoscende lineare l’Adige, quasi nonti accorgi della Chiusa, topos di-ventato poi irrinunciabile. E l’A-dige avvolge Verona in un ab-braccio che non è quello a noi ca-ro: Pisato trasforma e simbolizzaVerona.Ci penserà il giovane Marin Sa-nuto, però, 43 anni dopo, nel suoItinerario (che sta per comparirenelle librerie curato dall’Associa-zione Terzo millennio di Monta-gnana e accompagnato da un ap-parato cartografico che definirestraordinario è dir poco) a de-scrivere la città in termini pregnidi pragmatico realismo; dice:«Castel Vecchio si trova vicino al-la Cittadella. Ha otto torri e duefortezze con soccorsi, si entra at-traverso un ponte ad una arcatache attraversa l’Adige. Sono distanza due castellani, uno perfortezza».Resterebbe da dire, come fanno igeografi di professione, dell’o-rientamento della “Carta”, dellasua scala, della sua funzione. Ilnord non è in alto, ma a destra dichi guarda, dalla parte del collodell’animale che ha fornito lapergamena. La scala è intuitiva eanzi il restringersi del supportopergamenaceo sulla nostra sini-stra ha indotto il Pisato a cam-biare scala in corso d’opera. La

funzione della carta non è certoassimilabile al navigatore satelli-tare, mira piuttosto a informarelo stratega, a fornire ai centri dipotere, alla stanza dei bottoni, ilteatro entro il quale la realtà tuttasi muove. La mappa diventa stru-mento del potere, perciò il re delPortogallo puniva con il tagliodella testa chi fosse stato colto aportare mappe all’estero; perciòle carte venivano conservate inbauli chiusi a tre mandate. Unacartografia estesa a tutti, comeavviene oggi con il navigatore sa-tellitare, non era certo nell’ordi-ne delle cose.Anche le carte geografiche hannouna storia, come ce l’hanno, unastoria, gli uomini – e ne capiamobene la ragione – e gli oggetti, tal-volta inspiegabilmente insepara-bili, di cui l’uomo si circonda.Una storia, dunque, ce l’ha anchela carta detta del Pisato. La figuradel suo compilatore è avvoltodall’oscurità, la sua biografia ci èsconosciuta, ma la sua opera èsopravvissuta. La mappa, adem-piuta la sua missione, militare ocivile che fosse, è stata poi ripostain locali polverosi, in armadi zep-pi di documenti a condividerespazi con tarli voraci. Ha supera-

to la forza disgregatrice del tem-po, ha avuto fortuna, è lentamen-te invecchiata,… finchè MarioBaratta, geografo a cavallo di Ot-to e Novecento, a Treviso, ha po-tuto studiarla. Ecco come lo stu-dioso racconta questo incontroavvenuto nel 1913: «La carta cheforma oggetto del presente studioè di proprietà del chiarissimo sig.prof. Luigi Bailo, il benemeritofondatore della Biblioteca-Archi-vio e del Museo di Treviso: alla dilui squisita liberalità e gentilezzaio debbo la possibilità di averlapotuta con tanto agio consulta-re». Altri tempi, altre emozioni,ma, ad ogni modo, la carta è an-cora là, ben protetta e visibile, inottima riproduzione, a tutti.Oggi, grazie a un rinnovato inte-resse, la Lombardia di GiovanniPisato, anno del Signore 1440,può esibire ad un pubblico vastoe attento la straordinaria sfilatadei suoi manieri, la dubbia geo-metria dei suoi fiumi, l’enigmati-ca presenza degli alberi isolati, inuna parola il suo intramontabilefascino.

Territorio

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Ovunque fiumi larghiquanto il Nilo, castelli,impressionanti cortine

di mura, torriimponenti, merlature,

vessilli dei Visconti edella Serenissima,

ponti in legno e in mattoni

La campagna apparecome fagocitata

dall’incastellamento;aratri, erpici e falcisembrano banditi a

vantaggio di unavisione militare che fa

del castello l’essenzastessa di tutta la Terra

Carta del Pisato-Peschiera

Si ringrazia per la gentile disponibilitàil dott. Gianluigi Perino della Biblioteca Comunale di Treviso

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Redazione e impaginazione di libri e giornaliComunicati stampaProgetti editoriali

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STUDIOeDITORIALEGiorgio Montol l i

LA DIFFERENZANEL FARE LE COSE.

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di Stefano Vicentini

Una frotta di vocianti ragazzinisolleva un polverone per inseguireun rudimentale pallone; un grup-petto spinge con la forza dellegambe la giostrina del “passo vo-lante” formata da un palo conanelli di metallo agganciati; lecoppie che giocano a carte si sfi-dano a motti nei tiri incrociati de-gli sguardi; i nuovi arrivati am-massano le biciclette all’entrata es’uniscono ai giochi, oppure cor-rono alle prove di una funzionereligiosa o del teatro. Tu chiamalese vuoi, emozioni; dice una vec-chia canzone.Certo, divertimenti d’altri tempi,quando l’oratorio era tra gli am-bienti più protettivi della sanaeducazione giovanile, della genui-nità dei rapporti umani, della sal-vaguardia di care tradizioni comela festa del santo patrono. Neglianni Sessanta ci sono stati i lcambio di sede – in via Frattini, adue passi dal Duomo di SanMartino –, l’allargamento delledimensioni e la nuova denomina-zione “Centro giovanile Salus”.Ma, se la nostalgia porta con séetimologicamente un ricordarevivo e persistente, come riandareaffettivo ai luoghi del passato, ilvecchio ricreatorio del Salus, purnon esistendo più dietro l’ex chie-setta della Disciplina (oggi chiesadell’Assunta) nell’allora viale Re-gina Margherita (oggi viale deiCaduti), non deve comunqueconsiderarsi morto bensì vivo per

vie misteriose conosciute dal cuo-re. Vitale cioè nel ricordo di chil’ha vissuto ed è ancora vivo, tra ipochi rimangono i sacerdoti donMario Gatti, don Walter Soave edon Vasco Grella, più o meno vici-ni a una veneranda età; immorta-lato nelle pagine della storia citta-dina ma soprattutto celebratoogni anno nella giornata degli“Amici del Salus”, nella settimanadel vecchio patrono San LuigiGonzaga. Chiaramente questo ri-trovo è stato longevo per la fervidaorganizzazione dei protagonistid’allora uniti al sacerdote donWalter Soave, tra cui molti com-pianti illustri legnaghesi: l’ex gior-nalista Rai Giovanni Vicentini, ilprofessore d’economia nonché di-rettore di banca Gino Barbieri, ilpreside del Liceo classico Cotta

Rodolfo Verga, il direttore dell’as-sociazione scuole materne TarcisioVerdolin, i dirigenti dell’ospedaleAntonio Alfredo Tognetti e LuigiZanferrari, l’attivissimo PieroMantovani... Ma molti più nomisarebbero da citare come protago-nisti del vecchio Salus: ad esempioi calciatori d’altri tempi di serie AEzio Meneghello, Guido Tavellin eil nazionale Pierluigi Cera (ex Ve-rona e Cagliari negli anni Sessan-ta) o i vari Campara, Scodellari,Marchetto, Sandrini, Facchin dellasquadra di calcio del Legnago; op-pure i componenti dilettanti diteatro della Filodrammatica daglianni Venti in poi come Gatti, Ve-ronese, Giusti, Pretto, Cecco,Avanzi, Golo, Bardellini, Rebecchi,Maestrello, Stello, Perazzoli, Mac-capan, Fortunati, Ercole, Zorzan,

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Chiavegato, Giacometti, Bolzon,Marangoni, Poletti, Polo, Caltran,Turati; o infine i sacerdoti, monsi-gnor Davide De Massari (rettoredal 1880 al 1925), mons. Fortuna-to Bonetti (parroco dal 1925 al1945), mons. Luigi Bosio, mons.Giuseppe Mantovani, mons. Pie-tro Rossetti, don Tacchella, donZamperioli, don Cordioli, don Pi-va, don Bertelli, don Saccomani,don Terraroli, don Turco.Sono pochi ma significativi gliscatti fotografici che rimangonodi questi ex ragazzi del Salus, im-mortalati in posa solitamente co-me folto gruppo attorno al sacer-dote. L’interesse è legato alla pos-sibilità di ricostruire dall’elencodei cognomi varie genealogie del-le famiglie di Legnago, nell’im-portante momento storico deiprimi decenni del Novecento do-ve non era forte l’emigrazione dalpaese. L’oratorio, con accanto la“ceseta” della Disciplina e il vec-chio “ginnasietto” – attivo neglianni ‘30-’40 – ha letteralmente al-levato generazioni di giovani le-gnaghesi in quanto luogo unico diaggregazione e viva ospitalità,grazie alle felici attività formativepromosse. L’immagine più caraconservata rimane quella della fe-sta del “Triduo di San Luigi” nel1930 nel cortile del Salus, con ungruppo numeroso di ragazzi chesta seguendo le direttive della ce-rimonia. I “buteleti” sono dunqueordinati, trasformati per l’occa-sione in chierichetti, con un’at-mosfera di compostezza per il ri-

LEGNAGO

Tanti ricordiper il ricreatoriodel vecchio SalusCon la ristrutturazione se n’è andata

una pagina di storia, ancora viva nel cuore di chi rimane testimone

Il vecchio Salus Triduo di San Luigi (1930)

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La morte di un amico to-glie irremissibilmente unpo’ di vita anche a noi.Soprattutto se è un amicod’infanzia, che viveva datantissimi anni in unpaese affacciato sull’O-ceano Pacifico, presso LosAngeles, ma che da quel-l’osservatorio cosi lonta-no e defilato seguiva gior-

no per giorno, attraverso “L’Arena” in internet e le frequenti e-mail, quanto stava succedendo a Verona, prodigandosi di giudizi,critiche, pareri, consigli, deprecazioni, apprezzamenti e magarianche invettive. Secondo la classica psicologia dell’emigrato, il qua-le, come cantava Joséphine Backer, ha “deux amours, mon pays etParis”, diventata qui tutta l’America, di cui Rino Argento, partitopiù di cinquant’anni fa con una borsa di studio universitaria e tor-nato soltanto con brevi escursioni affolate di incontri, che avevanoquasi il carattere di ispezioni, aveva sposato non soltanto usi e costu-mi, ma anche la mentalità efficentista, che contrastava fieramentecon l’altra metà di lui che continuava a rimpiangere lo s-cianco e lapastisada de caval. Così che le sue lettere agli amici veronesi, in granparte scout del Verona X di cui era stato uno dei più entusiasti ini-ziatori, e che avrebbe dovuto rivedere per il centenario dello scauti-smo se non fosse stato improvvisamente bloccato da una insuffi-cienza renale che lo costringeva alla dialisi, erano sempre un affa-scinante mix di quella profonda nostalgia che i portoghesi chiama-no “saudade” e di una combattiva rivendicazione del progresso tec-nico e scientifico ma anche disinvoltamente sociale degli States nelconfronto con gli impacci e le esitazioni della sua Verona.È morto improvvisamente e velocemente, quasi rispettando un suocostume esistenziale che lo vedeva insofferente di ogni indugio,mentre stava preparando un suo ennesimo viaggio a Verona e nellee-mail agli amici chiedeva che gli fissassero un luogo dove sotto-mettersi alla dialisi.Dalla moglie Cecilia, dopo una commovente e-mail che raccontacon pudore le sue ultime ore e il suo espresso desiderio di non esseresottoposto ad accanimento terapeutico, arriva il classico “santino”,che non è, come si usa da noi, una foto in bianco e nero, più neroche bianco, di tanti anni prima con le date dell’inizio e della fine,ma un colorato e grazioso pieghevole denso di piccole fotografie qua-si tutte a colori, che raccontano per immagini la sua vita intensa elaboriosa, dall’infanzia, fino agli ultimi giorni. Il che è un modo bel-lo per far ricordare festevolmente ai parenti e gli amici una personacara, definita quasi shakespearianamente “Un gentiluomo di Vero-na”, lungo un’esistenza descritta come “una vita meravigliosa” cheparte dalle prime foto della sua infanzia e si conclude con le foto dilui che tiene in braccio il nipotino Dante.Nel momento del distacco, doloroso anche per una gentile signoracome Cecilia che nella sua letterina accompagnatoria dice che“morì molto in pace con il rosario tra le mani”, è significativo che,al posto dei malinconici e, appunto, funerei “santini” in uso dallenostre parti egli sia stato accompagnato in quest’ultimo suo viag-gio, dopo i tanti che egli ha fatto di qua e di là dall’Atlantico, conquesto florilegio di immagini felici. E a noi viene in mente quellaparte dell’antico salmo che spesso si recita nei funerali, e che, nelmomento dell’ultimo addio e del dolore che lo accompagna, pareoggi a noi, increduli o quasi, piuttosto anacronistico. Dice pressap-poco: “La tua anima trascorrerà qua e là, come la scintilla nellastoppia”. Forse, l’amico Rino liberato dal peso della carne farà pro-prio così. Qualche volta, lo sentiremo vicino.

Giuseppe Brugnoli

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spetto religioso che sostituisce ilsilenzio allo zufolio dei giochi. Lagrande forza dell’oratorio stavaprobabilmente in questo, a dettadi chi l’ha sinceramente vissuto:la capacità d’unire la formazionefisica a quella dello spirito, le atti-vità di svago con quelle più prati-che, gli angoli del gioco vicino al-la chiesetta, alla biblioteca, al tea-trino, al bar e al magazzino. Ilginnasietto, poi, era un’occasioneformativa più che unica per queitempi, assolutamente carenti discuole: c’erano tre classi e gli inse-gnanti erano proprio i sacerdoti,cosicché allora era ben distintal’austerità dei parroci, alcunimolto distaccati dalla gioventù,dall’affabilità dei curati che spes-so si sollevavano la veste per cal-ciare qualche pallone nel nugolodi ragazzini. Qualcuno ha chia-mato questa vita legnaghese colnome di “Mondo Piccolo” in ri-cordo delle vivide immagini con-segnate dal Don Camillo di Gua-reschi. Ancora più divertenti sonoi ricordi delle feste di carnevale,dove ognuno si arrangiava vera-mente come poteva in fatto di ve-stirsi in maschera, creando le piùbuffe apparizioni al ricreatorio.Tra gli aneddoti, si racconta cheproprio nel carnevale del 1957 sianata, come straordinaria intui-zione, la maschera di Lematho,poi diventata tipica del carnevaledi Mezza Quaresima di Legnago,con l’arrivo in parrocchia di unroboante elicottero americanoper una festa di grande apparato,mai vista prima. Erano gli ultimifuochi d’effetto legati alla vita diparrocchia, che meno di un de-cennio dopo presentava il proget-to e realizzava in breve tempo unastruttura ben più grande, il nuovoSalus, in un’altra zona del centro.Per alcuni ragazzi era una “beffa”,come il titolo di una commediatra le più fortunate del vecchioSalus, andata in scena nel settem-

bre 1941; per altri era il “segno deitempi” per un paese che ormaistava per diventare una cittadinacon ben oltre i diecimila abitanti.Nessuna notizia poi, negli anni aseguire, del vecchio ricreatorio,non più esistente per la destitu-zione d’importanza accompagna-ta alla vendita degli spazi ai priva-ti; unico relitto la chiesa, ma colnuovo nome dell’Assunta e, quin-di, una nuova patrona, lasciata aldegrado per anni, fino al restaurodell’edificio sacro concluso neiprimi anni Novanta. Natural-mente non si è salvato più nulla,né gli ambienti né il vissuto delvecchio centro; il nuovo Salusnon si è portato dietro tradizionicome la corsa dei sacchi, la garadelle pignatte, le marmore o i gio-chi nelle sale della “trea” o dellamora, ma si è identificato in nuo-vi impianti come il campo di ba-sket, la sala coi videogiochi e il bi-liardo, l’angolo della tv e, oggi,del computer. A proposito dellatelevisione, quando arrivò nelvecchio ricreatorio ci fu un’eufo-ria paragonabile ad un eventonazionale, tanto da far partire unciclo di conferenze per capire ilnuovo mondo inaugurato dall’o-riginale novità. Ma un’ultima vo-ce di ideale testimone potrebbericordare la parte opposta dellamedaglia: non tutto, infatti, erabello e spensierato, tanto che ilsoffitto degli ambienti spesso fa-ceva filtrare l’acqua, ovunque ar-rivavano correnti d’aria che favo-rivano i reumatismi, il riscalda-mento in inverno si otteneva daun bidone di due quintali di se-gatura schiacciata col bastone ebruciata. Per questi ed altri pro-blemi, per esempio, nei primi an-ni Cinquanta è stato demolito ilvecchio teatro perché giudicatopericoloso. Insomma si è consu-mato un requiem, anche se con-fortano negli ultimi tempi le ri-evocazioni delle tradizioni passa-te, tipiche anche dell’oratorio,come la gara delle contrade o igiochi d’un tempo, non solo inprovincia ma anche in città, co-m’è l’evento del “Tocatì” a Vero-na. Certo che nelle generazionipassate rimane un certo velo dimalinconia. Caro oratorio, comediceva una vecchia canzone diVecchioni “forse non lo sai mapure questo è amore”.

Don Walter Soave

In memoria di Rino Argento

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UN BUSTO IN RICORDO

DI MANUEL FIORITO

Al capitano Manuel Fiorito, mor-to in Afghanistan nella valle delMusay il 5 maggio 2006, è statodedicato un busto, opera dell’arti-sta Gabriella Manfrin, che saràcollocato al Circolo Ufficiali, pre-sidio di Castelvecchio.Nato a Verona il 13 febbraio 1979,Fiorito aveva conseguito la Laureain “Scienze Strategiche” nell’ago-sto 2003 presso la Scuola di Appli-cazione in Torino. Il 13 marzo2006 si era laureato in “Scienzepolitiche” presso l’Università deglistudi di Trieste. Ha partecipato al-l’Operazione Joint Enterprise” inKosovo. Vari i suoi incarichi, tracui il servizio all’Estero pressoITALFOR XII, per l’OperazioneISAF IX in Afghanistan nel con-tingente italiano.

LA VERA STORIA

SENZA VELI DI ROBERTO P.COLLAUDATORE

DI CARTA IGIENICA

Non poteva non essere ambienta-to in un’azienda leader del settoreigienico-cartario il romanzoumoristico La vera storia, senzaveli, di Roberto P., collaudatore dicarta igienica di Enrico Linariauscito per le Edizioni Aurora,pagg. 128, 12 euro. L’azienda, vistala comicità della storia, sembraquella di Fantozzi versione 2007mentre il protagonista ha qualco-sa del Marcovaldo di Calvino e ri-chiama (quando tutti se la pren-dono con lui perché non ha fattobene il collaudo) il buon Malaus-sène, il “capro espiatorio” nei ro-manzi di Pennac. Si ride del lavo-

ro di Roberto P. che ovviamenteteme la stitichezza più della tosse edei dolori reumatici. E si ride dellevicende umane e lavorative in ge-nere: tipo il “gratta e vinci” chesuggerisce uno “srotola e vinci”ca-pace di incrementare le vendite ola fabbricazione di nuove carteigieniche con i colori sociali di im-portanti squadre di calcio per lagioia, sostengono gli ideatori, delletifoserie avversarie. Ci sono poi ri-svolti amari, come il licenziamen-to finale. Ma il fatto che Roberto P.resti nel “giro” e si ritrovi a span-dere letame in un’azienda agricolafa rinascere il sorriso.

Zibaldone

Dicembre 2007

IL TEATRO DELLE EMOZION-DI ALESSANDRO NORSA

Galleria Massella (si trova inViaDietro Filippini, 11/13) presenta lamostra di pittura di AlessandroNorsa“Il Teatro delle Emozioni”.Dal 1 Dicembre 2007 al 4 Gennaio2008.

Il titolo della mostra“Il teatrodelle emozioni” è la sintesi delpercorso di vita professionale epersonale del pittore, che inten-de rappresentare con questeopere la sua dedizione all'animoumano con le sue r icchezze,emozioni e sentimenti.Il suo studio delle antiche forme

carnevalesche lo ha porta-to alle origini del teatroitaliano e l'interesse perquesta materia ha ridestatouna sua antica passioneper la recitazione e la scenarappresentativa.Da un punto di vista stili-stico si ispira ad alcuniprincipi della PsicologiaSperimentale.Due sono i fenomeni di ri-ferimento: la presenzaamodale, per la quale lapersona è spinta a crederedi poter ricavare, data lasua esperienza, la formadalle parti rappresentatenel campo percettivo e ilIX principio diWertheimero principio della buonaforma, che prevede che lapersona possa unire più fa-cilmente forme separateche costituiscono nel loroinsieme un oggetto unico.In queste opere, emozionie scienza, testa e cuore, ra-zionalità e sentimento pos-sono parlare un unico lin-guaggio: quello dell'arte.

Giornale di attualità e cultura

DirettoreGiorgio [email protected]

RedazioneGiorgia CozzolinoElisabetta Zampini

Cinzia Inguanta

Lungadige Re Teodorico, 10 37129 -Verona. Tel. 045.592695

StampaNovastampa di Verona

Registrazione al Tribunale di Veronan° 1557 del 29 settembre 2003

N° 17/dicembre 2007

Progetto editorialeProporre temi di attualità e cultura,

stili di vita per la crescita della personaIl giornale è distribuito gratuitamente

nelle librerie di Verona.

www.verona-in.it

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Se il suo tenore di vita

è più alto del tuo, non è perché

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