virgilio egloghe

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Virgilio consacrò gli ultimi 11 anni della sia vita al suo progetto più ambizioso e più caro ai suoi potenti protettori: un lungo poema epico nazionale che celebrasse la romanità. Il protagonista non è, come nell'idea originaria, Augusto, ma l'eroe troiano Enea, figlio di Venere e fondatore della gens Julia alla quale, peraltro, Augusto rivendicava di appartenere. L'Eneide narra i suoi sette anni di pellegrinaggio dalla caduta di Troia alla vittoria militare in Italia, preludio della futura grandezza di Roma. Virgilio ci rivela il rifiuto di cantare la contemporaneità, non tanto per non rischiare l'insuccesso poetico toccato da altri autori del suo tempo, ma per non citare le guerre civili secondo una prospettiva inevitabilmente di parte. Possiamo immaginarci la delusione iniziale di Augusto, che aveva sperato di vedere esaltato in maniera più diretta il proprio ruolo e quello della gens iulia. Alla lunga però il poema di Enea risulterà pienamente accetto anche a lui, come dimostra la sua ferma volontà di far pubblicare l'opera malgrado il volere contrario del suo defunto autore. Si può dire che Virgilio prefissò due scopi all'Eneide: uno di carattere culturale-politico era quello di descrivere l'ordine del mondo attraverso la fondazione di Roma, il secondo consisteva nel sondare la profondità dell'uomo interiore attraverso il racconto degli eroi. Lo stile e la concezione dell'opera derivano dal modello dei grandi poemi epici greci attribuiti a Omero, l'Iliade e l'Odissea, ma vi si riconoscono anche influenze degli Annales di Ennio e delle opere di Lucrezio. Dal punto di vista strutturale Virgilio imita e , insieme, supera il modello omerico. Inoltre con Virgilio si passa da un'epica puramente oggettiva di Omero ad una soggettiva, dove si produce un passaggio da fatti esteriori a fatti interiori. I riferimenti più specificatamente storici e legati all'età augustea predominano nei libri V- VIII, ossia nella parte centrale dell'opera. Nonostante l'intento dichiarato di glorificare Roma e l'imperatore, l'ampio respiro dell'opera, la finezza psicologica, l'attenzione alla condizione dell'individuo, conferiscono all'Eneide un valore universale. Il poeta colloca sullo sfondo, in forma di mito, le future grandezze di Roma valorizzando il contributo offerto dalle popolazioni mediterranee all'edificazione dell'Impero Romano. Anche sul piano formale è un monumento di perfezione stilistica. Virgilio fu il creatore di un linguaggio poetico "classico" e svolse un ruolo corrispondente a quello che Cicerone aveva avuto nella prosa: nonostante l'estrema eleganza, i suoi versi hanno una naturalezza senza precedenti nella poesia latina. Il poema ebbe un successo e una fama immediati. Durante il Medioevo gli si vollero attribuire significati filosofici e religiosi e l'autore fu ritenuto mago e profeta. Dante gli rese onore nella Divina Commedia, facendone la propria guida nel viaggio attraverso l'inferno e il purgatorio fino alle soglie del paradiso. Provvidenza e dolore nell'Eneide In gran parte degli episodi narrati nell'Eneide fa da filo conduttore il concetto di volontà divina, che, se vista in un ambito più generale, è alla

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Dettagliata analisi delle Egloghe Virgiliane.Tutte e dieci riassunte ed analizzate con cura, partendo dal testo originale.

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Virgilio consacrò gli ultimi 11 anni della sia vita al suo progetto più ambizioso e più caro ai suoi potenti protettori: un lungo poema epico nazionale che celebrasse la romanità. Il protagonista non è, come nell'idea originaria, Augusto, ma l'eroe troiano Enea, figlio di Venere e fondatore della gens Julia alla quale, peraltro, Augusto rivendicava di appartenere. L'Eneide narra i suoi sette anni di pellegrinaggio dalla caduta di Troia alla vittoria militare in Italia, preludio della futura grandezza di Roma. Virgilio ci rivela il rifiuto di cantare la contemporaneità, non tanto per non rischiare l'insuccesso poetico toccato da altri autori del suo tempo, ma per non citare le guerre civili secondo una prospettiva inevitabilmente di parte. Possiamo immaginarci la delusione iniziale di Augusto, che aveva sperato di vedere esaltato in maniera più diretta il proprio ruolo e quello della gens iulia. Alla lunga però il poema di Enea risulterà pienamente accetto anche a lui, come dimostra la sua ferma volontà di far pubblicare l'opera malgrado il volere contrario del suo defunto autore. Si può dire che Virgilio prefissò due scopi all'Eneide: uno di carattere culturale-politico era quello di descrivere l'ordine del mondo attraverso la fondazione di Roma, il secondo consisteva nel sondare la profondità dell'uomo interiore attraverso il racconto degli eroi. Lo stile e la concezione dell'opera derivano dal modello dei grandi poemi epici greci attribuiti a Omero, l'Iliade e l'Odissea, ma vi si riconoscono anche influenze degli Annales di Ennio e delle opere di Lucrezio. Dal punto di vista strutturale Virgilio imita e , insieme, supera il modello omerico. Inoltre con Virgilio si passa da un'epica puramente oggettiva di Omero ad una soggettiva, dove si produce un passaggio da fatti esteriori a fatti interiori. I riferimenti più specificatamente storici e legati all'età augustea predominano nei libri V-VIII, ossia nella parte centrale dell'opera. Nonostante l'intento dichiarato di glorificare Roma e l'imperatore, l'ampio respiro dell'opera, la finezza psicologica, l'attenzione alla condizione dell'individuo, conferiscono all'Eneide un valore universale. Il poeta colloca sullo sfondo, in forma di mito, le future grandezze di Roma valorizzando il contributo offerto dalle popolazioni mediterranee all'edificazione dell'Impero Romano. Anche sul piano formale è un monumento di perfezione stilistica. Virgilio fu il creatore di un linguaggio poetico "classico" e svolse un ruolo corrispondente a quello che Cicerone aveva avuto nella prosa: nonostante l'estrema eleganza, i suoi versi hanno una naturalezza senza precedenti nella poesia latina. Il poema ebbe un successo e una fama immediati. Durante il Medioevo gli si vollero attribuire significati filosofici e religiosi e l'autore fu ritenuto mago e profeta. Dante gli rese onore nella Divina Commedia, facendone la propria guida nel viaggio attraverso l'inferno e il purgatorio fino alle soglie del paradiso. Provvidenza e dolore nell'Eneide In gran parte degli episodi narrati nell'Eneide fa da filo conduttore il concetto di volontà divina, che, se vista in un ambito più generale, è alla base della concezione dell'Impero stesso, nato per volontà divina. A differenza degli analoghi personaggi nel poema omerico, che si ribellano alla propria condizione, i personaggi virgiliani, e più fra tutti il protagonista Enea, sono consapevoli del proprio ruolo fondamentale e del destino che li attende. E' il cosiddetto concetto di pietas, molto appezzato in età Augustea, che prevedeva la completa sottomissione alla famiglia, alla patria ed agli dèi. La visione stessa dell'Universo è stoica: da una parte la ragione cosmica, da identificare con Giove e con il fato, che governa il corso degli avvenimenti per finalizzarli alla migliore soluzione, dall'altra il saggio che riconosce la razionalità del mondo e ad essa si adegua, cercando di far coincidere la propria volontà con quella divina, anche a costi altissimi. Tuttavia Enea non è un saggio storico, ma semplicemente un ottimista che si rimette alla proprio destino e perrciò pius. Questa visione universalistica piace particolarmente ad Augusto perchè affine al suo progetto di revival religioso. In ogni caso la frattura con l'ideologia epicureista delle Bucoliche non è totale: i singoli personaggi sperano in un scioglimento finale, in una pace ed in un luogo in cui potersi ritirare. Altre tema importante, per altro già in parte affrontato nelle Georgiche, è quello del dolore e

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della fatica dell'uomo. mentre nelle Georgiche il dolore era il mezzo attraverso cui l'uomo poteva soddisfare parte dei propri bisogni nel contesto della atura, nell'Eneide il contesto generale viene incentrato sulla storia. ecco perchè le sofferenze dei singoli sono spesso trascurate in quanto passaggi obbligati verso il compimento della volontà divina. Ovviamente ciò potrebbe apparire come l'esaltazione della "legge del più forte"; in realtà così non è in quanto il poeta è sempre cosciente delle conseguenze degli avvenimenti, in tutta la loro tragicità, indifferentemete che riguardino singoli personaggi o popolazioni intere. Ecco che il dolore diventa parte integrante del essere di ogni personaggio, anche dei vincitori. BUCOLICHE La stesura di quest'opera è da contestualizzare nell'ambito di un periodo di forti problemi politici ed una spiccata crisi agraria. Come è noto tutto il potere statale fu progressivamente concentrato in un'unica persona: il princeps. Con questa trasformazione, da legislatura collegiale a monarchia, si allargarono le aree di consenso (ricordiamo l'estensione della cittadinanza romana a tutti gli Italici) e nelle sfere del potere si introdussero nuove persone. Tutto ciò portò ad un'efficace riorganizzazione dell'apparato burocratico dello Stato, ma non riuscì a far fronte al sempre crescente malcontento che dilagava tra i piccoli proprietari terrieri, che lamentavano la difficoltà a reggere la concorrenza. Nel 37 Virgilio completò la sua prima opera di rilievo, le dieci Egloghe o Bucoliche, canti pastorali modellati sugli idilli di Teocrito, poeta alessandrino del III secolo a.C. Virgilio fu il primo a introdurre la musa bucolica di Teocrito. Teocrito era un poeta abbastanza noto al pubblico romano colto: la dotta ricostruzione del mondo dei pastori suscitò un grande interesse nel circolo dei Poetae Novi. Virgilio mantenne le convenzioni del predecessore, i benevoli motteggi dei pastori e i loro canti d'amore, i lamenti e le sfide canore; ma invece del sorridente distacco teocriteo, qui si riscontra una partecipazione sentimentale che accomuna il poeta alle sue creature, creando un’atmosfera d’incredibile, struggente dolcezza. La famosa quarta egloga celebra la nascita di un bambino destinato ad annunciare una nuova età dell'oro, di pace e di prosperità; in età tardoantica e medievale questa immagine fu interpretata come una profezia della venuta di Gesù Cristo. La poesia bucolica di Virgilio può essere considerata dotta perché basata sulla profonda conoscenza dei classici antichi. Per provare quanto profondo e significativo sia il processo di intensificazione patetica basta considerare in quelo modo sia trattato da Teocrito e da Virgilio il motivo del locus amoenus. Nel cuore del paese dei pastori si trova un luogo felice caratterizzato da elementi essenziali, un luogo dove i pastori riposano, amano e cantano. Teocrito gli attribuisce tre significati: luogo di riparo, luogo d'amore (anche non corrisposto), luogo della civiltà contrapposta alle barbarie. Lo stesso motivo è presente anche in Virgilio: per esempio nell'Ecloga I, giocata sul contrasto tra i pastori Ritiro e Melibeo; il primo è proprietario della terra, il secondo è stato espulso per le confische a favore dei veterani. La collocazione fisica è molto precisa, ma è contornata da altri elementi. Attraverso un procedimento che isola ed enumera ogni singola componente del quadro, si fornisce una descrizione globale che trasforma il semplice locus amoenus nel paese dell'Arcadia. Questa può essere considerata come l'immagine ideale che ha il poeta di un luogo immobile nello spazio e nel tempo, simbolo della felicità. Si può dire che nelle Bucoliche, dietro l'Arcadia, si affaccia il sogno di un ritorno dell'età dell'oro. GEORGICHE Virgilio pose mano alle Georgiche a partire dal 37 a.C., quando ormai era entrato stabilmente nel circolo di Mecenate. Tale contatto diretto con la politica augustea favorì in lui una maggiore consapevolezza della realtà, una visione più generale della storia. Rispetto alle Bucoliche il progresso è evidente. Le Georgiche nascono nel clima di preoccupazione per la decadenza del mondo contandino italico, di fronte all'avanzata del latifondo. Occorre nn fuggire alla realtà, bensì impegnarsi nella costruzione di un mondo meno idillico e più concreto. L'opera nn fornisce semplicemente indicazioni più o meno precise di natura tecnico-agricola; mira piuttosto a descrivere

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l'azione positiva che l'uomo attraverso le sue artes, può e deve esercitare nei confronti della natura, non sempre benefica o idillica. In un'Italia in cui ancora vivissimo era il ricordo delle stragi civili e ben visibili, nel paesaggio agricolo e sociale, le loro dolorose conseguenze, le Georgiche si ponevano come un raggio di speranza, un'affermazione di fierezza. Il titolo Georgiche, come già quello delle Bucoliche, è di derivazione Greca. Boykòlos era il pastore, mentre gheorgòs è il contadino: gheorghikà vale propriamente "canti di argomento agricolo". Risulta assai arduo individuare con esattezza gli influssi esercitati su Virgilio dalle sue fonti greche e latine. Le Georgiche sono il frutto di un intento poetico prima che didascalico; quest'ultimo è ben presente, ma allorché Virigilio si accinse al poema sull'agricoltura il suo obiettivo primario non era certo quello di insegnare a coltivare i campi. Come nelle Bucoliche Virgilio si era accreditato quale il Teocrito romano, così ora, nelle Georgiche, aspira a essere l'equilvalente latino di Esiodo: dichiara infatti l'intenzione di cantare per le città romane. Il rapporto tra le Georgiche e le opere di Esiodo si rivela vivo, al dilà di qualche superficiale reminiscenza presente nell'ambito dei valori morali del lavoro. Virgilio umanizza la natura e gli animali, descritti nel desiderio di costruire, come avviene nella società ideale delle api. SI avverte nelle Georgiche il costante tentativo di costruire attorno agli esseri umani un mondo a misura d'uomo. Il mondo della natura campestre diventa così l'unico veramente degno e adatto a una vita sana e moralmente virtuosa, contrapposta intenzionalmente alla vita delle grandi città. Un altro aspetto innovativo delle Georgiche è la visione del lavoro. La fatica del duro lavoro è dunque dono del padre Giove agli uomini, affinché le loro menti non si assopiscano nell'ozio che per tradizione genera solo fiacchezza e vizio. Le Georgiche sono un organismo compatto e unitario a differenza delle Bucoliche. Ogni libro risulta autonomo dagli altri con un sottile gioco di riprese e rimandi interni. Tutti si aprono con un proemio di tono ottimistico, e si concludono con immagini cupe e pessimistiche. Quanto alle digressioni esse risultano numerose nell'arco di tutta l'opera; distribuite con regolarità, contribuiscono a variare la struttura generale dell'argomentazione e riportano alla luce i motivi fondamentali dell'opera. Importante è il punto di vista, la posizione del narratore rispetto al narrato: Virgilio "racconta" in terza persona, evitando di confluire nell'io del testo, anche se a volte il piano autobiografico si riversa in altri personaggi. Un posto particolare nel significato complessivo delle Georgiche, spetta alle api. Esse sono un esempio di laboriosità, di folla indaffarata, di esercito in grado di difendere le proprie città. Tanto è vero che il mondo classico nutriva una vera predilezione per il microcosmo delle api: Virgilio riprende questa predilezione disegnando una grande metafora della società umana e confermandoci così che la sua poesia è quella di un intellettuale tutt'altro che insensibile alle problematiche contemporanee. Si può riassuntivamente affermare che nelle Georgiche Virgilio ha voluto cantare la trasformazione della natura in cultura attraverso il lavoro dell'uomo, superando la dolcezza consolatoria del canto bucolico. La sua poesia si è spostata su un terreno ben più impegnativo, che sarà poi quello stesso dell'Eneide. A livello concettuale si notano spunti che sono destinati a una successiva rielaborazione nell'Eneide: l'umanizzazione della natura si sposa nelle Georgiche con la capacità di rappresentare la vita umana nella sua complessità, con le sue gioie e le sue sofferenze, con i segni della presenza divina e della paterna provvidenza, motivi che appartengono all'ispirazione profonda dell'Eneide.

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Il genere bucolico ha origine come canto legato forse a feste religiose o campestri e proviene dall'ambiente siciliano. L'iniziatore di questo genere è teocrito nei cui idilli parla del mondo pastorale ponendolo tra mito e realtà. Nella letteratura latina Virgilio ne è il più grande rappresentante. Le sue bucoliche vengono pubblicate intorno al 38 a c escritte tra il 42 e il 39 a. c. ; la raccolta è organizzata in 10 egloghe in esametri. Il termine bucolica deriva dal greco e significa "canto di bovari" mentre egloga vuol dire "poesie scelte". Il genere bucolica tratta temi pastorali ma è innovativo che vi si dedichi un intero libro ed in particolare nelle bucoliche di Virgilio si parla dell'espropriazione di terre. La prima e la nona sono di carattere autobiografico e trattano dell'espropriazione, nella seconda e nell'ottava vi è descritto il dolore provato per un amante perduto, nella terza e settima i due personaggi gareggiano in un canto, nella quarta vien esaltato un fanciullo che darà inizio all'età d'oro (identificato per alcuni in Gesù facendo di Virgilio un profeta, per altri nei figli di Pollione o in quello nascituro di Augusto), nella quinta troviamo l'iniziatore del canto bucolico Dafni, nella sesta Sileno, nella decima il dolore di Cornelio Gallo per la perdita della donna amata. A Bologna nel 42 a c , i triumviri decidono di dividere il territorio espropriato in Italia e Gallia cisalpina tra i veterani come segno di riconoscimento dopo la battaglia di Filippi. Anche Virgilio subisce l'espropriazione delle sue terre a Mantova ma per poco tempo in quanto grazie all'aiuto di amici quali Pollione, Varo, Mecenate; riottene i campi paterni che così tornano al legittimo proprietario che in particolare nella I egloga si mostra riconoscente ad Ottaviano. Titiro e Melibeo sono due pastori; il primo ha avuto la fortuna di non vedersi confiscate le terre mentre il secondo deve lasciarle a qualche veterano. L'intero libro si apre con un dialogo tra i due personaggi che si incontrano. Questa prima parte delle bucoliche di Virgilio è sottoforma di canto amebeo cioè eseguito da due personaggi che sono appunto Titiro e Melibeo. Si nota la situazione di contrasto tra il primo che può continuare la sua vita tranquilla nel suo podere grazie all'aiuto di un potente, e tra il secondo che invece si vede costretto ad abbandonare tutto ciò che possedeva e che gl era caro. Secondo molti critici il personaggio di Titiro si identifica con lo stesso Virgilio in quanto anch'egli si vede prima spodestato e poi proprietario dei suoi averi. Questo ha fatto leggere l'intera opera in chiave allegorica in quanto si può cogliere in ogni personaggio e situazione un aspetto della realtà virginiana. Possiamo anche dire che ogni personaggio non ha un individualità propria ma ci appaiono tutti come Virgilio stesso in quanto in ognuno di essi si può ritrovare qualcosa della condizione passata o presente ma anche della personalità dell'autore; infatti troviamo il suo amore per la vita, la sua sensibilità, l'avversione per ogni forma di violenza. Tutto sembra allegoria ma può essere considerato anche come simboli della condizione umana in essi rappresentata in quanto soprattutto nello sfondo, troviamo lo scontrarsi della realtà con l'arcadica perfezione di quel mondo. Titiro viene descritto come ° "lentus" cioè tranquillo grazie alla condizione economica e sociale favorevole, ° "fortunate senex" è così che lo definisce Menibeo riferendosi alla sua condizione favorevole, "inertem" cioè indolente, ° "recubans" cioè sdraiato quasi sempre all'ombra di grosse piante, innamorato di Amarillide e critico nei confronti di Galatea, ° vede in Ottaviano un "deus". Egli ci appare come felice della sua situazione tanto da non concedere nessuna parola di conforto nei confronti di Menibeo. Menibeo invece è ° rassegnato al destino che lo aspetta, destino che comprende l'allontanamento dalle sue terre, ° affaticato dal lavoro della pastorizia. Da egli è rappresentata la parte tragica della vicenda. Più di Titiro Menibeo è un simbolo realistico e rappresenta tutti coloro che non sono stati fortunati come Virgilio o Titiro ma che si sono visti cacciati dalle proprie case e "derubati" dei propri averi. Il paesaggio di sfondo ha un

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ruolo importante specialmente in questa parte dell'opera. Oltre al tipico "locus amenus" vale a dire un paesaggio tipico del genere bucolico, pieno di vita e prospero; vi è una natura che riporta a luoghi reali. La vicenda è ambientata in Arcadia, il locus amoenus dei pastori virgiliani, terra del dio Pan, un luogo carico di significati metaforici: è un riparo, un luogo dove vivere e cantare l'amore, anche deluso, ed è il luogo della civiltà contrapposta alla barbarie. E' un simbolo di felicità, un'immagine reale ma intatta dalla realtà. Egli fa riferimento al Menalo, al Peneo, alla pianura padana e alle correnti dei corsi del Mincio. In particolare tre volte fa riferimento alla Valle padana, cioè la campagna del poeta stesso, una volta alla Sicilia precisando l'imitazione teocritea. Dalle piante, il clima, l'ombra, gli animali, le castagne ecc, si pensa che le bucoliche siano ambientate in autunno o quanto meno nel periodo di settembre. Virgilio scrive le bucoliche su modello di teocrito. Teocrito viene considerato l'inventore del genere bucolico e Virgilio come uno degli ultimi suoi continuatori. I due bucolici presentano delle differenze dal punto di vista formale e dei contenuti; il loro modo di rappresentare il mondo agreste è diverso in quanto teocrito descrive la natura in modo luminoso, mediterraneo, ridente; mentre i paesaggi di Virgilio spesso vengono descritti al calar della sera quindi sono soffusi e malinconici. Mentre teocrito cerca nella natura tutti quegli elementi piacevoli, Virgilio la sente con una nota di nostalgia; si può dire che in Virgilio la campagna perde sensualità per arricchirsi di sentimento. Mentre per teocrito il mondo pastorale non assume un significato proprio, per Virgilio diventa l'Arcadia, una regione accogliente in mezzo ad una realtà ostile. Virgilio parla di un amore, quello per i campi, che non è elemento letterario ma qualcosa di personale; egli ha conosciuto la campagna direttamente e non dai libri.

E’ questo un motivo che troviamo malinconia e poria che in Teocrito non può esserci; il personaggio di menibeo ricorda le gioie perdute, il canto dei pastori, il gemere della tortora, elementi si presenti in teocrito ma che non assumono un significato particolare. Inoltre nelle bucoliche troviamo accenni alla vita di Virgilio o menzionati personaggi del tempo che potevano essere poeti, amici, protettori. I pastori di Virgilio si differenziano da quelli di teocrito in quanto per loro bocca vengono espressi i sentimenti dello stesso Virgilio o almeno vieni trasferita in essi la sua malinconia. Virgilio doveva avere una profonda conoscenza della cultura greca in quanto le immagini, i personaggi e i motivi teocritei sembra gli appaiano con una certa familiarità. Mentre Teocrito guarda i pastori da lontano e con distacco, quasi come se si considerasse superiore, Virgilio si immedesima in loro. Teocrito fa leva sull'ironia mentre in Virgilio vi è partecipazione; i pastori virginiani partecipano di più alle vicende, sentono maggiormente ciò che accade loro, sono sempre caratterizzati da un'ombra di malinconia, che trova collocazione anche nel paesaggio. l'ambientazione delle Bucoliche è infatti fredda, e nebbiosa, spesso raffigurata al crepuscolo; quella degli Idilli è la Sicilia, dove la natura è rigogliosa, e c'è sempre sole e caldo. La principale differenza dal punto di vista lessicale sta nella scelta di Teocrito di un lessico elegante; infatti negli Idilli un capraio viene descritto come tale ma si esprime in modo elegante e particolare per questo definito "colto cittadino travestito". I pastori di Virgilio non compiono lavori ma cantano coni loro flauti sottili, vivono in un loro mondo sereno che gli permette di rifugiarsi dalla tragica realtà; non sono ne troppo cruenti ne troppo eleganti. Leggendo i versi si capisce la forte influenza che l'autore greco ha avuto su Virgilio; in effetti quasi tutta l'opera è modellata su Teocrito, ai quali Idilli, dei piccoli quadretti di vita campestre, da Virgilio ha tratto spunto. Bisogna sottolineare che non è però semplicemente imitazione di Teocrito ma qualcosa di strettamente connesso con la sua indole e le sue esperienze: la guerra, dell'ingiustizia dell'esproprio, le vicende politiche; tutto ciò che lo portò ad avere una concezione della vita come dominata dal dolore, dall'ingiustizia, che è propria delle Bucoliche. lo stile delle bucoliche è molto elaborato. I toni sono malinconici in quanto rispecchiamo la malinconia presente

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nell'opera. Lo stile viene definito umile rispecchiando quello che può essere il linguaggio pastorale. Dal punto della vista della metrica viene utilizzato l'esametro che riesce ad essere modellato sui diversi livelli espressivi e da un tono di eleganza. Virgilio fa ricorso a varii artifici metrici e retorico-stilistici, come le censure, le anafore, le antitesi, i chiasmi, le assonanze e le allitterazioni. I periodi appaiono brevi, non più di quattro esametri in modo da essere più conformi ad esprimere concetti elaborati da personaggi quali pastori. Il linguaggio utilizzato è appropriato al contenuto pastorale in quanto troviamo parole che sono del gergo di coloro che vivono a stretto contatto con la natura vivendo con e in essa e quindi è strettamente collegato alla personalità di Virgilio. L'opposizione dei due piani si presenta subito nei primi cinque versi, con la drastica antitesi fra il tu e il nos, fra la riposante felicità degli otia bucolici a cui si abbandona Titiro, e l'infelicità dell'esule, antitesi su cui è appunto costruita l'egloga. La medesima opposizione ricompare negli ultimi cinque versi, dove il poteras requiescere in bocca a Titiro, evoca indirettamente l'irrevocabile destino di chi è costretto a voltare le spalle alla propria felicità ( ché tale è sentita la vita nei campi e fra i campi dei pastori virgiliani ), proprio nell'ora in cui le ombre della sera, allungandosi quasi a proteggere l'intimità domestica di chi rimane, acuiscono la disperazione dell'esule. Proprio perchè Melibeo deve allontanarsi per sempre dai suoi campi, egli è tutto chiuso nel cerchio dell'hic. Al contrario Titiro, che è rimasto padrone della sua proprietà vive nel cerchio dell'ille; il ricordo lo lega a ciò che è lontano, a Roma ( anche se sentimentalmente vicina , al punto da essere designata col dimostrativo di prima pers. Haec , v. 24 ), e allo iuvenis. ---la doppia antitesi TU / NOS : ILLE / MIHI. Il contrasto fra l' hic di Melibeo e l'ille di Titiro riappare nell'antitesi tu/ nos, dominante nelle parole del primo e nella giustapposizione ille / mihi in cui si articola il ricordo di Titiro.

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Definita età Augustea dal cognome assunto dopo il 17. La periodizzazione è convenzionale: anche se alcuni ritengano vada dal 44 al14, cioè dalla morte di Cesare a quella di Augusto, essa va dal 43 al17, cioè dalla morte di Cicerone a quella di Ovidio, poiché comprende sia la morte di Cesare che l'inizio delle produzioni letterarie di Virgilio e Orazio che, favoriti dalle commissioni e dal circolo di Mecenate, entrano nell'entourage letterario.La produzione letteraria va quindi dagli inizi di Virgilio alla morte di Ovidio (42-17). Tra 43 e 33 vi erano ancora guerre civili, motivo per cui in questo periodo la letteratura ha carattere angosciato, confuso, pessimistico. Nel periodo tra la morte di Cesare e la battaglia di Azio (44-31) è un periodo di guerra, disperazione e angoscia in tutta Italia, non solo a Roma, che si riscontra nelle opere degli autori elegiaci come Properzio, Orazio, Tibullo...In età augustea il princeps consente di astenersi dalla vita pubblica e in questo modo favoriva la presenza di generi come l'elegia. Quest'epoca ha una letteratura pessimistica e propagandistica anche perché i poeti stessi erano stati colpiti dalla crisi. A partire dal 31 Ottaviano cambia politica, avvia una nuova forma di potere, rispettosa delle tradizioni, anche se di fatto il reggente è un tiranno. In questa circostanza la funzione dei poeti non è servile né strumentale; essi credono nel progetto di Ottaviano, le loro aspettative convergono: non sono solo interessi di carattere letterario ma anche economico, ad esempio Orazio e Virgilio erano proprietari terrieri e la loro situazione privilegiata era garantita da Augusto, senza il quale, in un periodo di guerra civile, non sarebbe stato possibile. Virgilio e Orazio non rimpiangono la res publica, come avrebbe fatto poi Lucano, poiché la vedono come un periodo di guerre civili, una fase critica. La letteratura augustea nasce proprio dalla volontà di allontanarsi da quell'atmosfera. LETTERATURA AUGUSTEA Nel giro di pochi anni vi è una straordinaria quantità di capolavori prodotti da autori come Virgilio, Orazio, Ovidio, Livio, Properzio e Tibullo. Questi autori definiscono le regole dei generi letterari che valgono non solo per l'età classica ma anche per la letteratura italiana dell'umanesimo. Tra questi manca l'oratoria, genere tipico della discussione, che non può esserci perché la forma di governo non lo permette: il principato dell'età imperiale fa sì che ci sia un'oratoria fine a sé stessa perché il sistema politico centralizzato non consentiva il dibattito, la discussione.Il dato fondamentale è l'esistenza di un programma letterario garantito dal mecenate; ogni artista era libero di scrivere secondo le sue caratteristiche individuali, il suo stile proprio poiché il princeps consentiva agli artisti di esercitare la loro propria aspirazione letteraria.Gli intellettuali augustei vogliono competere con i più grandi autori della Grecia classica allo scopo di creare un equivalente letterario, creare dei modelli che svolgano nella romanità quello che era stato il ruolo dei poemi greci in Grecia. Virgilio si confronterà con Omero perché quest'ultimo aveva plasmato la grecità e Virgilio si proponeva di recuperare lo spirito del grande modello arcaico perché svolgesse lo stesso ruolo nella romanità. Questo è quello che faranno i maggiori autori, ad esempio Orazio, scrivendo opere poetiche dalla complicata stesura metrica, citerà Alceo e Saffo ed Acheronte e Pinto. GENERI LETTERARI I generi intesi come forme canoniche non esistono, sono i poeti dell'età augustea a crearli: essi selezionano i caratteri comuni e le tematiche per classificare le opere riunendole nei diversi generi. Stabiliscono quindi i canoni e cercano il genere giusto per esprimerli. Le precettistiche non vengono seguite scrupolosamente ma vengono considerate come schema costruttivo. Si ha una specializzazione canonica: i poeti augustei, partendo da generi ellenistici cercano di risalire ai moduli originari diventando più specializzati, invece

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gli ellenisti partivano dai modelli per renderli altro. I generi letterari , in una certa forma esistevano anche prima nella latinità ma erano solo opere d'imitazione. Tra i generi vi sono: bucolico, pastorale ed elegiaco (amoroso. In quarant'anni si ha la costituzione di un corpus di opere prestigiose. I poeti che definiscono questi generi e questi moduli sono consapevoli del loro compito e dei benefici che ne deriveranno. Cambia lo status culturale intellettuale del letterato, soprattutto del poeta: non sono più artigiani di parole ma maestri di verità, utili al rinnovo della politica. La poesia ha una valenza nuova rispetto al passato. Vi è un rovesciamento del disimpegno neoterico: l'estetica resta neoterica ma non c'è più disimpegno. I neoteri sono rifiutati dal punto di vista contenutistico perché la loro letteratura è svincolata dalla politica, dedicata al privato. La letteratura ora si confronta con la politica centralizzata: Virgilio diffonde il mito della campagna italica poiché il contatto con la terra comunica del valori; Orazio diffonde il mito della comunità di di cittadini; la sua morale invita alla privatezza,al rapporto di amicizia, e si definisce "aurea mediocritas", posizione intermedia tra due estremi, consente equilibrio tra vita privata e impegno sociale. Vengono criticate le influenze orientali , attribuite ad Antonio. Le modalità orientalizzanti sono gnostiche, considerate elemento nemico sia dello stoicismo che del cristianesimo. Con Augusto si ufficializza la contrapposizione dei due modelli: orientale e tradizionale romano. Nelle corti si preferirà il modello orientale. Gli elementi culturali umanistici della classicità vengono integrati alla romanità senza snaturare la tradizione, l'elegia è un genere che si rivela problematico perché raccomanda un ripiegamento al privato; quest'ultimo sarà tollerato ma non consigliato l'elegia è permessa dal sistema centralizzato, nella res publica precedente sarebbe stata rifiutata; risulta comunque problematica perché non rispecchia i valori tradizionali. Con Ovidio, nella seconda fase del regno di Augusto, i rapporti tra cultura e potere si deteriorano; la poesia si divarica in poesia celebrativa o disimpegnata. Nel primo caso si rischia di sconfinare nella pura propaganda, nel secondo caso il rischio è che la letteratura diventi eccessivamente disimpegnata. Ovidio deforma tutti i generi letterari facendo emergere il contrasto contraddittorio tra prassi edonistica e moralismo ideologico(il continuo parlare dei valori tradizionali). CIRCOLI LETTERARI La mediazione tra letterati e poteri è data dai circoli letterari, decisivi per la messa in circolazione di , idee e la committenza politica.Oltre al circolo di Mecenate ve ne erano altri, alcuni dei quali non erano filoaugustei ma filoantoniani. Vi erano il circolo di Valerio Messalla e quello di Asinio Pollione, citato nelle bucoliche; quest'ultimo è particolarmente importante perché nella IV ecloga di Virgilio, il "puer" citato era legato a Pollione. In questo periodo ci sono anche intellettuali minor, come Cornelio Gallo, che cade in disgrazia per motivi oscuri e nel 26 si suicida (sarà importante per Virgilio); Vario Rufo, molto apprezzato da Virgilio, era un epicureo, fu scelto da Augusto per la produzione dell'Eneide, assieme a Tucca; questi, tradendo il testamento di Virgilio che voleva bruciare l'opera, pubblicano l'Eneide. Vario Rufo fu un intellettuale di grande alto livello che non produsse molte opere ma fu fondamentale per altri letterari. Mecenate (70-8) è il vero centro di attrazione dell'età augustea, era un nobile etrusco che apparteneva agli equites, per scelta non volle occupare alcuna carica politica, motivo per cui divenne un mito del cives augusteo, era un edonista che influenzò direttamente la politica pur senza esporsi ufficialmente. Mecenate promosse la letteratura dando vita ad un circolo privatissimo; i temi erano tutt'altro rispetto a quelli dei neoteri mentre le prassi stilistiche e l'idea di un circolo letterario erano tipicamente neoterici. Altre cerchie culturali erano quella qi Pollione, interessato all'oratoria, filoantiniano, creò la prima biblioteca pubblica. Affrontò l'argomento della guerra civile in un'istoria che però andò persa perché, siccome antiaugustea, fu censurata. Messalla creò un circolo moderato, di collocazione centrale tra la cerchia di Pollione e quella augustea. Era una cerchia apolitica di ui infatti faceva parte Tibullo, noto per essere

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neutrale rispetto agli schieramenti politici. BUCOLICHE Sono la raccolta di 10 brevi componimenti esametrici che appartengono al genere pastorale, genere ricostruito dallo stesso Virgilio, scritte tra 42 e 39;si chiamano bucoliche(=canti pastorali) nella complessità, ecloga (=canto scelto) singolarmente. Il modello di riferimento è Teocrito, poeta poco amato dalla cultura latina precedente a Virgilio; egli rappresenta il mondo rurale dal punto di vista del cittadino, con la consapevolezza che è una vita per lui irreale. Il genere ha tendenza riflessiva: i pastori sono anche poeti. Virgilio rappresenta tutto con nostalgia, come un ricordo della giovinezza. Virgilio impara i codici del genere e crea un equivalente culturale che corrisponda all'originale di Teocrito (è il primo che si ispira a Teocrito). I criteri di abbinamento delle bucoliche sono discussi. Alcuni, confrontando l'opera con quella di Teocrito , paragona gli idilli di Teocrito, cioè le immagini di vita rurale; Virgilio descrive questa vita di campagna idealizzata, che è stata però la sua vita giovanile. Nella prima ecloga vi è un riferimento a Ottaviano, nell'ultima a Cornelio Gallo; V ha dei riferimenti alla morte di Cesare, la VI parla di poetica. Vi sono coppie disposte in modo chiastico in merito agli argomenti: 1-9 guerra civile, 2-8 temi amorosi, 3-7 gare poetiche, 4-6 elementi pastorali. Virgilio pensa al paesaggio italico della sua infanzia ma ha in mente anche un luogo fittizio per l'ambientazione: l'Arcadia, mondo beato, dove i pastori vivono a contatto con la natura. È il mito dell'età dell'oro riproposto in letteratura. Vi è un elemento autobiografico, per cui non si tratta solo di riproporre un genere. Questi riferimenti riguardano le guerre civili, quindi si trovano soprattutto nelle I e IX. Il carattere personale è dato dalla perdita delle terre della famiglia di Virgilio. Importante è la IV dove Virgilio vuole abbandonare il tema pastorale per cantare un evento straordinario: egli annuncia l'arrivo di un puer nato da una vergine, che avrebbe riportato la civiltà all'età dell'oro. Probabilmente Virgilio attendeva la nascita del figlio di Antonio nato dal matrimonio con la sorella di Ottaviano che avrebbe unito i due in un'alleanza, durante il consolato di Asinio Pollione del 40. Questo tipo di interpretazione è data da riferimenti storici precisi ma, siccome vi sono anche elementi molto vaghi che lasciano ad altre ipotesi, è giustificata anche un'interpretazione di tipo cristologico a causa della quale Virgilio assunse l'appellativo di "magico".La V e la X ecloga affrontano questioni di poetica e fanno dei riferimenti a Cornelio Gallo, poeta elegiaco morto suicida che viveva la propria dimensione poetica dedicandosi ad esprimere l'amore impossibile, l'angoscia, la sofferenza. Con Gallo c'è il passaggio dalla poesia elegiaca intesa come servitium amoris ad una poesia solitaria intesa come contemplazione della natura. Queste ecloghe hanno valenza poetica perché rappresentano un passaggio stilistico ma potrebbero avere anche valenza autobiografica poiché da questa riflessione sull'amico Gallo si potrebbe pensare che nella vita di Virgilio ci sia stata una svolta dopo la quale egli si rende conto che la vita del poeta deve essere un otium poetico e non più sofferenza d'amore, consentito dai protettori, che lui ringrazia all'interno dell'opera, che rendono possibile questo tipo di poesia come contemplazione della natura. GEORGICHE Virgilio pose mano alle Georgiche a partire dal 37 a.C., quando ormai era entrato stabilmente nel circolo di Mecenate, e ci lavora per 10 anni, anni di amplissime letture (Lucrezio, Catullo, trattati filosofici..) e labor limae. Le Georgiche nascono nel clima di preoccupazione per la decadenza del mondo contadino italico, di fronte all'avanzata del latifondo. L'opera non fornisce semplicemente indicazioni più o meno precise di natura tecnico-agricola; mira piuttosto a descrivere l'azione positiva che l'uomo attraverso le sue artes, può e deve esercitare nei confronti della natura, non sempre benefica o idillica.Il problema strutturale è dato dal doppio finale: nel IV vi è la favola di Orfeo ed Euridice e secondo alcuni questo episodio è stato sostituito ad un altro che era impresentabile e parlava di Gallo che in quel tempo si stava battendo negli scontri dell'epoca; questo però è estremamente improbabile perché l'elogio a Gallo sarebbe dovuto essere troppo lungo e perché la favola ci dà il significato dell'opera. In realtà Gallo

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era stato elogiato prima della favola di Orfeo ed Euridice in una parte dell'opera che è stata cancellata e questo lo si capisce dalla diversa distribuzione dei versi. Le Georgiche sono un poema didascalico di 4 libri, in esametri ripreso per alcuni aspetti dai poemi ellenistici didascalici, nei quali però l'insegnamento non aveva un'efficacia pratica ma era un pretesto poiché importante era la forma. Nelle Georgiche il contenuto apparente è trascurabile , importante è il contenuto simbolico (l'ars è subordinata alla res). Importante per Virgilio era stato il ruolo di Lucrezio che aveva ripreso il poema didascalico. Lo stile di Virgilio è raffinato: alessandrino dal punto di vista formale, lucreziano dal punto di vista contenutistico. Il suo programma poetico è "intenui labor", cioè fatica poetica nell'impegno formale, nelle cose minute. Come Lucrezio, anche Virgilio vuole comunicare un messaggio di salvezza per l'uomo; c'è nel contadino di Virgilio la stessa autosufficienza che a cui può arrivare il filosofo di Lucrezio. Il legame con la terra e la fatica del contadino possono salvare l'uomo ma, poiché il contadino è anche poeta viene celebrato il labor del poeta. Il contadino non è reale ma idealizzato , ha valenza simbolica: possiede inconsapevolmente una sapienza che gli consente di vivere serenamente. Differenze tra Virgilio e Lucrezio: -Virgilio mantiene la religione tradizionale; -il suo sapere non è teoretico; - la natura, che in Lucrezio è soverchiante, in Virgilio è umanizzata. Le Georgiche seguono le evoluzioni politiche tra 37 e 29, sotto Ottaviano, il quale protegge la vita del contadino e, fuor di metafora, del poeta. Ottaviano e Mecenate sono i dedicatari dell'opera. I destinatari narrativi sono gli agricoltori, soggetto didascalico, il destinatario reale è il cittadino. Le Georgiche non sono il programma politico di Augusto perché la vita che rappresenta è idealizzata: non ci sono riferimenti agli schiavi né riferimenti economici perché non sarebbero stati in sintonia con le tematiche e l'armonia del poema. Il colonos (cittadino) virgiliano è la figura attraverso cui l'autore veicola insegnamenti morali e ripropone i valori antichi tradizionali messi in crisi dai personaggi orientalizzanti. Augusto viene rappresentato come tradizionalista contrapposto ad Antonio, personaggio orientalizzante. Virgilio produce quest'opera in modo autonomo , non fa una letteratura costituita per trasmettere un messaggio politico.: la politica c'è ma fa da sfondo alle vicende. 4 libri, ogni libro un tema: I il lavoro dei campi, II arboricoltura, III allevamento del bestiame, IV apicultura. Si passa da un massimo ad un minimo livello di fatica per l'uomo: dallo sforzo dell'aratore all'apicoltura che esclude il contributo dell'uomo; il messaggio filosofico questo passaggio trasmette è la presenza della natura sempre maggiore, dal cosmo al microcosmo, e quest'ultimo è molto simile a quello dell'uomo. Per Virgilio l'uomo che ha perduto la purezza dell'età dell'oro ha la possibilità di recuperare la serenità attraverso un lavoro ben fatto. L'affermazione di una caduta da uno stato originario di purezza, la decadenza rispetto ad una condizione originaria, è l'immagine che l'autore vuole trasmettere per affermare una possibile redenzione da questa condizione. I libri sono autonomi, ognuno di essi prevede un proemio e delle digressioni; le connessioni tra i libri non sono operate da dei richiami logici ma sono di tipo armonico, strutturale o per associazione di idee. Ogni libro presenta una digressione conclusiva : nel I è dedicata alle guerre civili, nel II alla lode della vita rustica, nel III agli effetti della peste del Norico ( tra Italia e Austria), nel IV alla storia di Aristeo,Orfeo ed Euridice. Le storie sono chiasticamente intrecciate. I proemi hanno valore di "cerniera" tra un libro e l'altro. I libri negativi I e III sono molto lunghi rispetto al tema del libro, presentano gli orrori della storia e i disastri della nature (guerre civili e peste) mentre i libri positivi II e IV sono brevi e solo introduttivi, hanno un finale felice e propongono un messaggio ottimistico. Il secondo libro presenta l'elogio dei campi che si contrappone al primo, il IV presenta la rinascita delle api, contrapposto al III. L'architettura finale è piena di chiaroscuri, il lettore è sempre coinvolto attraverso emphaty e simpaty, ci fa riflettere sul dolore. Le Georgiche sono un'opera classicista ma anche piena di ombre. Vi è equilibrio tra struttura ordinata e immagini di

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angoscia e sofferenza temperate attraverso lo stile, che danno realismo. Il lavoro è necessario per l'uomo ma anche punitivo perché nell'età dell'oro non si doveva lavorare.(lo rappresenta con Aristeo che fa rinascere la vita ma Orfeo muore). L'intreccio tra elementi positivi e negativi è in equilibrio. La digressione finale, con la favola di Aristeo, di carattere narrativo, riguarda l'aition (= causa, spiegazione mitica dell'origine di qualcosa). Il mito eziologico è quello della pugonia (= nascita mitica delle api dalla carcassa di un bue) che è raccontato nella digressione del IV libro. Aristeo è l'eroe del labor: inventa l'apicultura ma un'epidemia uccide tutte le api; esse muoiono per punizione perché Aristeo aveva fatto morire Euridice, moglie di Orfeo. Il racconto da Aristeo è cornice della storia di Orfeo ed Euridice. Gli dei riportano in vita Euridice a patto che Orfeo non la guardi: quando lui la guarda lei scompare. Egli decide di non sposarsi più e le donne di Tracia lo smembrano. Aristeo si pente, sacrifica dei buoi per avere il perdono degli dei e dalle carcasse di questi rinascono le api. Queste storie hanno tra loro parallelismi, richiami, simmetrie precise, oltre ad essere legate narrativamente. Il carattere della forma è alessandrino e neoterico. Sia Orfeo che Aristeo vanno in contro a peripezie, cioè avvenimenti che si concludono con un rovesciamento. Orfeo va all'inferno per cercare Euridice, Aristeo va negli abissi del mare per trovare i motivi delle sue sventure. Vivono quindi vicende simili ed entrambi si scontrano con la morte: i finali sono però opposti: Orfeo fallisce, Aristeo conquista il perdono. C'è un invito all'uomo a riconoscere i suoi limiti e rientrare in un ordine gerarchicamente stabilito. Orfeo sbaglia perché cerca di soverchiare questa gerarchia. Tutto il racconto della digressione del IV libro è ripetizione, attraverso modalità narrativa, del tema generale delle Georgiche: l'insegnamento morale dell'intero poema didascalico è sintetizzato nel racconto di Aristeo. Orfeo è contrapposto ad Aristeo: contrapposizione tra labor e furor, dove labor è civiltà classica cristiana, furor è civiltà basata sugli eccessi, sull’istinto e l’impulsività. La favola di Orfeo e di Euridice è da interpretare nella totalità dell'episodio: è Aristeo il personaggio positivo, Orfeo quello negativo che pecca credendo di potersi salvare da solo. Virgilio invita il lettore a ritrovare continuità tra il singolo episodio e l'intera opera. L'ENEIDE L'esperienza delle Georgiche mette Virgilio nella condizione di scrivere l'Eneide. Gli intrecci stilistici e le tematiche spingono Virgilio a cimentarsi nello scrivere il poema epico. L'elemento della partecipazione collettiva cioè l'intervento del narratore dall'esterno ma anche capacità di suggerire sentimenti al lettore attraverso espressioni è un'esperienza che Virgilio ha fatto nelle Georgiche. Nella cultura augustea del tempo c'era una forte aspettativa per un nuovo epos. Nelle Bucoliche Virgilio aveva affermato che non era intenzionato a narrare grandi cose, usare generi impegnativi, nelle Georgiche, versi 46-48,, afferma di voler narrare le gesta di Augusto. Virgilio riprende la poesia enniana secondo i neoteri: non vuole continuare Ennio ma sostituirlo. Attraverso l'Eneide l'autore si propone di elogiare Augusto ed imitare Omero, cioè costruire un equivalente di Omero adattandolo al suo tempo. I 12 libri dell'Eneide fanno riferimento ai 24 di Omero. I primi 6 libri dell'Eneide hanno carattere odisseico, narrano il viaggio da Troia al Lazio, gli ultimi 6 hanno carattere illiadico. Nell'Odissea il viaggio rappresenta il ritorno a casa, meta certa e sicura; nell'Eneide invece è un viaggio dalla patria all'ignoto. Nell'Iliade si ha la distruzione della città, mentre nell'Eneide si ha la fondazione della città. Si ha quindi un rovesciamento dei contenuti e la creazione di un nuovo modello. Il viaggio non è più fisico ma metafisico. Si ha la contaminazione del modello, cioè mescolamento della fabula, la continuazione, perché la storia continua a partire dalla fine del modello, creando un percorso ciclico. Ci sono una serie di richiami: Enea ha caratteri comuni ad Achille ed Odisseo, Pallante a Patroclo, Turno a Ettore. È un rovesciamento dell'Iliade perché perché Virgilio chiude con un trionfo. L'elogio di Augusto avviene attraverso gli antenati, per questo non è considerato un poema propagandistico. Il mondo dell'Eneide è leggendario quindi quelle che riguardano Augusto sono peripezie;es. Nel I libro Giove

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rimanda alle vittorie dei Romani; nel VI c'è la discesa agli inferi di Odisseo, lo scudo di Enea raffigura le future vicende della gloria di Roma. Attraverso queste strategie Virgilio concilia epos omerico e parte storico-celebrativa. Nel VI vi sono i personaggi che saranno poi eroi di Roma in età augustea. L'elemento di raccordo tra storia ed epos è la vicenda storica di Enea. Le scoperte archeologiche hanno dimostrato l'importanza della figura di Enea: non sarà mai considerato fondatore di Roma ma la sua fama aumenta verso il II secolo per motivi politici poiché nell'epoca della conquista del Mediterraneo e nella riduzione della Grecia a provincia, la vicenda di Enea giustifica l'acquisizione della Grecia da parte di Roma (Roma e Troia erano collegate da Enea). L'elemento celebrativo sta nel fatto che il figlio di Enea, Ascanio Iulo, fu fondatore della Gens Julia da cui deriva Augusto. Le vicende non sono narrate in rapporto cronologico, vanno dalla vicenda di Troia alla fondazione di Roma. Tutte le popolazioni italiche contribuiscono alla fondazione di Roma (Virgilio stesso era provinciale). Tutte le vicende sono storicamente documentate. LO STILE EPICO Virgilio lavora sull'esametro: esso garantisce massima libertà e massimo ordine allo stesso tempo. La frase non è schiava del metro: l'esametro si adatta elasticamente alle necessità espressive. La varietà dei registri stilistici è ampiamente usata nel poema. L'allitterazione, lettura arcaica, veniva usata per ragioni ideologiche, cioè quando doveva usare espressioni poetiche. Il linguaggio aulico veniva usato raramente per sottolineare il suo debito verso la tradizione nel rappresentare scene patetiche. La novità non sta nell'usare parole difficili e poetiche ma nel sistemare parole di utilizzo quotidiano nella struttura poetica, nelle strutture sintagmatiche impreviste: il lettore riconosce la parole ma ne ricava un significato diverso; utilizza parole facili per esprimere significati profondi. Usa la "callida iuctura", accostamento furbo, brillante; questo procedimento era così definito da Orazio (ti esprimerai splendidamente se un accostamento brillante avrà reso nuova una parola vecchia). Il lessico di Virgilio è semplice, la narrazione è piana, con epiteti stabili; costruisce un mondo dove il lettore può entrare; c'è però una nuova sensibilità. Gli epiteti sono emotivamente coinvolgenti. Virgilio suggerisce altro oltre a quello che c'è all'apparenza nei suoi versi. In Virgilio l'epica incrementa la soggettività dando più iniziativa al lettore, più iniziativa ai personaggi e più iniziativa al narratore. La capacità di coinvolgimento, simpaty, è quando il narratore interviene direttamente, l'emphaty è quendo invece suggerisce il punto di vista interno del personaggio e molto spesso non si tratta di un protagonista ma di un personaggio marginale. Questi intenti sono inseriti mantenendo equilibrio ed unità dell'opera. Anche l'ideologia è oggettiva e soggettiva: oggettiva nel descrivere una missione voluta dal fato, la volontà che si arrivi all'origine dell'Impero romano, l'epica collettiva; soggettivi sono i sentimenti dei vinti, dei nemici.. c'è una rivalutazione del nemico, le cui ragioni vengono esaltate: in questo modo l'eroe che sconfigge il nemico è maggiormente esaltato. es. Turno dimostra che la guerra non è mai facile e non è mai giusta (esprime la sofferenza del vinto). La morte di Turno avviene per furor di Enea: il vincitore non è un personaggio così positivo, è chiaroscurale, rappresenta la romanità. L'Eneide termina nella follia del personaggio pius per eccellenza, l'Iliade, in cui l'eroe è un personaggio bellicoso, si conclude con la pietas del personaggio. Virgilio pretende molto dal lettore: chiede di porre attenzione alle sofferenze dei singoli, di accettare l'oggettiva provvidenza e la soggettività tragica. Enea è ambiguo, chiaroscurale, è costretto a far soffrire gli altri a causa del volere degli dei. Riprende la volontà malevole degli dei dalla tragedia greca.

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Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto (in latino Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus;

nelle epigrafi:C•IVLIVS•C•F•III•V•CAESAR•OCTAVIANVS[9]; Roma, 23 settembre 63 a.C. – Nola, 19

agosto 14 d.C.) meglio conosciuto come Ottaviano oAugusto, fu il primo imperatore romano.

Il Senato gli conferì il titolo di Augustus il 16 gennaio 27 a.C.,[10] e il suo nome ufficiale fu da

quel momento Imperator Caesar Divi filius Augustus (nelle

epigrafi IMPERATOR•CAESAR•DIVI•FILIVS•AVGVSTVS).[11] Nel 23 a.C. gli fu riconosciuta

la tribunicia potestas (che mantenne poi a vita[12]) e l'Imperium proconsulare a vita;[13] mentre

nel 12 a.C. divennePontefice massimo con la morte di Marco Emilio Lepido.[14] Restò al potere

sino alla morte e il suo principato fu il più lungo della Roma imperiale (44 anni dal 30 a.C., 41

anni dal 27 a.C., 37 anni dal 23 a.C.)[15][16]

« Ottenne magistrature ed onori prima del tempo [legale]: alcune furono create appositamente per lui o gli furono attribuite in modo perpetuo. »

(Svetonio, Augustus, 26)

L'età di Augusto rappresentò un momento di svolta nella storia di Roma e il definitivo

passaggio dal periodo repubblicano al principato. La rivoluzione dal vecchio al nuovo sistema

politico contrassegnò anche la sfera economica, militare, amministrativa, giuridica e culturale.

Augusto, negli oltre quarant'anni di principato, introdusse riforme d'importanza cruciale per i

successivi tre secoli:[17]

riformò il cursus honorum di tutte le principali magistrature romane, ricostruendo la nuova

classe politica e aristocratica, e formando una nuova classe dinastica;

riordinò il nuovo sistema amministrativo provinciale anche grazie alla creazione di

ventotto colonie[18][19] e numerosi municipi che favorirono la romanizzazione dell'intero

bacino del Mediterraneo;

riorganizzò le forze armate di terra (con l'introduzione di milizie specializzate per la difesa

e la sicurezza dell'Urbe, come le coorti urbane, i vigiles[20][21] e la guardia pretoriana) e

di mare (con la formazione di nuove flotte in Italia e nelle provincie);

riformò il sistema di difesa dei confini imperiali, acquartierando in modo

permanente legioni e auxilia in fortezze e forti lungo l'intero limes;

fece di Roma una città monumentale con la costruzione di numerosi nuovi edifici,

avvalendosi di un collaboratore come Marco Vipsanio Agrippa;

favorì la rinascita economica e il commercio, grazie alla pacificazione dell'intera

area mediterranea, alla costruzione di porti,strade,[21] ponti e ad un piano di conquiste

territoriali senza precedenti,[22] che portarono all'aerarium immense e insperate risorse

(basti pensare al tesoro tolemaico o al grano egiziano, alle miniere d'oro dei Cantabri o

quelle d'argento dell'Illirico);

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promosse una politica sociale più equa verso le classi meno abbienti, con continuative

elargizioni di grano e la costruzione di nuove opere di pubblica utilità

(come terme, acquedotti[23] e fori);

diede nuovo impulso alla cultura, grazie anche all'aiuto di Mecenate;

introdusse una serie di leggi a protezione della famiglia e del mos maiorum chiamate leges

Iuliae;

riordinò il sistema monetario (23-15 a.C.), che rimase praticamente immutato per due

secoli;

Ristabilì nel calendario l'ordine introdotto da Giulio Cesare, che era stato con le guerre

civili sconvolto, dando poi il proprio soprannome al mese Sestile invece che a quello di

Settembre, in cui era nato, perché durante il Sestile era divenuto per la prima

volta console e aveva ottenuto grandi vittorie.[14]

Indice

  [nascondi] 

1   Fonti e storiografia

2   Biografia

o 2.1   Origini della sua famiglia

o 2.2   Giovinezza (63-44 a.C.)

o 2.3   Ascesa al potere (44-23 a.C.)

2.3.1   Erede di Cesare

2.3.2   Primo conflitto con Antonio (43 a.C.)

2.3.3   Il secondo triumvirato (43-33 a.C.)

2.3.3.1   La battaglia di Filippi (42 a.C.)

2.3.3.2   Primi contrasti (41-39 a.C.)

2.3.3.3   Rinnovo e fine del triumvirato (38-33 a.C.)

2.3.4   Guerra con Antonio e la vittoria di Azio (33-31 a.C.)

2.3.5   Da Ottaviano ad Augusto (30-23 a.C.)

o 2.4   Il principato (23 a.C. - 14 d.C.)

2.4.1   Politica sociale e di moralizzazione

2.4.2   Politica religiosa

2.4.3   Amministrazione della giustizia

2.4.4   Amministrazione dell'Italia e di Roma

2.4.5   Opere pubbliche

2.4.6   Amministrazione provinciale

2.4.7   Amministrazione finanziaria

2.4.8   Caratteristiche demografiche, economiche e sociali dell'Impero romano sotto Augusto

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2.4.9   Riorganizzazione dell'esercito

2.4.10   Politica estera

2.4.10.1   Sottomissione delle "aree interne"

2.4.10.2   Frontiera danubiana

2.4.10.3   Frontiera renana e   Germania Magna

2.4.10.4   Frontiera orientale

2.4.10.5   Frontiera africana

2.4.10.6   Nuovo sistema clientelare

2.4.11   Nuovi impulsi culturali del circolo letterario di Mecenate

o 2.5   Il problema della successione

o 2.6   Morte e testamento

o 2.7   Res Gestae Divi Augusti

o 2.8   Titolatura imperiale

3   Augusto nella cultura

4   Note

5   Bibliografia

6   Voci correlate dell'età augustea

o 6.1   Cultura augustea

o 6.2   Riforme legislative

o 6.3   Principali personaggi contemporanei

o 6.4   Carriera politica e campagne militari

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8   Collegamenti esterni

Fonti e storiografia[modifica | modifica sorgente]

Per approfondire, vedi Fonti e storiografia su Ottaviano Augusto.

Le principali fonti per la vita e il ruolo di Ottaviano Augusto e degli altri membri della famiglia

imperiale sono rappresentate dalle biografie di Svetonio (Vite dei dodici Cesari), oltre

a Appiano di Alessandria (Historia Romana), Sesto Aurelio Vittore (De Caesaribus), Cassio

Dione Cocceiano (Historia Romana), Publio Cornelio Tacito (Annales), Velleio

Patercolo (Historiae Romanae) e lo stesso Augusto (Res Gestae Divi Augusti).

Biografia[modifica | modifica sorgente]

Origini della sua famiglia[modifica | modifica sorgente]

Era figlio di Gaio Ottavio, uomo d'affari che aveva ottenuto, primo della gens Octavia (ricca

famiglia di Velitrae),[24][25] cariche pubbliche e un posto in Senato (era quindi un homo novus).[26] La madre, Azia maggiore, proveniva invece da una famiglia da parecchie generazioni

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di rango senatorio e dagli illustri natali: era infatti imparentata sia con Cesare che con Gneo

Pompeo Magno.[27] Azia era più precisamente la figlia della sorella di Cesare, Giulia minore, e

di Marco Azio Balbo; Ottaviano, pertanto, era pronipote di Cesare.[4]

Giovinezza (63-44 a.C.)[modifica | modifica sorgente]

Busto di un giovane Ottaviano (Museo archeologico nazionale di Aquileia)

Il segno del capricorno, sotto il quale Augusto era nato.

Nacque a Roma nove giorni prima delle Calende di ottobre, poco prima dell'alba, in quella

parte del Palatino denominata ad Capita Bubula(«teste di bue»), dove dopo la sua morte

venne costruito un santuario a lui dedicato.[2] Svetonio aggiunge che inizialmente abitò nei

pressi delForo Romano, sopra le "scale degli orefici", nella casa che era stata dell'oratore Gaio

Licinio Calvo, nei pressi del colle Velia.[28] In seguito si trasferì sul Palatino, in una casa

ugualmente modesta che era appartenuta al consolare ed oratore Quinto Ortensio Ortalo, di

non grande ampiezza e priva di lusso, visto che le colonne dei suoi portici piuttosto basse,

erano di pietra del monte Albano, mentre nelle stanze non c'era né marmo, né mosaici. Dormì

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nella stessa camera per più di quarant'anni, anche d'inverno, sebbene considerasse poco

adatto alla sua salute il clima invernale di Roma.[28]

Il suo nome alla nascita era Gaio Ottavio cui fu aggiunto Turino quando era fanciullo (Gaius

Octavius Thurinus), soprannome in ricordo di suo padre Ottavio, vittorioso contro gli schiavi

fuggitivi nella regione di Thurii.[29]

A quattro anni perse il padre (nel 59 a.C.). A dodici anni circa pronunciò l'orazione funebre

(laudatio funebris) per sua nonna Giulia (nel 51 a.C.).[30] Svetonio racconta di un episodio

avvenuto in questo periodo secondo il quale, Cicerone, mentre accompagnava Gaio Giulio

Cesare in Campidoglio, raccontò agli amici di aver fatto un sogno la notte precedente. Nel

sogno aveva visto un fanciullo dai nobili lineamenti, che scendeva dal cielo appeso ad una

catena d'oro e si fermava davanti alle porte del Campidoglio, dove Giove gli consegnava una

frusta. Quando Cicerone vide Ottaviano, che lo zio Cesare aveva fatto venire ad un sacrificio,

disse che era proprio lui il ragazzo apparsogli in sogno.[25]

Quattro anni dopo all'età di sedici anni indossò la toga virile[25] e ottenne alcune ricompense

militari in Africa, in occasione del trionfo del prozioGaio Giulio Cesare, senza nemmeno aver

partecipato alla guerra per la giovane età. Quando poi lo zio partì per la Spagna per

combattere contro i figli di Pompeo, lo seguì, sebbene ancora convalescente da una grave

malattia. Raggiunse Cesare con una scorta ridotta, dopo aver percorso strade infestate da

nemici e dopo un naufragio. Si fece subito apprezzare dallo zio per il coraggio dimostrato.

Dopo aver portato a termine anche la guerra in Spagna, Cesare, che progettava una

campagna militare prima contro i Daci e poi contro i Parti, lo inviò ad Apollonia, dove poté

dedicarsi allo studio.[30]

Svetonio racconta che durante il soggiorno ad Apollonia, Ottaviano era salito insieme al fedele

amico, Marco Vipsanio Agrippa, all'osservatorio dell'astrologo Teogene. Fu Agrippa a

consultarlo per primo, ricevendo splendide previsioni sulla sua vita futura, quasi incredibili.

Ottaviano, temendo di essere considerato di origini oscure, preferì inizialmente non fornire i

dati relativi alla propria nascita, ma dopo numerose preghiere, vi acconsentì. Teogene allora si

alzò dal suo seggio e lo adorò. Per questo motivo Ottaviano ebbe così tanta fiducia nel suo

destino che fece pubblicare il suo oroscopo e coniare una moneta d'argento con il segno

del capricorno, sotto il quale era nato.[25]

Nel 44 a.C., in occasione della morte di Cesare, seppe di essere stato adottato per testamento

dal prozio come figlio ed erede e, secondo la consuetudine, assunse il nomen gentilizio (Iulius)

e il cognomen (Caesar) del padre adottivo, omettendo però di aggiungere come tradizione un

secondo cognome derivato dellagens di provenienza aggettivata in -anus, divenendo così

Gaio Giulio Cesare (Gaius Iulius Caesar).[29] Il nome Ottaviano venne generalmente diffuso

dalla propaganda degli avversari politici, ma non risulta nei documenti ufficiali. Si narra che

poco prima di venire assassinato, Cesare lo avesse nominato magister equitum in seconda,

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accanto a Marco Emilio Lepido, in vista della grande spedizione d'Oriente che stava

preparando contro i Parti, inviandolo appena diciottenne a sorvegliare i preparativi per la futura

guerra adApollonia. È qui che Ottaviano fu informato dell'uccisione del prozio (15 marzo 44

a.C.), pur restando indeciso sul da farsi, se chiamare in aiuto le legioni orientali o lasciar

perdere, preferì desistere da un'impresa tanto temeraria e tornare a Roma a reclamare i suoi

diritti di figlio adottivo e di erede di Cesare.[30] Ancora Svetonio racconta di un episodio curioso:

« Tornando da Apollonia a Roma, dopo la morte di Cesare, nel cielo limpido e puro apparve all'improvviso un cerchio, simile all'arcobaleno, che circondò il sole, mentre la tomba di Giulia, figlia di Cesare, fu colpita più volte da un fulmine. [...] Tutti l'interpretarono come un presagio di grandezza e prosperità. »

(Svetonio, Augustus, 95.)

Giunto nella capitale rivendicò la sua eredità, nonostante le esitazioni di sua madre e

l'opposizione del patrigno Lucio Marcio Filippo, ex console che aveva sposato la madre Azia

dopo la morte del padre (59 a.C.)[30]

« Da questo momento, Ottaviano si procurò un esercito e governò la Res publica prima con Marco Antonio e Marco Lepido, poi per circa 12 anni con il solo Antonio (dal 42 al 30 a.C.), e infine per 44 anni da solo (dal 30 a.C. al 14 d.C.). »

(Svetonio, Augustus, 8)

Ascesa al potere (44-23 a.C.)[modifica | modifica sorgente]

Gli scenari e la divisione territoriale dei triumviridurante la guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio(44-31 a.C.)

[mostra]

V · D · M

Guerra civile (44-31 a.C.)

Come erede principale di Cesare, Ottaviano aveva diritto a tre quarti delle sue ricchezze.

Informato dell'uccisione del prozio, decise di tornare a Roma per reclamare i suoi diritti di figlio

adottivo. Assieme a lui erano stati nominati eredi Lucio Pinario eQuinto Pedio, a cui spettava il

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restante quarto del patrimonio di Cesare; solo Ottaviano, però, poté prendere, in quanto unico

figlio adottivo, il nome del defunto, divenendo così Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Cesare

lasciava, inoltre, agli abitanti di Roma trecento sesterzi ciascuno, oltre ai suoi giardini lungo le

rive del Tevere (Horti Caesaris).[31]

Svetonio sintetizzò il periodo che seguì delle guerre civili come segue:

« Augusto combatté cinque guerre civili: a Modena, a Filippi, a Perugia, in Sicilia e ad Azio. La prima e l'ultima contro Marco Antonio, la seconda contro Bruto e Cassio, la terza contro Lucio Antonio, fratello del triumviro, la quarta contro Sesto Pompeo, figlio di Gneo. »

(Svetonio, Augustus, 9)

Erede di Cesare[modifica | modifica sorgente]

Busto di Cesare, prozio di Ottaviano, che fece suo erede.

Per approfondire, vedi Cesaricidio.

Sbarcato a Brindisi, dove ricevette il benvenuto dalle legioni di Cesare lì acquartierate in attesa

della spedizione in Oriente, Ottaviano si impossessò dei circa 700 milioni di sesterzi di denaro

pubblico destinati alla guerra contro i Parti, che utilizzò per acquisire ulteriore favore tra i

soldati e tra i veterani di Cesare stanziati in Campania.

« Ritenendo che la cosa più importante fosse quella di vendicare la morte di suo zio e di difendere ciò che aveva fatto, appena tornò da Apollonia, decise di essere estremamente duro con Bruto e Cassio, i quali non se lo aspettavano, e quando questi capirono di essere in pericolo, fuggirono; [allora Ottaviano] li perseguì con un'azione legale atta a farli condannare per omicidio. »

(Svetonio, Augustus, 10)

Ottaviano giunse a Roma il 21 maggio, dopo che i cesaricidi avevano già da più di un mese

lasciato la città, grazie ad un'amnistia concessa dal console superstite, Marco Antonio. Il

giovane si affrettò a rivendicare il nome adottivo di Gaio Giulio Cesare, dichiarando

pubblicamente di accettare l'eredità del padre e chiedendo pertanto di entrare in possesso dei

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beni familiari. Antonio, che in qualità di console e capo della fazione cesariana deteneva in

quel momento il controllo del patrimonio, procrastinò però il versamento adducendo la

necessità di attendere che una lex curiata del Senato ratificasse il testamento del defunto.

Ottaviano decise allora, impegnando i propri beni, di anticipare al popolo le somme che

Cesare aveva lasciato nel suo testamento e di eseguire i giochi per la vittoria di Farsalo.

Ottenne così che molti dei cesariani si schierassero dalla sua parte contro Antonio, suo diretto

avversario nella successione politica a Cesare.

Il Senato, e in particolare Marco Tullio Cicerone, che lo vedeva in quel momento come un

principiante inesperto data la sua giovane età (e così Antonio che lo riteneva un ragazzo "di

tutto debitore al nome" del padre)[32], pronto ad essere manovrato dall'aristocrazia senatoria, e

che apprezzava l'indebolimento della posizione di Antonio, approvò la ratifica del testamento,

riconoscendo ad Ottaviano lo status di erede legittimo di Giulio Cesare. Con il patrimonio di

Cesare ora a sua disposizione, Ottaviano poté quindi reclutare in giugno un esercito privato di

circa 3.000 veterani, garantendo a ciascuno di loro un salario di 500 denari, mentre Marco

Antonio, ottenuta con legge speciale (lex de permutatione provinciarum) l'assegnazione - al

termine del suo anno consolare - della Gallia cisalpina già affidata al propretore Decimo Bruto,

si accingeva a portare guerra ai cesaricidi per recuperare il favore della fazione cesariana. In

quest'occasione Cicerone scriveva ad Attico manifestando certezza sulla fedeltà di Ottaviano

alla causa repubblicana, sicuro della possibilità di poter sfruttare le potenzialità di quel giovane

rampollo per eliminare Antonio,[33] uscito indenne (con grave dispiacere dell'oratore) dalle Idi.[34] Tacito commenterà che in quell'occasione l'erede di Cesare simulò soltanto la fedeltà al

partito neo-pompeiano comandato in quel momento da Cicerone, con l'idea - come si vedrà in

seguito - di trarre profitto dalla situazione.[35]

Frattanto Ottaviano, poiché i magistrati incaricati non osavano celebrare i Ludi per la vittoria

del prozio Cesare, si occupò personalmente di organizzarli (dal 5 al 19 settembre del44 a.C.).

In seguito, per riuscire a portare a termine altri suoi progetti, sebbene fosse patrizio ma non

ancora senatore, si presentò come candidato per sostituire un tribuno della plebe, che era

appena deceduto. La sua candidatura incontrò l'opposizione del console Marco Antonio, sul

cui appoggio il giovane Ottaviano contava, ma che evidentemente aspirava ad ottenere una

grossa ricompensa. Questa prima incomprensione con Antonio lo indusse a passare dalla

parte degli ottimati.[36]

Primo conflitto con Antonio (43 a.C.)[modifica | modifica sorgente]

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Busto di Marco Tullio Cicerone (Musei Capitolini,Roma), autore delle Filippiche,orazioni pronunciate dallo stesso

contro Marco Antonio nel 44/43 a.C.

Per approfondire, vedi Battaglia di Modena.

Quando nel mese di ottobre, l'appoggio del Senato ad Ottaviano si fece più pressante, con

Cicerone che tuonava con le sue Filippiche contro Antonio, questi decise di riprendere il

controllo della situazione richiamando in Italia le legioni stanziate in Macedonia. Di fronte a

quella minaccia, Ottaviano in novembre richiamò allora i veterani di Cesare a lui fedeli,

ottenendo ben presto anche la diserzione di due delle legioni macedoni di Antonio, la IV e

la Martia, appena sbarcate.

Fallito, per l'opposizione del Senato (Cicerone è infatti sicuro della fedeltà del giovane), il

tentativo di far dichiarare Ottaviano hostis publicus per aver reclutato un esercito senza averne

l'autorità (in realtà sarà Antonio ad essere indicato come nemico dello stato avendo preso

d'assedio illegalmente un legittimo propretore), il console decise allora di accelerare i tempi

dell'occupazione della Cisalpina, in modo da garantirsi una posizione di forza per l'anno

successivo. Ricevuto il rifiuto da parte di Decimo Bruto alla cessione della Cisalpina, Antonio,

grazie al consenso del Senato, poté marciare su Modena, dove strinse d'assedio Bruto.[36]

Intanto Ottaviano, su consiglio di alcuni ottimati, provò ad assoldare alcuni sicari perché

uccidessero Antonio, ma scoperto il suo tentativo, credendosi a sua volta in pericolo, arruolò

una buona parte dei veterani di Cesare, facendo loro grandi largizioni per ottenerne il loro

aiuto.[36] Il 1º gennaio del 43 a.C., giorno dell'insediamento dei nuovi consoli Pansa e Irzio, il

Senato decretò l'abrogazione della legge che assegnava ad Antonio la Gallia Cisalpina e

ordinò a questi di cessare immediatamente gli attacchi a Decimo Bruto. Ottenutone un netto

rifiuto, i consoli vennero incaricati di marciare contro Antonio assieme ad Ottaviano, cui venne

conferito eccezionalmente l'imperium di pretore sì da legalizzare la condizione del suo esercito

privato.[36]

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Il 21 aprile Antonio venne sconfitto nella battaglia di Modena, nella quale, però, rimasero uccisi

i consoli, lasciando così Ottaviano unico vincitore.[37]

« Durante il primo scontro, se dobbiamo credere a quanto scrive Antonio, Ottaviano si diede alla fuga e ricomparve due giorni dopo, senza il suo mantello di comandante ed il cavallo; ma nella seconda sappiamo che fece il suo dovere non solo come generale, ma anche come soldato: vedendo, nel mezzo della battaglia, che l'aquilifer della sua legione era ormai ferito gravemente, prese con sé l'aquila sulle spalle e la tenne con sé per il tempo necessario. »

(Svetonio, Augustus, 10)

Svetonio aggiunge che corse voce allora che fosse stato Ottaviano a far uccidere, Aulo

Irzio e Gaio Vibio Pansa, poiché, una volta messo in fuga Antonio e tolti di mezzo entrambi i

consoli, potesse rimanere unico padrone degli eserciti vincitori. Tanto è vero che da Cicerone

apprendiamo che, al termine della battaglia di Forum Gallorum, Pansa si ritirò al campo ferito,

ma ancora in vita.[38] Una lettera a Cicerone scritta da Servio Sulpicio Galba, testimone oculare

della battaglia, tace su eventuali ferite a danno del console.[39] Nel resoconto appianeo l'altro

console, Irzio, risulta invece morire durante l'assalto al campo di Antonio, ma questa notizia è

sospetta in quanto è quasi certo che Appiano abbia attinto alla autobiografia perduta di

Augusto.[40]

Ad ogni modo la morte di Pansa sembrò talmente sospetta che Glicone, il suo medico, fu

messo in prigione con l'accusa di aver lavato la ferita con il veleno. Aquilio Nigro sostenne,

infine, che nella confusione della battaglia l'altro console, Irzio, fu ucciso dallo stesso Augusto.[37] E quando venne a sapere che Antonio, dopo la sconfitta, era stato accolto da Marco Emilio

Lepido e che anche altri comandanti, insieme ai loro eserciti, si stavano avvicinando al partito

a lui avverso, abbandonò la causa degli ottimati.[41] La tesi del complotto di Ottaviano sembra

essere sostenuta anche da Tacito, che scrive:

« ...tolti di mezzo Irzio e Pansa (furono uccisi dai nemici? Oppure a Pansa sparsero del veleno sulla ferita e Irzio venne ucciso dai suoi soldati e per macchinazione dello stesso Augusto?), si era impadronito delle loro truppe; che aveva estorto il consolato a un senato riluttante e rivolto le armi, avute per combattere Antonio, contro lo stato... »

(Tacito, Annales, I, 10)

Tornato a Roma con l'esercito, infatti, malgrado la giovane età (aveva soli vent'anni),

Ottaviano si fece eleggere console suffectus[42] assieme a Quinto Pedio, ottenendo compensi

per i suoi legionari e facendo approvare dal Senato la lex Pedia contro i cesaricidi. In tal modo

i consoli poterono rifiutarsi di portare ulteriore soccorso a Decimo Bruto, che, in fuga, venne

infine ucciso nella Cisalpina da un capo gallo fedele ad Antonio. Svetonio racconta che:

« A vent'anni prese il consolato, facendo avanzare minacciosamente le sue legioni verso Roma (urbem) e inviando quei [soldati] che chiedessero per lui a nome dell'esercito; quando il Senato sembrò esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettando indietro il suo mantello e mostrando l'impugnatura del suo gladio, non esitò a dire nella Curia: "Se non lo farete [console] voi, questa [spada] lo farà". »

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(Svetonio, Augustus, 26)

Il secondo triumvirato (43-33 a.C.)[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi secondo triumvirato.

Dalla sua nuova posizione di forza, divenuto legalmente a capo dello Stato romano, Ottaviano

prese contatti con il principale sostenitore di Antonio, il pontefice massimo Marco Emilio

Lepido, già magister equitum di Cesare, con l'intenzione di ricomporre i dissidi interni alla

fazione cesariana. Con gli auspici di Lepido, ottenne dunque che fosse organizzato un

incontro a tre con Antonio nei pressi di Bononia. Da quel colloquio privato nacque un accordo

a tre, tra lui, Antonio e Lepido[43] della durata di cinque anni. Si trattava del secondo

triumvirato, riconosciuto legalmente dal Senato il 27 novembre di quello stesso anno con

la Lex Titia, in cui veniva creata la speciale magistratura deiTriumviri rei publicae

constituendae consulari potestate, ovvero "triumviri per la costituzione dello stato con potere

consolare".

« Per dieci anni fece parte del triumvirato, creato dare un nuovo ordine alla Repubblica: come suo membro cercò inizialmente di impedire che si iniziassero le proscrizioni, ma quando esse cominciarono si mostrò più spietato degli altri due. [...] lui solo si batté in modo ostinato affinché non venisse risparmiato nessuno, arrivando a proscrivere anche C. Toranio, suo tutore, che era stato, inoltre, collega di suo padre come edile. [...] più tardi si pentì di questa sua ostinazione e promosse al rango di cavaliere T. Vinio Filopomeno, che sembra avesse nascosto il suo padrone, quando era proscritto. »

(Svetonio, Augustus, 27)

Il patto prevedeva la divisione dei territori romani: ad Ottaviano

toccarono Siria, Sardegna e Africa proconsolaris. Furono contestualmente redatte delle liste

di proscrizione contro gli oppositori di Cesare, che portarono alla confisca dei beni e

all'uccisione di un gran numero di senatori e cavalieri, tra cui lo stesso Cicerone che pagò

le Filippiche rivolte controAntonio. Si preparò nel contempo la guerra contro Bruto e Cassio e i

cesaricidi.

La battaglia di Filippi (42 a.C.)[modifica | modifica sorgente]

Aureo raffigurante Antonio e Ottaviano.

Per approfondire, vedi Prima battaglia di Filippi e Seconda battaglia di Filippi.

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Nell'ottobre del 42 a.C. Antonio e Ottaviano, lasciato Lepido al governo della capitale, si

scontrarono con i cesaricidi Marco Giunio Bruto eGaio Cassio Longino e li sconfissero in due

scontri a Filippi, nella Macedonia orientale.[43] I due anticesariani trovarono la morte

suicidandosi.[44] La battaglia fu vinta soprattutto per merito di Antonio e la parte di Ottaviano

non fu certo gloriosa visto che Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis historia, afferma che "alla

battaglia di Filippi [Ottaviano] cadde malato, fuggì e si nascose per tre giorni in una palude" o

come riferisce Svetonio "il suo campo venne preso dal nemico e riuscì a scappare a stento,

rifugiandosi dalla parte dove si trovava l'esercito di Antonio".[43] La versione ufficiale fu che

Ottaviano era stato esortato a fuggire in un sogno avuto dal suo medico.[45]

« Non fu certo moderato dopo la vittoria. Al contrario inviò a Roma la testa di Bruto affinché fosse gettata ai piedi della statua di Cesare; si accanì contro tutti i prigionieri nobili, riempiendoli di insulti; [...] due prigionieri, padre e figlio, chiedevano la grazia di essere lasciati in vita, ma egli dispose che tirassero a sorte o giocassero alla morra per sapere chi dei due si sarebbe salvato. Poi assistette mentre morivano, poiché il padre, che si era offerto, venne sgozzato dallo stesso Ottaviano, mentre il figlio si suicidò. Ciò indusse tutti gli altri prigionieri [...] quando vennero condotti al supplizio in catene, a salutare rispettosamente Antonio con il titolo di generale, non invece Ottaviano che ricoprirono dei più mostruosi insulti. »

(Svetonio, Augustus, 13)

Ottaviano, Antonio e Lepido trovandosi padroni, ora, dei territori orientali procedettero ad una

nuova spartizione delle province: a Lepido furono lasciate la Numidia e l'Africa proconsolaris,

ad Antonio, la Gallia, la Transpadania e l'Oriente romano, ad Ottaviano spettarono l'Italia,

la Sicilia, l'Iberia, e la Sardegna e Corsica.

Primi contrasti (41-39 a.C.)[modifica | modifica sorgente]

Mappa ricostruttiva della guerra di Perugia

Per approfondire, vedi Guerra di Perugia.

Successivamente nacquero i primi contrasti: Lucio Antonio, fratello di Antonio, nel 41 a.C. si

ribellò ad Ottaviano poiché pretendeva che anche ai veterani del fratello fossero distribuite

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terre in Italia (oltre ai 170.000 veterani di Ottaviano), ma fusconfitto a Perugia nel 40 a.C..

Svetonio racconta che durante l'assedio di Perugia, mentre stava facendo un sacrificio non

molto distante dalle mura cittadine, per poco non fu ucciso da un gruppo di gladiatori che

avevano compiuto una sortita dalla città.[46] Non si può provare che Antonio fosse a

conoscenza delle azioni del fratello ma, dopo la sconfitta di quest'ultimo,[46]entrambi decisero di

non dare troppo peso all'accaduto (Lucio Antonio fu risparmiato e perfino inviato in Spagna

come governatore).[27] Contemporaneamente a questi fatti, il legato di Antonio in Gallia, un

certo Quinto Fufio Caleno, morì e le sue legioni passarono dalla parte di Ottaviano, che poté

appropriarsi di nuove province del rivale. Svetonio aggiunge:

« Dopo l'occupazione di Perugia, [Ottaviano] prese provvedimenti contro un gran numero di prigionieri e a chi chiedeva la grazia e di essere perdonato, rispose: «Si deve morire.» Altri dicono che, tra quelli che si erano arresi, ne scelse trecento tra i due ordini [senatorio e equestre] e li mandò a morte per le idi di marzo, di fronte ad un altare posto in onore del divo Giulio. Altri ancora raccontano che Ottaviano prese le armi in accordo con Antonio, per smascherare gli avversari che si nascondevano, [...] Dopo averli sconfitti, confiscò i loro beni per poter mantenere le promesse di donativa fatte ai veterani. »

(Svetonio, Augustus, 15)

Ottaviano a questo punto cercò un'intesa con Sesto Pompeo e, per sancire l'alleanza,

sposò Scribonia,[5] parente dello stesso Sesto: da questa donna, Ottaviano ebbe la sua unica

figlia, Giulia.[6][27] In realtà, però, né l'intesa, né il matrimonio durarono a lungo. Nell'estate

del 40 a.C. Ottaviano e Antonio vennero ad aperte ostilità: Antonio cercò di sbarcare

a Brindisi con l'aiuto di Sesto Pompeo, ma la città gli chiuse le porte. I soldati di ambedue le

fazioni si rifiutarono di combattere e i triumviri, pertanto, misero da parte le discordie. Con

il trattato di Brindisi (settembre del 40 a.C.) si venne ad una nuova divisione delle province: ad

Antonio restò l'Oriente romano da Scutari, compresa la Macedonia e l'Acaia; ad Ottaviano

l'Occidente compreso l'Illirico; a Lepido, ormai fuori dai giochi di potere, l'Africa e la Numidia;

a Sesto Pompeo fu confermata la Sicilia per metterlo a tacere, affinché non arrecasse

problemi in Occidente.[27] Il patto fu sancito con il matrimonio tra Antonio, la cui moglie Fulva

era morta da poco, e la sorella di Ottaviano, Ottavia minore. Dopo la pace di Brindisi,

Ottaviano ruppe inoltre l'alleanza con Sesto Pompeo, ripudiò Scribonia, e sposò Livia Drusilla,

madre di Tiberio e in attesa di un secondo figlio.[5]

Nel 39 a.C., a Miseno, Ottaviano attribuì a Sesto Pompeo le province di Sardegna e Corsica,

fondando dunque la città di Turris Libisonis, porto granario di Roma e promettendogli l'Acaia,

ottenendo in cambio la ripresa dei rifornimenti a Roma (Pompeo con la sua flotta bloccava le

navi provenienti dal Mediterraneo). Sesto Pompeo, però, stava diventando un alleato scomodo

e Ottaviano decise di disfarsene di lì a poco. Si arrivò così ad una prima serie di scontri non

particolarmente felici per Ottaviano: la flotta preparata per invadere la Sicilia fu infatti distrutta

sia da Sesto sia da un violento fortunale.[27]

Rinnovo e fine del triumvirato (38-33 a.C.)[modifica | modifica sorgente]

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La campagna militare in Sicilia contro le forze diSesto Pompeo

Per approfondire, vedi Campagne partiche di Marco Antonio, Battaglia di Nauloco e Campagne militari di Ottaviano in Illirico (35-33 a.C.).

Nel 38 a.C. Ottaviano si risolse ad incontrarsi a Brundisium con Antonio e Lepido per

rinnovare il patto di alleanza per altri cinque anni. Nel 36 a.C., però, grazie all'amico e

generale Marco Vipsanio Agrippa, Ottaviano riuscì a porre fine alla guerra con Sesto Pompeo.

Quest'ultimo, grazie anche ad alcuni rinforzi inviati da Antonio, fu infatti sconfitto

definitivamente pressoNauloco.[47]

« La guerra di Sicilia fu una delle prime che [Ottaviano] cominciò, ma venne trascinata per lungo tempo, poiché fu interrotta più volte, sia per ricostituire le sue flotte che erano state distrutte dalle tempeste in due circostanze, nel bel mezzo dell'estate; sia perché, essendo stati interrotti i rifornimenti di grano alla città di Roma fu costretto a chiedere la pace, su insistenza del popolo, visto che la fame andava aggravandosi. »

(Svetonio, Augustus, 16)

Ancora Svetonio racconta di altri episodi curiosi di questa guerra contro Pompeo, che vide

Ottaviano:

« al momento di combattere, fu preso da un colpo di sonno così profondo che i suoi amici faticarono molto per svegliarlo, affiché desse il segnale d'attacco. Per questo motivo Antonio, lo credo io [Svetonio], aveva tutte le sue buone ragioni per rimproverarlo, sostenendo che egli non avesse avuto neppure il coraggio di osservare una flotta schierata a battaglia, al contrario di essere rimasto sdraiato sul dorso con gli occhi rivolti al cielo, terrorizzato, rimanendo in quella posizione, senza presentarsi ai soldati, fino a quando Agrippa non mise in fuga la flotta nemica. [...] Dopo aver fatto passare in Sicilia un'armata, tornò in Italia a prendere le restanti truppe, ma fu assalito all'improvviso da Democaro e Apollofane, luogotenenti di Pompeo; fu un miracolo se riuscì a salvarsi, fuggendo su una sola imbarcazione. Un'altra volta, quando si trovava a piedi nei pressi di Locri, in direzione di Reggio, vide da lontano le navi di Pompeo lungo la costa. Convinto che fossero le sue, si diresse in spiaggia e per poco non venne fatto prigioniero. E proprio in questa circostanza, mentre fuggiva per sentieri impraticabili in compagnia di Paolo Emilio, uno schiavo di quest'ultimo, poiché lo odiava in quanto in passato [Ottaviano] aveva proscritto il padre del suo padrone, provando a vendicarsi, tentò di ucciderlo. »

(Svetonio, Augustus, 16)

Page 27: Virgilio Egloghe

La Sicilia cadde e

Sesto Pompeo

fuggì in Oriente,

dove poco dopo

fu assassinato

dai sicari di

Antonio.[27]

A quel punto,

però, Ottaviano

dovette far fronte

alle ambizioni di Lepido, il quale riteneva che la Sicilia dovesse toccare a lui e, rompendo il

patto di alleanza, mosse per impossessarsene con venti legioni. Sconfitto però rapidamente,

dopo che i suoi soldati lo abbandonarono passando dalla parte di Ottaviano, Lepido fu infine

confinato al Circeo, pur conservando la carica pubblica di pontifex maximus.[47]

Dopo l'eliminazione graduale di tutti i contendenti nell'arco di sei anni, da Bruto e Cassio, a

Sesto Pompeo e Lepido, la situazione rimase nelle sole mani di Ottaviano, in Occidente, e

Antonio, in Oriente, portando un inevitabile aumento dei contrasti tra i due triumviri, ciascuno

troppo ingombrante per l'altro, tanto più che i successi ottenuti nelle campagne militari di

Ottaviano in Illirico (35-33 a.C.) e contro Lepido non erano stati compensati da Antonio in

Oriente contro i Parti, limitandosi alla sola acquisizione in dote dell'Armenia. Ottenne un nuovo

consolato, il secondo, nove anni dopo il primo (nel 33 a.C.) ed un terzo, un anno dopo il

secondo (nel 31 a.C.).[42] Alla sua scadenza, nel 33 a.C., il triumvirato non venne rinnovato

(durò infatti 10 anni[12]) e, cosa ben più grave, Antonio ripudiò (32 a.C.) la sorella di Ottaviano

con un affronto per quest'ultimo intollerabile.

Guerra con Antonio e la vittoria di Azio (33-31 a.C.)[modifica | modifica sorgente]

Busto di Marco Antonio

Ritratto di Ottaviano ai tempi della battaglia di Azio

Page 28: Virgilio Egloghe

Mappa della battaglia di Azio.

Per approfondire, vedi Battaglia di Azio.

Il conflitto era ora inevitabile. Mancava solo il casus belli, che Ottaviano trovò nel testamento di

Antonio, in cui risultavano le sue decisioni di lasciare i territori orientali di Roma a Cleopatra

VII d'Egitto e ai suoi figli, compreso Cesarione, figlio di Gaio Giulio Cesare.[48] Svetonio ricorda

infatti che nel 32 a.C.:

« La sua alleanza con Antonio era sempre stata dubbia e poco stabile, mentre le loro continue riconciliazioni altro non erano che momentanei accomodamenti; alla fine si giunse alla rottura definitiva e per meglio dimostrare che Antonio non era più degno di essere un cittadino romano, aprì il suo testamento, da Antonio lasciato a Roma, e lo lesse davanti all'assemblea, dove designava come suoi eredi anche i figli che aveva avuto da Cleopatra. »

(Svetonio, Augustus, 17)

Ancora Svetonio aggiunge che Antonio scriveva ad Augusto in modo confidenziale, quando

ancora non era ancora scoppiata la guerra civile tra loro:

« Che cosa ti ha cambiato? Il fatto che mi accoppio con una regina? È mia moglie. Non sono forse nove anni che iniziò [la nostra storia d'amore]? E tu ti accoppi solo con Drusilla? E così starai bene se quando leggerai questa lettera, non ti sarai accoppiato con Tertullia, o Terentilla, o Rufilla, o Salvia Titisenia o tutte. Giova forse dove e con chi ti accoppi? »

(Svetonio, Augustus, 69.)

In seguito quando fece dichiarare nemico pubblico Antonio, gli rimandò i suoi parenti e i suoi

amici, tra cui i consoli Gaio Sosio e Domizio Enobarbo.[48] Poi il Senato di Roma dichiarò

guerra a Cleopatra, ultima regina tolemaica di Egitto, sul finire del 32 a.C. Antonio e Cleopatra

furono sconfitti nella battaglia di Azio, del 2 settembre 31 a.C. e si suicidarono entrambi, l'anno

successivo in Egitto.[48][49]

Da Ottaviano ad Augusto (30-23 a.C.)[modifica | modifica sorgente]

La cosiddetta Gemma augustea, la cui complicata iconografia è una celebrazione delle gesta di Augusto.

Page 29: Virgilio Egloghe

Per approfondire, vedi Principato (storia romana).

Dopo Azio, Ottaviano non solo ordinò di uccidere il figlio di Cleopatra, Cesarione (la cui

paternità veniva attribuita dalla regina a Cesare),[48] ma decise di annettere l'Egitto (30 a.C.),

compiendo l'unificazione dell'intero bacino del Mediterraneo sotto Roma, e facendo di questa

nuova acquisizione la prima provincia imperiale, governata da un proprio rappresentante,

il prefetto d'Egitto.[50] L'imperium di Ottaviano su questa provincia venne probabilmente sancito

da una legge comiziale già nel 29 a.C., due anni prima della messa in opera del nuovo assetto

provinciale. Svetonio racconta che in questa circostanza, quando si trovava ancora

ad Alessandria d'Egitto, Ottaviano:

« [...] si fece mostrare il sarcofago e il corpo di Alessandro Magno, prelevato dalla sua tomba: gli rese omaggio mettendgli sul capo una corona d'oro intrecciata con fiori. E quando gli chiesero se voleva visitare anche la tomba di Tolomeo, rispose che voleva vedere un re, non dei morti. »

(Svetonio, Augustus, 18)

Per la storiografia moderna più datata, la nuova forma di governo provinciale riservata

all'Egitto ebbe origine dal tentativo di compensare gli Egiziani della perdita del loro monarca-

dio (il faraone), con la nuova figura del Princeps;[51] in realtà, la scelta di Ottaviano di porre a

capo della nuova provincia un prefetto plenipotenziario (figura che derivava direttamente dal

prefetto della città tardo-repubblicana), il cosiddetto praefectus Alexandreae et Aegypti, titolo

ufficiale attribuito al neo-governatore collegato alla soppressione della Bulè diAlessandria, fu

dettata dal contesto in cui avvenne la conquista del paese: la guerra civile, ragioni di ordine

strategico-militare nella lotta fra le due factiones tardo-repubblicane pro-occidente o pro-

oriente, l'importanza del grano egiziano[50] per l'annona di Roma e, non da ultimo, il tesoro

tolemaico. L'aver, infatti, potuto mettere le mani sulle risorse finanziarie dei Tolomei consentì

ad Ottaviano di pagare molti debiti di guerra, nonché decine di migliaia di soldati che in tanti

anni di campagne lo avevano servito, disponendone l'insediamento in numerose colonie,[18] sparse in tutto il mondo romano.[52] Svetonio aggiunge che Ottaviano:

« [...] per meglio ricordare la vittoria di Azio, fondò nelle vicinanze la città di Nicopoli, dove vennero istituiti dei giochi quinquennali; fece ingrandire l'antico tempio di Apollo e consacrò aNettuno e a Marte dove aveva posto gli accampamenti, adornandoli con le spoglie navali. »

(Svetonio, Augustus, 18)

Ottaviano era divenuto, di fatto, il padrone assoluto dello stato romano, anche se

formalmente Roma era ancora una repubblica e Ottaviano stesso non era ancora stato

investito di alcun potere ufficiale, dato che la sua potestas di triumviro non era stata più

rinnovata: nelle Res Gestae riconosce di aver governato in questi anni in virtù del "potitus

rerum omnium per consensum universorum" ("consenso generale"), avendo per questo motivo

ricevuto una sorta di perpetua tribunicia potestas[12] (certamente un fatto extra-costituzionale).[53]

Page 30: Virgilio Egloghe

Finché questo consenso continuò a comprendere l'appoggio leale degli eserciti, Ottaviano

poté governare al sicuro, e la sua vittoria costituì, di fatto, la vittoria dell'Italia sul vicino

Oriente; la garanzia che mai l'impero romano avrebbe potuto trovare altrove il suo equilibrio e

il suo centro al di fuori di Roma.

Il senato gli conferì progressivamente onori e privilegi, ma il problema che Ottaviano doveva

risolvere consisteva nella trasformazione della sostanza dei rapporti istituzionali, lasciando

intatta la forma repubblicana. I fondamenti del reale potere vennero individuati nell'imperium e

nella tribunicia potestas: il primo, proprio dei consoli, conferiva a chi ne era titolare il potere

esecutivo, legislativo e militare, mentre la seconda, propria dei tribuni della plebe, offriva la

facoltà di opporsi alle decisioni del senato, controllandone la politica grazie al diritto di veto.

Ottaviano cercò di ottenere tali poteri evitando di alterare le istituzioni repubblicane e dunque

senza farsi eleggere a vita console e tribuno della plebe ed evitando inoltre la soluzione

cesariana (Giulio Cesare era stato eletto, prima annualmente e poi a vita dictator). La carica di

dittatore gli fu infatti offerta, ma egli prudentemente la rifiutò:

« Il popolo con grande insistenza offrì ad Augusto la dittatura, ma lo stesso, dopo essersi inginocchiato, fece cadere la toga dalle spalle e, a petto nudo, supplicò che non gli fosse imposta. »

(Svetonio, Augustus, 52)

Statua di Augusto detta "Augusto di Prima Porta" o "Augusto loricato" , custodita ai Musei Vaticani.

Egli considerò il titolo di dominus («signore») come un grave insulto e sempre lo respinse con

vergogna. Svetonio racconta che un giorno, durante una rappresentazione teatrale alla quale

assisteva, un mimo esclamò: O dominum aequum et bonum! («O signore giusto e buono!»).

Tutti gli spettatori approvarono esultanti, quasi che l'espressione fosse rivolta ad Augusto, ma

Page 31: Virgilio Egloghe

egli, non solo pose fine a queste adulazioni con un gesto e lo sguardo, il giorno seguente,

emise anche un severo proclama che ne vietasse ulteriori piaggerie. Egli, infine, non permise

che lo chiamassero domiunus né i figli o i nipoti, che fosse per gioco o in tono serio.[54] Ancora

Svetonio racconta che Ottaviano:

« Due volte pensò di restaurare la Repubblica: la prima volta subito dopo aver sconfitto Antonio, memore che quest'ultimo gli aveva ripetuto spesso che era lui il solo ostacolo al ritorno [della Repubblica]; [la seconda volta] di nuovo nella stanchezza di una malattia persistente. In quella circostanza convocò a casa sua magistrati e senatori dando loro un resoconto dell'Impero. Ma pensando che, come privato cittadino, non avrebbe potuto vivere senza pericolo e temendo di lasciare la Res publica in mano all'arbitrio di molti, continuò a mantenere [il potere]. Non sappiamo quale sia stata la cosa migliore da fare. »

(Svetonio, Augustus, 28)

Nel 27 a.C., Ottaviano restituì formalmente nelle mani del senato e del popolo romano i poteri

straordinari assunti per la guerra contro Marco Antonio, ricevendo in cambio: il titolo

di console da rinnovare annualmente, una potestas con maggiore auctoritas rispetto agli altri

magistrati (consoli e proconsoli), poiché aveva diritto di veto in tutto l'Impero, a sua volta non

assoggettato ad alcun veto da parte di qualunque altro magistrato[55]; l'imperium

proconsolare decennale, rinnovatogli poi nel 19 a.C., sulle cosiddette province "imperiali"

(compreso il controllo dei tributi delle stesse), vale a dire le province dove fosse necessario un

comando militare, ponendolo di fatto a capo dell'esercito;[56] il titolo di Augusto (su proposta

di Lucio Munazio Planco),[29] cioè "degno di venerazione e di onore",[57] che sancì la sua

posizione sacra che si fondava sul consensus universorum di Senato e popolo romano;

l'utilizzo del titolo di Princeps ("primo cittadino"); il diritto di condurre trattative con chiunque

volesse, compreso il diritto di dichiarare guerra o stipulare trattati di pace con qualunque

popolo straniero.[58]

Questi poteri decretarono che le province fossero divise in senatorie, rette da magistrati eletti

dal senato, e imperiali, rette da magistrati sottoposti al diretto controllo di Augusto; faceva

eccezione l'Egitto, retto da un prefetto di rango equestre, munito di un imperium delegato da

Augusto ad similitudinem proconsulis. L'imperium gli consentì di assumere direttamente il

comando delle legioni stanziate nelle province "non pacatae" e di avere così costantemente a

disposizione una forza militare a garanzia del suo potere, nel nesso inscindibile tra esercito e

proprio comandante che era stato creato dalla riforma di Gaio Mario, ormai vecchia più di un

secolo. L'imperium gli garantiva, inoltre, la gestione diretta dell'amministrazione e la facoltà di

emanare decreta, decisioni di carattere giurisdizionale, ed edicta, decisioni di carattere

legislativo.

Sotto il controllo del senato restarono le truppe di stanza nelle province senatoriali, le quali

furono rette da un proconsole o propretore. Il senato stesso avrebbe potuto in qualunque

momento emanare un senatus consultum limitando o revocando i poteri conferiti.

Page 32: Virgilio Egloghe

Cameo del I secolo d.C. con Augusto che indossa una corona con i raggi del Sole, presso il Museo Romano-

Germanico di Colonia

Nel 23 a.C. fu conferita ad Augusto, la tribunicia potestas a vita[12] (che secondo alcuni gli era

stata attribuita già dal 28 a.C.), la quale divenne la vera base costituzionale del potere

imperiale: comportava infatti l'inviolabilità della persona e il diritto di intervenire in tutti i rami

della pubblica amministrazione, e questo senza i vincoli repubblicani della collegialità della

carica e della sua durata annuale. Particolarmente significativo fu il diritto di veto, che garantì

ad Augusto la facoltà di bloccare qualunque iniziativa legislativa che considerasse pericolosa

per la propria autorità. Nello stesso anno l'imperium di cui già godeva divenne imperium

proconsolare maius et infinitum, in modo da comprendere anche le province senatorie: tutte le

forze armate dello stato romano dipendevano ora da lui.[59]

« Egli stesso [Augusto] fece voto di compiere ogni sforzo, affinché nessuno potesse rammaricarsi del nuovo stato di cose. »

(Svetonio, Augustus, 28)

E ancora gli furono conferite nuove onorificenze negli anni a venire. Nel 12 a.C., quando

il Pontefice massimo Lepido morì, Ottaviano ne prese il titolo divenendo il capo religioso di

Roma.[14][60]

« [divenuto pontefice massimo] radunò tutte le profezie greche e latine che [...] erano tramandate tra il popolo, circa duemila, e le fece bruciare. Conservò solo i libri sibillini e, dopo un'attenta selezione, li pose in due armadi dorati ai piedi della statua di Apollo Palatino. »

(Svetonio, Augustus, 31.)

Nell'8 a.C. fu emanata la Lex Iulia maiestatis, con cui per la prima volta venne punita l'offesa

alla "maestà" dell'imperatore, in seguito foriera di conseguenze negative per tutto il periodo

successivo. E per finire, nel 2 a.C., anno dell'inaugurazione del tempio di Marte Ultoree

del Foro di Augusto, gli fu conferito il titolo onorifico di "Padre della patria" (Pater Patriae).[1]

Il principato (23 a.C. - 14 d.C.)[modifica | modifica sorgente]

Page 33: Virgilio Egloghe

Testa di bronzo di Augusto, ritrovata a Meroe in Nubia (attuale Sudan).

Per approfondire, vedi Principato (storia romana) e Monetazione di Augusto.

L'ambizione di Augusto era quella di essere fondatore di un optimus status, facendo rivivere le

più antiche tradizioni romane e nel contempo tenendo conto delle problematiche dei tempi. Il

mantenimento formale delle forme repubblicane, nelle quali si inseriva il nuovo concetto della

personale auctoritas del princeps (primo fra pari), permise di risolvere i conflitti per il potere

vissuti nell'ultimo secolo della Repubblica. Egli non schiacciò affatto l'antica aristocrazia, ma le

affiancò in una più vasta cerchia del privilegio, il ceto degli uomini d'affari e dei funzionari,

organizzati nell'ordine equestre, i cui membri furono spesso utilizzati dall'imperatore per

controllare l'attività degli organi repubblicani e per il governo delle province imperiali.[61]

Ottaviano, una volta ricevuti i necessari poteri da parte di Senato e Popolo romano, cominciò

ad assumere misure atte a dare all'Italia e alle Province il sospirato benessere dopo oltre un

decennio di guerre civili: riordinò il cursus honorum delle magistrature repubblicane, ne creò di

nuove (come la figura del curator o quella del praefectus Urbis[62]), ripristinò la carica

magistratuale del censore,[62] aumentò il numero dei pretori[62] e promosse leggi che frenavano

il diffondersi del celibato e incoraggiavano la natalità, emanando la lex Iulia de Maritandis

Ordinibus del 18 a.C. e la lex Papia Poppaea del 9 d.C. (a completamento della prima legge).

Politica sociale e di moralizzazione[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Società romana, mos maiorum e cursus honorum.

I molti abusi che esistevano ancora dopo la fine della guerra civile, particolarmente pericolosi

per l'ordine pubblico, vennero in gran parte ridimensionati dalla nuova politica autoritaria

del princeps. In quel periodo, infatti, un gran numero di briganti si mostrava in pubblico con

Page 34: Virgilio Egloghe

pugnale alla cintura, utilizzando il pretesto del doversi difendere; nelle campagne, poi, spesso i

viaggiatori venivano sequestrati, senza alcuna distinzione fra uomini liberi e schiavi;

numerose, infine, erano le associazioni criminali venutesi a creare. Augusto represse il

brigantaggio mettendo posti di guardia nelle località più opportune, spesso facendo

ispezionare luoghi ove si credeva vi fossero in corso sequestri, disciolse poi tutte le

associazioni (collegia), ad eccezione di quelli più antichi.[63]

Considerando importante conservare la purezza della razza romana, evitando potesse

mescolarsi con sangue straniero e servile, fu molto restio nel concedere la cittadinanza

romana, ponendo anche precise regole riguardo all'affrancamento. A Tiberio che gli chiedeva

la cittadinanza per un suo cliente greco, rispose che l'avrebbe concessa se non gli avesse

dimostrato i giusti i motivi della richiesta; la negò anche alla moglie Livia che la chiedeva per

un gallo tributario.[64] E così degli schiavi, una volta tenuti lontani dalla libertà parziale o totale,

stabilì il loro numero, la condizione e la divisione in differenti categorie, in modo da stabilire chi

potesse essere affrancato. Aggiunse, infine, che colui che fosse stato imprigionato o

sottoposto a tortura non avrebbe mai potuto diventare un uomo libero.[64]

Riorganizzò e ripulì l'ordine senatorio di quegli elementi giudicati deformi et incondita turba,

come ci racconta Svetonio:

(LA)« Senatorum affluentem numerum deformi et incondita turba - erant enim super mille, et quidam indignissimi et post necem Caesaris per gratiam et praemium adlecti, quos orcinos vulgus vocabat. »

(IT)« Il numero dei senatori era costituito da una folla infame e rozza (erano infatti più di mille e alcuni completamente indegni, che fossero entrati, grazie a favori e alla corruzione, dopo la morte di Cesare e che il popolo definiva «del regno dei morti»). »

(Svetonio, Augustus, 35.)

Ridusse il numero dei senatori alla cifra di un tempo, pari a 600, e gli restituì la sua antica

dignità attraverso due selezioni: la prima era generata dai senatori stessi, in quanto ognuno

sceglieva un collega; la seconda era operata dallo stesso princeps e dal fedele Marco

Vipsanio Agrippa.[65] Svetonio racconta che in questa circostanza, mentre presiedeva le sedute

del Senato, Augusto indossasse una corazza e tenesse alla cintura un pugnale, mentre dieci

senatori, suoi amici fidati, selezionati tra i più robusti, circondavano il suo seggio. In questo

periodo nessun senatore era ricevuto da solo e senza essere stato prima perquisito.[65] Decise

anche di creare, mediante estrazione a sorte semestrale, un gruppo di consiglieri con i quali

studiare le questioni, prima di sottoporle all'intero Senato riunito in seduta plenaria. Sulle

questioni importanti egli chiedeva un parere a suo piacere, in modo che ciascuno facesse

attenzione a come si esprimeve e si trovasse sempre pronto, come se dovesse esprimere un

parere e non come se dovesse semplicemente approvare.[65] Elevò il censo senatoriale,

portandolo da ottocentomila a un milione e duecentomila sesterzi, e diede la differenza ai

senatori che non ne avevano abbastanza.[66]

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Fece bruciare le liste dei vecchi debitori dell'erario, spesso utilizzate per accuse calunniose;

a Roma lasciò ai proprietari del momento quei terreni che, in modo discutibile, la Res

publica aveva ritenuto fossero suoi; fece distruggere i nomi di coloro che venivano

costantemente accusati in modo sadico, senza che nessuno si lamentasse di loro, salvo i

propri nemici; dispose inoltre che, qualora qualcuno avesse voluto nuovamente perseguitare

costoro, avrebbe corso il rischio di essere a sua volta accusato e di subire la stessa pena.[63]

Venne incrementato il numero dei patrizi e fu ordinato un censimento della popolazione, da cui

risultò che gli abitanti di Roma sfioravano 1.000.000 di unità. Narrando dei propri donativi,

Augusto rammenta che le elargizioni erano sempre dirette a più di 250.000 persone e di come

in quattro occasioni egli avesse aiutato la tesoreria pubblica.

Politica religiosa[modifica | modifica sorgente]

Augusto di via Labicana, ritratto di Augusto come pontefice massimo in tarda età.

Per approfondire, vedi Religione romana.

Riguardo invece alla politica religiosa, sappiamo che dopo il lungo periodo delle guerre civili, la

crisi della religione romana, iniziata nella tarda età repubblicana, venne fermata in parte dagli

interventi di Augusto, il quale

« ...ripristinò alcune antiche tradizioni religiose che erano cadute in disuso, come l'augurio della Salute, la dignità del flamine diale, la cerimonia deiLupercalia, i Ludi Saeculares e quelli Compitali. Vietò ai giovani imberbi di correre ai Lupercali e sia ai ragazzi, sia alle ragazze di partecipare alle rappresentazioni notturne dei Ludi Saeculares, senza essere accompagnati da un adulto della famiglia. Stabilì che i Lari Compitali fossero adornati di fiori due volte all'anno, in primavera ed estate. »

(Svetonio, Augustus, 31)

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Ebbe il massimo rispetto per i culti religiosi stranieri, ma solo per quelli di antica tradizione.

Disprezzò invece gli altri. Egli ricevette infatti l'iniziazione ad Atene. Quando più tardi si trovò a

Roma, davanti al tribunale dove si trattava sulla questione relativa ai privilegi dei sacerdoti

di Cerere ateniense, e venivano svelati alcuni dei suoi segreti, egli congedò il consiglio dei

giudici ed i loro assistenti, preferendo seguire il dibattito da solo. Quando invece visitò l'Egitto,

evitò di andare a vedere il bue Api, e si complimentò con il nipote Gaio Cesare, il quale

passando per la Giudea non si era recato a Gerusalemme per farvi dei sacrifici.[67]

Amministrazione della giustizia[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi diritto romano.

Anche la giustizia ed il diritto romano vennero riformati. Augusto, infatti, per evitare che nessun

delitto risultasse impunito o archiviato a causa di continui ritardi, dispose che per gli atti forensi

fossero previsti più di trenta giorni. Alle tre decurie di giudici ne aggiunse una quarta, seppure

di censo inferiore, chiamata «dei ducenari»,[68] con il compito di giudicare riguardo a importi

inferiori. Fece sì che si potesse diventare giudici a trent'anni, ovvero cinque anni prima dei

quanto era previsto in precedenza. E poiché molti cittadini si sottraevano alle funzioni

giudiziarie, permise a ciascuna decuria, a turno, di andare in vacanza per un anno e che,

contrariamente a quanto previsto in precedenza, si interrompessero i lavori in novembre e in

dicembre.[63] I processi in appello a Roma, vennero affidati ad un pretore urbano, quelli in

provincia a consoli anziani, preposti dall'imperatore a questo genere di funzione.[69]

Lo stesso Augusto giudicava con assiduità e, qualche volta, anche di notte. Svetonio racconta

che, quando non si sentiva bene, faceva portare la sua lettiga davanti al tribunale, mentre altre

volte riceveva in casa da sdraiato sul suo letto. Emise sentenze con il massimo scrupolo, ma

anche con estrema indulgenza.[69] Svetonio racconta che quando testimoniava in tribunale,

permetteva che lo interrogassero e lo contraddicessero con la più grande disponibilità e

pazienza.[70]

Il princeps ritoccò alcune leggi, altre le rifece completamente, come la legge sulle spese

oppure quelle sugli adulteri (tra il 18 e 16 a.C.), la sodomia (della quale egli stesso fu

accusato, sembra ingiustamente[71]), il broglio e il matrimonio tra gli ordini sociali. E poiché

quest'ultima legge era stata rifatta con maggiore severità rispetto alle altre, molti protestarono,

soprattutto quelli dell'ordine equestre, tanto che Augusto fu obbligato, per farla passare, a

attenuare una parte delle sanzioni, permettendo una dilazione di tre anni e aumentando le

ricompense.[72] Egli, infatti, aveva ritenuto necessario assumere precisi provvedimenti per

frenare il diffondersi del celibato e incoraggiare la natalità, emanando la Lex Iulia de Maritandis

Ordinibus del 18 a.C. e la lex Papia Poppaea del 9 d.C. (quest'ultima a completamento della

prima).

« Quando scoprì che la legge era aggirata, sia prendendo fidanzate troppo giovani, sia cambiando frequentemente la moglie, diminuì i tempi del fidanzamento e regolò i divorzi. »

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(Svetonio, Augustus, 34)

In sintesi le ultime due leggi poco sopra citate, prevedevano la rimozione di tutte quelle

restrizioni non necessarie che potessero limitare i matrimoni, l'uso del diritto di successione

per favorire il matrimonio e la paternità, l'impulso dato alla natalità rivolto alle classi più

abbienti, offrendo privilegi nella vita pubblica ai padri di famiglie numerose.[73]

Amministrazione dell'Italia e di Roma[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Italia romana e regioni dell'Italia augustea.

Cartina del nord Italia e

 

del sud Italia, divisa in undici regioni in epoca augustea

Augusto divise l'Italia in undici regioni arricchendola di nuovi centri. Svetonio e le Res Gestae

Divi Augusti parla della fondazione di ben 28 colonie.[19][18] Riconobbe, in un certo qual modo,

l'importanza di queste colonie, attribuendo diritti uguali a quelli di Roma, creando un modo

differente di votare: permise ai decurioni delle colonie di votare, ciascuno nella propria città,

per l'elezione dei magistrati di Roma, facendo pervenire il loro voto nell'Urbe, il giorno delle

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elezioni, con plico sigillato. Al fine poi di incoraggiare coloro che meritavano, oltre alle famiglie

numerose, concedesse il grado equestre a chiunque lo chiedesse, anche dietro una sola

raccomandazione ufficiale della città di ciascuno e quando visitava le regioni d'Italia,

distribuiva mille sesterzi ciascuno a tutti i plebei che dimostravano di avere figli maschi o

femmine.[18]

Rispetto alle altre Province fu soprattutto l'Italia ad essere privilegiata da Augusto, che vi

costruì una fitta rete stradale ed abbellì le città dotandole di numerose strutture pubbliche (fori,

templi, anfiteatri, teatri, terme...)[21] e di uffici di raccolta tributari.[18]In segno di riconoscimento,

Svetonio racconta che:

« Alcune città d'Italia stabilirono l'inizio dell'anno nel giorno in cui Augusto le aveva visitate per la prima volta. »

(Svetonio, Augustus, 59.)

L'economia italica era florida: agricoltura, artigianato e industria ebbero una notevole crescita,

che permise l'esportazione dei beni verso le province. L'incremento demografico fu rilevato da

Augusto tramite tre censimenti (il primo ed il terzo con un collega[74]): i cittadini maschi furono

4.063.000 nel 28 a.C., 4.233.000 nell'8 a.C. e 4.937.000 nel 14 d.C. Se si considerano anche

le donne e i bambini la popolazione totale nell'Italia del I secolo d.C. può essere stimata sui 10

milioni di abitanti circa. Migliorò infine la situazione di Roma, capitale dell'impero.

Fece, infatti, di Roma una monumentale città di marmo e istituì due curatores aedium

sacrarum et operum locorumque publicorum per preservare i templi e gli edifici pubblici;

aumentò l'approvvigionamento idrico con la costruzione di due nuovi acquedotti[23] e creando

un corpo di tre curatores aquarum per l'approvvigionamento idrico; la divise in 14 regiones e

quartieri (vicus) per meglio amministrarla oltre ad istituire cinque curatores riparum et alvei

Tiberis, per proteggere Roma da eventuali inondazioni;[21] curò personalmente gli

approvvigionamenti di cibo necessari alla popolazione della capitale, con la creazione

del praefectus annonae (di rango equestre) e di due praefecti frumenti dandi (di rango

senatorio) per somministrare i sussidi; incrementò, infine, il livello di sicurezza cittadina

ponendo a salvaguardia dell'Urbe tre nuove prefetture: la praefectura vigilum, affidata ad

un prefetto (di rango equestre), a capo di sette coorti di vigili (di ex-schiavi, affrancati) per far

fronte agli incendi di Roma,[20][21] la praefectura Urbi, affidata ad un prefetto di estrazione

senatoria o consolare, ai cui ordini erano poste tre coorti urbane (di circa 1.000 uomini

ciascuna) al fine di mantenere l'ordine pubblico, la Guardia pretoriana (praefectura Praetorii),

affidata ad un prefetto di rango equestre a capo di nove coorti, quale guardia personale

del princeps.[75]

Opere pubbliche[modifica | modifica sorgente]

Page 39: Virgilio Egloghe

Modellino con ricostruzione ideale del foro di Augusto.

Modello di Roma, raffigurante in primo piano il teatro di Marcello e in secondo piano il teatro di Balbo con a fianco

la Crypta Balbi.

Per approfondire, vedi Architettura romana e Roma antica.

Sotto il suo governo vennero spese ingenti somme di denaro per fornire Roma di riserve di

grano, acqua e di corpi di polizia,[20] e per l'erezione o il restauro di pubblici edifici.

« Roma non era all'altezza della grandiosità dell'Impero ed era esposta alle inondazioni e agli incendi, ma egli l'abbellì a tal punto che giustamente si vantò di lasciare di marmo la città che aveva trovato fatta di mattoni. Oltre a questo la rese sicura anche per il futuro, per quanto poté provvedere per i posteri. »

(Svetonio, Augustus, 28)

Numerosi furono, infatti, gli edifici, le opere pubbliche e i monumenti celebrativi costruiti o

restaurati durante il suo principato:

« [...] spesso esortò anche i privati affinché, ognuno secondo le proprie possibilità, adornasse la città con nuovi templi oppure restaurando e arricchendo quelli già esistenti. »

Page 40: Virgilio Egloghe

(Svetonio, Augustus, 29)

la ristrutturazione della Curia (sede del senato) e del Tempio di Giove Ottimo

Massimo sul Campidoglio, dove depose un bottino composto da sedicimila libbre d'oro,

con pietre preziose e perle per un valore di cinquanta milioni di sesterzi;[21]

la costruzione di un nuovo foro accanto a quello di Gaio Giulio Cesare (il Foro di Augusto),

che includeva anche il tempio di Marte Ultore;[76]

numerosi nuovi templi, come quelli dedicati ad Apollo sul Palatino[76] (con la vicina

biblioteca Apollinis, greca e latina[76] e alcuni tripodi d'oro[77]) e al padre adottivo, il Divo

Giulio, oltre al Pantheon costruito tra il 27-25 a.C.), al Teatro di Marcello[76] (terminato

nell'11 a.C.), alle Terme di Agrippa,[76] agli acquedotti Aqua Iulia (costruito da Marco

Vipsanio Agrippa nel 33 a.C.), Aqua Virgo (del 19 a.C.) e Aqua Alsietina (del 2 a.C.), ad

un nuovo ponte sul Tevere fatto costruire da Agrippa;[76]

la ricostruzione della Basilica Giulia (dedicata ai nipoti Gaio e Lucio[76]) nel 12 d.C., ora

ampliata dopo un incendio;

alcuni portici, uno dedicato alla moglie Livia ed un secondo alla sorella Ottavia;[76]

il permesso di costruire a privati, come il primo anfiteatro in pietra a Statilio Tauro, il Teatro

di Balbo, il Tempio di Ercole delle Muse a Lucio Marcio Filippo, il tempio di Diana a Lucio

Cornificio, l'atrio delle libertà a Gaio Asinio Pollione e iltempio di Saturno a Lucio Munazio

Planco;[76]

i monumenti celebrativi come l'Ara Pacis (a fianco dell'immensa meridiana del campo

Marzio), un arco trionfale nel Foro Romano, un altro arco trionfale dedicato ai nipoti Gaio e

Lucio Cesari,[76] i rostri apposti nel Foro Romano dopo la vittoria su Marco

Antonio nella battaglia di Azio, un Mausoleo, due enormi obelischi egiziani;

il tempio di Giove Tonante sul Campidoglio;[76]

un luogo adatto per le battaglie navali, scavando il terreno nei pressi

del Tevere (Naumachia Augusti), dove ora si trova il bosco dei Cesari;[78]

altri numerosissimi monumenti in tutte le province imperiali a partire dal vicino porto

di Roma, Ostia.[79]

E sempre Svetonio ci ricorda che Augusto:

« E così, non solo restaurò gli edifici che ogni condottiero aveva edificato, mantenendo le iscrizioni [originarie], ma nei due colonnati del suo foro collocò le statue di tutti loro, con le insegne dei trionfi conseguiti, e in un editto proclamò: aveva escogitato ciò, lui stesso mentre era in vita, affinché i principi successivi fossero costretti dai cittadini ad ispirarsi alla vita di loro e dello stesso Augusto come ad un modello. »

(Svetonio, Augustus, 31)

Fece, inoltre, allargare e pulire il letto del fiume Tevere, da troppo tempo ricolmo di detriti, per

evitare nuove e pericolose inondazioni;[21] Oltre a ciò, onde evitare i danni dei frequenti incendi,

Page 41: Virgilio Egloghe

Augusto intervenne riducendo l'altezza delle nuove costruzioni, proibendo di edificare lungo le

vie pubbliche ad un'altezza superiore ai 70 piedi.[20] Svetonio racconta infinte che:

« Fece anche trasportare fuori dalla curia, dove Cesare era stato ucciso, la statua di Pompeo che mise di fronte al cortile del suo teatro, in alto ad un arco di marmo. »

(Svetonio, Augustus, 31)

Amministrazione provinciale[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Province romane e Cursus publicus.

Province senatorie (in rosa) ed imperiali (in rosso) nel 14, sotto Augusto.

« Di alcune province cambiò condizione, e visitò spesso la maggior parte sia delle une sia delle altre. Certe città, per altro federate, ma che la dissolutezza stava mandando in rovina, furono private della loro libertà, altre, sotto il peso dei debiti, furono aiutate, altre ancora, distrutte dal terremoto, furono aiutate nella ricostruzione, e quelle che avevano dei meriti nei confronti del popolo romano, gli venne donato il diritto di cittadinanza o quello dei Latini. E non mi sembra che una sola provincia non sia stata dallo stesso visitata, ad eccezione dell'Africa e della Sardegna. »

(Svetonio, Augustus, 47.)

« La maggior parte delle province dedicò ad Augusto non solo templi e altari, ma anche giochi ogni cinque anni, [celebrati] quasi in ogni città. »

(Svetonio, Augustus, 59.)

Nel 27 a.C., riorganizzò le province da un punto di vista fiscale e amministrativo, delegando

l'amministrazione delle province nel seguente modo:

Per sé stesso, tenne le cosiddette province non pacificate (e più importanti, potenti),[80] ovvero quelle limitanee, in cui erano stanziate le legioni, con il fine di giustificare il

potere sull'esercito. Tali province, poi dette imperiali, o provinciae Caesaris, furono affidate

ai legati Augusti pro praetore di rango senatorio, scelti tra ex-consoli ed ex-pretori,

con legati legionari, prefetti e tribuni come subalterni. Faceva eccezione l'Egitto, in cui

venne riconfermato il praefectus Alexandreae et Aegypti, un membro del ceto equestre

munito di imperium. Per l'aspetto tributario, tali province erano affidate ad agenti del

Page 42: Virgilio Egloghe

principe, cavalieri, ma anche liberti, col titolo di procuratores Augusti; le entrate andavano

a confluire sulla neonata cassa del principe, il fiscus.

Le rimanenti province, quelle di più antica costituzione (pacate) e prive di stanziamenti

legionari (tranne che per la provincia d'Africa), vennero lasciate al governo delle

promagistrature tradizionali, affidandole a proconsules,[80] estratti a sorte secondo il

costume repubblicano, tra ex-consoli o ex-pretori a seconda dell'importanza della

provincia. Tali province presero poi il nome di provinciae Populi Romani. I tributi venivano

raccolti dai quaestores e confluivano nell'aerarium, l'antica cassa dello stato romano.

Altri distretti, di minori dimensioni e importanza, non elevati al rango di provincia e nei quali

erano stanziate solo truppe ausiliare, furono affidati a ufficiali, col titolo

di prefetticivitatum o, semplicemente, prefetti. Questi distretti dipendevano dal legato della

provincia (o dell'esercito) più vicino: così la prefettura di Giudea dipendeva dal legato di

Siria e le prefetture alpine dal legato dell'esercito germanico.

Creò, inoltre, nuovi e numerosi municipi e colonie, al fine di portare avanti l'opera di

romanizzazione nelle province.[18][81]

Proibì che si inviassero magistrati nelle province, dopo che questi avessero deposto il loro

incarico; stabilì che fosse assegnata un'indennità fissa ai proconsoli per i loro muli e tende,

che normalmente erano aggiudicati pubblicamente.[82]

E poiché sapeva che molti proconsoli erano soliti innalzargli e dedicagli nuovi templi, non

accettò che in nessuna provincia venissero edificati senza associare al suo nome quello della

dea Roma. A Roma rifiutò con grande determinazione questo onore.[77] Creò inoltre il

cosiddetto cursus publicus, vale a dire il servizio imperiale di posta che assicurava gli scambi

all'interno dell'Impero romano.

« Affinché si potesse facilmente e più rapidamente annunciargli e portare a sua conoscenza ciò che succedeva in ciascuna provincia, fece piazzare, di distanza in distanza, sulle strade strategiche, dapprima dei giovani a piccoli intervalli, poi delle vetture. Il secondo procedimento gli parve più pratico, perché lo stesso portatore del dispaccio faceva tutto il tragitto e si poteva, inoltre, interrogarlo in caso di bisogno. »

(Svetonio, Augustus, 49.)

Amministrazione finanziaria[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Riforma monetaria di Augusto, aerarium, aerarium militare, Fiscus Caesaris, congiaria e fornitura di grano per la città di Roma.

Denario

CAESAR AVGVSTVS DIVI F

PATER PATRIAE. Testa laureata

volta a destra.

Page 43: Virgilio Egloghe

Augusto riorganizzò l'amministrazione finanziaria dello Stato romano. Attribuì infatti un salario

e una gratifica di congedo a tutti i soldati dell'esercito imperiale (sia ai legionari che

agli ausiliari); assegnò un salario (salaria) per il servizio pubblico per tutti i rappresentanti del

senato, per poi estenderlo gradualmente anche alle magistrature ordinarie. La magistratura di

tipo repubblicano fu retribuita con indennizzi e cibaria, piuttosto che con salaria. Costituì inoltre

il fiscus (ovvero la cassa delle entrate dell'imperatore), accanto al vecchio aerarium, che

rimase la cassa principale (affidata dal 23 a.C. a due pretori, non più a due questori),[82] ma

Augusto fu autorizzato ad attingere da esso le somme necessarie per tutte le funzioni

amministrative e militari. L'imperatore, di fatto, poteva dirigere la politica economica di tutto

l'impero e assicurarsi che le risorse fossero equamente distribuite in modo che le popolazioni

sottomesse potessero considerare il governo di Roma una benedizione, non una condanna.

Creò infine un aerarium militare per i compensi da dare ai veterani.[83]

Promosse, quindi, la rinascita economica, del commercio e dell'industria attraverso

l'unificazione dell'area mediterranea, debellando completamente la pirateria e migliorando la

sicurezza lungo le frontiere e internamente alle Province. Creò una fitta rete stradale con un

ottimo livello di manutenzione (affidandole alla cura dei suoi generali, che dovettero farle

ripavimentare con l'argento dei loro bottini),[21] istituendo numerosi curatores viarum per la

manutenzione delle strade in Italia e nelle Province; nuovi porti commerciali e nuove

attrezzature portuali come moli, banchine, fari; finanziò l'escavazione di canali e nuove

esplorazioni (a volte anche militari oltreché commerciali) in terre lontane come l'Etiopia,

la penisola arabica (fino all'attuale Yemen), le terre deiGaramanti, dei Germani del fiume

Elba e l'India. In questa maniera restaurò la pax romana in tutto l'impero.[84]

« Il tempio di Giano Quirino che, dalla fondazione di Roma, non era stato chiuso che due volte prima di lui, sotto il suo principato fu chiuso tre volte, in uno spazio di tempo molto più breve, poiché la pace si trovò stabilita in terra e in mare. »

(Svetonio, Augustus, 22)

Inoltre, nel 23-15 a.C., riordinò il sistema monetario, fissando i cambi tra la moneta aurea (1/40

di libbra) equivalente a 25 denari d'argento e a 100 sesterzi di rame, che restò praticamente

immutato per due secoli.[85]

Ed infine, sappiamo che concesse numerosi congiaria, vale a dire distribuzioni di grano

gratuite alla popolazione di Roma, o prestiti a tassi agevolati, come ci tramanda Svetonio:

« Fece il censimento del popolo per quartieri e affinché i plebei non fossero allontanati dalle loro occupazioni troppo spesso a causa della distribuzione di grano, assegnò tre volte all'anno tessere per l'approvvigionamento di quattro mesi; ma poiché essi desideravano tornare alla vecchia abitudine, concesse nuovamente che ciascuno prelevasse ogni mese ciò che gli era dovuto. »

(Svetonio, Augustus, 40.)

« In più occasioni esibì la sua liberalità verso tutti gli ordini sociali. Infatti quando si trasportò a Roma,

Page 44: Virgilio Egloghe

per il trionfo alessandrino, il tesoro dei re egiziani, ne derivò una così grande abbondanza di denaro che, diminuito l’interesse del denaro prestato, crebbe il prezzo di molti terreni e, in seguito, ogni volta che dalle proprietà confiscate facevano abbondare il denaro, era consuetudine [di Augusto] prestarlo senza interesse, per un tempo determinato, a coloro che potevano rispondere del doppio. [...] Fece frequenti distribuzioni di denaro al popolo, ma ogni volta per somme differenti: una volta 400, un'altra 300, qualche volta anche per 250 sesterzi a testa. E non escluse neppure i bambini più piccoli, sebbene non fosse consuetudine che ricevessero alcunché prima degli 11 anni. »

(Svetonio, Augustus, 41)

Ecco nel dettaglio come ci vengono raccontate dallo stesso Augusto nelle sue Res Gestae:

« Alla plebe di Roma[86] pagai in contanti a testa trecento sesterzi in conformità alle disposizioni testamentarie di mio padre[87], e a mio nome diedi quattrocento sesterzi a ciascun provenienti dalla vendita del bottino delle guerre, quando ero console per la quinta volta[88]; nuovamente poi, durante il mio decimo consolato[89], con i miei beni pagai quattrocento sesterzi di congiario a testa, e console per l'undicesima volta[90] calcolai e assegnai dodici distribuzioni di grano, avendo acquistato a mie spese il grano in grande quantità e, quando rivestivo la potestà tribunizia per la dodicesima volta[91], diedi per la terza volta quattrocento nummi a testa. Questi miei congiari non pervennero mai a meno di duecentocinquantamila uomini. Quando rivestivo la potestà tribunizia per la diciottesima volta ed ero console per la dodicesima volta[92]diedi sessanta denari a testa a trecentoventimila appartenenti alla plebe urbana. E ai coloni che erano stati miei soldati, quando ero console per la quinta volta, distribuii a testa mille nummi dalla vendita del bottino di guerra; nelle colonie ricevettero questo congiario del trionfo circa centoventimila uomini. Console per la tredicesima volta diedi sessanta denari alla plebe che allora riceveva frumento pubblico; furono poco più di duecentomila uomini[93]. »

(Augusto, Res Gestae Divi Augusti, 15.)

Quando poi il popolo gli richiese un congiarium che aveva promesso, rispose che era un uomo

di parola. Quando invece ne sollecitò uno che non si era impegnato a distribuire, denunciò con

un editto la menzogna, dichiarando che, sebbene avesse avuto in animo di farlo, non l'avrebbe

fatto.[23] In un'altra circostanza, accortosi che all'annuncio di un nuovo congiarium molti

avevano affrancato i loro schiavi, dichiarò che lo avrebbero ricevuto solo quelli ai quali era

stato promesso, e diede meno di quanto aveva stabilito, affinché la somma stanziata risultasse

sufficiente.[23] E quando, durante una terribile carestia, Augusto espulse da Roma tutti coloro

che dovevano essere venduti, le famiglie dei gladiatori, gli stranieri, ad eccezione dei medici,

dei precettori e di una parte dei servi, finalmente migliorarono i vettovagliamenti, tanto che lo

stesso princeps pensò di sopprimere definitivamente la distribuzione gratuita di

frumento (frumentationes publicas), perché la fiducia che il popolo aveva in esse, portava solo

ad abbandonare la cultura della coltivazione dei campi. Augusto però non insistette, perché

era certo di doverla ripristinare un giorno per avere il consenso del popolo romano. Da allora

però, regolò le distribuzioni in modo da difendere gli interessi degli agricoltori e dei

commercianti, tanto quanto quelli del popolo.[23]

Caratteristiche demografiche, economiche e sociali dell'Impero romano sotto

Augusto[modifica | modifica sorgente]

Page 45: Virgilio Egloghe

Le vie del commercio romano durante l'alto Impero romano.

Per approfondire, vedi Economia dell'Impero romano.

Al tempo di Augusto l'Impero romano dominava su una popolazione di circa 55 milioni di

persone (di cui 8-10 in Italia) su una superficie di circa 3,3 milioni di chilometri quadrati.

Rispetto ai tempi moderni, la densità era piuttosto bassa: 17 abitanti per chilometro quadrato, i

tassi di mortalità e natalità molto elevati e la vita media non superava i 20 anni. Solo un

decimo della sua popolazione viveva nelle sue 3 000 città, più in particolare: 3 milioni circa

abitavano nelle quattro città più grandi (Roma,Cartagine, Antiochia e Alessandria), di questi

almeno un milione abitava nell'Urbe. Secondo calcoli approssimativi il prodotto interno lordo di

quell'Impero era a quell'epoca attorno ai 20 miliardi di sesterzi e caratterizzato da vertiginose

concentrazioni di ricchezze. Il reddito annuale dell'imperatore era attorno ai 15 milioni di

sesterzi, quello dei 600 senatori ammontava a circa 100 milioni (0,5 per cento del Pil), il 3 per

cento dei percettori di redditi godeva del 25 per cento delle ricchezze prodotte. L'Italia, centro

dell'Impero augusteo, godeva di una posizione privilegiata: grazie alle nuove conquiste di

Augusto poteva disporre di nuovi grandi mercati di approvvigionamento (grano, in primo luogo,

proveniente dalla Sicilia, dall'Africa, dall'Egitto) e di nuovi mercati di sbocco per le proprie

esportazioni di vino ed olio; le terre confiscate alle popolazioni sottomesse erano immense e

dalle province arrivavano tributi in moneta e in natura (bottini di guerra, milioni di schiavi,

tonnellate d'oro).[94][21]

Riorganizzazione dell'esercito[modifica | modifica sorgente]

Page 46: Virgilio Egloghe

Il legionario ai tempi dell'imperatore Augusto.

Per approfondire, vedi Riforma augustea dell'esercito romano e limes romano.

Augusto riorganizzò l'esercito legionario e ausiliario, distribuendolo nella province.[83] Introdusse un esercito permanente di volontari, disposti a servire inizialmente per sedici

anni, e poi per vent'anni dal 6, unicamente dipendente da lui; istituì un cursus honorum anche

per coloro che aspiravano a ricoprire i più alti incarichi nella gerarchia dell'esercito, con

l'introduzione di generali professionisti, non più comandanti inesperti mandati allo sbaraglio

nelle province di confine; creò l'aerarium militare.[83]

« In campo militare introdusse molte nuove riforme e ristabilì anche alcune antiche usanze. Mantenne la più severa disciplina: dove i suoi legati non ottennero, se non a fatica e solo durante i mesi invernali, il permesso di andare a trovare le loro mogli. [...] Congedò con ignominia l'intera X legione, poiché ubbidiva con una certa aria di rivolta; allo stesso modo lasciò libere altre, che reclamavano il congedo con esagerata insistenza senza dare le dovute ricompense per il servizio prestato. Se alcune coorti risultava si fossero ritirate durante la battaglia, ordinava la loro la decimazione e nutrire con orzo. Quando i centurioni abbandonavano il loro posto di comando erano messi a morte come semplici soldati, mentre per altre colpe faceva infliggere pene infamanti, come il rimanere tutto il giorno davanti alla tenda del proprio generale, vestito con una semplice tunica, senza cintura, tenendo in mano a volte una pertica lunga dieci piedi, oppure una zolla erbosa. »

(Svetonio, Augustus, 24)

Delle legioni sopravvissute alla guerra civile, 28 rimasero dopo Azio, e 25 dopo la disfatta di

Teutoburgo; vennero istituite le ali di cavalleria e le coorti di fanteria (o misti)

di auxilia provinciali, traendoli da volontari non-cittadini, desiderosi di diventare cittadini romani

al termine della ferma militare (della durata di 20-25 anni). In totale erano circa 340 000

uomini, di cui 140 000 servivano nelle legioni. Furono formate anche le coorti

pretoriane e urbane (di Roma, Cartagine, Lione e d'Italia) e dei Vigili di Roma;[21] la flotta

imperiale divisa in squadre a Ravenna, Miseno[83] (in precedenza posta a Portus

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Iulius presso Pozzuoli[47]) e Forum Iulii, e quelle provinciali di Siria e Egitto, e le flottiglie fluviali

su Reno, Danubio e Sava.[95]

Politica estera[modifica | modifica sorgente]

Le conquiste di Augusto fino al 6, prima della disfatta di Varo nella selva di Teutoburgo.

[mostra]

V · D · M

Politica estera

augustea

Quasi a dispetto dell'indole apparentemente pacifica di Augusto, il suo principato fu più

travagliato da guerre di quanto non lo siano stati quelli della maggior parte dei suoi successori.

Solo Traiano e Marco Aurelio si trovarono a lottare contemporaneamente su più fronti, al pari

di Augusto. Sotto Augusto, infatti, furono coinvolte quasi tutte le frontiere, dall'oceano

settentrionale fino alle rive del Ponto, dalle montagne della Cantabria fino al deserto

dell'Etiopia, in un piano strategico preordinato che prevedeva il completamento delle conquiste

lungo l'intero bacino del Mediterraneo e in Europa, con lo spostamento dei confini più a nord

lungo il Danubio e più ad est lungo l'Elba (in sostituzione del Reno).[96]

« Tutte le altre guerre [oltre a quella in Illirico e Cantabria] furono dirette attraverso suoi generali, sebbene in occasione di alcune campagne in Pannonia e in Germania, intervenne di persona e rimase a poca distanza, allontanandosi da Roma per spingersi fino a Ravenna, a Milano o ad Aquileia [intesi come quartieri generali a ridosso del fronte bellico]. »

(Svetonio, Augustus, 20)

« Sottomise, sia personalmente, sia con imprese fortunate [dei suoi comandanti militari], la Cantabria, l'Aquitania, la Pannonia, la Dalmazia insieme a tutto l'Illirico, oltre alla Retia, il paese dei Vindelici e dei Salassi, popolazioni delle Alpi. Fermò in modo definitivo le incursioni dei Daci, uccidendo tre loro capi, oltre ad un gran numero di loro armati. Respinse i Germani al di là dell'Elba, ad eccezione di Suebi e Sigambri che fecero atto di sottomissione e, una volta trasportati in Gallia, vennero sistemati

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nei territori vicini al fiume Reno. Ridusse all'obbedienza anche altre popolazioni aggressive. »

(Svetonio, Augustus, 21.)

Ottaviano Augusto in tenuta militare con paludamentum e Parazonium(statua equestre dell'imperatore al Museo

Nazionale di Atene)

Le campagne di Augusto furono effettuate con il fine di consolidare le conquiste disorganiche

dell'età repubblicana, le quali rendevano indispensabili numerose annessioni di nuovi territori.

Mentre l'Oriente poté rimanere più o meno come Antonio e Pompeo lo avevano lasciato, in

Europa fra il Reno e il Mar Nero fu necessaria una nuova riorganizzazione territoriale in modo

da garantire una stabilità interna e, contemporaneamente, frontiere più difendibili.

Gli storici contemporanei si sono spesso trovati d'accordo nel negare le qualità militari di

Augusto, insistendo sul fatto che raramente egli andò personalmente sui campi di battaglia.[97] Questo è quanto ci tramanda Svetonio:

« Riguardo alle guerre esterne, [Augusto] ne condusse personalmente solo due: quella in Dalmazia, quando era ancora adolescente, e quella Cantabrica, dopo la fine di Antonio. Durante la guerra in Dalmazia venne anche ferito: in combattimento egli fu colpito da una pietra al ginocchio destro, in un altro scontro venne ferito ad una gamba e alle braccia a causa del crollo di un ponte. »

(Svetonio, Augustus, 20)

Aurelio Vittore,[98] ricordando una tradizione antica, diede di questo principe un ritratto più

lusinghiero. Egli si dimostrò, invece un abilissimo uomo politico e geniale stratega, forse

l'esatto contrario di ciò che fu Annibale: validissimo generale e tattico, ma con una dubbia

visione politico-strategica del suo tempo, accecata dall'odio per i Romani.

Sottomissione delle "aree interne"[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Guerre cantabriche e Conquista di Rezia ed arco alpino sotto Augusto.

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Prima di tutto, Augusto in persona si dedicò, con l'aiuto di Agrippa, a portare a compimento

una volta per tutte la sottomissione di quelle "aree interne" all'impero non ancora conquistate

completamente.

La parte nord-ovest della penisola iberica, che ormai creava problemi da decenni, fu condotta

sotto il dominio romano, dopo una serie di pesanti campagne militari in Cantabriadurate 10

anni (dal 29 al 19 a.C.), l'impiego di numerose legioni (ben sette) insieme ad un numero

altrettanto elevato di ausiliari, oltre alla presenza dello stesso Ottaviano sul teatro delle

operazioni (nel 26 e 25 a.C.). La vicina Aquitania fu, intanto, percorsa dalle truppe di Marco

Valerio Messalla Corvino che vi riportava l'ordine turbato dagli indigeni nel28 a.C.

La conquista dell'arco alpino, per dare maggior sicurezza interna ai valichi e alle relazioni

fra Gallia e Italia: nel 26-25 a.C. furono sottomessi i Salassi con la fondazione di Augusta

Praetoria (Aosta); nel 23 Tridentium (Trento) fu fortificata; nel 16 furono vinti i Camuni della Val

Camonica e le tribù della Val Venosta; nel 14 i Liguri Comati delle Alpi sudoccidentali erano in

parte sottoposti ai praefecti civitatum, in parte aggiunti al vicino regno di Cozio, divenuto egli

stesso prefetto, anche se solo formalmente. Questi successi furono commemorati con

l'erezione del celebre trofeo di La Turbie lungo la via Iulia augusta, al confine tra l'Italia

romana e la Gallia Narbonense.

Ma fu la frontiera dell'Europa continentale che preoccupò Augusto più di ogni altro settore

strategico. Essa comprendeva due settori principali: quello danubiano e quello renano.

Frontiera danubiana[modifica | modifica sorgente]

Al termine della rivolta dalmato-pannonica del 6-9, tutti i territori dell'area illirica a sud del fiume Dravafurono sotto

il definitivo controllo romano.

Per approfondire, vedi Campagne militari di Ottaviano in Illirico (35-33 a.C.), Campagne dalmato-illiriche (13-9 a.C.) eRivolta dalmato-pannonica del 6-9.

Publio Silio Nerva, governatore dell'Illirico, tra il 17 e il 16 a.C., riuscì a portare a termine la

conquista del fronte alpino orientale, oltre al Norico meridionale, ottenendo una forma di

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vassallaggio da parte del regno del Norico settentrionale (popolazione dei Taurisci). I figliastri

di Augusto, Druso e Tiberio, nel 15 a.C., sottomisero la Rezia, Vindelicia e Vallis Poenina, con

un'operazione "a tenaglia", il primo proveniente dal Brennero e il secondo dalla Gallia.

Dal 29 al 19 a.C. si procedette ad azioni combinate insieme ai re "clienti" traci, contro le

popolazioni pannoniche, mesie,sarmatiche, getiche e bastarne fino ai confini macedoni. Il

primo ad intraprendere campagne nell'area balcanica fu ilproconsole di Macedonia, Marco

Licinio Crasso, in quale batté ripetutamente le popolazioni

di Mesi, Triballi, Geti e Daci (nel29 e 28 a.C.). Attorno al 16-15 a.C. i Bessi vennero ricacciati

dalla frontiera macedone, mentre le colonie greche tra le bocche del Danubio e

del Tyras chiesero la protezione di Roma; dal 14 al 9 a.C. i legati di Dalmazia e Macedonia,

sotto l'alto comando prima di Agrippa e poi di Tiberio, domarono Scordisci (sottomessi

da Tiberio nel 12 a.C.[99]), Dalmati e Pannoni e respinsero le scorrerie

di Bastarni, Sarmati e Daci d'oltre Danubio, mentre Pannonia e Dalmazia furono finalmente

condotte sotto il dominio romano. I Traci, da poco ribellatisi, furono pesantemente sconfitti dal

proconsole di Galazia e Panfilia, il consolare Lucio Calpurnio Pisone, in tre feroci campagne

(12-10 a.C.), al termine delle quali era loro imposto un protettorato, da parte di Roma, sia sul

regno di Tracia, sia su quello di Crimea e del Ponto. Dopo un quindicennio di relativa

tranquillità, nel 6, il settore danubiano tornò ad essere agitato. I Dalmati si ribellarono, e con

loro anche i Breuci di Pannonia, mentre Daci e Sarmati compirono scorrerie in Mesia. Fu

necessario sospendere ogni nuovo tentativo di conquista a nord del Danubio, per sopprimere

questa rivolta durata per ben tre anni, dal 6 al 9. Tiberio, in questo modo, fissò definitivamente

il confine dell'area illirica al fiume Drava.

Frontiera renana e Germania Magna[modifica | modifica sorgente]

Le campagne germaniche di Domizio Enobarbo del (3-1 a.C.), di Tiberio e del suo legato, Gneo Senzio Saturnino,

del 4-6.

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Per approfondire, vedi Occupazione romana della Germania sotto Augusto, Battaglia della foresta di Teutoburgo, limes renano e Germania (provincia romana).

Le popolazioni germaniche avevano più volte tentato di passare il Reno: nel 38 a.C. (anno in

cui gli alleati germani, Ubi, furono trasferiti in territorio romano)[100] e nel 29 a.C. i Suebi, mentre

nel 17 a.C. i Sigambri, insieme a Usipeti e Tencteri(clades lolliana).[101] Augusto ritenne fosse

giunto il momento di annettere la Germania, come aveva fatto suo padre Gaio Giulio

Cesare con la Gallia. Desiderava portare i confini dell'Impero romano più ad est, dal

fiume Reno al fiume Elba. Il motivo era di ordine prettamente strategico, più che di natura

economico-commerciale. Si trattava infatti di territori acquitrinosi e ricoperti da interminabili

foreste ma il fiume Elba avrebbe ridotto notevolmente i confini esterni dell'impero.

Contemporaneamente si dovette operare anche sul fronte danubiano nell'area illirica per

completare questo progetto. Dopo la morte di Agrippa, il comando delle operazioni fu diviso tra

i due figliastri dell'imperatore, Tiberio e Druso maggiore. Toccò a quest'ultimo il gravoso

compito di operare in Germania. Le campagne che si susseguirono furono numerose,

discontinue, e durarono per circa un ventennio dal 12 a.C. al 6 portando alla costituzione della

nuova provincia di Germania con l'insediamento di numerose fortezze legionarie (ad Haltern,

l'antica Aliso sede amministrativa provinciale, Oberaden eAnreppen lungo il fiume Lippe; oltre

a Marktbreit sul Meno). Tutti i territori conquistati in questo ventennio furono definitivamente

compromessi quando nel 7 Augusto inviò in Germania Publio Quintilio Varo, sprovvisto di doti

diplomatiche e militari, oltreché ignaro delle genti e dei luoghi. Nel 9 un esercito di 20.000

uomini composto da tre legioni venne massacrato nella selva di Teutoburgo, portando alla

definitiva perdita di tutta la zona tra il Reno e l'Elba.[27] Svetonio ricorda infatti che non subì

che due gravi ed ignominiose sconfitte, entrambe in Germania:

« [...] quella di Marco Lollio e quella di Varo. La prima generò più che altro vergogna che perdite, la seconda fu quasi fatale, poiché furono massacrate tre legioni con i loro generali, i loro subalterni e tutte le truppe ausiliarie. Quando giunse la notizia, Augusto fece mettere sentinelle in tutta la città per evitare disordini e prolungò il comando ai governatori delle province, in modo che eventuali rivolte degli alleati fossero controllati da comandanti esperti. Promise a Giove Ottimo Massimo giochi solenni, nel caso le cose della Res publica fossero migliorate: ciò avvenne durante la guerra contro Cimbri e Marsi. Raccontano, infine, che si mostrasse così abbattuto da lasciarsi crescere per mesi la barba e i capelli, da sbattere ogni tanto la testa contro le porte gridando: «Quintilio Varo, restituiscimi le mie legioni!» Dicono anche che considerò l'anniversario di quella disfatta come un giorno nefasto, di lutto e di tristezza. »

(Svetonio, Augustus, 23)

Frontiera orientale[modifica | modifica sorgente]

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Dettaglio dell'Augusto loricato o "di Prima Porta", statua dell'imperatore Augusto, ritratto in tenuta militare da

parata. Sulla corazza è rappresentata la scena della consegna delle insegne legionarie di Marco Licinio Crasso da

parte del re dei Parti, Fraate IV

Per approfondire, vedi Politica orientale augustea.

La presenza di Augusto in Oriente subito dopo la battaglia di Azio, nel 30-29 a.C. e

dal 22 al 19 a.C., oltre a quella di Agrippa fra il 23-21 a.C. e ancora tra il 16-13 a.C.,

dimostrava l'importanza di questo settore strategico. Fu necessario raggiungere un modus

vivendi con laPartia, l'unica potenza in grado di creare problemi a Roma in Asia Minore. Per

questi motivi la politica di Augusto si differenziò in base a due aree strategiche dell'Oriente

antico.

Ad occidente dell'Eufrate, dove Augusto provò ad inglobare alcuni stati vassalli, trasformandoli

in province, come la Galizia di Aminta nel25 a.C., o la Giudea di Erode Archelao nel 6; rafforzò

vecchie alleanze con re locali, divenuti "re clienti di Roma", come accadde adArchelao, re

di Cappadocia, ad Asandro re del Bosforo Cimmerio, e a Polemone I re del Ponto,[102] o ai

sovrani di Emesa e Iturea.[103]

Ad oriente dell'Eufrate, in Armenia, Partia e Media, Augusto ebbe come obbiettivo quello di

ottenere la maggiore ingerenza politica senza intervenire con dispendiose azioni militari.

Ottaviano mirò infatti a risolvere il conflitto con i Parti in modo diplomatico, con la restituzione

nel20 a.C., da parte del re parto Fraate IV, delle insegne perdute da Crasso nella battaglia di

Carre del 53 a.C. Augusto avrebbe potuto rivolgersi contro la Partia per vendicare le sconfitte

subite da Crasso e da Antonio, al contrario ritenne invece possibile una coesistenza pacifica

dei due imperi, con l'Eufrate come confine per le reciproche aree di influenza. Di fatto entrambi

gli imperi avevano più da perdere da una sconfitta, di quanto potessero realisticamente

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sperare di guadagnare da una vittoria. Infatti, durante tutto il suo lungo principato, Augusto

concentrò i suoi principali sforzi militari in Europa. Il punto cruciale in Oriente era, però,

costituito dal Regno d'Armenia che, a causa della sua posizione geografica, era da un

cinquantennio oggetto di contesa fra Roma e la Partia. Egli mirò a fare dell'Armenia uno stato-

cuscinetto romano, con l'insediamento di un re gradito a Roma, e se necessario imposto con

la forza delle armi, come avvenne nel 2d.C. quando, di fronte ad una possibile invasione

romana dell'Armenia, Fraate V riconobbe la preminenza romana davanti a Gaio Cesare,

mandato in missione da Augusto.[104]

Frontiera africana[modifica | modifica sorgente]

La provincia romana d'Egitto durante la conquista romana, al tempo dell'imperatore Augusto.

Per approfondire, vedi Campagne augustee lungo il fronte africano ed arabico.

La frontiera meridionale africana, per finire, poneva problemi diversi nei suoi settori orientale e

occidentale.

Ad oriente, dopo la conquista nel 30 a.C., l'Egitto divenne la prima provincia imperiale, retta da

un prefetto di rango equestre, il prefetto d'Egitto, a cui Ottaviano aveva delegato il

proprio imperium sul paese, con ben tre legioni di stanza (III Cyrenaica, VI Ferrata e XXII

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Deiotariana). L'Egitto costituì negli anni seguenti una base di partenza strategica per

spedizioni lontane; il primo prefetto, Cornelio Gallo, dovette reprimere un'insurrezione nel sud

dell'Egitto, Elio Gallo esplorò l'Arabia Felix, Gaio Petronio si spinse in direzione

dell'Etiopia (25-22 a.C.) fino alla sua capitale.

Ad occidente la provincia d'Africa e la Cirenaica conobbero due guerre: fra il 32 e il 20

a.C. contro i Garamanti dell'attuale Libia, mentre fra il 14 a.C. e il 6 d.C. fu la volta

dei Nasamoni della Tripolitania, dei Musulami della regione di Theveste, dei Getuli e

dei Marmaridi delle coste mediterranee centrali.

Nuovo sistema clientelare[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Regno cliente (storia romana).

I Romani intuirono che il compito di governare e di civilizzare un gran numero di genti

contemporaneamente era pressoché impossibile, e che sarebbe risultato più semplice un

piano di annessione graduale, lasciando l'organizzazione provvisoria affidata a principi nati e

cresciuti nel paese d'origine. Nacque quindi la figura dei re clienti, la cui funzione era quella di

promuovere lo sviluppo politico ed economico dei loro regni, favorendone la civilizzazione e

l'economia. Augusto, infatti, dopo essersi impadronito per diritto di guerra (belli iure) di

numerosi regni, quasi sempre li restituì agli stessi governanti a cui li aveva sottratti oppure li

assegnò a principi stranieri.[105] Riuscì anche ad unire all'Impero i re alleati attraverso legami di

parentela. Si preoccupò di questi regni come se fossero parte del sistema provinciale

imperiale, giungendo ad assegnare a principi troppo giovani o inesperti un consigliere, in

attesa che crescessero e maturassero; allevando ed educando i figli di molti re, affinché molti

di loro tornassero nei loro territori a governare come alleati del popolo romano.[105]

In seguito, quando i regni raggiungevano un livello di sviluppo accettabile, essi potevano

essere incorporati come nuove province o parti di esse. Le condizioni di stato vassallo-cliente

erano, dunque, di natura transitoria.

Tale disegno politico fu applicato all'Armenia, alla Giudea (fino al 6 d.C.), alla Tracia,

alla Mauretania e alla Cappadocia. A questi re clienti fu lasciata piena libertà

nell'amministrazione interna, e probabilmente non furono tenuti a pagare tributi regolari, ma

dovevano provvedere a fornire truppe alleate al bisogno oltre a concordare preventivamente la

loro politica estera con l'imperatore. Svetonio aggiunge che:

« [...] I re amici e alleati fondarono città con il nome di Cesarea, ciascuno nel proprio regno, e tutti insieme decisero di portare a termine, a proprie spese, il tempio di Giove Olimpio diAtene, iniziato alcuni secoli prima, dedicandolo al Genio di Augusto. Lasciati i loro regni, essi ogni giorno venivano ad omaggiarlo, non solo a Roma, ma anche durante i suoi viaggi nelle provincie, spesso indossando la sola toga, senza le insegne regali, come semplici clienti. »

(Svetonio, Augustus, 60.)

Nuovi impulsi culturali del circolo letterario di Mecenate[modifica | modifica sorgente]

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Circolo di Mecenate, dipinto di Stefano Bakalovich,1890, Galleria Tret'jakov, Mosca

Per approfondire, vedi Storia della letteratura latina (31 a.C. - 14 d.C.).

Allo sforzo politico di Augusto si affiancò l'elaborazione in tutti i campi di una nuova cultura, di

impronta classicistica, che fondesse gli elementi tradizionali in nuove forme consone ai tempi.

Poeti e letterati contribuirono nell'essere portavoci del programma civico e politico

del princeps;[106][107] successivamente subentrò una fase dove le energie spirituali andarono

spegnendosi e dove prevalse una letteratura accademica, intesa come mero esercizio

retorico, priva di quei contenuti morali e civili necessari.[108]

Augusto si avvalse dell'aiuto dei letterati dell'epoca per rielaborare il mito delle origini di Roma,

andando a prefigurare una nuova età dell'oro che trovò come principali interpreti, autori

come Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio, Properzio e Vario Rufo, facenti parte del cosiddetto

"circolo letterario di Mecenate".[109][110][107] Orazio difese la sua autonomia intellettuale, dalle

insinuazioni malevole di coloro che lo ritenevano un cortigiano di Ottaviano, preoccupato,

come gli altri poeti del "circolo", solo di fare carriera:

« Non viviamo lì nel modo in cui tu pensi. Luogo più puro di questo non esiste, né più distante da questo genere di intrighi. Niente mi interessa che uno sia più ricco o colto. Qui ciascuno ha il suo ruolo. »

(Orazio, Le Satire, I, 9, 48-52)

Orazio legge davanti al circolo di Mecenate, dipinto di Stefano Bakalovich, 1863

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Vero è che Mecenate, spesso stimolava i poeti a comporre opere nel modo più elevato

possibile:

« Frattanto occupiamoci dei boschi e delle driadi,di gole selvagge, malgrado il tuo non lieve volere, o Mecenate:senza di te nulla di nobile la mente può concepire. Presto!Togliamo gli indugi. [...]Presto mi metterò a narrare le grandi battagliedi Cesare Augusto, diffondendo il suo nome per tanti anniquanti ne distando da Cesare ai suoi discendenti della stirpe di Titone. »

(Virgilio, Georgiche, II, 40-48)

A fianco, vi era poi un altro circolo, quello "di Messalla", che ruotava attorno alla figura

aristocratica di Marco Valerio Messalla Corvino, e che raccoglieva poeti di ispirazione bucolica

ed elegiaca, in antitesi con gli interessi civili dei poeti di Mecenate.[111] Di questo secondo

circolo facevano parte Tibullo,[112] Ligdamo e la poetessa Sulpicia; egli era legato anche da

amicizia con Orazio e Ovidio. Messalla a suo tempo era stato un valoroso generale e

collaboratore di Ottaviano, che si ritirò a vita privata dopo il 27 a.C.. Questo circolo, in antitesi

con quello di Mecenate, rinunciò all'impegno morale e civico, a favore di

un'ispirazione idilliaca, agreste ed elegiaca.[113]

Virgilio legge l'Eneide davanti allo stesso Augusto eOttavia minore (dipinto di Jean-Joseph Taillasson, conservato

presso la National Gallery di Londra).

Altro personaggio autorevole che, fin dai tempi delle guerra civile tra Ottaviano e Antonio,

diede nuovi impulsi alla cultura del tempo, fu Gaio Asinio Pollione, il quale creò per primo una

biblioteca pubblica; restaurò in forme grandiose l'Atrium Libertatised introdusse la pratica

delle recitationes, ovvero della lettura di prosa e poesia in pubblico, in apposite sale davanti ad

amici e invitati (soprattutto presso la nobilitas roamna).[114] Uomo politico del partito cesariano,

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ebbe attorno al 40 a.C. un momento di grande fortuna, quando Virgilio gli dedicò la quarta

ecloga. Più tardi Ottaviano lo mise da parte nella vita politica, forse perché anticonformista e

contrario a chi stava limitando la libertà, tanto da portarlo a dedicarsi all'attività letteraria.[114] Compose una storia delle guerre civili, che trattò con grande franchezza, lontano da stili

retorici o abbellimenti moralistici.[113]

L'età di Augusto è considerata uno fra i più importanti e fiorenti periodi della storia della

letteratura mondiale per numero di ingegni letterari, dove i principi programmatici e politici di

Augusto erano appoggiati dalle stesse aspirazioni degli uomini di cultura del tempo.[106] Del

resto la politica a favore del primato dell'Italia sulle province, la rivalutazione delle antiche

tradizioni, accanto a temi come la santità della famiglia, dei costumi, il ritorno alla terra e la

missione pacificatrice e aggregante di Roma nei confronti degli altri popoli conquistati, furono

temi cari anche ai letterati di quell'epoca.[109]

I tempi erano ormai maturi perché la letteratura latina sfidasse quella greca, che allora veniva

considerata insuperabile. Nella generazione successiva, sotto il principato di Augusto, fiorirono

i maggiori poeti di Roma: Orazio, che primeggiò nellasatira e nella lirica, emulava i lirici

come Pindaro e Alceo, Virgilio, che si distinse nel genere bucolico, nella poesia didascalica e

nell'epica, rivaleggiava con Teocrito, Esiodo e addirittura Omero; e poi ancora Ovidio, maestro

del metro elegiaco, e Tito Livio nella storiografia.

Lo stesso Augusto fu un letterato dalle molteplici capacità: scrisse in prosa e in versi, dalle

tragedie agli epigrammi[115] fino alle opere storiche. Coltivò l'eloquenza fin dalla prima

giovinezza, con grande passione e impegno.[116] Di lui ci rimane il resoconto della sua opera

politica a favore del popolo e della repubblica romana (Res Gestae Divi Augusti), dove viene

messo in evidenza il suo rifiuto di contrastare le regole tradizionali dello stato repubblicano e di

assumere poteri arbitrari in modo illegittimo.[109] Svetonio aggiunge che quando prendeva la

parola, che fosse in Senato, davanti al popolo o davanti ai suoi soldati, aveva sempre pronto

un discorso ben meditato e scritto, sebbene non gli mancasse la capacità di improvvisare. Il

motivo sembra fosse che egli voleva evitare di trovarsi esposto agli scherzi della memoria

oppure a perdere tempo, dovendosi ricordare ogni passaggio del suo discorso. Capitava

spesso che scrivesse le conversazioni più importanti comprese quelle con la moglie Livia,

tanto da scorrere i suoi appunti mentre le parlava. Utilizzava un tono dolce, lavorando spesso

con un maestro di dizione e, quando era colpito da raucedine, parlava al popolo attraverso un

portavoce.[116]

Compose molte opere di prosa ed eloquenza di vario genere, alcune delle quali lesse nella

schiera dei suoi familiari, quasi recitasse in un auditorio. Così ad esempio recitò le «Risposte a

Bruto su Catone». Recitò pure le «Esortazioni alla Filosofia», oltre a «Sulla sua vita» che

scrisse in tredici libri, arrivando fino alla guerra dei Cantabri.[117] Si occupò anche di poesia.

Rimane un suo libro scritto in esametri, il cui titolo e argomento è «La Sicilia», e un altro

piccolo di «Epigrammi» che meditava quando faceva il bagno. Iniziò con grande entusiasmo

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una tragedia, che poi però distrusse e quando gli amici gli chiesero che cosa fosse accaduto al

suo «Aiace» rispose che si era gettato su una spugna.[117] Si dedicò anche allo studio delle

discipline greche fin dalla giovinezza, avendo avuto come maestro di eloquenza Apollodoro di

Pergamo, che aveva condotto con sé, ormai anziano, da Roma ad Apollonia, dove apprese

della morte di Gaio Giulio Cesare.[106]

Il problema della successione[modifica | modifica sorgente]

Denario raffigurante Augusto insieme a Agrippa.

Per approfondire, vedi Dinastia giulio-claudia e Albero genealogico giulio-claudio.

« Ma il destino (Fortuna) non gli permise di essere soddisfatto, fiducioso e di avere una progenie e una casa ben disciplinata. Le due Giulie, lafiglia e la nipote, colpevoli di ogni atto empio, le esiliò; nello spazio di diciotto mesi perse Gaio e Lucio, il primo in Licia, il secondo a Marsiglia. Adottò allora, nel Foro con la legge curiata, il terzo nipote Agrippa e il figliastro Tiberio; ben presto, a causa della natura infame e feroce di Agrippa, lo rinnegò e lo esiliò a Sorrento. »

(Svetonio, Augustus, 65)

La successione, che toccò alla fine a Tiberio, al termine del suo principato, fu una delle più

grandi preoccupazioni della vita di Augusto. Ottaviano, che in gioventù ebbe come fidanzata la

figlia di Publio Servilio Vatia Isaurico, ma che sposò nel 42 a.C. la figliastra di Antonio,Clodia

Pulcra, una volta riconciliatosi con lui.[5] L'anno successivo (41 a.C.), ripudiò Clodia per

sposare prima Scribonia e, poco dopo, si innamorò di Livia Drusilla (appartenente ad una delle

più illustri famiglie patrizie romane), moglie di un certo Tiberio Claudio Nerone.[5] Dopo

la vittoria di Perugia (40 a.C.), Ottaviano riuscì ad imporre loro il divorzio, mentre Livia era

ancora gravida del secondogenito, Druso, e la sposò (fine del 39 a.C.), portando nella sua

nuova casa sia la figlia, Giulia, avuta da Scribonia,[6] sia il primogenito di Livia, Tiberio.

Svetonio racconta che egli non ebbe nessun figlio da Livia, benché lo desiderasse moltissimo.

Lei ebbe una gravidanza, ma il bambino nacque prematuramente.[6]

Per alcuni anni Augusto sperò di avere come erede il nipote Marco Claudio Marcello, figlio di

sua sorella Ottavia, al quale, nel 25 a.C., diede in moglie la figlia, Giulia,[6][118]suscitando, però,

il malumore di Agrippa, che per questo motivo fu allontanato da Roma. Due anni più tardi

Marcello moriva (23 a.C.) e Ottaviano fu costretto a richiamareAgrippa, costringendolo a

divorziare da Claudia Marcella maggiore (figlia anch'ella della sorella Ottavia), per dargli in

moglie la giovanissima Giulia, ormai vedova di Marcello da 2 anni.[6]

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Agrippa apparì, così, suo successore designato in caso di morte prematura, facendo ormai

parte della famiglia Giulia. Nel 18 a.C., infatti, ad Agrippa fu conferito l'imperium proconsulare

maius (come quello di Augusto) per cinque anni, e la tribunicia potestas,[12] per quanto egli non

avesse gli stessi poteri di Augusto, né la sua auctoritas.

Processione della famiglia di Augusto sul lato sud dell'Ara Pacis: la gens Giulio-Claudia.

Nel 20 a.C. Giulia diede al marito un primo figlio, Gaio,[119] e un secondo nel 17 a.C., Lucio,

entrambi adottati da Augusto.[6][7][120]

In quegli anni, intanto, andavano distinguendosi i due figli di Livia, Tiberio, e Druso[121],

quest'ultimo si dice fosse preferito da Augusto perché figlio naturale del princeps, come

suggerisce Svetonio:

« ...vi fu anche chi sospettò che Druso fosse figlio adulterino del patrigno, Augusto. Poco dopo venne infatti divulgato un verso: "La gente fortunata riesce ad avere dei figli in tre mesi". [...] Augusto amò immensamente Druso da vivo, tanto da nominarlo sempre coerede insieme ai suoi figli... e da morto lo lodò in pubblico... al punto di pregare gli Dei affinché i due Cesari fossero simili a lui. »

(Svetonio, Claudius, 1)

Con la morte di Agrippa, nel 12 a.C., e poi quella prematura di Druso in Germania nel 9 a.C.,

la successione sarebbe ricaduta sui due figli di Giulia e di Agrippa, Gaio Cesare e Lucio

Cesare,[7] mentre Tiberio, fu costretto da Augusto a separarsi dalla moglie Vipsania Agrippina,

per sposare la figlia dell'imperatore, Giulia, vedova di Agrippa.[6] In caso di morte prematura

del princeps, Tiberio doveva prenderne il posto fino a quando i giovani Gaio e Lucio non

fossero cresciuti.

Questo matrimonio si rivelò infelice e costituì la causa non ultima del volontario esilio di Tiberio

a Rodi (dal 6 a.C. al 2 d.C.), tanto più che Augusto vedeva nei due figli adottivi i futuri eredi.

Ma la sorte fu favorevole a Tiberio. Giulia, la cui condotta formava argomento di pubblico

scandalo, fu allontanata dal padre da Roma (2 a.C.)[122], e pochi anni dopo i due Cesari

morivano: Lucio nel 2 d.C. a Marsiglia, mentre si apprestava a raggiungere la Spagna, e Gaio

nel 4, per i postumi di una ferita mai guarita, mentre si apprestava a tornare a Roma

dall'Oriente.[123] Ad Augusto non restava che Tiberio.

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Il 26 giugno del 4 Augusto annunciò la sua decisione: adottava Marco Vipsanio Agrippa

Postumo (poco dopo ripudiato e mandato in esilio), l'ultimo figlio ancora in vita di Agrippa e

Giulia, e Tiberio[8]

Gaio Cesare[7] (a quest'ultimo conferì in seguito la tribunicia potestas[12]). Benché quest'ultimo

avesse già un figlio, Druso minore, Augusto lo costrinse ad adottare il nipote

prediletto, Germanico Giulio Cesare (figlio del fratello di Tiberio, Druso maggiore, morto in

Germania nel 9 a.C., e di Antonia minore, figlia di Ottavia minore e Marco Antonio).[124]Germanico era di un solo anno più vecchio rispetto al figlio di Tiberio, perciò aveva

precedenza nella successione.[125] Tiberio diventò così il nuovo imperatore di Roma alla morte

di Augusto nel 14, dando origine alla dinastia giulio-claudia.

L'albero genealogico della famiglia giulio-claudia.

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Morte e testamento[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Mausoleo di Augusto.

Il mausoleo di Augusto che raccolse le ceneri di tutti gli imperatori e famigliari della dinastia giulio-claudia.

Secondo quanto racconta Svetonio, vi sarebbero stati, infine, segni evidenti che ne

preannunciarono la sua morte e la sua divinizzazione. Mentre stava compiendo la cerimonia

della lustratio nel Campo Marzio, davanti al popolo romano, un'aquila gli volò più volte attorno;

subito dopo si diresse verso il vicino tempio, sedendosi sulla prima lettera del nome

di Agrippa. Visto ciò chiese a Tiberio, suo collega, di pronunciare i voti per

la lustratio successiva, poiché non se la sentiva di pronunciare ciò che non poteva mantenere

in futuro.[126]

Sempre in questo stesso periodo un fulmine fece cadere dall'iscrizione della sua statua la

prima lettera del suo nome; gli venne annunciato che sarebbe vissuto solo cento giorni da

questo evento, pari al numero indicato dalla lettera "C", e che sarebbe stato divinizzato poiché

«aesar», overo quanto rimaneva della parola «Caesar», in lingua etrusca, significa «Dio».[126]

Augusto allora, dopo aver disposto che Tiberio partisse per l'Illiricum, si mise in viaggio per

accompagnarlo fino a Benevento. Giunto ad Astura, si imbarcò di notte, per approfittare del

vento favorevole, ma cominciò ad avere attacchi di diarrea.[126] Costeggiò, quindi, i lidi

della Campania e fece il giro delle isole vicine, fermandosi per quattro giorni a Capri. Qui

assistette agli esercizi degli efebi, in virtù di un'antica istituzione. Fece anche servir loro un

banchetto in sua presenza, permettendo loro di divertirsi senza freni, saccheggiando i cesti di

frutta, di cibo e altre cose che faceva lanciare. Sapendo che era ormai prossimo alla morte,

non volle privarsi di alcun divertimento. In seguito passò da Napoli e, sebbene continuasse a

soffrire al ventre, seguì il concorso quinquennale di ginnastica istituito in suo onore. Poi

accompagnò Tiberio fino al luogo stabilito nei pressi di Benevento. Sulla strada del ritorno la

sua malattia si aggravò, tanto da costringerlo a fermarsi Nola. Qui chiese a Tiberio di tornare

indietro, e con lo stesso si trattenne in un lungo colloquio segreto.[127]

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Ricostruzione ideale dell'architettura originaria del mausoleo di Augusto, di Luigi Canina

L'ultimo giorno della sua vita, chiese uno specchio, si fece sistemare i capelli e, chiamati i suoi

amici, chiese loro se avesse ben recitato la commedia della vita, aggiungendo la tradizionale

formula conclusiva:[128]

(EL)« εὶ δέ τι Ἐπεὶ δὲ πάνυ καλῶς πέπαισται, δότε κρότον Καὶ πάντες ἡμᾶς μετὰ χαρᾶς προπέμψατε. »

(IT)« Se la commedia è stata di vostro gradimento, applaudite e tutti insieme manifestate la vostra gioia. »

(Svetonio, Augustus, 99)

Li congedò tutti e improvvisamente spirò tra le braccia di Livia, dicendole:[128]

(LA)« Livia, nostri coniugii memor vive, ac vale! »

(IT)« Livia, fin che vivi ricordati che siamo stati sposati. Allora addio! »

(Svetonio, Augustus, 99)

Ebbe una morte dolce, come aveva sempre auspicato. Prima di morire mostrò un solo segno

di delirio mentale, quando si lamentò di essere trascinato da quaranta giovani. In effetti fu un

presagio, poiché proprio quaranta soldati pretoriani lo portarono sulla piazza pubblica.[128] Morì

nella stessa camera in cui spirò il padre, Gaio Ottavio, durante il consolato dei due

Sesti, Pompeo e Apuleio, quattordici giorni prima delle calende di settembre (19 agosto

del 14), alla nona ora del giorno, all'età di quasi settantasei anni (mancavano trentacinque

giorni al suo compleanno).[129]

Il suo corpo venne trasportato da Nola a Bovillae e poi a Roma. Ebbe due orazioni funebri:

una di Tiberio davanti al tempio del Divo Giulio, l'altra di Druso, il figlio di Tiberio, dall'alto

dei rostri antichi. Subito dopo i senatori lo portarono a spalla fino al Campo Marzio dove venne

cremato. Un vecchio pretoriano giurò di aver visto salire al cielo il fantasma di Augusto, subito

dopo la sua cremazione. I personaggi più influenti ordine equestre, in tunica, senza cintura, a

piedi nudi, deposero i suoi resti nel mausoleo a lui dedicato, fatto costruire tra la via Flaminia e

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la riva del Tevere durante il suo sesto consolato, avendo poi aperto al pubblico i boschetti e le

passeggiate da cui era circondato.[129] In seguito le ceneri dei suoi successori, della dinastia

giulio-claudia, vennero qui deposte. Sappiamo però da Svetonio che Augusto vietò, nel suo

testamento, che sua figlia Giulia e sua nipote,Giulia anche lei, venissero deposte anch'esse

nel suo sepolcro, dopo la loro morte.[130]

Augusto aveva redatto il suo testamento un anno e quattro mesi prima di morire. Lo aveva

scritto su due fogli e lo aveva depositato presso le Vergini Vestali, che lo consegnarono

unitamente ad altri tre rotoli anch'essi sigillati. Questi documenti furono aperti e letti in Senato.

Egli aveva designato come eredi:[130]

di primo grado, Tiberio, per la metà più un sesto, la moglie Livia Drusilla per un terzo, e

l'obbligo di portare il suo nome;[130]

di secondo grado, Druso minore, figlio di Tiberio, per un terzo, Germanico Giulio Cesare e i

suoi tre figli maschi per le parti restanti;[130]

di terzo grado, alcuni parenti e numerosi amici.[130]

Lasciò poi al popolo romano quaranta milioni di sesterzi, alle tribù tre milioni e mezzo,

ai pretoriani mille sesterzi ciascuno, cinquecento a ciascun soldato delle coorti urbane e

trecento ai legionari. Ordinò poi che questa somma fosse pagata senza ritardo, avendola

tenuta come sua riserva personale.[130] Fece anche altri lasciti, dove alcuni non superavano i

ventimila sesterzi. Stabilì che tutte queste cifre fossero pagate entro un anno e dichiarò che i

suoi eredi non avrebbero preso più di centocinquanta milioni di sesterzi. Si giustificò infine sul

totale del lascito, scrivendo che, sebbene negli ultimi venti anni i testamenti degli amici gli

avessero lasciato quattro miliardi di sesterzi, questi erano stati spesi per la maggior parte per il

bene della Res bublica, insieme ai suoi due patrimoni e le altre eredità.[130]

Res Gestae Divi Augusti[modifica | modifica sorgente]

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Monumentum Ancyranum. Il tempio di Augusto e Roma ad Ancyra sulle cui pareti sono incise le Res Gestae Divi

Augusti.

Per approfondire, vedi Res Gestae Divi Augusti.

Augusto stesso lasciò alla sua morte un dettagliato resoconto delle sue opere, una forma di

testamento morale: le famose Res Gestae Divi Augusti. Svetonio infatti racconta che una volta

morto, lasciò tre rotoli, che contenevano:

il primo, le disposizioni riguardanti il suo funerale,

il secondo, un riassunto delle opere che aveva compiuto, che chiese fosse inciso su tavole

di bronzo da collocare davanti al suo Mausoleo

il terzo la situazione dell'Impero romano, da quanti soldati vi erano sotto le armi e dove

erano dislocati, quanto denaro vi era nell'aerarium e quanto nelle casse imperiali, oltre alle

imposte pubbliche.[130]

Il testo dell'opera ci è giunto trascritto in un'iscrizione sia in latino che nella traduzione greca,

rinvenuta nel 1555. Era incisa sulle pareti del tempio, dedicato a Roma e ad Augusto, situato

ad Ancyra (l'odierna Ankara, la capitale della Turchia) e pertanto è stata

denominataMonumentum Ancyranum. Secondo il volere di Augusto, il testo era stato inciso

originariamente su tavole di bronzo, collocate all'ingresso del suo Mausoleo. Altre copie, molte

delle quali sono giunte frammentarie, dovevano essere incise sulle pareti dei templi a lui

dedicati.

In uno stile volutamente stringato e senza concessioni all'abbellimento letterario, Augusto

riportava gli onori che gli erano stati via via conferiti dal Senato e dal popolo romano per i

servizi da lui resi; le elargizioni e i benefici concessi con il suo patrimonio personale allo stato,

ai veterani di guerra e alla plebe; i giochi e le rappresentazioni dati a sue spese; infine gli atti

da lui compiuti in pace e in guerra.

Il documento non menziona il nome dei nemici e neppure quello di qualche membro della sua

famiglia, ad eccezione dei successori designati: Marco Vipsanio Agrippa, Gaio Cesare e Lucio

Cesare, oltre al futuro imperatore Tiberio