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1 Welfare Aziendale: profili e prospettive giuridiche Marco Botta Novembre 2019

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Welfare Aziendale: profili e prospettive giuridiche

Marco Botta Novembre 2019

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Introduzione

Welfare statale e mercato del lavoro sono oramai da qualche anno, complice o

colpevole la perdurante crisi economico-finanziaria, sotto la luce dei riflettori

dell’attualità italiana. Vittime o responsabili della crisi (a seconda dei punti di

vista), in perenne stato di riforma, tra loro strettamente connessi e collegati ai

servizi per il benessere delle persone e delle relative comunità, cercano con

grande fatica di trovare risposta tanto ai vecchi problemi della distribuzione del

reddito quanto ai rischi sociali di più recente emergenza, dall’invecchiamento alla

precarietà alla nuova povertà.

Il welfare aziendale, punto d’intersezione tra le due sfere, torna ad assumere un

ruolo fondamentale dopo anni di marginalità, rappresentando, in ottica rinnovata,

una leva da non trascurare per aiutare la soluzione di alcune delle più urgenti

problematiche sociali.

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Capitolo I

Cenni storici e definizione di Welfare aziendale

Il superamento del “paternalismo” di matrice aziendale è già presente nel neonato

Regno d’Italia, come ad esempio nell’esperienza di Lanerossi, Crespi, Marzotto,

Pirelli, Martini & Rossi, che sono alcuni dei grandi protagonisti industriali che tra

il XIX e XX secolo svilupparono al proprio interno iniziative di assistenza sociale,

tra forme di previdenza pensionistica, assistenza sanitaria, asili, scuole, case di

riposo per anziani, colonie e talvolta interi villaggi.

Fanno seguito le politiche industriali di Mattei e Olivetti che si pongono come

prima forma ante litteram di Responsabilità Sociale d’Impresa (Corporate Social

Responsability): concetto che presenta nei suoi caratteri distintivi la “volontarietà,

l’andare oltre il ruolo puramente economico, il riferirsi alle aspettative della

società”. La marginalizzazione del welfare privato di tipo “sostitutivo” crescerà

progressivamente dagli anni ’70 quando il suo raggio di azione sarà rivendicato

da una sfera pubblica in crescita e da una politica poggiante sempre più nella

raccolta di consenso attorno al vorticoso sviluppo del “welfare statale”.

La sfida dell’Italia delle cento città, della piccola media impresa diffusa, ossatura

del sistema produttivo del Bel Paese, delle tre C – capannone, campanile e

comunità – è quella di diffondere un modello di shared value che non resti, come

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in passato, circoscritto come buona pratica delle grandi aziende con rilevanti

risorse di personale e capitale. Le imprese presentano una struttura più flessibile,

innovativa e più dinamica dei governi, sia nella gestione organizzativa sia

spaziale, e questi ultimi possono, nel riconoscimento di questo valore, coadiuvare

nello sviluppo all’innovazione sociale.

La ri-configurazione della relazione tra impresa e società, la sua legittimazione

politica, è dunque ciò che ci si attende, con l’affermazione di un nuovo modello di

capitalismo “sofisticato”, “sociale” o “di territorio” (comunque ancora in cerca di un

nome) che sappia disegnare nuove architetture e nuovi assetti territoriali

condividendo e valorizzando il proprio successo con la società democratica di

riferimento.

Welfare Aziendale illazioni giuridiche

Seguendo quindi la traccia sbiadita ma ancora visibile di un “welfare aziendale

d’antan”, che va da quel mecenatistico industriale ottocentesco a quello

corporativo del periodo fascista, fino ad arrivare al welfare system di “olivettiana”

memoria inevitabilmente richiamata per l’afflato sociale (ancorché

unilateralmente paternalistico-filantropico e familiare) convenzionalmente

riconosciutogli, è indubitabilmente la crisi finanziaria globale che ancora ci

attanaglia, terminale (si spera) degli shocks economici degli anni ’70 e ’90 del

secolo scorso con il loro fardello di politiche di contenimento della spesa pubblica

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(in primis quella pensionistica-sanitaria) ma anche il corollario di trasformazioni

dell’economia della società e della cultura del paese, a fungere da catalizzatore

(positivo) dei processi di benessere sociale privato di natura

aziendale/contrattuale da realizzarsi nel terreno di coltura dell’impresa.

Lo squilibrio della componente previdenziale e assistenziale a favore della

popolazione anziana, i limiti delle politiche passive e l’omissione di cruciali

politiche attive del lavoro, così come di efficaci sistemi di sostegno alla famiglia

(fondamentali per l’incremento quali-quantitativo del lavoro femminile) e ai

giovani, insieme alle disuguaglianze nell’accesso ai diritti in materia di istruzione

e sanità, alle disparità territoriali nella disponibilità dei servizi sociali decentrati,

alla maggiore selettività nell’individuazione delle prestazioni del benessere di

stato, agli eccessi burocratici, alla standardizzazione impersonale dei trattamenti

e alla loro diffusa inappropriatezza, al manifestarsi di nuovi rischi, insicurezze e

necessità di protezione sociali e bisogni diffusi (invecchiamento della

popolazione, impoverimento e cambiamento degli equilibri nella gestione delle

famiglie che non trovano risposte adeguate da parte del welfare state,

costituiscono l’ambito ideale per interventi di welfare privato, tanto più efficaci se

aperti alla partecipazione dei soggetti beneficiari.

“Nell’arena del welfare” caratterizzata da un mix di attori privati portatori di

convergenti interessi sociali: fondazioni, volontariato, assicurazioni, cooperative,

associazioni sindacali e datoriali, spicca su tutti, l’azienda, “formazione sociale”

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per eccellenza nella quale si svolge la personalità dei lavoratori (articolo 2 della

Costituzione). Infatti, nonostante il generale consolidamento, frutto della

stabilizzazione di esperimenti e progetti, dell’affidabilità e della regolarità del

flusso di risorse private (società di mutuo soccorso, no profit, fondazioni bancarie)

è proprio l’azienda, il palcoscenico principale del secondo welfare e la cosa non

può affatto stupire in quanto è sulla popolazione attiva, quella che lavora, che

maggiormente ricadono le disfunzioni e i limiti del welfare pubblico.

Integrazione del trattamento pensionistico coperto dalla previdenza pubblica;

integrazione dell’assistenza sanitaria assicurata dal servizio nazionale;

assistenza per sé e per la propria famiglia (dai bambini agli anziani) in relazione

alla salute, all’educazione, all’istruzione, alla ricreazione (sport, cultura,

spettacolo, turismo) anche in chiave di conciliazione dei tempi del lavoro con i

tempi della vita; sostegno ampiamente inteso al reddito familiare; dal trasporto

collettivo all’acquisizione di beni di consumo, dai contributi per i mutui ai

finanziamenti agevolati; ecco i bisogni sociali che i lavoratori hanno interesse a

soddisfare attraverso beni e servizi erogati dall’azienda dalla quale dipendono,

ecco l’essenza del welfare aziendale.

Sebbene, nel rincorrersi delle eterogenee definizioni finalizzate a tracciare i

confini del welfare aziendale si riscontri un’evidente dilatazione concettuale che

porta, disorganicamente, a ricomprendere nel fenomeno (che potremo chiamare

welfare aziendale in “senso ampio”) tutti i vantaggi e le azioni promotrici di

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benessere sociale che il datore di lavoro eroga, a vario titolo, ai dipendenti, fra cui

anche la disciplina delle modalità e dei tempi della prestazione lavorativa

nell’ottica del work life balance (orari flessibili, banca delle ore, estensioni della

maternità e paternità obbligatorie, congedi parentali e permessi per l’assistenza

ai familiari, telelavoro, smart working), la formazione professionale e, perfino, la

tutela della salute e della sicurezza negli ambienti lavorativi, volendo, invece,

tentare una ricostruzione giuridicamente sistematica, per così dire “in senso

stretto”, con lo scopo di derivarne una disciplina minimamente omogenea, risulta

necessario prendere le mosse dal comma III° dell’articolo 2099 del Codice Civile

sulla retribuzione (complementare o accessoria) in natura così da azzardare la

seguente definizione di welfare aziendale: tutti i contributi, le somme, i servizi, le

prestazioni, i beni e i valori in genere, anche sottoforma di erogazioni liberali, di

utilità sociale e di benessere, offerti alla generalità dei lavoratori o a categorie di

essi che, pur essendo percepiti in relazione al rapporto di lavoro, non concorrono

a formare il reddito di lavoro dipendente, l’imponibile previdenziale e l’ammontare

degli altri istituti retributivi.

Sembra però, a nostro avviso, azzardato tacere le voci critiche che pur si levano

nei confronti del welfare aziendale visto come l’attacco al sistema di welfare

pubblico. Secondo queste voci critiche sembra di ritornare alla situazione

precedente l’autunno caldo, a prima dell’introduzione del Sevizio sanitario

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nazionale con caratteristiche universali e prima della riforma Brodolini delle

pensioni (legge n. 153/1969), alle mutue e ai fondi pensionistici di categoria.

Il I° Rapporto Censis-Eudamion sul welfare aziendale (WAZ – 24 gennaio 2018)

sostiene che nel settore privato esso potrebbe valere potenzialmente, se esteso

a tutti i lavoratori del settore privato, fino a 21 miliardi.

Secondo il Rapporto, il welfare aziendale contribuirà “anche alla soluzione della

più generale crisi di sostenibilità di welfare italiano”. E’ più probabile che

contribuisca alla sua privatizzazione.

Secondo tali voci critiche le aziende ci guadagnano e il lavoratore ci perde due

volte, sul fronte del reddito (istituti contrattuali vari, TFR e futura pensione) e sul

fronte del welfare pubblico che riceve sempre meno finanziamenti essendo le

agevolazioni per il welfare aziendale a carico della fiscalità generale.

Avanza dunque, con l’accordo dei sindacati, un modello di welfare non

universalistico dal quale sono esclusi disoccupati, precari, casalinghe, anziani. A

spese di tutti i cittadini. La secessione dei garantiti.

Capitolo II

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Le fondamenta costituzionali del Welfare Aziendale

Per quanto la diffusione del tema del welfare sussidiario possa sembrare di

recente attualità nello scenario economico industriale, la natura e le finalità del

welfare aziendale affondano le proprie radici nel carattere programmatico della

Carta Costituzionale, dove i principi in essa contenuti costituiscono preziose linee

guida.

Il Welfare aziendale nella crisi dello Stato

La nostra Carta Costituzionale, differentemente da quanto avevano fatto le norme

generali che l’hanno preceduta quali lo Stato Albertino e la Carta del Lavoro del

periodo corporativo, si è diffusamente occupata dello Stato sociale. L’assistenza

dei cittadini, e in particolare dei lavoratori, sia ad opera delle istituzioni pubbliche

che dei privati, assurge ad elemento cardine nell’architettura voluta dal

costituente.

L’articolo 2 della Costituzione sancendo che “La Repubblica riconosce e

garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali

ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili

di solidarietà politica, economica e sociale”, è chiara nell’imporre a tutti i cittadini

ed in particolare agli imprenditori un dovere di solidarietà sociale.

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I diritti inviolabili dell’uomo, quali quello all’integrità psicofisica, possono essere

garantiti e tutelati solo con l’impegno inderogabile di tutte le componenti della

società.

La Costituzione pone le fondamenta per lo Stato sociale, ossia per uno Stato

(inteso come istituzioni pubbliche e private), che non sia indifferente alle persone

che vivono nel suo territorio e alle loro problematiche, ma che al contrario le tuteli

e ne soddisfi esigenze e bisogni.

Il Costituente ha recepito l’esperienza post rivoluzione industriale, quando i

lavoratori, privi di ogni tutela cominciarono a sperimentare forme di auto-

organizzazione come le mutue e le organizzazioni di mutuo soccorso.

Dopo questo periodo iniziale si erano affermate forme di tutela legislativa con le

quali si era resa obbligatoria l’assicurazione per una serie di rischi gravanti sui

lavoratori come l’infortunio sul lavoro, la malattia professionale, la

disoccupazione, le malattie comuni e l’invecchiamento. Queste prime vicende

crearono la consapevolezza che i principi di solidarietà e giustizia sociale

dovessero essere norme cardine del nostro ordinamento ed infatti furono recepiti

dalla Costituzione.

Trovando dunque fondamento e legittimazione nei principi generali, le ingiustizie

sociali si sono combattute per mezzo del diritto del lavoro e del diritto tributario.

Con il primo si tende a riequilibrare lo stato d’inferiorità sociale ed economica del

lavoratore subordinato rispetto dal datore di lavoro; con il secondo si cerca di

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operare la perequazione delle risorse tipica dello Stato sociale secondo il principio

di proporzionalità del prelievo fiscale.

Tali strumenti non sono comunque in grado di conseguire un elevato livello di

equità sociale, ed è per questo motivo che il welfare ricopre un ruolo decisivo per

il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Esso trova fondamento anche

nell’articolo 38 della Costituzione che ai commi I° e II° sancisce che “Ogni

cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al

mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano

preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di

infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

Storicamente i “mezzi necessari e adeguati” alle esigenze dei cittadini, e in

particolare dei lavoratori, sono stati garantiti dallo Stato e dalle sue ramificazioni,

ma è altrettanto vero che dagli ultimi decenni il ruolo dei privati in tali necessità si

è fatto sempre più rilevante e di ampia portata.

Lo stesso IV° comma dell’articolo 38 della Costituzione nel dire che il compito di

dare concretezza ai suddetti diritti spetta ad “istituti ed organi integrati dallo Stato”,

conferma che la tutela previdenziale è un interesse pubblico e che in quanto tale,

può attingere anche alla solidarietà generale per quanto in particolare attiene

nelle fonti di finanziamento.

Nonostante a metà degli anni ’40 fosse difficile immaginare che i privati avrebbero

avuto un ruolo così decisivo nella somministrazione di sufficienti ed adeguate

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prestazioni di assistenza e previdenza, l’ampia formulazione delle norme

Costituzionali unitamente ad una rilettura dei principi in esse contenute in ottica

moderna, ne legittima ed anzi ne impone l’intervento in nome della responsabilità

sociale di impresa di cui tratteremo diffusamente in seguito.

I valori e i principi sanciti dalla Costituzione rappresentano anche il fondamento

del sostegno pubblico, fiscale in particolare, alle iniziative di welfare private, in

un’ottica di sussidiarietà, concertazione e integrazione.

Ciò detto, va comunque precisato che l’obiettivo da perseguire, anche nell’ottica

Costituzionale, non è di sostituire la spesa pubblica con quella privata, ma di

mobilitare risorse aggiuntive per far fronte a esigenze crescenti, nuove e

diversificate. In un quadro in cui le risorse pubbliche sono spesso paralizzate da

lotte politiche e quelle private sono soggette a un aumentato prelievo fiscale, il

welfare statale non vuole essere delegittimato o sostituito, ma integrato ed

affiancato da quello privato laddove risulti che le esigenze dei cittadini siano

consistentemente non soddisfatte.

Pluralità di soggetti pubblici e privati coinvolti nel welfare tra il principio di

competenza e il principio di sussidiarietà: articoli 117 e 118 della

Costituzione.

Come già accennato in precedenza, ai fini del Welfare State è necessaria la

cooperazione sia delle istituzioni pubbliche che di quelle private. Quanto al settore

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pubblico, la Costituzione all’articolo 117 nel ripartire le competenze tra lo Stato e

le Regioni, con il II° comma lettera m) ha attribuito alla competenza esclusiva

dello Stato “la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i

diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” e

lettera o) “la previdenza sociale” mentre poi ha inserito nell’alveo della

competenza concorrente con le regioni di cui al III° comma “la previdenza

complementare e integrativa”. L’assistenza sociale è invece di competenza

esclusiva delle regioni, in quanto non è citata nelle prime parti dell’articolo 117 e

il IV° comma attribuisce ad esse una competenza residuale ed esclusiva.

E’ evidente dunque che la Costituzione nella realizzazione delle finalità di tutela

sociale non evoca solo l’intervento dello Stato, ma anche di altre istituzioni della

Repubblica e, in particolare delle regioni.

Dalla lettura congiunta delle norme sopra richiamate, e in particolare della parte

in cui è attribuita allo Stato la competenza di determinare i livelli essenziali

concernenti, i diritti civili e sociali, la dottrina fa comunque discendere la possibilità

d’intervento del governo centrale anche in materie che tecnicamente sarebbero

di competenza esclusiva delle regioni quali l’assistenza sociale. Così

argomentando, lo Stato ha la competenza per intervenire nella determinazione di

livelli minimi di prestazioni che devono essere garantiti sull’intero territorio

nazionale, evitando così che il decentramento, specie in materie così delicate per

la vita dei cittadini, possa comportare un’eccessiva disparità di trattamento.

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L’articolo 118 IV° comma della Costituzione disponendo che “Stato, regioni, città

metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini,

singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base

del principio di sussidiarietà”, coinvolge e legittima i privati ad intervenire in

materie di interesse generale per la collettività quale è certamente il Welfare

State. Questa norma che introduce il principio di sussidiarietà c.d. orizzontale,

conduce alla valorizzazione di forme di azione e di auto-organizzazione dei

soggetti privati con scopi di protezione e di aiuto per il sociale che includono

prestazioni previdenziali complementari, assistenza alle famiglie dei lavoratori,

benefit e in generale tutte le prestazioni che siano in grado di migliorare la qualità

della vita dei cittadini-lavoratori.

In realtà già lo stesso articolo 18 della Costituzione, prevedendo che i privati

hanno libertà di associarsi, attribuisce ad essi la facoltà di compiere le attività più

varie tra cui certamente quelle di assistenza, previdenza e solidarietà sociale.

Dalla lettura sistematica di tutte queste norme emerge un quadro ben preciso,

ossia l’idea del Costituente non solo di non limitare l’iniziativa sociale dei privati,

ma anzi di legittimarla considerandola come un’azione coessenziale, insieme a

quella pubblica per l’insaturazione dello Stato sociale.

La responsabilità sociale d’impresa dell’articolo 41 della Costituzione nella

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crisi economica dello Stato

In precedenza si è approfondito il quadro di norme costituzionali che legittimano

l’intervento dei privati nei settori dell’assistenza e della solidarietà sociale, ora ci

si propone di dar conto di un sistema voluto dal legislatore che ha generato la

nascita di una nuova incombenza per chi svolge un’attività economica d’impresa,

la c.d. responsabilità sociale d’impresa.

Il ruolo centrale dell’impresa è stato negli anni oggetto di opposte considerazioni,

dall’esaltazione del liberismo alle demonizzazioni della sinistra. Visioni

diametralmente opposte a entrambe non prive di una forte criticità. Dalla realtà

empirica sono emersi però dei dati che sono di facile ricezione quali scandali e

frodi legati alla conduzione degli affari, squilibri sociali determinati da una

conduzione scellerata delle imprese, cospicue appropriazioni di ricchezza da

parte di manager e poteri forti. Lo Stato, di fronte a tale situazione, ha dovuto e

deve necessariamente reagire, non solo ripristinando una legalità “formale”, ma

ponendo in essere delle misure che siano in grado di trasformare il modo di fare

impresa e gli obiettivi da essa perseguiti, in una direzione di maggior equilibrio

nella distribuzione della ricchezza verso un’economia che deve perseguire,

insieme con la crescita, finalità di uguaglianza e di benessere collettivo. E’ un

problema di legittimità costituzionale dell’iniziativa economica, che alla luce del

disposto dell’articolo 41 della Costituzione “è libera” ma “non può svolgersi in

contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla

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libertà, alla dignità umana”. L’ultimo comma della citata norma stabilisce ancora

che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività

economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

Da quanto detto emerge che le imprese devono assumersi una serie di

responsabilità che spaziano dalla tutela dell’ambiente alla cura dei consumatori e

dei dipendenti, la quale ultima è quella che rileva ai fini della presente trattazione.

La responsabilità sociale d’impresa include quella che è la tematica del welfare

aziendale e cioè di quelle attività che gli imprenditori devono compiere in nome

dell’interesse sociale e che hanno dei riflessi altamente positivi anche sulla

produttività dell’azienda stessa. Il richiamo a tale responsabilità, non deve essere

generico, per non incorrere nella distorsione che possa essere utilizzato come

semplice strumento di marketing ma deve determinare le azioni compiute dalle

stesse ai fini dell’interesse sociale. Il richiamo alla responsabilità d’impresa è il

fulcro di un fondamentale bilanciamento d’interesse tra il lucro individualistico

proprio dell’attività d’impresa e l’efficienza sociale complessiva, la quale tende al

raggiungimento di un’elevata coesione sociale che è utile al benessere di tutte le

parti coinvolte.

I contenuti di questo bilanciamento d’interessi non possono né essere rimessi

all’esclusiva autoregolamentazione delle imprese né essere etero imposti dallo

Stato, in quanto in tale ultima ipotesi si snaturerebbe la stessa ipotesi costitutiva

della responsabilità sociale. Lo Stato però deve svolgere un decisivo ruolo di

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indirizzo verso iniziative sociali attraverso strumenti indiretti quali gli incentivi

fiscali e il coordinamento delle varie parti contrapposte così da raggiungere

l’obiettivo finale di un civil economy in una civil society.

Se è vero che il quadro normativo di riferimento è disorganico e asistemico e che

non esistono definizioni legislative dei concetti su esposti, è di certa evidenza che

il legislatore sta compiendo una serie di passi in avanti verso l’organizzazione di

un sistema che conferisca alla materia maggiore chiarezza, come emerge dalla

manovra compiuta nell’agosto 2011 (d.l. 138/2011 convertito in legge 148/2011)

in cui è affermato in modo chiaro il principio di responsabilità nello Stato sociale.

Attribuire agli imprenditori la responsabilità sociale d’impresa, significa dargli il

compito di porre in essere una serie di misure che migliorino la qualità della vita

dei dipendenti, in un’ottica di well-being definita dall’Organizzazione Mondiale

della Sanità come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e

non la semplice assenza dello stato di malattia o d’infermità, una risorsa per la

vita quotidiana, non l’obiettivo del vivere. La salute si raggiunge allorché gli

individui sviluppano e mobilitano al meglio le proprie risorse, in modo da

soddisfare prerogative sia personali (fisiche e mentali), sia esterne (sociali e

materiali) ed in definitiva la capacità del soggetto di interagire con l’ambiente in

modo positivo”.

Le imprese devono dunque svolgere anche un importante ruolo sociale e ciò non

senza ricavarne anche dei grossi benefici in termini di profitto. Attuare

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un’intelligente e innovativa politica di welfare aziendale, attraverso alcune delle

iniziative che saranno dettagliatamente descritte nel corso di questa trattazione,

significa creare un rapporto nuovo e diverso con i dipendenti, nonché instaurare

un clima lavorativo più positivo che non può far altro che fidelizzare i lavoratori,

renderli più partecipi alla vita aziendale e incrementarne il rendimento, con

evidente miglioramento della produttività.

Secondo alcuni commentatori è però necessario far rilevare una profonda

differenza tra welfare pubblico e welfare privato senza farsi fuorviare delle

assonanze.

Un’assonanza che conduce spesso i commentatori a raffigurare il welfare

aziendale come una sorta di surrogato o sostituto del welfare pubblico, quasi che

il welfare privato sia chiamato, in una logica di sussidiarietà, a farsi carico dei

crescenti bisogni dei lavoratori non fronteggiabili con l’intervento dello Stato

sociale ai sensi dell’articolo 38 della Costituzione.

Va chiarito, invece, che vi è una sostanziale differenza tra il welfare aziendale e il

welfare statale, tale da non consentire alcuna confusione né sovrapposizione di

funzioni ubbidendo essi a logiche totalmente differenti.

Il welfare state, com’è noto, trova il suo fondamento costituzionale nell’articolo 38

della Costituzione in combinato disposto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione.

Secondo l’insegnamento della migliore dottrina, la Costituzione attribuisce allo

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Stato il compito di garantire a cittadini e lavoratori la liberazione del bisogno o,

meglio, dai bisogni socialmente rilevanti e garantiti così l’uguaglianza sostanziale

dei cittadini e la rimozione degli ostacoli che si frappongono alla loro effettiva

partecipazione alla vita politica, economica e sociale del paese. La realizzazione

della sicurezza sociale – che comprende al suo interno la previdenza e

l’assistenza sociale – costituisce un compito dello Stato repubblicano e

corrisponde a un fine pubblicistico di rilevanza costituzionale per la cui

realizzazione sono utilizzate risorse pubbliche e il finanziamento in generale, al di

fuori di ogni logica e corrispettività tra contribuzione e prestazione. Essa si regge,

dunque, sul principio della solidarietà sociale.

Ben diversamente, il welfare aziendale non rientra nel programma di protezione

e sicurezza sociale che caratterizza il nostro Stato sociale. Innanzitutto i beni e i

servizi erogati ai lavoratori sono rimessi a una libera e volontaria decisione del

datore di lavoro, tanto nel caso di erogazioni unilaterali, quanto nel caso di

erogazioni previste da accordo o contratto collettivo. Ma soprattutto non v’è alcun

fine pubblicistico perseguito dal welfare aziendale, ma soltanto interessi privati

che trovano assetto e soddisfazione all’interno di una logica che ha comunque

nel contratto di lavoro la sua ragione d’essere e nelle risorse del datore di lavoro

l’unica fonte di finanziamento.

Si tratta quindi di interessi privati, individuali e/o collettivi, ma non certo generali,

soddisfatti con risorse private, basati su una libera scelta dei datori di lavoro e

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senza alcuna implicazione dei principi di solidarietà sociale che sono alla base

del funzionamento del welfare pubblico. Nulla a che vedere quindi con l’idea della

sicurezza sociale sottesa all’articolo 38 della Costituzione che impegna

direttamente lo Stato facendo leva sul principio solidaristico di cui all’articolo 2

della Costituzione.

Ciò detto va pure riconosciuto, però, che le finalità perseguite dai piani di welfare

aziendale hanno una sicura caratterizzazione sociale, in quanto corrispondono a

bisogni individuali e familiari cui il legislatore attribuisce evidentemente

un’apprezzabilità sociale tale da giustificare il regime di favore fiscale di cui agli

articoli 51 e 100 del TUIR. Si può dire, quindi, che gli interessi sottesi, pur avendo

natura privata, individuale o collettiva, presentano una indubbia rilevanza

pubblica, che si evince dalle norme di sostegno e promozionali che il legislatore

tributario ha predisposto.

La normativa promozionale intende, infatti, indirizzare una parte delle risorse che

il datore di lavoro destina alla remunerazione del lavoratore alla soddisfazione di

beni e interessi che possano migliorare il grado di benessere e soddisfazione del

lavoratore e della sua famiglia. Ma ci si muove pur sempre nell’ambito delle

politiche di remunerazione del personale e la norma costituzionale di riferimento

è semmai l’articolo 36 della Costituzione, di cui il welfare aziendale contribuisce

a valorizzare la dimensione sociale, suggerita dal richiamo alla vita libera e

dignitosa del lavoratore e della sua famiglia.

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Non va trascurato, inoltre, che la fonte regolativa del welfare aziendale è

l’autonomia privata, individuale o collettiva, che si esplicita all’interno di una

cornice regolativa priva del carattere dell’inderogabilità e basata piuttosto sulla

norma promozionale, per di più di carattere tributario.

Volendo quindi brevemente ricapitolare per punti essenziali le principali differenze

che corrono tra il welfare aziendale e il welfare pubblico può essere sufficiente

ricordare che nel primo caso il piano di welfare è rapportabile alla logica

corrispettiva del rapporto individuale di lavoro, rientra nell’ambito delle politiche

retributive del personale, è governato dai principi di cui all’articolo 36 della

Costituzione, si basa su interessi privati ed è totalmente eventuale.

Il welfare pubblico, al contrario, risponde al fine pubblicistico e irrinunciabile

dell’idea della sicurezza sociale delineato dall’articolo 38 della Costituzione, non

è basato su logiche di corrispettività ma di solidarietà sociale, non tocca interessi

individuali ma riguarda interessi pubblici generali dell’intera collettività e deve

necessariamente realizzarsi. Non c’è spazio, se non molto limitato, per

l’autonomia privata e il sistema si basa sulla norma inderogabile di ordine

pubblico.

Non potevamo concludere questa sintetica esposizione dei principi costituzionali

che danno forza al welfare aziendale senza far riferimento all’articolo 46 della

Costituzione. L’articolo 46 della Costituzione della Repubblica italiana “fondata

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sul lavoro” testualmente dispone: “Ai fini della elevazione economica e sociale del

lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il

diritto ai lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla

gestione delle aziende” (rectius: delle imprese). Mai precetto costituzionale fu più

disatteso di questo. Eppure esso – così sinteticamente e lucidamente espresso –

è frutto della cultura giuridica, e non soltanto giuridica, che ha permeato in

profondità il nostro paese attraverso esperienze politiche e sistemi di governo pur

diversissimi tra loro, la quale tuttavia – con una continuità ideale non sempre

compresa e non sempre accettata – ha fatto dell’Italia, almeno sulla carta – uno

degli Stati economicamente progrediti più avanzati sul piano sociale e delle

relazioni industriali.

Se si pensa che tale tematica ha attraversato il corporativismo cattolico con la

Rerum novarum; il sistema corporativo in Italia con la Carta del Lavoro, la dottrina

sociale della chiesa con la Quadragesima anno, per arrivare fino all’articolo 46

della Costituzione rimasto “lettera morta” e al diritto comunitario.

Sullo sfondo delle tematiche e dei riflessi derivanti dalle disposizioni lavoristiche

a suo tempo introdotte dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208 si staglia, ancora

oggi, la questione dell’esatta delimitazione del significato attribuibile al

coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro. Dietro

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all’espressione introdotta dal co. 189 dell’articolo unico della legge di stabilità del

2016 si annidano, infatti, problematiche definitorie e interpretative non di poco

momento: e ciò nonostante la disposizione in parola non possa propriamente

definirsi di nuovo conio, dal momento che, con essa, il legislatore ha in sostanza

finito per ritagliare un frammento del pot-pourri costituito dalla delega di legge

contenuta nel co. 62, articolo 4 della legge 28 giugno 2012, n. 92.

Quest’ultima disposizione, in particolare, aveva la finalità di far confluire nel testo

di legge un tema da sempre dibattuto quale quello della partecipazione dei

lavoratori, che peraltro all’epoca della riforma del mercato del lavoro del 2012 si

era ravvivato dal momento che su di esso, nel corso della XVI legislatura, si era

registrata un’intesa bipartisan che aveva condotto alla redazione di un testo

unificato di ben sei disegni di legge.

Tuttavia vale ugualmente la pena di procedere a una rapida comparazione della

legge delega del 2012 con il testo del co. 189 dell’articolo unico della legge 28

dicembre 2015, n. 208, per dimostrare come attraverso quest’ultima disposizione

sia stata operata una replica da parte di quella legge delega poi rimasta inattuata.

Nel fissare i termini del coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione

del lavoro il decreto di cui al co. 188 svolge un compito attinente

fondamentalmente al profilo dei contenuti e solo in apparenza a una dimensione

post-legislativa, stante la sua eseguibilità solo a valle di una scarna formulazione,

così avara di contenuti, come quella espressa dal co. 189 dell’articolo unico della

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legge n. 208/2015. La sua funzione integrativa quindi avrebbe probabilmente

meritato – tenuto conto di come le tematiche a esso sottese “occhieggino”

all’articolo 46 della Costituzione – di essere svolta interamente da un atto

normativo.

L’esperienza negativa da cui il legislatore della legge di stabilità 2016 ha tratto

insegnamento, e che si è concretata nel mancato esercizio dell’ampia delega

sulla partecipazione dei lavoratori di cui ai co. 62 e 63, articolo 4 della legge n.

92/2012, è verosimilmente imputabile alle insuperate diffidenze che hanno in

passato indotto le parti sociali, a vario titolo, a non sostenere il governo

nell’attuazione di quanto previsto in quei variegati principi e criteri direttivi.

Il legislatore ha quindi optato, rispetto alle previsioni delle norme della legge n.

92/2012, per una tecnica di normazione in tema di coinvolgimento paritetico dei

lavoratori di più basso profilo, sia dal punto di vista della gerarchia delle fonti sia

dal punto di vista dell’intensità regolativa, disponendo un rinvio da esercitarsi, da

parte del decreto interministeriale delegato, pressoché in assenza di principi o

criteri ordinatori, salva la precisazione dell’ambito d’incidenza del coinvolgimento

dei lavoratori (vale a dire quello dell’organizzazione del lavoro).

Il co. 189 dell’articolo unico della legge n. 205/2015 è stato definito, in questo

senso, come il più significativo risultato nel campo delle iniziative progettuali a

sostegno del coinvolgimento paritetico delle parti che il nostro ordinamento abbia

fino ad oggi conosciuto (Bellocchi 2017, 410) e al riguardo – stante la tecnica

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normativa utilizzata, tutta ascrivibile al pragmatismo – sembra possibile

aggiungere come l’anzidetta opzione normativa appaia destinata a qualificarsi

anche come quella di più agevole traduzione in concrete esperienze

partecipative.

L’utilizzazione consapevole dell’espressione “pratiche partecipative” richiede,

peraltro, qualche verifica preliminare. In questo senso, i due interrogativi che

sorgono dalla lettura della disposizione legislativa in commento riguardano tanto

l’identificazione delle coordinate relative al termine “coinvolgimento”, quanto

l’ambito del coinvolgimento dei lavoratori, rappresentato dall’organizzazione del

lavoro.

La risposta a entrambe le relative questioni consentirà infatti di meglio

comprendere quali possano essere gli eventuali rapporti tra il co. 189 dell’articolo

unico della legge 208/2015 e l’articolo 46 della Costituzione e, nel caso, a quale

tipologia essi siano ascrivibili.

Quanto al primo problema, occorre partire dalla considerazione che l’analisi delle

variazioni lessicali sul tema “partecipazione” ha assunto da tempo una

dimensione sovranazionale, poiché nel linguaggio proprio del diritto dell’UE

l’espressione “coinvolgimento” è inclusiva non solo di quella che può ritenersi la

“vera” partecipazione dei lavoratori, ma anche dell’informazione e della

consultazione sindacale. In sostanza vi rientra ogni meccanismo finalizzato a

coinvolgere, con diversa intensità, i lavoratori o i loro rappresentanti nelle

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decisioni delle aziende, tanto che il rapporto tra coinvolgimento e partecipazione

si pone come quello di genus a species (Alaimo 2014, 300).

L’indagine semantica sul termine e sulle implicazioni della partecipazione

“genuina”, invece, resta di più difficile conduzione, atteso che – anche per le

diversità dei vari modelli che essa ha assunto negli ordinamenti nazionali –

l’espressione “partecipazione alla gestione delle imprese” risulta da sempre

carica di diversi significati e dai contorni incerti.

Cionondimeno, l’elemento costitutivo e qualificante della partecipazione dei

lavoratori che emerge nettamente nelle più rigorose ricostruzioni dottrinali è quello

relativo al potere dei lavoratori di incidere sulla produzione di regole. Senza tale

incidenza, l’utilizzazione del termine sarebbe improprio, o in ogni caso generoso,

perché eleverebbe al livello di partecipazione ciò che tale non è. In questo senso,

contribuirebbero realmente a far “partecipare” i lavoratori solo quelle procedure o

quei meccanismi di attribuzione di competenze normative in base ai quali gli

stessi potessero concorrere alla formazione di regole destinate a disciplinare le

loro condizioni lavorative o di vita (Pedrazzoli 2005, 437).

Stando alla lettera del co. 189 dell’articolo unico della legge di stabilità 2016,

l’ambito in cui deve registrarsi il coinvolgimento paritetico dei lavoratori è quello

dell’organizzazione del lavoro. La formula risulta dotata di un grado di sinteticità

tale da alimentare dubbi semantici e incertezze identificative: astrattamente,

infatti, potrebbe ritenersi la riconducibilità all’organizzazione del lavoro di ogni

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aspetto che riguardi, anche in senso lato, il coordinamento dell’impiego dei

prestatori di lavoro con gli altri fattori produttivi (in questo senso evidenzia la

potenzialità inclusiva dell’espressione “organizzazione del lavoro”, Treu 2017a,

352).

Tornando ai confini fissati dalla dottrina lavoristica sul tema della partecipazione,

per poter ricondurre il coinvolgimento paritetico dei lavoratori alla partecipazione

in senso proprio (o decisionale) occorrerebbe dunque che i lavoratori fossero

messi nelle condizioni di prendere parte e di incidere (anche parzialmente) sul

processo decisorio relativo all’organizzazione dei rapporti lavorativi

(l’organizzazione del lavoro) con gli altri fattori produttivi.

E’ solo con l’articolo 4 del decreto emanato in data 25 marzo 2016 dal Ministero

del Lavoro, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, che si

traduce in sostanza, al di là della mera previsione formale, la formula del

coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro da parte

delle aziende. E al riguardo si deve considerare come il tema introdotto nel co.

189 dell’articolo unico della legge n. 208/2015 e il suo rapporto con la

partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese non possa prescindere

dalla concreta attuazione di una delega legislativa quasi in bianco: pertanto, tutte

le premesse semantiche e di posizionamento non possono valutarsi che alla luce

dei due commi di cui si compone l’articolo 4 del decreto interministeriale.

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Capitolo III

Evoluzione normativa del Welfare aziendale

I limiti della normativa vigente fino al 2015 sul tema di welfare aziendale sono noti

e stigmatizzati da tempo a causa dell’effettiva obsolescenza di previsioni

inadeguate a intercettare i cosiddetti “nuovi bisogni e rischi sociali” (Grandi 2015).

Tali critiche esaltavano, tra l’altro, il contrasto di tipo operativo tra la normativa

fiscale e quella lavoristica, posto che la prima esigeva, nella spesa per

l’attuazione di politiche di welfare, la volontarietà datoriale in assenza di

qualsivoglia obbligo contrattuale, la seconda, invece, sulla scorta del progressivo

sviluppo della contrattazione decentrata, condizionava il godimento della

defiscalizzazione e decontribuzione delle componenti di salario legate a

incrementi di produttività alla previa sottoscrizione di accordi di secondo livello.

Peraltro gli interpreti avevano inteso cogliere nella mancanza di sistemazione

organica della disciplina il segno della distanza tra i mutamenti della realtà e la

vetustà dell’ordinamento.

A tutto ciò pongono (recte paiono porre) rimedio la legge 28 dicembre 2015, n.

208, meglio nota come legge di stabilità 2016, la legge 11 dicembre 2016, n. 232,

meglio nota come legge di bilancio 2017, il d.l. 24 aprile 2017, n. 50, convertito

con modificazioni dalla legge 21 giugno 2017, n. 96 e la legge 27 dicembre 2017,

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n. 205 cd. Legge di bilancio 2018 che, intervenendo sulla disciplina fiscale,

connessa e collegata alla materia giuslavoristica hanno sancito un definitivo

avvicinamento tra le esigenze datoriali di progressiva riduzione del costo del

lavoro e le esigenze sociali di una maggiore attenzione al contesto personale e

familiare dei lavoratori. L’intervento normativo attuato con la legge di stabilità

2016, infatti, ha introdotto una disposizione di tipo “strutturale” nel nostro

ordinamento con la quale è stato disciplinato un regime agevolato di natura fiscale

per le somme corrisposte ai lavoratori a titolo di premio di risultato di ammontare

variabile e per le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili

dell’impresa, in ciò recependo sia le istanze datoriali, finalizzate a una riduzione

del cuneo fiscale, sia quelle sociali di maggiore considerazione delle esigenze

anche extra lavorative dei dipendenti. Che la legge n. 208/2015 rappresenti uno

spartiacque tra una serie di interventi normativi disorganici e una precisa finalità

di organizzazione sistematica è stato rilevato già da diversi autori che hanno

ritenuto essere di fronte a una rivoluzione non solo normativa, ma anche – e

soprattutto – culturale (Massagli 2017).

Tuttavia, pur a fronte di tale intervento sistematico permangono l’incertezza e la

labilità dei vari criteri classificatori della nozione che, in sostanza, risulta essere

un “cappello terminologico” utilizzato per includere prestazioni diversificate,

quanto a contenuti e qualità, genericamente raggruppabili in grandi aree, quali

quella della tutela pensionistica e dell’assistenza sanitaria; dei servizi di cura ai

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dipendenti e ai familiari; della conciliazione fra vita e lavoro; ivi inclusi i servizi

ricreativi, culturali e sportivi e le attività di orientamento professionale (Treu

2016b).

Eppure, nonostante l’ambiguità semantica e l’incertezza teorica della sua

architettura concettuale, il welfare aziendale è oggetto di grande attenzione, in

virtù della sua ipotetica attitudine a fornire mezzi di protezione più moderni

nell’ambito dei “nuovi rischi sociali” (Curzi e Senatori 2015). Dunque, il welfare

aziendale è un fenomeno che, sotto il profilo giuridico, si presenta disorganico e

asistematico, essendo attribuibile a diversi e eterogenei ambiti normativi.

Analizzando l’intervento normativo attuato con la legge n. 208/2015 e poi

formalmente ratificato e ampliato con i provvedimenti successivi, la prima

questione che si presenta all’interprete è quella di una decisa inversione di

tendenza rispetto al passato, costituita dalla mera finalità intrinseca ed

estemporanea di ottimizzazione fiscale e contributiva. Che si tratti di un intervento

di tipo strutturale è rilevabile nella stessa relazione tecnica accompagnatoria, in

cui testualmente si legge:

“I commi da 182 a 189 introducono, in via permanente, una disciplina tributaria specifica per gli

emolumenti retributivi dei lavoratori dipendenti privati di ammontare variabile, la cui corresponsione

sia legata a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione, misurabili e

verificabili, nonché per le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa”.

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L’aspetto che più rileva, ai nostri fini, è proprio l’inciso “in via permanente” che

attesta come la disciplina in esame si ponga come strumento stabile di sostegno

alla detassazione per le somme legate alla produttività aziendale, per cui tali

provvedimenti non sono più contingenti ma costituiscono un modus operandi

attraverso il quale lo Stato ha inteso realizzare una precisa policy pubblica.

Con la norma in esame viene, inoltre, introdotto un elemento di innovazione

costituito dalla previsione della possibilità di uno scambio tra retribuzione variabile

e benefit completamente detassati, prima non ammessa, in ciò promuovendo

strutture retributive flexible benefits con le quali il lavoratore può decidere di

ricevere in tutto o in parte il premio di rendimento, di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo

51 TUIR, in beni e servizi in regime di esenzione d’imposta (Scansani 2013;

Sodini 2016).

In tale contesto, l’assoluta novità introdotta dalla legge di stabilità è proprio

l’attribuzione al lavoratore del potere di scegliere se fruire del premio di

produttività in denaro, tassato con l’aliquota sostitutiva, oppure se utilizzare

l’importo del premio per fruire di uno o più servizi di welfare che, nei casi e nei

limiti di cui all’articolo 51 TUIR, diventano completamente esenti.

Le modifiche di alcune previsioni dell’articolo 51 TUIR, attuate attraverso

un’interpolazione e un’integrazione del testo normativo esistente in vigore fino al

31 dicembre 2015, derivante dal d.lgs 23 dicembre 1999, n. 505, hanno poi

consentito di estendere, di fatto, le aree di intervento dei piani di welfare, da un

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lato ampliando il paniere di benefit godibili; dall’altro introducendo l’esenzione

Irpef anche per servizi e prestazioni assistenziali e la possibilità di erogazione di

beni, prestazioni, opere e servizi anche mediante documenti di legittimazione.

In una prospettiva di conferma della strutturalità dell’intervento del 2015 e in una

scia di sostanziale continuità, la legge n. 232/2016, meglio nota come legge di

bilancio 2017, ha poi previsto di estendere, sotto l’aspetto soggettivo, la

detassazione del premio di risultato; di incrementare la misura detassabile del

premio di produttività e i servizi oggetto di opzione; di ampliare i servizi di welfare

aziendale esente e di dare un nuovo impulso alla contrattazione nazionale e

territoriale.

La tendenza all’ampliamento del campo di applicazione, sotto il profilo sia

oggettivo che soggettivo, è stata altresì confermata dalla legge n. 205/2017, cd.

legge di bilancio 2018, che ha sancito, a decorrere dal 1° gennaio 2018, la non

concorrenza alla formazione del reddito da lavoro dipendente “delle somme

erogate e rimborsate alla generalità o a categorie di dipendenti dal datore o le

spese da quest’ultimo direttamente sostenute, volontariamente o in conformità a

disposizioni di contratto, di accordo o di regolamento aziendale per l’acquisto

degli abbonamenti per il trasporto pubblico locale, regionale e interregionale del

dipendente o dei familiari”.

Successivamente nel solco dell’intento estensivo, la legge di bilancio 2019

all’articolo 1, co. 488, con riferimento al cd. bonus asili nido, previsto dall’articolo

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1, co. 355 della legge n. 232/2016 al fine di poter pagare le rette relative alla

frequenza di asili nido pubblici o privati, ha esteso il valore dello stesso su base

annua per il triennio 2019-2021 da euro 1.000 a 1.500. Il beneficio è ora anche

utilizzabile per pagare il supporto, presso la propria abitazione, dei bambini al di

sotto dei tre anni affetti da gravi patologie croniche.

All’intento manifestamente sistematico del legislatore non corrisponde una

chiarezza definitoria della nozione di welfare aziendale, sicché l’interprete, non

rivenendo nei testi di legge una definizione giuridicamente rilevante della nozione,

che rimane allo stato, normativamente non ben identificata, deve utilizzare un

approccio tecnico di tipo analitico-deduttivo.

Il welfare aziendale è stato, infatti, definito come un “fatto giuridico complesso,

disorganico e riluttante a un inquadramento sistematico variamente declinato a

seconda dell’ottica scientifica dalla quale si procede ad approcciarlo”, con incerti

confini tecnico-normativi (Bacchini 2017).

Nei testi normativi a noi noti fino al 2015, la definizione “welfare aziendale” è

rinvenibile solo nella legge regionale Emilia-Romagna 18 luglio 2014, n. 14 e nella

legge regionale Lombardia, 18 aprile 2012, n. 7 con riferimento a intenti

promozionali di finalità sociali.

N.B.: “La legge regionale Emilia-Romagna 18 luglio 2014, n. 14, all’articolo 10 aveva previsto la

< promozione, anche in collaborazione con le Camere di commercio, industria, artigianato e

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agricoltura e con le imprese del terzo settore, di progetti di welfare aziendale e comunitario per

accrescere e qualificare i servizi alla persona, integrati con la rete dei servizi socio-sanitari e abitativi

del territorio >. La legge regionale Lombardia 18 aprile 2012, n. 7, all’articolo 6, aveva inteso

premiare < l’adozione di modelli innovativi finalizzati a (…) realizzare forme organiche e stabili di

welfare aziendale, in ciò ricalcando quanto già previsto con la legge regionale Lombardia 28

settembre 2006, n. 22, all’articolo 23 ter.”

Peraltro, neppure nella legge di stabilità 2016 è possibile trovare una nozione

effettiva e specifica di welfare aziendale, salvo che nella relazione tecnica

accompagnatoria, dove testualmente si legge “Per quanto riguarda il settore del

lavoro (…) viene introdotta una disciplina tributaria specifica per la promozione

del welfare aziendale e l’incentivazione della contrattazione collettiva decentrata”.

In sostanza esaminando la relazione tecnica, si può agevolmente affermare che

la materia – lungi dall’essere compiutamente individuata – è definita

dall’intervento che su di essa si compie, ovvero introducendo una disciplina

fiscale specifica finalizzata alla sua promozione. E allora, l’interprete dovrà

esaminare nel dettaglio la disciplina che s’introduce per arrivare a definire la

materia che si vuole “promuovere”.

In questa operazione esegetica acquista rilievo l’analisi della relazione tecnica,

laddove si colgono nelle intenzioni del legislatore due precise finalità:

i) una finalità sociale genericamente espressa nell’inciso “promozione

della conciliazione tra vita professionale e vita privata” ivi includendo –

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come si vedrà innanzi – aspetti di previdenza, assistenza, istruzione,

ricreazione e sanità;

ii) una finalità giuridica di rilievo sindacale costituita dall’ “incentivazione

della contrattazione di secondo livello”.

Occorre peraltro rilevare già in questa sede:

a) quanto alla finalità sociale, il condivisibile consolidamento dell’orientamento

culturale fondato sul presupposto che la relazione di lavoro debba includere

anche il soddisfacimento di esigenze non necessariamente “misurabili” in

termini monetari, rispondenti a una funzione d’integrazione sussidiaria alle

esigenze dei lavoratori e/o delle loro famiglie;

b) quanto alla finalità sindacale, il “superamento di una concezione

paternalistica basata essenzialmente sulla scelta unilaterale” datoriale

verso un progressivo e coerente passaggio alla negoziazione produttiva.

La materia del welfare aziendale è governata da disposizioni di carattere fiscale

e previdenziale.

La disposizione di riferimento è l’articolo 51 TUIR, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n.

917 e successive modificazioni e integrazioni, e in particolare i commi 2, 3 e 4 del

medesimo articolo. Unitamente ad esso rilevano, ai fini del welfare aziendale,

l’articolo 100 TUIR, che regola il trattamento degli “oneri di utilità sociale” e

l’articolo 95 che disciplina le detrazioni del reddito aziendale delle spese per

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prestazioni di lavoro.

Sulla base di queste disposizioni, l’Agenzia delle Entrate ha sviluppato una

definizione amministrativa e fiscale di welfare aziendale, a cui si riconducono le

“prestazioni, opere, servizi corrisposti al dipendente in natura o sotto forma di

rimborso spese aventi finalità che è possibile definire, sinteticamente, di rilevanza

sociale, escluse” in tutto o in parte, “dal reddito di lavoro dipendente”.

Poiché le prestazioni di welfare aziendale sono regolate e disciplinate dalla

legislazione fiscale, è imprescindibile l’approfondimento e l’analisi della stessa,

caratterizzata, tuttavia, da una stratificazione nel tempo, che mostra appieno

l’evoluzione del fenomeno.

E’ utile chiarire come le modifiche introdotte dal legislatore fiscale a partire da fine

2015 abbiano comportato importanti cambiamenti nella erogazione dei benefit e

delle misure di welfare assicurate dai datori di lavoro, in particolare incentivando

la contrattazione (piuttosto che l’erogazione in via unilaterale e volontaria). Non

che la contrattazione non si fosse occupata anche prima del welfare aziendale.

E’ innegabile tuttavia che la normativa di incentivazione abbia recentemente

contribuito alla progressiva diffusione della contrattazione collettiva di livello

aziendale anche su queste materie.

Tali interventi legislativi sono le leggi di stabilità e di bilancio per gli anni 2016,

2017, 2018 e 2019.

Legge 28 dicembre 2015, n. 208

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Legge di stabilità per il 2016

Le modifiche all’articolo 51 TUIR ha anzitutto esteso le disposizioni di miglior favore in termini fiscali

e contributivi alle misure con finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e

sanitaria o culto (lettera f, comma 2, articolo 51 TUIR) anche se erogate in conformità a disposizione

di contratto o di accordo aziendale, territoriale, nazionale o interconfederale (c.d. welfare

contrattuale) come anche attraverso regolamenti aziendali (c.d. welfare unilaterale obbligatorio) e

non più solo se erogate a fronte di liberalità (welfare unilaterale volontario).

Sono state pure ampliate e aggiornate le tipologie di prestazioni riconducibili a servizi di educazione

e istruzione per i familiari – con la riformulazione della lettera f-bis, comma 2, articolo 51 TUIR –

ricomprendendo i servizi integrativi e di mensa ad essi connessi, la frequenza di ludoteche e di

centri estivi e invernali e borse di studio a favore dei medesimi familiari.

Sono state introdotte – con la lettera f-ter, comma 12, articolo 51 TUIR – nuove prestazioni esenti

da imposizione fiscale, relative a servizi di assistenza ai familiari anziani e non autosufficienti.

Infine, è stata prevista la c.d. welfarizzazione del premio di risultato, cioè la possibilità di convertire

il premio di risultato in misure di welfare (si veda infra, cap. 4).

Legge 11 dicembre 2016, n. 232

Legge di bilancio per il 2017

Tale legge ha introdotto con lettera f-quater, comma 2, articolo 51 TUIR – nel novero delle

prestazioni di cui all’articolo 51 che non forma reddito per i lavoratori anche se contributi e premi

versati dal datore di lavoro per la tutela del rischio di non autosufficienza o malattia grave.

La stessa legge ha previsto l’esclusione totale da imposizione – oltre i limiti già previsti dal TUIR –

dei contributi versati a forme pensionistiche complementari, fondi di assistenza sanitaria come

anche il valore delle azioni, quando versati in sostituzione di tutto o parte del premio di risultato. (si

veda infra, cap. 3 § 4).

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Legge 27 dicembre 2017, n. 205

Legge di bilancio per il 2018

La legge ha esteso – con l’introduzione della lettera d-bis, comma 2, articolo 51 TUIR – i benefici

fiscali di esclusione dalla formazione del reddito anche per ipotesi di acquisto o rimborso da parte

del datore di lavoro di abbonamenti per il trasporto pubblico locale per dipendenti o lo familiari a

carico.

Fondamentali sono infine i chiarimenti interpretativi forniti dall’Agenzia delle

Entrate con le circolari 15 giugno 2016, n. 28/E e 29 marzo 2018 n. 5/E.

La legge di bilancio 2017 ha esteso, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo,

l’ambito di applicazione del regime agevolativo previsto dalla legge di stabilità

2016 per i premi di risultato di ammontare variabile, la cui corresponsione sia

legata a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione,

nonché alle somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa,

prevedendo un innalzamento dei limiti di reddito dei lavoratori dipendenti che

possono beneficiare dell’agevolazione e degli importi dei premi agevolabili

(Valsiglio 2016).

I lavoratori dipendenti che possono beneficiare dell’imposta sostitutiva per i premi

di risultato continuano a essere individuati esclusivamente in quelli appartenenti

al settore privato.

Relativamente ai servizi di welfare deducibili, il co. 161 dell’articolo 1 della legge

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di bilancio 2017 ha aggiunto al co. 2 dell’articolo 51 del TUIR la lettera f-quater)

in base alla quale non concorrono a formare reddito.

I contributi e i premi versati dal datore di lavoro a favore della generalità dei

dipendenti o di categorie di dipendenti per prestazioni, anche in forma

assicurativa, aventi per oggetto il rischio di non autosufficienza nel compimento

degli atti della vita quotidiana.

Nella legge di bilancio 2018, tra le altre novità fiscali, è stata introdotta, con

l’articolo 1 co. 28, lettera b) un’ulteriore modifica all’articolo 51, co. 2 TUIR, con

l’aggiunta della lettera d-bis) che sancisce, a decorrere dal 1° gennaio 2018 la

non concorrenza alla formazione del reddito da lavoro dipendente delle somme

erogate o rimborsate alla generalità o a categorie di dipendenti dal datore o le

spese da quest’ultimo direttamente sostenute, volontariamente o in conformità a

disposizioni di contratto, di accordo o di regolamento aziendale, per l’acquisto

degli abbonamenti per il trasporto pubblico locale, regionale e interregionale del

dipendente e dei familiari.

La legge di bilancio 2019 all’articolo 1 co. 488, ha previsto l’elevazione

dell’importo del buono per l’iscrizione in asili nido pubblici o privati previsto

dall’articolo 1, co. 355 della legge 232/2016 da 1.000 a 1.500 euro su base annua,

per il triennio 2019-2021.

Come si ricorderà la legge di bilancio 2017 aveva previsto l’erogazione di un

buono da 1.000 euro su base annua, da corrispondersi in 11 mensilità, pari a circa

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90,9 euro mensili, al fine di poter pagare le rette relative alla frequenza di asili

nido pubblici o privati. Il beneficio è anche utilizzabile per pagare il supporto,

presso la propria abitazione, dei bambini al di sotto dei tre anni affetti da gravi

patologie croniche ed è cumulabile con i voucher per l’acquisto di servizi di baby-

sitting, ovvero con il contributo per far fronte agli oneri della rete pubblica dei

servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati.

Si è già detto che le prestazioni di welfare erogate in azienda sono disciplinate

dalla legislazione fiscale, che stabilisce per tali prestazioni esenzioni sia dal

reddito da lavoro dipendente sia dal reddito d’impresa. Occorre ora precisare che

si tratta di due differenti regimi fiscali con specifiche agevolazioni. Pertanto la

deducibilità per l’azienda non è connessa all’esclusione del reddito della

prestazione per il lavoratore, anche se in determinate circostanze una misura di

welfare è contemporaneamente esclusa dal reddito per il lavoratore e deducibile

dal reddito d’impresa per il datore di lavoro.

Per comprendere i vantaggi fiscali e contributivi a favore dei lavoratori per le

prestazioni di welfare aziendale occorre in primo luogo ricordare il principio di

onnicomprensività del reddito da lavoro dipendente, enucleato dall’articolo 51,

comma 1, TUIR.

Articolo 51, comma 1, TUIR

Il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo

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percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di

lavoro.

Secondo questa disposizione, tutto quanto viene erogato, nell’ambito del rapporto

di lavoro in denaro (retribuzione, indennità, rimborsi) o in natura (beni, opere o

servizi) del datore di lavoro al lavoratore, anche sotto forma di erogazioni liberali,

contribuisce alla formazione del reddito.

Questo principio generale è soggetto a diverse deroghe. Innanzitutto, sono

escluse dalla formazione del reddito le erogazioni nei confronti dei lavoratori che

siano volte a soddisfare un interesse del datore di lavoro.

Accanto a tale deroga, giustificata dall’interesse del datore di lavoro

nell’erogazione della prestazione, un’ampia e rilevante deroga al principio di

onnicomprensività del reddito è rappresentata poi da tutte le prestazioni (per lo

più in natura ma anche in denaro, quando trattasi di rimborsi) disciplinate

dall’articolo 51, commi 2, 3 e 4 TUIR. La loro erogazione da parte del datore di

lavoro ai lavoratori, nel loro stesso interesse, alle condizioni ivi stabilite, gode,

infatti, di agevolazioni fiscali, consistenti nell’esclusione parziale o totale dalla

formazione del reddito da lavoro dipendente. In taluni casi l’esclusione dalla base

imponibile opera solamente entro certi limiti di importo fissati dalla legge (si veda

infra, cap. 3 § 4).

L’esclusione dalla formazione del reddito da lavoro dipendente di tali prestazioni

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è giustificata dalla finalità non remunerativa, ma tendenzialmente sociale,

redistributiva e concessiva della loro erogazione e comunque volta a soddisfare

esigenze dei lavoratori che il legislatore ha ritenuto meritevoli di essere tutelate

attraverso appunto l’esclusione dal reddito. Pertanto, le prestazioni di welfare

erogate in azienda non possono mai essere sostitutive di elementi fissi o variabili

della retribuzione, c.d. principio dell’infungibilità tra retribuzione monetaria e

prestazioni di welfare. Tale principio, in realtà, è stato messo in crisi dalla c.d.

welfarizzazione del premio di risultato che, invece, prevede appunto la possibilità

di convertire il premio di risultato (che abbia le caratteristiche stabilite dalle relative

disposizioni) e quindi un elemento variabile della retribuzione, in prestazioni di

welfare.

Con riferimento agli aspetti contributivi, l’articolo 6, d.lgs. 2 settembre 1997, n.

314, ha sancito in via generale, la c.d. armonizzazione tra imponibili fiscali e

contributivi, questo significa che ciò che non costituisce reddito imponibile

fiscalmente, non è reddito neanche dal punto di vista contributivo.

In realtà al principio generale sono previste alcune deroghe disciplinate

tassativamente dal comma 4 del medesimo articolo.

Il vantaggio fiscale assicurato all’azienda, connesso all’erogazione di prestazioni

di welfare, opera invece sul piano della deducibilità ai fini IRES dei costi da essa

sostenuti per tali prestazioni.

In generale, è prevista, dall’articolo 95, comma 1, TUIR, la possibilità di dedurre

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dal reddito dell’impresa tutte le spese sostenute in denaro o in natura per il lavoro

dipendente, pertanto anche quelle relative all’erogazione di prestazioni di welfare.

Articolo 95, comma 1, TUIR

Spese per prestazioni di lavoro

Le spese per prestazioni di lavoro dipendente deducibili nella determinazione del reddito

comprendono anche quelle sostenute in denaro o in natura a titolo di liberalità a favore dei

lavoratori, salvo il disposto dell’articolo 100, comma 1.

L’eccezione è rappresentata dall’articolo 100 (Oneri di utilità sociale), in base al

quale, la deducibilità dal reddito d’impresa è limitata al 5 per mille delle spese per

il personale dipendente con riferimento agli oneri sostenuti per opere e servizi con

finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o

culto, destinati alla generalità o a categorie di dipendenti e che siano state

sostenute volontariamente, ossia per atto liberale dal datore di lavoro.

Articolo 100, comma 1, TUIR

Le spese relative ad opere o servizi utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o categorie di

dipendenti volontariamente sostenute per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione,

assistenza sociale e sanitaria o culto, sono deducibili per un ammontare complessivo non superiore

al 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla

dichiarazione dei redditi.

Pertanto, laddove tali spese fossero sostenute per l’erogazione di benefit in

conformità a disposizioni di contratto, accordo o regolamento aziendale (articolo

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51, comma 2, lettere f, f-bis, f-ter, f-quater) è applicabile la regola generale di

deducibilità integrale dal reddito d’impresa ai sensi dell’articolo 95 TUIR,

intravedendosi in questo la volontà del legislatore fiscale di incentivare la

diffusione di piani di welfare di fonte obbligatoria attuati attraverso accordi o

regolamenti aziendali.

Con riferimento agli aspetti contributivi, il vantaggio dell’impresa è rappresentato

dal fatto che l’esclusione dalla formazione del reddito di lavoro dipendente delle

prestazioni di welfare erogate ai lavoratori esclude non solo il versamento dei

contributi a carico lavoratore, ma anche quelli a carico azienda.

Resta comunque dovuto il c.d. “contributo di solidarietà” (pari al 10%) a carico del

datore di lavoro da versare in caso di destinazione di somme a fondi di previdenza

complementare (articolo 16, d.lgs. n. 252/2005) e a casse, fondi, gestioni previste

da contratti collettivi o da accordi o da regolamenti aziendali, al fine di erogare

prestazioni integrative previdenziali o assistenziali (articolo 12, comma 4, lett. f l.

n. 153/1969).

Per la maggior parte delle tipologie di prestazioni di welfare, perché siano

agevolate fiscalmente (cioè non costituiscano reddito da lavoro dipendente), è

necessario che siano destinate alla generalità oppure a categorie di dipendenti.

Questa condizione ha l’obiettivo di impedire l’erogazione di benefit ad personam

“solo per alcuni lavoratori ben individuati”.

Le categorie dei lavoratori a tale fine sono innanzitutto identificabili con le

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categorie previste dalla classificazione civilistica dei prestatori di lavoro

subordinato (art. 2095 c.c.), quali:

dirigenti

quadri

impiegati

operai

Oltre a questo disposto, si identificano come categorie di lavoratori gruppi

omogenei di dipendenti con caratteristiche comuni oggettivamente riconoscibili.

Mentre i destinatari delle prestazioni di cui all’articolo 51 TUIR erogate quali

misure di welfare sono i lavoratori dipendenti o categorie ad esse (oltre a eventuali

altri collaboratori, secondo le summenzionate eccezioni), i beneficiari possono

essere anche o solo i familiari del lavoratore. In particolare possono essere

beneficiari i familiari di:

abbonamenti per il trasporto pubblico (articolo 51, comma 2, lettera d-bis,

TUIR);

opere e servizi per le finalità di educazione, istruzione, ricreazione,

assistenza sociale e sanitaria o culto (articolo 51, comma 2, lettera f, TUIR);

Sono, invece, esclusivamente beneficiari i familiari del dipendente con riferimento

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alle seguenti prestazioni:

servizi di educazione e istruzione anche in età prescolare, frequenza di

ludoteche e di centri estivi e invernali e borse di studio (articolo 51, comma

2, lettera f-bis, TUIR);

servizi di assistenza a familiari anziani e non autosufficienti (articolo 51,

comma 2, lettera f-ter, TUIR)

Con familiari s’intendono quelli previsti all’articolo 12, TUIR (che richiama l’articolo

433 c.c.) ovvero:

figli (anche adottivi, affidati o affiliati);

coniuge, non legalmente e effettivamente separato (compreso partner nelle

unioni civili l. n. 76/2016);

genitori, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi (i nonni non sono

ammessi in quanto tali ma solo in mancanza dei genitori);

adottanti;

generi e nuore;

suoceri;

fratelli/sorelle germani o unilaterali.

Perché questi familiari beneficino delle misure non rileva essere conviventi o

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fiscalmente a carico del lavoratore a cui è destinato il welfare (circolare Min.

finanze 22 dicembre 2000, n. 238/E).

Le previsioni normative innanzi descritte e le finalità delle stesse che si è cercato

di definire consentono di rilevare, restando ancorati al dato normativo ed esulando

da qualsivoglia intento sociologico, un’evoluzione prospettica delle dinamiche

retributive nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato.

Fermo restando il dato teleologico, ormai acclarato (Welfare Index Pmi 2018), in

base al quale le imprese puntano all’implementazione di piani di welfare al fine di

migliorare l’atmosfera sul luogo di lavoro, con dirette conseguenze su produttività

e reputazione aziendale, è di tutta evidenza come il welfare stia acquisendo una

crescente importanza nelle politiche retributive delle imprese (Tiraboschi 2017a).

Il welfare aziendale, infatti, sta nel tempo assumendo un valore concreto come

leva gestionale dell’azienda e come base per la trasformazione delle politiche

retributive.

Nel 2015 la stessa espressione welfare aziendale era pressoché sconosciuta,

utilizzata nel solo circuito dei giuslavoristi e degli specialisti della gestione delle

risorse umane. Gli interventi normativi di cui si è detto hanno promosso gli

investimenti delle imprese a sostegno del benessere dei lavoratori e delle loro

famiglie con un sistema premiante che fa leva sull’azzeramento/riduzione del

cuneo fiscale relativo alle somme erogate ai lavoratori, sulla deducibilità delle

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spese dal reddito delle imprese e, last but not least, sulla possibilità di convertire

i premi aziendali di risultato in servizi di welfare, rafforzando gli incentivi già

previsti per la componente variabile delle retribuzioni.

I tratti distintivi del nuovo welfare aziendale sono la flessibilità e la

personalizzazione delle soluzioni in virtù della consapevolezza, finalmente

acquisita, che i bisogni sociali non si distribuiscono in modo omogeneo.

Come già acutamente rilevato, siamo di fronte a un segnale di crescente maturità

(Sesana 2018).

Si può, infatti, ragionevolmente affermare che, con tali previsioni, è stata attivata

una fonte aggiuntiva di finanziamento del welfare, correlandola agli obbiettivi

aziendali di miglioramento della produttività, eliminando gli ostacoli tra welfare

volontario e welfare negoziale ed equiparando le fonti istitutive, così aprendo una

nuova fase delle relazioni industriali.

Sarebbe però assolutamente riduttivo, oltre che errato, circoscrivere il welfare

aziendale nell’alveo della sola utilità correlata ai vantaggi fiscali, dovendo invece

prendere in considerazione anche i benefici di medio-lungo termine che lavoratori

e datori possono ricavare dal maggior benessere del contesto aziendale. Il

welfare aziendale, così come concepito, è uno strumento importante per favorire

il dialogo tra imprenditori e lavoratori, migliorare la qualità della vita dentro e fuori

l’azienda, far crescere la produttività e il senso di appartenenza.

Ciò senza in alcun modo porre in discussione, e anzi – in ossequio al citato

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principio di sussidiarietà – salvaguardando il carattere universale del welfare

pubblico, del quale tuttavia devono esserne migliorati la qualità e il livello delle

coperture sociali. Possiamo, quindi, agevolmente ritenere che il welfare aziendale

rappresenti una fonte aggiuntiva di finanziamento per il sistema di welfare del

nostro paese e che, nella previdenza e nella sanità, il welfare aziendale integri il

tradizionale modello basato sulla complementarietà tra il welfare pubblico e gli

istituti collettivi creati dalla negoziazione.

Peraltro non bisogna trascurare che il “welfare privato è una grande occasione

per ripensare lo scambio lavoro-retribuzione in una fase storica in cui assistiamo

alla crisi del welfare pubblico e in cui il mondo intero ripensa a come si organizza

l’impresa”. (Tiraboschi 2017a).

Come rilevato, infatti, sebbene il nucleo della struttura retributiva si presenti

ancora piuttosto granitico, l’idea del salario come variabile indipendente è andata

via via incrinandosi, aprendo spazi e soluzioni tese, in una prima fase, a tenere

conto delle condizioni di contesto in cui le aziende trovano a operare, per poi

cogliere e valorizzare la dimensione sociale della retribuzione, nella sua

accezione di diritto di cittadinanza, volto a garantire al lavoratore e alla sua

famiglia un’esistenza libera e dignitosa (ibidem).

Si possono così individuare due rette parallele costituite l’una dalla politica

monetaria e l’altra dalla politica della remunerazione attraverso i piani di welfare

che si muovono entrambe verso la remunerazione complessiva dei lavoratori

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assolvendo a esigenze di vario genere e tipo (Maresca 2017) che, dal versante

datoriale riguardano il costo del lavoro e, nell’ottica del lavoratore, il beneficio

costituito non solo, o almeno non esclusivamente, dall’elemento materiale della

retribuzione.

Ne consegue che il welfare aziendale, come oggi concepito, incarna una nuova

sensibilità che non si esaurisce più soltanto nella mera logica dello scambio

lavoro-retribuzione, ma coinvolge aspetti ulteriori, anche non concretamente

tangibili e/o misurabili, dello status e della crescita professionale, del benessere

organizzativo, della partecipazione ai processi decisionali aziendali e, più in

generale, della qualità della vita lavorativa e non.

Perché lo strumento non venga abusato è necessario però, che dai promotori e

dai fruitori dello stesso non venga oltrepassato il limite rappresentato dalla

legittima finalità di incremento “di benessere e di salario” (Martini 2016),

attraverso la sostituzione dell’elemento retributivo con valori para-monetari di

incerta utilità e di scarsa qualità, lasciando degenerare il sistema welfare in “un

vero e proprio supermercato del benefit” (Mainardi 2016) socialmente

inconsistenze, oltre che giuridicamente errato, sotto il profilo della natura non

retributiva delle prestazioni coinvolte.

Capitolo IV

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Welfare aziendale e Unione Europea

La globalizzazione, i flussi migratori, l’invecchiamento della popolazione,

l’aumento del numero delle donne nel mercato del lavoro, l’incremento delle

separazioni coniugali e quindi delle famiglie monoparentali, sono solo alcuni dei

fenomeni che hanno investito gli Stati europei negli ultimi decenni. Essi hanno

comportato l’insorgere di nuovi e diversificati bisogni sociali un tempo sconosciuti

e a cui i sistemi di protezione della collettività devono dare delle risposte che ad

oggi latitano.

A questo problematico quadro sociologico, va ad aggiungersi la crisi economica

mondiale che sta compromettendo la capacità dei Paesi europei di garantire

politiche pubbliche in grado di soddisfare le nuove esigenze, specialmente in

quelle nazioni che già presentano un elevato debito pubblico.

In questo contesto storico, risulta imprescindibile intraprendere un progetto di

riforma sostanziale dei sistemi di welfare pubblico dei singoli Stati ed un ruolo

determinante nell’indirizzo e nel coordinamento di questo processo deve essere

svolto dalle istituzioni europee. E’ primaria in questa fase, la cooperazione tra tutti

i livelli di governance, nazionali e transnazionali, al fine di individuare soluzioni

che siano il più possibile in grado di conciliare la competitività del mercato

europeo su quello mondiale, con il rispetto dei principi sociali a cui l’Unione

Europea si è da sempre ispirata.

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Un ruolo determinante nella conciliazione di questi interessi apparentemente

contrapposti, deve essere svolto da singoli attori privati, enti locali, sindacati, terzo

settore, in un’ottica di “secondo welfare” che dismette il carattere della

territorialità, in una prospettiva di dinamicità e collaborazione.

In particolare le istituzioni comunitarie sono impegnate in un’azione di

sensibilizzazione e di informazione nei confronti di tutti gli operatori del mercato e

si pongono come obiettivo primario il perseguimento della c.d. Europa sociale,

che sia attenta tanto alle esigenze degli operatori economici, quanto a quelle dei

privati cittadini.

La nuova strategia comunitaria: l’innovazione sociale verso il documento

“Europa 2020”

Come si è accennato in precedenza, la contingente situazione socio-economica

in cui versano gli Stati europei, ha reso necessario l’intervento congiunto delle

istituzioni europee al fine di intraprendere dei programmi che possano dare

risposte concrete alle nuove esigenze dei cittadini comunitari. E’ pertanto iniziato

l’approfondimento e la discussione del tema dell’innovazione sociale.

Un percorso di innovazione sociale è considerato, infatti, come l’unica risposta

possibile ed esaustiva alle nuove problematiche dei cittadini e deve svilupparsi

mediante processi di governance inclusivi e quindi forme di partenariato

pubblico/privato, nonché tra imprese ed enti no profit.

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Il documento “Europa 2020”, attribuisce all’innovazione un ruolo cruciale nel

processo europeo di crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva.

A livello europeo si attribuisce un grande rilievo al concetto di “cittadinanza attiva”,

in un contesto in cui i privati devono essere resi protagonisti del welfare e le loro

iniziative devono essere promosse e supportate da adeguate politiche fiscali. In

realtà tuttora sussiste un certo conflitto tra la burocratizzazione dell’agire

comunitario e la volontà di favorire l’attività degli imprenditori illuminati.

L’idea del modello dell’Europa sociale, è solo il punto finale di un lungo processo

di crescita e costruzione nel corso del quale sono stati adottati numerosi interventi

in diverse direzioni:

regolativa, prevedendo disposizioni che tutelano i diritti dei lavoratori, che

supportano le pari opportunità e combattono le discriminazioni;

distributiva, con l’utilizzo del Fondo Sociale Europeo e il finanziamento delle

iniziative illuminate;

di coordinamento e livellazione delle politiche dei singoli stati.

L’intento, come più volte affermato dalla Commissione europea è quello di

sostenere la crescita economica in un’ottica però di sostenibilità e di coesione

sociale.

La necessità dell’innovazione sociale ha trovato, per la prima volta, la sua

esplicitazione ufficiale nel “Trattato di Amsterdam” del 1997 (entrato in vigore il 1°

maggio 1999), per trovare poi conferma e vigore nel corso del Consiglio di

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Lisbona del 2000, ove è stata avviata l’ambiziosa “Strategia di Lisbona”.

L’obiettivo dichiarato di questa linea di azione era quello di rendere in dieci anni

l’economia europea la più dinamica e competitiva del mondo, senza però

tralasciare la coesione sociale, anzi promuovendo una crescita sostenibile. Dalla

strategia si ricava che il modello sociale europeo va innovato in modo sostanziale

ed uno dei punti centrali per il raggiungimento di quest’obiettivo è la promozione

della “cittadinanza attiva”.

Pochi mesi dopo il Consiglio di Lisbona, la Commissione europea con la

comunicazione n. 379 del 2000 ha inaugurato l’Agenda sociale per il periodo

2000/2005. In questo documento emergono alcuni punti che caratterizzano

l’azione dell’Europa in materia di welfare aziendale. In primo luogo e per la prima

volta, si prende a considerare il welfare non come un semplice costo, ma come

un investimento, in quanto è detto che la promozione e l’adozione di iniziative di

questo genere hanno la potenzialità di trasformare le spese in profitto. Non si può

ignorare, infatti, che la creazione di un clima sereno in azienda, la fidelizzazione

dei dipendenti, il mettere i lavoratori nelle migliori condizioni per svolgere la

propria attività eliminando per loro problemi e preoccupazioni, non fa altro che

aumentare la produttività dell’impresa.

In secondo luogo, viene posto l’accento sulla necessità di coinvolgere nell’opera

di ammodernamento del sistema sociale di tutti i soggetti, a vario titolo,

protagonisti delle relazioni esistenti tra politiche economiche, sociali ed

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occupazionali.

Tale ultima idea è stata anche al centro del “report Kok” realizzato nel 2004 da un

gruppo di esperti indipendenti presieduto appunto dal primo ministro olandese

Wim Kok, appositamente incaricato dalla Commissione europea e da alcune

comunicazione della stessa Commissione dal 2006 al 2008.

La Commissione, a partire dal febbraio 2010, si è riunita per tirare le somme dei

risultati raggiunti con la “Strategia di Lisbona” e per preparare il terreno per il varo

di una nuova linea d’azione. Nello stesso periodo, nel pieno della crisi economica,

la Commissione europea, di concerto con lo European Policy Centre, intraprese

un nuovo progetto denominato “Post Lisbon coalition”, con lo scopo di trovare

soluzioni in grado di migliorare il modello sociale ed economico europeo. Uno dei

risultati più rilevanti raggiunti dalla coalizione è la produzione del documento

“Europa 2020: delivering well-being for future europeans”.

“Europa 2020”: una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva con

l’intervento del welfare aziendale

Lo sviluppo di un modello di welfare comunitario e innovativo, è obiettivo assai

ambizioso, ma è anche un’esigenza imprescindibile per un’Europa moderna ed

al passo con le più avanzate economie mondiali. L’azione delle istituzioni

europee, di concerto con organismi indipendenti formati da esperti del mercato e

della società, ha ideato nel 2010 una nuova strategia: Europa 2020 ( COM (2010)

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2020 ). Si tratta di un progetto ambizioso che si propone di rilanciare l’economia

comunitaria nell’arco di un decennio, in un’ottica intelligente, sostenibile e

solidale, così da aumentare la coesione sociale e da dirimere i conflitti tra gli

operatori del mercato.

Gli obiettivi che si è data l’Unione Europea riguardano l’occupazione, la ricerca e

lo sviluppo, il clima e l’energia, l’istruzione, l’integrazione sociale e la riduzione

della povertà. E’ evidente come le tematiche del welfare state, del welfare

aziendale e quindi della cittadinanza attiva, siano strettamente connesse con

quanto si vuole perseguire con “Europa 2020”.

Le iniziative poste in essere per il raggiungimento dei suddetti obiettivi sono

fondamentalmente sette e cioè:

l’innovazione

l’economia digitale

l’occupazione

i giovani

la politica industriale

la povertà

l’uso efficiente delle risorse.

Al centro del progetto c’è l’innovazione sociale. Vengono coinvolte tutte le parti

che operano sul mercato, è richiesta la collaborazione e l’azione sinergica degli

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enti pubblici, delle istituzioni collettive, dei singoli imprenditori e di tutte le parti

sociali in generale, il che è esattamente ciò che è necessario per la promozione

e lo sviluppo di un solido welfare aziendale. Nello specifico del documento è detto:

“Crescita inclusiva significa rafforzare la partecipazione delle persone mediante

livelli di occupazione elevati, investire nelle competenze, combattere la povertà e

modernizzare i mercati del lavoro, i metodi di formazione e i sistemi di protezione

sociale per aiutare i cittadini a prepararsi ai cambiamenti e a gestirli e costruire

una società coesa. E’ altrettanto fondamentale che i benefici della crescita

economica si estendano a tutte le parti dell’Unione, comprese le regioni ultra

periferiche, in modo da rafforzare la coesione territoriale. L’obiettivo è garantire a

tutti accesso e opportunità durante l’intera esistenza.

L’Europa deve sfruttare appieno le potenzialità della sua forza lavoro per far fronte

all’invecchiamento della popolazione e all’aumento della concorrenza globale.

Occorreranno politiche in favore della parità fra i sessi per aumentare la

partecipazione al mercato del lavoro in modo da favorire la crescita e la coesione

sociale”.

Dal tenore del documento risulta evidente come la crescita passi per la

modernizzazione del mercato del lavoro e dei sistemi di protezione sociale.

La Commissione sottolinea come vi sia la necessità di sfruttare a pieno la forza

lavoro, ebbene questo e gli altri obiettivi non possono essere realizzati senza che

venga sviluppato in modo esponenziale e radicato un sistema di welfare in cui i

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privati siano il fulcro delle iniziative e il punto di riferimento per la risoluzione delle

esigenze dei cittadini. Ciò, fermo restando, che gli Stati, oltre a dover garantire

talune prestazioni sociali ritenute essenziali, devono comunque svolgere un ruolo

di sostegno e di indirizzo per le azioni degli imprenditori illuminati.

Anche il Comitato economico e sociale europeo ( parere (2012/C 229/08) ) ha

rilevato l’importanza di un’efficace azione dell’impresa sociale, sottolineando

l’importanza delle imprese verso l’obiettivo della somministrazione ai lavoratori di

sempre maggiori servizi di welfare e altresì della soddisfazione dei nuovi e

sempre più diversificati bisogni sociali.

Tra le altre iniziative comunitarie che si sono svolte in materia di welfare, è

opportuno ricordare che il 4 dicembre 2015, l’Osservatorio Sociale Europeo,

nell’ambito di una tavola rotonda organizzata dal progetto “Prowelfare”, ha

ospitato a Bruxelles un workshop per discutere con esperti e rappresentanti delle

associazioni del settore le prospettive degli schemi di welfare occupazionale in

Europa.

E’ dunque evidente che le tematiche relative al welfare di secondo livello, dello

stato sociale e della responsabilità sociale d’impresa, sono tutt’altro che

sconosciute a livello internazionale, al contrario, costituiscono fonte di ispirazione

e obiettivo primario di quelle che sono le più importanti azioni politiche delle

istituzioni europee.

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La responsabilità sociale d’impresa in Europa: il “Libro Verde”

La Commissione europea con il “Libro Verde”, pubblicato il 18 luglio 2001, ha

introdotto il concetto di responsabilità sociale d’impresa, con l’obiettivo, che poi è

anche il titolo del libro, di “promuovere un quadro europeo per la responsabilità

sociale delle imprese”. Essa è definita in questo documento come “l’integrazione

volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro

operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”.

Il “Libro Verde” è stato oggetto di discussione tra tutte le parti interessate, le

istituzioni europee, i singoli Stati, i sindacati, le organizzazioni no profit, gli

imprenditori, e si è concordato nel ritenere che la responsabilità sociale d’impresa

debba essere basata sulla volontarietà, ma che gli Stati devono svolgere un ruolo

portante nel sostegno e nella promozione delle iniziative degli imprenditori

illuminati. La Commissione europea ha ritenuto fondamentale lo sviluppo della

RSI e, per questo motivo, si è proposta di divulgare, il più possibile, le informazioni

ad essa relativa, promuovendo il dialogo tra le parti interessate ed eventuali tavoli

di lavoro comuni in cui affrontare le problematiche ad esse relative. Inoltre, il

“Libro Verde” è stato oggetto di dibattito della comunicazione della Commissione

del 2 luglio 2002 relativa alla “responsabilità sociale delle imprese: un contributo

delle imprese allo sviluppo sostenibile”.

Il concetto di responsabilità sociale d’impresa è stato poi ripreso in un’altra

comunicazione del 2011, ove è ritenuta “il fondamento degli obiettivi di Europa

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2020” e dove viene affermato che, attraverso di essa, è possibile “fondare una

società più coesa e gettare le basi per un sistema economico più sostenibile”.

Novembre 2019

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Welfare Aziendale: profili e prospettive giuridiche

Marco Botta

Bibliografia P. Cesari - “Architettura per un’idea” (Il Mulino, 2016) I. Alvino, S. Ciucciovino, R. Romei - “Il welfare aziendale” (Il Mulino, 2019) E. Massagli, S. Spattini, M. Tiraboschi - “Fare welfare in azienda” (Adapt University Press, 2018) A. Alaimo - “L’eterno ritorno della partecipazione” in (Diritti, lavori, mercati, 2014) F. Bacchini - “Welfare aziendale: illazioni giuslavoristiche” in (Argomenti del diritto del lavoro, 2017) L. De Angelis - “Riflessioni sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese” (Università Ca’ Foscari, Venezia, 2013) B. Caruso – “Recenti sviluppi normativi e contrattuali del welfare aziendale” in (Rivista italiana del diritto del lavoro, 2018) E. Fagnani – “Dalla crisi del welfare state al welfare aziendale” in (Rivista del diritto della sicurezza sociale, 2013) A. De Toni – “La secessione dei garantiti: il welfare aziendale” in (Patria Costituzione, 2019) F. P. Caracciolo – “Il welfare aziendale nella crisi dello stato” (Università degli studi Federico II°, Napoli 2016) A. Mirra – “Le fondamenta costituzionali del welfare aziendale” 2016. M. Sesana – “Il welfare aziendale fa crescere l’impresa” (Welfare index Pmi rapporto 2018, 2019)