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WPWP | SPS 2015
Working paper del Dipartimento di Scienze Sociali e PoliticheDepartment of Social and Political Sciences Working Paper
Monica Santoro
Vivere e lavorare all’estero: la “nuova” emigrazione dei giovani italiani in Gran Bretagna
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VIVERE E LAVORARE ALL’ESTERO: LA “NUOVA” EMIGRAZIONE DEI
GIOVANI ITALIANI IN GRAN BRETAGNA
Monica Santoro
Seminario SPS - 19 maggio 2015, h. 13.00
Introduzione
La crisi economica ha prodotto effetti particolarmente pesanti sulla
condizione dei giovani. Per un giovane italiano è sempre più difficile entrare
nel mercato del lavoro, ottenere e mantenere un impiego stabile, avere uno
stipendio che gli consenta di abbandonare la casa dei genitori ed entrare in
unione. In Europa l’Italia è tra i paesi, insieme a Grecia e Spagna, a detenere
i livelli più alti di disoccupazione e di inattività tra i giovani. Dal 2000 al
primo trimestre del 2015 il tasso di disoccupazione giovanile è aumentato di
diciassette punti percentuali passando dal 26,2% al 43% (Istat, 2015b).
Particolarmente critica la condizione dei giovani residenti nel Meridione
dove a livelli di disoccupazione elevatissimi (più del 50%) si affiancano
percentuali altrettanto elevate di giovani Neet (Not in education,
employment or training). Secondo le rilevazioni Istat il 42% dei giovani
meridionali tra i diciotto ed i ventinove anni non lavora e non è in
formazione, cifra che si riduce al 22,5% nel Nord e al 27% nel Centro (Istat,
2015a).
Uno degli effetti della crisi economica è stata la crescita
dell’emigrazione. Nell’arco di pochissimi anni l’Italia, dagli anni Ottanta
meta di consistenti flussi migratori provenienti da paesi africani, asiatici e
dell’Est Europa, si è nuovamente trasformata in un paese di emigrazione. La
fuga degli italiani all’estero sembra aver assunto proporzioni inarrestabili, di
anno in anno cresce il numero di cittadini che tenta fortuna altrove.
Alcuni studiosi (Balduzzi, 2012; Beltrame 2007) hanno lanciato
l’allarme sugli effetti di questa nuova ondati migratoria: l’Italia sta
progressivamente perdendo capitale umano prezioso perché ad emigrare
sono soprattutto donne e uomini giovani (la maggioranza ha meno di 40
anni), laureati e diplomati, spesso anche con qualifiche tecniche ad elevata
specializzazione. Contrariamente a quanto avviene poi negli altri paesi
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europei, in Italia le migrazioni qualificate non riescono ad essere
compensate dalle immigrazioni di individui con livelli d’istruzione elevati.
Il saldo tra laureati emigrati all’estero e immigrati laureati residenti è
negativo. Nel 2008 questi ultimi raggiungevano appena il 12%.
L’obiettivo che mi propongo con questo contribuito è di mettere in
luce, partendo dai cambiamenti dei processi migratori italiani nel corso del
Novecento, le caratteristiche di questa nuova fase dell’emigrazione italiana.
La tematica verrà approfondita attraverso i risultati di una ricerca qualitativa
condotta nel 2014 in Gran Bretagna su un gruppo di immigrati italiani che
vivono e lavorano a Manchester.
La storia dell’emigrazione italiana
L’Italia è stato per molto tempo un paese caratterizzato da una
consistente emigrazione. Si calcola che tra il 1876 e il 1988 ventisette
milioni di italiani si siano trasferiti all’estero e circa venticinque milioni
abbiano cambiato residenza all’interno del paese, spostandosi
prevalentemente dal Sud verso il Nord. Tra gli undici e i tredici milioni di
coloro che sono andati a vivere all’estero hanno fatto ritorno in patria,
mentre i restanti (tra i dodici e i quattordici milioni) hanno trasferito
definitivamente la loro residenza in un altro paese (Golini, Amato, 2001).
La storia dell’emigrazione italiana si articola in quattro fasi comprese
tra il 1876, anno della prima rilevazione ufficiale degli espatriati, alla fine
degli anni Sessanta. La prima fase (dal 1876 al 1900), caratterizzata da un
crescente aumento dei flussi a causa della grande depressione mondiale
degli anni 1873-79, ha come protagonisti gli agricoltori residenti nel
Settentrione (soprattutto Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte) (Ratti,
1931). Si tratta di un’emigrazione prevalentemente maschile verso la
Francia e la Germania, Argentina, Brasile e Stati Uniti.
La seconda fase (dai primi anni del Novecento fino allo scoppio della
prima guerra mondiale) è caratterizzata dalla cosiddetta “grande
emigrazione”: in questo arco temporale nove milioni di persone si
recheranno all’estero. Il picco di espatri si raggiungerà nel 1913 con più di
870 mila italiani espatriati. A determinare l’ondata migratoria l’incapacità
del settore industriale italiano, in pieno decollo, di assorbire la manodopera
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eccedente. A differenza della prima i protagonisti di questa ondata
migratoria sono i residenti nel Meridione (per oltre il 70% provenienti da
Sicilia, Calabria e Campania) diretti verso paesi oltreoceano (Stati Uniti e
Argentina) e mete europee (Germania, Francia e Svizzera).
La terza fase, nel periodo tra le due guerre, è caratterizzata da un calo
dei flussi migratori come conseguenza sia delle politiche restrittive
sull’immigrazione imposte dagli Stati Uniti sia di quelle fasciste volte a
scoraggiare gli espatri. Chi emigra in questo periodo sono soprattutto gli
oppositori del regime e, proprio per la difficoltà ad essere accolti negli Stati
Uniti, la Francia è eletta come primo paese di destinazione, almeno fino alla
crisi del ’29 (Bonifazi, 2014). In misura inferiore Germania Svizzera e
Argentina. La politica migratoria restrittiva messa in opera nel periodo
fascista provocò un vistoso crollo del numero di espatriati che tra il 1932 e
la fine della guerra si attestarono a meno di 100 mila unità per anno.
L’ultima fase migratoria ha inizio con la fine della seconda guerra
mondiale e si conclude alla fine degli anni Sessanta. In questo periodo
emigreranno circa sette milioni di italiani, di questi circa la metà
rientreranno in patria. Le destinazioni prevalenti saranno Australia e
America Latina, in Europa Francia, Svizzera, Belgio e negli ultimi anni
anche Germania, tutti paesi con i quali i governi italiani avevano stretto
accordi per inviare manodopera. La promozione dell’emigrazione attraverso
gli accordi bilaterali si configurava da una parte come strategia di rimedio
alla disoccupazione interna e come tentativo di diminuire il deficit della
bilancia dei pagamenti per mezzo delle rimesse, dall’altra come strumento
di mantenimento dell’ordine sociale. Il contenimento della disoccupazione
infatti attenuava le tensioni sociali oltre a stabilizzare il consenso politico
(Bonifazi, 2005). Dalla metà degli anni Cinquanta la crescita economica e
l’espansione del settore industriale incentivarono le migrazioni interne
interregionali contenendo progressivamente l’emigrazione verso l’estero.
L’emigrazione verso l’estero ha mantenuto nel corso dei secoli alcune
caratteristiche costanti. Si trattava prevalentemente di uomini, inizialmente
braccianti, successivamente artigiani e operai qualificati. Frequenti erano i
rientri in Italia specie da parte di chi era emigrato in un altro paese europeo.
Il carattere temporaneo di questa emigrazione fu spesso accentuato dalle
autorità locali che negavano ai lavoratori italiani contratti stabili e li
obbligavano, nonostante i vincoli posti dagli accordi bilaterali, ad accettare
contratti temporanei. All’opposto quella verso mete oltreoceano, spesso
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realizzata con il nucleo familiare, era permanente e di conseguenza molto
contenuta la percentuale di ritorni (Del Boca, Venturini, 2001).
A partire dagli anni Settanta l’emigrazione interna e verso l’estero
diventa un fenomeno sempre più sporadico e nel giro di un decennio l’Italia
si trasforma in un paese di immigrazione. Le politiche migratorie restrittive
attuate dai paesi dell’Europa Centro-settentrionale spinsero i flussi
provenienti dal continente africano e asiatico e dai paesi dell’Europa
dell’Est verso i paesi dell’Europa meridionale, tra i quali l’Italia divenne
una delle mete preferite (Ambrosini 2011).
Questa tendenza si interrompe a partire dalla seconda metà degli anni
Novanta, quando il saldo migratorio torna ad essere negativo e in modo
altalenante nel corso degli anni si è mantenuto tale.
Le caratteristiche della “nuova” emigrazione
I principali attori della nuova ondata migratoria sono giovani e adulti
entro la quarantina, con un livello d’istruzione elevato, a volte con alle
spalle un’esperienza all’estero maturata negli anni dell’università. La
decisione di emigrare è il più delle volte motivata dalla ricerca di uno spazio
di realizzazione professionale, difficilmente reperibile in Italia e non da
situazioni di urgenti necessità. All’opposto l’emigrazione del secolo scorso
coinvolgeva personale non qualificato o a specializzazione bassa o medio-
bassa. Di solito l’esperienza migratoria era intrapresa per migliorare le
proprie condizioni di vita. Si calcola che solo il 5% di chi è emigrato tra gli
anni Sessanta e Ottanta fosse laureato. Nel 2013 l’incidenza dei laureati tra
gli espatriati supera il 30%. Alcuni giovani - non certo la maggioranza -
vengono reclutati e assunti dall’Italia; partono perciò con la garanzia di
ricoprire una posizione lavorativa in linea con la propria formazione
professionale. Ad esempio, le possibilità di inserimento lavorativo per il
personale medico e infermieristico in Italia si sono ridotte drasticamente con
il blocco delle assunzioni nel settore ospedaliero. La Gran Bretagna invece
ha un esubero di posti vacanti e approfitta delle difficoltà dei giovani medici
e infermieri italiani per reclutarli in patria. Pare che la professionalità e la
formazione dei nostri laureati sia molto apprezzata così come la flessibilità
organizzativa e la preparazione a gestire le emergenze. Stessa sorte per gli
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ingegneri italiani che sono molto richiesti non solo nel Regno Unito, ma
anche in Germania. Le migliori condizioni di lavoro (contratti a tempo
indeterminato, remunerazioni più elevate, opportunità di carriera) spingono
questi giovani a stabilirsi all’estero, scoraggiati anche dall’impossibilità di
ottenere il medesimo trattamento in patria.
Raramente i protagonisti della “nuova” emigrazione intraprendono il
trasferimento privi delle informazioni necessarie per iniziare al meglio la
nuova vita in terra straniera. Il progetto migratorio è messo a punto
attraverso le esperienze e i suggerimenti di chi ha già intrapreso questa
esperienza. Il tam tam della rete attraverso blog e pagine Facebook destinate
a espatriati, raggruppati a seconda del paese o città di destinazione (per
citarne alcuni tra i più numerosi Italiani in Inghilterra, Italiani a Londra,
Italiani a Manchester, Italiani in Germania, Italiani a Berlino, Italiani in
Spagna), consente di acquisire informazioni e consigli utili prima di
intraprendere il trasferimento. Lo spazio comunitario virtuale costituisce una
rete di solidarietà a cui ricorrere per trovare sostegno pratico ed emotivo.
Attraverso le amicizie in rete i giovani condividono esperienze, postano
offerte di lavoro, si confrontano sui problemi quotidiani, sulle strategie per
trovare lavoro e alloggio, sfogano le loro delusioni, trovano appoggio e
considerazione nei momenti critici della permanenza fuori dall’Italia.
Un altro importante aspetto innovativo è rappresentato dalla facilità
degli spostamenti all’interno del territorio europeo grazie agli accordi sulla
libera circolazione dei cittadini, resi ancora più agevoli ed economici dalle
compagnie aeree low cost. Chi decide di emigrare in Europa si muove
perciò in uno spazio aperto, dove può liberamente stabilirsi, vivere e trovare
un’occupazione. L’emigrazione diventa così un’esperienza cognitiva grazie
alla quale i giovani si confrontano con nuove culture, stabiliscono relazioni
e scambi. Può assumere carattere sperimentale o temporaneo e perciò,
inframmezzata da rientri nel paese d’origine, ritorni nel paese dove ci si è
stabiliti, trasferimenti da un luogo ad un altro nell’attesa di trovare una
sistemazione lavorativa e abitativa definitiva o congeniale.
Rispetto poi alle migrazioni del secolo scorso la nuova emigrazione
apporta pochi benefici all’economia nazionale. Nel secolo scorso le rimesse
degli emigrati avevano garantito un consistente afflusso di valuta nella
bilancia dei pagamenti, mentre attualmente le rimesse hanno un’incidenza
talmente bassa sul Pil italiano (nel 2011 costituivano solo lo 0,03% del Pil)
da non poter essere considerate una risorsa per il Paese (Balduzzi, 2012).
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I dati sugli italiani all’estero
Le fonti statistiche a disposizione non riescono a fornire una stima
attendibile della presenza di cittadini italiani all’estero. I dati provenienti
dall’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) sono frammentari e
parziali poiché vengono raccolti a fini amministrativi senza alcun interesse
di tipo statistico. Secondo disposizioni ministeriali devono iscriversi all’Aire
i cittadini che vivono all’estero da più di un anno e i nati in un paese
straniero. Sebbene l’iscrizione sia un obbligo, nei fatti è un atto volontario e
non vi sono controlli che garantiscano l’effettiva registrazione da parte degli
espatriati. Alcuni, ad esempio, preferiscono non registrarsi per non perdere
l’assistenza sanitaria gratuita in Italia. Secondo un calcolo approssimativo
più del 46% degli italiani che si è trasferito all’estero non ha rispettato
l’obbligo di iscrizione (Cucchiarato, 2010).
Un’altra fonte da cui attingere informazioni è il “Rapporto italiani nel
mondo” della Fondazione Migrantes (2014), che si avvale sia dei dati
ricavati dall’Aire sia dei dati Istat sui flussi migratori. Al primo gennaio
2014 risultano iscritti all’Aire 4.482.115 italiani, una cifra in aumento
rispetto al 2012. Più precisamente, nel corso del 2013 si sono iscritti per la
prima volta 94.126 italiani, mentre nel 2012 le nuove iscrizioni
ammontavano a 74.941. Nell’arco dei due anni si è registrato un aumento
delle iscrizioni pari al 19,2%. L’Istat conferma questa tendenza: in base alle
sue stime l’aumento di coloro che hanno trasferito la residenza all’estero è
superiore al 21%. Tra il 2012 e il 2013 perciò gli italiani che hanno deciso
di stabilirsi all’estero sono passati da sessantotto mila a ottantadue mila, la
cifra più elevata degli ultimi dieci anni. L’incremento delle emigrazioni,
insieme alla contrazione degli ingressi, ha prodotto un saldo migratorio
negativo pari a cinquantaquattro mila unità in meno, anche questa cifra in
aumento rispetto all’anno precedente (nel 2012 trentadue mila unità in
meno).
Gli espatriati sono in prevalenza uomini (53,5%), celibi, tra 30 ed i 40
anni (quasi il 50%), residenti nelle regioni del Centro-nord (Lombardia,
Veneto e Lazio). Si calcola che ogni anno lascino il paese circa 30 mila
giovani, cifra in continua crescita. (Istat, 2014c). L’emigrazione tuttavia è
un’esperienza in rapida diffusione anche tra gli ultracinquantenni (tra il
2011 e il 2012 è aumentata del 16,3%).
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I giovani che emigrano possiedono un elevato background culturale:
nel 2013 tra gli espatriati con più di 25 anni più di 19 mila possedeva una
laurea (circa il 31% di chi emigra), mentre la cifra di diplomati e in possesso
della licenza media è superiore a 21 mila. Considerando sia il numero di
coloro che rientrano in Italia sia gli espatri, nel 2013 abbiamo perso
tredicimila laureati (quattro mila nel 2012) e sedicimila diplomati (Istat,
2014).
Dal 2013 il Regno Unito è in vetta tra le destinazioni prescelte
scalzando il primato della Germania, seguono Svizzera e Francia; attirano
anche Stati Uniti e Spagna, in coda invece i Paesi scandinavi.
Qualche dato sull’immigrazione in Gran Bretagna
Negli ultimi vent’anni in Gran Bretagna la presenza di immigrati è più
che raddoppiata. Si calcola che tra il 1993 e il 2013 il numero di immigrati
in età lavorativa1 sia raddoppiato passando da tre a sei milioni. A partire dal
nuovo millennio è progressivamente aumentata la quota di immigrati
impiegata in occupazione poco qualificate specie nel settore dei trasporti,
della ristorazione e delle pulizie. Dal 2002 al 2013 l’impiego di manodopera
immigrata in questi settori è passata dall’8,5% al 29,3% (Rienzo, Vargas-
Silvia, 2015). Concentrando l’attenzione sui flussi migratori dai Paesi
europei negli ultimi cinque anni hanno registrato un costante aumento. Nel
2014 sono approdati in Gran Bretagna 128 mila cittadini europei, nel 2013
107 mila (Office for National Statistics, 2015).
La presenza italiana in Gran Bretagna è aumentata in maniera
consistente nell’arco degli ultimi tre anni. Dal 2013 l’Italia è diventato il
terzo Paese con il maggiore flusso migratorio nel Regno Unito. Si calcola
che tra il 2008 e il 2013 l’immigrazione italiana ha registrato un incremento
del 110% (Fig. 1).
Il Nord dell’Inghilterra è la zona dove negli ultimi anni l’incremento
della popolazione immigrata è stato più significativo. Nel 2011 Manchester
era la città del Nord-ovest con la più numerosa comunità immigrata (127
1 Vengono considerati in età lavorativa gli immigrati maschi tra i 16 ed i 64 anni e le donne
tra 16 ed i 59 anni.
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mila immigrati, il 25% della popolazione immigrata del Nord-ovest)
(Krausova, Vargas-Silva, 2013). Dal 2008 il numero di italiani lavoratori
residenti a Manchester registra un incremento annuo del 20% di lavoratori
(Fig. 2) (COM.IT.ES, 2014).
Fig. 1 Andamento della presenza di immigrati italiani in Gran Bretagna (anni
1961-2011)
Fonte: MacKay, 2015
Fig. 2 Andamento dell’immigrazione italiana in Gran Bretagna e nell’area di
Manchester (Anni 2008-2013)
Fonte: COM.IT:ES (2014)
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La ricerca sui “nuovi” emigrati
La ricerca è stata condotta tra ottobre e dicembre 2014 a Manchester, la
seconda città della Gran Bretagna per estensione e numero di abitanti. In
realtà, la città di Manchester ha poco più di 500 mila abitanti, ma se si
include la contea di cui la città è capoluogo, la cosiddetta Greater
Manchester, che accorpa gran parte dei sobborghi, il numero di abitanti
supera i due milioni e mezzo. Da qualche anno la città ha visto aumentare il
numero di emigrati, soprattutto spagnoli e italiani in cerca di occupazione.
L’impatto con Londra, solitamente la prima destinazione dei giovani
espatriati, non è sempre positivo. Stabilirsi nella capitale richiede un
impegno economico non per tutte le tasche, perciò spesso, dopo un periodo
di ricerca infruttuosa di lavoro, alcuni si spostano in città più vivibili, dove
non solo mantenersi è molto meno dispendioso, ma anche la ricerca di
un’occupazione diventa più agevole e meno competitiva.
Ai fini della ricerca sono state condotte delle interviste in profondità a
30 italiani equamente distribuiti in base al genere (14 donne e 16 uomini)
che vivevano e lavoravano nella città da un periodo compreso entro pochi
mesi a circa dodici anni. Il campione perciò includeva sia persone che
vivevano stabilmente sia soggetti arrivati con l’intento di rimanere per
qualche anno. Il confronto tra l’età degli intervistati e la durata della
permanenza rispecchia la dinamica dell’emigrazione italiana in Gran
Bretagna che ha progressivamente coinvolto ampie fasce di età, anche più
adulte, tanto da aver perso, specie negli ultimissimi anni, la connotazione di
emigrazione giovanile. Nel campione intervistato spiccano tre intervistati
che hanno superato la quarantina, dieci ultratrentenni, tutti residenti nel
Paese da un periodo di qualche mese fino a un massimo di tre anni.
La composizione del campione secondo il titolo di studio presenta una
certa omogeneità: la maggioranza ha un livello di istruzione elevato (laurea
magistrale e in alcuni casi anche master e/o dottorato di ricerca, sei
intervistati erano diplomati, tra i quali solo uno con una qualifica
professionale).
Riguardo la provenienza territoriale degli intervistati, prevalgono le
città del Centro e del Nord. Un intervistato è originario del Meridione, ma
dai tempi dell’università ha sempre risieduto in una città del Nord. Un altro
invece proveniva dalla Sardegna.
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Gli intervistati sono stati reclutati con un annuncio sulla pagina
Facebook “Italiani a Manchester” e sul sito Italian Meetup
(http://www.meetup.com/italian-350/). Le risposte sono state numerose,
anche se qualcuno (5 casi) che aveva offerto inizialmente la propria
disponibilità successivamente ha preferito rifiutare.
Le interviste erano incentrate sulla ricostruzione del processo
migratorio, in particolare le fasi riguardanti il momento della decisione di
trasferirsi, l’organizzazione del viaggio e della nuova vita e la ricerca del
lavoro. Gli intervistati erano anche stimolati a ripercorrere il proprio
percorso biografico e formativo prima di espatriare. Nello specifico, gli anni
della formazione scolastica o professionale, le esperienze di lavoro e di
allontanamento dalla famiglia, i periodi trascorsi all’estero.
Successivamente, il fuoco dell’intervista si spostava sull’organizzazione
della vita abitativa e lavorativa in Gran Bretagna e infine sul futuro, con
l’intento di valutare l’orientamento verso un’esperienza migratoria stabile e
duratura o temporanea. Nell’ultima parte dell’intervista si lasciava libero
spazio a valutazioni personali circa la vita all’estero e alla lontananza dal
proprio Paese.
In questa sede approfondirò la parte relativa allo svolgimento del
progetto migratorio e alle esperienze di lavoro.
La fatica di vivere in Italia
I percorsi lavorativi seguiti dagli intervistati più giovani, tra i 28 ed i 33
anni arrivati in Inghilterra da pochi anni o solo da qualche mese, si snodano
lungo una serie di esperienze accomunate dalla frammentarietà, delusione e
disillusione verso il futuro. In genere le storie sono abbastanza simili così
come i risultati (fallimentari): conseguita la laurea si inviano centinaia di
curricula, pochissime risposte, quelle che pervengono sono per lo più
proposte di stage non retribuiti o, se si è fortunati, è prevista una
retribuzione minima. Tra il conseguimento del titolo di studio e la decisione
di partire passa un arco temporale anche di sei, sette anni, durante il quale
tutte le strade vengono sperimentate e imboccate per cercare di raggiungere
l’obiettivo di trovare un’occupazione “decorosa”, “coerente almeno un
minimo con quello che si è studiato”, “che ti consenta di avere
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un’autonomia”, tanto per citare alcune definizioni espresse dagli intervistati.
Anche quando si ottengono dei riconoscimenti sul lavoro, le condizioni
possono mutare e ci si può ritrovare in situazioni molto diverse da quelle
iniziali. Un’intervistata, 35 anni, laureata in Psicologia con un master, aveva
vinto una borsa lavoro finanziata dalla Commissione europea per
implementare il servizio psicologico nelle case di cura per anziani. Si
trattava di una novità assoluta nelle Marche, la sua regione. Allo scadere
della borsa, si è trovata a dover fare i conti con i tagli alle strutture sanitarie
imposte dalla Regione e all’impossibilità di recuperare sul piano economico
e professionale ciò su cui aveva investito per un anno intero. Inizialmente
era soddisfatta perché il direttore della casa di cura con cui collaborava era
d’accordo di farle portare avanti il progetto, subito dopo si era scontrata con
una realtà molto diversa. In assenza di finanziamenti, erano venute meno le
condizioni per poter svolgere la sua professione e le venivano assegnate
mansioni estranee alla sua formazione:
La cosa brutta che era frustrante era che durante l’anno della borsa
lavoro svolgevo la mansione della psicologa come da progetto, poi
mi sono trovata a fare di tutto, facevo la tappa buchi, l’educatrice,
l’assistente, facevo tutto, aiutavo gli anziani ad andare in bagno, a
mangiare. Stavo perdendo la mia identità professionale, già la figura
dello psicologo che lavora con gli anziani non è riconosciuta in
Italia, poi i soldi erano sempre più scarsi, e non arrivavo a
guadagnare mille euro al mese.
Un’esperienza diversa ma ugualmente significativa quella di
un’intervistata di Caserta, 33 anni, laureata in Conservazione dei Beni
Culturali. I tagli regionali a favore degli interventi a tutela del patrimonio
storico e archeologico hanno reso impossibile un suo inserimento in questo
settore, nonostante per dieci anni abbia prestato servizio di volontariato
nella sua città a tutela di una importante area archeologica. Questa
esperienza, pensava, le sarebbe stata utile una volta laureata. Invece,
conseguito il titolo, la situazione non è cambiata molto “perché – come lei
stessa ammette - in Italia e nella mia regione la conservazione del
patrimonio culturale è lasciato all’iniziativa dei volontari, altrimenti non
sarebbe possibile mantenere, pulire le aree archeologiche, fare visitare ai
turisti i monumenti”. Dopo un’esperienza come archeologa a Parma si è
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impiegata a Bologna come commessa in un negozio, un’occupazione molto
lontana dalle sua aspirazioni e dalla sua formazione. Su suggerimento di un
amico trasferitosi a Manchester, ha lasciato l’Italia e iniziato la sua
avventura nella città inglese, senza conoscere la lingua, “tanto le cose non
potevano cambiare, ormai lo avevo capito”.
Passando in rassegna le numerose esperienze lavorative gli intervistati
riescono ad individuarne e a connotarla come la più significativa ai fini della
decisione di partire; si tratta di un evento o una circostanza che fa da
spartiacque tra un prima e un dopo senza possibilità di ritorno, tra una
condizione di attesa a una di totale frustrazione e delusione verso il futuro.
Così un intervistato di 29 anni, laureato in Scienza della Comunicazione a
Bologna, dopo aver fatto il giornalista, il commesso nella grande
distribuzione, il cameriere, il contadino decide di non poter più rimanere in
Italia. Quando gli offrono di lavorare in cooperativa come imbianchino per
un mese e mezzo accetta solo per mettere via i soldi e partire.
Ugualmente una giovane donna di 31 anni, romana, laurea magistrale
in Giornalismo, dopo due stage, una sostituzione maternità e un lungo
periodo di incessante ricerca di lavoro inviando centinaia di curricula ad
agenzie, giornali, aziende con pochissimi riscontri, ha pensato di partire con
il suo fidanzato – anch’egli deluso da un’esperienza di stage pessima sul
piano relazionale e lavorativo - e venire a Manchester.
Anche un giovane di Torino, 29 anni, tecnico del suono, ha tentato per
circa cinque anni di lavorare come libero professionista. Prima era
dipendente di un service (una ditta che si occupa di allestire concerti), dove
guadagnava poco, pur lavorando a tempo pieno, poi decide di mettersi in
proprio. La libera professione tuttavia era soggetta ad un regime di
tassazione troppo oneroso che non gli consentiva di rendersi autonomo dalla
famiglia:
Insomma, facevo tanto lavoro e non arrivavo a mille euro al mese,
facevo pochissimo nero e non facevo altro che pagare le tasse e non ce
la facevo ad andare fuori di casa. Ho lavorato così quattro o cinque
anni. Avevo anche trovato un progetto per andare fuori di casa, un
progetto del Comune, per andare a vivere in un paese vicino, un affitto
agevolato per sei mesi e così sono andato via di casa, ma dopo sei
mesi ho capito che le cose non cambiavano. Alla fine di quell’estate
ero arrivato a fare anche il liscio nelle serate di balera a settata euro a
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serata. Ecco quello mi ha fatto decidere ad andare via, non ce la
facevo più. A Torino, non per vantarmi, ma facevo lavori grossi, ero
in delle posizioni di ottimo livello. Ho detto basta. Qua c’era un nostro
amico da due anni e siamo partiti, perché sono venuto con una coppia
di amici qui e siamo partiti.
La decisione di partire è spesso determinata dalla condivisione
dell’esperienza con amici disposti ad ospitare o ad offrire i consigli utili per
ambientarsi alla nuova vita. I più fortunati partono con altri amici, come nel
caso riportato, o in coppia. Difficilmente il progetto migratorio viene
intrapreso in assenza di informazioni sulla reale possibilità di trovare lavoro
o di contatti con qualcuno che ha già sperimentato l’esperienza migratoria. I
blog e le pagine Facebook sono utilissimi nella fase decisionale, poi
diventano punti di riferimento all’occorrenza, quando si vuole cambiare
lavoro o abitazione.
Per alcuni invece la decisione di trasferirsi è nata in seguito alla perdita
del lavoro, per altri è stato un pretesto per evitare il licenziamento. Un
intervistato, 37 anni, laureato in Giurisprudenza a Bologna dove lavorava,
grazie ad un’informazione fornitagli da un amico è riuscito a trovare lavoro
a Manchester, prima che la sua ditta dichiarasse fallimento. Un ingegnere
romano di 48 anni ha sfruttato le sue conoscenze di lavoro in Inghilterra per
trovare un’occupazione simile a quella svolta in Italia prima che la sua
azienda lo licenziasse. Un imprenditore di 41 anni, originario di Foggia,
residente a Milano, ha deciso con la famiglia di trasferirsi e aprire un
ristorante.
Il termine “crisi” aleggia ripetutamente nel corso delle interviste.
Alcuni identificano il 2012 come annus horribilis per la ricerca del lavoro.
Così un’intervistata di Milano, 37 anni, diplomata, da sempre occupata
come libera professionista nel campo della moda e del turismo racconta:
“Nel 2012 sono rimasta per la prima volta in vita mia un anno senza lavoro,
avevo fatto l’ultimo lavoro in un villaggio turistico ad aprile, poi non ho
trovato più niente, non mi rispondevano neanche….. Ho trovato un corso
come receptionist per Hotel dalle quattro stelle in su a Londra, allora ho
deciso di farlo e poi da Londra sono venuta qui”.
Nel 2013 un’altra intervistata, 34 anni, di Treviso, è stata licenziata
dopo quindici anni di lavoro nella stessa azienda. Non trovando più
un’occupazione, ha deciso di venire a fare un corso di inglese a Manchester
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e successivamente di rimanerci; al momento dell’intervista aveva trovato un
lavoro come commessa per il periodo natalizio.
Ci sono poi intervistati decisamente più fortunati, quelli che hanno
trovato lavoro dall’Italia. Si tratta di due neolaureate in Scienze
infermieristiche, due ragazzi che hanno frequentato il corso di croupier a
Roma e poi sono stati assunti a Manchester e infine un ingegnere del suono,
con un ottimo impiego in Italia, ha risposto casualmente ad un annuncio di
un’azienda inglese ed è stato assunto. Si trattava di un lavoro nel campo in
cui era specializzato, impossibile da trovare in Italia, perciò, insieme alla
sua compagna hanno deciso di cogliere l’occasione e di trasferirsi.
Diverso il caso delle due infermiere professionali. Laureate da meno di
un anno, in cerca disperata di lavoro, hanno partecipato alla selezione di una
società portoghese incaricata da un ospedale di Manchester. Hanno superato
due colloqui molto selettivi più una prova scritta, tutto in lingua inglese, per
essere assunte a tempo indeterminato con ottime possibilità di carriera e uno
stipendio superiore, anche se non di molto, almeno inizialmente, a quello a
cui avrebbero potuto aspirare in Italia.
La facilità di trovare lavoro
Tanto è difficile trovare un lavoro in Italia tanto è facile ottenerlo in
Gran Bretagna. Questa è la frase che meglio riassume l’esperienza
lavorativa in Inghilterra degli intervistati. Non bisogna tuttavia trascurare le
difficoltà affrontate nel percorso migratorio. La presenza italiana, ma anche
spagnola, a Manchester ha assunto proporzioni consistenti negli ultimi anni.
Secondo le stime basate sulle registrazioni all’Aire sono circa 50 mila gli
italiani residenti nell’area mancuniana. Per i motivi già espressi il dato è con
buona probabilità sottostimato. Alcuni intervistati, ad esempio, hanno
ammesso di aver provveduto ad iscriversi all’Aire con molto ritardo rispetto
a quanto imposto dalla normativa italiana, altri non hanno ancora
provveduto.
La crescente presenza straniera ha minato le possibilità dei lavoratori
immigrati di trovare un’occupazione di buon livello. Il livello di conoscenze
linguistiche, più del livello d’istruzione, è la discriminante per riuscire a
collocarsi bene sul mercato del lavoro. La maggioranza degli intervistati
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ammette di non possedere un livello di conoscenza linguistica tale da poter
competere nella ricerca di un’occupazione con i madrelingua o con altri
stranieri più abili. Nella fase iniziale, alcuni hanno dovuto accettare lavori
sottopagati e di bassa qualifica (lavapiatti, camerieri/e), a volte – molto
raramente per la verità e non da datori di lavoro britannici – senza un
regolare contratto di lavoro. La speranza è, una volta acquisite le giuste
abilità linguistiche, di trovare una collocazione lavorativa coerente con la
propria formazione. Questo obiettivo tuttavia è sempre più difficile da
raggiungere perché la presenza straniera sta assumendo proporzioni
intollerabili anche per gli stessi inglesi. Sono note le recenti prese di
posizioni del premier Cameron a favore di limitare la libertà di movimento
dei lavoratori in Europa e di restringere per gli immigrati il diritto di
beneficiare dei sussidi. In realtà, gli immigrati europei fruiscono pochissimo
dei benefits di disoccupazione e solo per brevi periodi, giusto il tempo
necessario per trovare un altro lavoro dopo aver perso il precedente.
Un ottimo livello di inglese e un grado di istruzione elevato non sono
più condizioni sufficienti affinché la propria professionalità sia valutata, a
meno che non si tratti di una qualifica tecnica molto settoriale. Il confronto
tra i percorsi lavorativi e formativi di due intervistati offrono un buon
esempio per comprendere come le condizioni occupazionali siano cambiate
e quanto sia diventato difficile accedere ad occupazioni qualificate e ben
retribuite.
Un intervistato sardo di 37 anni, laureato in Lingue in Italia, con un
Master in Management e Marketing, conseguito all’università di Leeds,
lavora da tre anni in un call center. Dopo il Master è tornato in Sardegna in
cerca di lavoro, ma dopo sei mesi, non avendo trovato niente, è tornato in
Inghilterra, pagando a caro prezzo il periodo di permanenza in Italia:
Quando avevo 29 anni mi sono trasferito, ho vissuto a Leeds, ho
preso il master e in quell’anno lì, un mese dopo che sono arrivato in
Inghilterra, ho trovato lavoro in un ristorante, dove lavorava un
mio amico e dove hanno lavorato un sacco di altri italiani suoi
amici. Quindi io ho sempre lavorato per quasi tre anni, non l’ho mai
fatto in Italia ma lo facevo a Leeds. Facevo il cameriere, lavoravo di
sera e tre giorni la settimana andavo in università. Ho fatto anche il
tutor di italiano lì all’università…Finito il Master ho deciso di
tornare in Sardegna. Però dopo sei mesi sono tornato in Inghilterra,
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perché in Sardegna non c’è niente, ma proprio niente, c’è il mare, c’è
il sole, finito… Quando io sono tornato in Inghilterra ho fatto un
errore strategico enorme, un errore immenso per chi ha un master:
avevo scelto Londra. Perché se non hai esperienza con la
competizione che c’è a Londra sei finito, io ero bloccato nel
ristorante [lavorava in una catena che vendeva hamburger]…Avevo
capito che non potevo stare a Londra, dovevo cercare lavoro da
qualsiasi altra parte. Ho mandato CV in tutta l’Inghilterra e questa
compagnia aerea mi ha assunto al suo call center a patto di
trasferirmi a Manchester e io ho dato la mia disponibilità… Tanti
italiani stanno venendo qua ma è tardi, prima avevi molte più
opportunità. Sono venuto tardi, negli anni Novanta era diverso. Io ho
fatto malissimo ad andare via da Leeds, dovevo rimanere lì e cercare
lavoro con l’università.
Più fortunato il secondo intervistato torinese, tecnico del suono, da un
anno a Manchester:
Le mie aspettative, visto che non so l’inglese perché alle superiori
avevo l’insufficienza, erano di fare il lavapiatti per due o tre anni,
imparare la lingua e poi vedere cosa potevo fare. In realtà è andata
meglio, molto meglio perché dopo due o tre mesi, no anzi a
novembre ho trovato da lavorare ai mercatini di Natale, non è bello
ma fai tutti i giorni dieci ore per un mese e mezzo e guadagni
molto bene. Quindi quei soldi mi sono serviti e a gennaio, febbraio,
invece che cercare per fare il lavapiatti, ho cercato nel mio campo.
Mi aveva scritto una persona e mi aveva detto che forse ci
sentivamo in estate, io non ho dato tanto peso e invece verso marzo
mi ha ricontattato e ho iniziato a collaborare con lui. Si tratta di una
ditta che affitta strumenti musicali, una cosa che in Italia non c’è,
non c’è l’equivalente…Un lavoro diverso, quest’estate mi ha
pagato molto bene perché ho fatto molti festival. Mi ha dato fiducia
anche se non conoscevo bene l’inglese e questo mi ha fatto molto
piacere. Rispetto all’Italia avevo un lavoro molto meno pesante,
con una responsabilità minore e mi pagavano di più. Qua sono free
lance, è tutto in regola, è come in Italia, ma pago molte meno tasse.
L’esperienza di questo intervistato rimane tuttavia un’eccezione, perché
solitamente le realtà narrate mettono in evidenza scenari ben differenti. Non
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esistono parametri oggettivi sulla cui base misurare se un lavoro è peggiore
o migliore di un altro perché la valutazione è soggettiva in base ai propri
bisogni e alla propria capacità di adattamento. Perciò alcuni tendono a
enfatizzare la facilità di aver trovato un’occupazione, specie se ripensano
alle attese sperimentate in Italia, al mutismo delle aziende a cui si inviavano
i curricula, alle offerte di lavoro a titolo gratuito; altri a questo aggiungono
anche gli aspetti negativi come l’assenza di tutele, nonostante la regolarità
del contratto di assunzione. La possibilità di trovare in breve tempo un
lavoro con un contratto regolare tuttavia rappresenta la condizione che
annulla qualsiasi altro elemento negativo, come, ad esempio, il contenuto
professionale. Se non si hanno grandi aspirazioni i tempi di attesa per
trovare un lavoro sono limitati a poche settimane. Il settore della
ristorazione e, per chi ha una maggiore conoscenza della lingua, i servizi
telefonici e la vendita sono gli ambiti dove si trova più facilmente. Spesso
gli intervistati esternano stupore confrontando la propria esperienza di
ricerca del lavoro in Italia e in Gran Bretagna, valutando in modo molto
positivo l’essere pagati con regolarità settimanale e la flessibilità degli orari
lavorativi. La possibilità di estendere l’orario di lavoro rispetto a quello
fissato contrattualmente consente di avere un’entrata extra rispetto allo
stipendio percepito abitualmente. Quasi tutti gli intervistati ricorrono a
questo stratagemma per aggirare il vincolo economico imposto dai contratti
che garantiscono il minimo salariale (National minimum wage2), così
riescono a sostenere le spese dell’affitto e a pagare le bollette.
La sensazione percepita dagli intervistati all’inizio della vita lavorativa
in Inghilterra è di ricominciare a vivere, di essere finalmente usciti dalla
condizione di immobilità e di frustrazione in cui versavano in Italia.
Nonostante le numerose difficoltà, la lontananza dagli affetti familiari, dagli
amici, sono riusciti a recuperare una dimensione progettuale annullata dalle
esperienze lavorative (negative) precedenti. Lo spiegano bene
un’intervistata di Roma, 31 anni e il suo ragazzo:
Lei: [In Italia] siamo sospesi, la gente è sospesa, con l’ansia, in
attesa di una svolta, come se si attendesse qualcosa che poi non
2 Qualsiasi lavoro si svolge in Gran Bretagna non si può guadagnare una cifra inferiore al
minimo salariale stabilito dal governo. Il minimo salariale, fissato per ora lavorativa, viene
stabilito in base all’età del lavoratore. In genere varia tra i 6,50 pound dopo i 21 anni a circa
4 pound per i lavoratori di 16-17 anni.
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arriva, come se la gente fosse rassegnata, questa sensazione di non
poter fare le cose, di non riuscire ad abbattere questo muro gigante,
qui mi sento più libera, più tranquilla, qui non ho paura come in
Italia che se perdo il lavoro non sai quando ricominci a lavorare, qui
come ho trovato lavoro in tre settimane ne trovo un altro se lo perdo
ne trovo un altro.
Lui: Qui se fai il cameriere possiamo anche fare un figlio, lavorando
tre volte a settimana puoi permetterti una casa, di vivere e pagare le
bollette. Se rimaniamo qua io vedo la vita
Un altro aspetto rimarcato dagli intervistati segna ancora di più la
differenza con la realtà italiana. Si tratta delle opportunità di carriera e la
possibilità di esprimere le proprie capacità professionali. E’ suggestivo
come nel corso delle interviste tutti facciano riferimento a queste due
dimensioni, connesse ad una cultura aperta verso nuove opportunità e
tollerante verso le differenze, alla quale viene contrapposta quella familista
e clientelare italiana. Lo espone bene la giovane psicologa che continua a
fare la cameriera ma con un’attività di volontariato svolta in un centro di
psicoterapia è riuscita a iniziare un’esperienza da libera professionista come
terapeuta, sempre nello stesso centro. Quando glielo hanno proposto era
molto dubbiosa, è stata la sua tutor ad insistere e darle fiducia, dicendole che
doveva provare:
Gli inglesi hanno una cultura diversa dalla nostra e ti danno la
possibilità di sperimentare, di metterti alla prova, nel volontariato,
nel lavoro anche. In Italia non sarebbe possibile, a meno che non sei
raccomandato, non conosci qualcuno. A me certe volte mi spaventa
perché non ci credo per come siamo abituati in Italia. Non stanno a
guardare la lingua, il colore dei capelli, da dove vieni, se sei in
gamba, capace, loro ti spingono, ti fanno andare avanti.
Il ritorno in Italia, desiderato e a volte anche progettato entro pochi
anni, nei fatti appare impossibile. Alcuni lo ammettono, sono consapevoli
che in assenza di condizioni simili non potranno rientrare. Sanno poi che
lavorare in un ristorante o in un call center in Italia, ammesso che si abbia
l’opportunità di trovare un lavoro di questo tipo e la disponibilità ad
accettarlo, offrirebbe minori garanzie e un minore reddito. E poi, dopo aver
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raggiunto la tanto agognata autonomia abitativa ed economica, ritornare a
vivere con i genitori è inaccettabile.
Non è facile anche per chi si è trasferito più di dieci anni fa per
conseguire un Master, poi si è stabilito a lavorare raggiungendo posizioni
dirigenziali. La storia di un’intervistata, 37 anni, da dodici anni in Gran
Bretagna, ormai inserita con successo nel suo settore lavorativo, testimonia
come le competenze, anche le più specialistiche, siano scarsamente valutate
nel nostro Paese:
Io vorrei tornare in Italia, ma è un desiderio contraddittorio, penso
che il 99% degli italiani che sono qua vorrebbero tornare in Italia, io
dentro di me voglio tornare però io mi sento molto insicura, a parte
che l’Italia è cambiata ma io non sono cambiata con lei, adesso
quando torno ci sono delle cose che non saprei come prendere, si fa
tutto con fatica, a farsi una vita, ad avere soldi sufficienti per avere
una vita dignitosa…Nel 2008 quando la mia azienda qui non andava
bene, mi sono messa a cercare lavoro in Italia, mi hanno chiamata
dall’Italia, ho fatto i colloqui, sono andati bene, mi hanno presa, ma
mi hanno offerto un contratto di stage. Io ci sono rimasta malissimo
perché qui erano anni che lavoravo ad un certo livello, facevo cose
di un certo livello. Io ho reagito malissimo e gli ho detto se si
rendevano conto che io avevo un contratto a tempo indeterminato.
Loro mi hanno risposto che si dovevano tutelare e poi mi hanno
detto ma guardi che è pagato e poi ma lei allora non valuterebbe
questa proposta e io no, assolutamente. Da quel momento basta, mai
più.
Conclusioni
Dare voce alle narrazioni di chi ha lasciato l’Italia consente di
comprendere come le realtà dei giovani espatriati siano più articolate e
complesse di quanto ci restituisca la lettura dei dati sull’andamento
dell’emigrazione. Confrontare poi le esperienze migratorie di coloro che si
sono trasferiti in Inghilterra da pochi anni con quelle di chi si è stabilito da
più tempo rivela gli effetti della crisi economica sui percorsi migratori. Per
gli intervistati che vivono in Inghilterra da un decennio la scelta di
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espatriare non è stata dettata principalmente da ragioni lavorative ed
economiche. La ricerca stessa del lavoro in Italia, specie nelle regioni del
Centro-nord, risultava più sostenibile, l’idea di non trovare un’occupazione
o di dover sperimentare un periodo di precariato non destava particolare
preoccupazione. Per una intervistata, ad esempio, la decisione stabilirsi a
lavorare in Inghilterra rappresentava il proseguimento di un percorso
iniziato con il conseguimento di un Master in un’università inglese; per un
altro intervistato aveva significato seguire la fidanzata e andare a convivere;
per un terzo iniziare un’attività imprenditoriale.
Nel giro di pochi anni la scelta di emigrare è diventa la strada obbligata
per riuscire a trovare un’occupazione stabile retribuita. Di solito l’idea di
emigrare prende corpo progressivamente nel susseguirsi di esperienze
lavorative fallimentari, alcune delle quali aggravano condizioni preesistenti
di precarietà economica senza offrire alcuna garanzia per il futuro. Il
progetto migratorio diventa un’alternativa realizzabile ad una condizione
non più sostenibile e difficilmente modificabile. Ma se per il primo gruppo
di intervistati la vita in un paese straniero diventava un’occasione per
trovare uno spazio di riconoscimento della propria professionalità per il
secondo gruppo prevalgono motivazioni strumentali. In questo scenario la
scelta di emigrare scaturisce dalla mancanza di opportunità lavorative e
dalle pessime condizioni imposte dal mercato del lavoro, mentre le
aspirazioni di autorealizzazione professionale sono subordinate al
completamento del processo di inserimento nella nuova realtà sociale, al
perfezionamento dell’abilità linguistica.
L’impossibilità di trovare alternative alla scelta migratoria indebolisce
la posizione di questi intervistati all’interno del mercato del lavoro ed è il
mercato stesso ad alzare la posta: i requisiti per accedere a determinate
professioni diventano più selettivi, escludendo immigrati che probabilmente
qualche anno fa avrebbero avuto qualche chance in più. Si annaspa in un
ambiente estremamente competitivo e spietatamente esigente che però a
livelli occupazionali poco qualificati offre molte opportunità. L’incremento
degli emigrati dall’Europa meridionale sembra quasi aver innescato e
consolidato dinamiche di disuguaglianza sociale simili a quelle riscontrabili
in Italia. Difficile prevedere quanti riusciranno nel breve periodo a superare
questi ostacoli e ad inserirsi in posizioni lavorative più qualificate. Il rischio
maggiore consiste nella possibilità di essere esposti a condizioni di
vulnerabilità sociale rimanendo intrappolati in posizione lavorative poco
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qualificate, scarsamente retribuite. Per alcuni allora il desiderio di
migliorare la condizione occupazionale potrebbe essere difficilmente
realizzabile.
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