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Zaccagnini Paolo - Clash

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CLASH

Di Paolo Zaccagnini

LATOSIDE EDITORI

Copertina: Cinzia Leone

© 1982 - Lato Side Editori srl via Dardanelli, 31 - 00195 Roma Finito di stampare nel luglio 1982 dalla «Grafica» Salvi & C. - Perugia Questo Periodico è iscritto all'USPI Unione Stampa Periodica Italiana

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Indice

Quattro strani tipi

Con rabbia fino ad oggi

I primi due album

Londra chiama

La rivolta mondiale a 33 giri

Rock da combattimento: alcuni cenni

Dalla viva voce

Il ragazzo rude

Discografia

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Quattro strani tipi

Per parecchio tempo, sin dai loro primi concerti nel 1977, i Clash sono stati etichettati come gruppo di punk-rock e, se questa etichetta si attagliava magnificamente a loro per i primi due album, The Clash e Give'em Enough Rope, la classificazione ha perso il suo significato con il passare del tempo dato che i quattro protagonisti di questa tesissima avventura che si chiama Clash hanno creato un loro genere preciso, non imitabile: è difficile imitare gli stati d'animo delle singole persone, in cui, oltre alla musica, che fa da irresistibile supporto, tutto il peso dell'impatto con il pubblico è sostenuto, magnificamente, dai testi, estremamente politicizzati. E il merito di questi testi va ascritto alla coppia che ha fatto grande il gruppo, Joe Strummer e Mick Jones, due persone estremamente diverse, provenienti da mondi completamente opposti che hanno saputo trovare un equilibrio ed una lucidità nel narrare le loro storie che li hanno subito imposti all'attenzione del pubblico di tutto il mondo, mentre la critica nicchia ancora, ammaliata da altre sorte di musicisti che preferiscono magari cantare l'amore e non la gente che, purtroppo, muore ogni giorno nel mondo.

Tutto ebbe inizio con le vicissitudini musicali di Mick Jones, chitarrista solista di gran talento, figlio di un tassista e di una donna scappata in USA, cresciuto con la nonna in un quartiere tra i più popolari e poveri di Londra, Brixton, l'unico che ospiti in tutta la Gran Bretagna un penitenziario di massima sicurezza. Jones, abbandonata presto la scuola — come del resto il suo amico e compagno di giochi sin dall'infanzia, Paul Simonon — aveva fondato nel 1976 quello che passerà alla storia musicale inglese come il primo gruppo punk, i London SS, in cui suonavano anche Brian James, in seguito approdato ai Damned di Dave Vanian, e Tony James, poi bassista con i Chelsea e quindi con i Generation X di Billy Idol.

Saranno stati i tempi troppo acerbi, sarà stata la musica che non lo convinceva troppo, fatto sta che, di lì a poco, Jones decise di averne abbastanza dei London SS e dei loro insuccessi: aveva bisogno di qualcosa che lo rendesse vivo, lo facesse sperare ih un futuro finalmente benevolo con lui, un futuro che vedeva diverso solo attraverso le corde di una chitarra. Pensare ad un proprio gruppo fu la cosa più ovvia ed il primo ad essere arruolato fu appunto il vecchio amico, Paul Simonon: anche lui figlio di una famiglia finita quando aveva otto anni, lunghi periodi scolastici senza fare nulla in balia di un professore pakistano che non parlava inglese, tutto perso a disegnare, la sua grande passione. Jones squadrò bene quel ragazzone biondo, taciturno, granitico, e pensò bene di mettergli in mano un basso da quattro soldi, lo strumento che, secondo lui — ed il tempo gli ha dato ragione — Simonon avrebbe suonato meglio.

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E Simonon seguì i consigli del vecchio amico; anche per lui, nato come

Jones a Brixton, la musica avrebbe potuto significare la liberazione da una vita grama fatta di miserie e qualche birra al pub di sabato sera, un amplesso rubato e qualche sterlina sporca da mettersi in tasca ogni tanto. Con il carattere duro e testardo che lo ha sempre contraddistinto all'interno del gruppo, Simonon si mise d'impegno a suonare il basso e per sei mesi si esercitò appiccicando pezzettini di carta bianca proprio dove poi sarebbero dovute finire le sue dita durante le esercitazioni che lui e Jones compivano quotidianamente nell'appartamento in cui Simonon viveva con il padre.

Ma, come è facile arguire, non è semplice presentarsi a suonare in due e quindi le ricerche per mettere su un organico di quattro persone continuarono assistendo a concerti, frequentando amici che suonavano, sempre con le orecchie tese, soprattutto Jones, il fulcro del gruppo, per contattare un batterista ed un chitarrista per l'accompagnamento. I mesi passarono ma ecco che nel marzo 1976 il gruppo era ormai formato con l'apporto di Keith Levine alla chitarra (da qualche anno si è messo a lavorare con John Lydon, l'ex Johnny Rotten dei Sex Pistols, all'ambizioso progetto dei Public Image) e Terry Chimes alla batteria, giovanotto dalle idee un po' strane rispetto alle speranze di due sottoproletari come Jones e Simonon, ma comunque in grado di offrire un notevole volume di suono, prerogativa non certo da accantonare in un momento in cui era nell'aria quel ciclone che poi sarebbe stato il punk, in cui aggredire e martirizzare gli spettatori sembrava per molti l'unico modo di fare musica.

Nel frattempo, però, a Jones venne in mente che, per elevarsi dalla massa di quartetti che stavano nascendo (e si sa, nelle classi meno abbienti inglesi da sempre la musica è stato un fenomeno aggregante per uscir fuori dalle ristrettezze di classe e quindi il numero di coloro che facevano musica era sempre molto alto), al nascente gruppo — per il quale Simonon aveva trovato un nome che era tutto un programma, Clash, scontro — ora bisognava trovare un «signor» cantante, che sapesse il fatto suo e fosse in grado di sopportare senza gravi danni l'impatto sonoro del gruppo.

Iniziarono le ricerche, che stavolta, al contrario che per Chimes e Levine, risultarono subito difficoltose perché un personaggio che potesse inserirsi nei Clash di allora doveva essere davvero straordinario: doveva, innanzitutto, pensarla come Jones e Simonon (Chimes stava dietro ai suoi tamburi, non avrebbe mai arringato la folla come invece avrebbe dovuto fare il cantante), avrebbe dovuto almeno saper strimpellare la chitarra per non fare il Mick Jagger del punk, (c'era già in giro il succitato Johnny Rotten che guidava, senza suonare, i Sex Pistols), e, dote ricercatissima, avrebbe dovuto, possibilmente, aiutare Jones a comporre il materiale del gruppo dato che sia Simonon che i membri neofiti sembrava proprio non avrebbero mai aiutato Mick nel crearsi un repertorio personalizzato in cui incanalare tutta la rabbia che lui e Simonon avevano in corpo e che era stata alla base di quel minimo di conoscenza da parte del pubblico del defunto gruppo London SS.

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A raccontare ora come avvenne l'incontro Clash-Strummer viene da ridere, ma ci mancò poco che non se ne facesse nulla di questa futura accoppiata vincente; peggio, si arrivò ad un passo dal finire tutti all'ospedale. Jones, infatti, in compagnia di Simonon — e non Simenon, come cercavano di far apparire allora sperando di accaparrarsi un po' di pubblicità gratuita sfruttando la gloria dello scrittore belga inventore del commissario Jules Maigret — e di Glem Matlock, bassista dei Sex Pistols e futuro leader dei Rick Kids, passeggiavano, dice la leggenda, un sabato per Portobello Road; è giorno di mercato, tanta gente in giro, molti i musicisti che frequentano i negozi di dischi della comunità negro-giamaicana che nella zona è l'etnia maggioritaria. Ad un tratto Jones vide per strada Strummer, allora leader di un gruppo di blues rock che si chiamava 101,'ers, e lo apostrofò pesantemente insultando lui ed i suoi compagni ed invitandolo seduta stante a lavare l'offesa con una buona scazzottata, fermo restando che il suo giudizio su Strummer ed i suoi colleghi sarebbe rimasto negativo. Strummer non si fece impressionare, non rispose alla provocazione e fu talmente colpito dalla virulenza del tizio con gli occhi spiritati che lo aveva assalito verbalmente che cercò in tutti i modi di mettersi in contatto con il manager dei tre per cercare di lavorare con loro.

Ma ora è d'obbligo un passo indietro per inquadrare meglio la figura del rauco Strummer, uno che il giorno che si decideranno a metterlo dinanzi ad una macchina da presa farà impallidire parecchi dei divi di oggi con la sua grande naturalezza ed intelligenza. Strummer nasce ad Ankara il 21 agosto 1952 (è il più vecchio del gruppo essendo gli altri tre membri attuali nati tutti nel 1955, Jones il 26 giugno, Simonon il 15 dicembre e Headon il 30 maggio) da una signora dell'alta borghesia inglese e da un elegantissimo gentleman che in Turchia rappresentava diplomaticamente l'Inghilterra. Il suo vero cognome è Mellor e con questo nome frequenterà le scuole più costose, i colleges più esclusivi perché un figlio piccolo al seguito avrebbe potuto esser d'impaccio alla brillante carriera paterna: cresciuto praticamente nello Yorkshire, tra tanti altri ragazzi nelle sue stesse condizioni, soffocato dalle buone maniere e dai soldi, senza un alito di umanità da parte dei genitori, è ora facile comprendere, e giustificare il voltafaccia, che Mellor-Strummer fece poi, dimenticando le sue origini e benedicendo, si fa per dire, il giorno in cui venne mandato in collegio: altrimenti si sarebbe macchiato in età adulta di un crimine terribile, il parricidio. Piantare tutto lì e decidere di tentare la sorte a quindici anni fu la decisione ottimale per un carattere forte come il suo, quindi non pose tempo in mezzo, tornò a Londra cercando di inserirsi nel già sovraffollato mondo musicale cittadino. L'esordio, incredibile ma vero, avvenne imbracciando una chitarra hawayana, il classico ukulele, dopo essersi fatto insegnare da un amico come suonarci sopra il classico di Chuck Berry, «Johnny B. Goode», e dopo aver aiutato un amico che suonava nella metropolitana a racimolare qualche soldo: il suo aiuto consisteva nel far girare una cassettina tra i curiosi che si fermavano ad ascoltare. Ma, come si dice, quando la stoffa c'è non sono le difficoltà a fiaccare gli animi. Ma messo da parte l'ukulele — può andare bene a Tahiti ed Honolulu ma è

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assai arduo costruirsi una carriera musicale in Occidente suonandolo — con i pochi risparmi messi via suonando nella metropolitana il brano di Berry, Strummer si comprò una batteria e cominciò a tentare di trarci qualche suono, sperando in seguito di trovare qualche gruppo, alle prime armi come lui, che cercasse un batterista. A Londra non ci fu nulla da fare e, quindi, il giovane Joe pensò bene di trasferirsi nel Galles: lì fu subito più fortunato perché trovò immediatamente un gruppo che necessitava di una batteria nuova fiammante. Una batteria, però, perché i Flaming Youth, gioventù infiammata, un batterista migliore di lui lo avevano già: ma Strummer non si perse d'animo, barattò l'affitto simbolico del suo strumento con il posto di cantante, un ruolo che il gruppo gallese aveva escluso ma che fu costretto a riesumare per assicurarsi la batteria. I gallesi avevano fatto il conto senza badare alla personalità di Strummer che, arrivato in mezzo a loro, li convinse a cambiare nome, fece loro sognare un grande futuro, e dopo appena una mezza dozzina di concerti, li abbandonò al loro destino non dimenticando di portarsi appresso la fedele ma inutile (non valeva nulla come batterista) batteria.

Il ritorno a Londra non fu professionalmente dei più facili ma, anche grazie all'«esperienza» acquisita in Galles, Strummer perseverò — meno male — nel suo intento di fare musica e, dopo qualche tentativo non riuscito, ecco che nascevano i 101'ers, nome che Strummer estrapolò da 1984, libro di George Orwell che era uno dei suoi autori preferiti, in cui il termine stava a designare la stanza delle torture. Già dal nome scelto si vede che Strummer con il Blues-rock dei suoi compagni poco ha a che fare, gli serve per fare esperienza, iniziare a confrontarsi con il pubblico; ed infatti dì li a poco, prima che i 101'ers incidessero il loro unico 45 giri, «Keys To Your Meart», ecco l'abbandono e l'incontro fortuito con Jones, Simonon e Matlock, (tra l'altro quest'ultimo ed il gruppo in cui suonava, i Sex Pistols, avevano convinto Strummer della bontà del punk-rock e del fatto che quella sarebbe stata la musica che avrebbe dovuto usare per dire quel che aveva da dire).

Al quadro finale dell'attuale formazione dei Clash, punto d'arrivo di queste righe piene di rispetto ed amore, e speriamo di comprensibile confusione, mancava ora Nicholas «Topper» (il grande) Headon, batterista. Chimes, infatti, appena Strummer entrò nel gruppo, ebbe una serie di litigate abbastanza pesanti che riguardavano soprattutto le differenti vedute politiche, essendo Chimes orientato verso un fascismo latente ed abbastanza incolto che non poteva minimamente sussistere con Strummer ed il suo internazionalismo. Con Jones, carattere più impulsivo ma abbastanza condiscendente, tutto era andato liscio ma ora che lo scettro della leadership era appannaggio di Strummer le litigate erano all'ordine del giorno nella piccola baracca nel quartiere di Chalk Farm, vicino al mitico locale, la Roaudhouse, dove il gruppo provava, tanto che alla fine Chimes pensò bene di abbandonare i compagni, salvo poi rifarsi vivo a intervalli irregolari per aiutarli in una strana situazione che si protrarrà fino all'aprile del 1977, quando il suo posto verrà preso stabilmente da Headon.

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Quello che lanciò il gruppo, in cui però non militava ancora Headon, fu la recensione del loro concerto al London Institute of Contemporary Arts, che apparve nel novembre del 197.6, sul New Musical Express. Il pubblico li accolse magnificamente, l'inserimento di Strummer si dimostrò azzeccatissimo e ci fu un episodio che interessò la stampa nazionale alla ricerca di qualcosa per meglio rappresentare, ed interpretare, il nascente fenomeno punk: forse in preda ai fumi dell'alcool una ragazza, in pieno concerto, strappò con un morso il lobo dell'orecchio del suo boy-friend scatenando il putiferio. L'improvvisa notorietà fruttò ai Clash una scrittura che in seguito si sarebbe rivelata importante: vennero inseriti nel cast del tour che i Sex Pistols stavano per intraprendere per pubblicizzare il successo arrisogli con il singolo «Anarchy In UK», e con loro partirono anche i Damned. Anche se il tour non fu un successo, perché molti gestori di locali si rifiutarono di farli suonare dopo una scandalosa apparizione in TV dei Sex Pistols, i Clash si misero in luce tanto che vennero contattati da alcuni emissari di case discografiche, il tutto mentre si consumava la farsa dietro alla batteria dove era tornato a sedersi Terry Chimes, presto stancatosi nuovamente e rimpiazzato da Rob Harper che di lì a poco lascerà nuovamente il posto a Chimes nelle vesti del «batterista pentito» per l'ennesima volta.

La prima casa discografica che mise a disposizione dei Clash uno studio di registrazione fu la Polydor, che diede loro un produttore nella persona di Guy Stevens, lo scopritore dei Mott the Hoople di Ian Hunter, e due giorni di tempo per realizzare qualche nastro dimostrativo. Non ne uscì nulla di buono perché, come ebbe a dire il manager Bernard Rhodes «volevamo un guscio di noce per produrre il gruppo, perché quello è lo spazio ideale per fare la nostra musica. Ma ci sono differenti gusci di noce e quello non funzionò con i ragazzi». Si deve arrivare al marzo del 1977 per vedere i Clash mettere la firma in calce ad un contratto: la fortunata casa discografica che si accaparra i loro servizi è la CBS che, sembra, sborsò una cifra con sei zeri: il che non era poi affatto male per un gruppo con tanti problemi, quello del batterista innanzitutto, e per giunta alle prime armi.

Per fare un album, si sa, ci vuole un produttore ma, vuoi per le loro idee vuoi per la musica che già allora eseguivano, non fu facile trovarne uno disposto a starli a sentire e seguirli con cura, tanto che alla fine la scelta cadde sul loro fonico, Micky Foote; cosicché il primo lp, intitolato semplicemente The Clash e con sulla copertina soltanto la foto di Simonon, Jones e Strummer, venne registrato in due settimane: segno evidente che l'affiatamento tra i membri del gruppo e Foote, oltre alla voglia di farsi conoscere con un buon prodotto, era grande. L'album venne messo in vendita il 15 aprile e, dopo una sola settimana, raggiunse la dodicesima posizione nella classifica degli lp più venduti, anche in seguito a recensioni entusiaste: valga per tutte quella di Mark P. che nella notissima fanzine Sniffin'glue, scrisse che «l'album dei Clash è uno specchio. Ci mostra la verità. Per me è l'album più importante che sia mai stato realizzato» Anche se il recensore peccava di enfasi è certo che The Clash è un album importante perché dimostra che loro, i Clash, sono nati con il punk, certo,

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non rinnegano questa etichetta, ma sono anche qualcosa di più, come dimostreranno nel prosieguo della loro carriera che, tra l'altro, li vedrà da allora in poi osteggiati in modo stupido dalla critica inglese che, col passare del tempo, preferirà addirittura ignorare i loro lavori, limitandosi a segnalarne l'uscita e parlarne poi sempre male: forse perché il gruppo, sin dall'inizio, si schierò contro la stampa specializzata inglese, accusata di pressapochismo e di essere soggetta ai facili entusiasmi oltre che priva di qualsiasi coscienza politico-sociale, critica che i Clash fanno tuttora. Per tornare alla carriera, va detto che anche due 45 ebbero una certa risonanza: «White Riot/1977» entrò nell'apposita classifica, anche se non salì molto in alto, mentre un altro singolo realizzato subito dopo, «Remote Control» che come facciata b aveva «London's Burning», raggiunse un successo maggiore soprattutto tra il pubblico dei più giovani. È sempre nella primavera dello stesso anno che si compie l'atteso evento, la prima tournée, che includeva anche i Jam, Subway Sect ed i Buzzcock tra gli altri. Il tour non ebbe uno svolgimento facile perché Jam, il trio capitanato da Paul Weller, seguaci del revival mod, si ritirarono dopo poche date lamentandosi del fatto che nonostante anche loro avessero contribuito con una somma di denaro all'uso dell'amplificazione, quest'ultimo era loro praticamente precluso dai membri degli altri gruppi che lo osteggiavano anche per quanto riguardava l'impianto luci sul palco. A questo episodio che si potrebbe definire marginale, si aggiungano le difficoltà con i gestori dei locali dove si dovevano esibire (molti di loro ricordavano i Clash al seguito dei Sex Pistols nel loro primo disastroso tour come gruppo o di supporto) ed il fatto che Jones si fece male ad un dito ma continuò a suonare basta per capire come l'intera operazione venne portata a termine solo grazie a tantissima forza di volontà e voglia di farsi conoscere ovunque in Inghilterra. Comunque il tour si concluse con uno storico concerto al Rainbow di Londra che consolidò ancor più la loro fama. L'occasione poi va ricordata perché proprio allora Chimes abbandonò i compagni definitivamente e Jones, Strummer e Simonon furono costretti a sorbirsi duecento audizioni per trovare un nuovo batterista, che, alla fine, venne trovato nella persona di Nicky Headon, ex impiegato di ventun anni che suonava la batteria sin da quando aveva abbandonato la scuola. Headon aveva incontrato Jones al tempo dei London SS ma quest'ultimo non era rimasto particolarmente colpito dall'incontro, tanto che se ne ricordò solo quando lo ebbe sentito: fatto sta che la scelta cadde su Headon, che tra l'altro non si era mai esibito dal vivo, il quale il giorno dopo dichiarò di aver voluto da sempre suonare con i Clash e che il suo apporto sarebbe stato importante soprattutto dal punto di vista dell'energia, lui ne avrebbe fornita il più possibile dando il meglio di sé stesso.

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Si era alla fine di aprile, i Clash nella versione attuale erano ormai nati, la scena musicale internazionale si arricchiva di uno dei gruppi che hanno fatto grandissimo il rock di questo ultimo quinquennio ed i fans si preparavano a mettere sui loro giradischi lp in cui si sarebbe parlato sempre più spesso di fame nel mondo, morte, rivoluzione e soprusi in chiave lucida e coerentemente antisistema. L'avventura della maturità, il lungo viaggio nel tempo e nelle note, il difficile compito di mettere su un pentagramma i problemi e le rabbie di una generazione aveva inizio: era, come previsto, giunto il momento dello scontro, the Clash.

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Con rabbia fino ad oggi

Essere nati in pieno ciclone punk non ha mai significato molto per i Clash, i quali, al contrario di altri gruppi del periodo, la loro musica l'hanno fatta evolvere sui binari stessi della loro evoluzione come persone, lasciando i facili velleitarismi, che qualcuno può trovare nei loro primi testi, per abbracciare una visione della vita, e della musica, più matura e precisa, una visione che li ha anche resi più difficili ed al contempo più amati per i temi scottanti trattati.

Il merito della loro evoluzione lo si deve alla forte personalità di Strummer, uno che, nonostante faccia del tutto per non farlo apparire, ha dietro di sé vastissime letture. E la fortuna ha voluto che proprio un tipo del genere si imbattesse in due come Mick Jones e Paul Simonon (Topper Headon, ex contabile con tanta voglia di suonare, non ha mai contato molto nell'economia del gruppo) che, forse influenzati dalla di lui cultura, ne hanno abbracciato, ed assecondato, le mire che in parte erano le stesse, solo più rozze. E le hanno accettate in tutto mostrando di gradire che, poco per volta, Strummer divenisse il leader indiscusso ed il portavoce ufficiale, colui che, previa formale consultazione con gli altri, decideva il da farsi. E va detto che, sino ad oggi, Strummer non ha mai sbagliato una volta, creando intorno al gruppo l'atmosfera giusta per elevarlo ai livelli attuali, fatti di grande rispetto, grande amore e grandissimo odio per chi non ama la loro foga nel proporre certi pezzi. Una evoluzione che si è andata affinando col tempo, con gli errori dei primi passi; qualcuno, tra i giornalisti inglesi specializzati, ricorda ancora gli errori tecnici che infarcirono la loro prima esibizione pubblica il 13 agosto del 1976, quando ancora nel gruppo militavano Terry Chimes e Keith Levine. Il risultato di tanti errori lo si può ben vedere nel fallimento del tour con i Sex Pistols e gli altri gruppi: era ora di una pausa di riflessione sul da farsi, un vedere il futuro con occhi più maturi, fare il definitivo passo avanti per uscire dalla palude della mediocrità o scegliere di continuare ad essere intruppati in qualcosa che, già allora, non li coinvolgeva più di tanto, come Strummer dimostrò ampiamente nel famoso episodio che lo vide protagonista durante un concerto tenuto all'ICA il 14 ottobre del 1976. Una coppia, molto ubriaca, si esibì in un rito macabro: taglio di una guancia, un taglio profondo, del ragazzo da parte della sua amica. «Voi tutti che pensate che la violenza sia una cosa forte, perché non ve ne tornate a casa e vi mettete a collezionare francobolli? È molto più forte» disse Strummer, facendo allibire i presenti che, sino ad allora, avevano creduto di essere al cospetto di una delle tante bands che misuravano il successo dal numero di sputi che riuscivano a prendersi in faccia durante il concerto. Per chi credeva nella non-violenza e faceva una denuncia sistematica di ogni tipo di violenza, vedersi additati come fondatori di un genere in cui, invece, la violenza era tutto, deve essere stato un notevolissimo fastidio; fatto sta che

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i Clash risposero con grande maturità, decidendo di entrare in sala d'incisione per dare un senso ai loro sforzi compositivi.

A queste difficoltà si aggiungano subito quelle con la stampa, annose, e con il pubblico meno preparato e si potranno meglio capire i mille problemi che assillarono il gruppo in quel periodo; problemi che comprendevano quello ormai drammatico della ricerca di un batterista stabile. A rendere i Clash amati e venerati non contribuirono mai gli atteggiamenti di disprezzo nei confronti delle case discografiche, ritenute da tutti e quattro i componenti strumenti di sfruttamento dei musicisti, e nemmeno quelle sfide visive che lanciavano sul palco e nella Vita con il loro abbigliamento: celebre resterà una maglietta di Strummer in cui era raffigurata la tragica scena della scoperta del cadavere di Aldo Moro: il pubblico equivocò sul senso di queste scelte, le svastiche che usate per provocare non portarono che insulti pesantissimi ed il disorientamento apparentemente crebbe. Ma, si sa, alle prime armi nessuno è completamente cosciente di quanto fa fare l'euforia degli inizi: il mondo che si va dischiudendo, i sogni di un successo risolutore di esistenze grame, fanno commettere molti, imperdonabili errori; loro questi errori li hanno commessi ma non se ne sono mai dati pena, hanno sempre cercato di spiegare con i loro testi, le loro stesse esistenze, non certo quelle tipiche di famose rockstar, le loro tensioni come musicisti e come appartenenti ad una generazione che di dubbi ed errori ne ha fin troppi. Tutto quanto hanno descritto lo hanno vissuto sulla loro pelle, chi ha assaporato gli afrori di un ghetto difficilmente se li scrolla dalle spalle, difficilmente se li strappa dalla pelle e poi, diciamolo pure, non si tradiscono così cause giustamente abbracciate. La causa degli oppressi di tutto il mondo, quelli di Brixton come quelli della lontana America Latina, con il passare del tempo è diventato il vero motore di ogni spartito, il loro stesso modo di fare musica, parole intelligenti che, anche quando parlano d'amore, cercano di ricordarsi del mondo che circonda questo amore.

Il 1977 li vede, finalmente, in sala d'incisione e The Clash, il prodotto finito di queste incisioni, sferza critici e pubblico con la sua violenza inusitata, che non è permeata di ironia come quella di altri gruppi, affonda le radici nella profonda conoscenza del peggior tessuto sociale inglese, il più degradato, ma non certo per sua stessa colpa, e quindi l'album viene accolto con i necessari onori dal pubblico specializzato, che fino ad allora aveva nicchiato ma che ora è costretto ad ammettere le differenze sostanziali tra Strummer, ed i suoi, e tutti gli altri. Niente velleitarismo (anche se qualche strofa appare costruita pesantemente, il senso dei testi a volte sfugge se non si ha bene in mente che allora per loro fare musica era cercare di creare la colonna sonora di una rivoluzione di coscienze) ma scene vivide in cui erano raccontati tanti soprusi visti e vissuti di persona. Non si può negare che, guardando al passato, ci sono pochi esempi di frasi così feroci contro il sistema anche perché la pop-music non era nata contro il sistema ma era diretta emanazione e nulla di più.

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I grandi nomi del passato avevano qualche volta accennato ai tempi sociali difficili ma non erano andati più in là, non avevano avuto il coraggio di cantare che volevano ribellarsi nelle strade. Loro, i Clash, attendono il 1977 ma alla fine, quando gli viene fornita l'occasione, l'incisione, lo dicono, e non a denti stretti, con arrangiamenti per ogni testo che farebbero impazzire anche un sordo. Qualche critico in vena di fare il sociologo se ne accorse ed ebbe a scrivere che il gruppo non lo si poteva annoverare sotto la voce musica, per recensirli sarebbero dovuti scendere in campo i politologi perché le loro canzoni erano comizi: diverte il pensare che c'è ancora qualcuno che le stesse cose le scrive ora, a distanza di cinque anni, parlando dei pezzi del loro ultimo album, dimostrando così non solo di non aver capito nulla dei Clash ma di non aver neanche seguito la loro maturazione. Si profetizzò allora che non avrebbero lasciato traccia e ora gli stessi che al tempo fecero gli spiritosi devono ricredersi grazie alla forza di volontà messa in mostra in tutto questo tempo da Strummer e soci, mai domi.

Il 1978 vede la realizzazione di Give'em Enough Rope, loro secondo album in cui basta leggere i titoli e studiarsi la copertina (a proposito, tutte azzeccate: nella prima sul retro ci avevano piazzato una carica dei «pacifici» bobbies demolendo, con quella semplice immagine, tanti anni di retorica intorno alla polizia inglese voluta qualche secolo prima da Sir Robert Peel) per capire che il discorso non era cambiato. Cavalieri cinesi con tanto di bandiere rosse che sventolano, brani come «English Civil War», «Guns On The Roof», «Stay Free», «Last Gang In Town» confermano che Strummer continua a picchiare sodo; la sua tesi secondo cui, lo ha sempre affermato, loro fanno musica affinché la gente apra gli occhi e si liberi la testa da tante false verità, non è poi così vecchia ed obsoleta come qualcuno vorrebbe invece far credere. Loro suonano non per divertirsi, salgono sul palco come volessero conquistare il pubblico alla loro causa e, se questa operazione non riesce in Inghilterra — quando si dice che lì la critica li odia si dice poco — approfittano lo stesso dello strumento musica fino in fondo sapendo che è tra i media più forti e veloci. Tali tesi si son rivelate giuste con il tempo e solo l'ottusità di chi ricerca il «nuovo» ad ogni costo li ha privati di quelle gratificazioni la cui mancanza nei primi tempi forse poteva scottare ma che ora, al contrario, è diventata un vanto, soprattutto quel continuo disinteresse della stampa specializzata inglese che ha deciso di fare a meno di loro e quindi di cancellarli dalla mappa musicale del Paese, non sapendo di commettere un errore di cui si dovranno pentire, e amaramente (vedremo come andrà a finire con il nuovo album non ancora uscito e di cui si parlerà ampiamente più avanti).

In questa loro lotta i Clash restano isolati anche quando esce London Calling, terzo album però contenente due dischi, un capolavoro assoluto di cosa significhi fare rock con l'intento di non essere banali. A scuotere il muro del silenzio ci vorrà proprio questo disco; molti brani sono stati registrati negli Stati Uniti durante un tour che ha esaltato la critica d'oltreoceano, che permetterà loro di stabilizzare quella nascente fama che li circonda a sprazzi sin dagli esordi. Li si comincia a seguire con più

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attenzione, non si parla più di comizi e quando si scrive di loro si abbandona definitivamente l'aggettivo punk, riduttivo da sempre, per etichettare la loro musica. Sono riconosciuti finalmente per quel che sono, quattro musicisti che hanno diverse cose da dire sui destini del mondo e le dicono con la rabbia degli esordi, con lo stesso livore — cui si è andata aggiungendo maggiore determinazione e chiarezza nell'individuare i bersagli — di quasi tre anni prima, quel 20 settembre di tre anni prima, quando si ritrovarono a trionfare, loro malgrado, nell'ambito del primo festival punk, organizzato in quella cella fetida che era il 100 Club, dando ragione ai primi timidi estimatori che avevano visto in loro la fiamma di una nuova coscienza e di un nuovo ruolo da ricoprire. Loro avevano un credo politico, anche se le interviste che seguiranno dimostreranno che il tempo si fa sentire anche nelle loro scelte, impercettibilmente ma si fa sentire. Anche la voglia di cambiare, o almeno tentare di farlo, alcuni paradigmi statici, il primo dei quali, il più dannoso da sempre, è che la musica debba in primo luogo essere fonte di spensieratezza. I pochi gridi al prodigio e le molte stroncature non li scalfiscono: sanno di essere nel giusto, si impegnano in una frenetica estate di tournées, sono anche da noi e a Bologna, suonando i primi brani — con un altro batterista perché Headon, proveniente dalla Francia, aveva sbagliato valico di frontiera perdendosi (pagherà dopo, provvedendo a scaricare gli strumenti e smontare il palco come vuole una delle leggi del gruppo, non scritte ma rispettate) — danno una scossa alle spine dorsali di quasi cinquantamila persone che si erano riunite in piazza Maggiore per sentire questi vati generazionali in versione felsinea, e per giunta gratis. I cinquantamila restano sotto le stelle, maledicendo il cielo che lascia cadere per pochi secondi qualche goccia di pioggia calda, a sognare, sotto la statua di re Enzo, ad urlare, affermare i desideri repressi, desideri che non si vuole rimangano tali: il no a tutte le guerre, il si alla conciliazione ed alla pace, il rifiuto di ogni razzismo e di tutte le bandiere del conformismo.

L'equazione politica-musica, senza sponsorizzazioni di sorta, riesce e chi ha avuto la fortuna di assistere a quello storico concerto ne ricorderà la straordinaria carica che emanava da quelle quattro figure che si dimenavano su un enorme palco nero con dietro, stilizzate, le ciminiere emblema di lavoro duro e mal-pagato, simbolo universale di sfruttamento dell'uomo sull'uomo. A questo punto perché prendersela con i baronetti della carta stampata a sette note del paese d'origine? Schierarsi a sinistra, produrre testi radicali comporta anche questo ed occorre accettarlo senza innervosirsi, come fa Strummer in una lunga intervista a Melody Maker, il capocrociata antiClash: «Non sopporto tutti coloro che liquidano le nostre canzoni con il termine di "radicalchic", non ritengo giusto che una canzone debba avere un passaporto come invece molti critici ritengono. Esiste gente, ne sono sicuro, che pretenderebbe, se ne fosse in grado, di censurare anche i miei sogni, ma non glielo permetterò, non ce la farà mai. Ci sono ancora troppe regole mentre credo che di regole ce ne dovrebbe essere una sola, semplicissima, che non esistano regole. Questa è stata la prima ed unica regola che ha avuto il punk e che rendeva grande il

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movimento. Io sono socialista, ma non nel senso che pensate voi, non seguo correnti come da voi, sono socialista perché ci sono giunto, al socialismo, per fasi deduttive. Mi sono convinto. Grazie alle esperienze che ho fatto. Credo che non si debbano dare ordini di alcun genere, la gente deve essere messa in grado di fare le cose che desidera perché vuole così e, di conseguenza, deve essere educata a pensare in modo libero, senza coercizioni di qualsiasi natura. E così parlo di ogni tipo di società socialista, non faccio distinzioni, non mi abbevero a falsi miti. Paul è andato in Russia lo scorso anno e, quando è tornato, mi ha detto di aver visto a Mosca negozi dove possono entrare solo i membri del partito ed i turisti mentre i russi non ci si potevano neanche avvicinare. Anche lì la gente era triste e tutto, purtroppo, sembrava essere immerso nella stessa atmosfera di ingiustizia che si respira in qualsiasi città occidentale. Voglio essere chiaro, la soluzione non può, e non deve essere, neanche quella adottata dai Khmer rossi di Pol Pot che hanno prima soggiogato e poi sistematicamente decimato un popolo. Bisogna capire che non è così che si costruisce una società socialista, in quel modo semmai si dà "vita" ad un cimitero socialista. È la volontà della gente che va tenuta in conto e quindi rispettata, altrimenti...».

Bando alle polemiche con la stampa inglese — che in fondo debbono

ferire non poco i Clash che certamente si chiederanno che strano destino è

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il loro, essere riconosciuti per quel che sono nel mondo e non dove hanno mosso i primi passi come musicisti — il 1980, l'anno di London Calling, è anno importante per il gruppo ma anche per i singoli. Di Strummer si sa poco ma Simonon, ad esempio, ha girato un nuovo film, sempre di argomento rock, la storia di un gruppo femminile, mentre Headon, di solito così schivo, è stato protagonista di un episodio che ha esaltato la sua professionalità nonché ha lasciato un poco esterrefatti i suoi compagni, ed i fans più arrabbiati del gruppo. Gli avevano venduto dei timpani, risultati poi esser stati rubati al percussionista della National Simphony Orchestra, e lui, appena lo ha saputo, li ha restituiti con mille, scuse tanto che l'orchestra, per ringraziarlo del bel gesto, ha pensato bene di invitarlo a suonare per una sera. Cosicché il concerto quanto meno più strano dell'anno è stato quello di una sera di febbraio quando, vestito elegantemente, Headon ha suonato i timpani e le campane tubolari, proprio quelle rese celebri dal famoso brano di Mike Oldfield, insieme alla National Simphony Orchestra durante l'esecuzione di un brano classico, 1«Ouverture 1812» di Ciaikowsky, alla Royal Albert Hall, la più prestigiosa sala di concerti della Gran Bretagna.

Jones da parte sua ha unito l'utile al dilettevole nel senso che ha prodotto il nuovo lp della signorina Ellen Foley, la sua ragazza, inserendovi tutti i Clash al completo. E insieme a loro ci ha messo dentro anche alcuni dei musicisti che hanno contribuito al successo del triplo Sandinista, vale a dire il violinista Tymon Dogg, il tastierista Mickey Gallagher ed il sassofonista David Payne, ed in più vi ha scritto anche qualche pezzo con il fedele Strummer che non si è tirato indietro. Oltre a questo, o forse proprio per questo, interessato dall'esperienza che lo ha gratificato, una volta tanto, dato che le critiche sono state favorevoli, ha suonato e prodotto il nuovo lp di Ian Hunter, ex leader dei mitici Mott the Hoople, uno dei suoi gruppi favoriti quando era un ragazzo ed andava ad assistere ai concerti.

Anche la morte non ha mancato di sfiorarli, la «vecchia signora con la falce» si è portata via Guy Stevens, uno dei più noti ed innovatori produttori di rock inglese, sulla breccia dai tempi della «Swinging London», uno che aveva tenuto a battesimo Rolling Stones e Who, oltre ad aver prodotto gruppi dimenticati ma pur sempre bravissimi come gli Spooky Tooth e i Mott the Hoople. Stevens nel 1979 aveva creduto in loro e con loro aveva prodotto London Calling coinvolgendoli, a volte, talmente nelle sue scelte che i Clash incisero un brano, «The Right Profile», dedicato all'eroe preferito di Stevens, l'attore Montgomery Clift. Se lo è portato via l'alcool ma questo non ha fatto sì che il vorticare di idee ed iniziative del gruppo si arrestasse. L'incontro con Scorsese e poi, una volta tanto, una rivincita sull'odiata, giustamente, stampa. Sono diventati padroni — per poco perché l'hanno rivenduta ed il ricavato lo hanno devoluto al fondo di sostegno degli operai di una fabbrica inglese in agitazione — di una magnifica Cadillac bianca, pagamento di una scommessa da parte di una giornalista di Radio One, la stazione che la BBC ha da anni votato al rock (beati loro!), che aveva scommesso che nessuno dei pezzi di Sandinista sarebbe entrato mai in classifica. Una sottile vena di disprezzo nella

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scommessa perché l'album di pezzi, nelle sue sei facciate, ne contiene ben trentasei; comunque il prodigio si è avverato e l'arguta collega ha dovuto pagare il prezzo del non aver dato fiducia alle capacità dei Clash ed alla maturità maggiore acquisita dal pubblico. Con loro si è rifatto vivo Bernard Rhodes, Bernie, il manager degli esordi, che si era allontanato per dissapori mai ben compresi; ritorno che ha avuto i suoi frutti perché ha rassicurato la band ed ha fatto sì che un uomo di fiducia tornasse ad occuparsi di tutto, come agli inizi, demandando loro il lato musicale, composizione e esecuzione. E lavorare senza l'assillo di doversi occupare di pagamenti e organizzazione di tour è stato salutare perché sembra che anche la maturità sia cresciuta, con il cervello sgombro da tante questioni di ordine pratico.

Con Rhodes, marxista convinto che è riuscito a fare leggere «Il capitale» a Jones, sono venuti subito i colpi grossi, come il viaggio negli Stati Uniti a rinverdire un successo che non è mai tramontato, e, soprattutto, a spingere le vendite di Sandinista che è andato ottimamente. Lì si ricordano ancora epici concerti, una vota si sono fatti raggiungere sul palco nientedimeno che da Bo Diddley e basta leggere i resoconti di quel concerto per capire cosa successe e quanto fu entusiasmante; la marea di riviste che si occupano con enormi profitti del mercato rock li considerano la miglior espressione della new wave inglese quindi non ci sono stati problemi per dare rilevanza alla loro permanenza negli Stati Uniti per qualche mese (permanenza che alcuni maligni fanno anche risalire al furioso amore sbocciato tra Jones e la Foley, in cui qualcuno, assai cattivo, ha voluto vedere la degna erede di Patti Smith, offendendo la Foley che è una «signora» cantante e non un bluff voluto dai mass-media). Negli Stati Uniti i Clash con London Calling sono arrivati addirittura al numero dieci della classifica degli album più venduti, quindi il terreno per allargare la loro fama c'era ed ha pensato Rhodes ad allargarlo ulteriormente. Rhodes ha organizzato una serie di spettacoli a New York, accontentando così i musicisti e permettendo loro di dare una migliore resa dal vivo perché più riposati e lucidi senza tutto quel viaggiare, in un vecchio famoso locale, il Bonds. Tutto esaurito, ma lo zampino della malignità, la gelosia del successo, ha fatto sì che qualcuno alzasse la cornetta del telefono ed avvertisse la polizia che il Bonds non era attrezzato per ospitare quattromila persone bensì la metà, spingendo così il gruppo, essendo le richieste da tutti gli Stati Uniti enormi, a cancellare le date previste e raddoppiarle semplicemente, e costringendo radio e TV a parlare dell'avvenimento, unico per un paese che mastica e produce rock a tutto andare.

A questo indubbio successo di immagine deve essere, aggiunto quello riportato tra la popolazione negra perii brano «The Magnificent Seven» da cui poi hanno tratto un loro film, un omaggio al rap, musica fatta di ritmo e tante parole, storie vere. Ad ottobre, al Lyceum, usando la stessa formula messa in atto a New York, sei sere di esaurito in un vecchio teatro pieno di broccati dello Strand, da almeno dieci anni punto di ritrovo tra i più validi per chi ama ascoltare il rock a Londra. Un successo passato sotto silenzio o

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di cui si è parlato a denti stretti visto quali ne erano i protagonisti. Un successo che ha bissato quello strepitoso colto per la seconda volta in due anni qui da noi, con una minitournée che li ha visti trionfare ovunque ma che ha avuto in Firenze, e le interviste che compaiono in questo volume sono state raccolte proprio dopo quel concerto, la sua punta di diamante: un tempo imprecisato stipati in più di trentamila in una delle due curve dello stadio comunale ad ascoltare non solo i brani di Sandinista ma praticamente tutto il materiale composto da Strummer, Jones e Simonon (suo forse il momento più alto dello show, quando ha cantato uno dei pochissimi brani che ha composto, quel «Guns Of Brixton» che ti strizza il cuore appena lo intona con il basso al livello del basso ventre, ben piazzato su quei due gamboni che sembrano sequoie).

Un concerto indimenticabile in cui non son mancati gli accenti polemici

verso il sistema da parte del pubblico, a Milano qualcuno depose una bandiera irlandese sul palco e Strummer la raccolse e la depose in primo piano su uno degli amplificatori mentre a Firenze faceva bella mostra di sé

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un enorme striscione che chiedeva la liberazione dei prigionieri politici dell'Irlanda del Nord e l'abbandono del territorio da parte degli invasori inglesi.

Un nuovo disco, anche questo affascinante, un 45 giri intitolato «Radio Clash», ce li ha ridati qualche mese fa in tutta la loro pienezza compositiva ed interpretativa mentre è di questi giorni la notizia che in Giappone hanno riscosso un successo incredibile, rinverdendo scene di isteria tipo Beatles, scene che di certo non hanno fatto bene al morale del gruppo che ha sempre rigettato simili manifestazioni di divismo esasperato. Poi l'annuncio dell'imminente uscita del nuovo 33, Combat Rock, l'arrivo, l'ascolto, la conferma: sono grandi. Sono sempre gli stessi. Il tempo non li ha scalfiti, sono sempre arrabbiati ma ora motivano con più dovizia di particolari questa loro rabbia.

Il 1982 ce li ha ridati come ci eravamo abituati ad averli: splendidi perché veri, unici perché sinceri, grandi perché umani, non pupazzi di quel terribile palcoscenico che è lo show-business del rock'n'roll. Ed è bastato ascoltare attentamente Combat Rock per rendersi conto che la spinta dei tempi belli è tutta ancora lì, sono ancora una miniera piena di gemme preziose, un vulcano di idee, sono sempre disposti ad accettare gli inviti culturali che vengono loro porti, sanno adattarseli addosso nel migliore dei modi e ciò che ne vien fuori è sempre qualche cosa che si eleva dalla mediocrità in cui si naviga oggigiorno, mediocrità che non saranno certo i vestiti strani, i trucchi o la profusione di sintetizzatori di tutti i tipi a cambiare. Per cambiare ci vogliono idee nuove, bisogna trasmettere sensazioni: loro riescono a farlo con naturalezza, per questo restano insuperati e perfetti.

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I primi due album

I negri hanno avuto un sacco di problemi ma non ci pensano due volte a lanciare un mattone ma gli uomini bianchi sono stati troppo a scuola dove hanno insegnato loro ad essere stupidi così noi siamo contenti, non proviamo risentimento, andiamo in giro leggendo giornali e indossando pantofole Rivolta bianca! Voglio ribellarmi. Rivolta bianca. Una rivolta che mi appartenga Tutto il potere è nelle mani di gente ricca abbastanza da comprarselo mentre noi passeggiamo per la strada troppo impauriti anche solo per cercarlo e tutti fanno quello che gli è stato detto di fare e tutti mangiano cibo spirituale da supermercato Rivolta bianca, voglio la rivolta. Rivolta bianca! Una rivolta che mi appartenga. Quando, nel 1977, per la prima volta a Londra esplosero queste parole,

ci furono molti che le archiviarono pensando di trovarsi dinanzi al solito gruppo punk in vena di invettive più o meno truculente. Nulla di più sbagliato, quel pezzo, inserito nel primo lp dei Clash, prefigurava già da allora quella che sarebbe stata la linea compositiva del gruppo, che negli anni si sarebbe affinata ma non sarebbe cambiata di molto, permettendo loro di diventare il polo di attrazione prima dei diseredati e quindi di tutti coloro che dalla musica si attendono sempre qualcosa di più di un bel motivetto, un numero di persone che è, fortunatamente, sempre in aumento. Ma il tema della rivolta bianca, in un momento in cui il National Front, il deputato Enoch Powell e molte altre forze reazionarie chiedevano urgenti misure al governo perché venisse impedito l'accesso in Inghilterra dei cittadini britannici che provenivano dalle colonie, provocò intorno al gruppo una ondata di malcontento che fruttò loro, incredibile ma vero, accuse di nazismo e di xenofobia, accuse che, riviste oggi, fanno sorridere.

All'origine dell'odio e disprezzo profondo che la stampa ed il pubblico inglese iniziarono a coltivare nei loro confronti sta anche l'abilissima campagna di grossi giornali a diffusione nazionale che dipinsero i Clash come gli epigoni di una violenza che si faceva risalire ai vecchi teddy-boys ma che ora era più pericolosa perché i giovani che essi rappresentavano mostravano di non avere uno straccio di ideale. Mai, bisogna dire la verità,

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analisi fu peggio azzeccata e bastò poco, il primo lp, per far ricredere coloro che fino ad allora si erano ritenuti in dovere di criticarli. Un album in pieno stile punk, testi violentissimi e strutture ritmiche tirate allo spasimo, con i finali quasi inesistenti tanto erano tronchi, furono gli ingredienti che colpirono di questi giovanotti che si ergevano, loro malgrado, a paladini di una rivolta sociale che travalicava il ribellismo puerile per puntare il dito accusatore verso il Sistema, un atteggiamento che resta ancora il loro motore, la loro spinta creativa più genuina. Un disco che ebbe anche un risvolto polemico, da cui nasceranno tutte le successive diatribe con la loro casa discografica, la CBS. Cosa era successo di tanto grave? Nulla, secondo la CBS, molto secondo i Clash e chi scrive. In primo luogo si era atteso troppo per stampare il disco negli USA, e si sa che se un disco sfonda sul mercato nordamericano vuol dire che il successo è assicurato, e poi la amara sorpresa che, per fare cosa gradita ai nordamericani, tra l'altro la CBS è di quelle dannate parti, un brano eccezionale come «I'm So Bored With The USA», mi sono così stancato degli Stati Uniti, venne cancellato dall'edizione americana del disco provocando le giuste ire dei quattro Clash.

Nessuno, salvo loro, protestò anche perché quel che contava era una realtà incontrovertibile, il disco era riuscitissimo, se ne parlava un po' dovunque, creando quella fama sotterranea che li avrebbe cominciati a far amare dai giovani di tutti i continenti, certi di aver trovato sì dei validissimi musicisti ma anche dei formidabili interpreti di tante loro ansie. Cosa conteneva The Clash? Nulla di eccezionale, si fa per dire, solo storie vere, vissute, come l'omaggio struggente alla vecchia amica Janie Jones, oppure un vecchio successo di Junior Marvin, cantante di colore validissimo ma poco conosciuto, «Police and Thieves», che riecheggia già il loro grande amore per il reggae.

Ma loro — al contrario di un trio a responsabilità limitata che nasceva allora con il chiaro intento di fare solo tanti soldi, e qui parliamo dei Police, bravissimi, meglio di loro musicalmente ma troppo attaccati al quattrino per entrare veramente nel cervello della gente — il reggae lo amavano, e lo amano, come espressione delle genti di colore oppresse in Gran Bretagna; quindi nelle loro bocche, dalle loro corde vocali esce reggae che si lega alla tradizione migliore di quella straordinaria musica, che è anche ribellione. «Police and Thieves» meglio di altri brani, nella loro nuova interpretazione, dove la voce di Strummer sembra carta vetrata in azione sulle pareti craniche, rappresenta assai bene l'atmosfera che sussiste ancora oggi nei quartieri-ghetto delle grandi città inglesi, quartieri come quello in cui erano cresciuti Jones e Simonon, Brixton, Clapham South, inferni metropolitani a cinque minuti dai paradisi della City, quartieri in cui non si vive, si vegeta attendendo un domani migliore che mai verrà.

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Tranne quello citato, l'lp contiene tutti pezzi originali — solo in «What's

My Name» c'è lo zampino di Keith Levine che subito dopo lascerà il gruppo — i primi scritti dalla coppia Strummer-Jones, ditta che da allora in poi sbaglierà raramente un brano. Ce anche inserito «I Faught The Law», di Curtis, scelto per la violenza con cui si scagliava contro l'establishment che si permetteva di condannare senza tentare di capire il perché di tanto risentimento dalle giovani leve della nazione. Un album da consumare solco dopo solco, che fece addirittura parlare di sé prima ancora che venisse stampato perché nel retro della copertina (davanti c'erano solo loro tre, nell'ordine Simonon, Jones e Strummer), combattendo non poco con le paure di certi funzionari della CBS che la ritenevano disgustosa e non consona ad un disco rock, c'era piazzata una foto in cui si vedevano un gruppo di bobbies, che la più bieca delle tradizioni vuole buoni e validi accompagnatori di vecchine e bambini che devono attraversare la strada, effettuare una furibonda carica. La scena, vera, era stata ripresa durante i violenti scontri che, nel carnevale giamaicano che si svolge ogni anno a Notting Hill Gate, avevano visto opposte forze dell'ordine e popolazione di colore, stanca di non poter neanche festeggiare senza subire angherie e provocazioni. E quella rivolta — che in tono minore era già avvenuta nella passata edizione e che aveva ispirato Strummer per «White Riot» — e quindi gli scontri, in cui ci furono qualche vittima e molti feriti, soprattutto da parte negra, non fecero che radicare certe idee nella mente dei Clash. È proprio una terra da garage, una terra di nessuno dove però si deve vivere, questa Notting Hill Gate, un territorio che vuol esser libero a tutti i costi, che vuol difendere le sue privazioni, un quartiere che verrà «usato» da Strummer come spinta propulsiva per comporre quel «Garageland» che di quei territori potrebbe, un giorno fantastico, diventarne l'inno tanto calza a pennello quanto Joe scriverà.

C'è gente che mi chiama e fa offerte per la mia esistenza Io voglio solo stare nel garage tutta la notte... Nel frattempo le cose si stanno riscaldando nel West End va bene… Contratti negli uffici e gruppi nella notte e qualcuno che mi chiede se Il gruppo indosserebbe divise Io non so nulla di cosa stiano facendo i ricchi Io non voglio andare dove vanno i ricchi Essi credono di esser così intelligenti, credono che sono nel giusto ma la verità è conosciuta solo... Noi siamo una band nata in un garage e veniamo da una terra di garage Quanto sano menefreghismo permea queste frasi, che splendida

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mancanza di rassegnazione aleggia in queste rimette. Certo, loro sono un gruppo nato da un garage, forse il loro studio a Chalk Farm, lo stesso dipinto da Simonon, conteneva auto, rinnegare la loro provenienza sarebbe stato come negare il passato e quello che avrebbero voluto continuare ad essere in futuro, e questo non può essere accettato a cuor leggero. Occorre andare avanti, provvedendo ad eliminare al più presto rivoluzionarismo e sensazionalismo di maniera tipici del punk: loro capiscono la lezione, e lasciano questo patrimonio di bambinismo ad altri che poi scompariranno lentamente, lasciando molte tracce in discoteca ma nulla nei cuori della gente. Il pubblico, si sa, è bestia dalla memoria corta e quindi il punk scomparirà inghiottito da quell'industria che, presasi per qualche tempo sputi ed insulti, ora si rifà industrializzando la ribellione: dato curioso, che non mancherà di mandare in bestia i Clash, è che ancora oggi, sui settimanali inglesi, nelle pagine degli annunci ce ne è uno che invita a comprare abbigliamento punk e come modelli offre proprio loro agli esordi della carriera, assicurando che, vestendosi in quel modo, lo spirito del punk non morirà mai.

Ci vuol altro per fare capitolare le teste dure di Strummer e Jones, la loro risposta è sempre intelligente e colpisce al cuore uno dei gangli vitali di

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questo finto rivoluzionarismo, quello che fa capo alle radio indipendenti, che tali non sono dopo che una legge le ha vietate e quindi le pochissime rimaste devono essere venute a patti con le autorità. A fare le spese di questa carica distruttiva è Capital Radio, la mitica stazione indipendente che prima minacciò il monopolio della BBC, operando da una nave e bordeggiando davanti alle coste inglesi, per poi approdare a Londra, in un magnifico grattacielo da dove credo sia difficile contestare. Capital Radio ha tradito le istanze di chi credeva nel suo messaggio di libertà musicale e quindi va colpita: Strummer lo fa con uno di quei brani efficacissimi che gli hanno permesso di spazzare via molti equivoci.

Sì, è tempo per lo spettacolo del dottor Goebbels! C'è una torre nel cuore di Londra con una stazione radio in cima Loro creano il ritmo della città loro fanno di tutto per far sì che l'azione si blocchi Tanto tempo fa erano pirati che inviavano onde dal mare ma ora tutte le stazioni sono ridotte al silenzio perché non hanno ottenuto la licenza governativa Voglio dirvi i vostri problemi telefonateci dalla vostra camera da letto se state avendo problemi con il vostro partner fateci sentire a tutti le novità Se vuoi sentire un disco ascolta la parola di Aiden Day sceglie tutti i successi del giorno per tenerti al tuo posto, ok Capital Radio... Non c'è male come sequela di ironiche accuse e, come se non bastassero,

ad un certo punto Strummer gratifica il signor Day in questione, uno dei d.j. più seguiti di Londra solo qualche tempo fa, del titolo completamente nuovo di «ministro delle pubbliche rivelazioni», modo come un altro per rinnovare l'accusa alla radio di non esser più la voce dei giovanissimi ma di Hamstead, uno dei quartieri più esclusivi e ricchi di Londra. C'è chi dice che, alla base di questo attacco, ci fosse il disinteresse della stazione radio per la musica dei Clash ma credo che accusa più idiota non possa esser formulata: se i Clash avessero voluto ottenere il successo, quello misurabile in sterline, da parecchio avrebbero deciso di tapparsi la bocca, dato che ogni volta che viene loro richiesto un giudizio sembra che abbiano fatto propria la lezione di Gino Bartali «Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare». Comunque, tornando a The Clash, non si può dimenticare il brano che, più di altri, fotografa le idee del gruppo sul periodo che Londra stava

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attraversando, un periodo di transizione in cui i cambiamenti si accavallavano giorno dopo giorno senza lasciare un attimo di tregua a chi ne avrebbe, magari, voluta per capirci qualcosa di più. Il brano è «London Burning».

Londra brucia! Londra brucia! per tutta la città, per tutta la notte tutti gridano con la testa piena di luci. Neri o bianchi voltano la faccia alla nuova religione tutti seduti in cerchio, a guardare la televisione. Ora sta bruciando di noia ora! Londra brucia chiama il 999! Londra brucia di noia ora! Londra brucia chiama il 999! Su e giù verso ovest, dentro e fuori le luci, che grande traffico, è così brillante. Non riesco a pensare ad un modo migliore di passare la notte se non girare correndo sotto le luci gialle! … Ora sono nella metropolitana in cerca della mia piattaforma Una porta a questo isolato, quest'altra a quello Il vento urla tra i palazzi vuoti in cerca di una casa ma io corro attraverso la pietra vuota perché sono tutto solo … Londra brucia! Apocalittica visione della città, fuori dall'iconografia classica. Che

coscienza civile e quanto coraggio per mostrare a tutto il mondo certi paesaggi forse nascosti nel nostro subconscio, e che facciamo del tutto per non portare a galla quantunque sappiamo esistere, quanta voglia di sgombrare gli equivoci e di cambiare le malefatte sussistono. E Londra di lì a poco brucerà sul serio, i benpensanti si rivolteranno nei loro salotti buoni grazie a musicisti come loro, i Sex Pistols, i Damned, gli Stranglers. Sarà tutto un immenso incendio di situazioni esplosive, di esperienze che tenteranno di travolgere, calpestare, il passato muffo e poco convincente, di allontanare frustri successi che hanno fatto ormai il tempo loro, ricollegandosi alle forze più popolari, alle minoranze, agli emergenti; ma, nella maggior parte dei casi, vedendo che l'opera si presenta difficile, molti demorderanno travolti anche dalla velleitarietà di certe loro proposte.

Per i Clash la tentazione dell'autodistruzione non viene neanche quando si trovano senza più bassista ed alla batteria avranno uno che va e viene; loro credono di essere nel giusto e si armano di tanta pazienza, il disco è andato abbastanza bene, si può sperare in qualcosa di buono per il futuro,

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il loro cantare l'emarginazione, di qualsiasi colore e qualsiasi ambiente sociale, lasciando però da parte la noia dei vieti ambienti borghesi da loro aborriti, è il motivo principale dello stare insieme, il loro fare ditta si basa essenzialmente su una frase che risuonava nelle lotte studentesche inglesi e americane degli anni sessanta: «smash the sistem», abbatti il sistema, modo di operare che comporta gravi sacrifici, rinunce e l'alienarsi qualsiasi aiuto da parte dei mezzi di comunicazione di massa, soprattutto dopo le accuse rivolte alla stampa e la composizione di «Capital Radio». Ma tant'è, il coraggio non manca, neppure la pazienza, così si arriva a trovare il sostituto definitivo a Terry Chimes, Headon, e a portare a termine il progetto di un secondo lp che dovrebbe rafforzare quel positivo responso da parte del pubblico che non accenna a scemare anche se la congiura del silenzio, o dello sberleffo, ancor più dannosa, si fa sempre più dura da abbattere. Give'em Enough Rope, dategli abbastanza corda (è ovvio, per impiccarsi), ha qualche noia di carattere «grafico» perché sulla copertina compare un distaccamento di militari cinesi con tre belle bandiere rosse che sventolano: per mettere a tacere i critici e fare uscire l'album la foto viene trattata in modo da non fare riconoscere troppo di chi si tratti, dopodiché il disco è pronto per l'uscita.

Anche stavolta i titoli non scherzano: «Stay Free», «Safe European Home», «English Civil War», «Guns On The Roof», spiegano subito, senza nemmeno mettere il disco sul piatto, che ci si trova dinanzi ad un'opera in cui i propositi della vigilia sono stati rispettati, schiaffoni a destra e manca,

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senza rispettare miti di qualsivoglia parrocchia. Le accuse di sovversivismo non si fanno attendere anche se il disco non convince come dovrebbe e spinge qualcuno a dire che la parabola è finita. Anche stavolta ci si sbaglia, il pregiudizio ha preso il sopravvento sulla ragione ed il giudizio è falsato dalla crescente consapevolezza che sarà sempre più difficile fare a meno dei Clash, loro sono la realtà più scottante in circolazione. Per chi scrive, l'Ip è album d'attacco, rock allo stato puro, dinamite che accredita i quattro giovanotti come band di tutto rispetto. Scorrete i titoli citati e riprendetevi un attimo in mano il disco: parlano ancora una volta di tensioni razziali; di come il razzismo sia arma pericolosa, e quindi da battere senza defaillancens di alcun tipo; di certe soluzioni individuali perdenti in cui a volte i giovani si vanno a ficcare non sapendo in questo modo di essere utili al sistema che riesce a disinnescare le rabbie; di rivolte. Non ci sono però quegli accenti che hanno contraddistinto la produzione del gruppo nel periodo precedente la realizzazione dell'album. I suoni sono accattivanti ma si sente che c'è quasi timore da parte di Strummer, Jones e Simonon nel lavorare con Headon, forse non sono convinti della perfetta scelta che hanno fatto, temono che il loro discorso, che abbisogna di una base ritmica pulsante, possa non essere portato a compimento al meglio. Sembrano legati e, in più, si sente che il materiale — il meno efficace tra quanto composto in tanti anni — risente dell'assestamento che si cercava disperatamente durante la sua stesura. La voce di Strummer appare sottotono mentre il basso è «cresciuto» a dismisura così come appare migliorato il senso del ritmo di Jones, legato ancora un poco per timore che Headon non abbia recepito quanto gli viene chiesto. Comunque, e non è poco per gente come loro, l'album vende abbastanza bene, una tournée massacrante negli Stati Uniti li fa conoscere anche lì; è strano che siano più amati negli States che nella loro terra, anzi, è comprensibilissimo: in Inghilterra i loro bersagli sono più facilmente identificabili mentre gli Stati Uniti, lo si sa da sempre, sono assai più onnivori. Quindi i timori riguardo a Headon svaniscono, si può tornare a pensare ad un nuovo album con maggiore calma e con la consapevolezza, rara gente che ha avuto sempre pressanti problemi di organico, che si è raggiunto un affiatamento ed una identità di vedute mai avute prima.

L'atmosfera più distesa venutasi a creare, le esperienze statunitensi, stimolano Strummer e Jones, a cominciare a preparare il seguito dell'album, un seguito che dovrebbe spazzare i residui dubbi sulle loro effettive doti di gruppo rock diverso dagli altri. Diverso, è ovvio, nel senso di più completo e valido. Il compito non si presenta facile, si sa che ora tutti attenderanno qualcosa di veramente compiuto, una prova più variegata e matura, e quindi ci si prepara a prodotti più complessi che possano soddisfare un gusto più esigente. Sembra facile. Ma non lo è. Riusciranno i nostri eroi nella loro impresa? Il seguito al prossimo capitolo.

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Londra chiama

Hai voglia ad avere dubbi, si possono prendere le posizioni che si vogliono riguardo a Give'em Enough Rope: l'album che segue, nel 1979, fuga ogni dubbio sulla reale validità artistica dei Clash; London Calling, lo si capisce subito, è un grande documento. Avvincente più di The Clash, completamente diverso dal precedente, London Calling è la dimostrazione di come, avendo idee in testa e buone mani e voci per eseguirle, il risultato positivo non può mancare. L'anno di realizzazione, il 1979, li ha visti protagonisti di tournées ma non si farà ricordare per qualche episodio in particolare se non per questo disco, cui lavorano ininterrottamente per

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mesi e che ricompensa delle fatiche sofferte. La produzione è di Guy Stevens, uno che se ne intende e che, al contrario degli altri produttori, dà una immagine piena dell'ideologia del gruppo, fornendo preziosi consigli sugli arrangiamenti e sui collaboratori che da quel disco in poi non cambieranno anzi si arricchiranno nel numero e nella qualità.

Se per The Clash si sentivano varie linee di tendenza — per quindici brani c'erano ben tre produttori, Micky Foote, Lee Perry e Bill Price — se per Give 'em Enough Rope era stato ingaggiato Sandy Pearlman — produttore di tutti i dischi dei Blue Oyster Cult, rock sudista della più bell'acqua con qualche guizzo del solista Donald «Bhuck Dharma» Roeser — stavolta Stevens uniforma le spinte di Strummer e Jones e dà loro modo di mostrare appieno la maturità raggiunta. Il disco esce sempre con qualche problema con la CBS che vorrebbe farlo pagare come doppio ma non riesce nell'intento perché i Clash si oppongono: per la loro produzione vogliono quello che definiscono un «prezzo politico» e alla fine la spuntano.

Che dire, allora, di London Calling? che è uno di quei dischi senza i quali il rock'n'roll non sarebbe andato avanti, e per andare avanti qui non si intende l'innovazione strumentale ma il significato di certe canzoni, di certi pezzi che definiti all'inizio difficili da ascoltare, con il passare del tempo sono sempre più orecchiabili sino ad essere considerati classici. Quattro facciate di musica in cui i Clash confermano la loro scelta di allontanarsi dall'immagine di «ragazzi di strada», con cui prima erano stati conosciuti, per raggiungere quella di musicisti veri che operano nell'ambiente con idee da rispettare anche se contrarie al disimpegno generale. Il gruppo ora è più internazionale; Londra chiama, certo, ma è anche lontana, i periodi passati all'estero si fanno sempre più lunghi, la loro produzione appare più aperta, più rivolta a tutto il mondo: se fino ad allora si erano dedicati ai diseredati che conoscevano, con cui erano cresciuti gomito a gomito, stavolta i loro interessi si sono internazionalizzati, si rivolgono ai proletari di tutto il mondo, dicono loro di ascoltare per cercare di capire. Ed infatti il discorso critico si fa più importante; se per la loro prima fatica i mezzi per capirli erano relativamente facili, bastava conoscere la realtà del ghetto per identificarli, ora occorreva lavorare sodo anche perché certi testi meritavano una attenzione particolare data la loro profondità. Per quanto riguarda a musica va detto subito che è predominante ancora 'influenza punk — è difficile scrollarsela di dosso ma ci stanno provando ripetutamente — su cui, più che in passato, viene immesso del sano reggae in cui, è ovvio data la struttura di tale musica, la fa da padrone il basso sempre più sensazionale di Simonon che, infatti, entra quell'anno (siamo nel 1980) in tutte le classifiche specializzate relative ai migliori bassisti. Un salto di qualità notevole, che coinvolge anche i compagni che ora sanno di poter contare sul taciturno Paul come sulla terza colonna portante del gruppo, dopo la voce di Strummer e la chitarra di Jones. Joe, da parte sua, inserisce spezzoni del suo passato di bluesman, di quando suonava con i 101'ers, ed il risultato è veramente buono, non facendo che rafforzare l'immagine della band in tutto il mondo, con l'eccezione della critica inglese che, salvo pochi illuminati, tende a minimizzare, ancora una volta, la fatica

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portata a termine. Sono diciotto le canzoni inserite nel doppio album ed ognuna, più o

meno, ha spunti che, al confronto con la produzione precedente, potrebbe da sola far diventare storico l'album. E storici restano i concerti che il gruppo per la prima volta dà in Italia, con un Joe Strummer che, per meglio far capire di primo acchitto come la pensa il gruppo, sulla chitarra, che continua ad usare poco e malamente, appiccica bene in vista un adesivo che inneggia al movimento sandinista per la liberazione del Nicaragua. Ma andiamo con ordine e cerchiamo di seguire il lungo, affascinante viaggio intrapreso dai Clash diretti verso... Londra che chiama.

Londra sta chiamando le città più lontane ora che la guerra è stata dichiarata e la battaglia infuria Londra sta chiamando il mondo sotterraneo venite fuori dalle vostre tane, voi tutti ragazzi e ragazze … L'età glaciale è arrivata. Il sole sta zummando sulle macchine Un errore nucleare, ma non ho paura Londra sta annegando e io vivo sul fiume Londra sta chiamando, si, anche io ero lì e sapete cosa dissero? Bene, qualcosa di quello che hanno detto era vero … Londra sta chiamando. Alla fine della telefonata dopo tutto questo, non mi daresti un sorriso? Lo scenario metropolitano di questa città, già apparsa in un loro

precedente successo, è cambiato, allora Londra bruciava e si parlava di bande, di situazioni, di movimenti: ora no, Londra chiama perché impaurita dalla follia nucleare, dalla follia di una società che non ha tempo di fermarsi per pensare. E i Clash, che questo tempo lo hanno, che questi timori li portano come bandiera, ecco che simili pensieri li lanciano nell'etere affinché vengano recepiti. Il pezzo, che dà il titolo all'album, sulla scena viene presentato con una violenza inaudita, batteria e basso non danno tregua, la chitarra di Jones pare impazzita e, su tutto, la voce di Strummer si erge come quella di un muezzin addolorato per tanta cecità, roca e disperata quanto basta per accalappiare il pubblico. Ma i Clash lo si è detto prima, stavolta vogliono mostrare diverse facce ed ecco che subito viene «Brand New Cadillac», cadenze lente in cui ci si diverte a fare il verso a certe pulzelle. Pochi versi, otto in tutto, giusto il tempo di rilassarsi, e poi piomba «Jimmy Jazz» apparentemente divertente ed invece storia pregna di dolore, storia forse vissuta in prima persona in cui ancora una volta il bersaglio risulta esser la polizia.

La polizia entrò per cercare Jimmy jazz

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dissi, non è qui ma sicuramente c'è stato prima oh, state cercando Jimmy jazz Non mi infastidite, non più Ironia che lascia il segno, fa più male di tanti discorsi, soprattutto se

permea un pezzo che verrà ascoltato con attenzione così come accadrà per «Hateful», odioso, scudisciata non male; ma tutti i pezzi riducono male il sistema, solo che stavolta lo fanno approfittando di arrangiamenti diversi che, a volte, ne mascherano al primo ascolto i veri intenti.

Bene, ho un amico che è un uomo Che tipo d'uomo? L'uomo che mi tiene lontano dalla solitudine Mi dà quello di cui ho bisogno Di cosa hai bisogno? Cosa hai Oh ne ho bisogno così duramente Oh, tutto quello di cui ho bisogno lui me lo dà tutto quello di cui ho bisogno lui me lo dà è odioso ed è pagato per farlo ed io sono così contento di non essere da nessuna parte Vedi, devo uscire fuori ancora una volta ancora una volta? Amico, devo vedere quel principale Ho ucciso tutti i miei nervi, i miei nervi? Che nervi? E non posso guidare così rapidamente Ho perso la memoria. La mia mente? In ritardo Non posso vedere così chiaramente Tutto quello che voglio lui me lo dà Una canzone che riecheggia non poco il grande amore letterario di

Strummer, quel George Orwell cui si era ispirato anche quando dovette dare un nome al suo primo gruppo, i 101'ers; una canzone che meglio d'altre esprime lo sgomento per certe situazioni di dipendenza psicologica ancora non bene compresa che opprime molti giovani alla ricerca di una identità. Qualcuno la liquiderà definendola «freudiana» ma non ha capito quanto sia importante il messaggio di «Hateful»: ci si batte contro i falsi miti che offrono tutto, per le ideologie che offrono impacchettate le emozioni e si spera che una descrizione così allucinata possa raggiungere il segno.

La prima facciata si chiude con «Rudie Can't Fail» Rudy non può fallire,

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che mette in luce il dramma della spersonalizzazione nella grande città, con il personaggio che va al supermercato «per vendere l'anima», e che si conclude con l'invito a bere «spremuta di cielo a dieci centesimi la bottiglia» Non c'è male come immagine, la rivoluzione dei testi va avanti, anche se appaiono più ermetici del solito colpiscono perché dietro alla presunta fumosità colgono vari aspetti del vivere quotidiano, dell'essere nevrotici giorno dopo giorno.

La seconda facciata sembra fatta apposta per Mick Jones: lui che ama tanto la storia, ed in particolar modo quella della guerra civile spagnola, si ritrova per le mani «Spanish Bombs», bombe spagnole, una storia che Strummer ha voluto scrivere pensando a quel periodo che tra l'altro fu vitalissimo per la cultura inglese degli anni Trenta, con legioni di intellettuali dediti alla causa repubblicana e molti di essi anche impegnati militarmente a sostegno della causa della Spagna libera contro il franchismo nascente e che si andava affermando affamando ed insozzando di sangue la nazione in nome di una fede, quella cattolica, che, come tutte le religioni, viene vista di cattivo occhio da Strummer.

Bombe spagnole in Andalusia, campi di battaglia nei giorni del '39 Per piacere, lascia la vendetta aperta, Federico Lorca è morto ed andato Buchi di proiettili nel muro del cimitero, le macchine nere della Guardia Civil

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Bombe spagnole sul Costarica, sto volando su un DC 10 stanotte Settimane spagnole nel mio disco casino, i combattenti per la libertà morirono Sopra la collina cantavano «Bandiera rossa», indossavano bandiera nera ma dopo che morirono la collina divenne dei passeri L'inno a favore dei repubblicani, il ricordo struggente di quei giorni

gloriosi va avanti; non manca un marchiano errore storico che attenti lettori di Thomas ed Orwell non avrebbero dovuto fare: è quanto meno strano che anarchici «indossavano la bandiera nera» e poi potessero cantare «Bandiera rossa», inno dei comunisti, visto che i secondi, imbeccati da Stalin, massacrarono i primi; comunque resta azzeccatissimo questo riferimento ai giorni nostri, al dramma del Costarica e dell'intera America Centrale e Latina in cui si vive sotto il terrore dei DC 10 simbolo dell'odiato yankee. La visione romanticizzata di simili avvenimenti non toglie nulla alla bellezza struggente della rievocazione, e, se si pensa che Strummer è impegnato da sempre nell'appoggiare i movimenti democratici di laggiù, il brivido per la schiena diventa più forte perché si sente quanto impegno, quasi da missionari laici, i Clash mettono in questo loro porgere storie.

Nessuno, prima di loro, nel rock si era mai fatto venire l'idea di narrare un avvenimento glorioso come la guerra civile spagnola, loro sono i primi con quella loro smania di internazionalizzare la lotta, con questo loro voler rendere omaggio a chi, ovunque, combatte o ha combattuto per la libertà e la dignità umana, contro le forze dell'oscurantismo che nel 1939 in Spagna erano rappresentate da Franco e che oggi, nei ghetti londinesi e di tutta l'Inghilterra, sono rappresentate dalla durezza della signora di ferro, il primo ministro Margaret Thatcher, nemico pubblico per chi va cercando nuove strade, nuovi sbocchi, alla politica ed alla vita sociale inglese odierna. «The Right Profile» altro non è se non quello di Montgomery Clift, un attore morto tragicamente dopo aver lasciato dietro di sé uno splendido ricordo come interprete (basta andare a rivederselo in Io confesso per capire di cosa stiamo parlando) e con l'album il pezzo c'entra poco o nulla solo che lo fa inserire Stevens, che di Clift era un innamorato postumo: così c'è anche l'apologia del divissimo che permette a Strummer di fare un quadro ben preciso dell'America in cui Clift si mosse e di cosa ha significato la sua esistenza, sempre fuori dal gruppo dell'ufficialità hollywoodiana, una esistenza bruciata in pochi anni e cessata tragicamente ed in modo romantico, si disse, per amore di Elisabeth Taylor. Clift tentò il suicidio alla maniera dei folli automobilisti schiantandosi contro un muro, si salvò ma da allora il profilo giusto fu irrimediabilmente perduto e lui morì proprio allora, dietro a quelle cicatrici, compiendo l'ultimo rito della solitudine che gli era rimasto, il suicidio nelle pareti domestiche.

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Quello che avvince di Clift, secondo i Clash, è il voler vivere la vita al di fuori dello show business, l'esserne travolto e l'avere la forza, anche dietro la spinta non indifferente di una delusione d'amore, di porre fine alla propria esistenza compiendo il più grande atto di disobbedienza civile che un uomo possa compiere, lo sparire da quel palcoscenico che è la vita. Liquidato il mito Clift e pagato il debito affettivo per conto di Stevens, ecco incalzare la paranoia di «Lost In The Supermarket», perso nel supermercato, una parodia della società dei consumi che risente di certi accenti punk e che venne influenzata dalla grande impressione che Strummer — ne parlò a lungo in una intervista — riportò dal modo di vivere degli americani, da quel loro frequentare queste «cattedrali del consumo», questi immensi altari viventi pieni di mercanzie innalzati a maggior gloria del dollaro.

Mi sono perduto in un supermercato Non posso fare spese più a lungo felicemente entrai qui per quella offerta speciale, personalità garantita Sentivo la gente che viveva nel soffitto urlare e litigare molto spaventosamente sentendo quel rumore fu la mia prima sensazione ecco perché è ancora intorno a me Sono sintonizzato, vedo tutti i programmi faccio collezione di punti dai pacchetti del tè, ho la mia grande discoteca vuoto una bottiglia e mi sento un po' più libero I ragazzi nell'entrata e i tubi alle pareti producono i rumori che mi fanno compagnia gente che mi chiama da lontano mi fa lunghe chiamate ed il silenzio mi rende ancor più solo Ma non è qui è scomparso Scommetto quello che volete che non avete mai incontrato un testo che

fotografa così bene la realtà americana, realtà fatta di esteriorità, che impressiona per la sua vacuità ed in cui è l'essere soli con sé stessi il dato dominante; condizione che non è certo simpatica per chi cerca un pizzico di umanità, che né tutti i programmi TV visti né tantomeno il goccio da ingollare possono rendere più appetibile. Arriva poi «Working For The Clapdown», come al solito eccezionale ma meno di altre composizioni, e poi «The Guns Of Brixton», le pistole di Brixton, un brano — il primo — scritto e cantato da Simonon che ogni volta che lo intona fa capire il perché siano in molti a ritenerlo la quinta colonna portante del gruppo, con quella

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grande forza interiore e una dose non comune di sensibilità che appunto viene messa in pubblico per la prima volta con questo pezzo, ambientato nel luogo della sua squallida infanzia di diseredato abbandonato dalla famiglia. La canzone è forse uno dei brani più violenti che i Clash abbiano nel loro repertorio e provocò non poche polemiche quando venne ascoltata per la prima volta perché si accusò il gruppo nientedimeno che di apologia di reato: avrebbero invitato al crimine, con i loro versi di una limpidezza più unica che rara, in cui, come è loro solito, la fa da padrone la violenza, ma quella degli oppressi che si ribellano per una vita più umana.

Quando picchiano alla tua porta di casa come ti comporterai? Con le mani sulla testa o sul grilletto della tua pistola Quando la legge entra nella tua esistenza che fine farai? Morto sul pavimento o in attesa nella fila della morte Potete schiacciarci potete riempirci di lividi ma dovrete rispondere alle pistole di Brixton Vedete lui si sente come Ivan nato sotto il sole di Brixton il suo gioco è chiamato sopravvivenza al fine del «The Harder They Come» sapete che questo significa nessuna pietà lo presero con una pistola nessun bisogno per la Maria nera addio al sole di Brixton Potete schiacciarci potete riempirci di lividi sì, al limite ucciderci ma le pistole di Brixton Quale violenza? L'autodifesa? Quale sopruso? Quello delle pistole di

Brixton o quello di una legge per la quale ci sono cittadini diversi per via del censo?

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Simonon ha le idee chiare, se con chi schierarsi e quando le accuse

saliranno di tono non farà che raccontare alcuni episodi da lui visti e vissuti di persona quando viveva a Brixton e saranno molti tra i suoi critici a non poter rispondere, schiacciati dalle semplici argomentazioni del gigantesco bassista.

Chi credeva, finite le prime due facciate, di trovarsi dinanzi ad altre due facciate un poco più rilassanti, appena messo sul piatto «Wrong'em Boyo» si dovette ricredere: il martirio, o la delizia, a seconda di come ci si pone dinanzi ad un disco dei Clash, sarebbe continuato a lungo perché il discorso si diversificava. Il brano che apre la terza facciata è la storia metropolitana della noia che attanaglia i giovani, i tentativi che si fanno per fuggirla, tentativi che spesso sfociano in atti di violenza gratuita solo in apparenza perché alla base ci sono strutture e lavoro che la società del benessere non concede a certe classi riducendole alla fine all'abbrutimento. Sembra un discorso razzista ed invece è un discorso realista e basta, prenderne atto significa farsi carico dei problemi di certe sacche minoritarie della società. L'appello accorato a Boyo che usa il coltello verso l'amico mentre gioca sembra un appello che viene da lontano, sembra farina del primo Pete Townshend, il cantore dei mods, il padre putativo, insieme a Lou Reed, del punk, colui che per primo, in Inghilterra, cantò il disadattamento giovanile, venne anche coinvolto in esperienze mistiche, e trovatele fuorvianti seppe narrarle in musica aprendo gli occhi a non pochi giovani. Lo stesso tema, ma qui il protagonista è un adulto, lo si ritrova in «Death or Glory» morte o gloria, altro interno borghese che, trenta anni prima, avrebbe fatto la felicità di un Osborne, spaccato familiare che Pinter potrebbe portare di peso nel suo teatro di allucinante normalità. La canzone, tra l'altro, si segnala per essere una delle poche, se non l'unica, in cui viene attaccata non solo la Chiesa ma anche, e pesantemente, la classe dei falsi rivoluzionari con la metafora, efficacissima, di colui che prima si fotte le monache e poi entra a far parte della chiesa: la politica del ripensamento è bollata per la sua profonda nefandezza e per la sua sordida doppiezza, per i Clash bianco è bianco e nero è nero, non esistono doppie interpretazioni, la vita è semplice e la loro semplicità è sinonimo di onestà, la stessa che si prefiggono nella vita privata.

«Koka Kola» sembra un quadro iperrealista di quella che è una grande multinazionale, con tutti i suoi pezzi grossi e le belle ragazze che li attorniano, con il ritornello della Coca cola, scritto non a caso con la K per significare l'anima perversa degli USA, forse l'immagine più genuinamente fuorviarne che abbiamo di quel mondo irraggiungibile e volgare eppure così appetibile grazie alle manomissioni dei mass media.

La facciata si chiude con un'altra immagine di solitudine, «The Card Cheat», che ci mostra questo vecchio uomo intento a scrivere una cartolina di buoni propositi, forse l'ultima, immagine accattivante ma che viene inficiata dal contenuto di quanto il personaggio vorrebbe mettere sulla carta. Ancora demitizzazione, allo stato puro, permeata da tanta ironia, l'ingrediente innovatore principale dell'intero album. L'ironia, badate bene,

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non vuol dire che quanto cantato non sia nelle corde vocali e nel cervello dei Clash, è solo un riappropriarsi di uno strumento di autodifesa potentissimo fatto già proprio da tanti illustri grandi del passato che appunto con l'ironia, riuscirono a smascherare certe situazioni.

La quarta ed ultima facciata ha una scena disincantata sull'amore tra giovani, «Lovers Rock», spezzoni di verità triste con la ragazza che deve inghiottire, e qui gioca molto la carta del doppio senso anche se è difficile vedere Strummer giocare con la volgarità, arma che non è nella sua faretra; prosegue con «Four Horsemen», un brano in cui è facile vederli dipinti — quattro nostri cavalieri dell'Apocalisse alla ricerca di verità, dispensatori di credi — e «I'm Not Down» che è come poche altre un cazzotto in bocca alle classi più abbienti.

Se è vero che un ricco conduce una vita triste e questo è quello che — giorno dopo giorno — allora cosa fanno i poveri delle loro vite? hanno nulla da dire — il giorno del giudizio? Sono stato battuto, sono stato gettato via ma non sono giù. Non sono giù, sono stato preso in giro ma sono cresciuto e non sono giù, non sono giù Da solo ho fronteggiato una banda di gente che mi derideva in strane strade mentre i miei nervi stavano scoppiando dalla rabbia ed io ho combattuto la mia paura, non sono corso via non mi sono fatto impaurire va giù e giù fino al pavimento giù e giù qualche altra depressione ma so che ci sarà qualche modo quando posso buttare tutto dietro alle spalle come i grattacieli che crescono piano dopo piano — non mollo Così tu cullati intorno e pensa che tu sei il più al mondo, finterò vasto mondo ma tu sei strade lontano da dove dove arriva il più rude Tu non sarai là. E con questo inno a non abbattersi dinanzi alle difficoltà della vita, unito

a quel «Revolution Rock» che sembra quasi una definizione della loro

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musica, si chiude l'album-rivelazione del 1980, due dischi che hanno fatto molto per il rock del decennio in corso, vera folgorazione che avrà un seguito. Staremo a sentire: mantenersi in sintonia...

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La rivolta mondiale a 33 giri

La buona impressione suscitata da London Calling, l'ottimo impatto che il disco aveva ottenuto in tutte le tournées compiute, fanno capire ai Clash che era venuto il momento di dimostrare ancora una volta che razza di «signor gruppo» fossero diventati e, dopo qualche mese passato nelle sale di registrazione — in Inghilterra negli studi di registrazione Wessex e negli Stati Uniti agli Electric Ladyland —, ecco comparire, nei giorni che precedono il Natale 1980, Sandinista, tre lp in una sola confezione, il loro album più compiuto e maggiormente politicizzato. Il disco ha un avvio lento, in Inghilterra (è ormai tradizione per ogni loro disco) non va bene, la critica lo tartassa ed il pubblico lo compra poco mentre in tutti gli altri paesi europei spopola nelle classifiche, entra in classifica per la prima volta un loro disco anche in Italia, un avvenimento, e negli Stati Uniti ha un successo incredibile, reso ancora più forte dai tour che il gruppo fa da quelle parti dove il materiale nuovo si amalgama subito assai bene con i loro vecchi successi.

Oltre che notevole per la sua mole — è difficile che un artista esca bene da una tripla prova su vinile, in trentasei brani si può perdere facilmente l'ispirazione — Sandinista è un monumento alla loro indiscussa maturità, un viaggio affascinante in trenta anni di rock'n'roll, una interpretazione tutta personale delle radici di questa musica e delle sue migliori espressioni di ieri, oggi e domani; un vero e proprio capolavoro, compiuto, simile, in questa chiave, a quello che era stato London Calling, forse meno immediato e più difficile da capire ed amare alla follia ma certo più compiuto in tutte le sue diversissime parti. Un lp che si può definire in tutti i sensi storico, una prova che dimostra, tra l'altro, come i Clash siano diventati padroni e signori della musica tanto da permettersi di eseguirne vari tipi, anche diversissimi tra loro.

Come in passato, il colore che predomina è il nero, il loro aggancio culturale con la comunità di colore inglese si è fatto più forte, molte delle atmosfere proposte nell'album non sono che abili mediazioni dei vari generi di musicalità nera alla quale hanno attinto rimanendo ben consci, e gridandolo a gran voce, di esserne debitori ed amanti fedeli. Sandinista apre un nuovo capitolo nella vita del gruppo, sotto molti aspetti; la band si rivela sgusciarne ad ogni tipo di classificazione, loro sono e vogliono essere contraddittori ed è forse questo che li rende sempre più affascinanti.

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L'album estremizza i discorsi che erano stati appena accennati, ma con

molta vigoria, in London Calling, addirittura ne introduce di completamente nuovi. Prima di tutto quello della politicizzazione: fino ad allora essa era molto confusa, ora l'impegno appare chiaramente nel suo terzomondismo più sfegatato, quasi fanatico, sin dal titolo, Sandinista, omaggio a Augusto Cesar Sandino, Che Guevara nicaraguegno degli anni trenta ispiratore dell'FSLN, l'organizzazione guerrigliera cui si deve l'abbattimento in Nicaragua del regime sanguinario del generale Anastasio Somoza sostenuto dall'imperialismo statunitense. L'altro elemento nuovo, dal punto di vista musicale, è il funky, gettato in ogni brano a piene mani, che costituisce la grossa sorpresa per molti dei fans: questa scelta, come detto in precedenza, sgomenta ed avvince, fa rivivere tanti anni di musica ma fa dire a qualcuno, poco esperto, che nell'album manca il rock. La critica è ingiusta e stupida perché Sandinista è l'album rock come pochi dato che il rock è una musica in continua evoluzione e Sandinista è album evoluzionista, purissimo «Darwin rock», roba che se non si sente con attenzione si corre il rischio, gravissimo, di sottovalutare: rischio che con i Clash non si può correre. La voce di Joe Strummer è al meglio, roca quanto basta per apporre il sigillo di autenticità a tutte le composizioni che, seppur variegate, restano quanto di più bello il rock, diciamo meglio, la musica abbia espresso nel 1981.

Sei facciate sono lunghe, stancherebbero qualsiasi fan ma loro, i Clash, sembra abbiano in testa la bilancia, riescono a miscelare ogni nota ed ogni verso con una maestria incredibile ed il risultato è un mosaico appassionato di rivolta e ballo puro, miscela esplosiva al punto giusto che fa saltare dalle sedie. Come è loro solito, il primo brano è sempre magnifico e questa volta lo è di fatto ed anche di nome: «The Magnificent Seven» in effetti, è una ballata sulla quotidianità che, sorretta dal grande volume sonoro messo insieme da Jones, Simonon e Headon, permette a Strummer di lanciare i suoi strali contro il conformismo ed il lento stillicidio che è la routine cui sono soggette tante persone.

Sveglia! Sveglia sono le sette di mattina Muovetevi per andare avanti ancora Acqua fredda sulla faccia vi porta di nuovo sull'odiato posto di lavoro dannati mercanti e voi banchieri anche, dovete alzarvi ed imparare questi ruoli l'uomo delle previsioni metereologiche ed il capo pazzo uno dice sole l'altro dice cattivo tempo Lavorare per un aumento, migliorare la mia stazione prendi il mio bambino e portalo alla sofisticazione lei ha visto gli annunci, lei pensa sia bello sia meglio lavorare duramente, ho visto i prezzi non importa perché è tempo di prendere l'autobus

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noi andiamo a lavorare e tu sei uno di noi gli orologi vanno piano sul posto di lavoro i minuti rallentano e le ore ritardano sensibilmente è il tuo profitto, la tua perdita ma tuttavia il campanello per l'intervallo del pranzo suona prendi un'ora e vai a mangiare hamburger al formaggio Cosa abbiamo per divertirci? poliziotti che picchiano zingari sui pavimenti ora il notiziario prende l'attenzione Ora tornate al lavoro e sudate ancora un po' il sole scivolerà via e voi finirete di lavorare non è bello per gli uomini lavorare nelle gabbie Sarebbe lungo continuare, ma anche affascinante. Quel che conta è che

«The Magnificent Seven» porta avanti un discorso di dura critica al corrente sistema di lavoro; qualche rima dopo vengono coinvolti anche i signori Marx ed Engels e la citazione non è peregrina: più di cento anni prima il secondo dei due signori citati, spinto dall'amico Marx, aveva scritto un famoso pamphlet politico intitolato «La condizione della classe operaia in Inghilterra» ed ora Strummer e Jones rivitalizzando il problema con questo apporto personale di tante immagini di cui siamo parte integrante, tanto più efficace in quanto vissuto sulla nostra povera pelle di schiavi del Duemila, schiavi drammaticamente inconsapevoli di questa ignobile condizione.

Dopo «The Magnificent Seven» scorrono capisaldi del nuovo corso clashiano quali «Hitsville UK», «Junco Partner», «Ivan Meets G. I. Joe» — una filastrocca che preconizza, dopo aver ampiamente deriso i sistemi politici vigenti in Russia e negli Stati Uniti, la guerra atomica, vittima la Cina — e quindi si arriva al brano che fece passare un brutto quarto d'ora al gruppo, quel «The Leader» che avrebbe scandalizzato qualsiasi

uomo politico, figuriamoci quelli del governo conservatore della signora Thatcher.

La moglie del leader prende un'auto blu nel buio per incontrare il suo ministro ma il leader non lascia mai la porta aperta così come fa sibilare la sua frusta proveniente dalla' guerra boera Indossò una maschera di cuoio per i suoi ospiti completamente nudo e con grande rispetto propose un toast per i voti che avrebbe conquistato il senso del potere, ed il pensiero del sesso! La ragazza lasciò che il grassone la toccasse

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fumi della vodka ed il senso di dover dar di stomaco l'autista aspettò per la macchina dell' ambasciata così la ragazza si lasciò toccare dall'uomo magro mescolando domande, risate ubriache l'auto del ministero aspettava là un ministro conosce i suoi affari bene, il pubblico avrà da leggere qualcosa di buono sul giornale della domenica Leggendo alcuni spezzoni del pezzo si capirà il livore del governo, e di

certi suoi membri, per «The Leader», ma se la composizione fece arrabbiare la Thatcher quella che segue e chiude la prima facciata, forse la migliore di Sandinista, dà non poco da riflettere a chi pensa ancora all'Inghilterra come al Paese che ha dato al mondo la Magna Charta, il Paese di tutte le libertà: «Something About England» cerca di mettere certe cose in chiaro e, secondo il modestissimo parere di chi scrive, ci riesce in pieno. È la stessa Inghilterra a parlare? Un suo cittadino? La jamesiana «stream ot consciousness», il flusso della coscienza? Non si sa, quel che è certo è che «Something About England» coglie nel segno e fa male.

Dicono che gli emigranti rubano i cappelli dei gentiluomini rispettati dicono che sarebbe tutto vino e rose se l'Inghilterra fosse di nuovo per gli inglesi soltanto. Bene ho visto un cappotto sporco steso ai piedi di una colonna sulla strada dentro c'era un vecchio a cui il tempo non avrebbe potuto più fare del male quando la notte fu lacerata dalle sirene quelle luci blu circondano il passato la sala da ballo chiamò per un'ambulanza i bari tutti chiusero velocemente A questo punto il vecchio uomo comincia a parlare del passato, ricorda

gli anni in cui è vissuto e da questo racconto viene fuori il ritratto di un paese che non c'è più, una realtà spazzata e spezzata dalla storia, rivivere come allora sarebbe un controsenso ed ecco che l'uomo, con il suo lasciarsi andare e voler raccontare, diventa la parabola stessa dell'Inghilterra, terra dai trascorsi gloriosi ma dal presente più che inglorioso. E l'esame che fa Strummer di quanto accaduto, e quanto sta accadendo, passa per immagini che certo avranno fatto accapponar la pelle ai più nazionalisti mentre, purtroppo, è quella la realtà, sono le parole di Strummer che dipingono meglio di qualsiasi analisi sociologica cosa sia oggi l'Inghilterra,

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uno scheletro elegante che si ricorda quando era bene in carne e sfruttava mezzo mondo.

La seconda facciata, strano a dirsi per un gruppo come loro che solitamente registra solo pezzi originali, si apre con una composizione di Eddy Grant, musicista negro che, dopo aver fatto i soldi anni fa in un gruppetto di successo, gli Equals, si è scoperto una vena reggae e la sta sfrattando magistralmente anche grazie alla morte di Bob Marley e all'appannamento del suo seguace più diretto Peter Tosh: il pezzo è «Police On My Back» ed esprime assai bene la condizione del nero in certi quartieri di Londra, dove la caccia all'uomo di colore è lo sport preferito dalle pattuglie della polizia. Subito dopo arrivano «The Call Up», la chiamata, inno alla rivolta niente affatto sottaciuto, «Midnight Log» «The Equaliser», «Broadway» ma anche qui il pezzo più riuscito è «Washington Bullets», proiettili di Washington, pamphlet durissimo nei confronti degli Stati Uniti, il nemico da battere da sempre per il suo modo di far politica.

Oh, mamma mamma, guarda là! i tuoi figli stanno giocando di nuovo in quella strada Non lo sai cosa è successo proprio laggiù? Un ragazzo di 14 anni fu ucciso laggiù Come ogni cella in Cile vi dirà, il pianto dei torturati. Ricordatevi di Attende e dei giorni prima; prima che venissero fuori le armi. Per piacere ricordatevi di Victor Jara, nello stadio di Santiago, è verità, di nuovo quei proiettili di Washington. La baia dei porci, nel 1961, Avana per i playboys nel sole cubano, per Castro è un colore, è più rosso del rosso, quei proiettili di Washington vogliono Castro morto. Per la prima volta in assoluto e da sempre quando essi ebbero una rivoluzione in Nicaragua, non c'è stata interferenza dall'America, diritti umani dall'Amerika! Bene il popolo combatte il leader ed in alto lui volò senza proiettili di Washington cos'altro avrebbero potuto fare? E se potrai scovare un ribelle afgano che i proiettili di Mosca non hanno trovato domandagli un po' di cosa pensa sul votare comunista...

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domanda al Dalai Lama sulle colline del Tibet quanti monaci gli presero i Cinesi? ... blocca tutti i mercenari e controlla quanti proiettili inglesi ha nel suo armamento... Che? Sandinista! Non si salva nessuno, l'invettiva è generale, Strummer dice di essere

democratico e questo testo gli dà ragione perché, se per alcuni versi si potrebbe pensare che l'abbia con gli Stati Uniti, ecco la critica, feroce, contro l'imperialismo russo e cinese mentre la battaglia sandinista contro il potere sanguinario viene dipinta con grande forza in quanto reale lotta di liberazione, senza colorazioni politiche accentuate. I Clash sono per l'uomo libero, sotto qualsiasi latitudine quest'uomo si trovi, e questo loro credo lo evidenziano ad ogni piè sospinto come il brano proposto prima dimostra. E serve tutto per questa loro battaglia, anche il buon vecchio valzer viennese, come dimostra «Rebel Waltz» il valzer del ribelle, ossessioni oniriche sul tema dell'eroe che si ribella, tanto per cambiare.

Ho dormito e sognato di un tempo lontano Ho visto un'armata di ribelli danzare nell'aria Sognai mentre dormivo così vidi i campi di battaglia una canzone della battaglia, nata tra le fiamme, ed i ribelli stavano ballando il valzer nell'aria Danzai con una ragazza al suono di un valzer che era stato scritto per essere ballato su un campo di battaglia Danzai al suono della voce di una ragazza una voce che disse «in piedi fino a che non cadremo stiamo in piedi fino a che tutti i ragazzi non saranno caduti» Mentre danzavamo venne la notizia che la guerra non era stata vinta cinque armate stavano arrivando con apparecchiature e pistole attraverso il cuore del campo asciugammo le notizie dalla fronte una nuvola coprì la luna un bambino pianse per il cibo sapemmo che la guerra non si sarebbe potuta vincere Quando il fumo delle nostre speranze salì alto dal campo i miei occhi giocarono attraverso la luna e gli alberi dormii e sognai vidi l'armata alzarsi una voce cominciò a chiamare in piedi sino a che non cadrete

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il suono era quello di una vecchia canzone dei ribelli Queste parole con il suono di un valzer sembrerebbero una accoppiata

impossibile ed invece «Rebel Waltz» è uno dei pezzi più riusciti dell'album, così come gli altri brani della facciata su cui fanno bello spicco il jazzato «Look Here» oppure «Somebody Got Murdered» in cui escono di nuovo fuori i cori che puntualizzavano certi brani degli esordi quando Strummer non era ancora signore e padrone della parte vocale del gruppo.

«The Crooked Beat», «One More Time One More Dud», con il suo reggae pulsante e vivace, compongono il piatto prelibato della prima facciata del secondo disco ed anche la seconda facciata si apre con un brano non dei Clash ma di un loro ormai fedele collaboratore, Tymon Dogg: «Lose This Skin», in cui la loro influenza è più palese che mai tanto che sembra frutto della collaborazione tra Jones e Strummer.

Se qualcuno ha sperato di trovare finalmente un po' di sanissimo rock'n'roll, con tanto di chitarre e batteria, si metta l'anima in pace: anche qui, come nelle precedenti tre facciate e nelle due che seguiranno il discorso musicale è intervallato da piano elettrico ed acustico, sassofoni, organo, violino elettrico, dando luogo a sorprese strumentali non indifferenti. Il personaggio della facciata — se ci avete fatto caso ognuna ne ha uno in particolare che primeggia su tutti — è Charlie, la star al napalm, il protagonista di «Charlie Don't Surf», una canzone che ha forse una delle strofe più riuscite e politiche mai scritte da Strummer: quel «Tutti vogliono comandare il mondo, deve essere qualcosa che abbiamo dentro di noi sin dalla nascita» che sa tanto di anarchico ma che anarchico non è essendo Strummer, come lui stesso dirà nel corso di un'intervista, un democratico e non un anarchico. «Charlie Don't Surf». con i suoi ritmi lenti e la voce stralunata di Strummer, è brano efficace come pochi, così come «Junkie Slip» e «Kingston Advice», reggae riuscitissimo dove la matrice negra si fa sentire al meglio, senza nessuna contaminazione bianca.

In questi giorni non si può comprare riso né lamette per il rasoio ma si può comprare un coltello In questi giorni si vede la gente correre non hanno cibo ma i ragazzi hanno pistole in questi giorni non lanciano pietre né usano la voce usano solo le pistole in questi giorni non mendicate per la vita volete tenere conto dell'avviso di Kingston per piacere non mendicate per la vita In questi giorni il beat è militante ci deve essere uno scontro non c'è un'alternativa in questi giorni le nazioni sono militanti abbiamo la schiavitù sotto il governo in questi giorni guardo al firmamento

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cerco segni che siano permanenti In questi giorni con niente amore da dare il mondo girerà con nessuno rimasto in vita In questi giorni non so cosa fare più vedo e più mi sento depresso in questi giorni non so cosa cantare più so meno il mio suono può uscir fuori

La violenza quotidiana, in cui ci dibattiamo viene fuori da questo avviso da Kingston, la capitale della Giamaica, la città in cui nacque e crebbe Bob Marley, ultima chiamata per chi vuole una soluzione alternativa alla bruttura della vita: l'immagine della gente affamata eppure sulla difensiva fino a tenersi pronta per uccidere è forte ma reale, il cosmo dei Clash attinge alla miserie e ne mostra forse gli aspetti meno conosciuti, il volersi difendere a tutti i costi, il voler difendere un nulla che nulla non è ma è vita, un nulla in cui sono racchiusi, per tutto il mondo, molti destini umani. Gli stessi destini che vengono fuori dalla Parata di strada, «The Street Parade», il brano che chiude la quarta facciata.

Mentre aspettava per la tua telefonata

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quella che non giunse mai come un uomo che sta bruciando stavo morendo di sete ... non sparirò mai o mi perderò in questa nebbia ... non scomparirò nella parata di strada Non è duro piangere in questi giorni piangenti prenderò il mio cuore a pezzi e lo porterò via pezzo per pezzo ma non scomparirò mai Ero in questo posto vicino alla prima chiesa della città vidi lacrime sulla faccia l a faccia di un visionario.. ...non sparirò mai per aggregarmi alla parata di strada scomparire e mescolarmi nella parata di strada... No al conformismo dunque, no all'abbrutimento dell'uno uguale a tutti

ma sempre in trincea a combattere per aver sgombra la mente e poter pensare e giudicare senza pregiudizi e condizionamenti politici. La quinta facciata si apre con un accenno ai problemi che una grande metropoli — in questo caso New York che è diventata un po' la loro seconda città, quella in cui, tra l'altro, registrano parte dei loro dischi — può avere dalle giuste rivendicazioni, tramite gli scioperi, di categorie di lavoratori e «Lightning Strikes (Not One But Twice)» è una «piccola lezione» di sindacalismo oltre che una fedele cronaca delle condizioni di disagio della popolazione. La megalopoli scoppia, c'è rabbia, violenza e di tutto un po' e chi meglio di loro, può cantare tale triste situazione? E un brano di rap, uno dei molti inclusi nel disco, potente per struttura ritmica ma anche per le immagini che riesce ad evocare, piccole annotazioni che parlano di Harlem, di denaro preso nella notte alla ricerca di un taxi, di treni in corsa e giovani che li dipingono, di bande ed anche di situazioni, con un salto geografico non indifferente, a loro assai vicine, quelle di Ladbroke Grove e Hounslow, due quartieri dove la tensione razziale e la lotta per il posto di lavoro è vitale (a Ladbroke Grove vive da qualche tempo anche Simonon che lì si è comprato una casetta di due sole stanze). Ed ancora, avanti nella bolgia dantesca della vita. Quale altro problema vi viene in mente? La crisi degli alloggi, la mancanza di un tetto sotto cui unire famiglia, affetti, aspirazioni? Niente paura, arriva «Up In Heaven (Not Only There)», incalzante invito a lottare per la casa — Simonon ed il fratello per anni hanno vissuto facendo gli

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squatters, cioè occupando case sfitte —, a crearsi un posto in cui vivere, non in quei mostruosi alveari dove si è costretti ora in condizioni disastrose. Sembra anche, in questo brano, che Strummer si sia occupato di architettura contemporanea perché i suoi appunti sul come vengono oggi costruite le case, e gran parte del brano è questo, sono perfettamente condivisibili; mura come fogli di carta, porte che lasciano passare il rumore, corridoi troppo bui, luoghi in cui devono crescere malamente le nuove generazioni. E come combattere tutto ciò oltre che con le armi della politica, dell'impegno, della denuncia schietta e continua? Con la musica anche, con «Cornei Soul», in cui le note volano nell'aria per chiamare a raccolta le armate dei diseredati e dare quindi battaglia.

Sangue, oro nero e la faccia di un giudice la musica sta forse chiamando un fiume di sangue? Batti il tamburo stanotte Alphonso lancia la notizia a tutto il circondario la grande riunione ha deciso che la guerra totale deve bruciare in tutto il circondario. Questo significa che devo impugnare il mio machete per tagliarmi la strada attraverso il sentiero della vita? Questo significa che dovrei correre con il cibo per cani, è questo il modo per una persona di sopravvivere? Lancia la parola stanotte per piacere Sammy stanno setacciando ogni casa nel circondario Non andar via solo ora, Sammy! Il vento ha spazzato via l'anima dell'angolo Dì le notizie per me Sammy Stanno setacciando ogni casa nel circondario ma non andare giù da solo ora, Sammy! Il vento ha spazzato via l'anima dell'angolo La musica sta forse cercando un fiume di sangue? L'anima dell'angolo: che bella immagine per identificare quei crocchi di

giovani neri intenti a discutere che si possono trovare in qualsiasi quartiere popolare inglese, che forte contrasto tra loro e la musica che spesso nasce da loro come sfogo, e che qui invece diventa strumento di morte! È certa l'influenza, anche in questo pezzo come già accadde per il primo lp, che Strummer ha avuto dal continuo stillicidio di aggressioni legate allo svolgimento del carnevale giamaicano di Notting Hill Gate, una occasione per riappropriarsi della propria identità, occasione puntualmente brutalizzata dalla polizia. Ecco, in questo senso, la musica è portatrice del fiume di sangue.

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Troppe riflessioni, sembrano essersi detti i Clash dopo «Corner Soul» facciamo un po' i matti, «Lt's Go Crazy». Errore, anche questo brano è sulla falsariga del precedente, ne ricalca il tema del confronto neri-bianchi poliziotti e prende, come è giusto, le difese dei primi anche se con un linguaggio meno diretto di prima tentando di mediarlo con una sezione ritmica che vivacizza maggiormente il motivo. Il risultato è più che soddisfacente come lo è per «If Music Could Talk» Se la musica potesse parlare, riflessioni a voce alta dall'interno di un gruppo, o — per meglio dire facendo un omaggio a Visconti —, gruppo di rock dall'interno, e «The Sound Of Sinners», Il suono dei peccatori, dove i Clash vanno oltre al funky ed al reggae e riscoprono persino il piacere del suonare e cantare uno spiritual; certo, proprio uno spiritual, con tanto di messianico dentro che sembra in certi punti una stralunata canzone dell'esercito della salvezza, rock però.

Quando le correnti di dio lavarono via la città del peccato dicono che era scrìtto nella pagina del Signore ma io stavo cercando quella nota jazz che aveva distrutto le mura di Gerico I venti della paura frustano via la malattia il messaggio sulla pasticca era valium come i pianeti formano quella croce dorata Signore ti vedrò sul santo incrocio Le guerre tribali che stanno bruciando la patria l'olio del male sta cadendo dal cielo il mare di lava sta scivolando giù dalla montagna il tempo spazzerà via noi peccatori con santi rotoli arrotolati date generosamente ora passate il cappello ora grazie Signore.

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Che ve ne pare come presa in giro? Niente male? Così come niente male

è la sesta ed ultima facciata di questo lungo viaggio in compagnia dei Clash, una facciata che racchiude come in un riassunto tutti i temi dell'album, con un pezzo davvero fuori del comune, «Version City», ed una riproposta di un classico, «Career Qpportunities», a suggello e conferma che quanto fatto in passato e quanto proposto con Sandinista sono un tutt'uno in una sfaccettata cosmogonia musicalpolitica chiamata Clash.

Ora hanno dimostrato di saper proseguire la loro strada, li attende un periodo di transizione in cui molte cose potranno accadere — tra l'altro si parla sempre più spesso dell'allontanamento di Headon dalla batteria ma sinora non se ne è fatto nulla — la più importante delle quali sarà, come vedremo, il rimanere fortunatamente loro stessi, paladini di un mondo che vuole cambiare, cittadini liberi di un universo noto sotto il nome di rock.

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Rock da combattimento: alcuni cenni

«Hanno fatto il loro migliore singolo da molto tempo a questa parte» ha

scritto il critico Paul Du Noyer su Melody Maker, un settimanale specializzato che in passato non ha certo risparmiato critiche ai Clash. Ma stavolta anche i nemici giurati del gruppo si sono dovuti chinare a tributare al 45 giri «Know your right», tratto dal loro ultimo album intitolato Combat Rock, il dovuto rispetto. Un brano eccellente perché dimostra che, a sei anni dalla loro nascita come gruppo, non hanno perso un solo grammo della loro grinta e come questo loro impegno politico si sia ormai impregnato così bene, e tanto, di poesia da piacere finalmente a tutti.

E, si badi bene, non è un demerito piacere a tutti: significa che il lavoro fatto in tutti questi anni ha pagato, un pubblico che prima non li considerava affatto ora è arrivato sulle loro posizioni musicali, le critiche feroci, gli sberleffi sopportati molto civilmente, la miseria che ha pulsato per tanto tempo nelle loro vene ha reso loro dei grossi servigi, ora la gente è cresciuta ed è disposta a recepire certi messaggi, certe tensioni che in passato non aveva digerito al meglio. E, come per London Calling e Sandinista, per Combat Rock si deve ancora una volta tirare in ballo la parola capolavoro, e non a sproposito, perché serve ad assemblare insieme un puzzle affascinante che altro non è se non i Clash versione 1982, sempre duri, bravi e maledettamente arrabbiati.

Diciamo subito che al primo ascolto, è una loro prerogativa, non è che si rimanga esaltati dall'album ma, dopo due o tre volte, ecco che il miglior album del 1982, sino ad oggi, prende il volo e comincia a martellare il cervello di chi ascolta con immagini come al solito riuscitissime e musiche che, anche questa volta, affondano nel rock purissimo, nel jazz, nel funky, nel reggae e nel rap, come era già accaduto per i trentadue brani di Sandinista.

Questo è un annuncio di pubblica utilità fatto con la chitarra. Conoscete i vostri diritti, tutti e tre, io dico Numero uno - Avete il diritto a non essere uccisi L'assassinio è un crimine A meno che non sia stato commesso da un poliziotto o un aristocratico Numero due - Avete il diritto di mangiare e avere soldi sempreché siate disposti a subire una piccola umiliazione, investigazione e se incrociate le dita riabilitazione

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Numero tre - Avete il diritto alla libertàààà di parola sempreché siate sordi abbastanza da tentare di utilizzarlo Scendete in strada, scendete in strada; correte Non avete una casa dove andare e distruggere alla fine vi leggerò i vostri diritti Avete il diritto di restare in silenzio. Siete avvertiti che ogni cosa che direte potrà essere usata contro di voi. Non c'è male per un primo brano di un lp che molti attendevano per

«chiamare fuori» dalla scena mondiale del rock i Clash, non è vero? Ma come, si mormorava, i Clash insistono ancora con la politica? Ma non lo sanno che il mondo è da anni «alla ricerca del ballo perduto», chi non è effimero non esiste nemmeno e la politica è una cosa vecchia, da dimenticare, un gioco da bambino poco cresciuto e noiosetto? Fortunatamente Joe ed i suoi compagni non hanno «capito» che è ora di «godersi la vita, riappropriarsene»; loro cantano di coloro, molti, che della vita non possono riappropriarsi perché ancora non gli appartiene, ed ancora una volta dalle loro fatiche in studio è venuto fuori un prodotto che, se volete passare qualche ora in modo spensierato, sarà bene non acquistiate mai.

Sarebbe esser facili profeti preconizzare per Combat Rock, Rock da combattimento, il successo di Sandinista, anche se oggi come oggi avere successo con un album simile vuol dire andare controcorrente. Quel che è importante è che l'lp ci ridà in pieno il valore di un gruppo che neanche la coalizione della critica più gretta e potente è riuscita a scalfire; quattro personaggi che, dal mitico 1977, dal punk dunque, hanno compiuto passi da gigante e tanta strada mostrano ancora di voler compiere. La strada dal marciapiede giusto del mondo, quello violento, cantato da Lou Reed, quello degli oppressi, dei diseredati, la strada che troppe rockstar, dimenticando spesso un misero passato, mai hanno voluto compiere, l'unica in cui loro si trovino a proprio agio. Combat Rock è una stupenda conferma e del suono Clash, così aperto ad ogni sollecitazione esterna, e della capacità creativa di Strummer, che più il tempo passa più diventa lucido. Ma bisogna stare ben attenti, il loro non è ricercare il successo puntando sul lato politico del pubblico, è un essere conseguenti ad oltranza.

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Ci hanno messo mesi a terminare l'album, durante la sua registrazione

ci sono state litigate epiche tra Jones e Strummer (quando Mick si arrabbiava si nascondeva dalla sua ragazza, la cantante Ellen Foley, a sbollire la rabbia, nel frattempo ha avuto tempo e modo di produrre il vecchio rocker inglese Ian Hunter e i Theatre of Hate, in Inghilterra) ma alla fine l'armonia e la stima che legano i due in profondità è tornata ed ecco il rock da combattimento. Il migliore.

Dodici brani in cui è stato coinvolto anche il grande poeta nordamericano Alien Ginsberg con l'amico Peter Orlowsky, ma il lungocrinuto Peter non ha voluto aprire bocca né incidere una nota, affascinato, ha dichiarato in seguito, dalla vigoria ritmica e dall'efficacia delle parole di Strummer e dalle invenzioni e rimasticature musicali di Jones, ancora una volta impegnato a pagare il grande debito alla cultura marginale negra.

C'è di tutto come al solito: l'ironia, l'omaggio a miti dimenticati, la rabbia contro la fagocitazione metropolitana, la storia di un amore tentennante, con tanto di rime in uno spagnolo molto divertente — loro amano la Spagna ma le lingue non sono mai state il loro forte —; quel che vien fuori è un affresco alla Jackson Pollock, macchie straordinarie di situazioni e stati d'animo in cui carattere predominante ha il loro impegno civico. No, non arricciamo il naso di fronte all'aggettivo civico, qui sta per democrazia e Strummer e gli altri sono democratici, seppur con diverse sfaccettature tra l'uno e l'altro, a questo loro credo hanno sacrificato per anni il successo e montagne di quattrini. Ma quanto sono bravi! Come si può non amarli dopo aver ascoltato un brano brevissimo ma intensissimo come «Sean Flynn»? Non sapete chi era? Perché è stato immortalato? Flynn era figlio del famoso Erroll — grande amatore d'ambosessi, interprete di famose pellicole d'avventura, che finì a far la spia ai suoi colleghi durante il periodo tragico della Commissione per le attività antiamericane presieduta dal senatore McCarthy — e, come il padre, aveva intrapreso la carriera dell'attore cercando di sfruttare una bellezza non indifferente, un fisico ineccepibile e, perché no, un cognome di sicuro effetto. Sbarcò anche da noi, fece qualche spaghetti-western, delle produzioni di serie C, tornò negli Stati Uniti, si mise a fare il giornalista e fu tra i primi ad individuare nel conflitto vietnamita un grosso conflitto colonialista e dal suo giornale si fece mandare laggiù per inviare, resoconti di quanto accadeva. Bene, non tornò mai, la giungla umida dell'Indocina lo inghiottì per sempre e non si seppe mai se a farlo scomparire fu una pallottola vietnamita o una americana, livida di rabbia per le prime circostanziate denunce che Flynn aveva inviato al suo giornale. Un personaggio che sarebbe piaciuto ad un Conrad. I Clash hanno voluto dedicargli un pezzo che è un inno alla libertà semplice, quasi una poesiola infantile ma che acquista di vigore ogni volta che la si sente.

Sapete che sentimmo il tamburo della guerra mentre il passato era una porta che si stava chiudendo Il tamburo batte nel terreno della giungla

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La porta si sta chiudendo la porta si sta chiudendo Pioggia sulle foglie. Il soldato canta Non senti mai nulla Essi riempirono in cielo con una tempesta tropicale Sapete che sentimmo il tamburo della guerra ogni uomo sa quello che sta cercando

Simboli, tanti: il tamburo che batte, il tempo che scorre, la vita, la

tempesta tropicale, il presagire dei terribili bombardamenti che sconvolgeranno il paese, il soldato che canta, la solitudine di chi combatte e non viene ascoltato. Simboli di un'epoca e di un'epica che, pur essendo ragazzi, Strummer e Jones avevano ben inquadrato. E la scelta fatta da Flynn appare loro la più giusta, quindi è giusto che gli venga dedicata una canzone anche perché negli Stati Uniti, in certi ambienti di cosiddetta sinistra, su Flynn è in corso da anni un dibattito che ricorda, in tono molto minore, quello che venne portato avanti sulla figura di John Reed. È un omaggio ad ideali che non possono morire, un voler dire a tutti che ancor oggi la loro scelta è quella del rigore anche se immalinconita, con i contorni del sogno. Come in Sandinista, qui si dimostra che tutto ciò che è valido,

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quel che conta oggi nella musica diventa immediatamente patrimonio dei Clash, come sta a dimostrare l'uso sapiente del rap a cui ben si confà la roca voce di Strummer. Hai voglia a dargli addosso, sentite un pezzo come «Ghetto Defendant» e poi decidete se sia il caso o meno di prenderli sul serio.

Affamato nella megalopoli Inchiodato nella megalopoli Drogato dalla metropoli Fare il verme nella metropoli Affamata oscurità del vivere chi si disseterà nel pozzo? Spese una vita a decidere come scappare da tutto ciò Una volta il fato aveva un testimone e gli anni sembravano amici i suoi bambini possono sognare ma i sogni cominciano come la fine difensore del ghetto questa è la pietà dell'eroina. Niente gas lacrimogeno neanche bastone che ti blocca mentre stai prendendo la città E si va avanti, con visioni sempre più cupe in un crescendo di pathos

che è quanto mai attuale dato che vi si parla di un ammiraglio e di sottomarini che fanno strane manovre, quasi che i Clash avessero presagito il conflitto anglo-argentino. Ma così non è, non può essere, non sono dei veggenti, sono solo quattro musicisti che subodorano certe situazioni, molte altre le conoscono e quello che propongono è appunto un esplosivo cocktail che anche stavolta ha colto nel segno. Tramite citazioni cinematografiche, l'uso delle armi — quante volte nelle loro canzoni riecheggiano le parole guns e rifle, sembra quasi davvero di essere in guerra — frasi storiche tipo «vendere è quello che fa vendere», uno scioglilingua implacabile ma che coglie assai bene la fuorviante natura del capitalismo, tutto Combat Rock scorre via in una serie di sussulti che non mancheranno di suscitare critiche anche da noi, sussulti che però non potranno nascondere quello che ormai è incontrovertibile: il fatto che ogni disco dei Clash sia un avvenimento e che questo avvenimento si arricchisca ogni volta di un aspetto nuovo della vitalità del

gruppo, vitalità che nasce dall'osservazione del mondo, dalla sua complessità e dal tentativo di spiegarlo, per primi a loro stessi e poi cercare di farlo agli altri. Una parola fine a tanto comporre ed interpretare? Impossibile, da buoni lavoratori sulla loro strada campeggia un grosso cartello: LAVORI IN CORSO.

Ragazzi lasciamoli lavorare, sanno il fatto loro, non ci hanno mai delusi.

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Dalla viva voce

L'anno precedente, a Bologna, in occasione del concerto gratis che i Clash avevano tenuto in piazza Maggiore, forse uno dei più intensi a cui abbia assistito nella doppia veste di spettatore e critico, parlare con loro non era stato possibile, quindi l'anno scorso, allo stadio comunale di Firenze, attendere per parlare, sentire cosa pensano di quel mondo che così bene interpretano nei loro pezzi, era giocoforza. L'attesa, consumata tra l'asciugare il copioso sudore frutto di tre ore di lotte sotto il palco, e l'andare su e giù dinanzi alla porta dello spogliatoio che li ospitava, è durata più di trenta minuti; poi, alla fine, dopo aver superato le ire del road-manager Rasta che ne protegge la privacy, il grande gesto, l'apertura della porta verde. Questo che segue è il resoconto dettagliato di un colloquio con tre membri dei Clash, un colloquio in cui Jones, Simonon e Strummer, stravolti dalla violenza messa nell'esecuzione dei loro pezzi, hanno saputo dire molto di loro stessi e della loro visione del mondo e della musica. Nel colloquio, avvenuto il 29 maggio 1981, vi sono accenni ad avvenimenti già accaduti quando questo volume uscirà: non ho voluto alterare nulla di quanto detto.

Mick Jones «Vieni avanti, Fidel» fa Mick Jones, seduto nell'angolo più lontano

dell'enorme camerone e Fidel, che poi sarei io, per via della folta barba, si fa avanti. Il vestito che indossa è un bel gessato anni cinquanta, le bretelle sono di un bel rosso vivo, non si intonano con il pallore del suo volto; gli occhi spiritati, scrutano lo stanzone e chi gli sta dinanzi con ingordigia. Un joint, spento — tenterà di riaccenderlo varie volte durante la conversazione — gli pende dalla mano destra mentre la sinistra mantiene in bilico una fetta di pane casareccio con tanto burro sopra. Sorride, come fa raramente sul palco. La prima domanda, a lui che è inglese e che milita nel più politicizzato dei gruppi, viene spontanea e riguarda il conflitto che oppone l'Inghilterra ai militanti cattolici del Nord Irlanda, conflitto che insanguina il Paese da anni: cosa ne pensa?

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«È una vergogna. Penso che le truppe del mio Paese dovrebbero ritirarsi.

Sarebbe ora, una volta per tutte, che intervenisse I'ONU a cercare di risolvere la faccenda. È una guerra sordida, che uccide in silenzio, di cui raramente si parla. Se ne è parlato perché sono morti i militanti dell'IRA ed anche questa credo sia una vergogna. Il mondo non dovrebbe scoprire adesso la questione irlandese, dovrebbe esserne sempre cosciente così come lo è stato, e lo è tuttora, per altri conflitti in altre parti del mondo».

Voi, i Clash, siete conosciuti, amati ed odiati come un gruppo che vuol

fare e fa politica con la musica che propone. Siete anche tra i pochissimi che lo ammettono nel vastissimo panorama del rock: mi sai dire, spiegare una volta per tutte il perché?

«Perché, amico, la politica è la vita, l'essenza stessa dell'esistenza di ogni

essere umano e senza politica non esisterebbe neanche il rock. Non fare quella faccia quando dico una cosa del genere, ricordati che il rock è nato dal blues e che il blues è la musica che i neri facevano per mantenere vive certe loro tradizioni. Quando i bianchi se ne impossessarono ci furono tanti, molti, troppi che ne dimenticarono le origini e pochi altri invece che le hanno perpetuate. Vedi, io personalmente, Mick Jones, e scrivilo pure, penso che sia dovere di ognuno interessarsi di politica, soprattutto se si ha una dimensione pubblica come noi».

Che vuoi dire? Puoi spiegarti meglio? «Ai Clash sono in tanti a guardare e quindi sarebbe bello per il sistema

che noi stessimo loro a cantare filastrocche senza senso come fanno tanti nostri illustri colleghi. Ed invece noi, i Clash, io, Mick Jones, e Joe, Paul, Topper, siamo lì con le nostre immagini forti, e vogliamo che sia sempre così, perché il pubblico che ci segue possa recepire quello che vogliamo dire; nella nostra posizione è molto importante avere un seguito e a chi ti segue non puoi dire stupidaggini e poi comportarti in tutt'altro modo. Non sarebbe serio e neppure giusto, non ti pare?»

Qual'è la tua origine sociale? «Sono nato in un quartiere molto popolare di Londra, Clapham South.

Sono nato il 26 giugno del 1955. Sono uno della classe operaia, mio padre faceva il tassista, mia madre ad un certo punto — avrò avuto sette, otto anni — non l'ho più vista, era andata in America, e quindi sono andato a stare da mia nonna. Poi ho vissuto anni a Brixton, l'unico quartiere di una città inglese dove esista un penitenziario, una sacca di miseria nella grande Londra, una sacca di miseria che ha sempre dato fastidio. Un ghetto per neri o bianchi poveri. Lì a Brixton per farti avanti nella vita, per non morire schiacciato dall'indigenza, hai solo quattro possibilità: o tiri di box o giochi al pallone o suoni o diventi un criminale. Io ho scelto di suonare, mi è

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andata bene ma ti assicuro che la rabbia del ghettizzato mi è rimasta ancora dentro, me la sento pesare addosso e non credo che me la scrollerò tanto facilmente anche perché non voglio dimenticare».

Vieni da Brixton, sei nato a Clapham South, due quartieri «caldi»: mi

puoi dire cosa è accaduto veramente tra la polizia ed i negri del quartiere? Sulla stampa italiana si è parlato di scontri razziali, di violenze inaudite: quale è la tua versione dei fatti?

«Ma quali negri! Non dar retta alla stampa, dài retta a me, il giornalista a

volte è al servizio del Sistema, è un servo. Tra polizia, negri e bianchi se vogliamo essere precisi. La polizia è stata attaccata da entrambi i gruppi razziali stanchi di subire violenze. Non ti puoi muovere che subito i poliziotti ti sono addosso e ti picchiano. Brixton è un ghetto, per bianchi e negri, come ti ho detto prima. Non si trova lavoro, si è costretti a vegetare, se vai in un posto e chiedi di lavorare appena sanno che vieni da lì ti guardano storto, come se li volessi fregare. I giovani hanno diritto di lavorare. Adesso come nel 1977 quando nacque il punk. Ancor di più oggi abbiamo diritto a lavorare vista la politica della Thatcher».

Che opinione hai della Thatcher? «Il minimo che possa dire è che sta sbagliando tutto, in Inghilterra come

in Irlanda. Non mi sta bene per niente». Mettiamo un attimo da parte la politica, anzi, non parliamone più, e

cerchiamo di fare qualche domanda riguardo al tuo campo specifico, in cui operi, la musica. Che ne pensi della nuova scena musicale che si è andata affermando lo scorso inverno? Parlo, per intenderci meglio, di gruppi come i Classic Nouveaux, Spandau Ballet, Duran Duran, Visage, Depeche Mode?

«Non mi hanno mai interessato e tuttora non mi interessano. Non li

riesco a capire. Che cosa vogliono? Che cosa si propongono? Di cambiare il mondo con qualche piega ed un po' di trucco. Per me, personalmente, nella vita c'è qualcosa di più importante del vestirsi da dandy. Vuoi proprio sapere come la penso su di loro e su tutto il loro cosiddetto movimento? Sono dei fascisti, anche abbastanza stupidi».

Non ti sembra un po' forte come giudizio? Sono fascisti solo perché si

vestono diversamente da te? Non ti sembra, senza offesa, tuo l'atteggiamento fascista nei loro confronti? Non pensi che ognuno si possa e debba vestire come gli pare?

«Mi spiego meglio visto che non hai capito. Per me, come ti dicevo prima,

nella vita c'è qualcosa di più importante di un vestito e quindi vedere che loro passano il tempo ad abbigliarsi mi dà l'idea che lo facciano per sviare le menti di chi li segue da altre faccende più impellenti, e non solo

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politiche. Il mio atteggiamento fascista? Non credo: forse un po' rancoroso. Niente di più, credo».

Che ne pensi della critica musicale? «Se noi, come molti critici dicono, siamo soltanto degli imbecilli buoni a

nulla, beh, loro sono certamente peggio di noi. Fanno le critiche ai dischi soltanto se le case discografiche assicurano loro qualche centimetro di pubblicità in più... Pensa un po' a cosa siamo ridotti».

Sapevo già della tua posizione sulla critica musicale e ti ringrazio della

puntualizzazione. Delle case discografiche che mi dici? «Non mi stanno bene. Nessuna. Neanche la mia. Fanno il loro mestiere,

che è poi quello di sfruttare gli artisti, i musicisti. Non si impegnano mai per cercare nuovi talenti; sai quanti bravi musicisti sono finiti nel silenzio per l'ignoranza dei dirigenti delle case discografiche? Milioni. E questo per me è uno scandalo, uno dei tanti del mondo della musica d'oggi».

Dopo la tournée italiana che progetti avete? Siete stati contenti

dell'accoglienza che avete ricevuto qui da noi? «Contentissimi. L'Italia è un Paese in cui si respira aria diversa, in cui si

sentono, si vivono sulla pelle i conflitti sociali e questo a noi piace; forse ora capisco meglio perché molte rockstar non vogliono esibirsi qui da voi, il pubblico è così caloroso, a molti metterebbe quasi paura. Progetti dicevi... Tra poco, alla fine dell'estate, una serie di concerti a New York. Non mi chiedere perché solo a New York perché m'arrabbio. La nostra casa discografica non ci ha aiutati e quindi noi forse affitteremo un piccolo teatro, di non più di cinquemila posti, e ci esibiremo là per una settimana di seguito. Vedremo la reazione del pubblico. Ah, si, poi forse io e Joe comporremo la colonna sonora del nuovo film di Martin Scorsese con Robert de Niro come protagonista. Immigrants si dovrebbe chiamare la pellicola, ma ancora non è stato deciso definitivamente. Scorsese vorrebbe che facessimo anche una parte, staremo a vedere. Personalmente non mi sento tanto attore, vedremo che ne dirà Joe tra un po'».

Sai niente altro sul film? «Mah, è la storia drammatica di una delle tante lotte tra poveri che

ricorrono spesso. È ambientata agli inizi del secolo, a New York, e narra le lotte sanguinose tra i primi immigranti irlandesi, italiani, polacchi. Una storia come tante altre, che la storiografia ufficiale ha sfiorato e che mai nessuno, salvo qualche scrittore, ha mai trattato fedelmente».

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Posso farti una domanda personale, che forse ti apparirà stupida? «Certo, perché no?». Se non fossi diventato il Mick Jones che suona la chitarra solista del

gruppo dei Clash, se non fossi il compositore di tanti brani celebri insieme a Joe e Paul che cosa avresti voluto essere?

«Mick Jones, prima studente d'arte e poi pittore: Potrà sembrarti una

battuta ma io ho studiato sul serio pittura. Alla Chelsea School of Arts. Dipingevo niente male. Dipingere mi piace molto anche oggi. Mi rilassa. Anche Paul dipinge ma lui ha tutto un altro stile dal mio, lui dipinge anche sui muri, è molto realista».

E tu invece che dipingevi? Che dipingi quando vuoi rilassarti? «Mi riuscivano molto bene i nudi di donna ed ancora adesso; non

scherzo, sai?». Spesso chi sente un gruppo di rock pensa che a suonare sia gente senza

cultura, che non ha mai preso un libro in mano. Tu sei stato, sei un buon lettore? Provi piacere con un libro in mano? Quali libri ti hanno formato di più?

«Mi piace leggere, mi è sempre piaciuto. Quando cresci solo, che c'è di

meglio di un buon libro per dimenticare certe tristezze? Sì, provo piacere a stare con un libro in mano ma con il poco tempo che ho a disposizione ormai è un piacere che assaporo sempre con maggiori difficoltà. Quali libri mi hanno formato? Sicuramente quelli di Christopher Isherwood e di Jean Cocteau di cui ho letto tutto quello che c'era da leggere. E poi i libri di storia, soprattutto quelli che trattano della guerra civile spagnola, l'interesse che ebbero gli intellettuali inglesi come Spender e Auden per quel conflitto. Ho amato molto Omaggio alla Catalogna di George Orwell, uno degli autori preferiti di Joe. Mi piace anche Lorca, Garcia Lorca, quello ammazzato dai franchisti, il poeta. Davvero grande. Graham Greene. E altri autori inglesi contemporanei tipo Iam McEwan, uno giovane che sa scrivere in un modo stupendo, che ti sa coinvolgere con le sue storie freddamente metropolitane, uno che ha sicuramente esperienze in comune con me e con molti della mia generazione».

Voi come gruppo siete nati con il punk: puoi dirmi cosa è stato, darmene

una definizione, se vuoi darmela, dirmi come è andata a finire? «È vero, siamo nati con il punk ma siamo riusciti ad evolverci perché la

nostra musica, quello che vogliamo dire, non era circoscritto. È stato un caso, o forse no, che siamo esplosi nel 1977. Cosa è stato il punk? È stato un fenomeno che ha rivoluzionato la musica e certo costume ormai

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stagnante da anni, un movimento che ha spazzato via tanti preconcetti ma che è morto per i nuovi preconcetti che si era creato. Il punk è morto, quello spirito di rivolta che lo pungolava, lo stimolava è completamente rientrato. I tempi ormai sono cambiati e quelli che cercano di farlo resuscitare sinceramente mi fanno un po' pena».

Torniamo al cinema: come è andato il vostro film Rude Boy? «In Inghilterra male, lo hanno accolto in modo pessimo forse perché è

una storia in cui moltissimi giovani si sono riconosciuti. Ma non ci diamo per vinti, anche perché sappiamo che non esiste solo la critica inglese, ma che nel mondo sono in parecchi a seguirci ed apprezzare quel che facciamo».

Sempre a proposito di film ho letto che stareste per farne un altro: puoi

dirmi qualcosa di più? «È un progetto in stato avanzato. Lo gireremo, se ce la faremo, a New

York. Si intitolerà The Magnificent Severi Days In New York. Il titolo lo abbiamo preso da un brano del nostro ultimo album, Sandinista. Non sappiamo esattamente cosa sarà ma speriamo che sia ancora più interessante di quanto non lo fosse Rude Boy che a noi continua a piacere».

Mick, perché in Inghilterra non vi amano? «Chi dice che in Inghilterra non ci amano? Il pubblico ci ama e ci segue,

è l'establishment che ci odia, non ci sopporta. L'establishment, che vuol dire anche stampa specializzata e mezzi di comunicazione di massa in generale, con la TV in prima fila. Una risposta alla tua domanda io ce l'ho, da anni, da quando hanno visto che avevamo successo. Diciamo troppe verità, è questo che dà tremendamente fastidio, e dire la verità non sta bene. Ma noi ce ne fottiamo. Si, scrivilo; i Clash se ne fottono. I Clash sono sì un gruppo musicale, ma sono anche quattro persone che hanno le loro idee in testa e che queste idee le vogliono esprimere. Suoniamo ma vogliamo fare anche altre cose. E questo, credi a me, dà fastidio quasi quanto il fatto che cantiamo. Te l'ho detto prima però, noi ce ne fottiamo».

L'ultima domanda per chi, come il sottoscritto, vi ama in modo

maniacale: mi vuoi dire esattamente come. andò il famoso incontro tra te e Joe Strummer, l'incontro che poi ci ha dato i Clash nella splendida versione in cui li abbiamo conosciuti, prima tramite gli album e poi dal vivo?

«Ancora... Mi sono stufato di raccontare questa storia. Ho cominciato a

suonare con i London SS, poi li ho lasciati, Paul nel frattempo si era comprato un basso, lo avevo spinto io, formammo qualche gruppo di brevissima durata — mi ricordo che ci chiamammo Heartdrops, Phones, Mirrors, Outsiders e Psychotic Negatives — quando un giorno, tutte le sere

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andavamo a sentire musica e così avevamo anche sentito in azione Joe ma non mi era piaciuto il gruppo, passeggiando insieme a Glen Matlock (che allora suonava con i Sex Pistols) e Paul per Golborne Road non incontrammo Joe. Nessun insulto, dai retta a me: gli dissi solo che non mi piaceva il suo gruppo ma che pensavo che lui fosse grande. Lui poi fu folgorato dalla musica di Johnny e dei suoi, lasciò i 101'ers, contattò il nostro manager Bernie Rhodes, ci incontrammo e la storia è fatta. Sei contento adesso?».

So che sei stanco ma vorrei farti l'ultimissima domanda: quando eri più

giovane eri sempre così arrabbiato? In cosa credevi? Quando hai cominciato a suonare?

«Tre sono, amico. Tre domande e mi avevi detto di farne una sola.

Quando avevo sedici anni pensavo di avere solo due possibilità per migliorare la mia vita: il foot-ball e la musica. Il rock. Scelsi il rock anche se con un pallone al piede non ero male. Perché? Il rock non mi limitava. Ed era più eccitante del dare due calci ad una palla. Andai al mio primo concerto rock che avevo dodici anni. Un concerto gratis, ad Hyde Park, con i Nice, i Traffic di Steve Winwood, ah sì, i Pretty Things, quelli di Pretty Flamengo. La prima chitarra che mi comprai fu una Hofner di seconda mano, la pagai sedici sterline e credo proprio che mi truffarono. Vuoi sapere che fine fece? La vendetti a uno dei Sex Pistols, non mi chiedere chi perché non te lo dirò mai, per trenta sterline».

Si mette a ridere, capisco che è stanco, altri vogliono parlare con lui, gli

lascio indirizzo e numero di telefono; mi abbraccia, «Ciao Fidel, sono stanco». Ciao Mick.

Joe Strummer Vestito di scuro, lo sguardo ancora lucido per l'energia lasciata sul

palco, la voce roca per le troppe sigarette, Joe Strummer, ma in realtà si chiama Mellor, sta seduto lontano dagli altri membri del gruppo, a sbollire la rabbia perpetua che lo rode dentro, gongolandosi forse per il magnifico spettacolo che con i tre compagni ha appena finito di dare. Avvicinarsi è fendere un gruppo di fans che lo stanno assediando con un inglese che ha dell'orrendo, mettersi accovacciato ai suoi piedi con il collega Massimo Buda, clashologo di fama mondiale: non è facile ma alla fine l'impresa riesce. È lui il leader indiscusso del gruppo, è lui che scrive le splendide parole delle canzoni che li hanno resi famosi, è lui che sulla chitarra ha lo stemma del movimento di liberazione del Nicaragua, è soprattutto lui quello che ha voltato le spalle alla borghesia e ora con la chitarra a tracolla la attacca senza risparmiarle critiche feroci e che lasciano il segno.

Joe, posso farti qualche domanda? Sono un giornalista romano, è la

seconda volta che vedo un vostro concerto e vorrei poterne sapere di più su

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di te e sul tuo gruppo... «C'è poco da sapere. Noi siamo un gruppo molto poco organizzato, lo

siamo stati sin dagli inizi, quando provavamo a Chalk Farm. Noi mica siamo come i Jam, dove c'è papà Weller, il padre di Paul Weller, cervello del trio, che pensa a tutto. Trovo quel modo di lavorare quasi inumano, trovo inumano il modo in cui si mettono seriamente al lavoro e balzano al numero uno ogni volta che gli va. Sono contento di essere come sono, di suonare in un gruppo come i Clash. Siamo molto caratteriali, passiamo per periodi di grandi depressioni, ed allora non ci va di fare nulla e non facciamo proprio niente, ed altri momenti in cui, invece, vogliamo fare un sacco di cose e ci divertiamo da matti. Adesso siamo in un brutto periodo, ogni volta che ci alziamo ci rimettiamo in piedi alla belle meglio ed andiamo avanti, abbiamo un tour europeo e non possiamo comportarci male con chi ci segue».

In momenti come questo non ti è mai venuto in mente di piantarla di

suonare? «Eccome. È così facile decidere di piantarla, mandi tutto a quel paese:

ma dopo che fai? Ho visto molti amici che lo hanno fatto e poi sono rimasti in attesa di tornare sulla scena con qualcosa di potente che non è mai avvenuto. È un segnale di allarme cui noi facciamo attenzione».

E quando siete stanchi, come in questo momento, come fate a pensare a

quello che dovete registrare? «Non ci sono problemi, registriamo quello che vogliamo e quando

vogliamo noi. E niente più. Non diamo molta attenzione a come registriamo, certo stiamo attenti a non fare errori ma non siamo di quelli che si impegnano eccessivamente in studio. Ci interessano le cose che vogliamo dire e poi, quando il disco è uscito e senti che la gente lo ascolta, lo canta, gli piace, ci rendiamo conto di aver fatto un buon lavoro. Pensiamo che questa sia la migliore, e la più onesta, maniera di lavorare. O forse non ne abbiamo trovato una migliore».

Che cosa pensi della scena musicale attuale? Nel mondo si assiste ad

una rinascita del genere heavy-metal, che ne pensi? E del punk dei giorni nostri cosa puoi dire?

«La nuova ondata di musicisti che hanno intrapreso nuovamente

l'heavy-metal penso sia ormai arrivata ad un vicolo cieco da cui sarà difficile che possa uscire. Non credo che le cose che fanno oggi possano durare a lungo. E la riprova di quel che dico è che se metti sul piatto un 33 giri di dieci anni fa del genere ti accorgi di quante idee ci fossero allora e quante poche siano oggi. Il punk? Noi ci siamo evoluti da quello che eravamo qualche anno fa, penso che anche altre bands ci stiano provando.

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Hanno diritto di fare la musica che fanno perché forse non hanno altro da proporre; ma credo che da qui a cinque anni non suoneranno più la stessa musica perché avranno fatto più esperienze. Ed allora perché richiudersi in sé stessi, come fanno adesso certuni, magari in casa, a suonare, invece di proporre questa nuova musica a tutti?».

Sinora hai parlato tanto di musica ma tu scrivi i testi: che mi dici delle

parole che hanno fatto grandi i Clash e con loro Joe Strummer? «Io non sono grande, sono uno che, come tanti, scrive canzoni. Faccio un

lavoro come un altro, che mi piace più di tutti gli altri, questo sì. Devo essere sincero, sono orgoglioso del fatto che i nostri dischi sono ascoltati in tutto il mondo. Non nego che certe volte avrei potuto metterci dentro qualche frase stupida ma ad effetto, di quelle che entrano facilmente nel cervello, ma non l'ho mai fatto; come gruppo non abbiamo mai perseguito questa politica perché crediamo che in un testo ci debba essere messo qualcosa che significhi qualcosa, un qualcosa che farà magari pensare la gente e cercare di saperne di più».

Il vostro quarto album, Sandinista, credo proprio sia un capolavoro, un

disco da tenere in prima fila tra quelli che hanno contribuito a fare la storia del rock: potresti raccontarmi come è andata?

«È nato come tutti i nostri lavori. Ci è cresciuto dentro. Siamo andati a

registrarlo agli studi Electric Ladyland di New York dopo il tour che abbiamo fatto in USA nel febbraio scorso. Abbiamo fatto un po' di musica ed abbiamo visto subito che quello che usciva fuori ci piaceva molto. Sei mesi dopo siamo tornati in studio ed abbiamo inciso qualche altro brano. Li abbiamo uniti insieme, quelli registrati prima e quelli di allora, e ci siamo accorti che c'era materiale per tre album invece dei soliti due. Ci siamo dovuti mettere d'accordo con la nostra casa discografica che non credeva nel triplo e quindi abbiamo dovuto attendere la vendita di un po' di lp per vedere qualche soldo».

Siete conosciuti e vendete dischi in tutto il mondo, siete anche ricchi? «No. Ed è tutta colpa nostra. Quando cominciammo eravamo molto sul

naif, non pensavamo al lato finanziario ma ora stiamo più attenti. Stiamo cercando di vederci più chiaro, sempre più, e stiamo migliorando sempre più. A soldi stiamo meglio dell'anno scorso, te lo posso assicurare. Prima con i soldi, chi li aveva o se li era guadagnati, si comprava subito una bella casa, investiva e non se ne parlava più. Noi non vogliamo seguire quella strada. Quando faremo i soldi, scrivilo pure, qualche milione di sterline, spero che li useremo per creare un mucchio di opportunità per noi e per gli altri. È questa quella che io chiamo una funzione giusta del denaro. Dicono che il denaro è energia? Ebbene, allora questa energia facciamola circolare, no?».

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The Clash, Give'em Enough Rope, London Calling possono essere definiti

soprattutto degli album punk. Sandinista no: perché? Che cosa avete voluto dire con questo ultimo lp?

«Abbiamo soltanto cercato di cancellare il punk, per essere onesti,

cercando di distruggere la linea che si andava istituzionalizzando e quindi lo stava facendo morire. Con Sandinista abbiamo cercato di suonare la più inaccettabile musica per punks che abbiamo potuto».

Parliamo di te, di Joe Strummer come individuo: chi sei? Non vieni dalla

classe operaia: come ti sei trovato con i tuoi compagni? «Bene, ho scelto io di fare questa vita. No, non sono nato povero, non ho

sofferto quello che hanno sofferto Mick e Paul. Mio padre nacque in India, rimase orfano a otto anni, venne messo in collegio e, siccome era molto bravo, si guadagnò una borsa di studio per l'università e per tutta la vita è rimasto orgoglioso del fatto che si era fatto da sé, anche se si laureò a Lucknow. Venne a Londra, come tanti altri nelle sue condizioni, entrò nella carriera statale e, gradino dopo gradino, diventò un diplomatico. E qui è cominciata la mia vera fortuna. Era veramente molto felice di quello che aveva fatto sino ad allora e voleva fare sì che io seguissi la sua carriera. Ma a nove anni dovetti lasciare la famiglia perché loro furono trasferiti, non mi ricordo più dove, e io venni messo in collegio. Da allora vidi per anni i miei genitori una sola volta l'anno dato che il governo pagava affinché loro si spostassero da dove diavolo erano per venirmi a trovare; venni lasciato completamente solo, insieme a tanti altri ragazzi nelle mie condizioni. E poi la storia per entrare in quella dannata scuola...».

Che vuol dire? «Cominciai a fare esami su esami per entrare nelle scuole più

prestigiose, ma sbagliai tutti gli esami così alla fine entrai in una in cui era entrato già mio fratello maggiore...».

Che fa, come te, il musicista o che altro? «È morto. Si è ammazzato nel 1971. Aveva un anno più di me. Era

nazista, apparteneva al National Front. Si interessava di scienze occulte, andava sempre in giro con teschi e segni misteriosi. Non gli piaceva parlare, non lo faceva mai con nessuno, e ho sempre pensato che il suicidio fosse l'unica strada che gli era rimasta. Sai come è morto? Vuoi saperlo? Fai il giornalista, ti interessano anche i particolari macabri? Non negare, non me ne frega niente. Si imbottì di aspirine e chissà quante altre pasticche e così combinato si lasciò morire in un cespuglio di Regent's Park».

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Secondo te, quale è la cosa più importante per una persona? «Posso rispondere per me stesso. La libertà personale. Voglio il diritto di

scelta. Naturalmente, però, questo diritto non deve infastidire lo stesso diritto degli altri. Ognuno deve avere il proprio diritto di scelta, giusto no? Credo nella democrazia, non sono per il comunismo totalitario. Odio il modo in cui i Russi fanno certe cose, quei maledetti carri armati dovunque. Ma, attenzione, questo non significa che ora debbo essere un capitalista. Capitalismo: chiudere la porta, sbatterla in faccia a chiunque».

E allora, della classe operaia che tanto spesso riecheggia nei tuoi testi

che ne facciamo adesso? La rinneghi? «Io vengo dalla media borghesia, sono differente da gente come Johnny

Rotten che adesso si trascina stanco, grasso ed ubriaco per New York. Lui ha avuto l'esperienza dello scarico di responsabilità della società adulta capitalista nei confronti dei giovani. E quando i giovani si ribellano si parla di vandalismo, subito. È forse per questo che l'anarchia non mi è mai piaciuta, avevo capito che era una fase per cui dovevamo passare per una sorta di processo di purificazione per poi raggiungere qualcosa di più decente».

Quest'estate in Inghilterra, in molte città, ci sono stati scontri tra polizia

e giovani di colore e non, scontri tra membri delle comunità di colore e neofascisti, rivolte: sei ancora per le rivolte, come quando scrivevi «White Riot?»

«Naturalmente. Perché non c'è altro modo di cambiare le cose, certe

cose. La Thatcher vive su un altro pianeta e noi siamo riusciti ad eleggerla nostra leader».

Cosa ne sai di quegli scontri? Qui da noi se ne sono scritte tante che

abbiamo capito poco e niente... «Non si può sperare che i giovani senza lavoro se ne stiano lì in attesa di

qualche cosa che non accade mai. Un bel momento sono esplosi, quelli del National Front sono i fascisti di sempre, c'è scappato qualche morto ed ecco bella e fatta la storia degli scontri. Non parliamo di razzismo, perché bianchi e neri sono andati contro la polizia perché la polizia li tratta come cani in quei loro poveri ghetti».

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La musica riflette i tempi che cambiano, secondo te? «Sicuro. Prendi il nostro primo album e dimmi in tutta sincerità se trovi

parole più adatte per spiegare quegli anni. Ora però ci sto pensando un po' sopra a questo mio credo. Tutto si muove così in fretta che anche un musicista a volte è già vecchio quando fa uscire un pezzo, è già stato scavalcato».

Joe, sei religioso? Credi in Dio? «Sono religioso ma solo da poco tempo. Non credo in Dio, penso solo che

lo spirito continui dopo la morte corporea. Tutte le altre teorie sono solo supposizioni. In ogni caso per quel che riguarda la religione non è dove va ma come la vivi che conta».

Non hai paura di fare la fine di Bob Dylan, che ha scoperto la religione e

non ha combinato più nulla di buono? «Bob Dylan ha "fuso". Se veramente voleva che i giovani lo seguissero

nella sua crociata cattolica, avrebbe dovuto capire subito che per molti di essi la parola Gesù puzza. Puzza di industria e questo non è mai piaciuto molto».

Come hai incontrato gli altri membri del gruppo? «Basta. Ma è possibile che dobbiate fare sempre la solita domanda voi

giornalisti? Suonavo con il mio gruppo, i 101'ers, bluesrock, quando un giorno nel 1976 vidi in azione i Sex Pistols. Capii subito che dovevo abbandonare la musica che avevo fatto fino ad allora perché non mi avrebbe mai permesso di dire le cose che avevo in mente di dire. Dissi ai miei compagni di allora che li lasciavo — loro arrivarono addirittura a mandarmi delle lettere anonime — ma quando incontrai per strada Mick e Paul capii che con loro avrei potuto creare quello che pensavo, sarebbe potuto divenire un buon gruppo. Sinora è andato tutto bene, anche se questo non significa che tutto va bene tra noi. Io litigo spesso con Mick, ci sono dei momenti molto brutti tra di noi ma quello che ci lega sono certe affinità di vedute che credo difficilmente scompariranno».

Prima di suonare che facevi? Cosa pensavi che avresti fatto da grande? «Studiavo alla scuola d'arte come Mick e Paul. Volevo diventare un

artista. Meno male che non se ne è fatto niente. Che noia. Mi aveva completamente stancato. Ho passato due anni a fare le cose che hanno fatto tanti giovani della mia generazione, sono del 1952: droghe, alcool, dissipazione, lavori saltuari, nessuna prospettiva di un avvenire migliore. Poi cominciai a guadagnarmi qualche penny tenendo il cappello a uno che

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suonava nella metropolitana, misi da parte due sterline, mi comprai un ukulele e poi... Ma non mi stancare, leggitela sui giornali la mia storia. Sono diventato un fottuto personaggio pubblico. Sono stanco, lasciami in pace».

L'intervista a Joe Strummer finisce qui, tronca in tante sue parti; ma

credo che quel che Joe ha detto possa contribuire in modo fattivo a mostrarcelo, e come uomo e come personaggio. Quanto dichiarò in quella sera di maggio potrà certo illuminare chi segue il gruppo sul passato, il presente ed il futuro dei Clash.

Paul Simonon Di Paul Simonon si sapeva che parlava poco, un carattere chiuso

inasprito da tanti problemi familiari che lo avevano reso ancora più taciturno; ma, sarà stata la festosa atmosfera dei trentamila giovani che lo avevano osannato sin da quando era salito sul palco, sarà stata la bella giornata che Firenze aveva voluto regalare loro, fatto sta che il pensieroso bassista si è rivelato un interlocutore di sicure e precise parole, non un grande parlatore ma certo uno che sa il fatto suo. Lui, al contrario degli altri membri del gruppo, non ha mai seguito molto la moda, è il destino di quelli grossi come lui, indossa blue jeans, una camicetta nera, l'immancabile giubbotto nero, ha una «scoppoletta» in testa e, accanto, gli fa gli occhi dolci la ragazza — non ho avuto il coraggio di chiederle il nome, i bicipiti di Simonon non me lo hanno consigliato: così manteniamo questa deprecabile lacuna per nozionisti — una splendida fanciulla di colore che sta a sentire e che da lui ha imparato, sembra, il gusto di tenere la bocca chiusa.

Prima ho parlato con Mick, poi con Joe, ora tocca a te, Paul: ti sei mai

sentito diminuito per questo ruolo subalterno a cui sembra sei destinato nell'economia del gruppo? In fondo sei uno dei fondatori, sei un grandissimo bassista, e lo hai dimostrato ancora una volta stasera, hai scritto pezzi, pochi, veramente notevoli...

«Nessuna diminuzione. Rispetto al mio ruolo; devo fare il bassista e

quindi faccio il bassista. Questo non vuol dire che se ho qualche cosa da dire non la possa dire, ci mancherebbe altro. Siamo un gruppo democratico, ognuno può e deve dire la sua anche se poi sono Mick e Joe che compongono quasi tutto il materiale e noi, io e Topper, appariamo solo come semplici manovali. Ma poi che male c'è ad essere solo manovali?».

Come ti sei trovato coinvolto nell'avventura Clash? «Conoscevo Mick, abitavamo tutti e due a Brixton, siamo tutti e due

frutto di famiglie che non esistono più, ci siamo presi subito in simpatia, anche se io sono un carattere più chiuso di Mick che è il più estroverso di

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noi. Mick mi reclutò quando ancora ero un fan scatenato di David Bowie — del periodo Ziggy Stardust and the raiders of Mars — e studiavo arte al Byam Shaw Art College vicino ad Holland Park. Mi volle ascoltare e dopo dieci minuti ero lì che cantavo un pezzo di Jonathan Richman, non mi chiedere quale perché non me lo ricordo più. Mick mi spinse a comprarmi un basso usato e provare a suonare; io gli diedi ascolto e ricordo ancora che le prime volte che suonavo, mentre facevo pratica e poi le prime volte in pubblico, mi ero dipinto sull'asta della chitarra i punti su cui sarebbero duvute appoggiarsi le dita».

Allora è vero quel che si dice, che non eri capace di suonare? «È vero sì, così come è vero che ora molte cose sono cambiate. Ho dovuto

lavorare molto pesantemente per raggiungere i risultati di oggi, per farti dire che suono benissimo (non credo, penso di essere bravo ma non eccelso)».

Sei modesto. Come sei arrivato a suonare così? «Lo vuoi proprio sapere? Ascoltando tanti pezzi reggae e cercando di

eseguirli il meglio che mi era possibile. I primi mesi fu un vero tormento, non ne azzeccavo uno, poi col passare del tempo le cose sono cambiate ed ora eccomi qua a prendermi le tue lodi».

Da cosa deriva il fatto che i Clash sono stati, con i Police, il gruppo

bianco che più si è ispirato al reggae? «Penso che tutto derivi dal fatto che sia io che Mick siamo sempre vissuti

a contatto con gente di colore, con moltissimi giamaicani. Io per guadagnarmi da vivere il sabato lavoravo ad un banco del mercato di Portobello, ora da poco mi sono comprato una casetta, due stanze più servizi nella zona, e da quelle parti, Portobello Road, Lad Broke Grove, Notting Hill Gate, la musica che si ascolta di più è il reggae. I miei vicini di casa, una famiglia di colore, non fanno che tenere sempre la radio accesa e sintonizzata su stazioni che trasmettono reggae, tanto che io non accendo più né radio né giradischi; anche perché non ne ho il tempo, quando sto a casa mi voglio riposare e dedicarmi ai miei hobbies».

Sono indiscreto se ti chiedo quali sono? «Niente affatto. Dipingo e leggo. Soprattutto dipingo; nella mia nuova

casa mi sono dipinto una intera parete, come feci al nostro primo studio in Chalk Farm. Che strano, ora che ci penso anche Mick e Joe dipingono, almeno hanno studiato arte. A Mick piaceva molto, mentre Joe odiava i pennelli e le matite».

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Cosa ha significato per te il successo? «La possibilità di avere una casa tutta mia, smettere di vivere in case

occupate come ho fatto con mio fratello Nick (che per un periodo stava per diventare il nostro batterista quando per la prima volta se ne andò Terry Chimes). Professionalmente, quando entri in classifica vuol dire che la gente ti segue, così non ti preoccupi molto del futuro, il che ti permette di vivere la musica che hai in mente di fare nel migliore dei modi. Prendi Sandinista: dopo London Calling la gente pensava che avremmo sformato un album come quello ed invece noi abbiamo stravolto le previsioni. Il bello è che il materiale che c'è in Sandinista è così vario che ora siamo in grado di fare quello che ci pare e nessuno avrà più idea di cosa potremmo proporre in futuro».

Con i tuoi silenzi, sei quello che meno compare del gruppo, sei il

testimone ideale che potrebbe rispondere alla domanda che non ho potuto fare sinora...

«Che domanda?». È vero che spesso tra Mick e Joe scoppiano liti furibonde? «Beh, sai ognuno di noi ha il suo carattere. Mick e Joe poi sono

formidabili, sono straordinari come compagni, ma a volte le loro personalità entrano in collisione ed allora sono guai. Capita molto raramente, ma quando capita succede di tutto. Succede anche nei migliori gruppi, pensa un po' alle liti che si diceva ci fossero tra Paul McCartney e John Lennon o tra Mick Jagger e Keith Richard... L'ultima clamorosa lite Mick e Joe l'hanno avuta durante una data della nostra tournée inglese per chi dovesse cantare "White Riot": nei camerini sono volate bottiglie ed altre cose ma poi è tornata la pace, come sempre».

«White Riot» è un pezzo che vi ha causato problemi: perché? «Non devo stare io a spiegarcelo, rileggiti il testo, riascoltala fino alla noia

e poi capirai. Mi ricorderò sempre che ad Amburgo, in Germania Occidentale, prima del concerto venimmo a sapere che c'erano gruppi di giovani punks che non intendevano farcela suonare. Alcuni di loro chiesero di venirci ad esporre le ragioni della loro richiesta, li stemmo a sentire ma poi sul palco la suonammo; bene, ci fu un idiota che cominciò ad insultare Joe che ad un certo momento non lo ha sopportato più e gli ha dato la chitarra in testa. È finita che ci siamo ritrovati io e lui in platea a discutere furiosamente. Alla fine del concerto la polizia voleva arrestare Joe, così abbiamo dovuto lasciare Amburgo di corsa se non volevamo ripetere la storia dei Beatles all'Indra Club».

Come gruppo avete fatto un lp e tu sembra abbia lavorato nel cinema

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anche solo: puoi dirmi qualcosa di più? «Ho fatto l'attore, l'hai detto. Durante il primo tour americano ho

lavorato nel film All Washed Up diretto da Lou Adler. Sono andato a girarlo in Canada, a Vancouver, perché si paga di meno che negli USA. Con me c'erano anche Steve Jones e Paul Cook, ex Sex Pistols. È stata una esperienza interessante. Recitare è decisamente una cosa che mi piace molto. So che tutti dicono questo ma nei fatti se fai parte di un gruppo ti è più facile, hai più opportunità per apparire in un film. Mi ha veramente divertito, e spero proprio di ricevere qualche altra proposta. Non so se alla fine avrà successo o meno, so solo che rifarei volentieri l'esperienza».

La trama puoi accennarmela? «Se ti interessa... Tratta di un gruppo inglese che viene fatto arrivare

negli Stati Uniti per suonare e poi sorgono delle difficoltà. Tutto si risolverà dopo non poche avventure. L'unica cosa che non mi è piaciuta è stata Vancouver, l'ho trovata una città un po' noiosa».

Una domanda personale a cui puoi anche non rispondere: la tua

condizione, ed anche di Mick, di figli cresciuti senza la figura materna, senza la famiglia tradizionale, pensi abbia influito sulla vostra musica?

«Certamente, perché negarlo? Forse è stato uno dei nostri patrimoni più

cospicui, quello che ci ha permesso di attirare poi su di noi l'attenzione di tanti che hanno sofferto le nostre stesse vicissitudini. Sin da piccolissimo ho vissuto con mio padre e mio fratello, studiando e facendo diversi lavori, tutti umili però. Mi sono diplomato in inglese ed arte, anche se ho avuto degli insegnanti che è meglio dimenticare. Pensa ci insegnava inglese, un anno, un pakistano che non riusciva neanche a farsi capire. Era già abbastanza per mantenere il livello culturale del quartiere, Brixton, in cui ero andato a vivere. Comunque mi vendicavo perché con i compagni di classe andavo a tirare mattoni alle vetrate delle case dei ricchi, a quelle finestre dalle quali si vedevano queste allegre famigliole riunite per prendersi beate il tè».

Come vanno i rapporti tra i Clash e la casa discografica con cui lavorate? «Pessimi. La battaglia continua ed ora si sta arricchendo di un nuovo

capitolo. Noi abbiamo un contratto per cinque dischi, sinora ne abbiamo fatti sette, due lp, un doppio e Sandinista, che è triplo; ma per loro noi abbiamo fatto solo quattro album così aspettano il quinto che faremo uscire, se ci andrà, il prossimo anno. E ti posso assicurare che sarà completamente diverso dai precedenti, stanne certo».

Vuoi guadagnare? «Certo. Fare i soldi è importante perché poi puoi usarli come ti pare. Non

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come i Rolling Stones, però, compri una villa e ti piazzi a vedere la TV e poi ogni tanto ti fai un bel tour di qualche mese, ti riempi di soldi e poi se ne riparla dopo qualche mese. Senza mai dare nulla indietro non è guadagnare onestamente, credo. Noi possiamo investire i nostri guadagni per fare qualcosa di buono per quelli della nostra età. Joe vorrebbe aprire una radio, è il suo sogno, ma penso che resterà tale».

Ti piaceva disegnare, sai anche farlo bene: perché hai scelto il rock per

esprimerti? «È il modo più immediato che hai per importi e dire quel che vuoi dire;

nella nostra posizione possiamo ispirare la gente. E attualmente è assai importante perché non ci sono altri grandi mezzi di comunicazione così efficaci, salvo, è ovvio, cinema, TV e giornali. Il rock è un ottimo media. Ha un grande impatto in ogni strato sociale, e soprattutto tra i giovani, quelli che contano per noi, e se uno lavora con serietà può far sì che la gente capisca la situazione in cui vive e le brutture che uno gli canta e che altrimenti tenderebbe ad ignorare. Se ci muoveremo bene potremo avere sempre una vastissima eco».

Mettiamo un po' da parte l'arte, e per arte intendo la musica che suoni,

il cinema che vorresti continuare a fare ed i disegni che non smetti di fare: Paul Simonon, semplice ragazzo inglese senza prospettive di successo artistico, cosa avrebbe voluto fare?

«Il guidatore di autotreni; sarà che mio padre fa il tassista ma le auto mi

sono sempre piaciute, ne ho dipinte moltissime. Si, il guidatore di autocarri. Viaggi sempre, vieni a contatto, anche se marginalmente, con tante realtà diverse, e puoi startene in solitudine con te stesso. Viaggiare nella notte... Che bello. Mah, chissà che quando smetterò con i Clash non mi metta davvero a fare l'autotrasportatore; le braccia per tenere saldamente un manubrio di quel genere le ho, quindi...».

Sorride, e stavolta, lo ha fatto spesso durante la conversazione, il suo

voltarsi verso la ragazza che lo accompagna sembra definitivo. Meglio non abusare oltre, il tempo di una stretta di mano, la promessa di farsi sentire a casa o al giornale se passa per Roma, ed anche la conversazione con Paul Simonon è cosa fatta.

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Il ragazzo rude

Diciamolo subito, non ha avuto il successo che si meritava. Nonostante se ne parlasse in termini entusiastici Rude Boy, il film in cui compaiono i Clash, ha avuto una limitatissima circolazione; forse perché è mancato il pubblico cui era rivolto, i giovani erano pochi, e soprattutto perché la critica ufficiale, quella stessa che dà il premio ad Ischia quale migliore attore al sempreverde Alberto Sordi, non ha capito che, una volta tanto, dietro a tanti suoni, c'era un film con un preciso intento sociale, come qualsiasi cosa che abbiano cantato i Clash: mostrare la condizione giovanile inglese negli anni scorsi. Ragazzo rude è stato bloccato forse dal fatto che la metà di esso è dedicata ai concerti del gruppo ma una storia c'era ed era anche bella, e triste, il che non ha contribuito a riempire le poche sale in cui è stato proiettato.

Due ore, la metà musica, ed il resto? Il film non finisce dopo i pezzi dei Clash, anzi: la storia che narra viene sì intervallata dalla musica del quartetto, ma ha una sua ossatura ben definita e che si regge magnificamente. Il protagonista, Ray Gange, il rude boy del titolo, vuole uscire a tutti i costi dalla squallida routine nella quale razzola malamente e mal sopportandola. Vecchio amico dei componenti del gruppo, si offre loro come aiutante nei tours, un modo come un altro, certo il più umile e faticoso, per fare anche lui la luccicante vita del rock, sempre in viaggio, un concerto dopo l'altro, un palco da montare e smontare, ragazze, droga e alcool a volontà. Ben presto nel film si delinea l'impegno ideologico del gruppo ed il bieco qualunquismo di Ray, che non si interessa di quel che gli sta accanto e succede nel mondo, tutto teso a soddisfare i suoi bisogni più primitivi. Tutti i tentativi di coinvolgerlo falliranno miseramente, la strada del menefreghismo non è fortunatamente quella imboccata dal gruppo finché alla fine la strada dei Clash e quella di Ray non è più la stessa e quindi il film si conclude con la separazione.

Una storia che è tutto un pretesto per illustrare una certa situazione sociale esplosiva di cui il punk-rock è stato colonna sonora, unitamente al sorgere e all'affermarsi del reggae, vista la vastissima colonia giamaicana che a Londra vive negli stessi luoghi in cui vivono i Clash. I quali Clash nella pellicola cercano di delineare meglio il loro mondo politico-sociale, le loro inclinazioni di sinistra, una sinistra che allora tendeva alla estremizzazione, a volta addirittura puerile, ed a forme di rivoluzionarismo sensazionalistico e romantico.

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Nel film ci sono splendide riprese, anche dal punto di vista strettamente tecnico, dei disordini razziali avvenuti a Brixton nel 1978; sono spesso inquadrati poliziotti che arrestano e picchiano selvaggiamente, in gruppo, come è regola di ogni polizia che «si rispetti»; giamaicani; la «lady di ferro» della politica inglese, Margaret Thatcher, che pronuncia un discorso pieno di accenti polemici e preoccupanti verso il crescere a dismisura della violenza giovanile; per non parlare di altri filmati che documentano con le sole immagini le miserande condizioni di vita di chi è ristretto, perché li si è ristretti come nelle carceri, non si sceglie di viverci, ci si nasce e poi si tenta di fuggire, nei ghetti obbrobriosi.

Tra i bianchi che protestano ci sono, è inutile quasi dirlo, i Clash che

rivendicano le loro origini proletarie, il loro disadattamento sociale, specchio di quello di tanti altri giovani come loro, il loro costante impegno

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antirazzista, contro ogni tipo di razzismo e di fascismo, un impegno che va ben oltre la musica rock ma che la usa come veicolo prioritario per lanciare simili messaggi divenuti ormai universali. E tutto ciò lo spettatore attento lo evince dai testi delle loro canzoni che fanno da adeguato commento alle varie scene che si susseguono sullo schermo, chiarendo via via la posizione del gruppo sui fatti che vengono mostrati, canzoni tratte dagli album che, all'epoca del film, la band aveva inciso, cioè The Clash e Give'em Enough Rope. Temi pericolosi e difficili come la rivoluzione, la mancanza di posti di lavoro, il terrorismo (c'è Strummer che indossa la maglietta che reca come simbolo quello delle nostre Brigate Rosse) vengono trattati nel film anche se non si è cercato di approfondire i discorsi, senza andare a fare analisi che non sarebbero state consone ad una pellicola del genere, senza tentare spiegazioni che sarebbero potute risultare anche capziose.

Una buona occasione per vedere un film musicale che non mostri solo il John Travolta di turno e non faccia perdere tempo con un po' di canzoncine alla moda, due ore giocate con intelligenza tra la tensione delle immagini, l'intensità delle musiche dei Clash ed una storia semplice solo in apparenza. Quel Ray Gange che alla fine abbandona i vecchi compagni potrebbe essere il compagno che si è imborghesito ed ha riposto per sempre i sogni di rinnovamento della gioventù. Oppure potrebbe essere anche uno dei tanti che, dietro l'apparente abulia, hanno lasciato germinare il bacillo del terrorismo per scegliere la lotta armata, l'esser tragicamente utili al sistema che, grazie ad errori del genere, è riuscito a criminalizzare larghe fasce giovanili o, nel migliore dei casi, le ha aiutate a deporsi sulla schiena la fatidica scimmia e nelle vene qualche terribile grammo di droga. Attenzione, Ray Gange è tra di noi, potremmo essere noi stessi: i Clash ci hanno avvertiti.

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Discografia

THE CLASH (EPIC, 36060)

facciata a:

Clash City Rockers I'm So Bored Whith The USA. (non inclusa nell'album

made in USA)

Remote Control Complete Control White Riot White Man In Hammersmith Palais London s Burning

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I Fought The Law facciata b:

Janie Jones Career Opportunities What's My Name Hate & War Police & Thieves Jail Guitar Doors Garageland Contiene anche un 45 giri con incisi Gares Of The West e Groovy Times

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GIVE EM ENOUGH ROPE, (CBS, 82431)

facciata a:

Safe European Home English Civil War Tommy Gun Cheap-Skate Drug-Stubbing Time Guns On The Roof facciata b:

Stay Free Julie's In The Drug Squad Last Gang In Town That's Non Way To Spend Yoor Youth Gates Of The West

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LONDON CALLING (CBS, 88478)

facciata uno:

London Calling Brand New Cadillac Jimmy Jazz Hateful Rudie Can't Fail facciata due:

Spanish Bombs The Right Profile Lost In The Supermarket Clampdown The Gungs Of Brixton facciata tre:

Wrong 'en Boyo Death Or Glory Koka Kola The Card Cheat facciata quattro:

Lover's Rock Four Horsemen l'm Not Down Revolution Rock

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SANDINISTA! (CBS, 66363)

facciata uno:

The Magnificent Severi Hitsville UK Junco Partner Ivan Meets G.I. Joe The Leader Something About England facciata due:

Rebel Walt'z Look Here The Crooked Beat

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Somebody Got Murdered One More Time One More Dub facciata tre:

Lightning Strikes (Not Once But Twice) Up In Heaven (Not Only There) Corner Soul Lets Go Crazy If Music Could Talk The Sound Of The Sinners facciata quattro:

Police On My Back Midnight Log The Equaliser The Cali Up Washington Bullets Broadway facciata cinque:

Lose This Skin Charlie Don't Surf Mensforth Hill Junkie Slip Kingston Advice The Street Parade Facciata sei:

Version City Living In Fame Silicone On Sapphire Version Pardner Career Opportunities Shepherds Delight

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COMBAT ROCK (CBS, 85570)

facciata a:

Know Your Rights Car Jamming Should I Stay Or Should I Go Rock The Casbah Red Angel Dragnet Straight To Hell facciata b:

Overpowered By Funk Atom Tan Sean Flynn

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Ghetto Defendant Inoculated City Death Is A Star Le foto a pag. 1, 27, 81 e 88 sono di Pennie Smith. Lato Side, pubbl. quindicinale, sezione: Musicalibro, 31 luglio 1982, n. 16. Reg. presso il Tribunale di Roma n. 17340 in data 20 luglio 1978. Direttore responsabile Giuseppe Vettori.

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