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Indice Premessa……………………………………....... p. >> 6 Introduzione……………………………………. p. >> 10 Parte I Il male................................................ ...................... p. >> 17 Il male fisico……………………………………. p. >> 19 La malattia……………………………………... p. >> 20 Il modello bio-psico-sociale…………………… p. >> 24 Una malattia, molte malattie…………………. p. >> 28 Criticità………………………………………… p. >> 31 1

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Page 1:  · Web viewGli ultimi anni tra noi non sono stati belli, ma penso che tutte le storie d’amore prima o poi passano dei momenti difficili. E’ sempre così quando ci sono in ballo

Indice

Premessa……………………………………....... p. >> 6

Introduzione……………………………………. p. >> 10

Parte I

Il male...................................................................... p. >> 17

Il male fisico……………………………………. p. >> 19

La malattia……………………………………... p. >> 20

Il modello bio-psico-sociale…………………… p. >> 24

Una malattia, molte malattie…………………. p. >> 28

Criticità………………………………………… p. >> 31

Parte II

Il medico………………………………………... p. >> 34

1

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Letteratura e realtà (sessione prima)………... p. >> 36

Letteratura e realtà (sessione seconda)……… p. >> 40

Scienza e ragione. Una mediazione possibile… p. >> 42

Evidence-based-medicine……………………… p. >> 45

Parte III

Medicina di famiglia e l’arte dell’ascolto……. p. >> 48

Medicina e psicologia: connubio possibile….... p. >> 49

Il modello sistemico ed il suo cammino………. p. >> 51

Costruzionismo Sociale………………………... p. >> 54

Il medico come scrittore………………………. p. >> 56

Il paziente come scrittore…………………….. p. >> 61

La strategia dietro la scrittura……………….. p. >> 64

Sul buon uso dei proverbi……………………… p. >> 66

Parte IV

Casi clinici……………………………………... p. >> 70

2

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Parte V

Limiti……………………………………

…….... p. >> 97

Conclusione…………………………………….. p. >> 99

In fondo………………………………………… p >> 103

Riferimenti bibliografici……………………… p. >> 104

Dedica

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“Tre anni trascorsi a leggere un libro

non equivalgono a tre giorni di spiegazione

da parte di un maestro”

Antico proverbio cinese

Dedico questo lavoro ad Antonio Galeotti (Toto), mio maestro e tutore durante gli anni del tirocinio, spesi ad apprendere la nobile arte della psicoterapia.

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare Massimo Giuliani,

mente appassionata e conciliante.

Istintivamente sgombro da pregiudizievoli opposizioni.

Sempre mi diede libertà di scritto,

mi concesse libertà di sbaglio.

Premessa

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“C’è colpo e colpo. Ci sono ferite di striscio

che nessuno può guarire

e uomini che muoiono ad ottant’anni

di coltellate prese in gioventù.

Non c’è regola. Qualcuno si salva

e si fa prete. A qualcuno la vista

s’indebolisce. A volte

i coltelli rispuntano dal cuore

nel senso della lama.”

Giovanni Raboni

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“Oltre ad istruire il medico sulla malattia del paziente e raccogliere gli elementi necessari

alla diagnosi, il colloquio con il paziente adempie ad una terza funzione: aiutare quella

persona a sentirsi compresa; in quanto tale, stabilisce un rapporto terapeutico. Una serie

di domande, a mala pena formulate per il solo scopo di diagnosticare una malattia, ignora

gran parte delle esperienze personali del paziente, molte delle sue preoccupazioni e dei

suoi interrogativi. Questo impedisce lo sviluppo di un rapporto di fiducia, inibisce la

propensione del paziente a confidarsi ulteriormente con il medico e riduce la possibilità

del medico di aiutarlo. Persino dopo un’assistenza tecnicamente competente, un paziente

può lasciare l’ospedale o l’ambulatorio insoddisfatto. “Sembrava che non capisse quel che

volevo dirgli”. “ Mi ha detto che il dolore non è dovuto ad un tumore, ma questo lo sapevo

già dalla mammografia. Ma allora a cosa è dovuto il mio dolore? Peggiorerà? Andrà mai

via? “Sembra che tutti si occupino della mia dispnea. Ma chi si occupa di me?”

D’altro canto, parlare con un paziente dell’esperienza di essere malato può avere notevole

importanza quando null’altro può essere fatto da un punto di vista terapeutico.

Nell’esempio che segue, un protocollo di ricerca esclude la paziente dal trattamento della

sua grave forma di artrite reumatoide: “ La paziente non aveva mai parlato di ciò che i

sintomi significassero per lei. Non aveva mai detto: “Questo significa che non potrò

andare in bagno da sola, vestirmi e persino scendere dal letto senza chiedere aiuto”.

Quando terminammo la valutazione clinica, io le dissi qualcosa come: “L’artrite

reumatoide non è stata davvero gentile con lei”. La paziente scoppiò in lacrime, e così sua

figlia; a quel punto, mi misi a sedere quasi smarrito. Poi aggiunse: “Sa dottore, nessuno

ne aveva mai parlato prima come una faccenda personale, nessuno si era mai espresso

come se questa fosse una cosa importante, un evento personale”. Questo fu l’elemento

importante di quell’incontro. Davvero non avevo altro da offrirle … ma qualcosa di

veramente importante era accaduto tra noi, qualcosa che contava. (Hastings C, The lived

experience of the illness: Making contact with the patient.

Tratto da “Approccio Clinico al Paziente” di Barbara Bates [3].

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“Quando ho aperto lo studio a Play, la signora Borges, che faceva le pulizie per gli

inquilini precedenti, ha proposto di continuare a farle per me. Chiacchieravamo,

parlavamo dei programmi televisivi di medicina, delle malattie dei suoi nipoti o dei suoi

nonni. Una mattina, però, mi telefona chiedendomi di passare a vistare una persona da cui

lei lavora, a Langes: “è’ un signore che vive solo, sta molto male, non vuole più vedere il

suo medico curante, ho pensato a lei dottore.”

Arrivo davanti a una specie di residenza nobiliare di campagna in mezzo ai boschi. La

signora Borges, preoccupatissima, aspetta il mi arrivo sulla porta: “sta molto, molto male,

ma non vuole andare all’ospedale, eppure il suo dottore ha spesso insistito …”

Appena l’ho visto, ho capito che quell’uomo aveva dentro di sé un enorme senso di colpa.

Aveva un cancro al seno, rarissimo nell’uomo. Il tumore fioriva sulla pelle, trasudava,

continuava a sovra-infettarsi e lui aveva sul torace un’enorme medicazione per

mascherarlo. La casa era stupenda e tenuta magnificamente, lui era sempre perfetto, tutto

in ghingheri, mi aveva detto la signora Borges, ma non aveva mai voluto farsi curare il

cancro. Si medicava la piaga da solo, mattina e sera. Era la prima e ultima cosa che

vedeva, che toccava, di cui sentiva l’odore, ogni giorno, e i dolori che provocava non gli

davano tregua.

Quel giorno, per la prima volta, non si era alzato dal letto. Era livido. La ferita aveva

sanguinato moltissimo durante la notte, ma lui si era rifiutato di farsi ricoverare. Aveva

autorizzato la signora Borges a chiamarmi dopo averle fatto giurare che non lo avrei fatto

ricoverare. Tutto quello che voleva era (mi ricordo le sue parole) : “qualcosa … per

soffrire solo un po’ meno. Adesso veramente non ne posso pido...”.

Gli ho iniettato la morfina, e naturalmente si è subito addormentato. Durante il sonno, gli

ho rifatto la medicazione, la piaga era veramente orribile, l’ho spalmata di antibiotici

locali, totalmente inutili. Era inoperabile, il fegato era pieno di metastasi, e ne aveva

anche in diversi punti nella pelle. Pesava 38 kg. Si lasciava morire.

La sera stessa, il telefono ha squillato nel momento stesso in cui uscivo dallo studio, avevo

appena inserito la segreteria telefonica. Mi chiedeva se potevo passare da lui, non mi

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aveva pagato la visita della mattina, ci teneva a saldare il debito. Gli ho detto che non

c’era fretta, ma ha insistito, ho capito che c’era dell’altro.

Mi aspettava, seduto in soggiorno, si era rasato e vestito. Mi ha ringraziato, soffriva meno,

voleva sapere se potevo prescrivergli della morfina, lui sapeva fare le iniezioni sottocute.

Il suo medico si è rifiutato di dargliela.

“La capirei, se si rifiutasse. Non sono un suo cliente …”

“Io non ho clienti …”

Gli ho dato nove delle dieci fiale che avevo nella borsa, dicendo che non era necessario

che le iniettasse. Poteva prenderle per bocca con acqua o succo di frutta. Non so perché

gliene ho date così tante, avrei potuto lasciargliene tre e prescrivergli il resto.

Nel momento in cui stavo per andarmene mi ha proposto di bere qualcosa con lui:

“A meno che qualcuno non l’aspetti.”

Mi ha fatto sedere davanti al caminetto e mi ha offerto un liquore di annata. Poi si è messo

a parlare.

Quando l’ho lasciato, erano le cinque del mattino. Ero stato lì per addormentarmi varie

volte, e ogni tanto non capivo più quello che mi diceva, allora si interrompeva, il silenzio

mi svegliava e lui ricominciava.

All’epoca non credevo che se uno avesse ascoltato le persone abbastanza a lungo,

avrebbero finito per aprirti il fondo del loro cuore … ma cosa strana, verso le tre e mezza

del mattino, la sua storia ha cominciato a dirmi qualcosa …”

Tratto da “La Malattia di Sachs” di Martin Winckler [48].

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Introduzione

“Ogni marcia inizia sempre con il primo passo”

Antico proverbio cinese [42]

Nel 2002, terminati gli studi in medicina e chirurgia presso l’Università di Padova, decisi

di intraprendere il Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale che conclusi nel

2006. Da allora, prima in veste di medico sostituto e dall’ottobre del 2009 in qualità di

titolare, esercito la professione di medico di famiglia ad Oderzo, in provincia di Treviso.

Fin dai primi tempi della mia attività, mi sorsero diversi interrogativi ed interessi, ma due

di essi divennero ben presto predominanti.

Il primo riguardava alcuni malesseri e sofferenze dei miei pazienti, rispetto cui le mie

visite e cure risultavano spesso insufficienti.

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Il secondo, si rivolgeva alla storia della medicina ed in particolar modo alla cangiante

semeiologia sociale del concetto di malattia nel corso dei secoli (in accordo con il noto

motto latino “mutatis mutandis”).

Cercai risposte al primo di questi interrogativi, iscrivendomi e frequentando un corso

annuale di metodologia omeopatica a Venezia, ma una volta che questo fu concluso, me ne

fornì di nuovi.

Apprezzai dell’omeopatia, arte medica nata nel XVIII^ secolo, lo scrupoloso metodo di

raccolta delle presentazioni cliniche delle affezioni morbose e il suo costante richiamo alla

sfera relazionale ed affettiva del malato. Per essa, la condizione psicologica del paziente è

parimente importante del solo dato organico. Non vi sono quasi mai due cure uguali anche

per malattie a prima vista molto simili. Ogni persona viene riconosciuta ed accettata come

un’ identità degna sempre e comunque di una curiosa ed attenta esplorazione globale,

prima di un qualunque tentativo terapeutico.

Appresi col tempo che molte delle persone che si rivolgevano alla medicina omeopatica

erano soggetti che per i più svariati motivi, non avevano tratto giovamento dalle moderne e

tradizionali cure allopatiche.

Fui stupito e allo stesso tempo scosso, nel constatare come i trattamenti con rimedi

omeopatici (bollati alla stregua di acqua fresca dalla gran parte della comunità scientifica

internazionale) spesso ebbero a sortire effetti medicamentosi positivi e durevoli.

Mi chiesi allora: come era possibile tutto questo?

Evidentemente la guarigione e l’arte dello guarire erano concetti più ampi e complessi di

quello che ero riuscito fino ad allora a comprendere. C’era sicuramente dell’altro su cui

indagare, altri sentieri di conoscenza da seguire.

Cominciai quindi col chiedermi se esistessero possibili alternative alle cure oggi abituali

(somministrazione controllata di farmaci, adesione a linee guide internazionali condivise di

trattamento, scarsa attenzione alla raccolta dei dati anamnestici ed obiettivi del paziente,

massiccio e fideistico ricorso alle macchine come ausilio per la diagnosi, atteggiamento

paternalistico-direttivo del medico, invariabilità della posizione up-down del medico nei

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confronti del paziente, modificazioni comportamentali imposte ecc..) che fossero in

qualche modo più coerenti, in armonia e rispettose col contesto costituito dalla società-

lavoro-amici-famiglia, del paziente.

Mi avvicinai allo studio della medicina psicosomatica [39], venni poi conquistato da alcuni

scritti che mi capitarono tra le mani di Gregory Bateson, Varela e Marturana [4; 27]. Il passo

successivo fu quello di iscrivermi ad un corso di Specializzazione in Psicoterapia ad

indirizzo Sistemico-Relazionale.

Come già accennato, mio secondo interesse, fu quello di approfondire la semeiologia

sociale del concetto di malattia nel corso dei secoli. Una volta letto e solo in parte

governato, la gran mole di scritti che circola in questo ambito, mi resi subito conto di come

le salde conoscenze scientifiche di un tempo insegnateci a scuola della e sulla realtà

biologica, oggi sembrano non essere più sufficienti a formulare risposte a domande che da

sempre l’umanità si pone. Spesso, sempre più spesso, le risposte mancano o sono

deficitarie [12]. Appresi esserci in atto (soprattutto nel corso dell’ultimo ventennio) un

costante movimento della scienza verso la presa di coscienza che tutti noi “Non possiamo

che descrivere la realtà solo attraverso ciò che conosciamo di essa, ma non nella sua

essenza” (N. Bohr) [10].

Nell’ultimo secolo le scienze madri, la biologia, la fisica, la chimica, hanno messo in crisi

la vecchia visone frammentata, positivistica e riduzionistico-individuale della realtà per

giungere ad una visione di insieme della stessa. Dalla relatività alla quantistica, dalla

biologia molecolare alla fisica subatomica ecco che si sta pian piano dispiegando una

nuova Coscienza: quella “delle connessioni nascoste tra i fenomeni” (F.Capra) [10]. Si sta

lentamente passando dal credere che le entità complesse non siano altro che la somma delle

loro parti (Aristotele), a qualcosa di nuovo; a quello che, certo sbrigativamente, è detta:

“La teoria della Complessità” (dal latino complexus : intrecciare insieme) [4].

E’ logico ritenere che anche il modo di pensare alla medicina e alla malattia, suo precipuo

territorio di ricerca, sia andato modificandosi anche in virtù di questi nuovi contributi.

Sebbene già nell’antichità, molti medici posero l’accento sulla visone unitaria dell’essere

umano (ad esempio Ippocrate con la nascita della medicina olistica), questa perse

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progressivamente credito nel corso dei secoli (massimamente nel corso del XIX e XX

secolo con lo sviluppo della medicina specialistica, la ricerca ossessiva del danno tissutale-

cellulare ed un back-ground culturale positivistico che riteneva infinite le capacità

decifratorie e di progresso delle scienze naturali).

Nel corso di questi ultimi anni, si sta invece assistendo ad un violento riassestamento

epistemologico indirizzato verso una visione neo-olistica (o per meglio dirla con un

termine oggi di gran moda -ecologica-) della malattia, della medicina, dell’uomo e del suo

universo interiore [4].

Questo nuovo corso, evidenzia le connessioni, la rete, come caratteristica dei sistemi

viventi. Per dirla come Pierluigi Luisi: “ La vita non può essere ascritta a nessun singolo

componente molecolare, ma soltanto alla rete metabolica considerata nella sua interezza.

La vita, le forme e le funzioni biologiche non sono qualcosa di semplicemente determinato

da un programma genetico ma sono proprietà emergenti dall’intera rete epigenetica. Per

comprendere questo rapporto non dobbiamo solo considerare le strutture genetiche e la

biochimica cellulare, ma anche le complesse dinamiche che entrano in gioco quando la

rete epigenetica incontra le caratteristiche fisiche e chimiche dell’ambiente esterno e con

esse si deve confrontare” [12].

È l’uomo che si apre nuovamente al mondo, alle sue fitte ed impenetrabili trame, alla

curiosità, all’attenzione e alla cura che dobbiamo all’altro che è tutt’uno con noi, capace

come è di modificarci inevitabilmente.

Affascinato dalle nuove letture, mi chiesi come la medicina scolastica che avevo appreso

all’ università, in qualche modo potesse giovarsi delle nuove conquiste di pensiero che la

scienza a tutt’oggi va compiendo. Era cioè possibile fondare una medicina che tenesse in

considerazione le connessioni nascoste tra i fenomeni, da porsi a fondamento di un

rinnovata relazione società-medico-paziente-patologia?

Eccoci dunque al secondo motivo di interesse, che mi spinse ad intraprendere nel 2007, il

corso di Specializzazione in Psicoterapia Sistemico-Relazionale.

Il tempo come si sa vola, e di già mancano pochi mesi per concluderlo.

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Preliminarmente allo svolgimento di questo lavoro di tesi, ho cercato di concentrarmi sull’

aspetto che più mi ha entusiasmato e convinto del pensiero sistemico ed in particolar

modo, di uno dei suoi più riusciti metodi di applicazione clinica, il Milan Approach.

Mi sono sforzato di tenere sempre bene in mente come e dove, avrei potuto utilizzarlo nel

mio quotidiano lavoro di medico di famiglia (professione questa molto più vicina alle

nuova deriva epistemologica delle scienze naturali di quanto generalmente si sa o si è

portati a credere).

Alla fine mi sono fatto convinto d’averlo trovato. Esso è il Costruzionismo sociale.

Dapprima irretito, mi ha poi visceralmente conquistato grazie alla sua quota di

rivoluzionaria e giovanilistica sfrontatezza. Secondo questa nuova prospettiva, il

fondamento della società si ricolloca nella relazione e non tanto o non solo nell’individuo

in sé. Ghigliottina il concetto stesso di verità. Quello che ci appare come verità infatti,

non è più il prodotto di osservazione esterna del mondo, ma la risultante di processi sociali

di scambio nei quali le persone sono costantemente impegnate e reciprocamente coinvolte.

Invece che di verità si preferisce così parlare di innumerevoli negoziazioni di multiple e

ripetute costruzioni sociali del mondo. Invece di conoscenza ci si appella a versioni di

conoscenza condivise.

Un pensiero libero e democratico. Bellissimo. Ma come farlo proprio? Quando, come e

dove utilizzarlo nella mia professione?

Leggendo un lungo articolo, comprendente anche questo stralcio che qui riporto

fedelmente, iniziai ad avere alcune intuizioni, che poi ho via via adattato e personalizzato

per poterle meglio fruire nel mio lavoro quotidiano.

“ (…) Dal momento che viene accettato che non è possibile avere una conoscenza diretta

di ciò che ci circonda, che non è possibile una descrizione oggettiva del mondo, ciò che

conosciamo dal mondo lo ricaviamo soltanto dall’esperienza. La nostra esperienza del

mondo è tutto ciò che possiamo conoscere. Non possiamo neppure conoscere l’esperienza

del mondo di un’altra persona. Al massimo possiamo interpretare l’esperienza altrui

secondo i nostri vissuti. Qualunque impressione ci facciano della vita interiore di qualcun

altro, la ricaviamo da come viene espressa con parole e scritti. Ma dal momento che per

dare significato all’esperienza dobbiamo organizzarla, incorniciarla, darle un struttura,

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cosa c’è di meglio della scrittura.? Una storia infatti è un unità di significato che da una

cornice all’esperienza (…)” (Sluzki) [43].

Iniziai a capire l’importanza, per la comprensione dell’altro, della conversazione

terapeutica scritta, considerandola alla stregua di una forma raffinata di ricerca ed analisi.

Analisi e ricerca di nuove descrizioni, nuove interpretazioni, nuovi significati, nuove

sfumature date alle parole.

Questa nuovo strumento mi sta aiutando oggi, a risolvere casi complessi con pazienti

difficili in cui la negoziazione per i trattamenti medici non sempre sono facili o per uscire

da contrapposizioni sterili e non vantaggiose per i miei assistiti.

Prendere una penna e scrivere è sempre una novità e parte di questa risiede proprio nella

continua ricerca d’essere nella pagina scritta, ciò che si vorrebbe davvero essere.

I risultati sono appaganti. Il lavoro è più creativo e meno monotono. Le persone con cui lo

ho condiviso si son detti entusiasti. Esistono comunque limiti di applicabilità, effetti

collaterali e drop out non così infrequenti.

Nelle pagine che verranno, troverete un tentativo per sistematizzare quanto fin qui scritto.

Confido nella vostra pazienza e comprensione.

“ La vita è breve, l’arte è lunga, l’esperienza ingannevole ed il giudizio difficile”

(Ippocrate da Kos)

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PARTE I

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Il Male

“L’uomo è così perfettibile e corruttibile che può

divenire pazzo ed infelice mediante la ragione”

G.C.Lichtenberg [23]

Il termine male deriva dal latino “malum”, propriamente: “Ciò che nuoce all’uomo, da cui

sua infermità, rovina, danno, pena, tormento, misfatto e in generale tutto ciò che è

contrario al suo benessere, alla virtù, alla legge e alla di lui convenienza” [47].

Analizzando questa definizione, si capisce come l’uomo chiami collettivamente male, un

certo numero di cose tra loro dissimili: il dolore somatico, la sofferenza psichica, la

malattia, l’infermità, la consapevolezza della morte, il senso d’inadeguatezza, la paura,

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l’ansia, la noia, il desiderio inappagato, la perdita, il sentimento dell’ingiustizia, la

cattiveria, l’invidia e altro ancora.

Una babele di significati tra i quali si può individuare un denominatore comune: il male

principia sempre e comunque, dalla constatazione dell’esistenza di un certo scarto tra ciò

che l’uomo è e ciò che vorrebbe essere, tra la sua condizione attuale e la presunta.

Il male così inteso necessariamente nasce con l’uomo per rimanervi circoscritto. Per

rimpiangere e dolersene occorre la capacità di confrontare una serie di circostanze con le

loro possibili alternative, compiendo azioni riflessive e comparative, processando e

integrando simultaneamente più piani temporali.

Sede di queste nobili competenze è la corteccia cerebrale ed è proprio grazie ad essa che

l’uomo possiede immaginazione, progettualità e consapevolezza di sé.

La mente quindi, oggi sempre più intesa come proprietà emergente del cervello, da artefice

del proprio primato, si configura per l’uomo anche come causa del suo stesso male,

connaturando quest’ultimo ad una sorta di peccato originale da scontare per il suo sofferto

cammino di evoluzione.

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Il male fisico

“Di la rosa nni nasci la spina e di la spina nni nasce la rosa”

Dalla rosa nasce la spina e dalla spina nasce la rosa

Antico proverbio siciliano [41]

Sebbene molti siano i significati attribuiti dall’uomo alla parola male, è indubbio come

nella maggioranza dei casi ci si riferisca per esso, al male propriamente fisico. Secondo la

definizione oggi di più largo consenso: “Il male fisico è quello immediatamente percepito

dai sensi ed è causato da una perturbazione del normale stato di salute di un individuo,

perturbazione di origine morbosa. Esso è riconducibile alla malattia fisica ed ad uno stato

di dolore e di sofferenza del corpo, durante la quale viene meno quella condizione di

benessere che è naturale in uno stato di salute non alterato dal malessere e dalla

spossatezza” [49].

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La Malattia

“La malattia è il medico più ascoltato: alla bontà, alla scienza si fanno solo promesse; alla

sofferenza si obbedisce”.

Marcel Proust [23]

Il termine malattia deriva dal termine greco “Malakia” il quale indica, mollezza, languore,

debolezza. L’etimologia del termine nei secoli si è mantenuta, non altrettanto la sua

semeiologia sociale.

Traccerò a seguire, un breve riassunto del percorso storico-culturale nel quale tali

modifiche si sono verificate.

Agli albori della medicina, gli aspetti biologici erano fortemente intrecciati a quelli

psicologici, sociali e sovrannaturali. L’antico sciamano curava le ferite e utilizzava qualche

pianta medicinale, ma soprattutto usava il suo potere per aiutare il malato a liberarsi dagli

spiriti malvagi. La medicina in questa fase era propriamente teuturgica. Il medico-

sacerdote si poneva come ponte (pontefice) tra l’umano e il divino, mediando a favore del

primo, il potere di guarire del secondo.

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Di questi molteplici piani in cui si muoveva l’arte del curare, erano ben consci anche i

primi grandi medici greci. Nel periodo preomerico, ad esempio, i concetti di mente-corpo,

corpo-natura erano tutt’altro che disgiunti, esprimevano anzi una modalità storica e

culturale di concepire l’unità dell’essere umano.

A tal proposito, vale la pena di trascrivere un’ intensa poesia di Saffo (VII se a.C.), nella

quale si descrive il dolore e la gelosia nel vedere l’amante che sta incontrando l’uomo che

la prenderà sposa:

“A me pare uguale agli dei

chi a te vicino così dolce

suono ascolta mentre parli

e ridi amorosamente. Subito,

il mio cuore nel torace si agita con violenza,

come appena ti vedo

così la voce non esce,

la lingua si spezza.

Un calore corre rapido sotto la pelle

nulla più vedono gli occhi

rombano possenti le orecchie

il sudore scorre per le membra

un fremito mi sale

e pallida più d’un stelo d’erba

simile sono a colui che è vicino alla morte”

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Ciascun verso esprime un’ intensa sensazione somatica, tanto che oggi saremmo

facilmente tentati ad attribuire a quanto descritto, un disturbo d’ansia da attacco di panico

(DAP). Interessante annotare quanto scrisse nel 1986 Romolo Rossi, a margine di alcuni

suoi studi sulla poetessa di Lesbo:

“E’ provabile che oggi, non si scriverebbe più una poesia sull’amore e sulla gelosia,

riportando i sintomi fisici del panico, si parlerebbe dell’angoscia dell’amore con un

linguaggio finemente metaforico, grazie al quale le sensazioni somatiche verrebbero

traslate in termini psichici. La differenza sta probabilmente nel fatto che nella antica

Grecia non vi erano espressioni verbali per differenziare lo psichico dal somatico” [24].

Fu poi la volta di Ippocrate di Kos (V secolo a. C). La sua concezione sosteneva che

l’uomo avesse in sé un microcosmo formato da quattro elementi fondamentali che chiamò

“umori” (aria, fuoco, terra e acqua) e che la malattia derivasse dallo squilibrio tra questi

elementi. Alla base dei suoi studi c’era una filosofia profonda e pratica, unita ad un

notevole buonsenso. I principi fondanti della sua scuola erano la centralità dell’uomo

(detta anche visone olistica dell’uomo) e una forte attenzione dedicata all’ambiente,

all’ igiene alimentare, alla salubrità dell’aria e delle acque nel quale egli viveva.

Galeno dopo di lui (II ^ sec d. C) approfondì l’importanza della componente psicologica

del malato. Egli estese la teoria greca degli umori non solo alle funzioni vitali, ma anche

all’intera personalità, elaborando la nota dottrina dei tipi di personalità in relazione alla

predominanza di uno dei quattro umori di base: il flemmatico (eccesso di flegma: grasso,

lento, pigro, sciocco), il melanconico (eccesso di bile nera: magro, debole, pallido, avaro,

triste), il collerico (eccesso di bile gialla: magro, asciutto, di bel colore, irascibile,

permaloso, furbo) e il sanguigno (eccesso di sangue: rubicondo, giovale, allegro e goloso).

Questa teoria degli umori più volte riadattata e rielaborata, orientò per circa sedici secoli

l’opera dei medici occidentali, intrecciando intimamente la mente con il corpo, il corpo con

la natura.

Solo intorno al XVII secolo, la medicina iniziò a circoscrivere il suo oggetto di attenzione

al solo corpo. E tanto più andò arricchendosi dei contributi delle scienze cosiddette

naturali, tanto più rinunciò ad occuparsi di ciò che tali scienze non riconoscevano di

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propria competenza, arrivando al punto d’occuparsi esclusivamente solo delle

modificazioni oggettivamente riconoscibili attraverso la malattia.

Tra i molti studiosi che contribuirono a questo scollamento del soggetto dall’oggetto della

medicina, cito per necessità di sintesi solo Il Morgagni, fedele assertore che la malattia

andasse identificata nella lesione d’organo e nel suo quadro anatomopatologico tissutale e

Virchow, grande patologo che si spinse anche oltre, riducendo il campo d’osservazione dal

tessuto alla cellula.

Il modello scientifico di riferimento che meglio si adattò a questo mutamento dell’oggetto

di indagine, si dimostrò “lo sperimentale” nato con Cartesio, Bacone e Galilei fondato sul

dato osservabile, sull’elaborazione matematica, sulla teorizzazione e verifica sperimentale

dello stesso. Claude Bernard egregiamente, così lo descrive: “Il vero scienziato deve

abbracciare nello stesso tempo la teoria e la pratica sperimentale: 1) egli accerta un fatto

2) in seguito a questo fatto formula un’ ipotesi 3) per verificare tale ipotesi, ragiona,

concepisce un esperimento e inventa le condizioni per realizzarlo 4) dall’esperimento

nascono nuovi fenomeni che egli osserva di nuovo e così di seguito. Insomma la mente

dello scienziato si trova posta di fronte fra due osservazioni: una da cui comincia il

ragionamento l’altra che lo conclude.” [19].

I meriti di questo modello sono sotto gli occhi di tutti, ma questa nuova epistemologia

progressivamente separò l’aspetto biologico dal piano psicologico e sociale della medicina.

Come ebbe a dire lo psichiatra De Bertolini: “Il metodo galileiano scientifico ha

emancipato la medicina sul piano dell’oggetto di indagine ma ha anche operato sul piano

epistemologico e metodologico una sorta di riduzionismo biologico scotomizzando gli

aspetti psicologici e ambientali” [13].

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Il modello bio-psico-sociale

“E’ più quello che non si vede di quello che si vede”

Antico proverbio turco [42]

La rigida visione “sperimentale e riduzionalistica” della scienza (e della medicina), iniziò

ad essere superata già a partire dagli inizi del ventesimo secolo.

Svariate ne furono le cause e le concause. Tra queste mi sembra doveroso qui ricordare:

L’esplorazione del’inconscio ad opera di Freud. Oltre al contributo dato a tutta la

cultura occidentale in generale, e alla psichiatria in particolare, ebbe il grande

merito d’ aver gettato le basi su cui edificare una ritrovata medicina olistica. Le sue

scoperte sull’inconscio, sulla motivazione, sui meccanismi di difesa, posero le basi

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per la comprensione della persona e quindi anche delle sue reazioni alla malattia.

Soprattutto fu con la scoperta del controtransfert che si posero le premesse per una

nuova lettura del rapporto medico-paziente e per un suo utilizzo clinico

consapevole [34].

la nascita e lo sviluppo della medicina psicosomatica (soprattutto nel periodo a

cavallo tra gli anni 1930-50). La teoria di fondo fu di assumere il conflitto

intrapsichico come nucleo centrale dei disturbi psico-somatici e sulla base di tale

conflitto, si cominciò ad individuare patologie, non altrimenti spiegabili dalla

medicina dell’epoca (es. ulcera peptica, retto-colite ulcerosa, asma bronchiale,

ipertensione arteriosa) [39].

La nascita della psichiatria di Liaison. Due eventi particolarmente significativi

segnarono la sua nascita. Il primo nel 1929 rappresentato dalla pubblicazione sull’

“American Journal of Psychiatry” del lavoro di Henry intitolato “Some modern

aspects of psychiatry in general hospital practice”. Il secondo evento fu il lavoro di

Balint che negli anni trenta iniziò con alcuni medici internisti i gruppi di

formazione alle problematiche psicologiche della pratica medica e al rapporto col

paziente [2].

La nuova concezione di scienza proposta e difesa dal filosofo austro-britannico

Karl Popper [37], secondo cui l’osservazione assolutamente pura ed obiettiva che

era stata secoli prima, invocata da Bacone e Galileo come strumento fondamentale

della ricerca, era una fandonia: “Ogni osservazione scientifica viene sempre infatti

compiuta alla luce di alcuni presupposti iniziali che sono assolutamente

ineliminabili, nessun ricercatore potrà mai purgare la sua mente da ogni idea e

renderla simile ad una tabula rasa. All’opposto ogni studioso possiede conoscenze

più o meno consolidate, opinioni, aspettative che agiscono tutte come pregiudizi

che guidano la ricerca ed orientano a compiere certe osservazioni piuttosto che

altre. Allo stesso modo l’induzione non può fornire il fondamento per alcuna

conoscenza: infatti per quanto alto sia il numero delle osservazioni compiute è

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sempre possibile che l’osservazione successiva sia contraria alle precedenti e

faccia crollare la legge che era stata formulata”. Secondo questo nuovo pensiero,

la scienza non parte mai da osservazioni neutrali, ma da problemi. Fin dall’inizio

della sua ricerca, il ricercatore-scienziato possiede sempre un gran numero di

conoscenze che generano attese; pertanto le osservazioni che egli compie non

possono che inserirsi in questo contesto teorico e devono necessariamente essere in

accordo o in contrasto con le sue attese. Se le osservazioni contraddicono le attese

dello scienziato, da questo contrasto nasce una nuova domanda e viene generato un

nuovo problema che richiede una soluzione. Il ricercatore-scienziato allora, per

risolvere il nuovo problema, avanza una nuova ipotesi. Le nuove ipotesi proposte

non nascerebbero tuttavia sulla base di un procedimento induttivo, ma solo grazie

alla sua fantasia e alla sua immaginazione.

La medicina stessa ed il suo tumultuoso progresso interno. Superate infatti (e in

gran parte vinte) le patologie infettive e quella acute, sempre più spesso il medico

iniziò a confrontarsi con le patologie croniche e con gli effetti spesso invalidanti del

suo stesso intervento. Il medico iniziò ad incontrarsi frequentemente con

sofferenze diverse che non richiedevano solo terapia ma soprattutto cura.

A paradigma del superamento nel campo medico, del rigido modello sperimentale-

riduzionistico, trascrivo parte del preambolo della Costituzione dell’Organizzazione

Mondiale della Sanità (OMS) redatta nel 1978 durante la conferenza di Alma Alta [38] :

“La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non soltanto assenza

di malattia. E’ un diritto fondamentale dell’essere umano. L’accesso al più alto grado

possibile di salute è un obiettivo sociale di estrema importanza che interessa il mondo

intero e presuppone la partecipazione di molti altri comparti socio-economici oltre a

quello sanitario (….).”

La medicina moderna tenta quindi una nuova strada, richiamandosi all’antica tradizione e

alla sua originaria funzione, unendo le capacità di capire e modificare gli accadimenti

biologici alle capacità di comprensione e sostegno delle dinamiche psicologiche delle

persone. Si fa strada, una nuova concezione che considera l’uomo all’interno di ecosistemi

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complessi e dinamici dove le interazioni biologiche, culturali, psicologiche, mediche,

sociologiche, economiche, demografiche, comportamentali e politiche si interconnettono

invariabilmente. E’ cioè la nascita del modello bio-psico-sociale.

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Una malattia, molte malattie

“(…) ciascuno di loro, aveva la sua specialità , il suo particolare tipo di sofferenza e perciò il

suo speciale modo di camminare, di esitare, di incedere, di zoppicare e anche la loro propria,

inimitabile mimica ( ...)”

Alessandro Manzoni [47]

Il termine malattia da mono-semantico, diviene polittico : “ Contiene in se, significati

nuovi e diversi che tra loro hanno solo una somiglianza di famiglia” (Pandolfi M.) [33].

Non si parla più solo di malattia, ma anche di:

Disease: è la malattia intesa nel suo senso biomedico tradizionale, come lesione organica;

evento questo oggettivabile e misurabile mediante una serie di parametri di natura fisico-

chimici e/o di diagnostica per immagine (es. misurazione delle funzioni vitali, alterazioni

chimiche della composizione sanguigna, ECOTOMOGRAFIA, TAC, NMR, PET ecc.)

llness: costituisce l’esperienza individuale dello star male, vissuta dal soggetto malato sulla

scorta della sua percezione soggettiva, del suo malessere. L’illness è sempre culturalmente

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mediato dal momento che non è possibile alcun accesso diretto cosciente al proprio vissuto

corporeo.

Sickness: definito come la comprensione di un disordine nel suo significato generale,

all’interno di una popolazione, in relazione alle forze macrosciali che su essa agiscono

(economiche, politiche ed istituzionali). E’ una sorta di rete semantica della malattia che

definisce culturalmente e che interconnette i suoi singoli significati soggettivi.

Queste riproposte sono tre distinzioni forse semplicistiche ed artificiose, ma che aprono ad

inaspettate possibilità:

La possibilità di includere nel concetto di malattia, componenti che derivano

dal contesto culturale di una data società od epoca, partendo dal presupposto che

lo stesso insieme di fenomeni biologici sia considerato malattia in un dato

contesto culturale e invece non lo sia in un altro. E’ evidente che in casi di questo

genere, la componente di significati che varia storicamente e che giustifica

l’inclusione o meno di un dato set di sintomi tra le malattie, è quella emotivo-

soggettiva; in altre parole sono le aspettative diffuse, la “percezione” dei fatti nel

quadro della mentalità del tempo che variano indipendentemente dai sintomi e

dall’evoluzione dei fenomeni biologici. (Mi si permetta una digressione sul tema:

durante il primo anno di frequenza alla Scuola di Specializzazione in

Psicoterapia, nel corso di una lezione tenuta dal Dott. Giuliani, ci furono

proposti a scopo didattico alcuni spezzoni del film “Parole Parole Parole” del

francese Alain Resnais (1997). In tale film, l’attrice protagonista Camille

risultava affetta da “Spasmofilia”, malattia questa neppure presente nella

nosografia italiana, ma ben conosciuta dai colleghi d’oltralpe).

La rivalutazione dei vissuti e delle percezioni soggettive del paziente ai fini di

una valutazione delle stesse strategie terapeutiche [2].

La necessità di contrastare ulteriormente, visioni “riduzioniste” della malattia,

andando a rafforzare il modello bio-psico-sociale, per il quale ogni complesso

organizzato può considerarsi spiegabile solo in modo incompleto dalle parti nelle

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quali può venire scomposto: “Il residuo inspiegato afferisce al tutto. L’uno è

maggiore rispetto alla somma delle sue parti” (Bateson) [4].

La convinzione dell’opportunità di favorire la prevenzione, investendo risorse

economiche non esclusivamente sulla terapia [15].

La possibilità di misurare la salute sia con parametri clinici obiettivabili e

laboratoristico-strumentali, ma anche in termini di abilità con la quale un

individuo è in grado di realizzare le sue aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni

e di affrontare ed eventualmente cambiare l’ambiente in cui vive.

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Criticità

“Ogni scienza chiude in fondo a sé il dubbio”

Emile Verhaeren [23]

Mai come oggi il dominio della medicina si è espanso. Non c’è argomento, tema, problema

o avvenimento di cronaca che non possa avere anche un’interpretazione sanitaria. La

medicina è entrata nelle nostre vite come un elemento di quotidiana rassicurazione-

preoccupazione. La rapidità con cui avviene questa espansione è direttamente

proporzionale ai progressi della tecnologia e alla sua larga applicazione nella pratica

clinica. A tal punto, che l’iconografia moderna, riconosce un vero medico solo quando è

ritratto accanto al suo macchinario di lavoro tecnologicamente avanzato.

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Vi è una diffusa euforia tecnologica che spesso contrasta con le attuali teorie sulla

complessità del vivente, con la visione olistica/ecologica della medicina e con il citato

modello bio-psico-sociale, rendendo di fatto il paziente e il resoconto della sua esperienza

di malattia sempre più irrilevante.

Si sta verificando una sorta di frattura, tra una medicina iper-tecnologica sempre più volta

allo studio della nanotecnologia genomica, e i nuovi indirizzi culturali, metodologici ed

epistemologici ispirati alla teoria della complessità dei sistemi viventi, verso cui la scienza

e la medicina negli ultimi anni sempre più spesso si richiama.

Una dicotomia questa che è fonte di disagio professionale, soprattutto per noi medici

clinici che ci troviamo ogni giorno collocati in un crocevia di mandati sociali ambigui,

costretti a farci carico di aspettative spesso contraddittorie, impegnati a ricercare un’

identità sempre più complessa e sfuggente.

Ampie fasce di cittadini informati ed impazienti, sollecitati dalle continue lusinghe dei

magnifici sviluppi della medicina biologica, infatti vantano sempre più il diritto ad un

accesso privilegiato “alle nuove macchine” (per fruire spesso di un inconsapevole

medicalizzazione consumistica della vita quotidiana) andando spesso a cozzare con i limiti,

ancor oggi presenti, della medicina sull’ effettiva curabilità di alcuni mali ( es. molte forme

di neoplasia, svariate malattie cronico-degenerative ecc..).

Per tale motivo, per aiutarci nel nostro lavoro e per il recupero di una buona pratica medica

basata sulla comprensione riflessiva del proprio sé e della relazione con il paziente, si sta

avvertendo sempre più l’esigenza di inserire nella nostra formazione anche corsi dedicati

alle scienze umane. E perché no, persino un corso quadriennale di Specializzazione in

Psicoterapia, come è avvenuto nel mio caso.

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PARTE II

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Il medico

“ Io lotterò. Io, io … io … e un dolce sonno dopo quella notte difficile mi rapì. Si stesero come

un velo le tenebre d’Egitto … e in mezzo io … armato di spada, o forse di uno stetoscopio.

Avanzo … combatto … in un posto selvaggio. Ma non sono solo. Avanza con me la mia armata:

le infermiere Ana Nikolaevna e Pelageja Ivanna. Tutti in camice bianco, e tutti avanti, avanti ...

Il sonno è una gran bella cosa! ...”

Michail A. Bulgakov tratto da “Appunti di un giovane medico”[8]

.

Ma perché una persona decide di fare il medico nella vita?

Spesso la ragione più superficiale e popolarmente riconosciuta nella scelta della

professione, è di tipo socio-economico (malgrado la crisi delle nostre istituzioni sanitarie,

non vi è dubbio che la professione medica goda ancora oggi di prestigio sociale e offra

mediamente, una discreta remunerazione economica). Ma quasi sempre la motivazione di

questa scelta, ha ragioni più profonde. Alcune sono facilmente rintracciabili nella storia

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personale degli aspiranti medici (ad es. aver sofferto di malattie importanti, portarne ancora

gli esiti o aver assistito familiari a lungo malati). Altre volte, la ragione sta

nell’ammirazione-identificazione con qualche medico reale o letterario (e questa potrebbe

essere la mia personale motivazione, dal momento che mio padre svolge da trent’anni la

professione di medico di famiglia).

Se poi dovessimo spingerci ad un livello di analisi più “profondo” probabilmente

troveremmo alla base di questa volontà l’identificazione con la più ampia motivazione a

curare-guarire (relazioni di aiuto).

“ Non vi sembri banale il gioco del dottore. Il fascino di quel gioco, sta nel poter accedere

alle parti intime, segrete del corpo e questo ha una forte coloritura erotica. E’ facile

trovare in ciò gli echi della scena primaria e delle tematiche edipiche: il gioco infatti si

associa frequentemente a quello di papà e mamma. Poi esiste anche un altra componente,

la valenza sadica e di dominio. L’aspirante medico fa esami dolorosi e prescrive cure

penose che si mostrano peraltro, entro ragionevoli limiti, altrettanto eccitanti per chi li

prescrive e per chi le subisce. Non è difficile intravedere in questa dinamica, la fissazione

anale, il desiderio cioè di dominare e di essere dominati, la pulsione aggressiva. Ma c’è

un'altra componente che non va dimenticata: la componente dell’assistere, dell’avere

cura. C’è una componente orale materna rivolta a un segreto personaggio malato, una

parte di noi non sufficientemente amata e curata o un aspetto della madre nutrice che

temiamo d’aver danneggiato. Vi è quindi un ventaglio di motivazioni, il curare, il riparare,

il controllare, il vedere, il rassicurarsi che affondano le radici nei bisogni orali, nei

desideri anali, nelle proibizioni edipiche. La ripetizione del gioco, la coazione a ripeterne

le dinamiche, serve proprio a controllarle e superarle” (De Bertolini) [13].

Io mi permetterei di aggiungere che ad un livello ancor più profondo, probabilmente esiste

ancora l’ancestrale desiderio sciamanico di conoscere i segreti della vita, della sessualità,

della morte e di poterli in qualche modo dirigere e controllare.

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Letteratura e realtà

(dritto)

“Il processo di apprendimento individuale è parallelo

al processo di esplorazione delle domande;

è il rapporto con le domande ciò che ci

permette di apprendere.

La vera conoscenza nasce soltanto dall’esplorazione

delle domande.

Perciò il “maestro” sono le domande,

niente e nessun altro”

J. Krishnamurti [23]

Una dozzina di anni fa lessi “La cura”[22], un libricino dello scrittore tedesco Hermann

Hesse, edito nel lontano 1925, dal titolo fortemente suggestivo per un giovane medico

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apprendista. Alcune riflessioni ivi contenute, mi aiutarono nel ridefinirmi all’ interno degli

studi medici che andavo a terminare.

Ne trascrivo alcuni passi, per me molto significativi:

“ (...) I medici, secondo il mio modo di sentire, fanno parte della gerarchia dello spirito,

perché io li colloco molto in alto e perché in un medico sopporto male una delusione, che

invece accetto facilmente da parte di un funzionario di banca o delle ferrovie, e persino da

un avvocato. Mi aspetto da un medico, nemmeno io so bene perché, un resto di

quell’umanesimo per cui si richiede la conoscenza del latino e del greco oltre a una certa

preparazione filosofica, una certa disposizione a discutere (…)

(...) Dopo una breve attesa, venni introdotto: una stanza assai bella e arredata con molto

gusto, conquistò subito la mia fiducia. Il medico che, come sempre avviene, si era prima

sciacquato le mani in una camera attigua, finalmente entrò; il suo viso intelligente

prometteva comprensione e, come si conviene a due pugili ben educati, ci salutammo

prima dello scontro con una cordiale stretta di mano. Iniziammo la lotta con molta

circospezione, ci assaggiammo a vicenda, provammo esitanti i primi colpi. Eravamo

ancora su un terreno neutro, la nostra disputa verteva sul ricambio, sull’alimentazione,

sull’età, su malattie precedenti, e grondava di innocuità, solo a certe parole i nostri

sguardi s’incontravano in una chiara intenzione agonistica. Il medico aveva nel suo

repertorio alcuni termini del gergo sanitario che io decifravo solo in modo approssimativo

ma che conferivano alle sue asserzioni un grande prestigio ornamentale e rafforzavano in

maniera sensibile la sua posizione nei miei confronti. Tuttavia, già dopo alcuni minuti, mi

ero reso conto che da parte sua, non dovevo temere una di quelle crudeli delusioni che

sono così penose quando ci vengono da un medico: l’urtare, cioè, dietro un’attraente

facciata d’intelligenza e di dottrina, in un rigido muro di dogmatica, il cui primo postulato

afferma che le idee, la mentalità e le terminologie del paziente sono fenomeni puramente

soggettivi, mentre quelli del medico sono valori rigorosamente oggettivi. No, io qui avevo

a che fare con un medico, dal quale valeva la pena cercare di farsi capire, che non era

solo intelligente secondo le prescrizioni, ma che era davvero sapiente, possedeva cioè un

vivo senso della relatività di tutti i valori spirituali. Tra persone colte e ragionevoli

succede ogni momento che ciascuno consideri la mentalità e il linguaggio, la dogmatica e

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la mitologia dell’altro come fatti puramente soggettivi, come mero esperimento, immagine

fugace. Ma che ognuno faccia e applichi questa scoperta anche su se stesso, concedendo

tanto a sé quanto all’avversario il diritto alla propria peculiarità, alla propria mentalità e

al proprio linguaggio, che insomma due esseri umani si scambino dei pensieri e intanto

siano costantemente consapevoli della fragilità dei loro strumenti, dell’ambiguità di ogni

parola, dell’impossibilità di esprimersi in modo veramente esatto, e perciò anche della

necessità di donarsi senza risparmio, di una reciproca e cordiale sollecitudine, di una vera

cavalleria spirituale, questa bella situazione, che dovrebbe essere ovvia tra esseri

pensanti, la si incontra invece così di rado, che ogni avvicinamento nella sua direzione,

ogni sua attuazione anche parziale la salutiamo con intima gioia (….)

(….) Ad un certo punto della visita, il terreno neutrale, venne abbandonato e il mio

avversario passò all’offensiva con la domanda: “non crede che i suoi mali possano anche

avere un’origine psichica?”. Ci eravamo dunque arrivati, le risultanze negative degli

esami non giustificavano la quantità di sofferenza da me denunciata, c’era un sopravanzo

di sensibilità un po’ sospetto, la mia reazione soggettiva ai dolori artritici non

corrispondeva alla misura normale prevista, si era scoperto in me il nevrotico (.…)

(.…) Pensavo che il dottore, da allora non mi prendesse più sul serio, poteva darmi

ragione con un sorriso un tantino troppo indulgente, dire qualche banalità sull’influenza

degli stati d’animo, e oltre a queste frasi d’obbligo, avrebbe forse anche tirato fuori il

termine fatale di “imponderabili”. Questa parola è una pietra di paragone, una delicata

bilancia per misure spirituali, che lo scienziato di mezza tacca chiama appunto così. Egli

si serve di questa comoda espressione, in tutti quei casi, dove si tratta di misurare e

descrivere quelle manifestazioni vitali per cui non solo gli apparecchi di misurazione

esistenti sono troppo grossolani, ma anche la solerzia e la capacità di chi ne parla sono

troppo scarse. Gli scienziati di solito, sanno poco: non sanno tra l’altro, che per le mobili

e fuggevoli entità ch’essi definiscono imponderabili esistono, al di fuori delle scienze

naturali, degli sviluppatissimi sistemi di misurazione e di espressione e che tanto Tommaso

d’Aquino quanto Mozart, ciascuno nel suo linguaggio, non hanno fatto altro che pesare i

cosiddetti imponderabili con una precisione inaudita. Potevo mai aspettarmi da un medico

di campagna cognizioni così impalpabili? Eppure lo feci ugualmente e, vedi un po’, non

ne venni deluso. Fui anzi capito. Quell’uomo si rese conto che in me non si trovava di

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fronte ad una diversa dogmatica, ma un gioco, un arte, una musica che non ammetteva più

un dibattito su chi avesse ragione ma esigeva solo di vibrare all’unisono o di rinunciare.

Ed egli non venne meno, e io trovai comprensione e riconoscimento: non il riconoscimento

dato a colui che ha ragione, cosa che non sono né voglio essere, ma il riconoscimento che

si dà a chi cerca, a chi pensa, a chi sta ai nostri antipodi, a chi è un nostro collega di

un’altra facoltà molto lontana dalla nostra, ma anch’essa pienamente valida. Ed ecco che

il mio buon umore, già sollevato dall’ottimo voto concesso alla mia pressione sanguigna e

alla mia respirazione, salì ai più alti gradi. La pioggia, la sciatica, la cura potevano

andare come volevano: io comunque non ero in mano ai barbari, mi trovavo di fronte a un

uomo, a un collega, a una persona dotata di mentalità elastica e differenziata. Non è che

progettassi di conversare spesso con lui sceverando svariati problemi. No, ciò non era

necessario, mi bastava il fatto che l’uomo al quale per un qualche tempo concedevo dei

poteri su di me e cui dovevo accordare fiducia, possedesse ai miei occhi il certificato di

maturità umana. Soddisfatto e provvisto di molte istruzioni sanitarie mi congedai dal

dottore (...) ”

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(rovescio)

“Né tutti li russi su’mbriachi, né tutti li giarni su’malati”

Né tutti i rossi (coloro che hanno il viso rosso) sono ubriachi, né tutti i gialli (coloro che hanno

il volto pallido) sono malati.

Antico proverbio siciliano [1]

Tratto da “La lunga notte del Dottor Galvan” di Daniel Pennac [35].

“Come dicevo, era esattamente vent’anni fa. Ero di guardia al pronto soccorso della

clinica universitaria Postel-Couperin. Era domenica ed eravamo nel pieno della classica

frenesia notturna: incidenti domestici, infezioni eruttive, suicidi abortiti, aborti mancati,

sbronze comatose, infarti, attacchi epilettici, embolie polmonari, coliche nefritiche,

bambini bollenti come pentole, automobilisti in polpette, spacciatori fatti a colabrodo,

barboni in cerca di alloggio, adolescenti fumati, adolescenti catatonici … insomma, la

tipica domenica notte al pronto soccorso, e per giunta con la luna piena. Tutta quella bella

gente faceva il possibile per sottrarsi al lunedì mattina, e io come sempre iniettavo,

otturavo, intubavo, cucivo, saturavo, sondavo, zaffavo, drenavo, medicavo, facevo

partorire, qualche volta addirittura prevenivo e depistavo! insomma, dispensavo. Ero un

dispensario fatto persona. Sostituivo Pansard, Verdier, Samuel, Desonge: “A buon

rendere, Galvan”. “Lasciate stare, ragazzi, lo faccio volentieri” (tutti baroni oggi quelli).

I più ingenui vedevano in me un idealista facente funzione di interno, due soldi al mese per

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ottanta ore alla settimana, a scapito della mia carriera, della mia vita privata, della mia

giovinezza. La mia famiglia (tutti medici sin dal’epoca di Moliere, la medicina è la più

diffusa malattia ereditaria) mi trovava esemplare. Mio padre già mi vedeva nei panni

dell’arcangelo che sgomina il cancro del sistema linfatico: “la tua strada è l’ematologia,

Gerard!”. Io lasciavo correre la fantasia di mio padre, ma facevo di testa mia; sapevo che

non sarei mai stato l’uomo di una sola specialità. La mia specialità sarebbe stata il pronto

soccorso: tutti i mali dell’uomo, i mali di tutti gli uomini, come dire tutte le specialità. Il

mago della medicina interna, ecco cosa volevo diventare. Lei mi dirà che era un ambizione

più che onorevole … no ? si? eh?”

“(…)”

“Bhè, si sbaglia. In realtà, io sognavo una cosa sola ... quasi non oso dirgliela, tanto è …

da non crederci! sognavo il mio futuro biglietto da visita! sul serio! una vera e propria

ossessione. Non pensavo ad altro che al giorno in cui avrei potuto sguainare un biglietto

da fare impallidire tutti gli amanti del genere. Era questo, in fondo, il mio grande

progetto!

Francoise sposava la mia ambizione e io avrei sposato Francoise. Anche lei era figlia di

un medico e in due contavamo di sfornarne altre 4 o 5. Nel frattempo Francoise lavorava

al progetto del mio biglietto da visita. Cesellava discreti corsivi in inglese in puro stile

nouvelle revue francaise: “Ti occorre un biglietto da visita semplicissimo, Gerard, hai una

tradizione troppo importante alle spalle e un futuro troppo brillante di fronte per scegliere

qualcosa di pacchiano!”. Aveva ragione: mi occorreva un cartoncino discreto,

infinitamente rispettabile, retaggio di un tempo in cui il tempo non passava. Dire che

sognavo quel biglietto da visita è dir poco. Nella mia immaginazione si dispiegava come

uno stendardo la cui ombra cancellava i colleghi e copriva tutto il campo medico.

Professor Gerard Galvan

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Medicina Interna

Scienza e ragione. Una mediazione possibile

“Vi sono due modi secondo cui la scienza influisce sulla vita dell’uomo. Il primo è familiare a

tutti: direttamente ed indirettamente la scienza produce strumenti che hanno completamente

trasformato l’esistenza umana. Il secondo è per sua natura educativo, agendo sullo spirito. Per

quanto possa sembrare meno evidente a un esame frettoloso, questa seconda modalità non è

meno efficiente”.

Albert Einstein [23]

Ma esiste davvero un’ integrazione possibile tra la contemporanea medicina iper-

tecnologica e il modello bio-psico-sociale, tra la figura del medico scienziato e quella del

medico umanista invocato da Hesse nel suo scritto?

Io credo che questo connubio esista: prende il nome di Medicina di Famiglia.

L’American Academy Of Family Physicians (A.A.F.P.) ha definito la Medicina di

Famiglia come: “La specialità medica che fornisce un’ assistenza sanitaria continuativa e

completa all’individuo e alla famiglia. Si tratta di una specialità ampia, in cui si integrano

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le scienze biologiche, cliniche e del comportamento. Una forma di assistenza medica in cui

assumono particolare importanza il contatto primario e le responsabilità continuativa nei

confronti del paziente. Si tratta di un approccio personale, che mette in moto, un

interazione assolutamente particolare tra il paziente e il medico. La sua finalità è globale

e comprende il coordinamento delle terapie e un approccio complessivo ai problemi di

salute del paziente, siano essi biologici, comportamentali o sociali”

I medici di famiglia sono medici del singolo individuo, con la responsabilità principale di

prendersi cura in modo globale e continuativo di ogni persona che richiede il loro

intervento; Si interessano degli individui nel contesto della loro famiglia, della loro

comunità e della loro cultura, sempre rispettando l’autonomia dei loro pazienti [20].

Volendo puntualizzare, la medicina di famiglia assicura:

un’ assistenza di primo contatto che rappresenta spesso il punto di ingresso dei

pazienti nel Sistema Sanitario; fornisce un accesso aperto e senza limitazioni ai suoi

utilizzatori, tratta tutti i problemi di salute, senza tener conto di età, sesso o

qualsivoglia altra caratteristica delle persone che decidono di accedervi

una consulenza continuativa sia agli individui sani che malati

un approccio globale che mutua i suoi contenuti da tutte le tradizionali discipline

umanitarie.

Inoltre:

promuove la salute e il benessere, con interventi appropriati ed efficaci

gestisce nei singoli pazienti contemporaneamente problemi di salute, acuti e

cronici

ha la responsabilità di fornire cure, con una continuità longitudinale in base alla

necessità del paziente

ha una funzione di coordinamento tra i vari professionisti del sociale

possiede un tipo di approccio altamente personalizzato, tenendo anche conto della

interazione della persona con la comunità nel suo complesso.

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Mi preme ulteriormente sottolineare come la medicina di famiglia, in quanto disciplina

incentrata sul paziente, è altamente contestualizzata, utilizzando nella definizione del

problema, tutti gli elementi soggettivi presentati dal paziente: la sua storia individuale, le

sue precedenti esperienze, le sue convinzioni, le aspettative, gli obiettivi di vita, includendo

le influenze familiari, culturali e socio-economiche, utilizzando la conoscenza e la fiducia

originate da contatti ripetuti. Questo differentemente da quanto avviene in tutte le altre

specialità mediche, che si sviluppano come discipline a bassa contestualizzazione,

limitando il processo decisionale a fatti obiettivi, ad informazioni quantitativamente

misurabili e a tecniche diagnostiche ad alta tecnologia [16].

E’ proprio quest’ ultima peculiarità della medicina di famiglia che la pone maggiormente

vicina alle recenti teorie della complessità rispetto alle procedure dei sistemi lineari

(i singoli pazienti infatti, possono essere definiti sistemi adattativi complessi, auto

organizzati e organizzantesi, dotati di regole interne proprie che non sono lineari e

prevedibili) ma le impone anche un insolubile paradosso tra il bisogno di cure coerenti e

basate su prove di efficacia (Evidence Based Medecine) e il dilemma posto dal contesto,

dalle priorità e dalle scelte del singolo paziente.

Si può ben capire, come il lavoro del medico di famiglia abbia per questi motivi,

principalmente luogo in situazioni complesse, dominate da dubbi ed incertezze, soprattutto

in frangenti storici di recessione economica come i nostri, nei quali la sanità viene sempre

più sottoposta a rigorosi controlli economici e a limitazioni di spesa.

Mi si permetta di aggiungere con una punta di polemica che non sempre è lampante

(soprattutto per alcuni burocrati e politici con limitate conoscenze di pratica clinica

corrente) il vantaggio reso da un tale tipo di approccio al malato, dal momento che il

risultato osservabile degli interventi nella medicina di famiglia è sempre maggiore delle

somme delle sue parti.

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Evidence-based-Medicine

“Se un uomo parte da certezze, terminerà con dubbi; ma se si contenta di cominciare con dubbi,

terminerà con certezze."

Francis Bacon [23]

Domanda: Ma allora cosa chiedono sempre di più i burocrati, i politici, alla medicina del

XXI secolo?

Risposta: La medicina basata sulle evidenza (EBM).

La EBM prende le proprie mossa dalla considerazione di fondo che spesso alcuni giudizi

medici si sono rivelati erronei quando è stato possibile ricorrere a misure precise,

all’impiego di tecniche invasive o addirittura agli esami autoptici.

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E’ uno scontro fra la ben nota tendenza a ritenere che la medicina sia un’ arte e quindi non

sottoponibile a valutazioni generali, e il tentativo di introdurre in essa maggiori elementi

di certezza, derivanti da un approccio sempre più scientifico e matematico, nello stabilire

ciò che giova al paziente rispetto a ciò che gli è ininfluente o addirittura dannoso.

La EBM si sforza, attraverso studi clinici controllati, ripetuti e standardizzati, meta-analisi

e studi osservazionali, di stabilire con certezza quali tipi di diagnosi, di trattamenti o di

riabilitazione, abbiano le maggiori provabilità di essere utili al paziente, in termini di

rapporto benefici-rischi [11].

In definitiva, lo scopo per cui è nata l’Evidence Based Medicine, è quello di creare un

medico che sappia usare in modo razionale e consapevole le differenti risorse terapeutiche

e tecnologiche attualmente disponibili, cercando di uniformare il più possibile il suo

approccio al malato.

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PARTE III

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Medicina di famiglia e l’arte dell’ascolto

“Dio ci ha dato due orecchie ed una sola bocca per ascoltare almeno il doppio di quanto

diciamo”

Antico proverbio cinese [42]

Il medico di famiglia, proprio per la sua posizione privilegiata che lo porta a contatto non

solo col paziente ma anche con le persone a lui più significative, ha da sempre conosciuto

l’interdipendenza tra i fattori somatici, psichici e sociali, nel determinismo di ogni

patologia. Ha infatti sempre dato sostegno psicologico ai pazienti cronici, inabili e

terminali, ha sempre cercato di risolvere piccoli e grandi problemi famigliari ed

esistenziali, ha sempre svolto funzione di educazione e prevenzione sanitaria. Ma

soprattutto, ha sempre ascoltato storie. Storie nuove, storie vecchie, storie vere, storie false,

storie tristi o felici, storie di immobilità o storie di cambiamento.

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Purtroppo, tutto ciò è rimasto quasi sempre velato dal pudore e affidato al buon senso e

all’umanità del medico, così che a questo grande lavoro (spesso misconosciuto) non è

corrisposta nel tempo, una sua teorizzazione e codificazione di qualche rilievo [28].

Medicina e psicologia: connubio possibile

“Contro due, non la potrebbe Orlando”

Proverbio italiano [42]

Il paziente restituisce nell’atto dialogico del colloquio col proprio medico, non solo il

sintomo, ma le storie che lui stesso costruisce intorno al sintomo, vale a dire le descrizioni

più vere e complete del suo malessere. Ecco perché è così importante per ogni sanitario,

l’attenzione dedicata all’ascolto dei racconti dei propri utenti: “Nell’ incontro diagnostico,

la narrazione è la forma fenomenica in cui il paziente sperimenta la salute; la narrazione

incoraggia l’empatia e la comprensione; la descrizione permette la costruzione degli indizi

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e delle categorie analitiche utili al processo terapeutico, aiutando a mettere a punto un

agenda centrata sul paziente, atta a generare nuove ipotesi” (Mc Namee S. Gergen K.) [29].

Ne consegue che la narrazione delle esperienze personali di malattia dovrebbe avere un

ruolo sempre maggiore nelle relazioni di cura (e soprattutto nell’ambito della medicina di

famiglia), poiché la sofferenza che racchiude la malattia richiede di essere inserita in

racconti reali per acquisire un senso preciso, per diventare condivisibile e trasformarsi in

risorsa.

Io penso che sia nobile e doveroso sfruttare quell’ autentica predisposizione all’ascolto di

narrazioni, tipica del medico di famiglia, per tentare di modificare alcune storie che

causano o perpetuano dolore, disagio e sovente, le malattie stesse.

Tuttavia raccogliere, portare alla luce tali esperienze ed agire operativamente per cercare di

modificarle non è affatto facile; richiede tempi, preparazione, tecniche, capacità e risorse

personali, riflessioni adeguate.

Un ausilio in tal senso, potrebbe giungere dal modello epistemologico di riferimento della

mia scuola di Specializzazione in Psicoterapia: “Lo Sistemico-Relazionale”. È esso uno

strumento concettuale innovativo e flessibile che può aiutare ogni professionista della

salute a comprendere come il significato dei vissuti di malattia sia perennemente co-

costruito tra medico, paziente e le persone a lui più significative, dal momento che

considera la malattia, il dolore, la cronicità, come fattori sociali sempre in opera dentro

concreti sistemi socioculturali, relazionali ed organizzativi.

Il modello Sistemico promuove inoltre lo sviluppo di un fecondo dialogo tra la medicina,

la sociologia, la psicologia e l’antropologia, contribuendo nel mettere a fuoco, sia i nuovi

bisogni di salute delle persone che le nuove strategie di intervento per la cura di essi.

E come è noto, l’unione fa la forza.

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Il modello sistemico ed il suo cammino

“Dove può ancora condurmi il mio cammino? Va strisciando obliquamente, forse va in cerchio.

Ma vada come vuole, io son contento di seguirlo."

Hermann Hesse [22]

Prima di addentrarmi in alcune strategie di intervento, grazie alle quali il modello

Sistemico-Relazionale affronta la malattia, racchiudendone il significato all’interno di un

quadro complessivo ampio e rispettoso della persona, penso sia doveroso tracciarne

brevemente alcune tappe evolutive epistemologiche che si sono compiute nell’arco degli

ultimi trent’anni.

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All’inizio degli anni ottanta del secolo scorso, si verificò un cambiamento negli indirizzi

teorici di questo orientamento. Infatti ad un precedente modello di origine

comportamentista (i cui testi di riferimento sono essenzialmente: “ La Pragmatica della

comunicazione umana” (1967) e “Change” (1973) di Watzlawick; “Terapie non comuni

(1973) e “Strategie della psicoterapia”(1963) di Haley; in Italia “Paradosso e contro

paradosso” (1975) di M. Selvini Palazzoli, L. Boscolo, G. Cecchin e G. Prata) si affiancò,

sostituendolo, un nuovo approccio costruttivista. La cibernetica di primo ordine e le teorie

della comunicazione vennero rimpiazzate da teorie mediate dal mondo della biologia e

della fisica (in paticolar modo dalla termodinamica).

Biologi come Marturana e Varela, biochimici come Prigogine, diventarono gli autori di

riferimento di una rinata epistemologia . Fu soprattutto grazie a loro che si impose la teoria

dell’ “Interazione non istruttiva” la cui idea di fondo ritiene che : “Dal momento che ogni

sistema vivente è chiuso rispetto all’ambiente e nettamente distinto da esso, le

interazioni/scambi con altri sistemi non possono indurre cambiamenti diretti in senso

prevedibile, ma solo perturbazioni a cui ciascun sistema risponde secondo la propria

struttura” (Marturana) [27]; le ricadute di questo assunto furono notevolissime dal momento

che non fu più possibile pensare di provocare modifiche preordinate e finalizzate in

qualunque sistema biologico, uomo accluso.

Il terapeuta “nudo”, costretto a cedere lo scettro dell’istruttività, venne di fatto incluso nel

vasto calderone dello stesso sistema che andava ad osservare.

Il concetto di conoscenza oggettiva ed imparziale si sottomise all’idea di conoscenza

attraverso l’auto-riflessività: “Ogni approccio al mondo è possibile attraverso la

mediazione dell’osservatore stesso che contribuisce a costruire una realtà di per se

inconoscibile (…) il mondo si è fatto ancora più complesso, poichè per tentare di

conoscerlo si può solo metterne a confronto le diverse descrizioni” (Keeney) [25].

Mentre nella prima cibernetica il focus di interesse fu indirizzato esclusivamente al

paziente e alla sua famiglia, alla luce del nuovo orientamento costruttivista, divenne

prioritario il rapporto terapeuta-sistema. Ne conseguì una ampia rivalutazione del binomio

cliente-terapeuta, delle loro emozioni e dei loro pregiudizi. La tanto sbandierata ed

inviolata “scatola nera”, che includeva per i terapeuti comportamentisti quanto non

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direttamente oggettivabile, venne di fatto aperta, legittimando il terapeuta ad occuparsi

anche del mondo interno-simbolico del proprio cliente.

Gli anni novanta infine portarono con sé il mito del postmodernismo. I riferimenti

filosofici divennero non solo Heidegger, il neopragmatismo di Rorty (1979) ed il pensiero

debole di Vattimo (1985), ma anche e soprattutto Hoffman (1990) con il Costruzionismo

sociale.

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Il Costruzionismo sociale : le premesse

“Chi immagina di poter fare a meno del mondo s'inganna parecchio, ma chi immagina che il

mondo possa fare a meno di lui, s'inganna ancor di più”.

Francois de La Rochefoucauld [23]

Il Costruzionismo persuade che pur rimanendo il mondo inconoscibile, esiste la possibilità

di lavorare sulle convenzioni sociali che lo tengono assieme, dal momento che la realtà

stessa emerge unicamente dall’interscambio sociale: “ Ciò che è reale è così dal momento

che esiste un accordo tacito a livello sociale sul fatto che davvero lo sia . Un accordo

questo, che avviene tramite la comunicazione, basato su continue innovazioni e

negoziazioni di significato” (Keeney) [25].

Secondo questa nuova prospettiva, il fondamento della società si ricolloca nella relazione e

non tanto o non solo nell’individuo in sé. La vecchie teoria cartesiana di riferimento

positivistico-individualista cade sotto il peso di tale prospettiva di pensiero, similmente a

quanto accade al nostro consuetudinario concetto di verità [12]. Quello che ci appare come

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verità infatti, non è più il prodotto di osservazione esterna del mondo, ma la risultante di

processi sociali di scambio nei quali le persone sono costantemente impegnate e

reciprocamente coinvolte. Invece che di verità si preferisce così parlare di innumerevoli

negoziazioni di multiple e ripetute costruzioni sociali del mondo. Invece di conoscenza ci

si appella a versioni di conoscenza condivise.

Ma al di là degli squisiti risvolti filosofici, morali, esistenziali ed anche politici che da ciò

potrebbe conseguirne, quello che a noi più interessa, è come il Costruzionismo sociale

abbia al suo interno un bellissimo messaggio da offrire a chi opera per il benessere delle

persone. Comunicare insomma è un dono, comunicare significa ricevere dagli altri il

privilegio del significato. Il Costruzionismo mette infatti a disposizione, attraverso il

linguaggio, una grande varietà di risposte ed aiuta a scoprire gli altri come potenziali alleati

nel fare “terapia” nel senso più umanistico del termine. Sotto questa nuova luce,

l’applicazione di una tale irriverente epistemologia post-moderna, tende a configurarsi

come un innovativo approccio per la pratica professionale di tutti gli operatori del e nel

sociale [29].

E questa è in definitiva anche l’ideale tensione morale ed intellettuale del mio percorso

didattico in psicoterapia: l’individuazione cioè, di competenze necessarie per una

traduzione pragmatica di tale pensiero nell’esercizio di un nuovo modo di fare ed intendere

la medicina.

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Il medico come scrittore

“Scrivere è un buon modo di parlare senza essere interrotti”

Jules Renard [23]

“Nei particolari tutto sarà come prima o molto simile, ma nel complesso tutto sarà nuovo

e diverso, altre stelle mi sovrasteranno. Poiché la vita non è un conto o una figura

matematica, ma un prodigio. E’ sempre stato così per me: tutto si ripeteva, le stesse

angosce, gli stessi desideri e le stesse gioie, le stesse seduzioni, battevo sempre il capo

negli stessi spigoli, lottavo con gli stessi draghi, inseguivo le stesse farfalle, mi ritrovavo

sempre nelle stesse identiche situazioni, eppure era un gioco eternamente rinnovato,

nuovamente bello, nuovamente pericoloso, nuovamente eccitante. Mille volte sono stato

spavaldo, mille volte esausto, mille volte puerile, mille volte frigido e vecchio, è nulla è

durato a lungo. Ogni cosa tornava a ripetersi, senza essere mai la stessa” (H. Hesse) [21].

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“Un medico scrive, figurarsi, un medico scrive in continuazione, su ricette impossibili da

leggere, scarabocchia, sputa inchiostro, preme bene la punta della penna sennò non viene,

redige osservazioni, relazioni, cartelle, le ripone in cassetti polverosi, arrugginiti, zeppi di

dettagli ricordati senza volerlo, senza farlo apposta, senza prestarvi più di tanto

attenzione, cassetti e cassetti, cassetti a perdita d’occhio, non ordinati in ordine alfabetico,

ma nell’ordine in cui è successo, dal più vecchio al più al più recente, lungo un corridoio

dove non si torna in dietro, non può nemmeno fermarsi, solo andare avanti senza voltarsi,

cassetti di frammenti, alla rinfusa, non ordinati, non classificati, arbitrariamente

raggruppati in piccoli mucchi informi, lontana somiglianza, associazione di idee … ci sono

tutti, tutte le volte che sono venuti, tutti i buoni motivi che avevano, tutte le frasi che hanno

detto, le piste, vere o false, che hanno posato sul ripiano di legno dipinto, sul lettino o

sulla soglia, la mano sulla maniglia, i gesti di stanchezza, di angoscia, di panico, di

disperazione, di scoglionamento, di tristezza, le facce (la bocca ,ma non gli occhi, perché

quando ti parlano guardi sempre le labbra, come se gli occhi venissero in aiuto alle tue

orecchie che sentono male), i ghigni, i sorrisi imbarazzati, le smorfie contorte di quello

che non vuole venir fuori, le fessure sdentate, i mormorii, i silenzi, i sospiri, gli sguardi

persi, le esitazioni, gli scuotimenti del capo, i singhiozzi, le voci rotte, i nasi che tirano su,

gli occhi che si chiudono, le bocche che celano aria (….)

(…) Molto prima di diventare medico scrivevo. Ma quando sei medico cosa serve scrivere?

avrei voluto, forse, (ho già avuto l’idea, in ogni caso ce l’ho oggi) mettere su carta il nome

di tutti i pazienti che ho visto morire, di tutti i bambini che ho visto nascere. E già che ci

sono, di tutte le persone che son venute a farsi visitare, che un giorno mi hanno chiamato.

Ma quali? Quelle che ho davvero curato? quelle che mi hanno chiamato per qualcun altro

(poiché curiamo sempre chi chiede qualcosa, anche se si dice che non è per se)? Quelle

che mi hanno solo fermato per strada con una domanda banale? Quelle che sono rimaste

in piedi in sala d’attesa e se ne sono andate quando mi hanno visto? Quelle che mi hanno

chiesto un semplice certificato? Quelle che prendono un appuntamento e si dimenticano di

venire? quelle che non si capisce mai perché vengono?

Avrei forse, potuto o dovuto, ma non l’ho ancora fatto. Non pensi di fare questo genere di

cose quando cominci a curare. Oggi si spingono i medici a ficcare tutto dentro un PC, a

fini epidemiologici, statistici, contabili, ma nessuno sembra volersi imprimere nella

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memoria il nome e il volto delle persone, ricordarsi il primo incontro, le prime

impressioni, gli stupori, i particolari ridicoli, le storie tragiche, le incomprensioni,

i silenzi. Ho visto passare migliaia di persone ma in questo stesso istante potrei

spontaneamente ricordarne una dozzina, venti rilassandomi, forse cinquanta sforzandomi

un po’, ma non molte di più (…)

Allora credo che scrivere, per un medico, voglia dire prendere la misura di ciò che non si

ricorda, di ciò che non si tiene a mente. Scrivere è misurare la perdita. Scrivere è

ricordarsi per misurarsi con la perdita. Scrivere è dare dignità alle persone”

(M. Winckler) [48].

Inforcate queste nuove lenti postmoderne, l’attività del medico/terapeuta diviene quindi

anche quella di facilitatore di narrazioni condivise in grado di generare trasformazioni

qualitative di tutte quelle storie che frenando le possibilità di evoluzione, di fatto

contengono o mantengono problemi, sofferenza, malattia. Infatti se ci facciamo convinti

che la stessa realtà è una narrazione condivisa, operare per la salute nel suo senso più

ampio, si configura anche come un processo di ri-costruzione di storie. Processo nel quale

si recupera la possibilità di ipotizzarne nuovi sviluppi. Il racconto, il raccontarsi, assume

così l’accezione di scoperta e costruzione di nuovi significati [43- 44].

Parimenti ad uno scrittore, il medico-terapeuta è tenuto a curare i tempi di queste

narrazioni conferendogli un climax adatto per meglio caratterizzare i personaggi che ivi si

muovono, adattando volta per volta il proprio stile comunicativo-simbolico alla persona cui

si presta aiuto [7]. Come disse P. Watzlawick : “E’ la terapia che deve adattarsi al paziente

e non il paziente alla terapia” [32].

Lo studio medico diviene così una sorta di fucina dove arte e tecnica, passione e

razionalità, si amalgamano.

Suggestive a tal riguardo sono alcune riflessioni sull’arte dello scrivere di H. Hesse:

“Costruivo frasi, sceglievo tra mille associazioni di idee, inseguivo ostinatamente le

parole adatte. Lo scrivere è una cosa eccitante, la traversata di un oceano su un minuscolo

canotto. Mentre si cerca una singola parola, mentre si sceglie fra tre che ti si offrono, il

mantenere intanto nella sensibilità e nell’orecchio tutto il periodo che si sta costruendo.

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Mentre si fucina la frase, mentre si lavora alla costruzione prescelta e si avvitano i bulloni

dell’intero meccanismo, l’avere sempre presenti il tono e la proporzione dello scritto.

E’ un attività emozionante. Una tensione simile la conosco solo in un'altra attività, la

pittura: intonare ogni singolo colore, con giustezza e con cura, al colore attiguo, è facile e

piacevole, lo si può imparare e poi ripetere a piacere. Il tener conto di tutte le parti del

quadro, anche di quelle non ancora dipinte né visibili , il sentire tutta quella fittissima rete

di vibrazioni intrecciate fra loro”[22].

Ma quali sono i pre-requisiti perché un nuova storia di salute abbia fortuna, incontrando

(come direbbe un Editore) il favore del pubblico e il consenso della critica? [26].

Innanzitutto la neo-storia deve essere:

Esteticamente valida: “Viviamo solo per scoprire nuova bellezza. Tutto il resto è

una forma d'attesa” (Gibran Kahalil)

Accattivante. Il testo non deve possedere solo un valore cognitivo alternativo ma

deve essere anche capace di produrre un coinvolgimento emotivo adeguato. Si deve

essere cioè capaci di innescare il desiderio del cambiamento: “ Le emozioni non

sono sempre immediatamente soggette alla ragione, ma sono sempre

immediatamente oggetto di azione” (William James)

Convincente. Così da sovvertire sia sul piano logico che emotivo una sua eventuale

precedente versione: “Un'assurdità plausibile è sempre migliore di una possibilità

che non convince” (Aristotele)

Plausibile cognitivamente al paziente e alle sue persone significative: “l’arte fa

diventare il possibile, plausibile e il plausibile, definitivo” (Pablo Picasso)

Coerente nel suo sviluppo interno con il contesto storico, individuale, famigliare,

sociale del paziente: “ L’arte migliore è quella in cui la mano, la testa e il cuore di

un uomo procedono in accordo” (John Ruskin)

E’ chiaro che vi è un forte richiamo all’individualità e alle facoltà del medico/terapeuta che

da semplice ascoltatore di storie (come è avvenuto nel passato) prende coscienza di poter :

identificare nei suoi pazienti le potenzialità per lo sviluppo di storie alternative di

salute

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proporre una sua nuova storia esplicativa e descrittiva della realtà da condividere

con il proprio paziente.

Come un vero e proprio funambolo il medico/terapeuta ondeggia così tra il mondo dell’arte

e quello della logica, tra la tecnica e l’estetica, nel tentativo di decostruire e ricostruire

appunti, canovacci, copioni di vita nei quali si imbatte, per il benessere ultimo del suo

paziente [46].

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Il paziente come uno scrittore

“Ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendo”

Aristotele [23]

Dal momento che la realtà è perennemente co-costruita non solo dal medico che ascolta,

ma anche dal paziente che narra, è ovvio che oltre a far scrivere il terapeuta dovremmo far

scrivere anche il paziente. In fondo:

“Se si sapesse perché si scrive, si saprebbe allo stesso tempo, perché si vive. Scrivere è

una funzione logica, a cui partecipano tutte le componenti istintive dell'essere” (Jean

Rostand)

“La scrittura scioglie l’irrequietezza. La scrittura incarna e produce qualcuno che non c’è

fintanto che non nasce dalla penna di chi scrive. La scrittura semina e genera. Guida

sempre altrove. Ci ferma, ci fa sentire fisicamente più presenti, non ci fa più sentire

liquidi. Lo si era pensando, la penna, la matita, i tasti restituiscono la sensazione di non

galleggiare nel vuoto” (D.Demetrio) [26].

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Uno scrivere inteso quindi come un esercizio per prendere parola, per raccontarsi con

calma al di fuori della fretta di un colloquio, per aiutare a restituire alle persone la loro

dignità e centralità in un processo globale di crescita e guarigione.

Esistono dei presupposti teorici sistemici che avallano un approccio così pragmatico alla

cura della sofferenza e della malattia? Questa modalità d’operare è solo frutto del buon

senso o vi è dietro un fondamento epistemologico che la avvalla e giustifica? [45].

Il “Logos” Sistemico, nelle sue varie impostazioni, suggerisce che il cambiamento prima

che capito vada prima di tutto agito. Austin infatti diceva : “Fare le cose con le parole”. Io

mi permetto d’aggiungere “Fare le cose con le parole scritte”, dal momento che la

scrittura aggirando molti sistemi rappresentazionali delle persone fa in modo che esse

costruiscano, senza averne una pura consapevolezza immediata, percezioni, azioni e

cognizioni alternative [31].

Secondo quest’approccio, la cura dei vissuti della malattia consiste nel far sentire

differentemente e non nel far apparire differentemente.

Scrivendo infatti si cambia inizialmente la percezione delle cose non tanto la loro

comprensione. E’ quanto avviene nella realtà, dove ciò che avvia ogni nostro processo di

cambiamento appartiene al nostro sentire, al nostro percepire e alle nostre emozioni e solo

in un secondo momento ad una loro lucida razionalizzazione e sistematizzazione cognitiva.

Dal momento poi che il soggetto è costruttore della propria realtà attraverso le sue

interreazioni concrete e simboliche sia con se stesso che con il mondo, se l’inventato, il

ricostruito, diviene credibile e sentito come vero: “Sarà l’interlocutore senza

accorgersene, a rintracciare una coerenza interna a quanto agito, riorganizzando in

maniera strutturale la sua percezione di tale realtà” (Watzlawich) [32].

Il pensiero Sistemico sostanzialmente ribalta la regola aurea del pensiero lineare che ritiene

come prerequisito ineleminabile per poter agire correttamente, il dover prima imparare a

vedere il mondo in modo differente, convinto come è che la conoscenza dell’origine e

dell’evoluzione di un problema del passato sia la precondizione per una sua soluzione nel

presente [31].

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Heinz von Foerster nel suo “Sistemi che osservano” diceva :“Se vuoi vedere, impara ad

agire" [17]. Basti pensare come alle volte anche un solo causale e banale incidente nella

nostra usuale routine o una forte suggestione, possano risultare esperienze concrete capaci

di modificare il nostro frame di realtà.

Orientandoci pragmaticamente all’azione, impegnando il paziente nella scrittura, si cerca

attraverso questa di fargli vivere concretamente nuove esperienze percettive mirando prima

di produrre modifiche effettive nel suo percepire-agire, per poi poter passare alla

ridefinizione a livello cognitivo di ciò che è stato esperito.

E’ qui interessante citare Piaget che nel 1937 con “La Construction du reel chez l’enfant”

[36] dimostrò, sulla scorta di accurate osservazioni che il bambino letteralmente costruisce

la sua realtà mediante azioni esplorative : “Il bambino inizia ad afferrare ciò che vede, a

portarsi davanti agi occhi gli oggetti che tocca, in breve a coordinare il suo universo

visuale con quello tattile (...) In questo stadio, il bambino non conosce il meccanismo

delle proprie azioni e quindi non le dissocia dalle cose stesse. Consoce solo il loro schema

totale ed indifferenziato, comprendendolo in un singolo atto, i dati della percezione

esterna, così come le impressioni interne, che sono affettive e kinestesiche (...)”

Nel graduale rivelarsi dei risultati delle sue ricerche Piaget mostrò come non solo l’idea di

un mondo esterno indipendente da sé sia la conseguenza di azioni esplorative, ma anche lo

sviluppo di concetti di base come la causalità, il tempo e l’elaborazione stessa del mondo.

Se prendiamo per buoni questi studi, possiamo ben concludere che differenti azioni

possono condurre alla costruzione di differenti realtà.

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La strategia dietro la scrittura

“La strategia è un'arte semplice e tutta di esecuzione”

Napoleone Bonaparte [23]

Nella maggioranza dei casi i problemi che generano malessere, sofferenza e malattia, non

sono problemi correlati alle proprietà degli oggetti o delle situazioni in sé (alla realtà di

primo ordine), ma sono correlati al significato, al senso ed al valore che le persone

giungono ad attribuire ad esse (la realtà di secondo ordine).

Già Epitteto 1900 anni fa: “Non sono le cose in se che ci preoccupano, ma le opinioni che

noi abbiamo di esse”. Ecco che l’abilità del medico/terapeuta consiste nell’operare dei

cambiamenti nelle modalità con le quali le persone hanno costruito le loro realtà di

secondo ordine (realtà che essi ritengono come totalmente vera).

Ancora: “Se riusciamo a motivare qualcuno a intraprendere un’ azione, di per sé sempre

possibile, ma che quel qualcuno non ha compiuto perché nella sua realtà di secondo

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ordine non trovava un senso, né ragione di portarla a compimento, allora tramite la stessa

realizzazione di questa azione, egli esperirà qualcosa che mai nessuna spiegazione e

interpretazione avrebbe potuto indurlo a vedere e esperire” (Watzlawich) [32].

Ma come agire?

Alla luce dell’applicazione in campo clinico dei principi matematici della teoria dei tipi

logici, della teoria dei sistemi, della cibernetica sulle concezioni di causalità circolare, di

retroazione e sul principio di discontinuità del cambiamento e della crescita, ci si è fatti

convinti che un sistema non può trovare la soluzione di un problema al suo interno senza

intercorrere nella ricorsività, provocando così solo un cambiamento tipo uno e non tipo due

(la vera soluzione). Perché avvenga quest’ultimo, è richiesta una fuoriuscita dal sistema. In

altre parole si deve costringere il paziente mediante suggestioni ad uscire da una sua

rigidità di prospettiva, conducendolo verso altre possibili prospettive che determineranno

nuove realtà e nuove soluzioni. Si romperà così la rigidità del sistema relazionale e

cognitivo che mantiene la situazione problematica del paziente facendolo compiere il salto

di livello logico indispensabile per l’apertura di nuove vie di cambiamento [31].

La strategia fondamentale è quindi creare suggestioni.

E’ cosa c’è più suggestivo di una bel racconto?

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Sul buon uso dei proverbi

“In origine, la parola era magia”

Sigmund Freud [34]

Come precedentemente scritto la strategia fondamentale per reinventare storie di benessere

e salute è quella di creare suggestioni.

Mi sono chiesto può il proverbio essere una suggestione? Può essere utilizzato come

strumento operativo all’interno di un colloquio terapeutico tra un medico ed il suo

paziente?

Il proverbio (dal latino proverbium) nella sua eccezione più classica è: “Una massima che

contiene norme, giudizi, dettami o consigli espressi in maniera sintetica e molto spesso, in

metafora, spesso desunti dall'esperienza comune. Possono contenere similitudini. Metafore o

similitudini sono tratte da usi, costumi, leggende del popolo nella cui lingua è nato il proverbio

anche se molti proverbi sono comuni a lingue diverse” (Wikipedia) [47].

Per mia personale esperienza, ricordo come alcuni proverbi pronunciati dai miei nonni,

detti in modi e momenti particolari, mi hanno aiutato se non a risolvere alcuni problemi

perlomeno nell’orientarmi operativamente per una loro soluzione.

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Spesso è nostra consuetudine quella di non ascoltare, non capire e non ricordare la gran

parte di tuttociò che ci viene detto. Se ricordiamo qualcosa generalmente si tratta di frasi

particolari, di storie inusuali. I proverbi oltre a contenere entrambe queste caratteristiche

possiedono un linguaggio evocativo che permette di creare nell’intelocutore sensazioni

vivide, intense, atte a provocare un’ effettiva esperienza percettiva ed emotiva. Non è un

caso che per i popoli dove il sapere è stato tramandato quasi esclusivamente in forma orale

(antica Grecia,Cina, etc.) la forma letteraria più utilizzata nel proporre indicazioni di

saggezza ”operativa” sia stato proprio il proverbio [40].

La suggestione dei proverbi sta proprio nel loro bilanciamento tra gli aspetti logici e quelli

analogici del linguaggio e differentemente dalla metafora che utilizza solo gli aspetti

analogici del linguaggio, mira a stimolare maggiori sensazioni e pensieri.

Non tutti i proverbi comunque sono efficaci allo stesso modo.

Un buon proverbio dovrebbe possedere le seguenti caratteristiche:

Colpire, ossia catturare l’attenzione

Attivare la fantasia parlando il linguaggio delle emozioni per sollecitare immagini,

colori, sensazioni, echi, risonanze, ricordi, molteplici collegamenti e nessi

Essere universale, vale a dire applicabile a tutte le persone

Essere specifico, ovvero adatto a ben determinate e concrete situazioni esistenziali

Essere persuasivo, capace cioè di far accettare facilmente il contenuto che propone

Possedere in sé un elevato potenziale di cambiamento con cui attivare risorse utili

per il suo destinatario

Essere fertile, cioè in grado di provocare numerosi effetti

Essere memorabile, imprimersi immediatamente nel ricordo

Inoltre per sfruttare appieno la capacità suggestiva dei proverbi all’interno di un colloquio

medico-paziente orientato al benessere, si dovrebbe:

Dirlo nel momento giusto: all’inizio o alla fine di un discorso mai nel mezzo,

cercando di valorizzarlo al massimo grado

Dirlo nell’occasione adatta: vi sono situazioni in cui è sbagliato sentenziare

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Dirli adattando il linguaggio e il tipo di proverbio alla persona;

Dirli con l’enfasi giusta

Comunque è utile qui ricordare, come non consideri i proverbi come fonte di soluzione dei

problemi: sono solo modi efficaci per dire qualcosa che, a certe condizioni, possono aiutare

a risolverne alcuni.

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PARTE IV

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Casi Clinici

“La sola storia vera è quella che noi inventiamo”

Libero Bovio [47]

Prima di addentrarmi nella narrazione di cinque casi clinici particolarmente suggestivi nei

quali mi sono imbattuto negli ultimi tre anni, è necessario che qui ribadisca come il setting

della medicina generale sia molto distante da quello ortodosso delle sale di terapia secondo

il “Milan Approach”. Non esiste ovviamente uno specchio unidirezionale e non vi è

neppure il conforto/confronto con un team di esperti durante lo svolgimento dell’incontro.

Il tempo medio di ogni seduta è di circa venticinque minuti. La frequenza degli stessi è

variabile, ma generalmente ha cadenza quindicinale, in armonia con la caratteristica

peculiare della medicina di famiglia di avere incontri brevi ma ripetuti nel tempo con i

propri assistiti.

Infine è doveroso ricordare che ho registrato un quindici% di fallimenti terapeutici ed un

dieci% di drop out rispetto al totale di trenta soggetti da me trattati con tale metodica nel

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corso degli utimi tre anni. Tali dati, in virtù della natura puramente descrittiva di questo

lavoro, non sono stati oggetto di verifica statistica mediante studi controllati e

randomizzati, ma sono solo frutto di un calcolo percentuale eseguito per approssimazione.

La casistica è stata la più varia: da problemi di isolamento ed emarginazione sociale a

disturbi di ansia e depressione. Alcuni soggetti, preliminarmente o subito dopo l’inizio dei

miei incontri, assumevano una terapia medica antidepressiva e/o ansiolitica.

Per mia decisione e per mia inesperienza, non ho mai incluso in questi trattamenti, soggetti

affetti da turbe psichiatriche maggiori quali le psicosi.

Per fallimento terapeutico ho intenso:

una persistenza di sintomi od ideazioni disfunzionali, ove presenti

Immutata necessità di terapia farmacologica neuroattiva o mancata diminuzione di

dosaggio della stessa, dopo almeno quattro mesi continuativi di trattamento con tale

approccio

Immodificabilità di stereotipie e/o rigidità di pensiero

Scarsa motivazione all’esecuzione di eventuali prescrizioni impartite a conclusione

delle sedute.

Per drop out ho intenso:

Termine anticipato ed unilaterale degli incontri

Revoca dell’assistito

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Agosto del 2008.

In quel periodo sostituivo Giacomo M., un collega di medicina generale partito per le

ferie agostane. Non conoscevo affatto i suoi 1500 pazienti, le loro malattie, le loro

situazioni sociali e famigliari. Possedevo solo due fogli di carta scritti a mano nei quali

Giacomo mi segnalava prima di partire, i casi più urgenti di quel mese, le persone in fin

di vita, i due o tre tossicodipendenti od etilisti a cui non prescrivere troppi ansiolitici. Il

tutto era corredato dalla solita lunga lista di informazioni pratiche su come accendere

l’aria condizionata, come spegnerla, come attivare l’antifurto, la segreteria telefonica o

il programma del PC. Era oramai da anni che sostituivo i colleghi della zona che per i

più svariati motivi dovevano assentarsi dal lavoro ed ogni volta mi si proponeva la

solita trafila …

Una tarda mattina di quel mese, durante le ore di ambulatorio, ricevetti una telefonata.

Era Maria. Una donna di 75 anni. Vedova. Parlava molto lentamente, con un filo

appena di voce. Mi chiese una visita a domicilio, motivandola con una marcata astenia

e col fiato corto che lamentava dal giorno prima. Fuori si toccavano i trentacinque

gradi. Era facile farsi convinti che la sintomatologia dipendesse dalle temperature

torride di quei giorni. Ci concordammo comunque per la visita, sarei passato da lei

quello stesso pomeriggio, prima di rincasare; il resto della telefonata si prolungò in

complicate indicazioni stradali su come raggiungerla. Ricercai poi la cartella clinica

della signora sull’archivio cartaceo di Giacomo e vi trovai poche righe scritte in

pessima calligrafia, risalenti a dieci anni prima!: “ Vedova da anni. Vive da sola, no

figli. Fissata con le cure naturali. Si dice naturopata.?!.” Non risultava assumesse

farmaci, non erano segnalate patologie di rilievo.

Arrivai da Maria alle ore sedici dello stesso giorno. La casa era piuttosto isolata, in una

zona collinare. Ben curato si presentava il giardino. All’interno fui stupito nel vedere

moltissimi quadri appesi alle pareti. Maria era un donna alta, dai lineamenti fini, ben

vestita e profumata. Parlava un ottimo italiano.

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Mi offrì un caffè. Insistette.

Maria parlava a fatica, spesso si interrompeva per la necessità di prendere fiato. Notai

subito un netto turgore alle giugulari e degli vistosi edemi agli arti inferiori. La vistai.

Si trattava indubbiamente di uno scompenso cardiaco acuto.

Appresi dalle sue stesse parole che non assumeva farmaci e che da anni che non

effettuava esami od accertamenti medici, convinta come era che la medicina moderna

facesse più male che bene ... Preferiva curare da se le piccole affezioni che le erano via

via capitate, con decotti, erbe e tisane. Avevo inoltre intuito che non nutriva molta

considerazione professionale per Giacomo, a suo dire troppo sbrigativo nell’elargire

farmaci ... A tal proposito ricordo come se fosse ieri, una sua frase: “ Il Dott. M. sa dare

solo farmaci … come se i farmaci risolvesse ogni problema ...”. Non entrai nel merito,

per rispetto nei confronti del mio collega.

Praticai subito un’ endovenosa di diuretico e le somministrai un nitrato per bocca,

spiegai quindi alla signora (solo a posteriori posso ritenere troppo sbrigativamente) la

necessità che si recasse quanto prima al Pronto Soccorso per l’esecuzione di una rx-

grafia del torace e per i primi accertamenti del caso …. Poteva trattarsi di un infarto, di

un trombo-embolia polmonare o di altro ancora ... Compilai la mia bella ricetta rossa

regionale con scritto in bella calligrafia: “Si invia la signora Maria B. ai colleghi del PS

causa scompenso cardiaco acuto”. La salutai con una bella stretta di mano ed uscii.

Sapevo benissimo che sarebbe stata di certo ricoverata. Non si scherza con la salute

pensai, deplorando l’atteggiamento troppo superficiale che Maria aveva dimostrato

negli anni per la medicina moderna.

L’indomani tra le primissime telefonate della mattina, ricevetti proprio quella di Maria.

Parlava leggermente più spedita del giorno appresso. Non mi diede il tempo di

replicare, mi chiese sbrigativamente, ma gentilmente, un ulteriore visita a domicilio da

eseguirsi in giornata, confidandomi che non si era recata al Pronto Soccorso come

stabilito. L’apostrofai dicendo che non era necessario che la rivisitassi, avendo chiaro il

quadro del problema, ma mi rendevo disponibile a contattare il servizio di emergenza

territoriale per predisporre l’invio di un autoambulanza che la avrebbe condotta

all’ ospedale. Mi rispose seccamente di no. Non aveva intenzione nella maniera più

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assoluta di recarsi in ospedale e terminò la conversazione. Ne restai turbato. Ero pronto

a rimproverarla per questa sua sconsiderata insubordinazione, ne andava della sua

stessa vita!

Terminato l’ambulatorio mi recai subito da lei. Ero furioso.

Maria si presentò alla porta, ordinata e cambiata d’abito rispetto al giorno precedente.

Mi fece sedere. Mi porse un caffè, si scusò per la brusca interruzione della telefonata

della mattina, mi disse che era esterrefatta, ma al tempo stesso contenta della mia

visita. Non credeva che tornassi a rivederla. Mi porse per un attimo le foto del marito

morto vent’ anni prima che teneva sul comodino ... Poi come se avesse intuito il mio

stato d’animo mi chiese con garbo, se potevo praticarle l’iniezione del giorno prima. Si

era sentita subito meglio, almeno per un poco. Ribattei che doveva assolutamente

recarsi all’ospedale dal momento che i farmaci che le avevo dato erano dei sintomatici,

che bisognava fare gli accertamenti, che bisognava capire, che bisognava indagare, che

bisogna curarsi, che bisogna non sottovalutare quel tipo di sintomi, che bisognava

prendersi cura di se stessi, che nella vita bisogna essere responsabili e non sconsiderati

…. ( quanti si deve e bisogna, ma questo è un altro discorso)

Seraficamente, come se il mio sermone non la avesse neppure scalfita, Maria mi

confessò che non aveva nessunissima intenzione di recarsi all’ospedale. Se io lo avessi

richiesto, mi avrebbe firmato qualsiasi carta pur di liberarmi da ogni responsabilità.

Sottolineò il fatto che le stavo simpatico e che da me avrebbe accettato le cure a patto

che le fossero praticate a domicilio. Era disposta a pagarmi.

Turbato le chiesi il motivo di questa sua sciocca ostinazione.

Dopo alcuni minuti di silenzio, durante un pianto sommesso, mi confidò che era

terrorizzata all’idea di andare in ospedale. Non ci era mai stata in tutta la sua vita ....

Era sua intenzione quella di morire in casa come suo marito ed i suoi genitori.

Strabuzzai gli occhi, stentavo a credere di potermi trovare, nel XXI secolo, in una

situazione del genere. Non sapevo come muovermi. Ero come paralizzato. Iniziai col

fare: le praticai l’iniezione da Maria così tanto desiderata e le diedi i farmaci che avevo

in borsa, per tentare di alleviare i sintomi di uno scompenso di cuore acuto. Le vietai il

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sale e di bere molto. Le misi tre lacci emostatici alle radici degli arti, il famigerato

“salasso bianco” un vecchissimo espediente dei vecchi medici a corto di strumenti e di

mezzi.

Mi concessi un’ ora di riflessione. Sarei ripassato a visitarla con la mente un po’ più

sgombra. Ebbi il tempo di contattare un mio amico medico legale che mi assicurò

esserci la possibilità per un paziente, nella pienezza delle sue facoltà mentali, di poter

disporre autonomamente per la sua vita, anche se questo comporta il non farsi curare e

poi per sua diretta conseguenza, il morirne.

Non c’era verso, se Maria non voleva recarsi all’ospedale, nessuno poteva

impedirglielo.

Nella strada che mi riportava alla sua casa, mi venne un’ idea. Un’ idea semplice che

però chissà per quale motivo, non avevo ancora considerato. Ero medico, ma stavo

anche seguendo un corso di Psicoterapia. Perché non tentare di applicare quanto stavo

studiando in quel frangente così complesso e drammatico? Potevo tentare, dovevo

tentare!

Entrai a casa di Maria questa volta senza valigetta, senza farmaci e stetoscopi ... Pensai

tra me e me: il Dottor Di Franco medico chirurgo sta fallendo, diamo spazio al Dottor

Alessandro psicoterapeuta.

Maria non stava affatto bene. Stava peggiorando. Era pallida e in affanno evidente. I

farmaci riuscivano a riequilibrarla per quel poco che gli era concesso …

Maria stava morendo in casa!

Le presi la mano e le chiesi se aveva figli, parenti, conoscenti da contattare. Mi disse

che da quando era mancato il marito, faceva vita molto appartata. Non aveva figli e

preferiva, per discrezione, che non venisse allarmato nessun conoscente.

Ero quindi da solo; nessuno mi poteva aiutare nel convincerla ad andare all’ospedale.

Per dieci minuti indagai, cercando di scovare un indizio di una sua presunta

depressione, mi arrampicai ipotizzando svariate diagnosi psichiatriche, proposi

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domande dirette, indirette, sottointese, provai a gettare qui e li riflessioni personali ed

astuzie dialettiche ... Quando, ormai sul punto di decedere, iniziai col chiederle di

raccontarmi la storia della sua vita, anche solo per darmi un motivo del suo carattere

così puntuto, mi guardò stupita, mi strinse forte la mano e richiamando a se tutte le

forze che le rimanevano, mi disse: “ Mi chiamo Maria, ho avuto una vita molto

difficile, fin da piccola. A quattro anni ero sul punto di morire per un infezione alla

gola. Mio padre non mi volle portare all’ospedale e mi fece curare da un contadino suo

amico che conosceva le proprietà delle erbe. Mio padre e mia madre morirono quando

io ero ancora piccola per malattie improvvise ... infarti, credo. Io ho assistito alla morte

di mio padre mentre stava preparandomi un giocattolo. Ho conosciuto solo una persona

eccezionale nella mia vita: mio marito che sposai e dal quale non ebbi mai la fortuna di

avere figli. Era sciancato. Da giovane era caduto dalla moto, era stato in coma, aveva

passato quasi un anno in ospedale. Non voglio morire, non sono depressa a tal punto da

volerla fare finita e non sono neppure matta. Mi creda dottore quando le dico che ho

una paura terribile dell’ospedale. Non ci sono mai stata in tutta la mia vita. Mai, me lo

hanno sempre descritto i miei cari come un luogo di sofferenza, di tristezza, di

tormento, una specie di cimitero degli elefanti dove andare a morire tra i dolori e facce

sconosciute. Dicono che all’ospedale siano tutti scortesi e maleducati. Mio padre mi

raccontava che vi regna solo la pura disperazione e si trovano tutte le anime in bilico

del purgatorio, tra le quali i bambini mai nati che vi gironzolano come imprigionati …”

Restai allibito. Era come se in dieci minuti mi avesse letto un libro di incubi e paure

infantili, a cui che aveva continuato a credere fino alla soglia degli ottant’anni!

Finalmente però intesi come muovermi. Dovevo cercare di riscrivere assieme a Maria

un nuovo copione, una nuova storia attorno all’ospedale. Dovevo cercare di passare

dalla conoscenza “rivelata da terzi” che la signora si era costruita negli anni sull’idea

dell’ospedale, alla esperienza diretta che io avevo di esso. Dovevo cercare di fondere

conoscenze ed esperienze per farne nascere un nuovo racconto esteticamente valido e

plausibile. Dovevo costruire significati diversi per aiutare Maria a cercare nuovi

sviluppi che fossero per lei convincenti sia sul piano logico che emotivo.

Il tempo però era assai poco.

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Iniziai raccontando le mie storie legate all’ospedale da bambino fino ad allora; le

ricordai di quel giorno felice in cui andai al nido del reparto di ostetricia assieme ai

parenti, per vedere mio fratello minore appena nato e tutta la felicità e gioia che si

poteva percepire nelle persone presenti ... Il dolore, la sofferenza prima che fossi

operato al naso per una frattura e il sollievo percepito ad intervento finito ... La

gentilezza delle infermiere di un Pronto Soccorso che mi medicarono quella volta in

cui mi procurai un taglio sulla mano ... Le raccontai a lungo la mia esperienza

universitaria vissuta dentro un grande ospedale come quello di Padova ... Le lunghe

chiacchierate al bar del policlinico, il rito quotidiano dell’acquisto del giornale

dall’edicolante Roberto al primo piano del policlinico, il via vai di gente ed il

chiacchiericcio nel grande atrio dell’ingresso principale … Tale e quale un grande

porto di mare ... Gente con i mano fiori, cioccolatini, radioline, giochi da società da

portare ai cari ricoverati … Le amicizie che spesso nascevano tra i degenti, le loro

chiacchiere di politica, di attualità, i pettegolezzi, le loro interminabili partite a carte ...

Ma anche la dignità serena di certe morti, le carezze dei medici sul viso dei più piccoli

e degli anziani. Le gogliardate tra colleghi e le rivalità all’interno dei reparti …. Le

raccontai quando per scherzo una volta facemmo chiamare con l’interfono del reparto,

un nostro collega che ci aveva tormentato per mesi raccontandoci della sua ultima

storia sentimentale, annunciandogli che una sua ex-ragazza lo attendeva urgentemente

in sala riunione e l’ansia con la quale ci cercò per chiederci consiglio sul da farsi …

Le mostrai una foto che tenevo sul cellulare, di una mia ex-ragazza, un amore nato e

finito tra le corsie … La confortai rivelandole che in ogni ospedale vi è una chiesa ed

un sacerdote che prega per le anime dei sofferenti e degli appena morti …

Insomma cercai di farle capire come l’ospedale fosse uno spazio come tanti altri, dove

si ha la fortuna di nascere, dove si soffre ma anche si fa di tutto per lenire ... Un luogo

dove la vita ha tinte sempre nette e forti ... Proprio come i colori dei suoi tanti quadri

appesi ai muri..

Maria restò molto colpita da questo mio racconto, volle solo domandarmi se i ricoveri

ospedalieri si protraggono per parecchi mesi ... Le sorrisi e scherzando le ricordai come

lo Stato cerca sempre di poter risparmiare sul vitto e sull’alloggio …. Sorrise. Si

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alzò. Mi disse che doveva andare in bagno. Dopo alcuni minuti tornò con in mano una

valigia. Mi chiese se potevo chiamarle il 118.

Maria venne ricoverata, dapprima in unità intensiva poi fece quattordici giorni di

ricovero ordinario in un reparto di geriatria. Fu dimessa con la diagnosi di infarto

miocardico, scompenso di cuore, diabete mellito ed ipercolesterolemia. Andai a

trovarla solo una volta durante il ricovero, pochi giorni prima che la dimettessero. La

trovai seduta su di una sedia che parlava con la vicina di letto. Stava meglio.

Sorridendomi, prima che ci salutassimo, mi disse semplicemente: grazie.

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Durante tutto il 2009 ho lavorato in qualità di medico di Continuità Assistenziale nella

sede distrettuale di Vazzola, in provincia di Treviso. La Continuità Assistenziale (ex-

Guardia Medica) non è altro che il prolungamento dell’attività del medico di famiglia

nelle ore notturne e nei giorni festivi e prefestivi. Il bacino di utenza è però molto più

ampio ed i pazienti non sono sempre noti ai medici che vi prestano servizio. Le

patologie che si riscontrano in tale sede, generalmente rivestono carattere di maggior

urgenza.

Fatta questa dovuta premessa, mi preme ora il raccontarvi il caso di Anna G.

Anna era una signora di cinquantacinque anni, di aspetto non molto gradevole, poco

curata nel vestire. Ex-infermiera. Nubile. A quei tempi viveva in casa con l’anziana

madre allettata.

La conobbi una fredda notte, nel mese di gennaio. Si presentò in ambulatorio

lamentando un forte mal di denti. Dopo averla visitata, le prescrissi un trattamento

antibatterico per un verosimile ascesso dentario e le consigliai a una valutazione

odontoiatrica prioritaria. Sembrava una visita come tante altre. Mi sbagliai.

Nei mesi appresso, venne a farsi vistare presso l’ambulatorio di Continuità

Assistenziale, sempre con maggiore insistenza, a tutte le ore del giorno e della notte,

trovando alternativamente me od un altro collega con il quale spartivo l’incarico. Le

motivazioni sanitarie di quelle visite furono le più bizzarre. Generalmente continuava

per un paio di settimane nel lamentarsi dello stesso sintomo, per poi sostituirlo

repentinamente. Assistetti basito a pedanti lamentele per mali di denti, mali di testa,

mali di pancia, mali d’orecchie, mali d’anca, mali di schiena, mali alle giunture,

diarree, nausee, sonni difficoltosi e a molto altro ancora ...

Per completezza di informazione premetto che furono diligentemente intrapresi tutti gli

accertamenti diagnostici e laboratoristici ritenuti necessari, senza che se ne reperisse

alcunché di patologico.

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Finimmo presto col detestarla. Il mio collega iniziò a non darle più retta … Io mi

limitai a fornirle brevi rassicurazioni, stanchi ascolti e numerose prescrizioni di farmaci

da banco, non dannosi, ma spesso inutili.

Ricordo che una notte, nel mese di aprile di quello stesso anno, Anna si presentò in

ambulatorio portando con sé un borsone di plastica pieno zeppo di medicinali. Vi si

trovava di tutto ... farmaci antidiarroici, antinfiammatori, antiemicranici, antispastici,

antibatterici, antireumatici, ansiolitici, polivitaminici, antiastenici … una vera e propria

farmacia itinerante. Mi guardò negli occhi assonnati e mi rimproverò: “Dottore lei, il

suo collega e il mio medico di famiglia non fate altro che riempirmi di farmaci di tutti i

tipi, ma io continuo a stare male!”. Di colpo, la percepii diversamente. Mi resi conto

dei nostri errori, della nostra impreparazione a dipanare casi così inconsueti nei quali

non vi è una malattia documentabile ma solo una continua costruzione di essa ... Vidi

come la nostra antipatia nei suoi confronti si fosse tramutata in una montagna di

farmaci, comprati e assunti senza razionale.

Ed il bene del paziente? Mi sentii in colpa, frustrato, impotente. Mi feci convinto che

un collega psichiatra potesse risolvere meglio e più velocemente di me la situazione.

Persuasa Anna, le consegnai l’impegnativa per eseguire una consulenza psichiatrica

prioritaria.

Anna andò alla visita e dopo alcuni giorni mi portò il referto in visione. Fu posta

diagnosi di Disturbo d’ansia generalizzato; Le venne prescritta una terapia

antidepressiva, ansiolitica ed una visita di controllo da effettuarsi dopo sei/otto mesi.

Sottoscrissi quanto diagnosticato dal collega specialista, fiducioso dell’efficacia della

cura. In cuor mio confidavo, forse troppo ingenuamente, che il farmaco potesse in

qualche modo ri-equilibrarla, permettendo a me ed al mio collega, turni di guardia più

sereni e meno assonnati ...

Ma questo speranza era mal posta. Anna dopo circa un mese, riprese con maggior

insistenza le sue telefonate e le sue visite notturne alla nostra sede di guardia!

A quel punto pensai: i nostri consigli bonari, la nostra indifferenza, le nostre sfuriate, i

farmaci da banco, il collega psichiatra, l’antidepressivo, l’ansiolitico stanno fallendo …

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perché allora non tentare con la psicoterapia, perché non cercare di rileggere Anna con

lenti diverse inquadrandola da angolazioni diverse, scrollandoci di dosso l’antipatia e

l’avversione che per lei nutrivamo?

Tentai.

Una domenica mattina la rividi in ambulatorio e prima che iniziasse a snocciolarmi

l’infinità delle sue magagne fisiche, la stoppai. Cambiai registro. Iniziai col dirle che

non mi interessavano i suoi sintomi, le sue malattie vere o presunte che fossero, le dissi

che mi interessava parlare di Anna e della sua storia. Non le avrei prescritto come al

solito farmaci ... non le avrei risposto male, non la avrei degnata solo di un ascolto

lontano, annoiato e passivo ... Le avrei fatto scrivere il romanzo della sua vita! Parve

stupita, cercò inizialmente di ripetere in modo stereotipato tutti i suoi malanni … poi di

colpo, mi chiese il tempo che aveva a disposizione per l’elaborato!

Lo scrisse a mano, impiegò una decina di giorni. Una sera in cui montavo di servizio,

me lo consegnò. Lo lessi in sua presenza.

Riporto di seguito il contenuto fedele dello scritto, che ancora oggi conservo:

“ Chi scrive è Anna. Ho 55 anni compiuti da pochi giorni. Abito a Vazzola con mia madre da 15 anni. Mia madre è molto malata. Da 15 anni soffre di Alzahimer ed è allettata. Non mi riconosce neppure e da due anni non parla neanche più. Ho una sorella minore di 45 anni. Mia sorella si chiama Maria. Vive in Germania con il marito che fa l’operaio. Mio padre è morto che io ero bambina per un tumore ai polmoni. Fumava tanto me lo ricordo.

Io ho lavorato per 15 anni come infermiera all’ospedale di Conegliano. Ero una ferrista. Passavo i ferri chirurgici durante gli interventi. Avevo fatto un corso per questo. Ero brava. Mi piaceva lavorare, mi piaceva quel lavoro. Il Dottor

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M. era terribile, molto preciso e ci faceva rigare dritto.. Mi manca quel lavoro e un po’ anche il Dott M.

La mia vita è normale. Abbastanza normale come tante altre. Purtroppo non mi sono mai sposata. Non ho mai trovato l’uomo fatto per me. Forse non sono mai stata attraente, o forse sono stata tanto sfortunata. Avrei tanto voluto avere un figlio, ma forse era destino così, forse nella vita sono più le cose brutte che belle. Non so.

Bhè se devo scrivere la storia della mia vita, forse è tutto qui. Se proprio devo aggiungere qualcosa perché questa lettera non si riduca solo a due righe, forse è giusto che scriva anche di mia sorella. Io e Maria siamo cresciute assieme. Abbiamo giocato sempre assieme da piccole e io che sono la sorella maggiore le ho fatto anche un po’ da mamma. Ricordo che le preparavo la merenda quando andava alle scuole elementari. E’ andato sempre tutto bene tra noi fino a quando ha conosciuto Fausto. Lui era qui presso uno zio, ma aveva sempre detto che sarebbe andato ad Amburgo in Germania dove vivevano i genitori. Mia sorella e Fausto si sono sposati quando Maria aveva 22 anni poi sono andati a stare in Germania. Fausto è sempre stato una persona decisa, sapevo che avrebbe portato via mia sorella in Germania. Da allora io e Maria ci siamo sentiti sempre meno. A lei sono nati tre figli, ha lavorato come cameriera per una ricca famiglia di laggiù, ora no fa più niente, solo la casalinga. A Vazzola è venuta sempre

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meno spesso. Io lavoravo in Ospedale e li non è facile con i turni. Non potevo quasi mai con le ferie. Insomma ci siamo viste sempre meno. Poi la mamma si è ammalata. Dapprima ha iniziato a non ricordarsi certe cose, alcuni parenti. Poi è peggiorata. Una dottoressa che conoscevo all’ospedale mi ha confermato che era demenza di Alzheimer. Non c’era niente da fare. Da allora la mia vita è cambiata. Non potevo permettere che mia madre finisse in ospizio. Ho deciso di curarla io a casa. Ho dovuto chiedere un pre-pensionamento, non ci stavo dietro più dietro tra lei e il lavoro. Un po’ ho pianto. Mi piaceva andare a lavoro, ma la mamma era la cosa più importante.

Sono andata a stare a casa della mamma 15 anni fa. Io abitavo in affitto a Conegliano, la mamma ha una grande casa in campagna e mio papà che faceva l’agricoltore possedeva terre. Siamo sempre stati contadini da queste parti. Io ho gestito le proprietà per conto della mamma. Mia sorella ad un certo punto ha iniziato a discutere con me perché io vivevo dalla mamma e gestivo le sue proprietà. Lei diceva di non aver avuto niente e che si è sempre arrangiata che era distante e che non poteva aiutare la mamma seno lo avrebbe fatto e che pretendeva anche lei i soldi che erano toccati a me anche perché il marito non guadagnava poi così bene. Proprio a me che avevo sacrificato la mia vita per stare con la mamma. Bella riconoscenza! Un giorno di due anni fa la mandai al diavolo

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e le dissi che non avrei mai più voluto vederla e sentirla e che per me era come se fosse morta. Da allora non la ho più sentita. Non posso mica sempre e solo soffrire solo io.

Ora sono stanca di scrivere e poi ho questo terribile male ai denti e male alla testa. Finirò sola come mia mamma, Ma io non ho una figlia.

Decisi di riscrivere il racconto di vita di Anna, vedendone un nuovo sviluppo.

Le diedi un appuntamento a quindici giorni di distanza.

Si presentò puntuale. Le lessi la lettera che per lei avevo scritto.

Eccola:

Cara Anna,

chi ti scrive è tua sorella Maria. E’ da tanto tempo che desidero scriverti, ma poi non lo ho più fatto perché sai che sono sempre stata orgogliosa. Gli ultimi anni tra noi non sono stati belli, ma penso che tutte le storie d’amore prima o poi passano dei momenti difficili. E’ sempre così quando ci sono in ballo sentimenti importanti.

Ti ricordo forte di carattere, ma anche molto protettiva. Sei stata la mia seconda mamma! Ricordo tanti tuoi insegnamenti e non passa giorno che non li ricordi anche ai miei tre figli. Loro mi chiedono di te. Anche a loro manca la zia..

Anna mi manca molto il nostro verde Veneto, i suoi colori, le sue campagne, il suo dialetto. Io non sarei voluta andare in Germania ma ho dovuto seguire il destino di mio marito. Molti sacrifici si fanno da sposati. A volte è bello dividere, dividersi, a volte può risultare difficile e pesante. Ho tre figli a cui voglio molto bene, ma è stato faticoso tirarli su da piccoli, so e capisco quindi tutta la fatica che hai fatto e stai facendo con la mamma.

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Mi manca il mio lavoro come cameriera. Sai ero sempre a contatto con tanta bella gente, mi occupavo di tante cose, dal fare la spesa alla pulizia e alla cucina della casa di quei ricchi signori di cui tanto ti ho parlato. A casa si sta bene, ma a volte tutto diventa così stretto, così a volte monotono. In quei momenti mi do una scrollata di spalle e penso che non c’è tempo meglio speso che quello che si regala agli altri. Per crescerli e per accudirli. Allora tutto ridiventa in un attimo, più leggero.

Sai forse non te ne ho mai parlato, ma i primi anni passati in Germania sono stati molto difficili. Senza mamma e lontano anche da te Anna. Mi sono sentita sola, quasi abbandonata. Ho dovuto rimboccarmi le maniche ... Mi è mancata tanto la mamma, le sue carezze, i suoi sguardi, i suoi buoni piatti! Piango quando penso a tutte le cose che ho perso, a tutte le cose che avrebbe potuto ancora dirmi prima che iniziasse la malattia e a tutti quei momenti che non torneranno mai più.

Mi auguro che tu possa capirmi. Mi auguro che ci si possa capire, come un tempo, come una volta tanti anni fa, nel nostro bel Veneto.

Ti abbraccio Maria.

Finito di leggere la lettera, chiesi ad Anna di condividere con me le impressioni e le

emozioni che il mio scritto le aveva suscitato. Ricordo che parlò a lungo di Vazzola, delle

campagne del papà, della mamma quando stava ancora bene, dei suoi ricordi di infanzia,

della Germania che una volta sola visitò al momento del matrimonio della sorella e che

non gli piacque affatto. Parlammo di cosa significasse per lei l’essere un emigrante.

Condivisi con lei la mia esperienza di siciliano immigrato da piccolo in Veneto, lontano

dagli affetti dei nonni e dei parenti. Ipotizzammo come si sarebbe potuta svolgere la sua

vita, distante dall’affetto dei suoi cari. Parlammo a lungo intrecciando i nostri ricordi, i

nostri resoconti di vita.

Dopo quell’incontro, rividi Anna solo un paio di volte ancora. Non si fece vedere né

sentire in guardia medica per ben sei mesi. Chiamò solo nel febbraio del 2010 per

richiedere una visita a domicilio a causa di un riferito stato febbrile. Andai a visitarla. Era

più curata nell’aspetto rispetto ai mesi addietro, i capelli apparivano in ordine ed era anche

truccata. Dopo i primi convenevoli, mi mise davanti agli occhi quasi con una malcelata

punta d’orgoglio, il termometro che puntava sulla temperatura di 38,5 gradi. Interpretai

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questo gesto, così : “Hai visto dottore questa volta ti ho chiamato perché sto davvero male!

E il termometro sta li a dirtelo”. La visitai, aveva una bronchite. Entrambi non facemmo

parola a quanto accorso nei mesi addietro, solo prima di uscire mi sorrise e mi porse una

cartolina proveniente da Amburgo firmata da Maria e dai suoi tre figli. Non le chiesi

nient’altro. Uscii e le strinsi forte la mano ...

Dopo alcuni giorni, incuriosito, mi informai presso il medico di famiglia delle condizioni

di salute di Anna. Il collega mi confermò che la sua assistita stava meglio e che da qualche

tempo aveva smesso anche con lui di essere così insistente ed ossessiva nelle visite in

studio.

Non so esattamente cosa sia successo, cosa sia cambiato nel rapporto tra lei e la sorella e

quanto questo abbia potuto influire nel suo cambiamento. E forse non è neppure così

necessario che lo si sappia.

Anna non mi ringraziò allora. Anna non mi ringrazia oggi quando saltuariamente chiama

per le piccole malattie del vivere quotidiano. Mi piace pensare di riconoscere nei suoi più o

meno lunghi silenzi che regala a me ed ai colleghi, una sua seppur lontana, forma di

gratitudine.

Giacomo fu uno dei miei primi assistiti, me ne ricordo bene.

Nel mese di gennaio di quest’anno, si presentò nel mio studio Gianna, una signora

quarantina. Dopo un breve un pianto, mi spiegò che il marito Giacomo aveva da poco

cambiato il medico di famiglia, scegliendo me come curante. Un po’ imbarazzato per

quell’insolita presentazione, chiesi la tessera sanitaria del marito ed iniziai

meccanicamente ad inserire i suoi dati anagrafici nel database del mio PC : Cognome,

nome, indirizzo di residenza, data di nascita, Codice sanitario, Codice Fiscale, numero

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di telefono ... Esitai per un attimo quando nella paginetta della tessera sanitaria relativa

ad eventuali esenzioni per patologia, intravidi il lugubre codice 048. Certo era li ad

indicare che Giacomo, a soli quarantasei anni, era affetto da una qualche forma di

neoplasia maligna … Prima che potessi parlare, Gianna tutto d’un fiato, mi disse più o

meno così : “ Dottore Giacomo è gravemente malato, ha un tumore al colon che si è

propagato al fegato e alle ossa …. Ma il problema più grande è che Giacomo da circa

due mesi non vuole più parlare con nessuno, né con me, né con i suoi genitori, né con

gli amici, vive solo nel suo mondo, ci degna solo di brevi cenni e a volte passa intere

giornate in totale solitudine ... Il medico che aveva prima è venuto a casa a trovarlo un

paio di volte da quando la situazione si è aggravata, ma si limitava a prendergli la

pressione e a prescrivergli scatole di antidolorifici. Così io ho pensato bene di

cambiare, di provare con un altro medico. Sapevo che lei è giovane ed ha aperto lo

studio da poco. So che è assai disponibile non avendo ancora molti assistiti, certo non

esistono i miracoli, poi con in ballo questo tipo di malattie … ma mi son detta perché

non provare ...”

Promisi a Gianna che avrei fatto il possibile ... e le fissai un appuntamento domiciliare

per conoscere il mio nuovo assistito.

Quel giorno mi accolsero sull’uscio i genitori di Giacomo, lui pur potendosi a quel

tempo ancora alzare, era rimasto rintanato nella sua camera da letto.

Prima di andare da lui, chiesi loro alcune notizie relative al figlio ed espressi il

desiderio di visionare la sua documentazione sanitaria ...

Mi riferirono che Giacomo era sempre stato bene fino ai due anni precedenti. Gran

lavoratore. Era un artigiano del ferro, ben conosciuto ed apprezzato nella zona di

Oderzo ... Poi quella maledetta diarrea che non terminava, gli accertamenti e la

diagnosi che sappiamo .... Adenocarcinoma colico metastatizzato al fegato ed alle ossa.

Dalla documentazione in esame vidi che erano state tentate tutte le più moderne

opzioni mediche e chirurgiche per quel tipo di neoplasia, ma malgrado ciò la malattia

aveva fatto inesorabilmente il suo corso. Eravamo tutti consci che oramai si era alle

battute finali di un lungo calvario che per Giacomo stava durando da quasi

settecentoventi giorni ...

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Mi strinsi sulle spalle e mugugnai forse un vuoto “Mi spiace” ...

Giacomo.

Il nostro primo incontro non fu davvero facile.

Giacomo era molto magro, il viso affilato faceva trasparire le lunghe sofferenze che la

malattia stava infliggendogli. Mi salutò a stento e mi concesse solo poche risposte ...

pochi spazi ... poca attenzione ... Gli chiesi se aveva dolori, se dormiva decentemente,

se urinava o defecava come di norma, se faceva faticava a respirare … Forse erano

state tante, troppe quel genere di domande chiuse, fredde e anonime formulate in

medicalese a cui Giacomo dovette assistere, sempre più inerme, nel corso di quegli

ultimi due anni. Compresi la sua grande ritrosia nel parlarmi. Terminai l’incontro con

una veloce ricognizione dei parametri vitali : Temperatura corporea, pressione

arteriosa, ossigenazione sanguigna, frequenza cardiaca ... Per tutte quelle cose non

serviva che parlassimo che in qualche modo comunicassimo. E avverti come se la mia

di tensione, ne venisse in qualche maniera stemperata.

Considerato il quadro clinico di estrema gravità e di labile compenso, decisi di attivare

per Giacomo il servizio delle visite programmate settimanali domiciliari.

Negli incontri che ne seguirono, Giacomo non cambiò atteggiamento ... Impermeabile

a qualsiasi domanda che gli rivolgevo, rispondeva solo con ostinati silenzi o con

incomprensibili mugugni.

Mi sentivo frustrato nel non poter minimamente alleviare quella forma di angosciante

mutismo ... Sembrava che tutte le urla di dolore di Giacomo che non sentivo, si fossero

dapprima cristallizzate e poi frantumate ai piedi del letto da qual non intendeva più

muoversi.

Giacomo forse era solo li in attesa che un giorno od un altro, qualcuno gliele potesse

raccogliere.

Un giorno, ebbi un idea.

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Notai che sparsi per la casa vi erano sempre fogli di quaderno scritti con la medesima

calligrafia. Mi informai presso la moglie e i genitori ed ebbi ragione nel credere che

fossero scritti proprio da Giacomo. Negli ultimi tempi questi foglietti rappresentavano

l’unica forma di comunicazione che concedeva alle persone a lui più care. Si trattava

però esclusivamente di messaggi per la trasmissione di bisogni alimentari, di dolore

fisico e di igiene personale ...

Quel giorno eseguita la solita visita medica, senza nulla dire, prima di salutare, mi presi

la libertà di scrivere due righe appena in un quadernino che riposi nel suo comodino

vicino al letto : “Come immagini il tuo tumore”?

Alla visita successiva, mi accorsi che Giacomo aveva risposto. In uno di quei suoi tanti

fogli vi era scritto : “Quello li, io lo penso come una talpa che scava gallerie nel mio

corpo. Come è davvero?”

Restai stupito. Dovevo rispondere. E scelsi la via maestra della verità, della scrittura

semplice, immediata, velata appena da un leggero umorismo.

L’indomani gli portai una foto di una biopsia di adenocarcinoma colico che avevo nel

mio libro di anatomia patologica. Era una massa piccolina di appena quattro-cinque

cm, sanguinolenta, in alcuni punti scurita appena. Si stagliava sullo sfondo di un telo

verde. Appoggiai la foto accanto ad un foglietto dove vi avevo scritto: “Giacomo vedi è

questo piccolo bastardo il tuo tumore, ora sai con chi hai a che fare. Era giusto che tu

conoscessi un inquilino così scomodo, ora almeno sai chi mandare al diavolo”.

Ad un incontro successivo, gli scrissi : “Giacomo hai mai pensato come quel piccolo

bastardo di inquilino, ti sfratterà un giorno o l’altro?”

Giacomo in un post-it mi rispose: “Non lo so. Ma ho paura di questo. Io ho sempre

pensato che uno muore solo quando gli si ferma il cuore come quando viene un infarto,

non so come altro si faccia a morire”.

Risposi in un foglietto : “Giacomo, fondamentalmente tre sono le modalità con le quali

il tuo inquilino ti imporrà lo sfratto. Tu stai pronto in modo tale che non ti coglierà di

sorpresa: 1) all’improvviso ti farà perdere tanto sangue 2) pian piano ti metterà contro

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il tuo stesso fegato e poco prima di avere lo sfratto, ti addormenterai 3) ti farà fermare

il sangue in testa e poi sverrai. Insomma quel piccolo bastardo ti potrà mettere ko solo

in questi modi. Hai mai visto un incontro di boxe? Lui è un peso massimo (c’è sempre

qualcuno più forte di noi) ma se tu non abbassi la guardia, non ti farà tanto male.

La domanda successiva che gli lasciai fu: “Hai voglia di parlarmi del tuo funerale? Chi

pensi che ci verrà? Chi vorresti che non mancasse proprio quel giorno?”

Giacomo mi scrisse così: “Immagino in prima fila i miei genitori e mia moglie che

piangeranno molto ... forse mi laveranno, mi vestiranno e mi metteranno su una bara.

Poi mi porteranno al Duomo per la funzione. Spero che ci saranno i miei colleghi di

lavoro, gli zii, i miei cugini ed alcuni amici. Sono convinto che ci saranno almeno un

duecento persone. Non voglio fiori, ma che si facciano opere di bene ... Bhè poi mi

piacerebbe rivedere quel giorno la mia prima morosetta dei tempi delle scuole medie.

Non la ho più rivista. Peccato. Vorrei anche che fosse un bel giorno di sole.”

Nel mio biglietto che gli consegnai : “Bhè duecento persone non sono mica poche. Sei

fortunato ad avere così tante persone che ti vogliono bene. Il Duomo è poi un bel posto

dove congedarsi. Ci sono posti così brutti alle volte dove salutarsi. Pensa poi che con

tutti i soldi che si raccoglieranno farai del bene a tante famiglie che di questi tempi non

arrivano a fine mese. Giacomo, sto riflettendo che alle volte è così buffo il mondo, mi

sa proprio che rivedrai la tua morosetta proprio al tuo ultimo giorno di scuola”.

Ed ancora, in una delle volte successive : “Giacomo, hai mai immaginato cosa

succederà ai tuoi famigliari quando sari fuori di casa?”

Mi rispose : “Economicamente staranno tutti bene. Mia moglie penso si risposerà, è

ancora giovane. Questo pensiero mi fa un po’ arrabbiare. Sono sempre stato geloso. I

miei genitori ci soffriranno tanto, ma alla fine se ne faranno una ragione. In fin dei

conti anche quando è morto mio fratello più grande in un incidente di moto, lo strazio

fisico è durato circa un anno. Sono forti. Non ho figli. Meglio così”

In un angolino del suo foglio, aggiunsi : “Bhè, nella sfortuna, quando succederà di

essere sfrattato, hai grosse possibilità di rivedere tuo fratello e poi considera che non

farai soffrire figli. Di solito, Giacomo te lo dico per esperienza diretta per aver visto

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molte famiglie, sono proprio loro che ne soffrono di più per questo genere di cose. Tua

moglie anche se potrà avere qualche altro uomo accanto, non ti potrà mai e poi mai

scordare ... Gli amori veri fanno giri lunghi ma poi si reincontrano sempre. Possiedono

una memoria di ferro”

Continuai a scambiarmi con Giacomo foglietti, post-it, a volte semplici frammenti di

scritto spesso in modo saltuario e non preordinato, per circa due mesi. Poi lui si

aggravò fino al punto che non fu più possibile continuare. Poco dopo morì.

Non so quanto fu utile tutto quello che feci, se fu fatto in modo metodologicamente

corretto, se non fu troppo azzardato e terapeuticamente ardito. Forse la cosa gli pesava

e mi rispondeva solo per farmi contento, senza crederci ... Questo non lo saprò mai, so

solo che riuscii unicamente in quel modo a costruire con Giacomo un’ ironica e

sclerotizzata forma di comunicazione, dopo che i bonari consigli, le consolatorie

chiacchiere e le amorevoli carezze avevano fallito.

Andai al suo funerale, il duomo era ricolmo di gente, assai probabilmente vi erano più

di duecento persone.

Una attimo prima di uscire dalla chiesa, feci spallucce e tra me e me pensai : “Certo

che dobbiamo avere proprio coraggio a salire ogni giorno sul ring della vita, con la

certezza di venire sconfitti”. Ciao Giacomo.

Fathia.

Nel mese di dicembre del 2009 si presentò nel mio studio Fathia. Di nazionalità

marocchina, trentaseienne. Dal 2005 viveva stabilmente in Italia. Si era da poco trasferita

da Caorle ad Oderzo.

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Si lamentò del fatto che da alcuni mesi soffriva di uno stato di nervosismo persistente. Alle

volte percepiva il cuore battergli in gola, le mani fredde e sudate, il torace oppresso,

l’addome appesantito, la mente intasata da pensieri e preoccupazioni. In passato non aveva

mai sofferto di alcuna patologia di rilievo. Non assumeva farmaci e negava l’uso di droghe

ed alcol. Fathia era single, senza figli. I genitori, entrambi in vita, abitavano in Marocco ad

Agadir. Aveva una sorella maggiore di nome Amina che risiedeva da molti anni a Milano.

Fathia lavorava in Oderzo come commessa in un negozio d’abbigliamento.

A seguito di quella visita, considerai il nervosismo di cui si lamentava come un disturbo

d’ansia generalizzato reattivo verosimilmente alle sue mutate condizioni lavorative e

abitative. La congedai con sommari consigli, molte rassicurazioni ed una terapia

fitoterapica a base di camomilla, passiflora e valeriana.

La rividi dopo circa un mese. Era dimagrita, il viso tirato. Mi riferì che si sentiva

costantemente in uno spiacevole stato di allerta e di agitazione immotivata. Dormiva poco

e male. Preoccupata mi raccontò anche di uno singolare episodio che le era accorso alcuni

giorni prima mentre si trovava al lavoro. Stava servendo un cliente quando all’improvviso

non riuscì più a comprendere dove si trovasse e a parlare per la durata di circa un minuto.

Era comprensibilmente scossa da quanto successo.

Veniva da me per essere rassicurata che non avesse gravi malattie.

Iniziai col indagare se era preoccupata per qualcosa, per qualcuno, se la sua situazione

economica era soddisfacente, se vi era un qualche conflitto al lavoro.. Mi rispose che

almeno apparentemente, non c’era niente che giustificasse quello stato. Non riusciva più a

capire cosa le stesse succedendo …

Non sapendo ancora come muovermi, pensai di intraprendere un trattamento

farmacologico con degli ansiolitici e le richiesi una consulenza neurologica. Fino a prova

contraria poteva anche trattarsi di una crisi epilettica.

Il neurologo, per suo conto, richiese un sacco di esami di approfondimento diagnostico …

RMN, EcoDoppler, Elettroencefalogramma, che risultarono tutti negativi (vi era pertanto

assenza di patologia organica obiettivabile). Dall’organico si passò quindi a considerare il

funzionale e dal neurologo si passò allo psichiatra che dopo un primo e breve colloquio,

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formulò per Fathia la diagnosi di DAP (Disturbo da Attacchi di Panico). Le prescrisse una

terapia antidepressiva da affiancare all’ansiolitico già in uso e le consigliò una visita di

controllo dopo circa sei mesi.

Le cose però peggiorarono. Fathia da quando si considerò affetta dal DAP, aumentò il

numero e la frequenza delle crisi di disorientamento spazio temporale.

Fu allora che le proposi un breve ciclo di sedute di psicoterapia.

Già nel corso delle prime sedute, Fathia iniziò a confidarmi che si sentiva marchiata come

malata di mente, affetta da una malattia che fino ad allora non conosceva e che temeva.

Una malattia riconosciuta da un medico specialista in disturbi mentali. Questi erano i fatti,

così come era un fatto che io fino ad allora, concedendole l’astensione dal lavoro,

avallando la terapia dello psichiatra e spiegandole fino alla noia che dal DAP si poteva

guarire e che non sarebbe ammattita, non facevo che presentificarle il disagio ad ogni

incontro. Fathia più che essere sollevata e rassicurata dalle mie parole, appariva più

frustrata, assente, impotente, rassegnata. Ed io con lei.

Avvenne poi che nel corso di una seduta, le diedi il compito di scrivermi un breve tema il

cui titolo era più o meno questo: “Trovare un nuovo nome al DAP”

Si mostrò stupita da quella mia strana richiesta. Non le davo la solita ricetta per i farmaci,

non la rassicuravo, non le spiegavo la prognosi, l’incidenza, la prevalenza del DAP nella

popolazione, gli effetti collaterali dei farmaci, la percentuale di guarigione nei soggetti

trattati. Cambiavo registro. Le davo un compito creativo su cui riflettere che le avrebbe

richiesto un pochino di sacrificio ed impegno. La rendevo attiva e non più passiva a quanto

le stava capitando. Le davo la parola. Le restituivo dignità e autonomia.

Fathia mi scrisse poche righe, in un italiano assai incerto. Ricordo come in quel groviglio

di righe dava al DAP il nome di eccesso di sensibilità, confidandomi che si considerava

troppo sensibile per una società ed un paese come il nostro nel quale tutti corrono e solo i

più forti sopravvivono e “riescono nella vita”.

Da allora concordammo assieme che non avremmo mai più parlato di DAP ma solo di

eccesso di sensibilità.

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Passo dopo passo, l’invitai ad individuare tra tutte le persone a lei più significative, il

soggetto più sensibile che conosceva e che secondo il suo personale modo di intendere era

davvero “riuscito nella vita”. Doveva poi provare a tracciarne una breve descrizione per

iscritto.

Scelse la sorella maggiore Amina. Una donna da lei delineata come molto sensibile e

premurosa. Timida, delicata ma forte come una roccia. Una donna che aveva aiutato tanto i

genitori quanto gli amici connazionali che vivevano all’estero. Era stata lei a vent’anni, la

prima a partire per l’Italia. Ora viveva a Milano con uno dei figli, aiutando il marito nella

gestione di una piccola azienda di import/export di prodotti alimentari.

Stimolai Fathia a considerare le differenze e le similitudini caratteriali che la distinguevano

da Amina.

Nei piccoli resoconti che ne seguirono, Fathia rimarcò spessissimo le differenze che la

separavano dalla sorella maggiore, quasi mai le similitudini. Nel confronto si viveva come

debole, priva di iniziativa, indifesa e tanto sola. Nei due mesi appresso cercai di lavorare

con lei più sulle somiglianze che sulle differenze che l’avvicinavano alla figura della

sorella percepita come positiva.

Per l’ultimo incontro del ciclo di sedute concordato, le chiesi di portarmi una foto di

Amina. Una volta presa tra le mani, l’osservai in silenzio. Poi nell’atto di restituirla,

commentai così: “Fathia anche se tu continui a sostenere il contrario, a me sembra proprio

che tu e tua sorella vi assomigliate davvero tanto. Secondo me Amina ti è molto più simile

di quanto tu e lei stessa possiate credere”.

Riuscii solo in un secondo momento a mettermi in contatto con Amina che conosceva poco

della gravità della situazione di salute della sorella. Le spiegai quanto fatto e le consigliai

di venire a trovare la sorella. Amina accettò e si fermò circa un mese ad Oderzo. La

conobbi. Un pomeriggio entrambe le sorelle vennero in studio per salutarmi. Erano quello

che si dice, due gocce d’acqua non solo fisicamente ma anche nella gestualità e nel modo

di parlare. Senza saperlo, pensai che non mi ero sbagliato.

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Fathia da allora non ha più avuto attacchi di panico. Rimane certo in lei una quota di ansia

importante che però riesce in qualche modo a controllare. E’ritornata a lavorare. Assume

ancora oggi gli ansiolitici e gli antidepressivi.

Forse il miglioramento è stato dettato esclusivamente dall’azione dei farmaci che dopo un

periodo di latenza hanno iniziato a manifestare appieno il loro effetto. Forse il

miglioramento è avvenuto per l’avvicinamento con la sorella, forse è dipeso dal periodo di

riposo forzato o dal colloquio con lo psichiatra. Forse questo è solo un periodo di relativo

benessere prima di una prossima ricaduta. Non lo si può sapere. Non so neppure se io

abbia, in qualche quota, contribuito a quello che è stato per tutti un “prodigioso”

miglioramento.

Per quel che mi riguarda, mi piace pensare di aver aiutato Fathia a chiamare con un nuovo

nome quel disturbo che tanto la faceva soffrire. Tra noi due durante gli incontri di terapia

infatti non si parlava più di malattia mentale, di un disturbo di attacco di panico, si

discuteva e si rifletteva solo su un suo stato di eccessiva sensibilità. Il nuovo ordine logico

introdotto, forse un po’ alla volta, ha contribuito a sciogliere tensioni e paure acquisite.

Provabilmente ho solo il merito di aver fatto sentire Fathia meno sola, meno diversa, meno

isolata, meno malata, di quanto tutti noi medici e forse anche lei stessa, allora impaurita e

terrorizzata, si viveva.

L’ultimo caso clinico proposto, riguarda proprio chi scrive.

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Correva il 1989. Io avevo poco più di quindici anni e come ogni estate, soprattutto in quei

tempi, passavo le vacanze scolastiche dai miei nonni in Sicilia.

1989 un estate spensierata, lunga, torrida, con tanti bagni in un mare turchese, ma anche

l’anno in cui sperimentai la mia prima cocente delusione sentimentale.

Elena si chiamava. Era un ragazza siciliana conosciuta tramite i miei cugini. Fu una

passione amorosa breve ma travolgente, vissuta con il trasporto totalizzante che solo gli

adolescenti sembrano possedere. Purtroppo nuove emozioni presero il soppravvento nel

cuoricino impaziente di Elena e la storia velocemente finì. Ne soffrii moltissimo. Ancora

oggi, a molti anni di distanza, ricordo con un senso di vivo dolore quei giorni. Sperimentai

per la prima volta nella mia vita, il senso del lutto, dell’abbandono, della rabbia, della

frustrazione, dell’impossibilità di cambiare a mio piacimento la sorte degli avvenimenti.

Feci insomma i conti con i miei limiti e le mie fragilità.

Come spesso capita agli adolescenti, mi chiusi per lunghi tempi nella mia camera

ascoltando unicamente musica a volume esagerato. Divenni irascibile ed insolente nei

confronti dei miei genitori.

Mio nonno, da buon siciliano sornione, stette dapprima ad osservarmi senza dire nulla

(differentemente dai miei genitori che si affannavano nel forzarmi a parlare, senza peraltro

ottenerne risultati) poi pian piano mi venne a trovare nella camera in cui sempre più spesso

mi intanavo. Scambiava con me solo veloci occhiate di intesa, qualche gesto, poche parole,

proverbi. Proverbi bellissimi, cantati nel nobile dialetto siciliano [1]. Ora pungenti, ora

sferzanti e beffardi, ora dolci o arguti. Sempre andavano a segno dove dovevano, dove

volevano. Mai troppo invadenti, sempre pronti al buon consiglio ma mai proponendosi in

modo saccente o spregiudicato. Erano motti, versi di strada, cantate di genti antiche e

lontane. Trasudavano di saggezza arcaica, di praticità, umiltà e buonsenso. Erano intuitivi.

Slogan da mandare a memoria tra una canzone e l’altra dei Duran Duran.

Mi appassionai ad essi negli anni che vennero, leggendoli e studiandoli. Molti mi

sovvengono all’improvviso in momenti di difficoltà e scoramento. Possiedono la fortuna

con poco, di dare molto. A volte mi accorgo di farne uso durante i colloqui con alcuni

pazienti che non vogliono o che non possono starmi a sentire.

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Ecco quelli che mio nonno in quella lontana estate del 1989 (da vero proto-terapeuta) usò

con il sottoscritto, risquotendone un gran successo.

.) Ama a cui t’ama, rispunni a cui ti chiama / Ama chi t’ama, rispondi a chi ti chiama.

.) Ama a cui t’ama, si voi aviri spassu: ca amari cui nun t’ama, è tempu persu / Ama chi

t’ama, se vuoi aver diletto, perchè amare chi non t’ama è tempo perso.

.) Amari e disamari nun sta a cui lu voli fari/ Amare e disamare non sta a quel che lo vuol

fare

.) Amari la so vicina è gran vantaggiu: spissu si vidi e nun si fa viaggiu/ Amare la vicina è

un gran vantaggio: spesso si vede senza far viaggio

.) Amuri pri forza non havi valia/ Amare per forza non ha valore

.) Juramenti d’amuri e fumu di ciminia, l’acqua li lava e lu ventu si li carria/ Giuramenti

d’amore e fumo di ciminiera, l’acqua li lava e il vento li porta via

Limiti

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“Andando innanzi negli anni apprendiamo i limiti della nostra capacità”

Sigmund Freud [34]

Ma quali potrebbero essere i potenziali limiti di applicabilità di un tale approccio narrativo

nella cura del disagio e della malattia, nel setting della medicina di famiglia?

Ho individuato:

Patologie organiche fortemente invalidanti e le loro conseguenze anche indirette.

Ad esempio: il trattamento con farmaci che sono in grado di incidere pesantemente

sulle performance mentali; gravi handicap linguistici o di apprendimento; deficit

cognitivi; tare ereditarie; malattie degenerative con compromissione del sensorio; stati

tossiemici endogeni od esogeni etc …

L’ambiente fisico non adeguato

Noi sappiamo che i presupposti per una comunicazione efficace dipendono

sostanzialmente da quattro fattori strettamente correlati tra loro: il medico, il paziente,

il messaggio stesso e l’ambiente in cui tale messaggio viene inviato. E’ risaputo come

l’aspetto, le dimensioni e la disposizione dei locali dello studio medico per la

consultazione e le sale d’attesa per i pazienti, hanno degli effetti diretti sulla stessa

comunicazione (specialmente se ne viene minacciata la privacy). Spesso poi, lo stesso

medico può creare un ostacolo alla comunicazione mediante una “barriera fisica”, ad

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esempio usando una grande scrivania che imponga una grande distanza tra lui e il

paziente [30].

Esiguità del tempo a disposizione per il singolo paziente

Se (come oggi avviene) l’attività medica viene sottoposta a restrizioni di tempo sempre

più serrate dettate dal crescente numero di impegni, ciò costringe il medico e il

paziente a subire gravi influenze negative sull’efficacia stessa della comunicazione.

Limitato riconoscimento economico

Punto questo assai critico e delicato considerando le attuali esigue risorse del SSN in

un periodo di forte regressione economica, tuttavia molto sentito dagli operatori sempre

più oberati da carichi di lavoro spesso non facilmente governabili ed adeguatamente

retribuiti.

Incremento dei casi di burn-out

Recenti indagini hanno dimostrato come il fenomeno del burn-out tra il personale

sanitario sia in costante aumento. Tale rischio è spesso la conseguenza del cronico

squilibrio tra richieste degli utenti e le risorse personali, della necessità nel rispondere

in modo integrato e in tempi utili a bisogni complessi e a difetti di comunicazione

esistenti tra gli operatori.

Drop out dei pazienti

Spesso a causa di un mancato riconoscimento di una tale funzione a forte valenza

psicologica, da parte di un professionista universalmente riconosciuto solo come

“meccanico del corpo”.

Conclusione

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Il Sogno

“Giù dalla torre il cognito

l’incantesimo faccia il suo

regali un sole di pasta diversa

e quattro nuovi stracci

per continuare a nasconderci”

Alessandro Di Franco [14]

Concludo questa mia relazione indirizzando idealmente una lettera al Dott. Rossi, mio

Tutor di Medicina Interna nei tre anni di frequenza al Corso di Formazione Specifica in

Medicina Generale.

Medico ospedaliero, sostenitore incrollabile della preminenza del dato clinico oggettivo,

dell’organo e della sua funzione, sulla psiche e sul mondo affettivo del paziente.

A lui molto devo come maestro, mi concessi poi la libertà di cercare anche altrove, nuovi

sentieri di conoscenza.

Caro Tommaso,

Grazie per la pazienza e la costanza con la quale, anni addietro hai cercato di insegnarmi numerosi aspetti tecnici della nobile

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arte della medicina. Come già sai, ho deciso di lavorare come medico di famiglia, fuori dall’ospedale. Ho voluto fare il medico tra la gente, nel territorio, distante dai lucidi corridoi che odorano di formalina delle cliniche. Un lavoro diverso dal tuo. Forse più facile, forse più difficile, sicuramente diverso.

In questi nove anni di professione e di studi, ho compreso fondamentalmente due cose: la mutevolezza nel corso dei secoli, dei modelli teorici di riferimento della scienza medica (e quindi anche la loro relatività) e l’inutilità, in molti casi, di una diagnosi precisa per delle affezioni comuni. Entrambe queste cose mi hanno portato a considerare sempre più da vicino la PERSONA e sempre meno la MALATTIA.

Tommaso, diversamente dalle malattie trattate all’ospedale, quelle da me viste e curate quotidianamente, non sono sottoposte ad alcuna selezione. L’ambulatorio del medico di famiglia è considerato come un luogo più intimo e personalizzato rispetto alle anonime e fredde stanze degli ospedali dove tu lavori e l’atmosfera spesso più rassicurante ed amichevole che vi regna, penso influisca non poco anche sulle motivazioni di fondo che spingono le persone ad andarvi. E’ come se le malattie (ma forse è solo frutto di una mia esperienza personale) più si allontanano dall’ospedale e più si de-medicalizzano, l’ambito della patologia si dilata con casi non iscritti nella tradizionale nosografia (conosciuta da te così bene!).

Ho constato che generalmente, i colleghi medici di famiglia, sono più disposti all’ascolto, più ricettivi verso le lamentele anche riferite a lievi fastidi del vivere quotidiano, rispetto al personale ospedaliero. Il campo della malattia propriamente detta, di-fatto nel mio studio da l’impressione di essersi allargato al punto da lasciare entrare dei disturbi discreti, dei malesseri corporei vaghi che potrei chiamare “stati del corpo” così come si parla di stati dell’animo [18].

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Per farla breve, molto spesso vedo delle patologie così tenui, così mal definite che appartengono appena all’ambito del morboso. E’ come se il mio studio sia diventato con il far del tempo, un luogo della parola scritta e parlata, più frequentato del confessionale della chiesa e forse meno angosciante del lettino del psicoanalista [5].

Tommaso, io penso che l’esacerbato senso di solitudine, di anonimato caratteristico della vita dei nostri tempi, consegni a noi medici non solo malati, ma PERSONE che hanno bisogno di esistere, di essere riconosciuti, di parlare, di esternare le proprie angosce, Questa forma d’esercizio della medicina che assomiglia più all’assistenza sociale, tu mi dirai, è sommamente degna di considerazione e di ricerca, dal momento che occuperà ben presto un posto di primaria importanza nell’attività della sanità del futuro [6].

Forse ancora non lo sai Tommaso, ma sto concludendo un percorso formativo di quattro anni in Psicoterapia Sistemico-Relazionale (immagino la faccia che starai facendo nel apprenderlo!). Sai, è stato un modo per cercare e scovare risposte a quesiti che si erano fatti per me troppo stringenti. Se non risolti non mi avrebbero permesso di continuare a fare il medico in serenità.

Ho letto molto, ho visto molte famiglie problematiche, mi sono avvicinato alla sofferenza da angolazioni diverse, con tecniche nuove rispetto alle nostre consuete. Ho cercato sempre di coniugare ed amalgamare le nuove conoscenze con le vecchie, mirando ad un personale e rispettoso sincretismo.

Ho tentato anche di portare qualcosa di creativo nel quotidiano operare della nostra professione che ne è, (aihmè) per sua natura, assai avara.

Come sai, compongo fin da piccolo poesie e so per esperienza diretta, quanto di magico e liberatorio ci sia nello scrivere. Negli ultimi tempi sto cercando di mettere a buon frutto questa mia vecchia passione

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ancorandola a saldi presupposti teorici di riferimento, fornitemi dalla scuola di psicoterapia Eidos di Treviso. Tommaso, sto battendo una nuova via. Vorrei spiegartene i presupposti teorici più lungamente (e magari di persona), per il momento accontentati di questi pochi accenni introduttivi: invito i miei pazienti più fragili e problematici a scrivere un racconto breve, il cui tema di fondo siano le loro relazioni. In un secondo tempo, rileggo gli elaborati assieme a loro, analizzandoli e ricercando tra le righe spunti di riflessione inconsueti e spesso mai visitati. Cerco in definitiva, di dare alle persone una chance in più che spesso non hanno avuto, una nuova possibilità per poter ottimizzare le loro capacità di cambiamento e di miglioramento.

Tempo fa mi è capitato di leggere nel saggio “Cuore di Cactus” del giornalista-scrittore Antonio Calabrò, alcuni significativi passi riferiti alla bellezza ed utilità dello scrivere. Penso sia interessante riproporteli di seguito, affinchè tu possa in parte intuire, come questa tecnica psicoterapica innovativa che sto utilizzando, e che ti ho brevissimamente descritto, parimenti al farmaco e/o in associazione ad esso, possa dare insospettati benefici alle persone, lenendone spesso le sofferenze ed aiutandole in qualche modo, a vivere con più dignità.

“Scrivere, significa dare forma al passato, alle distanze, alle emozioni di un tempo, fare chiarezza, pretendere sincerità pur nell’ambiguo gioco tra chi scrive e chi, ognuno a suo modo, leggerà. Ma è pur sempre stare tra le righe. Spiegarsi. Lasciare tracce per il futuro, scrivente o scrittore che per avventura si sia. Ed evitare così di far precipitare la vita in un gorgo d’ombra. Mi viene in mente, tra pensieri vagabondi, la lezione di Paco Ignacio Taibo II. L’avevo incontrato, il corpo massiccio debordante da una piccola sedia, in un corridoio del Salone del Libro di Torino, il volto perennemente velato da una nuvola del sigaro, la voce roca, affettuosa e ridente: “Scriviamo perché crediamo nel potere della parola, nella sua suadente capacità trasformatrice; sappiamo che la

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letteratura è la più efficace arma di distruzione dei neuroni avariati, simili a una navicella aliena in orbita nei nostri cervelli, sappiamo che nessuno può rimanere la stessa persona dopo aver letto “Il diario di Anna Frank” e che un uomo di quarant’anni non può essere razzista se da adolescente è stato un fanatico di Sandokan e di Salgari; sappiamo che là dove Lenin falliva Robin Hood era invincibile.(...) I nostri racconti in forma scritta, dicono la vita, anche se non sempre spiegano la vita. Sono un atto d’orgoglio, una sfida al tempo. E un atto di umiltà, perché scriverli vuol dire mettersi in discussione, in mostra, in pubblico, sotto giudizio. Sono creazione. E rimemorazione. Novità. E ricordo. Sono nuove pagine, un avventura con cui dobbiamo metterci in gioco, son l’ascia che spezza il cuore ghiacciato che è dentro di noi. Rivelano emozioni (…). Ed anche se non sono del tutto convinto che avesse ragione Mallarmè quando scriveva che “in fondo il mondo esiste per approdare in un libro”, ai libri ricorro in notti come questa, in cui provo a mettere ordine nei sentimenti, nelle nostalgie, nella tela lacerata e mal rammendata della mia vita e mi sforzo di dare un barlume di ragione allo scorrere delle emozioni, riscattandole dalla confusione del passato e trasportandole, amorevolmente, come nel sonno, sulla mia schiena” [9].

Se ho capito qualcosa al termine di tutto questo, forse il trucco per cercare di aiutare gli altri, risiede proprio nel non forzare le persone al cambiamento ma piuttosto nell’agevolarle anche maliziosamente, verso modificazioni in armonia con i loro modi di essere.

Mettiamoci per un pochino in secondo piano Tommaso, non tutto in fondo dipende da noi ed è dato in nostro potere. Alla fine, una volta che lo si è capito, ci si sente perfino più leggeri.

Ad Maiora

Con stima, affetto ed amicizia.

Alessandro Di Franco

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In fondo

“Lode a te, Padre del cielo e della terra, per il fatto che non è una proprietà della scienza

e della conoscenza riconoscere ciò che è dovere per ciascuno e per il fatto che ogni cuore

non corrotto può sentire, da sé, la differenza tra il bene ed il male” (Friedrich Hegel) [20].

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Riferimenti bibliografici

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Terapia Familiare n. 37 (1991) [8] Bulgakov A. Michail. : Appunti di un Giovane Medico. Editore BUR [9] Calabrò A. : Cuore di Cactus Editore Sellerio [10] Capra F. : La Rete della Vita. Editore BUR [11] Centro Cochrane Italiano- Clinical Evidence. Editore Zadig [12] Damasio A. R. : L’errore di Cartesio. Editore Adelphi [13] De Bertolini C.- Rupolo G.- : Appunti di Psicologia Medica Editore UPSEP

Domeneghini [14] Di Franco A. : Nausicaa. Editore Ibiskos [15] Donati P. : Salute e analisi sociologica Editore Franco Angeli [16] Euract Educational Agenda of General Practice/ Family Medicine. Official final

version prepared for WONCA- REGION EUROPE CONFERENCE in KOS. Greece- 2005 [17] Foerster Von Heinz : Sistemi che osservano. Editore Astrolabio [18] Giarelli G. Ferrari M. : La Medicina del quotidiano. Il vissuto della pratica clinica del

vissuto del Medico di Medicina Generale. Editore Bonanno [19] Grmek M. D. : Psicologia ed epistemologia della ricerca scientifica. Claude Bernard.

Le sue ricerche tossicologiche. Editore Episteme [20] Guerin M. : Il Medico di Famiglia e il suo paziente. Editore Il Saggiatore [21] Hegel F. : Primi scritti critici. Editore Mursia [22] Hesse H. : La Cura. Editore Adelphi [23] Il piccolo grande libro degli aforismi. Editore Demetra Giunti [24] Invernizzi G. : Manuale di Psichiatria e Psicologia Clinica. Editore Mc Graw-Hill [25] Keeney Bradford P. : L’estetica del cambiamento. Editore Astrolabio [26] Manfrida G. : La Narrazione psicoterapeutica. Editore Franco Angeli [27] Marturana H. Varela F.J. : Autopoiesi e cognizione. Editore Marsilio

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[30] Murtagh. : Professione: Medico Generale. Editore Mc Graw-Hill [31] Nardone G. Salvini A. : Il dialogo strategico. Editore Ponte alle Grazie [32] Nardone G. Watzlawick P. : L’arte del Cambiamento. Editore Tea [33] Pandolfi M. : Dall’antropologia medica all’antropologia della malattia. Antropologia

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[44] Sluzki C. E. : “Punti di attrazione” inconsueti e trasformazioni narrative in terapia familiare. Terapia Familiare, n. 61, 1999.

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[47] Wikipedia The free encyclopedia that anyone can edit [48] Winckler M. : La Malattia di Sachs. Editore Feltrinelli. [49] Zingarelli N. : Lo Zingarelli Vocabolario della lingua Italiana. Editore Zanichelli

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