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369 14. Caratteristiche e gestione del patrimonio olivicolo di Rocco Mafrica * , Paolo Pellegrino * , Rocco Zappia * 1. Origini ed evoluzione della coltivazione dell’olivo Sebbene le origini dell’olivo siano tuttora oggetto di dibattito tra gli studiosi del settore, la maggior parte di essi concorda che la coltivazione di questa specie abbia avuto inizio in un’area abbastanza vasta compresa tra il Caucaso, l’Asia Minore ed il Medio Oriente, culla dell’attività agricola umana, e da questi luoghi si sia successivamente diffusa verso occidente. Secondo queste ipotesi, i capostipiti delle varietà di olivo oggi coltivate proverrebbero dal territorio montagnoso che si estende a sud del Caucaso, comprendente l’odierna Turchia orientale, l’Iran occidentale, il Libano, il nord Israele, la Siria ed il nord Iraq. Tale areale, sempre secondo queste ipotesi, rappresenterebbe, infatti, il centro primario di diversificazione di questa specie (Acerbo, 1937; Zohary e Spiegel-Roy, 1975). Il ritrovamento di frantoi primitivi, rinvenuti in Siria ed in Palestina, conferma che l’utilizzo dei frutti di questa pianta risalgono almeno al 5000 a.C. (Zohary e Hopf, 1994). Da questi territori l’olivo si diffuse, successivamente, in tutta l’area mediterranea, accompagnando senza eccezioni tutte le civiltà che nel tempo si sono succedute: da quella egizia a quella minoica, per passare alle civiltà greca e fenicia. Dal Mediterraneo orientale la specie si diffuse ulteriormente verso occidente, in Grecia e negli arcipelaghi dell’Egeo. In questa zona, considerata un centro secondario di diversificazione, l’olivo fu probabilmente oggetto di selezione da parte dell’uomo, in un periodo tra il III ed il II millennio a.C. Un passo importante nella diffusione dell’olivo nel Bacino Mediterraneo ebbe luogo, a partire dal primo millennio a.C., per merito dei greci e fenici, che introdussero la coltura dell’olivo in tutti i territori della Magna Grecia e nel regno Cartaginese. Questi territori vengono considerati oggi il centro terziario di diversificazione dell’olivo. Relativamente alla Penisola italiana, da tempo le diverse regioni meridionali si contendono e reclamano la primogenitura riguardo alla comparsa dei primi oliveti nel nostro Paese. In tale ambito, una delle tesi maggiormente * Dipartimento di Gestione dei Sistemi Agrari e Forestali (GESAF), Sezione di Arboricoltura Generale e Coltivazioni Arboree, Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria.

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14. Caratteristiche e gestione del patrimonio olivicolo di Rocco Mafrica*, Paolo Pellegrino*, Rocco Zappia* 1. Origini ed evoluzione della coltivazione dell’olivo Sebbene le origini dell’olivo siano tuttora oggetto di dibattito tra gli studiosi del settore, la maggior parte di essi concorda che la coltivazione di questa specie abbia avuto inizio in un’area abbastanza vasta compresa tra il Caucaso, l’Asia Minore ed il Medio Oriente, culla dell’attività agricola umana, e da questi luoghi si sia successivamente diffusa verso occidente. Secondo queste ipotesi, i capostipiti delle varietà di olivo oggi coltivate proverrebbero dal territorio montagnoso che si estende a sud del Caucaso, comprendente l’odierna Turchia orientale, l’Iran occidentale, il Libano, il nord Israele, la Siria ed il nord Iraq. Tale areale, sempre secondo queste ipotesi, rappresenterebbe, infatti, il centro primario di diversificazione di questa specie (Acerbo, 1937; Zohary e Spiegel-Roy, 1975). Il ritrovamento di frantoi primitivi, rinvenuti in Siria ed in Palestina, conferma che l’utilizzo dei frutti di questa pianta risalgono almeno al 5000 a.C. (Zohary e Hopf, 1994). Da questi territori l’olivo si diffuse, successivamente, in tutta l’area mediterranea, accompagnando senza eccezioni tutte le civiltà che nel tempo si sono succedute: da quella egizia a quella minoica, per passare alle civiltà greca e fenicia. Dal Mediterraneo orientale la specie si diffuse ulteriormente verso occidente, in Grecia e negli arcipelaghi dell’Egeo. In questa zona, considerata un centro secondario di diversificazione, l’olivo fu probabilmente oggetto di selezione da parte dell’uomo, in un periodo tra il III ed il II millennio a.C. Un passo importante nella diffusione dell’olivo nel Bacino Mediterraneo ebbe luogo, a partire dal primo millennio a.C., per merito dei greci e fenici, che introdussero la coltura dell’olivo in tutti i territori della Magna Grecia e nel regno Cartaginese. Questi territori vengono considerati oggi il centro terziario di diversificazione dell’olivo. Relativamente alla Penisola italiana, da tempo le diverse regioni meridionali si contendono e reclamano la primogenitura riguardo alla comparsa dei primi oliveti nel nostro Paese. In tale ambito, una delle tesi maggiormente * Dipartimento di Gestione dei Sistemi Agrari e Forestali (GESAF), Sezione di Arboricoltura Generale e Coltivazioni Arboree, Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria.

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accreditate circa l’origine della coltivazione dell’olivo sul territorio italiano attribuisce la paternità colturale alla Calabria. In effetti, Plinio il Vecchio, nella sua opera “Historia rerum naturae”, afferma che la coltura dell’olivo si è diffusa dall’estremità dell’Italia (la Calabria anticamente si chiamava Italia) sino al di là delle Alpi. A sostegno di questa ipotesi sono presenti tutta una serie di documentazioni e di ricerche scientifiche che dimostrano come l’olivo era addirittura già diffuso in Calabria diversi secoli prima della colonizzazione dei greci (Gullo, 2000). Secondo queste ipotesi sarebbero stati i greci ad imparare, proprio qui in terra calabra, le diverse tecniche di selezione, propagazione e coltivazione dell’olivo per ottenere produzioni abbondanti e frutti con caratteristiche adeguate alle esigenze umane. Altri Autori ipotizzano, invece, che l’introduzione della coltura dell’olivo in Calabria sia successiva e sia avvenuta ad opera proprio dei greci in seguito al loro insediamento nella regione. A tale riguardo, il Grimaldi (1777) nella sua opera “Istruzioni sulla nuova manifattura dell’olio introdotta nel Regno di Napoli” così riporta: “Non andrebbe per avventura lungi dal vero chi credesse, che le colonie greche, le quali in gran numero si stabilirono nella Calabria, avessero ivi per la prima volta piantato l'Ulivo e introdotta quell'eccellente maniera di coltivarlo, che nella Grecia si adoperava, ch'eglino riguardano come sacro, e che con somma diligenza coltivavano”. In ogni caso, in Calabria l’olivo ha tradizioni colturali molto antiche e da sempre rappresenta una delle colture più importanti per l’economia agricola regionale. L’importanza della specie, fin dai tempi antichi, è testimoniata dal fatto che l’olivo figura nelle prime monete coniate nella colonia greca di Krotone e che il più importante tempio di Locri era dedicato alla dea Minerva alla quale l’albero era consacrato (Morettini, 1956). Partendo dai primi insediamenti ellenici di Sibari (708 a.C.), Crotone (708 a.C.) e Locri (673 a.C.) l’olivicoltura si diffuse dapprima lungo le coste ioniche e successivamente nei territori del versante tirrenico. Infatti, l’espansione della colonizzazione greca lungo le coste tirreniche della Calabria meridionale portò alla nascita di nuovi importanti insediamenti: Medma (l’attuale Rosarno) e Hipponium (l’attuale Vibo Valentia), Metauros (oggi Gioia Tauro) e Mella, nei pressi dell’attuale Oppido Mamertina, attorno ai quali vennero impiantate numerose piante di olivo. Tuttavia, nonostante questi territori risultassero idonei alla coltivazione dell’olivo, la specie, al contrario del versante jonico dove assunse gradualmente sempre più maggiore importanza, per molto tempo rimase una coltura secondaria, in quanto il fabbisogno alimentare delle popolazioni era ampiamente soddisfatto dalle coltivazioni erbacee, dalla caccia e dalla pesca. E’ durante la successiva dominazione romana che la coltura dell’olivo nel versante tirrenico meridionale della Calabria comincia ad essere intensificata.

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Dopo la fine della terza guerra punica (146 a.C.), la conquista di gran parte dei territori che si affacciavano sul Mediterraneo da parte delle legioni romane e la loro trasformazione in un vasto, unico impero, rese le comunicazioni ed il commercio estremamente più intensi e sicuri. L’intero Mediterraneo fu coinvolto in un processo di diffusione dell’olivo, che diede vita alla più importante area di interesse economico produttivo di questa coltivazione. L’olivicoltura crebbe quindi di importanza e raggiunse l’apogeo nel II-III secolo d.C. La produzione, il commercio ed il consumo dell’olio d’oliva aumentarono in modo significativo, contemporaneamente allo svilupparsi dell’organizzazione della proprietà terriera e dell’apparato politico ed amministrativo dello Stato. L’importanza della produzione di olio di questa zona della Calabria è confermata dalla presenza di numerosi reperti archeologici che testimoniano come all’epoca il prodotto venisse esportato anche fuori regione (Inglese e Calabrò, 2002). Dopo il trasferimento della capitale da Roma a Costantinopoli, operata da Costantino nell’anno 326 d.C. e soprattutto dopo la caduta dell’Impero, i controlli statali sul commercio dell’olio iniziarono a scemare. I grandi oleifici cessarono di funzionare e le grandi organizzazioni di distribuzione si sfaldarono; mancando la struttura imperiale, diminuirono traffici e commerci. La fine del mondo romano e l’avvento delle popolazioni barbare fecero diminuire il consumo di olio e con esso l’abitudine a diffonderne la coltivazione, la produzione ed il commercio. Questo contesto storico è bene rappresentato dal Grimaldi, che nelle sue Memorie del 1783, così scrive: “Dopo la decadenza dell’Impero Romano, l’economia olearia tanto perfezionata nel tempo della suo floridezza, venne anch’essa coll’agricoltura, e le buone discipline tutte nelle altre stragi sopravvenute dalla barbarie avvolta, ed oppressa. Non furono da barbari distrutti gli oliveti, né si perdé la manifattura dell’olio, perché questo liquore fu sempre in Italia una derrata di prima necessità: ma gli ulivi si lasciarono generalmente abbandonati alla natura; e la manifattura olearia fu eseguita senza quelle macchine, e quelle diligenze praticate dagli antichi Romani, non dovendo più soddisfare il delicato gusto degli Apicj, ma il rozzo e grossolano palato dei barbari dominatori; onde venne, che l’olio divenisse non solo di pessima qualità, ma grave perdita ancora si facesse nella quantità di prodotto”. Nella Calabria meridionale, tale situazione fu particolarmente aggravata dalle incursioni barbariche, in particolare da quelle dei saraceni che, con i loro costanti attacchi, terrorizzavano le popolazioni delle zone costiere spingendole ad abbandonare le terre coltivate ed a rifugiarsi nelle aree interne, ritenute più sicure. La scelta dei nuovi posti ove insediarsi dipendeva da molti

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fattori, primo fra tutti la necessità di un luogo appartato e sicuro che permettesse al contempo il controllo territoriale per premunirsi dalle scorrerie. Era necessario, inoltre, che gli insediamenti fossero collocati ad un’altitudine sufficiente al fine di evitare l’arrivo della malaria, altra temibile piaga (Savaglio et al., 2004). Questo stato di cose influì non poco sulle attività agricole in generale e sull’olivicoltura in particolare. In questo contesto storico la coltura dell’olivo nei territori meridionali della Calabria fu profondamente influenzata dalla morfologia notevolmente diversa dei due versanti costieri (Placanica, 1999). La costa tirrenica a strapiombo sul mare, con insenature e golfi e poco spazio tra centro abitato e linea di spiaggia, limitava l’impianto dell’oliveto e si prestava alle incursioni saracene. Probabilmente, ciò fu la causa del drastico ridimensionamento della superficie investita ad olivo in questa zona della Calabria, con la coltura che rimase limitata e circoscritta nelle zone più interne come la Piana di Gioia Tauro. Al contrario, nel versante jonico la coltura continuò a rimanere presente anche nella zona litoranea. Infatti, la morfologia del litorale ionico risultava essere profondamente diversa: pianeggiante, con spiagge lunghe e con approdi assai lontani dai nuclei abitati che, distanti dal mare, mal si prestavano alle incursioni ed al contempo permettevano una più diffusa coltivazione dell’olivo. Quindi, al contrario del versante jonico meridionale della Calabria dove la coltivazione dell’olivo continuò ad essere praticata, nel versante tirrenico si assistette ad un suo inesorabile decadimento, con forte esodo dalla campagna verso le rocche ed i borghi. Le campagne rimasero spopolate e le colture, tra le quali l’olivo, trascurate ed abbandonate. Con il successivo avvento degli Arabi il decadimento dell’olivicoltura continuò in tutto il territorio, in quanto essi tendevano a favorire essenzialmente la diffusione degli agrumi e di altre piante da frutto, impedendo quella della vite per ovvi motivi legati alla religione e quella dell’olivo per motivi di concorrenza commerciale. Al sopraggiungere del dominio normanno in Calabria la situazione non migliorò, anzi, il fenomeno del feudalesimo con l’imposizione di gravami fiscali molto pesanti nei confronti della classe più povera rappresentata dai contadini, finì per spogliare quasi interamente della terra gli agricoltori ripartendola ed assegnandola ai baroni ed al clero che furono gli attori principali di questo periodo storico. Ad aggravare la situazione si aggiunse, inoltre, anche il sempre crescente interesse verso la coltivazione del gelso (Placanica, 1999). La dominazione sveva che seguì a quella normanna non portò ad un sostanziale mutamento della situazione, anche se il numero delle terre coltivate subì un certo incremento. All’espansione delle grandi proprietà non corrispose, tuttavia, alcun aumento della produzione, poiché il terreno fu

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destinato prevalentemente alla pastorizia e le campagne finirono per spopolarsi ulteriormente (Izzo, 1974). Per lunghi secoli, quindi, l’olivicoltura nel versante tirrenico meridionale della Calabria, per tutta la serie di motivi sopra esposti, non assunse un ruolo di rilievo nell’economia agricola, al contrario di quanto avvenne nel versante ionico. Tuttavia, gli ultimi anni del medioevo si caratterizzarono per un’importante inversione di tendenza in campo agricolo, con un significativo aumento della coltivazione dell’olivo, coltura che più di altre venne incentivata oltre che protetta da diverse norme. A questo progresso, che fu tuttavia piuttosto lento, diedero un impulso decisivo ancora una volta gli enti episcopali e conventuali dell’epoca, che riuscirono a ricreare pian piano oliveti di una certa estensione, affidandoli in gestione a contadini con contratti agrari. Così, fu solo nella seconda fase di questo periodo che la coltivazione dell’olivo si venne intensificando. La Calabria divenne in breve tempo una delle maggiori produttrici di olio di tutta Italia. Grande merito di questa ripresa va riconosciuta al re Alfonso d’Aragona che, riprendendo i provvedimenti autonomistici avviati dall’angioino re Roberto, promosse una concreta politica antibaronale. I mercati del nord, nel corso degli anni, riservarono sempre più accoglienza al prezioso olio e, mentre si impiantavano nuovi oliveti, le Repubbliche Marinare di Genova e di Venezia iniziarono a commerciare per mare il nobile condimento. La destinazione principale dell’olio d’oliva durante il Medioevo non fu tuttavia quella alimentare bensì quella liturgica, in quanto il severo rispetto delle Sacre Scritture imponeva che lampade poste sugli altari potessero essere alimentate esclusivamente con olio d’oliva. Tuttavia, negli ultimi anni del 1500, in seguito alla precedente scoperta delle Americhe, le vie del commercio si spostarono dal Mediterraneo verso nuovi porti dell’Europa settentrionale, come quelli francesi ed inglesi, provocando una grave crisi economica che investì gran parte dell’Europa meridionale e di conseguenza anche la Calabria. Ne derivarono pesanti gravami fiscali che colpirono, ancora una volta, il ceto sociale più debole rappresentato dai contadini i quali, anche a causa dell’utilizzo di obsolete tecniche di coltivazione, non riuscirono a superare questa crisi. Questa situazione portò ad un forte esodo di massa dalle campagne, determinando effetti disastrosi per tutto il comparto agricolo, con la riduzione delle aree coltivate ad olivo e l’incremento dei terreni incolti (Gullo, 2000). L’olivicoltura, in particolar modo sul versante tirrenico, rimase perciò circoscritta in territori molto limitati e ben definiti. In base a quanto riportato dal Barrio nel 1550 nella sua opera “Antichità e luoghi della Calabria” uno dei pochi areali dove la coltivazione dell’olivo continuò ad essere praticata fu la Piana di Gioia Tauro. A tal proposito, l’Autore, percorrendo la Piana e le colline che la circondano

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da nord a sud così scrive: “Il territorio fornisce tutte le cose necessarie agli abitanti; infatti è ferace di grano ed altri cereali, atto al pascolo e alle greggi e irriguo; d'estate vi si pascolano belle mandrie di cavalli. Si producono òli, vini, e stoffe di cotone ottime […] In questo territorio ci sono i villaggi di Varapodo, pari a cittadella, con emporio, quasi piede pesante e stabile, Crotrono, che significa lode, Tresilico, Misidano, e Sargonado. Qui le olive, grosse come le mandorle e carnose, condite in botti, sono ottime a mangiarsi. […] ‘Nel territorio ci sono boschi ghiandiferi comodi per nutrire i porci, come pure selve comode per legname da costruzione, suppellettili, navi. Si fanno cacce quali a Calatro, si produce un olio rinomato. […] Non lontano da Sinopoli c’è il debole castello di Cosoleto. Quindi la cittadella di Meliclochia, ove si produce ingente quantità di ottimo olio e olive quali a Sinopoli. Vi si tiene un mercato ogni anno. Di poi si presenta la città di Seminara, resti di Taurino, lontana dal mare tremila passi, su un declivo volta ad oriente. Vi si produce abbondanza di seta di olio molto lodato, le olive sono grosse e carnose, quali Meliclochia”. Il ridimensionamento della coltura e la situazione di quasi marginalità che l’olivo aveva assunto nel versante tirrenico meridionale della Calabria agli inizi del 1600 è chiaramente desumibile dall’opera “Croniche et antichità di Calabria“ (1601) di Girolamo Marafioti da Polistena. Il teologo, attraversando molti territori di questo estremo lembo della Calabria tra cui quelli di S. Fili, Melicucco, San Giorgio, Polistena, Cinquefrondi, Micropoli, Tritanti, Galatro e Anoia, descrive boschi di querce, vigne, lino, frumenti, riso, orti, biade, vari alberi da frutto, ma mai l’olivo, segno inequivocabile questo che la coltura interessava superfici molto modeste, risultando circoscritta in areali alquanto ristretti e ben delimitati. La mancanza di un’olivicoltura fiorente nel versante tirrenico della provincia di Reggio Calabria e nel caso specifico nel territorio di Polistena, è confermata anche da alcuni scritti relativi alla famiglia Milano. Nella lettera del Sig. Tabulano Domenico Antonio Sabatino del 28 Giugno 1669 indirizzata al Sig. Consigliere Thomas Carovita si riporta: “Dentro delli quali territori di detta terra vi sono molti giardini di celsi per industria delle sete, che si fanno in quella, quale per la poca quantità de territori non sono bastanti, e si comprano dal convicino. Vi sono alcuni arbusti selvaggi, e molte vigne, quali producono vini bianchi di buona qualità e leggeri […] Vi sono anco in detta Terra molti ortalizi, e poco frutti, non vi sono oliveti, eccetto che quello della Marchional Corte Tendarè, et alcune altre poco olive de particolari, che le tengono per uso propri”. Questo documento conferma che nel territorio di Polistena all’epoca non si producevano grosse quantità di olio, “se gli stessi Milano, pur avendo la contrada Tendarè coltivata ad oliveti, nel 1637 e 1638 provvedevano ad importare determinate quantità addirittura

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dalla costa jonica e, precisamente, da Gioiosa, centro posto quasi alle spalle di Polistena” (Russo, 1994). La scarsa rilevanza dell’olivicoltura in questa zona della Calabria è confermata successivamente nel 1691 dall’opera “Della Calabria illustrata” dell’abate Giovanni Fiore. Dall’analisi dei luoghi non si segnalano, infatti, evidenti cambiamenti rispetto alle precedenti descrizioni del Barrio e del Marafioti, con l’olivo che rappresenta ancora una coltura secondaria con superfici di coltivazione molto modeste e limitate a territori abbastanza circoscritti. Presenza di oliveti sono segnalati a Feroleto (“…celebratissimi per la quantità dei loro frutti; Cun vino, oleo claro ficis laudatissimum, quorum magnus sit numerus…”), Galatro (“...Hic vina, olea, serica probatissima sunt ...”), Oppido (“Fiunt olea, vina, serica nobilia…”), Santa Cristina (“…Fit, oleum nobile, olive ad amygdalarum magnitudinem crassa et carnose condite in doliolis optime sunt…”), Sinopoli (“…celebre per .. la copia del vino, oglio, castagne, ghiande e frutti diversi, d’ogni perfezione…”), Melicuccà (“…Ubi olei optimi copia ingens et olive quales Sinopoli…”) e Seminara (“…Fit hic serici, e olii probatissima copia: olive crasse, e carnose sunt, quales Meliclochia”). Da quanto riportato in questi testi, appare chiaro che nel versante tirrenico meridionale della Calabria la coltivazione dell’olivo non era particolarmente diffusa, risultando circoscritta solo a determinati territori. Da questi scritti si evince, inoltre, che in questi luoghi esistevano essenzialmente due areali olivicoli, territorialmente indipendenti e separati da selve, pianure coltivate a grano, ortaggi, vigne e da numerosi altri fruttiferi (Inglese e Calabrò, 2002). Il primo, comprendente i territori degli attuali comuni di Feroleto della Chiesa, Maropati e Galatro. Il secondo, Varapodio, Oppido Mamertina, Santa Cristina d’Aspromonte, Cosoleto, Scido, Delianuova, Sinopoli, San Procopio, Melicuccà, Seminara e Palmi. Il periodo di difficoltà ed il nomadismo delle popolazioni continuò per tutto il ‘600, favorito sia dalle oppressioni dei feudatari e dal malgoverno spagnolo, sia da gravi calamità naturali come la lunga serie di terremoti, le sistematiche pestilenze ed i moti del 1647-48 (Sirago, 1992). Così, quando nei primi decenni del settecento i Borbone raccolsero l’eredità, le condizioni economiche e sociali della Calabria erano assai misere: il Regno di Napoli era il più arretrato tra gli stati italiani, per la prevalenza di territori malarici, per le cattive condizioni dei contadini, per la scarsezza dei capitali e per l’isolamento geografico. Essi, tuttavia, promossero un movimento economico-sociale nel quale eccelsero grandi uomini di cultura quali: Antonio Genovesi, Giuseppe Palmieri, Giovanni Maria Galanti e, non per ultimo, Domenico Grimaldi nato a Seminara. Proprio grazie agli scritti del Grimaldi possiamo oggi ricostruire le vicende agricole calabresi ed in particolare quelle relative

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all’olivicoltura nella Piana di Gioia Tauro e nei territori prospicienti, che fu talmente influenzata dalle sue indicazioni da poterne riconoscere ancora oggi gli effetti. Verso la fine del ‘700 la coltivazione del gelso si avviò verso un graduale ridimensionamento dovuto essenzialmente all’arrivo della pebrina (pericoloso parassita del baco da seta) ed all’introduzione di nuove fibre vegetali. Ciò, unitamente al devastante terremoto del 1783, favorì il progressivo riaffermarsi dell’olivicoltura. I gelseti vennero abbattuti e sostituiti soprattutto dagli oliveti per fronteggiare l’aumento di domanda di olio alimentare da parte dell’accresciuta popolazione e di olio di bassa qualità per le industrie meccaniche inglesi e per i saponifici francesi. Tuttavia, nel corso di questa massiccia rivoluzione, che portò alla trasformazione di interi territori da gelseti ad oliveti, l’impianto dell’olivo venne avviato, dietro le pressioni della domanda esterna, senza attenzione verso la qualità delle produzioni e senza grandi investimenti (Placanica, 1999). Finalmente, verso i primi del 1800, dopo decenni di difficoltà, si assistette al grande rilancio dell’olivicoltura calabrese in generale e di quello dei territori della Piana in particolare. Sotto la spinta delle richieste dei mercati, ampie zone vennero bonificate incrementando sempre più l’impianto e la coltivazione dell’oliveto. In tale ambito, particolarmente prezioso fu il contributo fornito dagli abitanti di San Martino, nei pressi di Taurianova, i quali diedero un forte impulso all’agricoltura della zona contribuendo attivamente alla bonifica della Piana di Gioia Tauro ed alla creazione di nuovi impianti di olivo (Zirino, 1992). La realtà olivicola di Gioia Tauro, di Rosarno e dell’intera Piana (Taurianova, Cittanova, Iatrinoli, Oppido fino a Bagnara) cominciava quindi ad assumere un ruolo di rilievo nel mercato dell’olio di oliva e dalla zona partivano carichi sempre più importanti di olio, di qualità più o meno buona, che prendevano la via di alcuni porti per lo più disposti nella Calabria Ultra Seconda: Monteleone, Santa Venere, Parghelia, Tropea (Placanica, 1999). A testimonianza dell’elevata estensione degli oliveti, nonché dell’imponente sviluppo vegetativo che le piante avevano già all’epoca nella zona di Palmi, il Du Camp nelle memorie di un suo viaggio in Calabria del 1860 riporta che: “…prima di arrivare a Palmi entriamo in una foresta di olivi, quali non ho mai visto. […] In Calabria l’olivo non è più olivo, è un albero fronzuto che spinge verso le nuvole i suoi rami vigorosi e sparge all’intorno un’ombra”. Le condizioni dell’olivicoltura calabrese nella seconda metà del 1800 sono ampiamente descritte nella relazione dell’inchiesta Jacini, essa illustra nel dettaglio la situazione del tempo nelle varie province calabresi in merito a tutti gli aspetti dell’olivicoltura: dalla coltivazione all’estrazione. Relativamente alla provincia di Reggio Calabria è riportato che: “Gli oliveti sono la

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principale coltura della provincia, la quale, abbenchè per estensione sia la più piccola delle tre Calabrie, pure v'ha una quantità totale di oliveti che è di poco inferiore a quella che si ha complessivamente nelle altre due Calabrie. Dei 107 comuni che compongono l'intera provincia, non meno di 95 coltivano l'olivo, di cui si contano diverse varietà. Questa pianta forma la coltivazione speciale del circondario di Palme, tanto da imprimergli un aspetto caratteristico ed interessante. Sono coltivate tre specie d'olivo: il selvatico, a frutto biennale piccolo e noccioluto, l'ottobratico a frutto annuale più grosso e di caduta precoce, e quello domestico che dà frutta mangerecce molto grosse, ma l'albero è piccolo e poco forte. […] Si calcola a 40 331 ettari l'estensione del suolo coltivata ad ulivo, colla produzione media di ettol. 5 di olio per ettaro, e quindi la produzione totale media è di ettol. 201 655. - Anche la Camera di commercio di Reggio dà una cifra sopra questa produzione che si avvicina a quella suddetta. Ed in vero nel biennio 1876-77 si produssero in olio botti 54 000 pari a quintali 218 000 ”. A partire dal 1881 l’agricoltura della Calabria ricadde però nuovamente in una crisi di vaste proporzioni, comune a gran parte dei Paesi europei. Si giunse allora alla conclusione che, per rilanciare il comparto olivicolo, era assolutamente necessario migliorare la qualità dell’olio di oliva al fine di poterlo esportare come olio da pasto e non più solo come olio destinato all’industria meccanica o ai saponifici. Negli anni immediatamente precedenti allo scatenarsi del secondo conflitto mondiale, l’indirizzo produttivo dei terreni agricoli calabresi si era notevolmente modificato rispetto ai decenni addietro. La superficie olivicola, che si era più che triplicata, era quella che aveva subito il maggiore incremento, seguita da quella castanicola ed agrumicola. Tuttavia, il preoccupante fenomeno dell’abbandono delle terre continuava a turbare l’equilibrio raggiunto negli orientamenti produttivi della regione. Nel primo decennio del ‘900, a distanza di pochi anni dal tremendo terremoto che sconvolse nuovamente la regione, almeno un terzo delle terre risultava abbandonato. Le ragioni del fenomeno erano dovute essenzialmente alla diminuzione della manodopera ed al conseguente aumento del costo del lavoro, ma anche alla scarsa fertilità dei terreni in alcune località ed all’arrivo di nuove malattie vegetali. Fortunatamente, in controtendenza rispetto all’andamento generale, nelle terre più fertili si registrava un’intensificazione colturale e l’oliveto risultava ancora estesamente coltivato in particolare nelle Piane di Palmi, Santa Eufemia, Corigliano e Rossano (Izzo, 1974). La ripresa della coltivazione dell’olivo fu notevolmente incentivata dalle istituzioni agricole locali quali: le Cattedre Ambulanti di Agricoltura che organizzavano corsi annuali di olivicoltura, il Consorzio Provinciale per l’Olivicoltura di Reggio Calabria che favoriva l’accesso al credito da parte

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delle aziende agricole presso le banche e l’Istituto Vittorio Emanuele III che, nel biennio 1925-26, fece allestire diversi vivai che fornivano piantine ai coltivatori a prezzi agevolati per l’impianto di nuovi oliveti. Nel periodo fascista tutte le pratiche agricole, in generale, e l’olivicoltura, in particolare, vennero stimolate incentivando le sperimentazioni che, tuttavia, non portarono a concrete innovazioni. Le popolazioni agricole della zona, che nel corso degli anni avevano concentrato tutti i loro sforzi sulla monocoltura olivicola, non furono più in grado di assicurarsi un’adeguata sussistenza (Inglese e Calabrò, 2002). Nei successivi anni cinquanta la crisi economica divenne generalizzata a tutti i settori, ma si dimostrò più grave nel settore agricolo ed in particolare in quello olivicolo. L’industrializzazione del nord Italia, unitamente alla scarsa redditività dei terreni agricoli, spinsero le popolazioni rurali ad emigrare. Solo la nascita della Comunità Economica Europea ed il regime di agevolazioni da essa introdotto, fece registrare una certa inversione di tendenza, favorendo la ripresa della coltura. Dopo il sensibile aumento delle superfici investite ad olivo, fatto registrare nel periodo compreso fra gli anni ’20 e gli anni ’60, non si sono comunque registrate altre variazioni di rilievo se non un graduale incremento delle produzioni, dovuto al miglioramento delle tecniche colturali, e da allora fino ai giorni nostri la superficie olivetata della zona è rimasta pressoché immutata. Nonostante le difficoltà registratesi negli ultimi decenni, la provincia di Reggio Calabria rimane ancora un punto di riferimento importante per l’olivicoltura regionale (tab. 1). In tale ambito, il contributo dei due versanti appare molto diverso. Il versante tirrenico manifesta una maggiore vocazione olivicola con quasi la metà della SAU che è destinata alla coltivazione dell’olivo. Infatti, contrariamente al versante jonico, dove la coltivazione dell’olivo è prettamente concentrata nelle aree collinari, sulla fascia tirrenica gli oliveti si spingono maggiormente nell’entroterra, favoriti dalle particolari condizioni orografiche (tab. 2). Nell’ambito del versante tirrenico, estremamente importante è il contributo dato dai territori che ricadono nell’Area PIAR Aspromonte Sud. Nel complesso, tale areale rappresenta circa il 20% della superficie olivetata provinciale, assumendo un ruolo chiave sia nel panorama olivicolo provinciale che in quello regionale.

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Tabella 1 - Superficie agricola utilizzata (SAU) e superficie investita ad olivo nelle 5 province calabresi.

Provincia SAU (ha)

Superficie olivetata (ha)

Catanzaro 87.518,80 36.813,12 Cosenza 230.655,63 48.750,35 Crotone 84.257,94 18.762,27 Reggio Calabria 109.475,90 44.098,00 Vibo Valentia 46.316,45 16.873,54

Totale Regione 558.224,72 165.297,28 Fonte: ISTAT (Censimento dell’Agricoltura - 2000).

Tabella 2 - Superficie agricola utilizzata (SAU), superficie olivetata e numero di aziende interessate alla coltivazione dell’olivo nei 2 versanti della provincia di Reggio Calabria.

Versante SAU (ha)

Superf. olivetata (ha)

Aziende (n°)

Jonico Pianura - - - Collina 36.586,08 13.995,93 13.908 Montagna 24.840,21 5.246,62 5.684

Totale 61.426,29 19.242,55 19.592

Tirrenico Pianura 11.559,06 5.335,58 3.526 Collina 17.863,91 8.872,56 8.463 Montagna 18.626,64 10.647,31 7.271

Totale 48.049,61 24.855,45 19.260

Tot. provincia 109.475,90 44.098,00 38.852 Fonte: ISTAT (Censimento dell’Agricoltura - 2000).

Dall’analisi della distribuzione territoriale della coltivazione dell’olivo nell’ambito di questo comprensorio, tuttavia, appare evidente il diverso contributo dato dai vari comuni. Infatti, i tre soli comuni di Taurianova, Oppido Mamertina e Cosoleto (con circa 4.200 ettari di olivo) rappresentano circa la metà della superficie totale investita ad olivo nell’ambito di questo comprensorio e circa il 10% di quella provinciale. L’elevata incidenza della superficie olivetata sulla SAU (in alcuni comuni anche oltre il 90%) che si registra in questo comprensorio testimonia l’importanza storica di tale coltura nell’economia agricola di questa zona della Calabria (tab. 3).

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Tabella 3 - Superficie agricola utilizzata (SAU), superficie olivetata e numero di aziende interessate alla coltivazione dell’olivo nei comuni dell’Area PIAR Aspromonte Sud.

Comuni SAU (ha)

Sup. olivetata (ha)

Aziende (n°)

Cosoleto 1.284,76 1.020,70 371 Delianuova 974,47 419,08 355 Molochio 757,27 627,37 422 Oppido Mamertina 1.494,18 1.348,02 706 S. Cristina d'Aspromonte 1.107,73 653,61 225 S. Eufemia d'Aspromonte 2.243,64 218,73 173 Scido 752,55 451,73 219 Sinopoli 1.579,20 828,59 419 Taurianova 3.506,41 1.831,79 945 Terranova Sappo Minulio 629,77 427,00 203 Varapodio 1.171,94 797,29 426 Tot. comprensorio 15.501,92 8.623,91 4.464 Tot. provincia 109.475,90 44.098,00 38.852

Fonte: ISTAT (Censimento dell’Agricoltura - 2000). Nonostante le antiche tradizioni colturali e la vocazionalità olivicola del comprensorio, negli ultimi decenni si è registrato un certo ridimensionamento della coltura. Dall’analisi degli ultimi tre censimenti dell’agricoltura è possibile infatti osservare come, nel corso del ventennio, la superficie olivicola si sia progressivamente ridotta, analogamente al dato provinciale, passando dai 10.361,30 ettari del 1982 agli 8.623,91 del 2000, con un decremento medio pari a circa il 18% (tab. 4). Relativamente al numero di aziende olivicole, invece, non si sono registrate notevoli variazioni ed, attualmente, sono operanti sul territorio circa 4.500 unità (tab. 5). Le cause di questo ridimensionamento sono da ricercarsi essenzialmente nella dimensione media aziendale assai limitata. Si registra, infatti, un’elevata frammentazione della superficie ed un’eccessiva polverizzazione aziendale, che non hanno mancato e non mancano di far sentire i loro effetti sfavorevoli sul piano di un’adeguata organizzazione e gestione degli oliveti (Baldari et al., 2004). Queste condizioni, unitamente alle caratteristiche delle piante (età quasi sempre prossima o superiore al secolo e dimensioni notevoli) ed all’orografia del territorio (prevalentemente collinare e montano), impediscono l’introduzione delle necessarie innovazioni tecnologiche capaci di ridurre i costi di gestione e di migliorare qualitativamente la produzione e di conseguenza di assicurare una pur minima redditività della coltura. Pertanto, una buona parte delle aziende del comprensorio risultano marginali da un punto di vista economico-produttivo e le generazioni meno anziane, salvo

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pochi casi di assoluta mancanza di alternative occupazionali, hanno cominciato da tempo ad abbandonare gli oliveti per dedicarsi ad altre attività più remunerative. Tabella 4 - Evoluzione della superficie coltivata ad olivo (ha) nei comuni dell’Area PIAR Aspromonte Sud.

Comuni Anni 1982 1990 2000

Cosoleto 857,55 724,33 1.020,70 Delianuova 530,68 573,33 419,08 Molochio 792,17 801,76 627,37 Oppido Mamertina 2.469,26 2.142,69 1.348,02 S. Cristina d'Aspromonte 543,53 574,77 653,61 S. Eufemia d'Aspromonte 171,27 222,06 218,73 Scido 404,44 440,47 451,73 Sinopoli 912,23 696,41 828,59 Taurianova 2.116,47 1.477,87 1.831,79 Terranova Sappo Minulio 484,25 128,95 427,00 Varapodio 1.079,45 988,00 797,29 Tot. comprensorio 10.361,30 8.770,64 8.623,91 Tot. provincia 53.538,04 48.625,16 44.098,00

Fonte: ISTAT (Censimento dell’Agricoltura - 1982, 1990 e 2000). Tabella 5 - Evoluzione del numero di aziende interessate alla coltivazione dell’ olivo nei comuni dell’Area PIAR Aspromonte Sud.

Comuni Anni 1982 1990 2000

Cosoleto 318 304 371 Delianuova 344 357 355 Molochio 500 544 422 Oppido Mamertina 829 805 706 S. Cristina d'Aspromonte 247 211 225 S. Eufemia d'Aspromonte 177 170 173 Scido 210 199 219 Sinopoli 318 288 419 Taurianova 1.016 955 945 Terranova Sappo Minulio 159 73 203 Varapodio 480 475 426 Tot. comprensorio 4.598 4.381 4.464 Tot. provincia 41.394 42.426 38.852

Fonte: ISTAT (Censimento dell’Agricoltura - Anni 1982, 1990 e 2000).

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2. Il panorama varietale Le prime notizie riguardo alle varietà di olivo coltivate nel versante tirrenico meridionale della provincia di Reggio Calabria risalgono al 1550 e si devono al Barrio che nella sua opera “Antichità e luoghi della Calabria” riporta che a Sinopoli ed in tanti altri comuni adiacenti, vi era la presenza di “olive, grosse come le mandorle e carnose, che preparate in botti, sono ottime a mangiarsi”. Da questa descrizione, alquanto sommaria, si evince in modo chiaro che queste non potevano essere però le olive prodotte dalle cultivar attualmente presenti in questo importante comprensorio olivicolo calabrese. Successivamente, nel 1601 è Girolamo Marafioti da Polistena che fornisce altre indicazioni circa le varietà di olivo coltivate in questo areale. Il teologo, giunto nel pressi della Piana di Gioia Tauro, segnala la presenza di: “bacche delle olive tanto saporose e carnose, ch’elle a volte crescono alla grossezza maggiore delle mandorle”. Oltre un secolo dopo, nel 1777 il Grimaldi nella sua opera “Istruzioni sulla nuova manifattura dell’olio introdotta nel Regno di Napoli” al capitolo “Delle varie maniere d’Ulivi” riporta che: “…nella Calabria si conoscono varie maniere d’ulivi, ma non è possibile di confrontarle nè colle denominazioni latine, nè colle toscane, nè colle genovesi, perchè i nomi calabresi sono assolutamente diversi da questi. Gli ulivi, che rendono più olio nel territorio di Seminara, sono quelli, che chiamano i paesani coccitaniche, i quali secondo il giudizio de’ trappetaj genovesi hanno più somiglianza a’ Tagliaschi”. La testimonianza del Grimaldi, benché alquanto scarna di informazioni riguardo alle caratteristiche degli “ulivi coccitaniche”, è estremamente importante perché per la prima volta mette in evidenza l’esistenza di un certo grado di variabilità nell’ambito del patrimonio varietale olivicolo presente in questo territorio, in quanto, accanto alle “olive, grosse come le mandorle e carnose” citate in precedenza dagli altri Autori, esistono altre varietà che producono olive più piccole, simili a quelle della cultivar ligure “Taggiasca”. Questa variabilità nel quadro varietale è tuttavia destinata ben presto a ridursi, infatti, la maggiore delicatezza degli “olivi domestici”, che si caratterizzano per produrre “olive grosse come mandorle e carnose” e che probabilmente erano stati introdotti secoli prima dai coloni greci, determina la loro graduale sostituzione con varietà di olivo più rustiche e più produttive. A tale riguardo, il Pasquale nella sua relazione “Sullo stato fisico-economico della primea Calabria Ulteriore” del 1863 così, infatti, scrive: “Nella Piana li domina il terreno sabbio-umifero, come nel circondario di Palmi, gli olivi selvaggi vengono ad acquistare dimensioni colossali, e caricano di frutti, in modo da non poterne sostenere il peso talvolta, capaci di 18 ettolitri e più di olive.

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Oltre ciò, provato in molti punti dello stesso circondario ad allevare gli olivi domestici dello Ionio, non vi danno che scarsissimo prodotto in frutto; onde si levano via quei pochi che si trovano ab antico”. La conferma che alla fine del 1800 il panorama varietale olivicolo della zona era ormai totalmente cambiato viene fornita dagli Atti della Giunta Agraria (1883) dove è riportato che le “nuove” varietà presentavano un comportamento “intermedio tra gli olivi che vengono dai semi nei boschi … con il selvatico a frutto biennale piccolo e noccioluto, l’Ottobratico a frutto annuale più grosso e di caduta precoce, e quello domestico che dà frutta mangerecce molto grosse, ma l’albero è piccolo e poco forte”. Un’ulteriore conferma di questo cambiamento varietale viene data dal Caruso (1883), il quale fornisce per la prima volta una dettagliata descrizione delle varietà di olivo coltivate in questo areale. Egli, tenendo conto del portamento, della rusticità, della dimensione della pianta, della precocità di fioritura e della maturazione, nonché delle caratteristiche delle drupe, divide gli olivi coltivati in 3 gruppi: olivastri, olivi mezzani e frantojani. L’Autore descrive, oltre all’“Olivo di Mammola” coltivato nel versante jonico delle provincia di Reggio, 3 varietà presenti nel versante tirrenico: “Ottobratico”, “Rotondello” e “Coccitano”. Descrivendo l’“Ottobratico” ed il “Rotondello” riporta che: “le olive rotondelle sono orbicolari, le ottobratiche appena obovate, piccole entrambe, da somigliare alle Razze o alle Mignole, hanno cioè a un dipresso da 12 a 14 millimetri di lunghezza e da 8 a 10 di lunghezza. Sono meno carnose delle Mammolesi ma ricche d’olio meno fino. Maturano in ottobre da qui il nome di ottobratiche”. Riguardo alle drupe dell’olivo “Coccitano” o “Coccitanico” egli scrive che: “sono più grosse delle Oleastre e più piccole delle Ottobratiche, meno carnose e di forma consimile, disposte in grappoli di 3, di 4, di 5 e fino di 7. Persistono con tenacità ai peduncoli; ond’è che cominciano a vajare verso la fine di dicembre, e terminano di cascare annerite del tutto in marzo o aprile, talvolta sino a maggio o al cominciar di giugno”. Dieci anni più tardi, nel 1893, sul Bollettino del Regio Oleificio Sperimentale di Palmi vengono descritte le varietà: “Ciciarello”, “Caroleo”, “Tombarello”, “Rotondello”, “Ottobratico” e “Coccitano”. Da questa descrizione si evince che la “Ciciarello” è una varietà che si caratterizza per avere “un albero molto alto, rustico, con pochissimi rami, molto lunghi, diritti e poco frondosi, con frutto piccolissimo, simile ad un granello di cece. È tardivo nella maturazione, per cui è anche detto olivo amaro”. La cultivar “Caroleo” presenta invece “albero di maestose dimensioni, con rami eretti e discendenti che gli fanno raggiungere notevole altezza; frutto obovato, assai ricco di olio delicato. Per la maturazione precoce è detto olivo dolce”. La “Tombarello” ha “albero non molto grosso, piuttosto scarso di chima; ha foglie strette ed

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allungate, frutto grosso ovale, di tardiva maturazione, ma di buona resa”. La varietà “Rotondello”, pur avendo molta rassomiglianza con la cultivar precedente, si differenzia per alcune caratteristiche della drupa “il frutto è più piccolo, matura precocemente e per questo motivo è posto dai pratici nella categoria delle olive dolci, mentre il precedente in quella degli olivi amari”. La cultivar “Ottobratico”, così chiamato per l’epoca di maturazione particolarmente precoce, “comprende, il "Perciasacchi" e il "Rotondo" detto anche "Ottobraticone" differente solo sensibilmente per la forma del frutto, che mentre nel primo, all'apice, è acuminato e più ristretto alla base, nell'altro avviene il rovescio; cioè è all'apice ottuso e un po' più grosso che alla base. Anche la chioma, il più spesso, il rotondo l'ha meno folta e più regolare del "Perciasacchi". Del resto sono ambedue alberi di notevoli dimensioni, raggiungendo l'altezza di 18- 20 metri e anche più, con rami ascendenti, contorti, numerose ramificazioni secondarie vermene, ora poco inclinate, ora pendenti, molto flessibili e del' pari contorte, con numeroso fogliame di un bel verde chiaro; frutto allungato, polposo, che raramente oltrepassa i 14 mm, isolato o più spesso in racemi di 2 o 3, il quale comincia a variare nel mese di ottobre e di novembre, raggiungendo nel dicembre o nel gennaio la maturità e presentando allora poca difficoltà a distaccarsi dal peduncolo e dalla caduta. Hanno una mediocre resa in olio (dal 9 al 12 %). Anche nell'annata così detta vuota, specialmente se si aiuta la caduta del frutto con la scrollatura dei rami fruttiferi, si ha pure qualche po' di frutto. Raramente questa varietà si trova coltivata sola; il più spesso si trova coltivata con l'altra varietà Coccitana”. Infine, la varietà “Coccitana”, detta anche “Sciarolèa o Sinopolese, la quale è più rustica, resistendo più ai freddi ed alle intemperie, e nello stesso tempo più tardiva, cominciando a variare il frutto nel dicembre e non giungendo a maturazione che a febbraio, marzo o di aprile, talora di maggio, secondo l'andamento delle stagioni, la località e l'esposizione. Raggiunge una grande altezza, superiore a quella della varietà Ottobratica; ha generalmente pochi rami, molto ascendenti, vermene più dritte, meno flessibili dell'Ottobratico, con foglie più rigide, più strette e più bianche nella parte inferiore, e sia per naturale tendenza o più ancora per difetto della coltura, la ramificazione è assai disordinata, tanto da far rassomigliare certi oliveti a veri boschi di quercia. Tuttavia è abbastanza fruttuoso, con frutti grassetti, poco allungati, con l'apice rotondo più grosso della base; il nocciuolo è però di frequente molto sviluppato, e, se l'annata fu scarsa di piogge nei mesi di gennaio e febbraio, la polpa non è molto abbondante. I frutti raramente sono isolati nell'ascella delle foglie: ordinariamente sono in racemi di tre o anche di cinque. E’ persistente e non è facile a cadere come quello dell'Ottobratico con la semplice scuotitura; però questa pratica, usata con una certa regola, giova moltissimo anche per questa

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varietà. La resa in olio è superiore di quella delle olive ottobratiche, potendo raggiungere anche il 14-16 % in olio di polpa in certe epoche, come ho potuto riscontrare l'anno scorso (1892). Per la sua maggiore rusticità la si trova coltivata in tutto il circondario, ed in tutte le posizioni, insieme, come ho già detto, alla varietà Ottobratica, e quasi esclusivamente, nella regione montuosa di esso (Delianuova, Sinopoli, S. Cristina, ecc.) dove la maturazione essendo tardiva, si hanno dei buoni oli fruttati” Ulteriori indagini sul territorio condotte in epoche successive (Zito, 1931; D’Amore et al., 1977; Motisi et al., 2001; Marra et al., 2006) evidenziano che il panorama varietale dell’areale non è sostanzialmente cambiato ed esso risulta costituito il larga parte da “Sinopolese” ed “Ottobratica” e poi, in misura minore, da “Ottobratica perciasacchi”, “Ciciarello” e “Tombarello”. L’introduzione negli ultimi anni di nuove cultivar, provenienti essenzialmente da altri areali olivicoli calabresi, ha arricchito il quadro varietale del comprensorio. Tali cultivar sono state utilizzate soprattutto per costituire nuovi impianti nelle zone di pianura dove le varietà tradizionali, a causa delle particolari condizioni ambientali, risultano particolarmente suscettibili ad alcune malattie di natura fungina. Tra le diverse varietà introdotte nell’areale, particolarmente impiegate sono risultate le cultivar “Cassanese” e “Tondina”. Quest’ultima cultivar, conosciuta nel comprensorio con il sinonimo di “Roggianella”, è stata inoltre molto utilizzata per effettuare i “rinfittimenti” negli oliveti tradizionali.

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CV. CASSANESE PIANTA Vigoria: elevata Portamento: assurgente

INFIORESCENZA Lunghezza: media Numero di fiori medio

FOGLIA Forma: ellittico-lanceolata Lunghezza: media Larghezza: elevata

FRUTTO Peso: medio Forma ellittica Simmetria leggermente asimmetrico Posizione diametro trasversale max: centrale Apice: rotondo Base: arrotondata Lenticelle: numerose e piccole

ENDOCARPO Peso: elevato Forma: ellittica Simmetria: asimmetrico Posizione diametro trasversale max: apicale Apice: rotondo Base: troncata Superficie: scabra Numero di solchi fibrovascolari: medio

SINONIMI

“Grossa di Cassano”, “Cassanisa” CARATTERISTICHE BIO-AGRONOMICHECultivar autosterile con un rilevante aborto dell’ovario (60-70%). La produttività è elevata e costante. Il contenuto di olio è medio-basso. Risulta tollerante alla rogna e al cicloconio, mentre dimostra una certa sensibilità al freddo ed agli attacchi della mosca.

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CV. CICIARELLO PIANTA Vigoria: elevata Portamento: assurgente

INFIORESCENZA Lunghezza: media Numero di fiori basso

FOGLIA Forma: ellittico-lanceolata Lunghezza: media Larghezza: media

FRUTTO Peso: basso Forma ellittica Simmetria asimmetrico Posizione diametro trasversale max: centrale Apice: rotondo Base: troncata Lenticelle: numerose e piccole

ENDOCARPO Peso: basso Forma: ellittica Simmetria: leggermente asimmetrico Posizione diametro trasversale max: apicale Apice: rotondo Base: arrotondata Superficie: liscia Numero di solchi fibrovascolari: medio

SINONIMI

“Olivo amaro”, “Ciciareddu” CARATTERISTICHE BIO-AGRONOMICHECultivar autoincompatibile. L’epoca di fioritura è media. Risulta molto alternante con produzioni elevatissime nell’annata di carica. L’epoca di maturazione dei frutti è piuttosto tardiva. E’ particolarmente sensibile agli attacchi della mosca, mentre ha una discreta tolleranza al cicloconio.

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CV. OTTOBRATICA PIANTA Vigoria: elevata Portamento: assurgente

INFIORESCENZA Lunghezza: media Numero di fiori basso

FOGLIA Forma: ellittica Lunghezza: media Larghezza: elevata

FRUTTO Peso: basso Forma allungata Simmetria asimmetrico Posizione diametro trasversale max: centrale Apice: appuntito Base: troncata Lenticelle: numerose e piccole

ENDOCARPO Peso: medio Forma: allungata Simmetria: asimmetrico Posizione diametro trasversale max: apicale Apice: appuntito Base: arrotondata Superficie: liscia Numero di solchi fibrovascolari: medio

SINONIMI

“Mirtoleo”, “Ottobratico”, “Ottobrarico” CARATTERISTICHE BIO-AGRONOMICHECultivar da olio. Autoincompatibile. L’epoca di fioritura è precoce. La produttività è elevata ed alternante. E’ tollerante alla rogna, all’occhio di pavone e al freddo.

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CV. OTTOBRATICA PERCIASACCHI PIANTA Vigoria: elevata Portamento: assurgente

INFIORESCENZA Lunghezza: media Numero di fiori basso

FOGLIA Forma: ellittica Lunghezza: media Larghezza: elevata

FRUTTO Peso: basso Forma allungata Simmetria asimmetrico Posizione diametro trasversale max: centrale Apice: appuntito Base: troncata Lenticelle: numerose e piccole

ENDOCARPO Peso: medio Forma: allungata Simmetria: asimmetrico Posizione diametro trasversale max: apicale Apice: appuntito Base: appuntita Superficie: liscia Numero di solchi fibrovascolari: medio

SINONIMI

“Perciasacchi” CARATTERISTICHE BIO-AGRONOMICHECultivar autosterile, rustica e produttiva anche se alternante. Risulta essere abbastanza resistente al freddo, al cicloconio e alla mosca delle olive.

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CV. SINOPOLESE PIANTA Vigoria: elevata Portamento: assurgente

INFIORESCENZA Lunghezza: media Numero di fiori medio

FOGLIA Forma: ellittico-lanceolata Lunghezza: media Larghezza: elevata

FRUTTO Peso: basso Forma allungata Simmetria asimmetrico Posizione diametro trasversale max: centrale Apice: appuntito Base: arrotondata Lenticelle: numerose e piccole

ENDOCARPO Peso: medio Forma: ellittica Simmetria: asimmetrico Posizione diametro trasversale max: apicale Apice: appuntito Base: arrotondata Superficie: liscia Numero di solchi fibrovascolari: medio

SINONIMI

“Chianota”, “Coccitana”, “Sciolarea” CARATTERISTICHE BIO-AGRONOMICHECultivar autosterile, rustica e produttiva anche se alternante. La maturazione è scalare e tardiva per cui la raccolta si protrae a volte fino a primavera inoltrata. Risulta essere abbastanza resistente al freddo, mentre è sensibile al cicloconio e alla mosca delle olive.

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CV. TOMBARELLO PIANTA Vigoria: media Portamento: assurgente

INFIORESCENZA Lunghezza: media Numero di fiori medio

FOGLIA Forma: ellittico-lanceolata Lunghezza: media Larghezza: media

FRUTTO Peso: basso Forma sferica Simmetria leggermente asimmetrico Posizione diametro trasversale max: centrale Apice: rotondo Base: troncata Lenticelle: rare e piccole

ENDOCARPO Peso: medio Forma: ovoidale Simmetria: leggermente asimmetrico Posizione diametro trasversale max: apicale Apice: rotondo Base: arrotondata Superficie: liscia Numero di solchi fibrovascolari: medio

SINONIMI

“Tumbareddu” CARATTERISTICHE BIO-AGRONOMICHECultivar da olio, praticamente autosterile, rustica e produttiva anche se alternante. L’epoca di maturazione è medio-tardiva. Il contenuto in olio è medio-basso. E’ mediamente resistente al freddo e al cicloconio.

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CV. TONDINA PIANTA Vigoria: media Portamento: assurgente

INFIORESCENZA Lunghezza: ridotta Numero di fiori basso

FOGLIA Forma: ellittico-lanceolata Lunghezza: media Larghezza: media

FRUTTO Peso: medio Forma sferica Simmetria leggermente asimmetrico Posizione diametro trasversale max: centrale Apice: rotondo Base: troncata Lenticelle: numerose e piccole

ENDOCARPO Peso: elevato Forma: ovoidale Simmetria: leggermente asimmetrico Posizione diametro trasversale max: centrale Apice: rotondo Base: arrotondata Superficie: rugosa Numero di solchi fibrovascolari: medio

SINONIMI

“Roggianese”, “Rotondella”, “Vernile” CARATTERISTICHE BIO-AGRONOMICHECultivar autosterile, rustica e produttiva. Non ha esigenze particolari nei confronti del clima e del suolo. In alcune annate i frutti possono essere anche utilizzate per la produzione di olive nere. Risulta particolarmente sensibile alla rogna mentre è mediamente tollerante alla mosca.

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3. Sistemi colturali e problematiche agronomiche Nel complesso, l’olivicoltura del comprensorio è un’olivicoltura di tipo tradizionale, con impianti di antica realizzazione, quasi sempre di età superiore al secolo. Molti oliveti si caratterizzano per presentare sesti irregolari e piante disetanee (fig. 1).

Figura 1 – Oliveto secolare con sesto irregolare nel comune di Terranova Sappo Minulio. La densità di impianto varia in funzione della situazione orografica dei terreni e della fertilità dei suoli. In generale, nelle zone più pianeggianti si riscontrano densità di 40-80 piante per ettaro, mentre nei territori collinari la densità risulta maggiore con valori di 90-120 piante per ettaro. Caratteristica pressoché comune a tutti gli impianti del comprensorio è la grande dimensione delle piante (fig. 2). Il notevole sviluppo degli alberi è dovuto sia alle caratteristiche genetiche delle diverse cultivar presenti nel comprensorio, tutte caratterizzate da un notevole grado di vigoria, che alle forme “libere” di allevamento adottate. Questa peculiare caratteristica, a prescindere dalla

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monumentale bellezza delle piante, comporta notevoli difficoltà nella gestione degli oliveti. Infatti, le dimensioni delle piante, in un contesto orografico non sempre favorevole e con ampiezze aziendali molto limitate, rappresentano un forte limite all’introduzione di tecnologie innovative in grado di consentire un miglioramento qualitativo del prodotto ed il contenimento dei costi di produzione.

Figura 2 - Tipico oliveto del versante tirrenico meridionale della provincia di Reggio Calabria. Le pratiche agronomiche spesso sono ridotte al minimo e sono poche le aziende che gestiscono adeguatamente gli oliveti. Relativamente alla gestione del suolo, predominano le lavorazioni del terreno che spesso si riducono a due interventi manuali o meccanizzati: uno in tarda primavera per eliminare le erbacce e ridurre il pericolo di incendi, l’altro in autunno sempre per ripulire il terreno e prepararlo per la raccolta delle olive. La pratica del diserbo è ancora poco diffusa ed è adottata solo in certi contesti orografici particolarmente sfavorevoli dove risulta molto difficile eseguire le lavorazioni. Altrettanto poco diffusa risulta la pratica dell’inerbimento controllato. La concimazione è modesta ed empirica (molto raramente viene eseguita sulla base di analisi

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fogliari e del terreno). In molte aziende, quando viene eseguita, essa è limitata all’apporto di modeste quantità di letame e, soprattutto nelle annate di carica, di concimi chimici azotati o complessi. La concimazione fogliare viene praticata solo in un ristretto numero di aziende ed ancora più limitato è il numero di quelle nelle quali viene adottata la tecnica della fertirrigazione. Quest’ultime tecniche vengono praticate, essenzialmente, negli impianti più recenti, ubicati in zone pianeggianti e con piante di mole limitata. L’irrigazione è praticamente inesistente nella stragrande maggioranza degli oliveti del comprensorio. Tale pratica è, infatti, solo attuata negli oliveti costituiti in epoca recente (fig. 3).

Figura 3 - Giovane oliveto nel comune di Terranova Sappo Minulio. La potatura di produzione varia molto tra le aziende dell’areale sia per intensità che per turni, che tendono comunque ad essere sempre più lunghi (10 o più anni). In molti oliveti le piante non vengono potate da più di mezzo secolo. Negli ultimi anni, l’esigenza di avere piante che si potessero adattare alla raccolta meccanica, ha portato ad una certa intensificazione della potatura. Si tratta in questi casi essenzialmente di potature di riforma con

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interventi che hanno lo scopo di ridurre la mole della pianta e di creare una struttura scheletrica adatta all’impiego degli scuotitori (fig. 4). Tuttavia, in alcuni casi, tali interventi non sono stati eseguiti in modo razionale, “mortificando” le piante con tagli indiscriminati, senza raggiungere in alcun modo l’obiettivo prefissato. Spesso, in particolare quando eseguiti in oliveti posti in zone pianeggianti, gli interventi di potatura di riforma sono anche accompagnati da opere di “rinfittimento”, con la messa a dimora di altre piante in corrispondenza degli interfilari (fig. 5).

Figura 4 - Oliveto tradizionale sottoposto a potatura di riforma nel comune di Taurianova.

Allo stato attuale nella maggioranza delle aziende del territorio la raccolta si compie prevalentemente da terra, spesso con l’ausilio di reti, a seguito di cascola naturale o patologica. In diversi casi si assiste alla raccolta delle olive dalla pianta tramite bacchiatura o con l’ausilio di ganci e pettini vibranti. Per molti e comprensibili motivi, la raccolta meccanica è quasi nulla nelle aree marginali, mentre si sta diffondendo negli uliveti ubicati in terreni pianeggianti e dove sono presenti piante idonee all’impiego delle macchine.

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Figura 5 - Intervento di rinfittimento in un oliveto tradizionale nel comune di Taurianova. La consistente percentuale di olive raccolta da terra, il loro trasporto in contenitori non idonei e la loro non immediata molitura determinano che la qualità dell’olio ottenuto nel comprensorio risulti spesso scadente. Infatti, la maggior parte dell’olio prodotto è del tipo “lampante” (circa il 60%), mentre il 20-30 % rientra nella categoria “vergine” e solo il 10-15 % può classificarsi come olio “extravergine” provenendo dalle partite di olive più “curate” almeno in quanto a tempestività nella raccolta e trasformazione. Le difficoltà a produrre olio di qualità in questo importante comprensorio olivicolo calabrese risultano accentuate anche da problemi di natura parassitaria. Infatti, il particolare microclima che si crea in alcuni ambienti del comprensorio favorisce attacchi particolarmente virulenti di Cycloconium oleaginum (occhio di pavone) e di Gleosporium olivarum (lebbra). Tale problema è amplificato anche dal fatto che le varietà maggiormente diffuse nel territorio (“Sinopolese” ed “Ottobratica”) risultano particolarmente suscettibili a questi patogeni, che nel caso del Gleosporium possono alterare in brevissimo tempo le drupe rendendo l’olio che se ne estrae particolarmente acido e ricco di perossidi. Questo aspetto rende inefficaci, ai fini di una

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produzione di qualità, anche l’attuazione di tecniche di raccolta delle olive direttamente dalla pianta a mezzo di scuotitori, in sostituzione della raccolta da terra. La virulenza e la frequenza degli attacchi, specialmente quando si verificano agli inizi della campagna olearia, rendono particolarmente difficile attuare un controllo fitosanitario efficace. Le varietà tradizionalmente coltivate nel comprensorio presentano, inoltre, alcune peculiarità che rendono particolarmente difficile la raccolta anticipata e pertanto la soluzione di questo problema. La maggior parte di queste cultivar si contraddistingue, infatti, per avere calendari di maturazione delle olive alquanto scalari e tardivi. La stessa cultivar “Ottobratica”, pur presentando un periodo di invaiatura abbastanza precoce (fine ottobre - inizio di novembre), ha una curva di inolizione tardiva che rende quindi poco conveniente una raccolta anticipata. La resa in olio si mantiene bassa (fino al 10 %) durante il primo periodo di raccolta (ottobre e prima metà di novembre) per poi aumentare fino a raggiungere anche punte del 25 %. Le rese produttive risultano correlate tanto al differente apporto di cure prestate alla coltura, talora limitate a minimi interventi, quanto alle condizioni ambientali, prima fra tutte l’influenza dell’altitudine ivi incluse anche le differenti caratteristiche pedologiche dei comprensori vallivi e di quelli collinari. La produzione di olive negli impianti di tipo tradizionale è molto variabile. Nelle annate di “carica” si attesta attorno ai 100-120 Kg a pianta, con punte massime anche di 400-500 Kg. Nelle annate di “scarica” la produzione invece cala notevolmente, risultando di norma intorno al 10-15 % di quella delle annate di “carica” e spesso non viene raccolta. Negli impianti più giovani (20-30 anni) e con sesti più stretti la produzione media è di circa 50 Kg a pianta, con un andamento negli anni palesemente più costante. 4. Conclusioni Da quanto precedentemente esposto, emerge una situazione più o meno precaria. A dispetto della chiara vocazione oleicola del comprensorio, la produzione attuale è fortemente sbilanciata verso l’olio lampante e vergine, con una scarsa incidenza dell’extravergine. Dare una ragione di questo stato di cose non è semplice, in quanto ciò investe in maniera trasversale aspetti di natura agronomica, strutturale, tecnologica ed economica di grande complessità. Certamente, i fattori rilevanti che più degli altri determinano questo stato di cose sono legati alle condizioni strutturali degli impianti, alle caratteristiche delle piante e alle dimensioni delle aziende. Da una prima analisi appare subito evidente che il grado di meccanizzazione delle aziende olivicole del comprensorio è ancora basso e molto spesso la

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raccolta viene praticata sulle olive cascolate su reti o direttamente a terra. E’ evidente che nell’areale sono presenti situazioni in cui le condizioni orografiche o le dimensioni aziendali lasciano poco spazio alla meccanizzazione delle operazioni colturali e per le quali è difficile prevedere dei miglioramenti sostanziali della qualità del prodotto. In particolare, questo è il caso di molte aree di media ed alta collina. In queste condizioni, solo una parte estremamente ridotta della produzione è in grado di raggiungere livelli qualitativi accettabili, se si fa eccezione per quelle aree dove le olive vengono raccolte direttamente dall’albero. Fatto questo più frequente nei casi di piccole aziende diretto-coltivatrici, dove il prodotto è sostanzialmente destinato all’autoconsumo. In altri casi, dove le condizioni orografiche e le dimensioni aziendali permetterebbero un certo grado di meccanizzazione, il fattore limitante è rappresentato dalle dimensioni delle piante, che, insieme alla notevole scalarità di maturazione delle drupe, rendono meno efficace l’impiego delle macchine. Anche in queste situazioni, solo una piccola parte del prodotto che viene raccolto raggiunge, in definitiva, standard qualitativi adeguati. Il resto viene comunque raccattato da terra o raccolto con le reti, in uno stadio di maturazione che non consente di ottenere un olio di pregio. In generale, sono dunque le ridotte cure colturali praticate agli oliveti, l’inefficace controllo dei parassiti, la poca attenzione per le curve di maturazione, la scarsa tempestività della lavorazione delle olive raccolte e talune deficienze della tecnologia estrattiva che impediscono un effettivo miglioramento della qualità dell’olio. Al contrario di quanto potrebbe sembrare, i vincoli al miglioramento qualitativo dell’olio prodotto in questo comprensorio non sono, quindi, imposti dall’attuale panorama varietale, se intendiamo con questo riferirci alle caratteristiche proprie dei frutti prodotti da ciascuna varietà. Infatti, la maggior parte delle varietà presenti, pur con un certo grado di variabilità in funzione delle caratteristiche dell’impianto, delle tecniche colturali e dell’epoca di raccolta, sono potenzialmente capaci di produrre olio extravergine di buona qualità. Il problema diviene varietale se si fa riferimento invece alle caratteristiche delle piante, al vigore, al portamento, all’accentuata scalarità di maturazione. In questo senso, le varietà “Sinopolese” ed “Ottobratica” condizionano pesantemente la possibilità di ottenere oli di pregio (Inglese, 1995). Nell’ottica di un miglioramento qualitativo del prodotto risulta fondamentale l’approfondimento di tutte quelle conoscenze bio-agronomiche e tecnologiche che permettano di ottenere un olio non solo valido da un punto di vista qualitativo ma che sia anche costante dal punto di vista temporale. Si tratta quindi di affrontare, in una prospettiva nuova, sia il problema dell’alternanza

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di produzione che quello legato alla variabilità delle caratteristiche dell’olio, in funzione dei parametri colturali ed ambientali. La scelta di idonei modelli di impianto, capaci di assicurare elevate rese produttive, insieme alla corretta applicazione della tecnica colturale (potature annuali, tempestività della raccolta, uso razionale della concimazione), possono certamente contribuire a contenere le dimensioni del fenomeno dell’alternanza di produzione e a garantire produzioni più costanti negli anni. Riguardo invece alla seconda problematica, cioè alla variabilità delle caratteristiche dell’olio in funzione dei parametri colturali ed ambientali, risulta estremamente importante riprendere le ricerche su questo aspetto fondamentale della biologia dell’olivo, da troppo tempo trascurato sebbene non siano stati ancora affatto definiti i fattori fisiologici, biochimici, varietali e tecnici che sono responsabili del fenomeno. La variabilità delle caratteristiche dell’olio dipende più dalla frequenza delle diverse popolazioni di frutti a diverso grado di maturazione presenti sulla pianta al momento della raccolta, che da effetti “diretti” dovuti a condizionamenti di varia natura che agiscono sul frutto durante la fase di sviluppo. Quest’ultimi hanno, infatti, un effetto più marcato sugli aspetti quantitativi (produttività, resa in olio) o carpologici (pezzatura e rapporto polpa/nocciolo) che sulla effettiva composizione dell’olio. Tale aspetto riguarda soprattutto la frazione acidica, la cui variabilità stagionale sembra, più che altro, legata alla frequenza delle diverse popolazioni di olive al momento della raccolta. Il modello di inolizione è, in effetti, costante, mentre è evidente una diffusa variabilità delle curve di maturazione, fortemente legata a fattori di ordine biologico, come la carica di frutti (Barone et al., 1994), ed ambientali, come la disponibilità idrica (Inglese et al., 1996) ed il decorso termico prevalente durante la maturazione. Ne deriva la presenza, alla raccolta, di popolazioni di frutti ampiamente diversificate in termini di grado di maturazione. Le differenze si amplificano nel tempo se si confrontano modelli di maturazione rapidi ed omogenei con altri fortemente scalari. La diversa velocità con cui avvengono i processi di maturazione impone, quindi, strategie di raccolta specifiche. Questo perché: quanto più rapidamente ed uniformemente cambia, nel tempo, il grado di maturazione dell’intera popolazione di frutti, tanto più profondamente si modifica la qualità dell’olio che ne deriva. Diminuire la “dispersione” della qualità a livello di singola pianta e di impianto, attraverso il monitoraggio delle curve di maturazione e la concentrazione dell’epoca di raccolta è, in definitiva, un aspetto di grande rilievo nell’ottica della standardizzazione delle caratteristiche dell’olio di una certa varietà e della massimizzazione del rapporto tra quantità e qualità dell’olio ottenibile. La razionalizzazione e lo sviluppo del settore, che sono obiettivi importanti stante il ruolo che l’olivicoltura riveste per la struttura socio-economica della

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zona, possono essere perseguibili solo attraverso la messa a punto di sistemi di intervento coerenti con le condizioni che si riscontrano in questo ambiente, anche se taluni vincoli oggettivi (ampiezze aziendali, caratteristiche orografiche dei terreni, strutture delle piantagioni, ecc.) non sono ovunque di agevole rimozione. Indipendentemente dalle carenze strutturali, si tratta comunque, nel suo complesso, di una realtà olivicola di altissimo valore ambientale e paesaggistico, che si è conservata nel tempo grazie alle cure ed alla passione degli uomini, per cui un’ipotesi di ristrutturazione integrale o parziale va considerata con grande cautela, tenendo presente in primo luogo la grande valenza ambientalistica della coltura che costituisce un patrimonio di inestimabile ricchezza. In tale ambito, l’olivicoltura del comprensorio ed il paesaggio agrario che essa rappresenta si difendono prima di tutto opponendosi al diffondersi di un urbanizzazione incontrollata od alla spoliazione degli elementi costitutivi (è quasi quotidiano il trasporto clandestino di olivi secolari dagli oliveti verso giardini privati). Va quindi salvaguardata e valorizzata la funzione produttiva, incrementando i risultati se non in termini di resa almeno in termini di qualità e tipicità. La salvaguardia di tale funzione produttiva necessita, inoltre, del contenimento dei costi di produzione attraverso la diffusione di tecnologie appropriate ai caratteri limitanti dell’ambiente e rispettose del paesaggio (macchine adeguate alla viabilità ed alle sistemazioni collinari, inerbimenti, ecc.). Il problema più rilevante è rappresentato dai grandi impianti di pianura o di collina, che soffrono di una marginalità strutturale per la quale è difficile pensare a soluzioni che siano solo agronomiche, legate sia alla produttività sia alla qualità del prodotto. Il problema non è di facile soluzione sia per la difficoltà di individuare tecniche innovative compatibili con la struttura degli impianti e l’architettura degli alberi, sia perché in molti contesti non sempre è possibile perseguire strategie di qualità del prodotto, per ragioni di ordine strutturale e varietale. La possibilità di conservare, almeno in parte, il sistema olivicolo tradizionale, con tutto quello che esso rappresenta in termini di storia, cultura ed ambiente, pone il problema della coesistenza tra il vecchio ed il nuovo paesaggio olivicolo, quello che deriverebbe dall’impianto di nuovi oliveti. La costituzione di nuovi oliveti, realizzati in modo razionale, che permettano di meccanizzare gran parte delle operazioni colturali ed in grado di fornire produzioni valide sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo, risulta determinante per tentare di risollevare l’intero comparto, che ormai da decenni versa in grave crisi. La “nuova” olivicoltura, inoltre, potrebbe offrire valide opportunità di guadagno per molti giovani agricoltori, ponendo così un freno all’abbandono delle campagne e fare riacquistare importanza e dignità anche all’olivicoltura tradizionale, consentendone così il suo mantenimento.

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Riguardo invece agli oliveti semi-abbandonati, di collina o di montagna, sarebbe opportuno, in questi casi, rinunciare alla funzione produttiva di questi impianti favorendo i processi di rinaturalizzazione, anche al fine di ridurre i rischi legati ai fenomeni erosivi e di desertificazione. - Riferimenti bibliografici AA.VV. (1893). Bollettino del Regio Oleificio sperimentale di Palmi - Reggio

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