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KAIRÓS “Dentro” o “fuori” Anno VII n. 2 Ottobre 2004 Sommario Editoriale 2 La Parola 4 “Dentro” o “fuori” Silvia Girola La Tradizione 11 La semplice ubbidienza Dietrich Bonhoeffer La Preghiera 17 Salmo 1 Letture Spirituali 19 Il radicalismo cristiano Enzo Bianchi Krónos 22 I simboli di Gerusalemme Carlo Maria Martini Se cerchi un libro 25

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KAIRÓS “Dentro” o “fuori”

Anno VII n. 2 Ottobre 2004

Sommario Editoriale 2 La Parola 4 “Dentro” o “fuori” Silvia Girola La Tradizione 11 La semplice ubbidienza Dietrich Bonhoeffer La Preghiera 17 Salmo 1 Letture Spirituali 19 Il radicalismo cristiano Enzo Bianchi Krónos 22 I simboli di Gerusalemme Carlo Maria Martini Se cerchi un libro 25

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Kairós - Editoriale

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EDITORIALE

Ed egli disse loro: «A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio;

a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole, perché: guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano,

perché non si convertano e venga loro perdonato». Lc. 4, 11

La Parola di Dio è feconda e parla al nostro cuore in maniera

sempre nuova. Così avviene per il vangelo che guiderà la nostra

meditazione durante questo mese, vangelo che interpella da vicino la

nostra comunità. Essa, infatti, ha scelto il suo nome proprio sorretta

dal desiderio di essere una parabola del regno di Dio tra gli uomini di

questo tempo, una parabola della sua misericordia e del suo amore.

Gesù si rivolge alle folle del suo tempo e parla loro in parabole.

La parabola è un parlare per immagini: cose ovvie e note illustrano

altre, misteriose e ignote. La loro evidenza immediata si impone,

suggerendo però qualcosa che rimane un enigma per chi sta fuori, ma

diventa chiaro per chi ha la chiave per entrare dentro.

Gesù non si stanca di interpellarci, ci dice che, se vogliamo

conoscere il segreto di Dio e del suo regno, dobbiamo dimenticare le

nostre risposte già prefabbricate e guardare a lui, contemplandolo e

lasciandoci interrogare. Troveremo la nostra risposta solamente in un

rapporto personale con lui, in un costante confronto, che esige

coinvolgimento e disponibilità a cambiare.

La Parola seminata nel mondo con l’annuncio, entra nella storia

degli uomini per illuminarla e nel cuore di ciascuno per condurlo a

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Kairós - Editoriale

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salvezza. Ma questa stessa parola rimane incomprensibile al di fuori

di un dialogo intimo e profondo con Gesù. Solo così potremo vivere

del dono che è venuto a portarci: il perdono di Dio che ci rinnova la

vita.

Chiediamo al Signore di concederci la grazia di poter essere tra

quelli che stanno con lui, che lo interrogano e si lasciano interrogare e

convertire dalla sua parola. Chiediamogli la grazia di poter essere tra

quelli a cui è dato di essere “dentro” il suo regno.

La Parabola

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Kairós – La Parola

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LA PAROLA

Silvia Girola

“D ENTRO” O “ FUORI”

DAL VANGELO SECONDO MARCO (4,10-25)

Quando poi fu solo, i suoi insieme ai Dodici lo interrogavano

sulle parabole. Ed egli disse loro: «A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole, perché: guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano e venga loro perdonato».

Continuò dicendo loro: «Se non comprendete questa parabola, come potrete capire tutte le altre parabole? Il seminatore semina la parola. Quelli lungo la strada sono coloro nei quali viene seminata la parola; ma quando l'ascoltano, subito viene satana, e porta via la parola seminata in loro. Similmente quelli che ricevono il seme sulle pietre sono coloro che, quando ascoltano la parola, subito l'accolgono con gioia, ma non hanno radice in se stessi, sono incostanti e quindi, al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della parola, subito si abbattono. Altri sono quelli che ricevono il seme tra le spine: sono coloro che hanno ascoltato la parola, ma sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e l'inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie, soffocano la parola e questa rimane senza frutto.Quelli poi che ricevono il seme su un terreno buono, sono coloro che ascoltano la parola, l'accolgono e portano frutto nella misura chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno».

Diceva loro: «Si porta forse la lampada per metterla sotto il moggio o sotto il letto? O piuttosto per metterla sul lucerniere? Non c'è nulla infatti di nascosto che non debba essere manifestato e nulla di segreto che non debba essere messo in luce. Se uno ha orecchi per intendere, intenda!».

Diceva loro: «Fate attenzione a quello che udite: Con la stessa misura con la quale misurate, sarete misurati anche voi; anzi vi sarà dato di più. Poiché a chi ha, sarà dato e a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha».

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Kairós – La Parola

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Il discorso in parabole (Mc 4) è il primo grande discorso che

troviamo nel Vangelo di Marco. L’inquadratura solenne (Gesù seduto su una barca parla ad una immensa folla radunata sulla riva) e il comando “ascoltate” ne indicano l’importanza. L’ossatura del discorso è costituita dalle tre parabole del seminatore, del seme che cresce da sé e del granello di senape. Le tre parabole sono unite da una immagine comune, il seme; ma sono anche più in profondità, unite da un medesimo tema – il mistero del Regno di Dio – che viene affrontato da angolature differenti.

Le tre parti del discorso (l’interrogativo sul perché delle parabole, la spiegazione della parabola del seminatore, i detti sulla lampada e sulla misura) sono piuttosto una omelia sulle parabole stesse, una specie di commento fatto dalla comunità desiderosa di attualizzare il discorso su Gesù. Ma attualizzare non significa inventare: per costruire il proprio commento la comunità si è servita di parole del Signore tramandate dalla Tradizione.

Possiamo leggere le tre parabole del seme singolarmente,

cercando il significato proprio di ciascuna. In questo caso basta ricordare che la parabola non è una allegoria ma è molto più semplice. L’allegoria è un paragone elaborato, di cui ogni singolo tratto rimanda ad un significato nascosto. La parabola invece ha un unico centro verso cui tutto converge: non bisogna perciò cercare un significato preciso per ogni particolare del racconto. Basta colpire il suo centro.

Le parabole prendono l’avvio da una constatazione generale; non nascono per una pura esigenza didattica, preoccupata della chiarezza e della vivacità. Nascono da una esigenza teologica, cioè dal fatto che non possiamo parlare direttamente del Regno di Dio, che è oltre le nostre esperienze, ma solo “in parabole”, indirettamente mediante paragoni presi dalla nostra vita.

Le parabole si radicano nella vita quotidiana. E’ da questa

umile origine che derivano le tre proprietà che caratterizzano il linguaggio parabolico. E’ un linguaggio inadeguato, perché desunto dal vissuto quotidiano, eppure pretende esprimere qualcosa che sta oltre e nel profondo. Ma è nello stesso tempo un linguaggio aperto al trascendente, in grado non certo di esprimerlo ma di alludervi: perché se è vero che il Regno di Dio non si

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identifica con la realtà della nostra storia, rimane pur vero che ha una profonda relazione con essa.

Infine è un linguaggio che costringe a pensare: non svolge tutto il discorso, non è un traguardo riposante (come il discorso che pretende definire una realtà, permettendoci così di dominarla), ma la parabola è semplicemente un primo passo che ti invita ad andare più avanti, è un discorso globale che lascia intatto il mistero del Regno, mostrandone però con forza, l’impatto con la nostra esistenza, il legame tra Regno e vita: così la parabola fa pensare, inquieta e coinvolge.

Da qui l’ambiguità delle parabole (ma più esattamente della

storia come rivelazione di Dio, persino della storia di Gesù): sono luminose e oscure, svelano e nascondono. Richiedono uno sforzo di interpretazione e di decisione. Lasciano trasparire il mistero di Dio a chi ha gli occhi penetranti e cuore pronto: rimangono invece oscure e carnali per chi è distratto e ha il cuore appesantito. Il termine parabola – come già l’ebraico mashal – si presta appunto a due significati: paragone che rischiara e enigma che lascia perplessi. E’ questo lo spunto che Marco sviluppa e ne fa, in un certo modo, la tesi centrale del discorso. Egli prende l’occasione delle parabole, per introdurre due motivi che gli sono cari: l’incapacità dell’uomo a capire i misteri del Regno di Dio e, quindi, la necessità di un dono che venga dall’alto; la distinzione fra coloro che sono “dentro” ( e comprendono) e coloro che rimangono “fuori” ( e non comprendono).

A questo punto ci attendiamo due precisazioni (saranno le

parabole stesse ad offrircele): in che cosa consiste il “mistero” da comprendere? E quali sono le condizioni per comprenderlo?

Per il primo aspetto diciamo subito che il segreto del Regno di 4,11 non si identifica esattamente con il regno messianico, cioè con l’interrogativo “chi è Gesù?”: i discepoli, infatti continueranno fino al capitolo VIII a non comprendere chi è Gesù. In quanto al secondo aspetto vogliamo attirare l’attenzione sul legame che unisce il “seguire” e il “comprendere”. Marco ci ha detto nel capitolo precedente che il discepolo è colui che si stacca dalla folla e si decide per la sequela: ora ci dice che il discepolo è colui a cui è dato di comprendere. Ma perché comprende? Precisamente perché è dentro e non è rimasto “fuori”, perché si è deciso ed è un comunione con Cristo. Precisiamo: non una generica comunione con il ricordo di Gesù (la comunione non è semplicemente un fatto di memoria), ma una comunione con il Cristo vivente oggi e

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parlante nella comunità. Solo chi è inserito nella comunità può comprendere. Il segreto del Regno di Dio lo si coglie dall’interno. Per chi vive nella comunità la parola di Gesù (che ora viene annunciata nella Chiesa) è una parola che rischiara, per chi rimane fuori è un enigma che lascia perplessi.

La parabola del seminatore insiste a lungo sulla sfortuna del

contadino: solo una breve annotazione alla fine sul seme che fruttifica. Ma che significato ha di preciso? Alcuni (come gli apocalittici giudaici del tempo di Gesù) la leggono così: ora esistono le opposizioni, ora trionfa il male, ma all’avvento finale di Dio il male sarà smentito, i cattivi puniti e il bene trionferà. Altri (come i farisei) preferiscono leggerla nella prospettiva dei meriti e del premio: oggi il credente sembra lavorare inutilmente, la sua fedele osservanza sembra smentita, ma in realtà accumula meriti per il premio eterno. Credo che il pensiero di Gesù – pur accedendo in parte alle due letture precedenti – sia diverso e più ricco. Egli non si accontenta di dire che i fallimenti di oggi si tramuteranno in premio domani. Egli intende piuttosto affermare che il Regno è già presente (anche se a livello di seme, anche se apparentemente smentito): il regno è qui in mezzo alle opposizioni, in mezzo ai fallimenti ( e non semplicemente che i fallimenti si tramuteranno in successi). Ma resta pur vero che i fallimenti si tramuteranno in successi, e così la parabola – oltre che una affermazione della presenza del Regno – diventa un incoraggiamento per coloro che lo annunciano.

La parabola attira l’attenzione sul lavoro del seminatore –

un lavoro abbondante, senza misura, senza paura dello spreco – che sembra, al momento inutile, infruttuoso, sprecato: eppure – dice Gesù – è certo che da qualche parte frutterà, abbondantemente!. Perché il fallimento è solo apparente: nel regno di Dio non vi è lavoro inutile, non vi è spreco. Comunque – e così la parabola si fa avvertimento – successo o no, spreco o no, il lavoro della semina non deve essere calcolato, cauto, previdente: soprattutto non bisogna scegliere i terreni e buttare il seme in alcuni sì e in altri no. Il seminatore butta il seme senza risparmio e senza distinzione: così il Cristo nel suo amore verso gli uomini e la Chiesa nel mondo. Come sapere al tempo della semina, quali terreni fruttificheranno e quali no? Nessuno deve anticipare il giudizio di Dio.

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Kairós – La Parola

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Dunque la parabola attira l’attenzione sulla presenza del

Regno in seno alla contraddizione della storia, presenza irraggiungibile da quei “criteri” di successo e di fallimento sui quali gli uomini fondano le loro valutazioni. E’ già un primo aspetto da comprendere, importante soprattutto per la chiesa predicante e per i missionari: essi non devono scoraggiarsi nel loro lavoro di annuncio e non devono lasciarsi distrarre dalle valutazioni degli uomini.

La spiegazione (4, 14-20) della parabola ( che sembra un commento fatto dalla comunità allo scopo di attualizzare la parabola per una situazione differente) sposta l’attenzione dal seminatore ai terreni. Non si rivolge più al predicatore ma al discepolo che deve ascoltare per far tesoro della parola udita: gli rivela le diverse cause che possono portarlo a smentirsi. Di tali cause alcune possono sembrare eccezionali, come la tribolazione escatologica e la persecuzione, ma altre sono certamente quotidiane, come le preoccupazioni del mondo (oggi diremmo gli affari), il fascino delle ricchezze e le ambizioni. L’avvertimento di Marco non proviene da una concezione dualista (rifiuto delle cose materiali perché indegne, degli impegni della storia perché terrestri, delle ricchezze perché vanità), ma si muove nella prospettiva della libertà per il Regno. Non è semplicemente questione di peccato e di non peccato, di lecito e di illecito. Non basta valutare la scelta in se stessa, perché scelte in sé lecite possono diventare una schiavitù per il Regno. Come insegna un’altra parabola: ho preso moglie, ho acquistato un campo, ho comperato dei buoi, non posso venire.

1. La decisione per la sequela e il dono della perseveranza

La decisione della fede non è mai il risultato di un percorso razionale, di uno sforzo della ragione che arriva a comprendere con chiarezza e distinzione Dio e il Suo operare nel mondo. Il ricorso alla “parabola” nel testo evangelico ci suggerisce che la fede è un atto della libertà che vede e non vede, capisce e insieme non capisce, e per questo si fida di Dio e si affida alla sua Parola. La fede, pur essendo sostenuta dalla ragione, non è semplicemente un insieme di verità, ma una sequela da vivere in comunione con i fratelli nella Chiesa. Inoltre, perché la Parola porti frutto occorre

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un cuore leale, buono e perseverante. La Bibbia richiama sempre la perseveranza ogni volta che parla della fede. La fede è continuamente provata, deve resistere ad ogni smentita. La fede esige coraggio e pazienza. Non si può essere discepoli senza la perseveranza.

Penso a come vivo la fede ogni giorno: precetti, regole da osservare o incontro con il Signore vivente nella sua Chiesa? Qual’è la relazione fra la dimensione personale della mia fede e quella ecclesiale? Sono convinto che la Chiesa sostiene ogni giorno la mia fede? In questo momento della mia vita, dove il Signore mi chiede di essere perseverante? 2. Rimanere nella storia

Gesù ci ricorda che il Regno è qui, in mezzo alle opposizioni e agli insuccessi, nel quotidiano; non dobbiamo fuggire dalla storia anche se frammentaria, equivoca, contraddittoria; il discepolo sa vedere in tutto questo la presenza di Dio, perché si affida alla sua Parola più che alle proprie forze e ai propri giudizi troppo umani. Dio semina anche oggi nel cuore di molte persone. Quante volte abbiamo desiderato fuggire da luoghi, impegni, difficoltà… Quante volte ci siamo scoraggiati e avremmo voluto abbandonare, perché non vedevamo i frutti, perché ci sembrava inutile, una perdita di tempo. Riesco anche oggi a cogliere negli eventi e nelle persone la presenza di Dio? 3. Lo spreco di Dio

Nel Regno c’è uno “spreco” (tentativi ripetuti, ostinati, come il gesto del seminatore): non puoi risparmiarti. Ma è uno spreco per chi ragiona secondo i calcoli meschini degli uomini. In realtà nell’amore non c’è spreco, come non c’è nell’attività di Dio: c’è solo ricchezza di ostinazione e di fantasia. Dio non pretende un frutto ad ogni gesto, una ricompensa ad ogni fatica; l’amore vale

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per se stesso, così l’attenzione agli uomini, l’ostinazione nella carità, la speranza. Dio si dona senza risparmio. Dio ama chi dona con gioia. Quante volte abbiamo calcolato il tempo e le energie per Dio e per la carità. Quante volte abbiamo selezionato persone, situazioni, perché promettevano più frutti, più gratificazioni e soddisfazioni. Penso ai luoghi in cui il Signore mi ha chiamato a donare senza misura.

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Kairós – La Tradizione

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LA TRADIZIONE

Dietrich Bonhoeffer

LA SEMPLICE UBBIDIENZA

Quando Gesù chiese al giovane ricco una povertà volontaria, questi comprese che non c'era via di mezzo: si trattava di ubbidire o di disubbidire. Quando Levi fu chiamato via dalla dogana e Pietro dalle sue reti non c'era dubbio sulla serietà della chiamata di Gesù: lasciassero tutto e lo seguissero! Quando Pietro fu chiamato ad uscire sul mare mosso, dovette alzarsi e osare il primo passo. Una sola cosa veniva loro chiesta: di fidarsi della Parola di Gesù; di ritenere questa Parola una base più solida di ogni sicurezza di questo mondo. Le forze che cercavano di frapporsi fra la Parola di Gesù e l'ubbidienza non erano, allora, meno potenti di oggi. Vi si opponevano il buon senso, la coscienza, il senso di responsabilità, la pietà; persino la legge ed il principio della Sacra Scrittura cercavano di impedire questa 'esaltazione' priva di ogni legge. Ma la chiamata di Gesù annientava tutto e si faceva ubbidire. Era la Parola stessa di Dio. Si chiedeva semplice ubbidienza.

Se Gesù, oggi, parlasse ad uno di noi in questa maniera tramite la Sacra Scrittura, noi ragioneremmo come segue: Gesù comanda una cosa ben precisa, è vero. Ma se Gesù comanda, io devo sapere che egli non pretende mai un'ubbidienza legalistica; egli vuole una sola cosa, che io creda. La mia fede però, non dipende da povertà o ricchezza o alcunché di simile; purché io abbia fede, posso essere povero o ricco. Non importa che io abbia ricchezze o meno, basta che io possegga i beni come se non li possedessi, e che nel mio intimo sia libero da questi, che non resti attaccato in cuor mio alle ricchezze. Gesù, dunque, potrebbe dire: «vendi i tuoi beni», ma egli intende: «veramente non importa che tu li venda materialmente; puoi senz'altro tenere i tuoi beni, ma tienili come se non li avessi. Non attaccare il tuo cuore a questi beni». La nostra obbedienza alla Parola di Gesù consisterebbe, dunque, nel rifiutare, perché legalistica, la cieca obbedienza per essere ubbidienti «nella fede». Qui noi ci distinguiamo dal giovane ricco. Egli, afflitto com'era, non riusciva a consolarsi dicendo a se stesso: «Voglio, nonostante la Parola di Gesù, restare ricco, ma voglio divenire interiormente libero e consolarmi in

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Kairós – La Tradizione

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tutta la mia debolezza con il perdono dei peccati, e voglio essere in comunione con Gesù per fede»; egli invece si allontanò afflitto e, non obbedendo, perse anche la fede. Il giovane era assolutamente sincero. Egli si separò da Gesù; e certo questa sua sincerità era accompagnata da una promessa ben maggiore che non la comunione apparente con Gesù basata sulla disubbidienza. Evidentemente Gesù pensava che il giovane non poteva liberarsi interamente dalla ricchezza. Probabil-mente il giovane, serio e zelante com'era, lo aveva già tentato mille volte. Che non ci era riuscito lo dimostra il fatto che, al momento decisivo, non era in grado di ubbidire alla Parola di Gesù. In questo il giovane era sincero. Ma noi con i nostri ragionamenti ci distinguiamo fondamentalmente da ogni uditore della Parola di Gesù nella Bibbia. Quando Gesù dice a uno: «Lascia tutto e seguimi, abbandona la tua professione, la tua famiglia, il tuo popolo, la tua casa paterna» questo sapeva che alla chiamata di Gesù si può rispondere solo con una cieca ubbidienza, appunto perché questa ubbidienza è accompagnata dalla promessa della comunione con Gesù. Noi, invece, diremmo: la chiamata di Gesù deve certo «essere presa assolutamente sul serio», ma la vera ubbidienza a lui consiste nel restare nella mia professione e nella mia famiglia, e nel servizio al mio posto in una piena libertà interiore. Gesù dunque chiamerebbe: fuori! - ma noi comprendiamo che egli realmente intende: resta dentro! naturalmente come uno che nel suo intimo è venuto fuori. Oppure Gesù direbbe: non preoccupatevi! - ma noi comprenderemmo: naturalmente dobbiamo preoccuparci e lavorare per la nostra famiglia e per noi; altrimenti ci comporteremmo da persone irresponsabili. Ma nel nostro intimo naturalmente dobbiamo essere liberi da ogni preoccupazione. Gesù direbbe: se uno ti colpisce sulla guancia destra, offrigli anche l'altra - e noi comprenderemmo: proprio nella lotta, proprio nel restituire il colpo il vero amore per il fratello diventerà grande. Gesù direbbe: cercate prima di tutto il Regno di Dio - e noi comprendiamo: naturalmente dobbiamo prima occuparci di tante altre cose. Come potremmo vivere altrimenti? Gesù intende naturalmente la piena disponibilità interiore a impegnare tutto per il Regno. Si tratta sempre dello stesso atteggiamento, cioè del cosciente annullamento della obbedienza semplice, letterale.

Com'è possibile un simile rovesciamento? Che è accaduto, che ci si possa prendere gioco in questo modo della Parola di Gesù? che essa possa essere esposta allo scherno del mondo? Dovunque nel mondo si danno degli ordini, la situazione è chiara. Un padre dice al

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Kairós – La Tradizione

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figlio: va a letto! e il figlio sa benissimo che cosa deve fare. Un bambino ammaestrato in forma pseudoteologica dovrebbe, invece, ragionare così: il padre dice, va a letto; intende: sei stanco; non vuole che io sia stanco. Io posso vincere la mia stanchezza andando a giocare. Dunque il padre dice: va a letto; ma veramente vuol dire: va a giocare. Con questo ragionamento il figlio andrebbe incontro a un linguaggio del padre chiaramente comprensibile, cioè ad una punizione. Solo per i comandamenti di Gesù le cose dovrebbero andare diversamente. Qui la semplice obbedienza dovrebbe essere sbagliata? si dovrebbe, anzi, proprio disobbedire? Com'è possibile?

È possibile, perché a base di questo ragionamento c'è realmente qualcosa di giusto. Il comandamento rivolto da Gesù al giovane ricco, cioè la chiamata a mettersi in quella situazione in cui è possibile credere, ha realmente solo lo scopo di chiamare l'uomo alla fede in Gesù, cioè alla comunione con lui. In fondo non importa questa o quell'azione dell'uomo, ma tutto dipende dalla fede in Gesù, Figlio di Dio e mediatore. In fondo non dipende affatto da povertà o ricchezza, matrimonio o celibato, professione o non-professione; tutto dipende dalla fede. Fin qui il nostro ragionamento fila; è possibile, pur essendo ricchi e possedendo beni terreni, credere in Cristo in modo da possedere questi beni come se non li si possedessero. Ma questa possibilità è un'ultima possibilità di esistenza cristiana in genere, una possibilità nella seria attesa del ritorno imminente di Cristo, e appunto non la prima e più semplice possibilità. La interpretazione paradossale del comandamento ha una ragione cristiana, ma non deve mai indurre ad annullare la semplice interpretazione letterale dei comandamenti. Essa ha piuttosto il suo diritto e la sua possibilità solo per chi, in uno dei momenti della sua vita, ha già preso su1 serio l'interpretazione semplice e letterale; per chi è già in cammino con Gesù e lo segue nell'attesa della fine. È la possibilità infinitamente più difficile, anzi, umanamente parlando, impossibile, di comprendere in modo paradossale la chiamata di Gesù; e proprio come tale rischia sempre di rovesciarsi e di divenire una comoda scappatoia, una fuga davanti all'obbedienza concreta. Chi non sa che è infinitamente più facile interpretare il comandamento di Gesù nel modo più semplice e obbedire alla lettera, per esempio dar via realmente, per ordine di Gesù, i propri beni invece di tenerli per sé, non ha nessun diritto a far sua questa interpretazione paradossale della Parola di Gesù. Necessariamente nell'interpretazione paradossale del comandamento di Gesù è sempre insita quella letterale.

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Kairós – La Tradizione

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La chiamata concreta di Gesù alla cieca obbedienza ha un senso

irrevocabile. Gesù chiama l'uomo a mettersi nella situazione concreta nella quale è possibile credere; perciò egli chiama concretamente e così vuol essere ascoltato, perché sa che solo nell'obbedienza con-creta l'uomo diviene libero per credere.

Dove viene eliminata per principio la cieca obbedienza, la grazia a caro prezzo della chiamata di Gesù si è mutata di nuovo nella grazia a buon prezzo dell’autogiustificazione; ma ne nasce anche una legge errata che idurisce l'orecchio contro la chiamata concreta di Cristo. Questa legge errata è la legge del mondo, alla qua-le si oppone e corrisponde la legge della grazia. Il mondo qui non è il mondo vinto in Cristo, che nella comunione con Cristo, deve essere vinto ogni giorno di nuovo; è divenuto una rigida, infrangibile legge di principio. Allora nemmeno la grazia è più il dono del Dio vivente che ci strappa dal mondo e ci pone sotto l'obbedienza di Cristo; è una legge divina generale, un principio divino e si tratta solo più di applicarla al caso specifico. La lotta condotta per principio contro il 'legalismo' della semplice obbedienza esige essa stessa la legge più pericolosa, la legge del mondo e la legge della grazia. La lotta condotta per principio contro il legalismo è essa stessa l'azione più legalistica. Il legalismo può essere superato solo dalla reale obbedienza alla benevola chiamata di Gesù al suo seguito, perché qui la legge è adempiuta da Gesù stesso e così è annullata.

Dove l'obbedienza cieca viene eliminata per principio, lì viene introdotta un'interpretazione della Scrittura non evangelica; presupposto della comprensione della Scrittura è allora il possesso di una chiave atta a interpretarla. In questo caso, però, la chiave non è il Cristo vivente col suo giudizio e con la sua grazia; e l'uso di questa chiave non dipende più solo dalla volontà dello Spirito santo vivente; la chiave delle Scritture allora è una dottrina generale della grazia, e noi stessi chiediamo come usarla. Il Problema di come seguire Gesù qui si dimostra anche problema ermeneutico. Un'ermeneutica evangelica deve sapere chiaramente che non possiamo certo identificarci senz’altro con coloro che sono stati chiamati da Gesù; quelli di cui la Scrittura dice che furono chiamati, fanno parte della Parola di Dio e perciò dell'annunzio della Parola. Nella predicazione non sentiamo solo la risposta di Gesù alla domanda di uno dei discepoli - che sarebbe anche la nostra -; domanda e risposta insieme sono parola della Scrittura e con ciò argomento della predicazione. L'obbedienza cieca sarebbe fraintesa in senso ermeneutico, se

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volessimo agire e seguire proprio contemporaneamente con colui che è stato chiamato. Ma il Cristo che ci viene annunziato nella Scrittura è, in tutta la sua Parola, colui che dona la fede solo a chi obbedisce e solo a chi obbedisce dona fede. Non possiamo né dobbiamo voler andare al di là del testo ed esaminare i fatti reali, ma veniamo invitati a seguire Gesù sottoponendoci a tutta la Scrittura, appunto perché non vogliamo usare violenza e trasformare la Scrittura in legge imponendole un principio, fosse anche semplicemente la dottrina della grazia. Resta dunque inteso che la interpretazione paradossale del comandamento di Gesù include anche l'interpretazione semplice e letterale, proprio perché non vogliamo erigere una legge, ma annunziare Cristo. E allora è quasi superflua una parola contro il sospetto che con questa obbedienza cieca si voglia parlare di un merito dell'uomo, di una condizione preliminare della fede da compiere. Obbedire alla chiamata di Gesù non è mai un atto compiuto dall'uomo di propria volontà. Perciò non si può dire che già il dar via i propri beni sia un'atto di obbedienza comunque pretesa; potrebbe benissimo darsi che con questo passo non si obbedisca per nulla a Gesù, ma si scelga un proprio stile di vita, un'ideale cristiano, un ideale francescano della povertà. Proprio dando via i suoi beni l'uomo potrebbe affermare se stesso e un ideale, non il comandamento di Gesù, non liberarsi da sé, ma irretirsi sempre più in se stesso. Il passo verso una determinata situazione non è un'offerta che l'uomo possa fare a Gesù, ma sempre l'offerta della grazia di Gesù all'uomo. Solo lì dove esso è compiuto in questo senso esso è legittimo, ma certo non è più una libera scelta dell'uomo.

«Allora Gesù disse ai suoi discepoli: In verità vi dico che un ricco difficilmente entrerà nel regno dei cieli. Anzi vi dico pure: è più facile che un cammello entri per la cruna di un ago che un ricco nel regno di Dio. I discepoli, udito ciò, ne furono grandemente stupiti e dicevano: “Chi dunque può salvarsi?”. Ma Gesù, guardatili disse loro: Agli uomini ciò è impossibile, ma a Dio tutto è possibile».

Lo spavento dei discepoli all'udire questa parola di Gesù e la loro domanda, chi allora si sarebbe potuto salvare, dimostra come essi non consideravano il caso del giovane ricco un caso particolare, ma semplicemente il caso valido per tutti. Infatti non chiedono: quale ricco?, ma in generale: 'chi' può salvarsi? appunto perché tutti, anche i discepoli stessi, fanno parte di questi ricchi per i quali è tanto difficile entrare nel regno dei cieli. La risposta di Gesù conferma questa

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Kairós – La Tradizione

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interpretazione delle sue Parole da parte dei discepoli. Salvarsi seguendo Gesù non è cosa possibile presso gli uomini. ma presso Dio ogni cosa è possibile.

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Kairós – La Preghiera

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LA PREGHIERA

SALMO 1

LE DUE VIE

“Beati coloro che ascoltano la parola di Dio

e la osservano” (Luca 11, 28)

Il salmo 1 è stato posto in apertura del Salterio perché vi fungesse quasi da portale d’ingresso e da chiave di lettura dell’opera intera. In esso si descrive l’atteggiamento del vero credente e orante. Due vie e quindi due destini vi si confrontano. Il giusto è come un albero alto e frondoso le cui radici si alimentano a un ruscello; le sue foglie non avvizziscono, i suoi frutti sono costanti. L’empio, invece, è come pula arida, dispersa dal vento. Le immagini del salmo descrivono in modo vivido le condizioni a cui conducono le due vie che si aprono davanti all’uomo. Chi non si è lasciato tentare dal male, ma ha scelto come guida la legge del Signore, sarà vivo e fecondo; chi avrà scelto il male sarà votato al giudizio inesorabile di Dio. Gesù ha detto che egli è “la via” e “la vita” ; Gesù è l’albero rigoglioso, colui che compie la volontà di Dio. Ci invita a prendere la strada stretta che conduce alla vita e ci promette che il nostro frutto sarà duraturo. Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non si siede in compagnia degli stolti;

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Kairós – La Preghiera

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ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte. Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opere. Non così, non così gli empi: ma come pula che il vento disperde; perciò non reggeranno gli empi nel giudizio, né i peccatori nell’assemblea dei giusti. Il Signore veglia sul cammino dei giusti, ma la via degli empi andrà in rovina. Preghiamo Ci guidi il Signore sulla via della vita e la sua parola sia luce sul nostro cammino. Amen.

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Kairós – Letture Spirituali

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LETTURE SPIRITUALI

Enzo Bianchi

IL RADICALISMO CRISTIANO « PRIMA CHE NASCESSI TI HO CONOSCIUTO »

Ciò che precede la chiamata è solo la conoscenza da parte di Dio. Dio conosce amando guardando, penetrando; la sua è una conoscenza attiva e amorosa, il luogo privilegiato in cui si manifesta la sua fedeltà, il suo attaccamento all'uomo. A Israele il Signore motiva l'elezione dicendo: « Tra tutte le stirpi della terra io vi ho conosciuto, voi soli » (Amos 3,2), e a Geremia, nel rivolgergli la sua parola, attesta: « Prima di formarti nel grembo materno ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce io ti ho messo da parte » (Ger 1, 5).

L'uomo, di fronte alla chiamata di Dio, non ha di fatto dentro di sé motivazioni per obbedire se non la sensazione di essere stato conosciuto prima dal Signore.

Cosa può dire il credente quanto alla fede, se non che il Signore l'ha guardato e l'ha conosciuto, l'ha tessuto nel seno di sua madre accompagnando, con uno sguardo pieno di amore, le fasi in cui era formato nel segreto, feto informe ma già destinato ad essere un prodigio (cfr. Sal 139. 1,11 e ss.)?

Paolo, quando guarda alla comunità dei Corinti, non vede dei perfetti o degli uomini particolarmente dotati o muniti di una forza straordinaria o capaci di decisioni eroiche, ma solo dei chiamati: « Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto, debole, disprezzato ignobile, poca cosa... » (1 Cor 1, 26.29).

I cristiani sono dei chiamati al Regno, alla gloria, alla santità, alla libertà attraverso la parola dell'evangelo da parte del Dio che elegge, separa, dà un nome (cfr. Rom 1, 7; 1 Tess 5, 24; Rom 8, 28, etc.).

« Quelli che Dio da sempre ha conosciuto, che ha anche preordinato ad essere conformi all'immagine di suo Figlio, ... quelli che ha

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Kairós – Letture Spirituali

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preordinati, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati » (Rom 8, 29-30). Questo è il mistero dell'elezione, e la storia della salvezza da parte di Dio è nient'altro che un appello iterato, più volte rivolto all'uomo, continuamente gridato.

Con quale tristezza il Signore deve costatare questa sua fedele fatica non corrisposta: « Ho detto: Eccomi! Eccomi! a gente che non conosce il mio nome; ho steso le mani tutto il giorno verso di te e tu non hai voluto, popolo ribelle! » (Is 65,1-2). IL SIGNORE DÀ UN NOME NUOVO

Il Signore chiama in molti modi ed in diversi tempi. Si pensi a Pietro: quante volte è stato chiamato ed eletto! Ciascuno degli evangelisti ricorderà alcune di queste sue chiamate perché nella sinfonia degli appelli del Signore noi scorgiamo una vicenda, una storia e un'epifania della fedeltà di Dio. Nel deserto di Giuda, Gesù lo chiama personalmente dicendogli subito che il suo nome sarà Kephas-Roccia (Gv 1, 42), poi gli rivolge la chiamata in modo più pubblico sulle rive del mar di Galilea: « Seguimi, ti farò pescatore di uomini » (Mt 4, 19); più tardi lo chiama ad essere fondamento della chiesa (Mt 16, 18); lo chiama ancora una volta con uno sguardo nel palazzo del sommo sacerdote durante la passione (Lc 22, 61); e, da ultimo, lo chiama ad essere amante del Signore più di tutti gli altri, fino al martirio (Gv 2 1, 15-19).

Si tratta di chiamate che mai si contraddicono, sono anzi chiamate sempre più forti e che accompagnano tutta una vita, dandole quell'unità che l'uomo non potrebbe né darsi né scorgere. Ma la chiamata è anche azione ricreante operata da Dio: l'uomo è rinnovato, quasi creato in modo nuovo, perché nuova è la vita che intraprende nell'adesione al Signore.

Spesso nelle Scritture Dio, chiamando, muta nome: Abram diventa Abraham, Giacobbe diventa Israele, Simone sarà Pietro e Saulo sarà Paolo. Dare il nome è chiamare, è diventare Signore di colui che si chiama, è compiere un atto creatore, affidando non solo una missione ed un mandato, ma rifacendo la creatura.

Il Dio architetto che dà un nome nuovo a Gerusalemme, la ricrea, la rinnova facendo dell'abbandonata la sua sposa, della devastata il suo compiacimento (cfr. Is 62, 2-5), è lo stesso Dio che dà ad ogni chiamato una pietruzza bianca sulla quale sta scritto il nome nuovo

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Kairós – Letture Spirituali

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che nessuno conosce se non chi la riceve (cfr. Ap 2, 17). In tal modo ognuno di noi è rifatto dalla voce del Signore, è messo in una nuova condizione e, collocato in Cristo, dimora in Lui quale nuova creatura (cfr. 2 Cor 5, 17). Coloro che non sono sapienti secondo la carne, né potenti, né nobili, ma stolti e deboli, ignobili e disprezzati nel mondo, diventano la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato (cfr. 1 Cor 1, 26-28 e 1 Pt 2, 9-10), partecipando alla stessa natura divina (2 Pt 1, 4), perché il Signore colma l'abisso esistente tra peccato e santità. Tutto è possibile a Dio! IO RENDO GRAZIE PER LA CHIAMATA

La chiamata è dunque una grande grazia, un dono assoluto che oltre all'obbedienza e alla sequela richiede il ringraziamento, perché nulla può essere vantato di fronte a Dio, neppure la decisione: « Non siete voi che avete scelto me ma io che ho scelto voi » (Gv 15, 16), dice il Signore; e da queste sue parole noi siamo posti in uno stato di riconoscenza. Noi siamo indegni dell'attenzione e degli appelli da parte di chi ci ha amati per primo, ci ha guardato mentre noi non lo conoscevamo e non sapevamo.

Ognuno di noi è balbuziente come Mosè (Es 4, 10) o inesperto e giovane come Geremia (Ger 1, 6), o rozzo come Amos (Amos 7, 14), o recalcitrante come Paolo (At 26, 14). Forse stiamo arando dei campi, siamo dietro ai greggi, siamo seduti al banco degli impiegati, forse, come Natanaele, sotto un albero intenti a pensare, quando ci giunge la chiamata. Chi può narrare obiettivamente quest'esperienza del Dio che si fa vicino e ci sceglie? Dopo che ci ha sedotto e che ci siamo lasciati sedurre, che ci ha fatto forza e che ha prevalso (cfr. Ger 20, 7), ci accorgiamo di essere stati vinti, messi in una nuova situazione. Le no-stre ragioni umane si sono sgretolate, il nostro timore è svanito: non ci resta che dire con Paolo: « Io rendo grazie, faccio eucaristia per la chiamata, per la forza che Dio mi ha dato!... la grazia ha sovrabbondato in me! » (1 Tim 1, 12 e 14).

Da uomini siamo diventati uomini di Dio (cfr. 1 Tim 6, 11) e dobbiamo legarci a Lui con un impegno personale di obbedienza che supera ogni entusiasmo, ogni spontaneità.

Alla fedeltà di Dio che si è impegnato per primo senza pentimento in ogni chiamata (cfr. Rom 11, 29) si deve rispondere rispettando alcune esigenze fondamentali per custodire la grazia e il dono.

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Kairós - Krónos

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KRÓNOS

Carlo Maria Martini

I SIMBOLI DI GERUSALEMME

Non è facile per noi europei incontrare oggi Gerusalemme, anche per la paura suscitata dagli atti di terrorismo e dal conflitto in corso. Molti, che pur vorrebbero venire qui come pellegrini o come turisti, vi rinunciano. È un simbolo della paura che si ha a guardare in faccia le cose come realmente stanno.

Eppure è importante rendersi conto che per un cristiano e per ogni cittadino di questo mondo Gerusalemme ha un'importanza unica. Bisogna però chiarire sin dal principio che non si può parlare dì Gerusalemme senza amarla. Amarla di quell'amore con cui l'amarono i profeti, che piansero su di lei e la coprirono di invettive dettate appunto dall'amore. Amarla come l'ha amata Davide . A cui lo scrittore moderno Carlo Coccioli fa dire: «Se avevo amato Gerusalemme, se l'avevo amata contemplandola dall'esterno, ne impazzii letteralmente». «Pazzia d'amore, valutando dall'interno la sua bellezza indescrivibile. Certo non vi era al mondo altrettanto desiderabile città, eco inebriante di una dimensione spirituale dello spazio, dove il cielo si chinava sulla terra e la sposava. Come non invidiare Sìon, l'incomparabile?».

Non c'è problema di risonanza mondiale che non tocchi in qualche modo questa città o che non possa essere considerato a partire da questa città. In particolare oggi emerge a livello di dramma apparentemente insuperabile a livello planetario la capacità di una convivenza pacifica e promozionale tra diversi. Si tratta di imparare a condividere lo stesso territorio e le medesime risorse pur nella diversità delle culture, tradizioni, religioni ecc. Ciò richiede di mettere molto in alto sulla scala dei valori il rispetto per l'altro, per la sua tradizione e cultura, nella persuasione che v'è in lui la stessa dignità umana che c'è in me e che egli gode degli stessi diritti e prerogative. Ciò deve portare a sentire come nostre le sofferenze dell'altro, del diverso, dell'appartenente all'altro gruppo.

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Kairós - Krónos

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Minareti e campanili debbono diventare simboli di rispetto e di

accoglienza per tutti, nella persuasione che tutti coloro che riconoscono Dio creatore si sentono sue creature e suoi figli, dotati della stessa dignità e ugualmente amati. Perciò le religioni sono chiamate a divenire un fattore molto importante per la pacifica convivenza dei popoli. E bisogna guardarsi con grande cura da quegli estremismi religiosi che dividono le persone, non promuovono il rispetto per tutti e non favoriscono atteggiamenti di pace.

Dall'incontro con Gerusalemme mediato dalla Scrittura deve emergere anzitutto il ricordo dell'amore straordinario testimoniato da Dio per il popolo di Israele. Incontrare Gerusalemme significa dunque anzitutto sintonizzarsi con questa passione amorosa e gelosa di Dìo per il popolo da lui eletto perché fosse modello ed esempio dell'amore di Dio per ogni popolo.

Per questo la premessa per ogni rapporto con Gerusalemme è un amore sincero e un affetto intenso per il popolo ebraico, una par-tecipazione sofferta alle sue sofferenze e alle sue angosce. Per incontrare oggi Gerusalemme bisogna dunque desiderare di soffrire con Gerusalemme, amarla nella sua storia, nella letteratura del popolo di Israele, nella sua cultura e arte, nelle sue dolorose vicende storiche. E questo non per un motivo di semplice simpatia umana, ma per corrispondere all'amore con cui Dio ha sempre ha amato il suo popolo.

Questo non significa distanza dagli altri popoli, in particolare del popolo palestinese, ma al contrario vicinanza e solidarietà per lasciar entrare nella propria carne le sue sofferenze e le sue giuste richieste.

Vorrei ancora segnalare una caratterística dell'incontro di un cristiano con Gerusalemme ed è, per quanto paradossale ciò possa sembrare, l'assenza di giudizio. E' importante ricordare la parola evangelica: non giudicate e non sarete giudicati; non condannate non sarete condannati (Matteo 7,1-2; Luca 6, 37).Ciò significa anzitutto in concreto la rinuncia a ogni giudizio troppo facile o preconcetto. In questi ultimì decenni la situazione dei rapporti tra ebrei e palestinesi si è fatta così complessa, dolorosa e intricata, che anche un competente farebbe grande fatica a dare giudizi spassionati e oggettivi. Un cristiano che non è membro di questi popoli deve vivere la sua presenza alle loro vicende soprattutto come intercessione, nel senso etimologico della parola,come ho già avuto modo di spiegare più volte: intercedere, cioè camminare in mezzo, non inclinando né da una parte né da un'altra, pregando ugualmente per tutti, per ottenere grazie di pace e di riconciliazione. Partendo di qui poi ciascuno agirà nel quadro delle sue responsabilità civili e sociali concrete.

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Kairós - Krónos

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Chi abita a Gerusalemme sa che vi sono qui, a livello di piccole

realizzazioni, tanti sforzi dei tentativi di dialogo, di incontro, di comprensione, di riconciliazione, di perdono. Ho incontrato israeliani colpiti da lutti nelle loro famiglie a causa della guerra che, superando l'orrore per quanto è avvenuto, hanno deciso di incontrarsi regolarmente con famiglie palestinesi pure esse in lutto a causa della violenza. Insieme lavorano, con la forza e l'autorevolezza che è data loro anche dai loro morti, per un futuro di riconciliazione. E al di là di questa iniziativa ve ne sono moltissime altre nell'ambito del dialogo, dell'assistenza, della carità della comprensione. È ammirevole la presenza di un volontariato internazionale a Gerusalemme, ma è insieme anche bello vedere quanti ebrei si impegnano per un cammino di pace. Tutti coloro che lavora no in questo senso, spesso nel silenzio e nel nascondimento, hanno capito che la pace ha un prezzo e che ciascuno deve cominciare a pagare la sua parte.

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SE CERCHI UN LIBRO Anche Dio è infelice David Maria Turoldo Piemme € 12,50 Dio non è estraneo alle vicende dell'uomo. Il suo farsi bambino, e poi ragazzo, e poi uomo, testimonia il desiderio del Divino di condividere tutta la parabola dell'esistenza umana nella carne, fino alle estreme conseguenze del male e del dolore. Anche Dio è infelice, perché sulla Croce si è fatto nostro compagno nella sofferenza, perché sulla Croce tutto il male e tutto il dolore del mondo sono stati condivisi. Un'aureola per due. Maria Corsini e Luigi Beltrame Quattrocchi Attilio Danese, Giulia Paola Di Nicola. Città Nuova € 18 L’innamoramento, il fidanzamento, il matrimonio, la nascita dei figli, la quotidianità della vita familiare divisa tra gli impegni domestici e sociali: sono le tappe comuni alla vita di tanti sposi, in cui non è facile mantenere la freschezza dei primi tempi e, soprattutto, vivere il matrimonio come una strada per arrivare a Dio. È in questa tensione l’esemplarità della vita di Maria e Luigi Beltrame Quattrocchi, la prima coppia di sposi del XX secolo beati. Gli Autori ripercorrono l’intensa avventura dei due sposi dalle stagioni d’avvio a quelle più mature della loro storia.

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Seguendo Te, luce della vita Esercizi spirituali predicati a Giovanni Paolo II Bruno Forte Mondadori € 16,50 Per una settimana intera il Papa, i Cardinali e i Vescovi della Curia romana, in un clima di raccoglimento e di preghiera, si pongono in ascolto della Parola di Dio, proposta attraverso quattro meditazioni al giorno. Nel 2004 a proporre le riflessioni è stato il teologo Bruno Forte. Il libro raccoglie quanto lui ha detto, mosso dalla convinzione del singolare privilegio e dell'autentica grazia di poter vivere questo cammino davanti a Giovanni Paolo II e a coloro che più direttamente gli sono vicini nel governo della Chiesa, in una stagione di sfide epocali dell'inizio del nuovo millennio.