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pace solidarietà ambiente convivenza pollicino Reggio Emilia, n° 221 Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004) art.1, comma 1, DCB - Reggio E. - iscriz. al ROC n.22975 del 26/11/2012 3 nov 2013 » Un Reddito di Esistenza universale ed incondizionato La ricchezza del possibile

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» Un Reddito di Esistenza universale ed incondizionato

La ricchezza del possibile

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1 Alleniamo lo sguardo a non essere privo di orizzonti

3 Reddito di esistenza: innovazione o follia?

7 Chi non lavora non fa l’amore

12 Basta saper immaginare un’isola perché quest’isola incominci realmente ad esistere

14 Ma sarebbe impossibile finanziarlo!

16 Dal sogno al diritto

20 Eppure esiste!!!

22 Il laboratorio di Mag 6

26 RdE, questo sconosciuto

28 Prove di reddito di esistenza e anche di resistenza

29 Lavoro e reddito, una coppia in crisi

32 Reddito di base incondizionato

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“Oggi infatti è impossibile, in Europa come nel resto del mondo, pensare al futuro della protezione sociale senza accennare al reddito di esistenza, vale a dire all’dea di versare a tutti i cittadini, incondizionatamente, un reddito di base cumulabile con ogni altro reddito”. Perché una frase del genere ci appare tanto paradossale? Perché fornire una quota della dotazione di cittadinanza sotto forma di denaro da erogare a ciascun cittadino senza condizioni incontra più difficoltà, culturali prima ancora che politiche, e appare persino moralmente più problematico che non l’erogazione senza condizioni di alcuni beni e servizi? Perché il nostro orizzonte discorsivo non è disposto a rimanere aperto di fronte ad un’idea di reddito che una comunità versa a tutti i suoi membri, su base individuale, senza controllo delle risorse né esigenza di contropartite?

Eppure la storia intellettuale e politica di questo tema ha dato vita a dibattiti incredibilmente animati. Nel corso del tempo, la proposta ha goduto l’appoggio di bizzarre coalizioni, suscitato feroci opposizioni a destra come a sinistra, e stimolato, tanto dai sostenitori quanto negli avversari, l’elaborazione di argomentazioni solide e complesse, che toccano il cuore del funzionamento della nostra economia e l’essenza dei valori che devono regolare il funzionamento della nostra società.

E noi cosa ne pensiamo? Cosa sappiamo di quello che numerosi economisti, sociologi, giuristi, filosofi hanno scritto intorno a questo tema? Io, personalmente, sento di avere un debito di riconoscenza nei confronti del tema e di tutti quelli che intorno a questo argomento hanno scritto e dibattuto. Nel mezzo di questa tanto nominata crisi ho trovato un terreno d’azione inedito, ancora da sperimentare, dove crisi e possibilità si fronteggiano in una dialettica in cui la crisi equivale alla conservazione, mentre il possibile è la dimensione lunga e paziente di una trasformazione da nutrire, da abitare, da liberare.

Qualche anno fa su un grande quotidiano italiano è apparsa un’invocazione di Ulrich Beck, sociologo tra i più attenti ai cambiamenti sociali degli ultimi anni: “Dobbiamo finalmente

Alleniamo lo sguardo a non essere privo di orizzontiè una rivista associata all’Uspi

Direttore responsabile:Daniele Barbieri

In Redazione:Annalisa Govi, Leonardo Zen, Lollo Beltrami, Lorenzo Bassi, Marco Iori, Maria Monteleone, Mariangela Belloni, Matthias Durchfeld, Nicola Guarino, Renato Moschetti, Roberta Tondelli, Roberto Galantini, Silvia Iori, Tarsicio Matheus Rocha

Proprietario:Sante Vincenzi Cooperativa Sociale

Abbonamento annuale 25 €da versare sull’IBAN IT59 D076 0112 8000 0100 5452 048o sul ccp 1005452048 intestato a:Sante Vincenzi Cooperativa Sociale,via Sante Vincenzi 13/a, 42122 Reggio E.

Redazione:via Vittorangeli 7/d42122 Reggio Emiliatel./fax: 0522 [email protected]

www.pollicinognus.it

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porre all’ordine del giorno queste questioni: come si può condurre una vita sensata anche se non si trova un lavoro? Come saranno possibili la democrazia e la libertà al di là della piena occupazione? Come potranno le persone diventare cittadini consapevoli, senza un lavoro retribuito? Non è una provocazione, ma un’esigenza politica realistica”.

E per iniziare a rispondere a queste domande, concludo con un articolo apparso su Le Monde Diplomatique nel giugno 1990, scritto da André Gorz (filosofo francese morto nel settembre 2007, di cui sento il desiderio di consigliarvi la lettura del libro “Miserie del presente, ricchezza del possibile”, Manifestolibri,1998). “Nell’insieme dei paesi europei si produce 3 o 4 volte più ricchezza di 35 anni fa; questa produzione non richiede 3 volte più ore di lavoro, ma una quantità molto inferiore. […] Stiamo uscendo dalla civiltà del lavoro, ma lo facciamo a ritroso, e a ritroso entriamo in una civiltà del tempo libero, incapaci di vederla e di volerla, incapaci dunque di civilizzare il tempo libero che ci arriva, e di fondare una cultura del tempo disponibile e una cultura delle attività scelte, per sostituire e completare le culture tecniche e professionali che dominano la scena. […] Per la metà, quasi, della popolazione attiva, l’ideologia del lavoro è diventata una farsa malvagia; ormai identificarsi con il lavoro è impossibile, perché il sistema economico non ha bisogno o non ha un bisogno regolare della capacità lavorativa di queste persone. La verità, celata dietro l’esaltazione della “risorsa umana”, è che il posto di lavoro stabile, a tempo pieno, per tutto l’anno e per tutta la vita attiva, diventa appannaggio di una minoranza. […]

Come deve essere una società nella quale il lavoro a tempo pieno per tutte le persone non è più necessario, né economicamente utile? Quali priorità diverse dalle priorità economiche si deve dare? Come deve organizzarsi perché i guadagni di produttività e il risparmio di tempo lavorativo vadano a vantaggio di tutti? Come deve fare per ridistribuire al meglio tutto il lavoro socialmente utile in modo tale che tutti possano lavorare,

ma lavorare meno e meglio, e ricevendo la propria quota della ricchezza socialmente prodotta? La tendenza dominante lascia da parte simili domande e pone il problema al contrario: come far sì che nonostante i guadagni di produttività, l’economia consumi tanto lavoro quanto in precedenza? Come far sì che nuove attività remunerate vadano a occupare quel tempo che, su scala sociale, i guadagni di produttività hanno liberato? A quali nuovi campi di attività è possibile estendere gli scambi mercantili per rimpiazzare più o meno i posti di lavoro eliminati nell’industria e nei servizi industrializzati?

La risposta la conosciamo: in un’economia liberista, l’unico settore nel quale sarà possibile creare in futuro un gran numero di posti di lavoro è quello dei servizi alla persona. Lo sviluppo del lavoro potrebbe essere illimitato se si riuscisse a trasformare in prestazioni di servizio retribuito le attività che le persone, finora, hanno svolto da sé per sé. […] Il problema di fondo con il quale ci confrontiamo è andare oltre l’economia e, il che è lo stesso, oltre il lavoro remunerato. La razionalizzazione economica libera tempo, e continuerà a liberarne; non è più possibile dunque far dipendere il reddito dei cittadini dalla quantità di lavoro di cui l’economia ha bisogno. Inoltre, non è più possibile continuare a far del lavoro remunerato la fonte principale dell’identità e del senso della vita di ogni persona. […]

Il compito consiste nel trasformare questa liberazione del tempo in una nuova libertà e in nuovi diritti: il diritto di ogni donna e di ogni uomo di guadagnarsi la vita lavorando, ma sempre meno, sempre meglio, ricevendo per intero la propria quota della ricchezza socialmente prodotta. Il diritto, d’altra parte, di lavorare in modo discontinuo, intermittente, senza perdere la pienezza del reddito durante le intermittenze, così da aprire nuovi spazi alle attività senza scopo economico e da riconoscere a queste attività che non hanno come scopo la remunerazione, una dignità e un valore eminenti, per i singoli come per la stessa società”.

Enrico Manzo, Laboratorio Mag6 sul Reddito di Esistenza

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Reddito di esistenza Innovazione o follia?Le radici di un’utopia concreta Di Simone Muzzioli, dottorando in Sociologia presso l’Università di Verona.

Reddito di Esistenza, di Base, di Cittadinanza, Reddito Minimo Garantito, d’Inserimento o di Attivazione? Tanti nomi, tante definizioni e molta confusione. Di cosa stiamo parlando esattamente quando utilizziamo queste locuzioni? Negli ultimi tempi si è discusso molto di interventi per garantire un reddito dignitoso alle persone in difficoltà, collegando le misure di sostegno economico alla ricerca di un lavoro. Tuttavia, è importante tenere a mente che parlare di redistribuzione della ricchezza ha direttamente a che fare con l’essenza stessa della vita in società. La redistribuzione della ricchezza è una delle più importanti funzioni dello stato sociale così come lo conosciamo oggi e, soprattutto, è strettamente legata alle trasformazioni del sistema produttivo di cui siamo parte; per non parlare del significato e del valore profondo che ogni misura porta con sé, e che ognuno di noi interpreta secondo la propria scala di valori culturali.

Comunque, sullo sfondo di tutti i discorsi sulla redistribuzione della ricchezza si staglia sempre lo spettro dell’atavica battaglia che l’uomo conduce contro la natura ed il suo stato di natura da millenni: la battaglia per la sopravvivenza e l’affrancamento dal bisogno. Ed è da questo conflitto biologico, innato e costitutivo, che la nostra breve riflessione intende partire, per cercare di gettare un po’ di luce sul concetto di Reddito di Esistenza e su tutte le sue varianti di cui tanto si parla.

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La strada da intraprendere per portare alla luce il vero significato del concetto di Reddito di Esistenza è quella che ci guida a ripercorrere il pensiero dei classici e la memoria storica riguardante la questione dello ius ad vitam (diritto alla vita).

“Una pietra riceve una certa quantità di movimento da una causa esterna che la spinge... Poniamo che la pietra, mentre continua a muoversi, pensi, e sappia di sforzarsi per quanto può di persistere nel movimento… Davvero essa crederà di essere liberissima, in quanto consapevole del suo sforzo, e di non muoversi per nessun altra ragione all’infuori della sua stessa volontà di muoversi. Proprio questa è l’umana libertà che tutti vantano di possedere e che solo in questo consiste, che gli uomini sono consapevoli del loro istinto ed ignari delle cause da cui sono determinati”.1 Circa quattrocento anni fa, il filosofo di origine ebraica Baruch Spinoza inquadrava in questi termini la vexata quaestio su quale sia la vera essenza della libertà.

Per il grande filosofo olandese, la libertà è qualcosa da intendersi nella sua accezione più pura, cioè come libertà dalla necessità, mentre il libero arbitrio sarebbe solo un’illusione umana dovuta all’ignoranza delle cause che determinano il nostro agire. Gli uomini sarebbero infatti proprio come la pietra che si sforza di muoversi credendo di essere padrona del proprio andare, ignorando però la gravità e le leggi della fisica come causa di forza maggiore. In questo senso, il libero arbitrio di cui tutti siamo convinti di essere padroni incontra già un forte limite: quello dettato dalle necessità materiali per la sopravvivenza.

Partendo da questa considerazione, attraverso un rapido excursus storico possiamo renderci conto di come l’idea di un reddito garantito sia più antica

di quello che si potrebbe pensare. In particolare i primi contributi lungo l’arco della storia moderna miravano ad elaborare proposte d’intervento assistenziale per contrastare il perdurante fenomeno della miseria, ed erano tutti fondati sulla dottrina cristiana della carità. Difatti è il rinascimento a portare all’attenzione delle élite economiche e politiche la questione dei bisognosi e degli ultimi, trasportando per la prima volta il dibattito al di fuori degli abituali confini ecclesiastici.

Un primo accenno lo fornì Tommaso Moro (1478-1535), nella sua opera più nota “Utopia”, nella quale l’umanista inglese invita a contrastare la criminalità fornendo un minimo vitale ai poveri come risposta ai loro bisogni naturali di sussistenza, in modo da scoraggiarne il ladrocinio. Tuttavia, fu il contemporaneo spagnolo, Johannes Ludovicus Vives (1492-1540), che coniò per primo un’esauriente argomentazione a favore di una vera e propria redistribuzione del reddito, sulla base di considerazioni pragmatiche e teologiche, nel saggio intitolato “De Subventione Pauperum”. Vives infatti conferisce al governo municipale la responsabilità di assicurare un minimo di sussistenza a tutti i suoi residenti, non solo come efficace esercizio di carità morale, ma come strumento fondante della comunità stessa.

Giunti in epoca illuminista, è il marchese di Condorcet a superare il principio caritatevole e ad immaginare l’idea che in futuro possa essere utile istituire un capitale da distribuire a tutti coloro che, raggiunta l’età adulta, abbiano necessità di una dotazione iniziale per sviluppare le proprie attività. Ma è con Thomas Paine che l’illuminismo apporterà il suo contributo maggiore all’idea di un Reddito di Esistenza. In un saggio indirizzato al Direttorio dal titolo “The Agrarian Justice”, Paine riprende la tesi dell’umanista olandese Hugo Grotius, il quale sosteneva che la terra fosse una proprietà comune della specie umana. A partire da ciò, Paine elaborò l’idea di distribuire incondizionatamente una modesta dotazione di base ad ogni uomo o donna che raggiungesse l’età adulta, come una sorta di risarcimento alla collettività per il possesso individuale della terra (proprietà privata).

1. Baruch Spinoza, “Al dottissimo e valentissimo Signor Giovanni Ermanno Schuller”, Epistolario, LVIII, pp. 247-249.

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Recentemente l’intuizione di Thomas Paine è stata ripresa anche da due professori della Yale Law School, Bruce Ackerman e Anne Alstott, i quali propongono un sussidio incondizionato all’interno di una concezione della giustizia fondata sul principio dell’uguaglianza delle opportunità.

È invece il socialista Joseph Charlier che molti ritengono il vero inventore dell’idea moderna di un Reddito di Base. In una sua opera del 1848, egli vide il pari accesso alla proprietà della terra come il fondamento di un diritto incondizionato al reddito di ogni cittadino, rifiutando sia il diritto all’assistenza basata su test dei mezzi (tipo ISEE), sia il dovere di svolgere lavori socialmente utili in cambio. Addirittura, in una sua opera dal titolo “La Question social resolue”, Charlier arriva a chiamare la sua proposta “dividendo territoriale”, e ad affermare che un tale sistema porrebbe fine al dominio del capitale sul lavoro. Appare evidente come nel pensiero di questo utopista l’idea del Reddito di Esistenza rappresenti uno strumento di trasformazione sistemica, anticipando una profonda critica contro il capitalismo e la sua etica del lavoro.

Per venire rapidamente ai giorni nostri, è verso la fine degli anni ‘80 del secolo passato che un gruppo di intellettuali belgi, guidati dal filosofo Philippe Van Parijs, fonda un gruppo di studio sul diritto alla vita e al Reddito di Base (stesso concetto del Reddito di Esistenza). Da lì a poco sarà costituita l’associazione europea per il Reddito di Base, con lo scopo di portare avanti un percorso di informazione e sensibilizzazione della società a riguardo, da cui prenderanno le mosse le varie diramazioni nazionali.

Da questa breve rassegna storica del pensiero sul Reddito di Base è possibile evincere come ci si trovi davanti ad un’idea di natura sistemica, chiara e precisa, che si fonda su due criteri essenziali: universalità ed incondizionalità. Tradotto: tutti gli esseri umani hanno diritto ad una parte della ricchezza prodotta senza se e senza ma, al fine di assicurarne un’esistenza dignitosa. Sia che la ricchezza derivi dalla trasformazione di quella natura di cui la gran parte di noi è stata espropriata, sia che derivi dai frutti del sistema produttivo e di consumo di cui ognuno di noi è parte, tutti quanti gli uomini e le donne devono poter contare su una dotazione di capitale minima atta a liberarli dal ricatto naturale del bisogno.

Il reddito di esistenza deve permettere di rifiutare il lavoro e le condizioni indegne;

e deve collocarsi in un ambiente sociale che permetta ad ognuno di scegliere

permanentemente tra il valore d’uso del suo tempo e il suo valore di scambio:

ossia tra le utilità che egli può comperare vendendo tempo di lavoro e quelle che può produrre attraverso l’autovalorizzazione di

questo tempo. Andrè Gorz

Il reddito di esistenza deve dare agli individui e ai gruppi dei mezzi accresciuti per occuparsi di sé, dei poteri accresciuti sulla loro vita e le loro condizioni di vita. Deve non dispensare da ogni lavoro, ma,

invece, rendere effettivo il diritto al lavoro: non al lavoro che si ha perché viene dato

da fare, ma al lavoro concreto che si fa senza aver bisogno di essere pagati, senza

che la sua redditività, il suo valore di scambio abbiano bisogno di essere presi in

considerazione. Anthony Giddens

La finanziabilità è garantita. La sfida difficile è la libertà!

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Un ricatto che spesso, nel corso della storia, è stato la principale arma di dominio da parte dell’uomo sui suoi stessi simili. Questa la potente utopia che alberga nell’utopia del Reddito di Esistenza.

A partire da quanto detto possiamo abbozzare dunque una prima definizione di Reddito di Esistenza: un trasferimento monetario a scadenze temporali prefissate, dato a tutti i membri di una comunità politica, senza alcuna condizione di stato sociale, civile ed economico e, quindi, cumulabile con altri tipi di reddito. Detto ciò, è possibile dirimere quel caos di locuzioni e definizioni a cui si accennava all’inizio. Tutti gli altri tipi di misure redistributive (Reddito Minimo Garantito, Reddito di Inserzione, Reddito di Cittadinanza, ecc.) sono legati in un qualche modo a parametri condizionali e a limiti temporali. In particolare, possiamo scindere le varie misure in due categorie: condizionali positive o prescrittive e condizionali negative o proscrittive. Le misure prescrittive ti dicono cosa devi fare per poter beneficiare di un sostegno al reddito (Reddito di Inserimento, ecc.), quelle proscrittive invece esigono solo che si versi in una certa condizione di stato civile (Reddito di Cittadinanza), sociale (disoccupazione, ecc.) o economico (basso reddito). In linea di massima, nella realtà attuale delle misure di sostegno esistenti, i criteri della condizionalità si presentano sempre insieme, come una sorta di giudizio morale sulla persona da un lato, e di strumento di coercizione e controllo dall’altro.

In Europa inoltre esistono ormai da parecchie decine di anni misure condizionali di sostegno al reddito in base allo stato di bisogno e alla propensione all’attivazione del singolo beneficiario, le quali sono talmente radicate nei sistemi di welfare continentali che solamente l’Italia e la Grecia sono oggi prive di forme di ultima istanza per la protezione del reddito. Anche in Italia, tuttavia, vi sono state diverse esperienze a livello regionale che hanno tentato di introdurre misure condizionali di sostegno al reddito. Ricordiamo le sperimentazioni concluse di Campania, Lazio e Friuli Venezia Giulia, ma anche quella ancora in corso della Provincia di Trento con il Reddito Minimo Garantito. È inoltre di poco tempo fa la campagna per

l’iniziativa di legge popolare per l’introduzione di un Reddito Minimo nazionale.

Insomma, a prescindere da chi parla e da chi propone soluzioni innovative per la crisi del nostro welfare state, bisogna stare sempre attenti a ciò che viene proposto perché, come si dice, il diavolo si nasconde nei dettagli. Infatti ogni misura redistributiva racchiude in sé un significato ben preciso sul rapporto che vogliamo tra Stato e cittadino, su quale idea morale abbiamo dell’uomo e, soprattutto, su quale grado di libertà e di dignità decidiamo di attribuirci. Dettagli non da poco in un’epoca in cui non ci sono più forti riferimenti ideologici a cui aggrapparsi ed in cui l’unico padrone rimasto sembra il mercato. In questo senso, prima di ogni discorso sulla fattibilità e la sostenibilità economica, il concetto di Reddito di Esistenza dunque porta con sé una grande sfida morale e culturale per la nostra società tardo-capitalista, fondata sui dogmi del dovere al lavoro e della crescita economica. Una sfida che potremo cogliere solo se, a partire in primis da noi stessi, saremo disposti da un lato a rimettere in gioco la nostra identità e, dall’altro, a mettere da parte i nostri pregiudizi culturali verso gli altri, per abbracciare una visione profonda e reale della natura umana e della società di cui siamo parte.

Indicazioni bibliografiche e sitografiche - Van Parijs, “Real Freedom for All: What (if Anything) can Justify Capitalism?”, Oxford University Press, 1996.- Van Parijs Philippe, Vanderborght Yannick, “Il reddito minimo universale”, Università Bocconi, Milano, 2006.- Tiddi Andrea, Agostino Mantegna, “Reddito di Cittadinanza. Verso la società del non lavoro”, Castelvecchi, Roma, 1999.- Del Bò Corrado “Un reddito per tutti. Un’introduzione al Basic Income”, Ibis, Como-Pavia, 2004.- www.bin-italia.org- www.citizensincome.org

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Chi non lavora non fa l’amoreIl peso di una vecchia trappola ideologica Di Simone Muzzioli.

“C’era una volta il lavoro”, “la fine del lavoro”, “la crisi del lavoro”, ecc. Quante le locuzioni e gli attributi che negli ultimi anni gli scienziati, gli analisti ed i politici hanno impiegato per catturare, descrivere e tracciare i profondi mutamenti del mondo del lavoro? Parlare del mondo del lavoro significa però parlare del nostro sistema di sviluppo, cioè del modo con cui una società organizza il “lavoro necessario” a garantire la sua riproducibilità materiale e la sua sussistenza. Dunque, parlare solo di “lavoro” è spesso rischioso e riduttivo. Bisognerebbe invece ragionare di modelli di vita edificati su certi modelli di sviluppo, a cui sono associati di conseguenza sistemi più o meno complessi di regolazione ed organizzazione dell’attività umana quotidiana. Ebbene, ma che cosa è cambiato in questi anni nell’universo-mondo del lavoro?

Per rispondere a questa domanda in modo conciso è necessario guardare in primis proprio ai cambiamenti del modello di sviluppo egemone: il capitalismo. Nel corso degli ultimi quarant’anni il modo con cui s’ideano, si producono e si vendono cose, beni e servizi, è profondamente mutato; di un mutamento cosi penetrante e totale che può essere per molti aspetti paragonato al passaggio dalla civiltà contadino-mercantile del XVI e XVII secolo a quella industriale del XVIII e XIX secolo. Il sistema capitalistico si è e si sta progressivamente ridisegnando e ristrutturando alla ricerca di nuovi spazi di profitto, nuove modalità con cui massimizzare la produzione e l’estrazione di ricchezza. Nello specifico, stiamo vivendo in una fase di passaggio dal paradigma industriale fordista ad un modello ancora tutto da definire, che molti semplicemente chiamano: post-fordismo. Il prefisso post, d’altronde, appare già indicativo delle difficoltà e della complessità con cui ha a che

fare chi si avvicina all’universo lavoro. Infatti un’etichetta univoca ed unitaria per esprimere ed accarezzare i tanti modi, volti e rapporti che oggi il lavoro rappresenta e concretizza ancora non c’è.

Il capitalismo industriale fordista dei nostri nonni e di molti dei nostri genitori era caratterizzato da un’organizzazione del lavoro rigida e gerarchica, in cui i ruoli e i compiti erano separati e prestabiliti, in cui lo spazio e il tempo erano scanditi e definiti chiaramente, dalla zona industriale alle 8 ore lavorative. Il sistema si reggeva su di un’indiscussa fede nel progresso e nell’inesauribilità delle risorse naturali e della capacità del mercato di assorbire la produzione. In poche parole, un credo inattaccabile nell’idea della crescita economica. Anche il patto sociale era chiaro e modellato sulle esigenze del sistema produttivo, il sistema redistributivo e di welfare era costruito in simbiosi con il mondo del lavoro. Un lavoro abbondante, stabile e, tendenzialmente, per tutta la vita. In questo senso, la disoccupazione, la malattia, l’infortunio, ecc. erano visti come stati negativi e temporanei di assenza dal lavoro, per cui era compito dello Stato mettere il prima possibile le persone nella condizione di ritornare a far parte della forza lavoro. Di conseguenza tutti gli inabili al lavoro, i disabili, gli emarginati e gli anziani assumevano un ruolo marginale nei processi sociali, percepiti piuttosto come entità residuali da contenere e gestire, ma inservibili al sistema produttivo. In quella società il lavoro era tutto. Dal lavoro dipendeva la ricchezza della nazione, l’identità individuale e collettiva, la struttura della famiglia e dei rapporti di coppia, l’organizzazione dei tempi di vita e gli spazi dei territori.

A questo punto ritorna inesorabile la domanda iniziale: che cosa è cambiato?Da un lato il progresso tecnologico, la sostenibilità ecologica e l’apertura mondiale dei mercati finanziari e commerciali (globalizzazione) hanno messo sia miliardi di lavoratori in competizione tra di loro, sia sistemi tecnologici più avanzati in competizione con sistemi tecnologici meno avanzati.

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In generale ci si è poi resi conto che il mercato delle merci, oltre ad essere saturo, non poteva espandersi all’infinito. Dall’altro lato cambiamenti socio-demografici connessi al processo di globalizzazione, come l’accresciuta presenza delle donne nel mondo del lavoro, l’aumento esponenziale dei flussi migratori e la de-strutturazione della famiglia tradizionale fondata sul maschio percettore di reddito hanno posto sotto tensione il vecchio patto sociale fordista.

Quali sono le direttrici lungo cui questa graduale ed impetuosa ristrutturazione è avvenuta? Senza alcuna pretesa di esaustività, ecco un sintetico elenco delle principali traiettorie di mutamento: - riconfigurazione e compressione del rapporto spazio-temporale;- inversione e condensazione della classica catena di produzione del valore;- scomposizione dei modelli e dei processi organizzativi;- sussunzione incrementale delle componenti biologiche, relazionali ed affettive della soggettività umana all’interno dei processi produttivi e di accumulazione del capitale;- revisione e sollecitazione dei vigenti sistemi normativi e contrattuali;- deformazione ed individualizzazione del contratto sociale;

I processi di globalizzazione dell’economia, favoriti dallo sviluppo tecnologico (in particolare delle tecnologie legate alla comunicazione, all’informazione e alla mobilità veloce), dalla saturazione dei mercati dei classici beni durevoli di massa e dalla diffusione del modello ontologico-culturale, prima che politico, dell’homo consumens, hanno stravolto dall’interno il lavoro salariato, la catena di montaggio, la pubblicità di massa e, in generale, il sistema delle economie di scala (in cui il costo della merce diminuisce al crescere della produzione). La necessità di individuare nuovi prodotti, nuove strategie simboliche di vendita e soprattutto di contenere i costi della filiera produttiva e commerciale ha portato all’inversione del classico flusso produttivo, ideazione-produzione-consumo, dal produttore al consumatore, dal vertice dell’impresa al consumatore finale. Oggi infatti il modello della lean production (produzione snella) ed il principio organizzativo del just in time

(produrre le cose solo nel momento in cui servono) rispondono alle esigenze di una produzione sempre più flessibile, leggera ed individualizzata, dove è l’esigenza micro-direzionale del consumatore a guidare il processo produttivo e le sue modalità (consumo-ideazione-produzione).

Una sorta di teoria della relatività del mercato ha compresso al massimo il rapporto spazio-tempo della produzione e dell’attività lavorativa, in nome della competitività e dell’efficienza. La necessità di produrre beni sempre più complessi in una situazione di costante competizione ha infatti richiesto la formazione di lavoratori ed individui più acculturati, ed in grado di gestire flussi relazionali e informativi intensi e sostenuti nel tempo. Per ottenere ciò, ma sopratutto per carpire creatività, idee e nuove merci a carattere prevalentemente immateriale, il capitalismo post-fordista ha infatti bisogno dell’essere umano nella sua interezza. Non più solo la disponibilità di capitali, la forza lavoro o l’ingegno danno vita al sistema economico capitalista contemporaneo, quello che viene messo a valore sono i sentimenti, gli affetti, le peculiarità biologiche, sociali, comunicative, relazionali e psichiche dell’uomo.

La mercificazione dell’intero campionario delle dimensioni costitutive dell’individuo segue paradossalmente le scoperte scientifiche sulle grandi potenzialità umane nella costruzione della realtà sociale. In tutto questo, le rigidità produttive ed organizzative della vecchia fabbrica e dei vecchi uffici sono quasi state spazzate via, mentre la sicurezza del posto di lavoro e le sue condizioni sono divenute un intralcio alla rapidità degli investimenti produttivi e dei mutamenti di consumo. Perciò, la flessibilità e la riduzione dei costi del lavoro rappresentano oggi una fonte costante di pressione al ribasso su tutti i diritti sociali conquistati nel corso del ‘900. Una pressione che spinge sempre di più a passare dal diritto del lavoro al diritto commerciale nell’organizzare e gestire i rapporti produttivi e di lavoro. È evidente come i mezzi si stiano trasformando sempre di più in fini: si vive per lavorare e per consumare, non si lavora e non si consuma per vivere!

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Ci troviamo dunque in uno stato di transizione sempre più rapida da un modello economico manifatturiero ad alta intensità di manodopera ed in grado di consentire una tensione sociale ed istituzionale verso la piena occupazione, ad un modello a bassa intensità di manodopera altamente qualificata, in cui la produzione segue sempre più la domanda ed il valore di senso (simbolico) supera sempre più il valore d’uso, per cui gli elementi culturali, relazionali ed affettivi degli individui giocano un ruolo fondamentale all’interno del nuovo processo di produzione ed accumulazione della ricchezza. Che cosa è accaduto? Il lavoro oggi incespica, zoppica e balbetta. Gli attori sociali che danno corpo al lavoro con la loro pelle e le loro ossa, e non di meno con il loro impegno e la loro fatica, oggi si trovano anch’essi alle prese con biografie professionali e di vita incerte e discontinue. In questo senso, l’idea che lo sviluppo tecnologico sia distruttore di lavoro, oltre che di fatica e di costi, arrovella gli scienziati sociali da parecchio tempo. È oramai indubbio, però, che il progresso tecnico e scientifico contribuiscano alla riduzione di molti più posti di lavoro rispetto a quelli creati. Eppure davanti al progresso tecnico ed organizzativo, la giornata lavorativa non si è ridotta, anzi, si è allungata e spesso stravolge i tempi di vita. Hannah Arendt già nel 1958, con lungimirante senso critico, ci avvertiva del fatto che “Ci troviamo di fronte alla prospettiva di una società di lavoratori senza lavoro, privati cioè della sola attività rimasta loro. Certamente non potrebbe esserci niente di peggio”.1

Quello che i dati ci dicono è che un certo tipo di lavoro sta cambiando forma e non è più così abbondante come un tempo, diventando sempre più un bene raro. Ciò non significa certo che si stia estinguendo, ma che semplicemente la realtà industriale dei paesi sviluppati, in cui la disoccupazione o l’inoccupazione erano accidenti temporanei, non esiste più. Oggi il lavoro bussa sempre a meno case, ed in quelle in cui ciò accade si presenta nelle vesti di mansioni altamente qualificate, specializzate e ad alto valore aggiunto, tutte caratteristiche che ne aumentano il potenziale

selettivo ed esclusivo nei confronti della stragrande maggioranza della forza lavoro.

Dunque, se le cause dell’insostenibilità economica e delle lacune protettive dei nostri sistemi di welfare state sono da ricercarsi nella destrutturazione dei mercati del lavoro e della famiglia, significa che le mutazioni dell’organizzazione produttiva ed i cambiamenti della struttura demografica e sociale non sono stati adeguatamente recepiti e riconosciuti dai sistemi di protezione sociale.2

Un misconoscimento che mette in crisi il principale modo con cui gli Stati hanno storicamente cercato di porre rimedio alle ferite sociali impartite dalla razionalità capitalista: il welfare state. Oggi infatti siamo in presenza di nuovi rischi e nuovi bisogni che stentano a trovare risposte efficaci ed efficienti. Rischi e bisogni che la nostra cultura del lavoro ci impedisce di leggere in modo diverso. Dopo centinaia di anni in cui l’idea del lavoro come obbligo morale e principale fattore di identità individuale e collettiva ha guidato lo sviluppo della nostra società, siamo giunti ad uno stadio in cui un certo tipo di lavoro, faticoso, rigido, controllato e guidato dall’alto, non può più rappresentare l’attività fondante delle nostre vite e delle nostre società. Semplicemente non ce n’è più bisogno, grazie allo sviluppo tecnico, scientifico ed organizzativo. Del resto, come molti storici insegnano, è solo nella nostra società capitalistica che il lavoro (che deriva dal latino labor = fatica) è considerato un’attività nobile, fonte di diritto ed inclusione sociale.

1. Arendt H. “Vita Activa”, Bompiani, Milano, 1964, pg. 10.2. Certo ogni regime di welfare, come ci fa ben notare Esping-Andersen, ha le sue peculiarità e caratteristiche, per cui la resilienza e le capacità di adattamento dei vari sistemi dipendono dalle loro specifiche configurazioni, facendo così variare anche l’efficienza e l’efficacia delle risposte fornite. In un ottica europea, questa efficienza ed efficacia, tuttavia, pare distribuirsi lungo un asse immaginario decrescente, che pone il suo apice di massima protezione nel nord dell’Europa, mentre lascia riposare i segmenti più scoperti e meno protetti nei paesi del sud dell’Unione (Esping-Andersen, 2000).

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Dalle civiltà più antiche alla tarda società aristocratica di fine settecento il lavoro è sempre stato considerato una dannazione (la stessa bibbia così lo prospetta ai padri del genere umano), un fardello di cui le classi inferiori, i poveri, i proletari, gli stranieri, gli schiavi ed i diversi dovevano farsi carico. Ciò affinché i cittadini liberi o i nobili potessero essere pienamente uomini e donne liberi dalla necessità e di dedicarsi a tutte quelle attività che elevano lo spirito e la mente, nonché alla conduzione degli affari della comunità. Oggi invece il lavoro è più complesso, meno faticoso, più relazionale, meno standardizzato, più intellettivo e meno esecutivo. Tuttavia le nostre modalità organizzative costringono molti a lavorare con tempi e modalità più faticose ed alienanti di prima. Ebbene, come si può fare a superare le sacche dell’ideologia del “lavoro a tutti i costi” e del mito della piena occupazione?

A questa domanda non esistono risposte facili, ma quello che è certo è che ancora oggi nessun regime di welfare e nessun sistema di protezione sociale è riuscito ad immaginarsi come “indipendente” dal mondo del lavoro, non nel senso di essere scollegato dalle dinamiche del mercato del lavoro e della società, ma semmai di essere in grado di riconoscere ciò che accade nella società nel suo complesso e, quindi, di fondare il riconoscimento e l’integrazione dei suoi membri a prescindere da qualsiasi forma di valutazione assiologica a-prioristica o di prescrittività dell’azione sociale.

Se queste ultime, infatti, continueranno ad esserne le premesse, per usare una metafora di brecthiana memoria, il grembo della disuguaglianza non potrà che continuare ad essere sempre fecondo. Ci troviamo dunque davanti al pressante bisogno di immaginare non solo un nuovo rapporto tra individuo ed istituzione e tra istituzione e società, ma anche davanti ad un delicato confronto con noi stessi e con gli altri; un confronto che deve guardare all’uomo con uno sguardo più ampio e profondo, non classificandolo/ci più solamente in base allo stato occupazionale o al tipo di professione svolta.

In questo senso è fondamentale andare oltre ciò che abbiamo pensato finora, affinché si possa tenere conto della complessità del mondo globalizzato e della realtà sociale che sta sotto i nostri occhi. Come possiamo immaginare un nuovo welfare se non lo colleghiamo ad un mondo sociale (non solo del lavoro) altamente articolato e differenziato? Come possiamo costruire sistemi di protezione sociale in equilibrio con mercati del lavoro mutevoli e altamente complessi se non teniamo conto di tutte le caratteristiche che concorrono a dar forma al vero primum movens3, al fondamentale mattone del castello sociale: l’essere umano nella sua multidimensionalità e relazionalità?

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Allora forse oggi è inutile cercare una nuova parola d’ordine che sostituisca il termine “lavoro”, o rifarsi ad un certo tipo di lavoro come bene comune, poiché ogni attività umana può essere considerata lavoro. In questo senso lo svago, l’ozio creativo, le attività di cura, di riproduzione, di progettazione, di relazione, di costruzione, ecc. sono tutti modi di agire dell’essere umano che nel suo complesso oggi costituiscono le fondamenta da cui si estrae la ricchezza nel nostro sistema produttivo. Le definizioni si accalcano, i tempi si sovrappongono e gli spazi si confondono.

A questo proposito, dunque, riconoscimento e redistribuzione della ricchezza sono i due perni su cui dovrà necessariamente ruotare un nuovo patto sociale in cui agli utenti, ai malati, ai disoccupati, ai cassaintegrati, agli inoccupati, ai disabili, ecc. si sostituiscano le persone nelle diverse età e fasi della vita, con le loro aspirazioni, le loro capacità, i loro modi di funzionare (functionings), le loro potenzialità linguistiche, culturali ed intelligenze multiple. Tutte le componenti dell’essere umano non possono più essere considerate disgiuntamente dalle determinanti della produzione e del consumo, dai fattori dello sviluppo tecnologico e delle relazioni economiche e quindi anche da quelle dell’organizzazione sociale nel suo complesso. Chi scrive crede che sia proprio attraverso questa riconfigurazione dello sguardo che sia necessario guardare ai nuovi lavori, alla gestione del tempo libero e del tempo di vita più in generale come ad un alacre operare dell’essere umano, prodotto da razionalità pluriformi ed interconnesse affinché lavoro, posto e sussidio si possano convertire e compensare a vicenda.

A questo punto, si può meglio comprendere come non sarebbe più necessaria l’esistenza di uno Stato protettore, che dispensa al consumatore/lavoratore alcune compensazioni sociali per quei momenti in cui perde la propria autonomia. Appare dunque calzante l’idea irlandese di un developmental welfare4, nel quale l’idea di cittadinanza sociale si allontana definitivamente dal concetto di libertà dal bisogno, per abbracciare piuttosto una libertà di

agire. Una libertà che dipende strettamente dal grado di emancipazione del singolo dal bisogno della sussistenza. In questo senso il grado di benessere, il capitale culturale e relazionale e la qualità delle condizioni di vita potrebbero essere i nuovi e fondamentali indicatori per la misura dell’efficienza e dell’efficacia del welfare state, inteso come moltiplicatore di valore aggiunto. Il che non significa non riflettere sui parametri economici della sostenibilità di bilancio, ma tenerli in considerazioni in una logica di lungo periodo e di vita, cioè connessa all’evoluzione sociale ed economica del contesto di riferimento.

L’idea di un Reddito di Base si pone proprio in quest’ottica, guardando ai cittadini/persone piuttosto che all’indifferenziato lavoratore astratto o all’utente senza volto e senza spirito, con l’idea di superare il classico ordine relazionale fordista: individuo - lavoratore - cittadino. Difatti in futuro un intervento di welfare potrebbe essere tanto più efficace quanto più metterà al centro la persona nella sua totalità, partendo dal presupposto che non si possano né imporre concezioni istituzionalizzate del giusto (condizionalità), né sottovalutare gli effetti culturali prodotti dall’azione delle istituzioni pubbliche in un’economia e in una società avanzate, dove l’uomo, le sue relazioni e le sue conoscenze sono e saranno sempre più la fonte della ricchezza sociale prodotta.

Suggerimenti bibliografici: De Masi Domenico, “Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società postindustriale”, Rizzoli, Milano, 1999. - Sennet R.,“Rispetto”, il Mulino, Bologna, 2009. Sennet R.,“L’uomo flessibile”, Feltrinelli, Milano, 2010. Beck U., “Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile”, Einaudi, Torino, 2000. Gosetti Giorgio, “Lavoro e lavori. Strumenti per comprendere il cambiamento”, FancoAngeli, Milano, 2011.

3. Causa prima.4. Nesc, “The developmental welfare state”, Nesc, n° 113, maggio, Dublino, 2005.

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“Basta saper immaginare un’isola perché quest’isola incominci realmente ad esistere”

Da “Lettere dalla Kirghisia” di Silvano Agosti, Edizioni L’immagine, 2006.

Kirghisia, 3 luglio

Cari amici,non sono venuto in Kirghisia per mia volontà o per trascorrere le ferie, ma per caso. Improvvisamente ho assistito al miracolo di una società nascente, a misura d’uomo, dove ognuno sembra poter gestire il proprio destino e la serenità permanente non è utopia, ma un bene reale e comune.Qui sembra essere accaduto tutto ciò che negli altri paesi del mondo da secoli non riesce ad accadere. Arrivando in Kirghisia ho avuto la sensazione di “tornare” in un luogo nel quale in realtà non ero mai stato. Forse perché da sempre sognavo che esistesse. Il mio strano “ritorno” in questo meraviglioso paese è accaduto dunque casualmente. Per ragioni tecniche, l’aereo sul quale viaggiavo ha dovuto fare scalo due giorni nella capitale.

Qui in Kirghisia in ogni settore pubblico e privato non si lavora più di 3 ore al giorno, a pieno stipendio, con la riserva di un’eventuale ora di straordinario. Le rimanenti 20 o 21 ore della giornata vengono dedicate al sonno, al cibo, alla creatività, all’amore, alla vita, a se stessi, ai propri figli e ai propri simili. La produttività si è così triplicata, dato che una persona felice sembra essere in grado di produrre, in un giorno, più di quanto un essere sottomesso e frustrato riesce a produrre in una settimana. In questo contesto, il concetto di “ferie” appare goffo e perfino insensato, qui dove tutto sembra organizzato per festeggiare ogni giorno la vita.

L’attuale concetto occidentale di ferie, invece, risulta feroce quanto la concezione stessa del lavoro, non soltanto perché interferisce in modo profondo con il senso della libertà, ma perché ne trasforma e deforma il significato. Nel periodo di ferie, milioni di persone sono obbligate a divertirsi, così come nel resto dell’anno sono obbligate a lavorare senza tregua, a sognare di trovare un lavoro o a guarire dai guasti e dalle malattie causate da un’attività lavorativa coatta e quotidiana.

Questo meccanismo delle 8 ore di lavoro ogni giorno produce da sempre tensioni sociali, nevrosi, depressioni, malattie e soprattutto la sensazione precisa di perdere per sempre l’occasione della vita.La proposta risanatrice di questi invisibili orrori si è risolta nello Stato della Kirghisia, dove sono state realizzate una serie di riforme che in pochi anni hanno modificato le abitudini e i comportamenti dei suoi cittadini. La corruzione politica si è azzerata perché in questo paese chi appartiene all’apparato governativo esercita il proprio ruolo in forma di “volontariato”, semplicemente continuando a mantenere per tutta la durata del mandato politico lo stesso stipendio che percepiva nella sua precedente attività. Quando ho saputo che ogni realtà politica nasce da una forma di volontariato, ho finalmente capito perché, ogni volta che vedo un rappresentante del Parlamento italiano parlare alla televisione, c’è qualcosa sul suo volto che rivela un’incolmabile lontananza da ciò che sta dicendo. Ecco, ora mi è chiaro che chiunque abbia, come i nostri deputati occidentali, uno stipendio minimo di circa 20.000 euro al mese, non può in alcun modo essere convincente in ciò che dice, pensa o fa.

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Qui in Kirghisia la possibilità di dedicare quotidianamente alla vita almeno mezza giornata ha consentito la realizzazione di rapporti completamente nuovi tra padri e figli, tra colleghi di lavoro e vicini di casa. Finalmente i genitori hanno il tempo di conoscersi veramente tra loro e di frequentare i propri figli. I parchi sono ogni giorno ricolmi di persone e il traffico stradale è oltre quattro volte inferiore, dato il variare degli orari di lavoro. Le fabbriche sono in attività produttiva continua, ma chi fa i turni di notte lavora solo due ore.Già al terzo anno di questa singolare esperienza è stato rivelato un fenomeno molto importante: il consumo di droghe, sigarette, alcolici è diminuito in modo quasi totale e i farmaci rimangono in gran parte invenduti.

Certo, tutto ciò può sembrare incredibile a chi, come voi cari amici, è costretto a credere che l’attuale organizzazione dell’esistenza in occidente sia la sola possibile.In Kirghisia la gestione dello Stato, oltre a essere una forma di volontariato, si esprime in due Governi: uno si occupa della gestione quotidiana della cosa pubblica, l’altro si dedica esclusivamente al miglioramento delle strutture.Ho incontrato il Ministro per il miglioramento delle attività lavorative che ha in progetto, nel prossimo quinquennio, di ridurre ulteriormente per tutti il lavoro obbligatorio a 2 ore al giorno invece delle attuali 3. Il Ministro è convinto che solo un’umanità liberata dal lavoro possa essere veramente produttiva. È anche certo che si possa scoprire l’operosità del fare solo realizzando nel tempo libero ciò che si desidera.Ho fatto bene a decidere di rimanere in Kirghisia, e non me ne andrò finché continuerò ad avere questa strana sensazione di vivere, qui, all’interno di un sogno comune.

Un abbraccio a tutti.

Il reddito di esistenza contribuisce alla riappropriazione del tempo di vita, all’aumento delle forme di opposizione, al rafforzamento

di quelle esperienze del possibile già presenti. La sua potenza può esprimersi fungendo non soltanto da strumento per rompere

il ricatto del lavoro precario, ma anche come dispositivo utile a propiziare il rifiuto, ad alimentare l’autoattività, il lavoro libero,

la soddisfazione di bisogni e desideri definiti in modo autonomo. Darebbe un valore nuovo alle attività umane, favorendo lo

sviluppo delle facoltà e la difesa dell’autonomia personale. In questo senso il reddito sganciato dal concetto contemporaneo di

lavoro, se messo in relazione con le tante forme di produzione ed autoproduzione alternativa, con le esperienze di base e sociali, con

le espressioni di autonomia che allargano le opportunità si scelta individuale, è un potente moltiplicatore di attività sociale (e non

un riduttore come alcuni temono). Sandro Gobetti, Luca Santini

Il reddito di esistenza permette di lasciare la gente libera, una volta tanto. Di non pensare al posto loro, di non cucirgli addosso

un’ideologia che saranno condannati a seguire. Non ho dubbi che, se la gente dovesse riflettere su ciò che ha realmente voglia di fare, gli verrebbe non solo mal di testa e di cuore e di pancia,

ma l’intero metabolismo ne sarebbe stravolto! Come potrebbe essere altrimenti quando, per anni, si è andati al lavoro senza porsi

domande? Eppure, mi piacerebbe molto avere la possibilità di vedere cosa ne potrebbe nascere.

Oliver Seeger

La finanziabilità è garantita. La sfida difficile è la libertà!

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Ma sarebbe impossibile finanziarlo!Tracce di fattibilità economica Di Enrico Manzo.

Assicurare a ogni persona, senza condizioni, dalla nascita alla morte, una somma mensile sufficiente a vivere? Impossibile respingere la proposta sostenendo che non sarebbe fattibile dal punto di vista economico: infatti la sua attuazione è del tutto ipotizzabile e in questo articolo proveremo ad affrontare la questione sperando di riuscire a spostare l’attenzione su questioni ben più spinose quali la rinuncia all’obiettivo della piena occupazione e l’idea che si possa sussistere senza un’attività remunerata.

Innanzitutto una precisazione: per Reddito di Esistenza si intende l’erogazione universale ed incondizionata di una certa somma monetaria a scadenze regolari e perpetua in grado di garantire una vita dignitosa, che entra quindi nel novero dei diritti umani e che spetta quindi come diritto solo per il fatto di esistere (da quando uno nasce fino alla sua morte). Sarebbe insensato lanciarsi in studi di fattibilità economica senza basarsi su obiettivi intermedi, che giungano all’universalità in modo graduale. L’implementazione del Reddito di Esistenza (RdE) non può avvenire da un giorno all’altro, ma piuttosto deve essere “sperimentata” per via graduale. Secondo alcuni studi economici, la sua introduzione può ingenerare circoli virtuosi dal punto di vista della coesione sociale, della produttività e delle entrate fiscali che in parte possono concorrere al suo stesso autofinanziamento.

Quando ci addentriamo nel tema della finanziabilità di un RdE universale e incondizionato bisogna innanzitutto che sia chiaro che la cifra che stiamo cercando di valutare avrà sostanzialmente due canali di finanziamento: uno di risorse effettivamente da reperire e l’altro di risorse già esistenti. In effetti si può dire che frammenti di reddito garantito sono già versati adesso, in modo parziale, condizionato, sotto forma di prestazioni sociali

e sovvenzioni o borse di varia natura. Un RdE universale e incondizionato potrebbe dunque sostituire alcuni di questi dispositivi. Alcuni, ma non tutti! Pena il cadere nella logica delle proposte liberiste.

È necessario ad esempio distinguere fra le prestazioni contributive che si riferiscono al sistema previdenziale, finanziate dai contributi – pensioni, sicurezza sociale –, e le prestazioni non contributive – gli aiuti sociali – che fanno parte del sistema di solidarietà nazionale e sono finanziate dalle imposte. Il RdE non deve sostituire il sistema previdenziale, le cui prestazioni non hanno solo l’obiettivo di proteggere dalla povertà ma anche quello di garantire il mantenimento dei livelli di vita. Può invece rimpiazzare quegli aiuti sociali ai quali si potrebbe sostituire in modo perfetto e vantaggioso: “In Italia esiste una miriade di allocazioni variamente condizionali, per lo più di tipo categoriale, che non solo allontano ulteriormente dall’equità, ma producono esse stesse azzardo morale e possibilità infinite di imbrogli e discrezionalità, sia da parte dei beneficiari che degli erogatori. Da questo punto di vista il caso italiano potrebbe essere assunto come un caso esemplare delle buone ragioni di una allocazione universale, nella misura in cui il suo contrario – una frammentazione spesso idiosincratica e aperta a ogni uso clientelare, una rete di protezione con molti buchi – ha dato cattivissime prove sia sul piano dell’efficacia che su quello dell’efficienza” (dall’introduzione di Chiara Saraceno al libro di Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght, “Il reddito minimo universale”, Università Bocconi Editore, 2006).

Ciò lascia buoni margini di manovra in termini di trasferimenti di bilancio, e dunque di autofinanziamento potenziale del RdE. A seconda degli arbitraggi e dell’ammontare scelto, questo autofinanziamento può rappresentare più di un terzo dell’investimento necessario.Proseguiremo adesso nella nostra riflessione prendendo come riferimento due articoli comparsi sui Quaderni di San Precario n.1 e n.31.In quella sede, a cui si rimanda per le informazioni di dettaglio, il costo lordo per l’introduzione di un RdE di 720 euro mensili (20% in più della

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soglia di povertà relativa), calcolando l’integrazione mancante al numero complessivo dei cosiddetti residenti “poveri” per raggiungere tale somma, ammonterebbe a circa 35 miliardi di euro. La differenza tra l’ammontare della spesa complessiva per finanziare il RdE (35 miliardi di euro) e il cumulo delle risorse già disponibili per forme di assistenza al reddito (stimabili a circa 19 miliardi di euro: 10,5 di sussidi e indennità di disoccupazione, 6,5 miliardi di cassa integrazione e 2 miliardi di incentivi fiscali) definisce la quantità di risorse monetarie che devono essere reperite per rendere praticabile l’introduzione dello stesso RdE. Ne viene fuori che il costo netto sarebbe pari a circa 16 miliardi di euro, cifra del tutto abbordabile attraverso l’attivazione di innovazioni fiscali e finanziarie e che fa riflettere su quanto veramente il problema possa essere di sostenibilità economica.

Per capire come reperire i fondi necessari occorre addentrarci in una proposta di riforma del sistema fiscale, illustrata approfonditamente nei due articoli sopra citati, e che qui proviamo a sintetizzare per sommi capi. I criteri alla base sono due:- progressività forte delle aliquote;- tassazione omogenea di tutti i redditi (fattori produttivi).

1. Andrea Fumagalli, Intelligence Precaria, “La proposta di welfare metropolitano. Quali prospettive per l’Italia e l’area milanese”, Quaderni di San Precario, n.1, dicembre 2010. San Precario, Bin-Italia, “Sostenibilità, costo e finanziamento di un reddito di base incondizionato in Italia”, Quaderni di San Precario, n.3, maggio 2012.

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Gli autori sottolineano come si renda necessaria una riforma fiscale adeguata allo spazio pubblico e sociale europeo, che sia capace di cogliere i nuovi cespiti di ricchezza e tassarli in modo progressivo. Nelle principali aree metropolitane, ovvero quelle che costituiscono il centro nevralgico del processo di accumulazione europeo, una quota che varia dal 35% al 50% del valore aggiunto deriva dallo sfruttamento di quelle che sono le variabili centrali del capitalismo contemporaneo, ovvero conoscenza (proprietà intellettuale), territorio (rendita da localizzazione), informazioni, attività finanziarie e grande distribuzione commerciale. Nei principali paesi, e in particolare in Italia, le basi dell’imposizione fiscale fanno ancora riferimento al paradigma produttivo del capitalismo industriale-fordista: in altre parole, la proprietà dei mezzi di produzione della grande impresa e il lavoro salariato subordinato. Ne consegue che parte crescente della ricchezza generata da attività immateriale o ha un trattamento fiscale particolare (come nel caso delle attività finanziarie) e sfugge a qualsiasi criterio di progressività o riesce a eludere in buona parte qualsiasi obbligo fiscale (come la proprietà intellettuale).

Tra le proposte avanzate, all’interno dei due criteri, possiamo riportare per esempio:- introduzione di un nuovo scaglione Irpef (con aliquota al 45%) per i redditi superiori ai 70.000 euro l’anno e del 49% sui redditi oltre i 200.000 euro, aumentando la progressività delle imposte; si potrebbe recuperare così 1,2 miliari di euro, per il 77% a carico dei contribuenti con più di 200.000 euro l’anno lordi (fonte: Banca d’Italia e Sbilanciamoci, 2011);- introduzione di una tassa patrimoniale dello 0,5% sui patrimoni superiori ai 500.000 euro, con una stima di incassi pari a 10,5 miliardi di euro (fonte: Sbilanciamoci, 2011);- interventi contro l’evasione fiscale;- tassazione delle transazioni finanziarie;- tassazione dei diritti di proprietà intellettuale;- introduzione di progressività dell’IMU a seconda della destinazione d’uso dell’immobile e non solo per la seconda casa;

- introduzione e riforma di una tassa di localizzazione per le attività produttive (modello IRAP) che sfruttano posizioni territoriali vantaggiose, destinate all’attività di consumo, magazzinaggio, turismo e svago, con una stima tra i 2 e i 5 miliardi di euro.

Complessivamente le misure proposte potrebbero teoricamente portare introiti per oltre 20 miliardi di euro e questo solo sul lato di una maggiore equità fiscale. Poi potrebbero essere presi in considerazione anche i possibili interventi sul lato della spesa pubblica e qui gli articoli si soffermano in particolare su due voci:- la riduzione della spesa militare, sia tramite una riduzione degli organici militari (previa riallocazione del personale), delle spese di rappresentanza e, sopratutto, dell’acquisto di armi (ad esempio la commessa di ben 131 aerei di guerra statunitensi F35 per un valore in cinque anni di 15 miliardi); è possibile al riguardo stimare una riduzione di 5 miliardi di euro (fonte: Sbilanciamoci, 2011);- la riduzione degli stanziamenti per le grandi opere a favore del potenziamento, manutenzione e miglioramento delle infrastrutture esistenti. Tali provvedimenti consentirebbero, al lordo degli investimenti, una riduzione della spesa pari a circa 1 miliardo di euro.

Insomma, pur avendo preso come esempio una politica di redistribuzione sociale volta a ridurre il fenomeno della povertà e a garantire reddito stabile per la fascia dei cosiddetti residenti “poveri”, che comunque potrebbe rappresentare un primo passo nella logica della gradualità, quel che ci interessa evidenziare è che il reperimento delle risorse adeguate può avvenire tramite interventi fiscali diretti, atti a favorire una redistribuzione del reddito. Si tratta non di un aumento della pressione fiscale, ma piuttosto di una redistribuzione del carico fiscale. Quando parliamo di cifre abbordabili o meno non dimentichiamoci mai le ingenti cifre che racchiude una legge finanziaria e pensiamo, tenendolo in mente, “che le ultime quattro finanziarie da agosto 2011, con Tremonti, agli interventi di austerity di Monti, sono costate quasi 100 miliardi di euro” (A. Fumagalli, “Lavoro male comune”, Mondadori, 2013).

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Dall’assunto di base della consapevolezza e della responsabilità, diventa possibile una accresciuta capacità-di-risposta (respons-

Abilità). Ciò significa che tanto più pienamente io posso diventare consapevole di chi sono e di cosa sto facendo in questo

momento – e tanto più liberamente posso sperimentare per cambiare – tanto più sono in grado di scegliere le mie risposte.

[...] Noi siamo difatti condannati alla libertà. Petruska Clarkson

Il reddito di esistenza non è che la possibilità di agire, avendo garantite dignitose condizioni di vita, fuori dal mercato senza

per questo dover sottostare all’esame di uno “stato etico”, alla sua idea di “concretezza” e “utilità”. È, al tempo stesso,

un mezzo di produzione e uno strumento di libertà. Un investimento al buio sulle soggettività e sulla potenza della

loro interazione. Bisogna fidarsi di questi “spiriti animali” senza scopo di lucro? Forse. Tra le tante definizioni che del reddito

di esistenza sono state date se ne potrebbe allora aggiungere un’altra: reddito di libertà.

Marco Bascetta

Con il reddito di esistenza non avrei trascorso tanto tempo a ribellarmi. Avrei accettato l’integrazione e il mio posto nella

società molto più facilmente, perché il prezzo esistenziale sarebbe stato minore. Avrei avuto meno paura di dover

rinunciare alle cose più importanti. Amael Kienlen, universitario

La finanziabilità è garantita. La sfida difficile è la libertà!

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Dal sogno al dirittoDi Enrico Manzo.

La massa di studi oggi disponibili ha allungato l’elenco di argomenti a favore del Reddito di Esistenza: ma le tante proposte, anche quando fondate su accurate analisi sia dei costi che delle possibili fonti di finanziamento, si sono finora scontrate non solo con problemi di bilancio, ma soprattutto con una difficoltà politico-culturale che invece di mantenere aperto l’orizzonte discorsivo sul Reddito di Esistenza, lo rinchiude nella categoria esclusivamente mentale dell’“impossibile”.

Ma mentre il dibattito in sede politica latita, tanto si sta muovendo sul piano del diritto costituzionale, a livello nazionale e dell’Unione Europea. Come osserva ad esempio Stefano Rodotà nel suo libro “Il diritto ad avere diritti”(Laterza, 2012), il diritto all’esistenza appare con particolare nettezza nelle Costituzioni del secondo dopoguerra, a partire da quella italiana che all’art. 36 statuisce il diritto a “un’esistenza libera e dignitosa”, un’espressione che si ritrova quasi simile all’art. 23.3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU, ove si parla di “esistenza conforme alla dignità umana”, ripresa poi dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (“esistenza dignitosa”). Soprattutto, osserva Rodotà, quando compare nella dimensione costituzionale, il diritto all’esistenza ci parla di qualche cosa che eccede la nuda vita, si riempie di contenuti ulteriori, qualcosa che non può essere ridotto ad un minimo vitale e neppure può essere condizionato ad altro che l’appartenenza a una società di uomini liberi, ovvero di cittadini. Un diritto non solo a sopravvivere, ma ad esistere che quindi comporta non solo un superamento della concezione minimalista del sostegno ai poveri, ma anche una visione estesa delle risorse da mettere a disposizione, non solo dei poveri, ma di tutti, a partire dall’accesso ai beni comuni.

Questo processo di costituzionalizzazione nazionale ed europea del diritto all’esistenza è quello di cui si sta dibattendo in campo giuridico col tentativo di trasformare il diritto all’esistenza in un diritto inalienabile e non a disposizione dei governanti di turno. Una prospettiva che ha mosso la Corte Costituzionale tedesca a dichiarare parzialmente incostituzionale la modalità con cui la riforma dell’assistenza del 2000 aveva individuato le soglie massime di sostegno economico per i poveri. Secondo la Corte tedesca, infatti, la combinazione dell’art. 1 della Costituzione che sancisce l’intangibilità della dignità umana, e dell’art. 20 che definisce la repubblica federale come uno stato federale e sociale, sottrae alla disponibilità del Parlamento la decisione se garantire o meno alle persone bisognose le risorse necessarie alla loro esistenza e a un minimo di partecipazione alla vita sociale, culturale e politica.

Poiché il lavoro tende a scomparire, ma le persone con i loro diritti e bisogni no, occorre trovare il modo di distribuire un reddito anche a chi non lavora ed è paradossale la trasformazione che si sta verificando in diversi paesi di misure di sostegno al reddito in misure welfare-to-work, proprio mentre il lavoro sparisce.La Costituzione deve garantire anche il lavoro non produttivo o comunque quel lavoro che pur capace di concorrere al progresso materiale o spirituale della società non è però idoneo a produrre un reddito capace di mantenere un individuo. Insomma limitare la concezione del lavoro costituzionalmente rilevante, al lavoro legale di scambio (gravato di tasse e contributi) finisce paradossalmente per violare l’art. 3 comma 2 della nostra Carta Costituzionale, costituendo un ostacolo di ordine economico e sociale ad una partecipazione tramite altre forme di lavoro a cittadini che si dedichino ad attività artigianali, artistiche o speculative prive di immediato riscontro economico.

È sempre più evidente che nelle complesse società moderne, perché siano democratiche e giuste, il pane quotidiano e un’esistenza dignitosa

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non devono essere guadagnati con il sudore della fronte ma piuttosto devono essere garantiti come diritti di cittadinanza affinché le potenzialità creative e produttive delle persone non siano indebolite ma si possano anzi sviluppare.Nel novembre 2007, al Forum Universale delle Culture tenutosi a Monterrey (Messico), è stata approvata la Dichiarazione universale dei diritti umani emergenti. L’articolo 1.3 della Dichiarazione sancisce: “Il diritto al basic income o Reddito di Esistenza universale che garantisce a ogni essere umano, indipendentemente dall’età, genere, orientamento sessuale, stato civile o condizione lavorativa, il diritto a vivere in condizioni materiali dignitose. A tale scopo, si riconosce il diritto a un reddito incondizionato regolare sostenuto da riforme fiscali e a carico del bilancio dello Stato, come diritto di cittadinanza ad ogni membro residente della società, indipendentemente dalle sue altre fonti di reddito e che sia sufficiente a coprire i suoi bisogni di base”.

E per concludere questo percorso di comprensione di quello che sta avvenendo a livello del diritto: “…nel momento in cui la Commissione Europea impone la regola del pareggio di bilancio a tutti i paesi dell’Eurozona, come regola costituzionale, dovrebbe anche imporre una norma di salvaguardia, di pari dignità, tesa a garantire un minimo di sicurezza economica e anche a rafforzare l’accesso ai servizi di mercato. È una posizione che riecheggia la Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010 sul ‘ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa’.

Respingendo l’idea che in tempi di crisi sia inevitabile la riduzione dello stato sociale, la risoluzione individua nel reddito minimo uno strumento indispensabile proprio nei periodi di crisi. E insiste sulla necessità di modificare le politiche di austerità imposte ad alcuni paesi (Grecia, Irlanda, Italia, Spagna) per contrastare la crisi stessa, ma al prezzo di un aumento della disoccupazione e della povertà. Siamo ancora lontani dal reddito di cittadinanza universale… ma più vicini all’idea di un diritto universale alla sussistenza, entro l’Unione Europea, che va garantito in modo incondizionato da risorse pubbliche quando i singoli, anche per decisioni economiche che non controllano, non sono in grado di garantirselo da sé. Peccato che questa risoluzione del Parlamento europeo sia rimasta lettera morta. “ (dall’introduzione di Chiara Saraceno al libro “Il reddito minimo universale”, Philippe Van Parijs, Yannick Vanderborght, Università Bocconi Editore, 2006).

Liberare gli uomini e le donne dal flagello della fame e dei bisogni, della paura quotidiana, della mancanza di tempo, dell’insicurezza sul presente e dell’incertezza sul futuro significa costruire cittadinanza, allargare gli spazi dell’auto-organizzazione sociale, creare condizioni migliori per la partecipazione dei cittadini e l’attivismo civile. Il reddito di esistenza potrebbe essere uno strumento da prendere in considerazione per dare impulso a una trasformazione sociale che ci avvicini all’obiettivo tanto desiderato di una società più giusta, ma soprattutto più libera.

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Eppure esiste!!!Sperimentazioni di reddito di base in giro per il mondo

Dalla terra della non violenza e della disuguaglianza arriva una lezione importanteLa Self Employed Women Association (SEWA), diverse ONG ed alcuni ricercatori dell’associazione Basic Income Earth Network hanno intrapreso da due anni una sperimentazione di Reddito di Base su 20 villaggi nell’area rurale del Madhya Pradesh, in India. I risultati della sperimentazione sono stati comparati con quelli raccolti da un campione di villaggi di controllo.

Ecco alcuni risultati:- Tasso di ristrutturazione/risanamento delle abitazioni: +10%- Tasso di malnutrizione: -32%- Tasso di scolarità: +29%- Ad un generale aumento dell’attività economica, è corrisposto un significativo aumento nella spesa per il bestiame (elemento fondamentale dell’economia agricola locale): +70%- Tasso di risparmio: +23%

Fonte: Basic Income Earth Network.Per maggiori informazioni, in attesa della redazione del rapporto ufficiale, consultare: - Guy Standing, “Can Basic Income Cash Transfers Transform India?” BI News, may 28, 2013: binews.org- Seetha, “Bite this: Survey proves cash transfer critics wrong,” FirstPost: Economy, may 31, 2013: www.firstpost.com

Alaska permanent dividend fundNel 1976 lo Stato dell’Alaska ha creato con un emendamento alla propria costituzione un fondo pubblico di investimento con cui gestire il 25% dei proventi dello sfruttamento delle risorse petrolifere, affinché tutti i cittadini alaskani, anche quelli futuri, potessero beneficiare di una parte della ricchezza comune del sottosuolo.

Dal 1976 ad oggi ogni anno lo stato dell’Alaska paga ad ogni cittadino un dividendo variabile di anno in anno (valore medio circa 1000$/anno). Nella costituzione dell’Alaska, ogni cittadino ha diritto a questo reddito individuale, in quanto abitante di quella terra dalla quale la ricchezza proviene.

Per maggiori dettagli:- en.wikipedia.org/wiki/Alaska_Permanent_Fund - pfd.alaska.gov/Home/index

Namibia basic income grantDal 2008 al 2011 una coalizione di soggetti della società civile della Repubblica della Namibia, uno dei paesi più poveri del mondo, composta dal sinodo della chiesa namibiana, dal sindacato nazionale dei lavoratori e da molte altre associazioni e ONG locali, ha finanziato la sperimentazione di un Reddito di Base (100N$=10 euro circa, a testa mensilmente) universale ed incondizionato per tutti gli abitanti di uno dei villaggi più poveri del paese: Otjivero (Omitara district).

La sperimentazione sarebbe dovuta servire come progetto pilota per l’intera nazione in accordo con il Governo dell’epoca. Questa esperienza ha avuto un grande successo in termini di lotta alla povertà cronica, occupazione, salute e scolarità. Purtroppo il cambio del Governo nazionale e la contrarietà del Fondo Monetario Internazionale hanno portato alla conclusione del progetto ed al suo abbandono nonostante gli esisti positivi.

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A seguire alcuni dati comparati della situazione pre e post introduzione del Reddito di Base:

Basic Income Grant 2007 2009

Tasso povertà assoluta per famiglia 76% 16%

Tasso di malnutrizione bambini sotto i 14 anni

42% 10%

Tasso di dispersione scolastica elementari

60% 10%

Tasso di abbandono scolastico 40% 0%

Entrate della clinica locale250N$

al mese1.300N$ per mese

Tasso di criminalità / -42%

Tasso di occupazione 44% 55%

Tasso di disoccupazione 60% 45%

Reddito medio mensile pro capite (escluso RdB)

118 N$152N$

(+ 29%)

Reddito medio proveniente da lavoro autonomo

/ +301%

Reddito medio proveniente da rimesse

/ -21%

Fonte: Desk for Social Development, assessment report 2009.I dati completi, la metodologia e molti altri materiali di ricerca sono consultabili on-line, sul sito: www.bignam.org

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Il laboratorio di Mag 6Autobiografia di un desiderioL’esperienza del Gruppo di Lavoro Mag6 sul Reddito di Esistenza. A cura di Sara Bottazzi.

Abbiamo iniziato ad incontrarci nell’autunno 2012: una ventina di persone socie della cooperativa Mag6, forse un po’ visionarie, sicuramente molto curiose.L’obiettivo era ragionare e confrontarci sul tema del Reddito di Esistenza (o “Reddito di Base” o – a livello internazionale – “Basic Income”) e della disgiunzione reddito-lavoro che rappresenta, ed è presto nata la voglia d’impegnarci a pensare e strutturare una sperimentazione concreta, nel tentativo di passare dalla teoria che alimenta il desiderio ad una pratica che, mossa dal desiderio, possa produrre un cambiamento. Pratica che si sarebbe affiancata a quelle già in essere nell’ambito del più ampio “Progetto Mutualità” avviato da un paio d’anni in Mag6: scambi non monetari, condivisione di beni/servizi, consulenze/formazioni gratuite… Tante azioni per interrogarci sul nostro rapporto con il denaro e provare a viverlo in modo diverso; per verificare se certe credenze, certi vissuti e certe dinamiche che consideriamo “naturali” sono invece suscettibili di trasformazione.E così siamo partiti, incontrandoci regolarmente, per un’intera giornata una volta al mese.

Per narrare il percorso del nostro gruppo di lavoro è indispensabile riprendere i 3 criteri che caratterizzano il Reddito di Esistenza (RdE) teorico:- Il RdE dovrebbe essere universale, erogato cioè a tutti gli individui a prescindere da età, sesso, reddito e provenienza (è legato alla residenzialità – ius soli, non alla cittadinanza – ius sanguinis);

- Il RdE dovrebbe essere individuale, destinato al singolo individuo a prescindere dalla situazione familiare (single, sposato/a, con figli…);- Il RdE dovrebbe essere incondizionato, non legato ad alcun vincolo o condizione (per esempio ricerca di un lavoro, buona condotta sociale…).

I Nodi, ovvero i temi dialetticiIl lavoro del gruppo è partito confrontandoci sulla possibile declinazione di questi 3 criteri in una pratica concreta e fattibile… E i nodi sono venuti al pettine!Infatti nel tentativo di approntare una sperimentazione pionieristica su un diritto che spetterebbe ad ogni individuo e che dovrebbe essere recepito e gestito a livello statale, ci siamo subito scontrati con la realtà che non saremmo riusciti a rispettare completamente i tre criteri che caratterizzano il RdE per quello che dovrebbero essere.Questo è stato il nodo dei nodi, il motore del confronto tra i partecipanti al gruppo di lavoro: provare a liberarci dalla lacerazione data dallo scarto tra ciò che il RdE dovrebbe essere e ciò che possiamo fare.Dovendo fare delle scelte, ispirandoci al “RdE ideale” ne abbiamo declinato i criteri in una strada personale che si è tracciata attraversando le resistenze e i dubbi di ognuna/o per arrivare ad una proposta condivisa da portare alla base sociale della cooperativa Mag6.

Sostenibilità Economica… e PartecipazioneUno dei primi temi dialettici è stato quello della sostenibilità economica, presupposto imprescindibile per l’avvio della sperimentazione.Partendo unanimi con l’idea che la possibilità di creare Redditi di Esistenza fosse data dall’autotassazione (così abbiamo definito il contributo economico alla sostenibilità dell’esperienza) da parte di singole persone, ci siamo confrontati a lungo su come definire questa partecipazione economica che introduce il tema di una fiscalità autogestita: si contribuisce con una “tassa” autodeterminata sapendo come verrà utilizzata!I pensieri e i vissuti dei partecipanti al gruppo di lavoro erano infatti molto diversi: dal bisogno di un “patto di fiscalità” tra gli aderenti al progetto, inteso come reciprocità nel dare/avere, che in un’ottica

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di equità avrebbe previsto una quota fissa di finanziamento uguale per tutti o una % sul reddito; al ritenere più equa l’autovalutazione, in quanto le persone vivono situazioni circostanziate, indipendenti dal proprio reddito; al sentire di considerare aderenti al progetto non solo le persone che avessero sostenuto economicamente ma chiunque avesse manifestato il desiderio di entrare in relazione con l’esperienza, perché il contributo potrebbe essere di natura non monetaria (anche mettersi in gioco come beneficiario è un contributo importante e fondamentale); fino a considerare fondamentale che le persone diano in totale libertà, senza forzature ad entrare nel merito di valutazioni personali sul proprio contributo e sul proprio reddito.

Ne è scaturito un confronto impegnativo, ricco, interessante e nutriente che, dopo aver superato alcune fasi critiche, è approdato ad una proposta che tiene insieme le diverse sensibilità: abbiamo condiviso che chi intende aderire al progetto contribuendo alla sua sostenibilità economica, lo farà liberamente, valutando autonomamente le proprie possibilità economiche e l’importo con il quale partecipare; chi, non potendo sostenere economicamente all’inizio, dovesse beneficiare del RdE contribuirà a posteriori, alla luce del reddito che riceve.Corollario del tema della sostenibilità economica è stato il confronto su cosa intendiamo per partecipazione e siamo arrivati a chiarire e definire che per noi partecipazione è la manifestazione d’interesse; interesse per la sperimentazione che può esprimersi con la disponibilità a ricevere il RdE e/o l’autotassazione e/o la partecipazione al gruppo di lavoro.

I criteri “Universale, Individuale, Incondizionato” secondo il Laboratorio RdE Mag6

Universale“Non possiamo dare il Reddito di Esistenza a tutti… Dunque: a chi? E come?”.Questo l’interrogativo dal quale ha preso le mosse l’intenso scambio che ci ha portato a decidere come individuare i beneficiari dei RdE che

riusciremo a produrre.Il tema è stato “molto caldo” ed è impossibile riportare la ricchezza delle riflessioni e della personale messa in gioco dei partecipanti al gruppo di lavoro, stimolante anche al di là del tema in sé; riportiamo quindi i passaggi salienti, schematizzati nei problemi/nodi affrontati e relative, provvisorie risposte/soluzioni che nel susseguirsi attraverso limature, intuizioni e dubbi hanno scolpito la forma di una proposta concreta, da portare alla base sociale Mag6.

Chi pensare come potenziale beneficiario del RdE? Solo soci Mag6 o anche “esterni” che potrebbero essere interessati alla sperimentazione anche più di tanti soci?Siamo nel contesto del Progetto Mutualità: quindi per ora circoscriviamo il RdE a favore della base sociale Mag6. Gli “esterni” interessati al progetto possono contribuire al finanziamento o diventare soci.Chi tra i soci? Emerge subito la tendenza alla dimensione dell’aiuto (a favore di chi ha difficoltà economiche). Noi però vogliamo sperimentare qualcosa di diverso: il RdE nasce come diritto legato al semplice fatto di esistere e slegato dalla condizione della persona.Rimane comunque la resistenza visto che non possiamo darlo a tutti…Siamo in una sperimentazione e oltre che come compromesso tra le diverse sensibilità, potrebbe essere interessante osservare se e cosa succede con il RdE a 3 “categorie” di persone:- in situazione di difficoltà economica;- con progetti di cambiamenti;- in situazione di stabilità.

Sorgono però dubbi sulle tre categorie in quanto implicano che:- se non riuscissimo a sostenere tre RdE bisognerebbe porsi scale di priorità;- l’autovalutazione in una delle tre categorie potrebbe creare disagio.Arriviamo allora a superare l’idea delle tre categorie e a condividere che è importante che il potenziale beneficiario del RdE dimostri interesse per l’esperienza e sia disponibile a mettersi in gioco: rendersi disponibili a

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ricevere il RdE non è una scelta scontata in un contesto in cui non tutti lo ricevono; possono sorgere condizionamenti, imbarazzi e disagi di cui non tutti sono disposti a farsi carico e ad affrontare. E d’altro canto questa disponibilità è altrettanto importante per la sperimentazione quanto l’apporto di chi la promuove/organizza e di chi la rende possibile economicamente. Pensiamo allora di proporre l’autocandidatura: chiederemo alle persone socie che decideranno di partecipare alla sperimentazione di esplicitare, contestualmente all’adesione, la loro disponibilità o meno ad essere beneficiari del RdE; chi beneficerà concretamente del RdE sarà individuato all’interno del gruppo di soci che si saranno autocandidati.

Sorge però un ulteriore dubbio: qualcuno potrebbe essere disponibile ad essere beneficiario ma sentirsi in imbarazzo ad autocandidarsi!Alla fine arriviamo a definire il gruppo dei potenziali beneficiari del RdE in base al nostro concetto di partecipazione; saranno potenziali beneficiari del RdE tutti i soci che aderiranno alla sperimentazione in uno dei tre modi:- finanziamento;- autocandidatura a ricevere il RdE;- partecipazione al Gruppo di Lavoro.E se dovesse essere scelto qualcuno che non si è autocandidato e che davvero non volesse beneficiare del RdE, potrà rifiutarlo.

E all’interno del gruppo dei potenziali beneficiari, come scegliere le 2-3 persone che concretamente riceveranno il RdE?Come negli esperimenti scientifici: sceglieremo con il metodo random-casuale di non interferenza con la formazione dei campioni.Può suonare come una lotteria, richiama il gioco d’azzardo…Elimina il problema delle scale dei bisogni e della loro valutazione. Sarà importante pensare ad una modalità per la scelta casuale che valorizzi la dimensione dell’esperienza comune piuttosto che quella della “fortuna” o “buona sorte”.

IndividualeQuesto criterio del RdE riusciamo a concretizzarlo pienamente nell’ambito delle persone fisiche socie Mag6 che aderiranno alla sperimentazione.

IncondizionatoSe il RdE fosse universale, ogni persona lo vivrebbe come crede e non sentiremmo il bisogno di porci e porre certi interrogativi. Ma in una sperimentazione sulla disgiunzione reddito-lavoro circoscritta come la nostra e che non sappiamo esattamente dove ci porterà, è naturale che ci siano o possano emergere aspettative, curiosità e bisogno di restituzioni nei confronti di chi vivrà l’esperienza del RdE.Ci siamo allora chiesti: “Quale relazione ci aspettiamo tra il soggetto beneficiario del RdE e il gruppo di lavoro e i soci sostenitori? Quali restituzioni dall’esperienza che vivrà? Ci sarà o no una relazione?”.Abbiamo subito condiviso che, nel caso una relazione ci fosse, il criterio “incondizionato” dovesse essere declinato con la parola “leggerezza”: assenza di giudizio, di condizionamenti e controllo, perché la persona possa vivere in libertà un’esperienza piena.Attraversando anche il disagio di qualcuno nel gruppo di lavoro sull’eventualità che un beneficiario possa non interagire in alcun modo, abbiamo infine optato per la massima aderenza al criterio, decidendo di non chiedere nulla e lasciare libero corso alla relazione. Chiunque aderisce alla sperimentazione ha o non ha delle aspettative personali: in uno scambio alla pari, il beneficiario interagirà con le modalità che gli saranno più congeniali.Anche perché abbiamo capito che il cuore della sperimentazione non sono solo la creazione dei RdE e l’esperienza dei singoli che ne beneficeranno, che tanto hanno smosso e tanto smuoveranno ancora; parte integrante è il lavoro su noi stessi, sulle nostre credenze e il nostro immaginario.

La sperimentazione in pratica… il primo Reddito di Esistenza!A partire da marzo 2013 alla fase di riflessione e confronto che ha portato a definire una proposta concreta di sperimentazione, è seguita la fase di informazione e sensibilizzazione della base sociale Mag6,

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attraverso mail, telefonate, incontri personali e una presentazione più approfondita il 13 aprile in occasione dell’Assemblea dei Soci Mag6 c/o la cooperativa La Collina di Codemondo, con l’obiettivo di creare i presupposti per la messa in opera della sperimentazione: definire cioè il gruppo dei potenziali beneficiari, allargare il gruppo di lavoro a chi fosse interessato e raccogliere le risorse economiche necessarie a sostenere almeno un primo RdE.Le risposte sono cominciate ad arrivare insieme all’interesse per il lavoro del gruppo e, attraverso il passaparola, si sono avvicinate anche alcune persone esterne; qualcuna ha anche deciso di diventare socia Mag6. È entrato in contatto con la nostra esperienza anche Simone Muzzioli, Dottorando in Sociologia presso l’Università di Verona che sta conducendo una ricerca proprio sul RdE e che si è reso disponibile a collaborare con il gruppo di lavoro mettendo a disposizione il suo background teorico e la sua esperienza.In un paio di mesi ci siamo trovati nella condizione di partire con la sperimentazione del primo RdE e sabato 11 maggio, durante l’Assemblea dei Soci Mag6, ospitati da Graziano e Anita nell’agriturismo Made in Rov di Villa Minozzo, abbiamo scelto con metodo casuale chi ne beneficerà. Abbiamo deciso di farlo divertendoci un po’: ballando a tempo di musica, abbiamo fatto scoppiare palloncini colorati… Ognuno conteneva il nome di uno dei partecipanti alla sperimentazione ad oggi! Per chi volesse annusare l’atmosfera, questo il link al video del momento fatidico www.mag6.it/index.php/laboratorio-reddito-di-esistenza.

La sperimentazione in cammino…Da giugno è poi partita l’erogazione del primo RdE Mag6!Questo è l’esito della prima parte del lavoro del laboratorio sperimentale, frutto della disponibilità di molte persone socie Mag6 e non, che hanno voluto offrire la possibilità di osservare e comprendere cosa significhi avere un diritto e poterlo agire concretamente.Non è un gioco, non è una cosa scontata pensare e produrre la concretezza di un RdE, lavorando insieme per armonizzare le differenze presenti nel nostro gruppo di lavoro, come non è scontato ciò che siamo andati

scoprendo del nostro più profondo sentire a proposito del denaro. Ma come spesso accade, è proprio nel vivere in piccolo, pensando in grande, che emergono le sfaccettature più interessanti dei nostri desideri, delle nostre idee del mondo e delle nostre pratiche.La curiosità concreta può spingere il cammino e l’immaginazione molto oltre e molto altrove, laddove è possibile produrre cambiamenti che incidano davvero, ma davvero, sulle esistenze!

Ora il laboratorio sperimentale ha nuovi passi da muovere.Stiamo valutando insieme alla prima persona che per un anno percepirà il RdE come impostare la relazione con lei, con la reciproca curiosità di osservare cosa ne nascerà.Stiamo riflettendo su come procedere con la raccolta delle adesioni per arrivare ad erogare un secondo reddito di esistenza e poi possibilmente un terzo; vorremmo infatti arrivare a sostenerne almeno tre, in modo da osservare e raccogliere elementi sufficienti a produrre una conoscenza sociale spendibile all’esterno, politicamente, non come dichiarazione ideale ma come esperienza concreta da portare ad una riflessione che varchi i confini della sola cooperativa Mag6; la collaborazione con Simone Muzzioli sarà preziosa anche in questa prospettiva.Ci stiamo interrogando su quali scelte fare per raggiungere questo obiettivo e, forti dell’esperienza fatta fin qui, sull’opportunita/possibilità di muoverci in modo diverso con i prossimi RdE, per sperimentare altre strade ed altre possibilità, anche maggiormente proiettate verso l’esterno del mondo Mag6.

…e cammin facendo il desiderio trasforma!

Per chi fosse interessato ad approfondire o volesse unirsi alla nostra avventura, questo il link al Laboratorio Reddito di Esistenza sul sito Mag6, dove visionare tutto il materiale finora prodotto:www.mag6.it/index.php/laboratorio-reddito-di-esistenza

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RdE, questo sconosciutoDi Annibale Birolini, Laboratorio Mag6 sul Reddito di Esistenza.

Sono venuto a conoscenza dell’esistenza del Reddito di Esistenza solo un anno fa quando è girata questa voce in ambito Mag6. Incuriosito, ho allora partecipato al laboratorio su questo tema. È invece da pochi giorni che ho scoperto che un “reddito incondizionato”, slegato cioè dall’attività lavorativa, era già presente nel pensiero umanista di Juan Vives nel lontano 1526 e poi nell’orientamento liberale di Thomas Paine (1797) e nella riflessione del socialista Joseph Charlier (1848). Sono rimasto stupefatto e ammirato che tre pensatori di così diversa estrazione teorizzassero questo tipo di welfare che noi, ancor oggi, si fatica a immaginare. Devo ammettere che chi ora parla di RdE, universale e incondizionato, si sente, almeno un po’, avanguardia e precursore sui “suoi” tempi.

Dunque la scoperta che se ne parla praticamente da sempre è stato per me un bagno di umiltà, ma ho anche acquisito la consapevolezza che, dopo quasi 500 anni, i tempi dovrebbero essere ...maturi.Io mi sono avvicinato al laboratorio sul RdE per cercare una risposta convincente alla domanda che mi sono subito posto: “perché un RdE”. Questa sperimentazione sul RdE mi ha visto, nel suo svolgersi temporale, in un’altalena di sentimenti; entusiasmo, pragmatismo, distacco, convinzione, perplessità, empatia e, perché no, anche momenti di disaccordo. Ma al di là di questa varietà di “passaggi” ho sempre avuto la piena consapevolezza di stare vivendo un momento di straordinaria ricchezza di stimoli.

Insomma la materia prima per fermarsi a riflettere, in questo laboratorio, è stata distribuita in abbondanza. Prima ancora che sui contenuti specifici di come impostare il RdE che volevamo costruire, il valore aggiunto è stata la

modalità dei nostri incontri. Era la prima volta che mi confrontavo con così tanti compagni di viaggio e così a lungo. Grazie a questo gruppo penso di avere avuto una crescita personale. Un piccolo ma significativo esempio? Ero partito timoroso e impacciato e grazie a loro adesso non esito ad esprimere cose e concetti che, solo qualche mese fa, avrei avuto timore ad esprimere a me stesso. Se all’inizio il concetto di RdE mi era abbastanza sconosciuto, le parole, atte a giustificarne l’esistenza, che via via incontravo nell’approfondimento di articoli, lo erano ancora di più. Ho incontrato termini mai sentiti prima, come accumulazione flessibile, taylorismo, post-fordismo, capitalismo cognitivo, bio capitalismo, lean production, toyotismo, produttività immateriale (e tanti altri ancora) che all’inizio erano, per me, solo dei gusci vuoti.

Poi, piano piano, ho imparato a capirne i concetti sottesi e alla fine, come dei tasselli di un puzzle, ricomponendoli, mi hanno dato una comprensione piena del cambiamento avvenuto nel mondo del lavoro in questi ultimi 2-3 decenni. Devo ritenermi soddisfatto perché questa ricerca ha risposto esaurientemente alla domanda che mi interessava; quella sul perché è necessario, in questo momento storico, il RdE.Ho acquisito una convinzione tanto forte sulla sua giustezza che ora l’ho assimilato ad un diritto di un’ovvietà elementare.

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Invece nella società e nella politica “normale”, si continua imperterriti a parlare di diritto al lavoro per tutti. A prima vista sembrerebbero propositi sacrosanti, pieni di buon senso e di concretezza dato che “il diritto al lavoro” è uno dei primi e più importanti capisaldi della nostra Costituzione. Ebbene questo “diritto al lavoro” come pieno impiego era già irraggiungibile nell’epoca di un modello di sviluppo molto diverso dall’attuale (di capitalismo fordista dove il processo tecnologico, noto soppressore di posti di lavoro, era, se paragonato ad ora, ancora agli inizi). Ora è diventato non solo una chimera ma un insulto alla nostra intelligenza ed è un concetto ogni giorno sempre più obsoleto e superato dai tempi.

Se dovessi invece spiegare, con parole mie, il presupposto filosofico/economico che giustifica il RdE sceglierei un concetto chiave, quello di “ricchezza”.La ricchezza, oggi più che mai, non è formata solo dal processo produttivo ma è la società tutta, vista nel suo insieme, che partecipa alla costruzione di questa ricchezza. Anche chi compra una merce, anche chi acquista un prodotto partecipa, è quindi complementare, a questo processo.Una merce “invenduta” non è ricchezza, una merce diventa ricchezza solo se circola, se è scambiata; quindi anche “l’homo consumens”, categoria dentro la quale tutti ci collochiamo, è parte preponderante nel costruire (acquistando prodotti) ricchezza. È solo dall’interazione tra questi due poli che si crea il fattore ricchezza.

E poi c’è un altro aspetto. Ora una merce viene, sì, “materialmente” prodotta dall’operaio in fabbrica, ma prima ancora viene generata da tutto il sapere cognitivo che non sta solamente nel processo produttivo vero e proprio, ma questo sapere (che gli esperti in materia chiamano “general-intellect”), portatore di ricchezza, sta anche “fuori” dai luoghi di produzione e pervade oramai tanti aspetti della nostra società. Questi due aspetti non bastano? Porto un’altra considerazione.

Penso che una merce viene “prodotta” anche grazie a quei milioni di (ex) operai che questo sistema economico neoliberista, utilizzando a senso unico (cioè in suo favore) la crescita del processo tecnologico degli ultimi 30 anni, ha espulso dal mondo del lavoro. Senza queste innumerevoli vittime sacrificate in nome delle “ristrutturazioni e della competitività” non vi sarebbe stata una moltiplicazione della produzione né, quindi, enormi profitti andati a pochi.

Allora non tanto in modo astratto bensì in modo efficace e, soprattutto, “doloroso” questa massa di “disoccupati e inoccupati” ha concorso (con il proprio allontanamento forzato dai luoghi di lavoro dove una volta partecipavano attivamente a produrre merci) a creare ricchezza.Inoltre in una società produttiva sempre più tecnologizzata dove il lavoro, in futuro, sarà sempre meno e i manufatti sempre più abbondanti e creati con sempre meno addetti, è evidente che la ricchezza della società dipenderà e sarà sempre più sbilanciata e in mano a coloro che acquisteranno piuttosto che a coloro che produrranno. Nel senso sopra descritto ha una sua logicità una redistribuzione del reddito, che altro non sarebbe che un dividere con tutti la ricchezza creata con il concorso di tanti. Ma se la vogliamo vedere anche dal punto di vista più strettamente capitalistico (alla Ford per intenderci) una redistribuzione del reddito è un àncora di salvataggio anche per lo stesso sistema economico attuale.

Tempo fa, una politica un pochino più lungimirante è stata quella di aumentare gli stipendi ai propri operai in modo che potessero acquistare le auto che loro stessi costruivano. Oggi potrebbe essere quella di distribuire un Reddito di Esistenza per tutti. Questo trasferimento di ricchezza, socialmente prodotta, centrerebbe un duplice obiettivo: il primo, più importante, quello di battere la povertà. Il secondo andrebbe nella direzione tanto cara all’attuale sistema economico: quello di ottenere coesione sociale perché sottrarrebbe l’intera società, stante l’attuale e futura situazione, dal forte rischio che esplodano conflitti gravissimi e inarrestabili.

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Prove di reddito di esistenza e anche di resistenzaDi Monica Cellini, Laboratorio Mag6 sul Reddito di Esistenza.

“Liberare il denaro dal lavoro, liberare la vita dal denaro”. Se penso alla mia partecipazione al lavoro di gruppo sul RdE, credo che queste siano state le coordinate principali del mio cammino personale. Questo gruppo mi ha permesso di iniziare a “ridurre” il mio attaccamento al denaro e di ridimensionare la mia percezione di “bisogno di denaro”. Un esempio che ho utilizzato spesso per riflettere sul rapporto con il denaro è il mio comportamento di fronte a persone che fanno la questua: non mi è mai capitato di dare del denaro senza pensare a qualcosa in cambio come ad esempio è una persona che mi sta simpatica, mi piace il suo modo di chiedere, suona buona musica quindi merita (in genere non sopporto di dare denaro a chi “si lamenta”!).

Con questa piccola sperimentazione sul RdE, per la prima volta ho pensato che davo del denaro senza sapere chi l’avrebbe usato, come e per quali obiettivi e, devo ammettere che, al di là della somma da me versata, di per sé insignificante, ho sentito subito molte resistenze dentro di me.Che cosa mi ha permesso di fare questo piccolo passo...Direi principalmente il clima di fiducia percepito e via via rinforzato nel gruppo di persone che ha condiviso con me questa fatica e questo progetto, fiducia nelle persone che si sono avvicinate al progetto e alla Mag.Penso allora all’altro mio slogan storico: dopo l’acqua, la risorsa più scarsa in assoluto nel mondo è la fiducia tra le persone!Lavorare attorno a questa idea di RdE, poi diventata progetto concreto, è stato un vero e proprio addestramento a dare e ricevere fiducia e di conseguenza a “lasciar andare il denaro” con un po’ più di tranquillità, senza sensi di colpa né tanto meno senso di perdita personale.

Certo, adesso viene il bello, ossia aspettare di vedere se e in che termini questa piccola quantità di “denaro liberato”, riuscirà a produrre a sua volta maggiore benessere e fiducia non solo nella vita di Nadia ma anche tra tutti noi.

Ma se ci penso, l’aspetto più interessante per me del reddito di esistenza, è che non potrò più dire

alla fine della mia vita: “Non ho fatto ciò che avrei voluto

fare perché non me lo potevo permettere.”

Bettina Dieterle

Tantissimi ragazzi già soffrono di ansie per il futuro e a scuola notoriamente si preparano per

una certa attività scegliendo spesso il male minore, per paura di ritrovarsi un giorno a mani vuote.

Nel reddito di esistenza vedo invece la possibilità e l’occasione per intraprendere proprio quello

che si vorrebbe fare per davvero, e che si sa fare bene.

Philip Kovce, studente maturando

La finanziabilità è garantita.

La sfida difficile è la libertà!

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Lavoro e reddito una coppia in crisiDi Aldo Carra, da www.sbilanciamoci.info, 2013.

Nelle storie parallele della sinistra e dello sviluppo capitalistico, lavoro e reddito hanno sempre costituito due facce della stessa medaglia e camminato nella stessa direzione: più lavoro e più reddito nelle fasi di crescita, meno lavoro e minori redditi in quelle di crisi.Per affrontare queste situazioni di crisi, sinistra e sindacati quando ancora erano forti, hanno conquistato strumenti – i cosiddetti ammortizzatori sociali – per difendere il reddito anche in presenza di un lavoro che diminuiva. In questo modo la relazione diretta tra lavoro e reddito veniva rimessa in discussione a favore del reddito e questo è stato possibile per la convinzione comune che la difesa dei redditi poteva evitare la caduta della domanda e favorire, quindi, la ripresa del lavoro.

Negli ultimi anni quella relazione è stata indebolita dal fronte opposto: la globalizzazione e la competitività sono state utilizzate dal capitale per generare una crescita tumultuosa del precariato. Ciò ha prodotto in una prima fase anche una crescita degli occupati. Non ha prodotto, però, un aumento, ma al contrario una diminuzione dei redditi da lavoro. È così calata la domanda contribuendo ad aggravare la crisi in atto.Ma la crisi ha cause più profonde ed ha generato una tendenza che sembra inarrestabile alla diminuzione sia del lavoro che dei redditi. La relazione diretta tra lavoro e redditi si è cosi ricostituita al ribasso: riducendo il lavoro stabile e sviluppando quello precario, oggi abbiamo meno lavoro e redditi da lavoro ridotti più che proporzionalmente.

Gli effetti sulla domanda aggregata e sull’economia sono noti a tutti ed oggi, tra disoccupati che corrispondono alle definizioni statistiche e scoraggiati con diverse sfaccettature, ci sono cinque milioni di persone cui viene negato insieme sia il diritto al lavoro che quello al reddito.

In questo contesto, ed a quanto sembra soprattutto nella sinistra italiana, si sta sviluppando un dibattito sulle possibili vie d’uscita che introduce ulteriori elementi di separazione, in qualche caso di vero e proprio divorzio, tra lavoro e redditi: le proposte di reddito di cittadinanza e di reddito inserimento, di reddito minimo e di reddito sociale nascono da questa linea di ricerca e tendono a garantire forme di reddito “sganciate” dalla prestazione lavorativa (Gnesutta, “Garantire il reddito o il lavoro? Una ricomposizione possibile”; Lucaroni, “Reddito minimo per un Commonfare”).I sostenitori di queste proposte sono mossi dalla convinzione che i livelli di disoccupazione raggiunti non saranno facilmente assorbiti e che si debbano adottare misure straordinarie.Altri mossi dalla stessa preoccupazione propongono di agire sull’altro termine del binomio – il lavoro – attraverso una sua ridistribuzione.Altri ancora a sinistra vedono, però, in queste proposte il pericolo di un’accettazione rassegnata della realtà e di una rinuncia al diritto al lavoro ed alla necessità di attivare, con l’intervento pubblico, un nuovo ciclo di investimenti e di generazione di piena e buona occupazione (Pennacchi, “Lavoro, e non reddito, di cittadinanza”), oppure il rischio di far aumentare il numero dei non occupati e di una loro emarginazione (Lunghini, “Reddito sì, ma da lavoro”).

Siamo così di fronte ad un dibattito intenso su lavoro e reddito e sul futuro del lavoro che non è nuovo a sinistra.Senza andare molto indietro a Marx o Keynes, esso ha alle spalle elaborazioni affascinanti come quelle degli anni ottanta e di André Gorz, concrete sperimentazioni generali come quella francese sulle 35 ore, applicazioni emergenziali come quella fatta in Germania per affrontare situazioni di crisi di qualche azienda automobilistica.

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Qual è il bilancio di quelle esperienze?Se si esclude quella tedesca che ricalca il modello dei contratti di solidarietà tra lavoratori di una azienda per difendere il posto di tutti, l’esperienza delle “35 ore in un solo paese” è stata di fatto vanificata dalle leggi ferree della competizione globale che hanno spinto in direzione contraria verso l’aumento delle ore lavorate, mentre le teorie di Gorz sulla distribuzione del lavoro tra persone e nell’arco della vita sono rimaste nel libro dei sogni della sinistra.

Perché è accaduto tutto questo ed oggi ci ritroviamo di fronte ad una crisi che sta trascinando verso il baratro lavoro e redditi insieme? Erano quelle teorie e pratiche infondate o animate da un dose elevata di utopia? Sono state promosse in tempi non ancora maturi?

Ed oggi che la disoccupazione ha raggiunto dimensioni senza precedenti e che tocca tutti i paesi sviluppati, oggi che la crisi si prolunga oltre ogni previsione mentre niente lascia prevedere che ci possa essere una ripresa con tassi di crescita tali da consentire il riassorbimento della disoccupazione generata, sono forse maturi i tempi per un rivoluzionamento della relazione lavoro-redditi?

Il dibattito che si è aperto è certamente interessante e ricco di spunti e cercare di rispondere a queste domande è indispensabile per dotare la sinistra di una nuova progettualità e farla uscire dalle difficoltà che oggi la paralizzano.Penso, però, che le risposte a quelle domande debbano essere meglio articolate ed inquadrate in un progetto organico e soprattutto che esse debbano riuscire a soddisfare due esigenze estreme: quella di misure immediate per alleviare i drammi del lavoro perduto e la disperazione di chi lo cerca invano; quella di soluzioni convincenti e di lungo periodo adeguate al carattere strutturale della crisi.Tra questi due estremi si dovrebbe delineare un percorso di lavoro in grado di coinvolgere non solo la schiera degli economisti, ma le forze politiche, i sindacati e, soprattutto lavoratori e disoccupati.

Provo, solo per stimolare la discussione, ad indicare quelle che a me sembrano le tappe principali di questo percorso.

1) Una ripresa economica è senza dubbio una condizione importante per bloccare la caduta di occupazione e redditi. Ma la ripresa non basta evocarla e non credo che arriverà limitandosi, come si sta facendo oggi, a prendere provvedimenti volti a ridurre il costo del lavoro o ad accrescere ulteriormente la flessibilità del lavoro.Questo vale per tutti i paesi in crisi, ma ancor più per l’Italia che ha smantellato già prima della crisi il suo apparato industriale, che paga oggi l’abbandono di una politica industriale e per la ricerca e l’innovazione.Una ripresa, quindi, non potrà che avvenire nei settori produttivi del futuro, nel recupero – urbano ed ambientale – e nei servizi alla persona. Non si tratta, quindi, di invocare una ripresa qualunque né tantomeno che ricalchi il modello di sviluppo pre-crisi, ma di ridefinire gli obiettivi che la società deve perseguire nei prossimi anni nei campi della salute, dell’istruzione, della qualità sociale ed ambientale ed in funzione di essi individuare i settori produttivi di beni e servizi da implementare con politiche di sostegno, di incentivazione, di formazione professionale. Un campo da esplorare in questo senso è questo: se si assumono come obiettivi di policy gli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile proposti da ISTAT e CNEL se ne può far discendere un’individuazione analitica di quali saranno i beni e servizi da implementare, quindi, i settori del futuro. Un processo del genere è certamente complesso ed ambizioso, ma forse è più realistico dell’invocazione generica di una ripresa che non arriva mai.2) Proprio per questa complessità è chiaro che questo processo non potrà dare risultati significativi a breve-medio termine. Quindi misure straordinarie che attenuino gli effetti più pesanti della disoccupazione si impongono. Si potrà discutere se è meglio agire sui redditi o sul lavoro e come, ma non c’è dubbio che interventi di emergenza si impongono ed essi non dovrebbero essere visti come rinuncia allo sviluppo. Così come anche provvedimenti minimi volti ad incentivare assunzioni di giovani debbono essere guardati per quello che sono: tentativi minimi ad effetto

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immediato, utili, ma che non scalfiscono i problemi di fondo.3) L’istituzione di un reddito di cittadinanza, della quale molti hanno parlato e che trova applicazione in altri paesi, può rispondere a queste esigenze fungendo, intanto, da ammortizzatore sociale di emergenza.4) Ma un reddito di cittadinanza può essere anche molto di più di una semplice misura di emergenza. Esso potrebbe saldare presente e futuro introducendo un principio di valore strategico: la ricchezza prodotta va distribuita non solo a coloro che contribuiscono a produrla col lavoro prestato nella sfera del mercato creando valori di scambio, ma anche a coloro che prestano attività sociali, cooperative e di cura che generano valori d’uso senza riceverne però una remunerazione.5) In questo modo il reddito di cittadinanza potrebbe diventare uno strumento di “emersione e riconoscimento” di quelle attività e di loro “valorizzazione”, un cavallo di Troia per infrangere il muro che divide valore d’uso e valore di scambio, economia di mercato ed economia sociale.6) Se è vero come è vero che tantissime attività (lavoro domestico e di cura in primo luogo) producono PIL se svolte come lavoro retribuito e valgono zero se svolte gratuitamente nell’ambito familiare e del volontariato sociale, una loro “valorizzazione” tramite un reddito di cittadinanza avrebbe un altro valore strategico: far cadere quel muro che separa artificiosamente lavoro e non lavoro, occupazione e disoccupazione.7) La distinzione tra occupati e non, infatti, è sempre più lontana dal rappresentare la realtà: all’interno del mondo del lavoro esistono ormai tante posizioni in termini di sicurezza e durata del lavoro che si può parlare di veri e propri mondi differenziati e qualche volta addirittura confliggenti; non molto diversa è la situazione nella sfera dei non occupati dove convivono aree di disperata emarginazione accanto ad aree di creatività e di impegno sociale che in alcuni casi sono veri e propri avamposti di una nuova relazione tra lavoro e vita (Bascetta).8) Insomma oggi tra occupati e non si snoda un mondo estremamente variegato in un continuum con mille sfumature. Un mondo certamente non più racchiudibile nello schema classico occupati-disoccupati, con ancora molto da indagare, sul quale servirebbe un’indagine che

ricostruisca una nuova “mappa sociale e del lavoro”.9) In questo nuovo contesto la ridistribuzione del lavoro è il secondo sentiero da percorrere. Essa può offrire risposte all’emergenza nelle situazioni di crisi con contratti aziendali di solidarietà.10) Ma la ridistribuzione del lavoro può essere anche una risposta strategica alla diminuzione strutturale del lavoro necessario: ridistribuire il lavoro significa mettere in discussione anche i ruoli sociali, la separazione tra lavoro produttivo e lavori domestici e di cura, la relazione tra tempi di vita e di lavoro. Quindi ridistribuzione come rivoluzione e nuova scansione dei tempi di vita delle persone.11) Si potrebbe, in sostanza, pensare ad un contratto nazionale ed europeo di solidarietà per la liberazione del lavoro e dal lavoro, ma proprio per questo è indispensabile che il dibattito coinvolga sinistra politica e sindacato.12) E qui nasce una ultima domanda: un percorso così ambizioso e complesso può essere tracciato solo da economisti ed esperti senza una partecipazione attiva dei soggetti interessati, delle mille sfumature di occupati e non e senza una sinistra politica e sindacale che elabori, ed a livello europeo, un progetto di futuro di fronte ad una crisi epocale come quella in cui siamo immersi?

Certamente nel dibattito in corso e nelle cose dette c’è una forte dose di utopia che a prima vista può sembrare fuga dalla realtà.Ma non penso sia così.Oggi è evidente che le ricette proposte dagli economisti mainstream e dagli organismi di governo dell’economia sono assolutamente inadeguate ad affrontare questa crisi. Lo sono perché esse non arrivano a mettere in discussione le radici del modello sociale ed economico attuale.Proporre un itinerario come quello appena accennato può sembrare poco realistico, ma in realtà, con un giusto equilibrio tra interventi sull’emergenza ed interventi strutturali, questo può essere l’unico modo per affrontare la crisi e per uscirne.

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Reddito di base incondizionato La Svizzera versoil referendumDa Basic Income Network Italia, www.bin-italia.org

Un articolo tratto da Ticino News dà notizia della raccolta e della consegna di 130.000 firme per un referendum a favore di un reddito di base incondizionato da erogare a tutti i cittadini svizzeri, lavoratori e non, di 2.500 franchi pari a 2.000 euro mensili. Dopo il referendum contro i maxi stipendi ai manager pubblici ora la rivendicazione di un reddito di base come diritto umano.

Reddito di base incondizionato, consegnate le firmeOltre 130.000 persone chiedono un minimo di 2.500 franchi al mese per tutti, lavoratori e non.Berna - Un tempo uggioso ha accolto oggi a Berna il comitato promotore dell’iniziativa popolare per un “reddito di base incondizionato”, riunitosi nella capitale per consegnare le firme raccolte alla Cancelleria federale. Stando ai promotori, la proposta ha riunito 130.000 adesioni, che verranno ora passate al vaglio delle autorità per essere convalidate.L’iniziativa chiede che la Confederazione provveda “all’istituzione di un reddito di base incondizionato” – 2.500 franchi al mese per tutti, lavoratori e non – allo scopo di “consentire a tutta la popolazione di condurre un’esistenza dignitosa e di partecipare alla vita pubblica”. Le modalità di finanziamento e l’importo del reddito di base saranno fissati dal Parlamento con un’apposita legge. Costo dell’operazione: 200 miliardi di franchi all’anno.Per i promotori, tra cui figurano l’ex vice cancelliere della Confederazione Oswald Sigg e la rapper zurighese Franziska Schläpfer (“Big Zis”), il progetto è finanziabile: 70 miliardi risulterebbero da risparmi sulle assicurazioni sociali, per i rimanenti andrebbero escogitate altre soluzioni.Il reddito di base dovrebbe garantire a ciascuno – compresi i bambini – un minimo vitale non vincolato da alcuna precondizione.Nelle intenzioni del comitato, il reddito di base costituirà una parte dell’attuale reddito. Stando ai promotori, il minimo vitale garantito dallo Stato non dovrebbe avere conseguenze sulla motivazione “lavorativa” delle persone, dal momento che “la maggior parte delle persone lavora volentieri, quando si tratta di un’attività sensata e socialmente riconosciuta”.Poiché solo una minima parte della popolazione si accontenterà di un reddito di 2.500 franchi, “rimarrà dunque l’incentivo finanziario per lo svolgimento di un’attività lucrativa”.

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