accadde a roraro - apertis verbis

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RACCONTI Titolo Pagina Accadde a Roraro 2 Al tramonto in autostrada 85 Il Chirurgo 90 Concerto per pianoforte e orchestra 93 31 dicembre 1999 97 Il fiume 99 Il professore di inquinatica 101 Accadde a Leida 104 Quando Zilano fu invasa dagli orchi 107 Un incontro a Perugia 111 La piccola q 114 Per chi prego’ la Signora Ruth 117 Se 120 Teofilo 124 C’e’ la sesta … la settima … 127 Gian Giacomo Guilizzoni - Racconti 1

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RACCONTI Titolo Pagina Accadde a Roraro 2 Al tramonto in autostrada 85 Il Chirurgo 90 Concerto per pianoforte e orchestra 93 31 dicembre 1999 97 Il fiume 99 Il professore di inquinatica 101 Accadde a Leida 104 Quando Zilano fu invasa dagli orchi 107 Un incontro a Perugia 111 La piccola q 114 Per chi prego’ la Signora Ruth 117 Se 120 Teofilo 124 C’e’ la sesta … la settima … 127

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ACCADDE A RORARO di G. Giacomo Guilizzoni

«Zitti, non fate domande. In questi casi la miglior cosa è fare quello che fa la folla».

«Ma se vi sono due folle?», chiese il signor Snodgrass. «Bisogna gridare con la più numerosa», rispose il signor Pickwick.

Interi volumi non avrebbero potuto dire di più».

Charles Dickens (Quaderni postumi del Circolo Pickwick)

«Si respirava un’atmosfera cupa. Tutto,

intorno, era “impegnato”. Ridere era un peccato, il successo una colpa,

la dietrologia una regola».

Renzo Arbore (Intervista su Sette, 9.7.1998)

1. Un mattino di primavera, negli Anni Cinquanta, la relativa quiete della via Canonico G.B. Marchetti Benefattore, a Roraro, fu improvvisamente rotta da una voce stentorea: « ... zia cristiana, voti 45 972, aumento del 73,5 % rispetto alle precedenti amministrative; partito socialista, voti 30 581, aumento del 67,2 % rispetto alle politiche dello scorso anno ... ». Gian Giovanni Giovannini superò il suo record di salto in alto orizzontale da fermo, svegliato bruscamente, come accadeva da parecchi giorni, dalla radio a tutto volume dell’osteria sottostante. Le elezioni politiche si erano svolte cinque giorni prima e tutti i partiti, come sempre, risultavano vincitori, avendo migliorato le loro posizioni rispetto a qualche prossima o remota consultazione. Ciononostante, la radio continuava a vomitare cifre su cifre, relative ai risultati ottenuti anche nei piccolissimi centri. Gli abitanti del quartiere in cui abitava Gian Giovanni erano costretti ad ascoltare il noiosissimo elenco ma l’oste era sordo alle loro rimostranze.

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Tutte le mattine, alle cinque in punto, dopo aver sollevato con grazia la saracinesca del locale, accendeva la radio - la manopola del volume era bloccata al massimo - ed iniziava le pulizie, senza ascoltare. La politica non lo interessava. Altrove, si poteva udire il cicaleccio degli uccelli, l’aria profumava di fieno ed il primo sole inondava le case. Altrove, poichè la stanza dove dormiva Gian Giovanni era protetta dalle pericolose radiazioni visibili e UV dal muro della casa di fronte, essendo la via Marchetti poco più di uno stretto pertugio. Come in altri quartieri popolari, le radio funzionavano giorno e notte a tutto volume; ai loro suoni insopportabili si univano le grida dei venditori ambulanti, i pianti dei neonati, le urla emesse nelle frequenti, furibonde liti tra le comari. Inoltre, l’aria non poteva profumare di fieno, malgrado i prati fossero abbastanza vicini, essendo ammorbata dai miasmi di uno dei tanti pozzi neri in fase di espurgo. L’operazione era eseguita con una pompa a mano manovrata dal Carlomagnozzi Pietro, più noto in paese come Pédar d’la merda. Le strade di Roraro, quando Gian Giovanni era ancora bambino, erano anche allietate dalla vista e dal profumo degli escrementi dei cavalli e dei muli, in dialetto bulàk. (Pepìn Bulàca era il soprannome di un poveraccio che campava raccogliendo i bulàk per venderle come concime). Ma per i nostalgici del buon tempo antico per sentito dire - riflette oggi Gian Giovanni, che non li sopporta - l’inquinamento idrico, atmosferico e acustico sono fenomeni tipici dei giorni nostri; per loro, in passato tutto era bello, pulito, profumato, silenzioso. L’ammasso di case del quartiere, non antico ma soltanto vecchio, denominato ufficialmente Centro Storico, era più conosciuto come quartiere cinese, per la presenza di una colonia di cinesi venditori di «clavatte», ospiti della pensione Zoraide. Nelle vicinanze della via Marchetti scorreva la roggia Miseria, un flusso di repellenti liquami e oscene immondizie. A regime normale, la roggia spandeva un lezzo insopportabile, tale da coprire l’intenso profumo del pane appena sfornato dal panettiere Trincherozzi e modificare persino il sapore dei cibi sulla tavola degli abitanti del quartiere. Spesso, le sue acque assumevano vivaci colori dovuti ai coloranti scaricati da una tintoria a monte; il fetore aumentava ma l’occhio era appagato. L’arrivo dell’onda colorata era segnalato dalla fuga dei topi, padroni assoluti del canale. Quando la roggia era in secca si potevano ammirare, nel suo letto, cocci di vetro e ceramica, scatole di conserva arrugginite, carogne

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di gatti, stracci, piume di gallina, pelli di coniglio e altri rifiuti. Quasi tutto biodegradabile, però, e quindi buono secondo la classificazione del professor Indolo del collettivo «Laudatores temporis acti», di cui si dirà più avanti. Il brusco risveglio diede il colpo di grazia al morale, già piuttosto basso, di Gian Giovanni; dopo una notte di incubi, era giunto il momento in cui avrebbe dovuto sostenere un esame presso il locale Istituto Tecnico Industriale. 2. Roraro è un paesone del profondo Nord, attualmente sconosciuto ai più ma nell’Ottocento vivace cittadina industriale in cui, per l’abbondanza e la qualità dell’acqua, erano sorte numerose industrie, ora scomparse. Ciò spiega due numeri di CAP, l’esistenza di un Istituto Industriale, di una sezione staccata del manicomio provinciale, di un delegato residente della CIA ed il titolo di arciprevosto spettante al parroco. Chiarisce anche la presenza di cromosomi veneti, calabresi, lucani, pugliesi e marchigiani nelle cellule degli attuali rorarotti. Per usare un frusto luogo comune, Roraro è un paese a misura d’uomo, nel senso che tutti si conoscono e possono così spettegolare sulle vicende anche più intime dei compaesani. A Roraro esistono studiosi di storia locale, anche se non si sono mai verificati nei secoli fatti degni di studio; per la scarsità di materia prima dissertano da anni sul nome del paese. Per alcuni deriva da oro raro, data la povertà dei luoghi; altri, dopo un accurato esame dei ritratti delle antenate, hanno concluso trattarsi di una contrazione di orroraro. Gian Giovanni era per la seconda ipotesi: le numerose cugine di sua madre costituivano una testimonianza inconfutabile. Il ragazzo era infatti afflitto da un nugolo di lontane parenti e costretto, da piccolo, ad accompagnare la madre nelle visite di cortesia a casa loro. Le detestava cordialmente e comparivano anche nei suoi incubi notturni. Una notte sognò di trovarsi in un luogo desolato, fuori dallo spazio e dal tempo e si rese conto di essere in Purgatorio a scontare i suoi poveri peccati coabitando con la vecchia Amleta, vedova del biscugino Astolfo, la baffuta tercugina Sostene con la figlia Pandolfa e tante altre. Nel recarsi a scuola, Gian Giovanni passava ogni giorno davanti ad un monumentino seminascosto da cespugli polverosi, un capolavoro del

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cattivo gusto di fine Ottocento, ricoperto di un incredibile numero di medaglioni, corone, palme, fronde, teste leonine ed altri orpelli, aggiunti per «abbellirlo». Il ragazzo rileggeva ogni volta la stupefacente dedica:

ALDO CHETOSI Filosofo rorarotto

Dissociò e ricompose tutto lo scibile umano Gli abitanti dei paesi vicini considerano infatti i rorarotti un po’ megalomani, anche a causa della vistosa segnaletica:

RORARO

CITTÀ A MISURA D’UOMO DENUCLEARIZZATA Gemellata con Chernobyl (URSS)

Gli amministratori locali, ritenendo restrittivo gemellare il paese con banali Cherchezlafemme sur Savon (F) o con Hoe on the Feet (UK) proposte da qualcuno, erano riusciti faticosamente a stabilire rapporti con l’Est, allora difficilissimi, puntando al gemellaggio con Mosca o, in subordine, Stalingrado. Dopo estenuanti trattative con i burocrati sovietici fu loro imposta - prendere o lasciare - la ridente cittadina ucraina. In via Marchetti si trovavano gli uffici di una delle due industrie sopravvissute, la Roraro Pompe sas. Non era una fabbrica di pompe e compressori bensì una impresa di pompe funebri. 3. Gian Giovanni Giovannini, nel 1950, era un ragazzo scheletrico dotato di un gran naso sulla testa piccola, il viso attraversato da una striscia di lentiggini resistenti anche alla famosa pomata del dottor Bianciardi, decisamente brutto e tale da suscitare antipatia o, nel caso più favorevole, indifferenza. Le ragazze della via Marchetti lo guardavano dall’alto in basso oppure lo ignoravano. Il ragazzo aveva vissuto una povera adolescenza negli anni di guerra in cui, per acquistare ad un prezzo accessibile i generi di prima necessità, occorreva possedere la «carta annonaria». Ma le razioni della «tessera» erano insufficienti, 200 grammi di pane al giorno. Malgrado ciò sua nonna, mentre mangiava, continuava a ripetergli, per inerzia, «fa cumpisìna!»,

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termine dialettale intraducibile che significa alternare pochi bocconi di companatico con molti di pane. Consapevole del suo sgradevole aspetto e di essere una nullità, il ragazzo era spietatamente sincero con sè stesso fino all’autolesionismo, in ciò aiutato dalla ricorrente risposta della madre alle sue più che modeste richieste: «Non è cosa per te». Lo strano nome del ragazzo era dovuto ad un compromesso, raggiunto in famiglia, quando si usava imporre, ai neonati indifesi, il nome di un nonno o di una nonna. I nonni del ragazzo, morti da tempo, si chiamavano entrambi Giovanni e battezzare il piccolo semplicemente Giovanni avrebbe prodotto interminabili discussioni tra le due nonne, vive e vegete. Marchiato alla nascita, il giovane era cresciuto timido, impacciato, ipersensibile alle critiche, terrorizzato di trovarsi al centro dell’attenzione altrui o di essere sottoposto ad esperienze umilianti. Non sapeva pronunciare la erre ed era affetto da eritrofobia; quando in classe era costretto a declinare nome, cognome e indirizzo, per la paura di arrossire arrossiva vistosamente. I labirinti delle orecchie di Gian Giovanni erano particolarmente sensibili ad ogni variazione di velocità; soffriva quindi il mal di treno e il mal d’auto ma non conosceva il mal di mare e il mal d’aereo non essendo mai salito su una imbarcazione e su un aereo. Dotato di autoironia, sosteneva: «Non posso nemmeno divertirmi sulle automobiline dell’autoscontro e tanto meno su una giostra; persino quando leggo qualcosa sulla rotazione terrestre sono assalito dalla nausea». Il sonno del ragazzo era spesso popolato da incubi. Il due novembre di ogni anno la madre lo costringeva ad accompagnarla a «visitare» i «poveri» antenati defunti, mai conosciuti. Alcuni erano sepolti nei colombari, in un interminabile corridoio sotterraneo, fiocamente illuminato, costituente il perimetro rettangolare del cimitero. Alla notte il ragazzo sognava di percorrere la funerea galleria, solo, in un silenzio - appunto - sepolcrale, rotto soltanto dallo sfrigolio degli stoppini dei ceri. Il terrore saliva a ondate mentre si avvicinava ad uno degli angoli retti. « Sentiva » che lo attendevano, dietro l’angolo, teschi e tibie danzanti. Urla disumane uscivano dai teschi, come quello emesso dal ragazzo svegliandosi con il cuore in gola. Nel sonno era spesso uno scrittore giallista; il suo capolavoro era «L’aquilotto delle due tenebre». Possedeva la cattiva abitudine di riferire ai familiari le sue allucinazioni, pur sapendo quanto sia deprimente

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ascoltare il racconto dei sogni altrui mentre i nostri sembrano tanto interessanti. Suo zio Pierino, conoscendo l’interesse del ragazzo per la musica classica, in occasione di un discreto risultato scolastico gli regalò una biografia di Mozart con l’incoraggiante dedica: «Ammira il talento di un Grande, anche se non lo diventerai mai». A scuola, Gian Giovanni era un disastro. In un giorno di pioggia il professore di disegno, schifato, aveva gettato dalla finestra il suo album, tra le risate dei compagni. Scrisse Galileo: «Prima furon le cose, poi le parole». Gian Giovanni attribuiva invece grande importanza al suono e al carattere tipografico di una parola. «Ursula, in italiano, è Orsola» - diceva ai compagni - «eppure quale abisso si schiude cambiando la prima vocale! Il nome con la u evoca bionde, fascinose hostess nordiche, sesso e avventure; con la o mi ricorda le suore orsoline...» . Un’ altra fisima del ragazzo era l’antipatia per le targhe delle automobili francesi, per lo sgradevole rapporto tra l’altezza e la larghezza dei caratteri. 4. Un giorno, la madre di Gian Giovanni lesse, sulla «Domenica del Corriere», un servizio sulla psicanalisi. L’autore, illustrando il complesso di inferiorità, sembrava si fosse ispirato a suo figlio, a cui mancavano tante cose ma non certo complessi e fobie. Decise di farlo analizzare da un esperto di Torino, un geometra del catasto psicologo dilettante, marito della pentacugina Traviata, un’ altra disgraziata nel nome per colpa del padre fanatico verdiano (i fratelli si chiamavano Rigoletto e Trovatore; la sorella, Luisamiller). Gian Giovanni fu trascinato con la forza nella città piemontese. La trovò fredda e triste come Roraro. I deprimenti palazzoni ottocenteschi, con il loro esercito di camini e abbaini, sovrastati dalla cupa Mole Antonelliana, gli sembrarono l’ambiente ideale per un candidato al suicidio. Soltanto negli anni del tramonto, circondato dai toni caldi del mattone, degli intonaci rossi e del legno di antichi palazzi e semplici case bolognesi, avrebbe compreso il motivo di tanta avversione per il Piemonte e Torino in particolare. Il colloquio sul divano fu penoso tanto per il paziente quanto per l’analista.

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«Ti piacciono le ragazze?». «Urca! Ma la mia vista le fa star male». «Sai ballare?». «No». «Ma ti piace la musica, mi è stato riferito». «Sì, adoro i classici ma detesto la musica leggera, l’operetta e la musica folk». «Sai disegnare, nuotare, sciare, suonare uno strumento, giocare a scacchi, al biliardo, al pallone?». «No, no, no, no, no, no, no». «Assisterai almeno a qualche partita di calcio; per quale squadra tifi?». «L’unica volta che mi hanno trascinato al campo sportivo mi sono annoiato a morte. Dopo aver letto più volte la pubblicità della Roraro Pompe, del Credito Rorarotto e della mortadella Sogni d’oro me ne sono andato. Non tifo per nessuna squadra, o meglio, faccio il tifo “contro” la Juventus perchè torinese. Mi piace l’Atalanta perchè Bergamo è una bellissima città». «Caro ragazzo, cosa posso chiederti ancora? Proprio non ti interessa nulla? Ti piace almeno andare nei boschi in cerca di funghi?». «Sì, ma non ne trovo mai. Soltanto una volta ...». «Basta così». Dopo altre domande futili e risposte scoraggianti il professore congedò il ragazzo, chiamò la madre e le comunicò brutalmente la sua diagnosi. 5. In casa Giovannini si parlava soltanto in dialetto per cui Gian Giovanni, con i professori e i compagni «bene» si trovava in imbarazzo, dovendo tradurre in italiano ciò che pensava in dialetto. I risultati erano evidentemente cattivi. Se la cavava un po’ meglio nello scrivere, potendo fare prima una brutta copia; la compilava persino quando scriveva un semplice biglietto di auguri. Nel dialetto rorarotto non esiste il termine corrispondente a ricco: sciùr (pl. sciùri) significa tanto «signore» quanto «ricco». Per Gian Giovanni erano perciò signori il macellaio, la panettiera, il tabaccaio e altri villani maleducati ma facoltosi, Suspiria Crudeltà compresa. Era così

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soprannominata la proprietaria del Bar Centrale poichè reagiva a qualsiasi notizia, anche insignificante, con un profondo sospiro seguito dall’esclamazione «Ah crudeltà dei Giudei!». Per avidità di denaro, Suspiria faceva raschiare ogni sera i tavolacci del laboratorio di pasticceria e confezionava le briciole in sacchetti di peso e prezzo scalare, molto richiesti dai ragazzi di allora, privi anche dei pochi soldi necessari per comperare un pasticcino. Anche Gian Giovanni acquistava talvolta un sacchetto di frégài del formato più piccolo, intimidito dal kitsch del locale, in cui troneggiavano tavoloni di marmo da obitorio con le gambe di ghisa terminanti in repellenti piedini, o manine, non si capiva bene se umane o scimmiesche. Veniva servito in silenzio, con malagrazia; ciò si verificava anche negli altri negozi in cui si recava ad acquistare qualcosa. E lui, sempre gentile e sottomesso, come gli era stato inculcato, a sprecare «scusi, permette, per favore, grazie, buon giorno, buona sera» con persone che non meritavano (l’avrebbe capito molti anni più tardi) tanta cortesia. Era convinto di trattare con signori i quali, noblesse oblige, non potevano abbassarsi al suo livello. Un’altra signora di Roraro era la Salumiera, piccola, grassa e sputasentenze. Raccomandava, per esempio, l’olio Sasso perchè «come dice il nome, è un olio minerale, quindi non ingrassa». Nella memoria di Gian Giovanni la Salumiera è associata ad un evento memorabile: l’arrivo in paese del Carro di Tespi Lirico. Per tutto il pomeriggio, mentre nel campo sportivo stavano montando i fondali per l’Aida, la Salumiera percorse le vie di Roraro a piccoli passi, inciampando nell’abito lungo che la fasciava, soffocandola, seguita da un codazzo di monelli sghignazzanti. Aveva centrato l’obiettivo: mostrare a tutte di possedere un abito da sera e far schiattare d’invidia le clienti che non potevano permetterselo. L’unica persona gentile conosciuta da Gian Giovanni era il farmacista dottor Piero Cassia, un uomo anziano, magro, dal portamento signorile, sempre elegantissimo. Gli sorrideva quando entrava nell’antica farmacia, una delle poche cose belle di Roraro: i muri erano rivestiti di scaffali di legno su cui appoggiavano vasi di varie forme e dimensioni, decorati e con le scritte in latino. Conscio della sua pochezza, Gian Giovanni era privo di ambizioni, desiderando soltanto poter vivere in pace lontano dalle radio e dalle fisarmoniche - strumento allora molto diffuso - della via Marchetti. Aveva

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infatti contratto una brutta nevrosi da inquinamento acustico, di cui si sarebbe liberato soltanto in tarda età. L’elettronica, a sua insaputa, compiva intanto passi da gigante e avrebbe regalato all’umanità televisori, dischi, nastri, telefoni cellulari, come previsto dai burocrati del Ministero delle Poste quando dissero a Guglielmo Marconi: «La vostra invenzione non riveste alcun interesse perchè non avrà futuro». La marea sonora - riflette ora Gian Giovanni - non risparmia nessuno. I diabolici apparecchi funzionano dovunque, sulle strade, sui treni, su un canotto in mezzo all’oceano, nelle banche, nei supermercati, negli ospedali, sulla cresta di un Quattromila. Alcuni ricercatori hanno constatato che, sul piazzale di una funivia a Madonna di Campiglio, il rumore oltrepassa i novanta decibel, valore superiore a quello misurato nelle ore di punta nel centro di una grande città. Dappertutto l’umanità è costretta ad ascoltare le sirene degli antifurto difettosi, i trilli dei telefonini, lo sbraitare dei loro utenti e, anche se nessuno ascolta la cosiddetta musica di fondo, c’ è sempre qualcuno che provvede a girare una manopola o a premere un pulsante, così, meccanicamente. Un giorno Gian Giovanni chiese ad una cassiera del supermercato come facesse a non sbagliare le registrazioni mentre veniva investita dalle scemenze, vomitate dall’altoparlante posto sopra la sua testa, del DJ della radio locale. Risposta: «Ma io non sento nulla!». Immunizzata. Ha scritto Ermanno Cavazzoni: «Se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo silenzio, forse qualcosa potremmo capire». In una frazione di Roraro esiste una chiesetta dedicata al Cuore di Maria, chiamata dai rorarotti Santa Maria della Corda perchè sulla cornice del frontone si legge a malapena CORD ARIÆ. Il tetto minaccia di crollare, i muri ricoperti di salnitro sono sorretti da precarie impalcature. Ma il modernissimo impianto di amplificazione, superfluo in quei pochi metri cubi, funziona alla perfezione. Una volta all’anno, la chiesa viene aperta e le poche beghine sono costrette ad ascoltare la voce assurdamente amplificata del giovane vice-arciprevosto. Egli si destreggia felice tra più microfoni, convinto di applicare le direttive del Concilio Vaticano II in materia di aggiornamento del clero. Per un modesto canone mensile, la Roraro Pompe sas provvede ad inserire nelle tombe, invece di armi e suppellettili come usavano gli antichi,

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stereo sintonizzati su Radiororaro 2001, in onda ventiquattrore su ventiquattro. 6. Don Pietro Ammonio, soprannominato don Furbetto, arciprevosto di Roraro, era un uomo di mezza età, alto e magro, con le guance infossate e gli occhi sporgenti, sempre in elegante clergyman stile Banco Ambrosiano. La maggioranza dei fedeli, per la sua triste figura, lo riteneva dedito ai digiuni e alle mortificazioni della carne. In realtà, il sacerdote era affetto da una forma di ipertiroidismo che lo costringeva, per sopravvivere, ad abbuffarsi come una capra. Don Furbetto insegnava nel locale Istituto Tecnico ed aveva compilato un manuale di religione dal titolo blasfemo: Tecnica di Dio. Il suo soprannome era dovuto alla eccezionale capacità di precorrere i tempi, trovandosi sempre dalla parte dei potenti di turno. Il 29 ottobre 1922 diventò improvvisamente fascista, e lo rimase per tutto il Ventennio. Gian Giovanni ricorda le messe solenni celebrate in presenza del picchetto d’onore della Milizia, armato fino ai denti, sull’attenti di fianco all’ altare. Il gagliardetto nero con il teschio gli ricordava i romanzi di Salgari e quando, al Sanctus, venivano sguainati i pugnali, si aspettava l’urlo del corsaro Nero spronante i suoi fidi all’arrembaggio. Nella chiesa risuonava invece il casalingo «Eia eia alalà!» mentre i fedeli, immobili, pensavano ai fatti loro. L’ingenuo ragazzo non riusciva a comprendere come potessero conciliarsi le omelie sul tema della pace e dell’amore fraterno con le successive benedizioni di uomini e armi. Tante cose non capiva, in quei tempi remoti. Il sabato lo mettevano in divisa, gli ponevano in mano un moschetto e lo addestravano ad odiare il nemico demo-pluto-giudaico-bolscevico. Alla domenica lo obbligavano ad assistere alla messa, letta o cantata in una lingua incomprensibile e, al catechismo, ad amare i nemici. Un giorno, candidamente, aveva chiesto i motivi della contraddizione sia al capocenturia che all’arciprevosto, ricevendo dal primo un «Tu non devi far domande ma soltanto credere obbedire e combattere» e dall’altro risposte evasive. Il 26 aprile 1945, don Ammonio - come moltissimi italiani - si scoprì improvvisamente antifascista.

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Il 19 aprile 1948 - quando la DC conquistò la maggioranza assoluta - don Ammonio divenne persino bacchettone. I vecchi rorarotti ricordano divertiti una sua predica contro la pornografia dilagante perchè una stupida canzonetta recitava «Avantindré avantindré che bel divertimento / Avantindré avantindré la vita è tutta qua». Allo scoppio della rivoluzione blablale, di cui si parlerà più avanti, don Furbetto divenne contestatore, licenziò l’organista e assoldò un complessino per accompagnare i servizi religiosi, sostituendo Bach e il gregoriano con le note delle più sceme canzonette allora in voga, cantate al rallentatore. Ha scritto Gian Carlo Menotti: «Oggi si ascolta in chiesa una musica così brutta [...] Non hanno saputo trovare niente di meglio delle chitarre: un insulto al buon Dio. Se devo pregare, preferisco farlo a casa mia». Anni dopo, il direttore di orchestra Myung Wun Chung, cristiano, dichiarerà: «Non ho nulla contro le chitarre o la musica popolare, ma è un grande peccato che la Chiesa, per adattarsi ai tempi, le promuova. Ha invece bisogno di parlare al mondo con nuova musica sacra: soltanto questa può portare più incisivamente il suo messaggio cristiano». 7. Un tempo, le mamme romagnole, per tener buoni i bambini, falliti i mezzi tradizionali minacciavano di mandarli in una delle colonie marine dell’Adriatico gestite dalle suore. Nei mesi estivi Gian Giovanni, insieme ad altri sventurati, il cranio rasato a zero, veniva parcheggiato nella Colonia elioterapica rorarotta, al cui confronto i casermoni di Milano Marittima sono alberghi a cinque stelle. In paese era chiamata Colonia penale, essendo ubicata della Casa del Balilla, un edificio in purissimo stile littorio, costituito quasi esclusivamente da una enorme palestra circondata da piccoli locali, tra cui un bugigattolo adibito a prigione come esigeva la retorica militaresca del tempo. Il sole non mancava, poichè i ragazzini trascorrevano la giornata nel cortile polveroso privo di alberi, senza un filo d’erba, tra una esercitazione paramilitare e canti patriottici di ineffabile stupidità. Gian Giovanni ricorda ancor oggi «Dio ti manda all’Italia / Come manda la luce / Duce! Duce! Duce!» e «Salve o re imperator / Vittorioso il duce diè / Alla corona un nuovo imper». I capi insistevano su questa: «Vincere vincere vincere / E vinceremo in cielo in terra e in mare / E’ la

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parola d’ordine / Di una suprema volontà» ( I ragazzi sostituivano vincere con mingere ma il capocenturia non sentiva o fingeva di non sentire ). I giovani del tempo cantavano anche canzonette «profane », come «Il tamburo principal della banda d’Affori / Che comanda cinquecentocinqanta pifferi». Si seppe più tardi che l’autore alludeva a Mussolini e ai 550 membri della Camera dei fasci e delle corporazioni, una parodia del Parlamento. Le canzoncina era sfuggita agli ottusi censori. Della dittatura fascista, Gian Giovanni non aveva conosciuto la ferocia, come tanti di qualche anno più anziani di lui, ma soltanto l’aspetto ridicolo: i canti patriottici, il culto della romanità, le parole d’ordine, le uniformi centroamericane, il lei sostituito con il voi per ordine del segretario del PNF, il tedesco passo dell’oca diventato passo romano, il linguaggio da caserma, l’abolizione della stretta di mano («Si saluta romanamente»). Però gli stessi Mussolini e Hitler, come si poteva vedere nei cinegiornali, prima si stringevano la mano e poi si salutavano alzando il braccio destro. Si nasceva in divisa di figlio della lupa; giunti all’età scolare i maschietti subivano una prima metamorfosi diventando balilla (camicia nera, pantaloni corti grigioverde e fez nero) e le bambine piccole italiane (camicetta bianca, gonna e mantello neri). Al termine della scuola elementare, si verificava una seconda mutazione: i balilla si trasformavano in avanguardisti e le piccole italiane in giovani italiane. Come negli eserciti sudamericani dei film comici, il numero dei graduati era superiore a quello dei soldati semplici; l’Italia traboccava di capimanipolo, capicenturia, capifalange, capifabbricato e così via. La corrispondenza doveva essere datata indicando anche l’anno - in numeri romani, ovviamente - dell’ «Era fascista» e terminare con «Saluti fascisti». I più conformisti adottavano la convenzione anche nelle lettere d’amore. Sul muro di una casa di Roraro si può ancora leggere la frase di Starace «Mussolini ha sempre ragione», seguita dalla firma «Mussolini». L’imbianchino è un ignorante o un antifascista dotato di senso dell’umorismo? - si chiedeva Gian Giovanni. Il Regime, trovando poco marziali i nomi di alcune città, aveva variato San Donnino in Fidenza, Girgenti in Agrigento, Castrogiovanni in Enna, ecc. Roma era diventata l’Urbe e il suo Municipio Governatorato. La targa automobilistica della provincia di Roma riportava il nome intero della capitale anzichè l’acronimo; la dignità della città eterna era salva ma la scritta diventava quasi illeggibile a pochi metri di distanza.

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In tutti i locali pubblici erano affissi cartelli con la scritta: La persona civile non sputa in terra e non bestemmia. Molti gerarchi, e si dice lo stesso Mussolini, usavano bestemmiare. Gian Giovanni era cresciuto credendo di vivere in un Paese molto civile perchè il duce promuoveva la costruzione di ponti, strade, ferrovie e biciclette mentre oltre i «sacri confini della patria» gli stranieri - secondo quanto gli inculcavano - erano ancora dediti alla pastorizia e attraversavano i fiumi su chiatte trainate da schiavi. Tutto doveva essere fascista. Il sanbernardo che aveva soccorso un alpinista travolto da una valanga diventava, in cronaca, l’ eroico cane fascista, come lesse Gian Giovanni sul foglio locale, espressione che associò al cane infedele pronunciato dai musulmani dei fumetti. Il ragazzo, sempre attento più alle parole che ai fatti, si divertì moltissimo quando i capetti di Roraro applicarono, eccessivi come sempre, le direttive di Achille Starace in materia di nomi stranieri. Per esempio, si doveva scrivere teoria della relatività e non teoria di Einstein, onde radio e non onde hertziane. Vennero imposte modifiche di nomi stranieri o di pseudonimi terminanti con una consonante (i famosi tenniso, vatercloso, filmo, sporto, Wanda Osiri, Renato Rascele). Gian Giovanni ricorda una vignetta di Walter Molino sfuggita alla censura: «Io ti lovio, o mio darlingo, ma non posso rimanere fuori dalla mia homa fino a tardi» - diceva all’ amato una delle famose ragazze tutte curve. Risposta: «Al rigto, mia littla, ci rivedremo domani sera alla primiera del filmo “Il mistero del vatercloso”». I gerarchi rorarotti, più realisti del re, italianizzarono persino i cognomi e proibirono l’uso di marchi quali «brandy Stock» e «wafers Saiwa». Johann Sebastian Bach divenne Giovanni Sebastiano Ruscello; René Clair, Renato Chiaro; Albert Einstein, Alberto Unsasso; Benny Goodman, Beniamino Bonomo; Jean-Philippe Rameau, Gianfilippo Tralcio. A Roraro esisteva un vecchio albergo di seconda categoria, l’Hotel Eden. Ebbene, divenne Albergo Panorama perchè il ministro degli esteri della «perfida Albione» era in quel tempo Anthony Eden. Gian Giovanni ricorda anche titolo e sottotitoli del terzo volume dell’antologia adottata nella sua scuola: «Il Novecento: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Mussolini». Di quest’ultimo letterato era riportata una retorica

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poesia che iniziava con: Amate il pane! / Profumo della mensa / Gioia del focolare / Rispettate il pane / Orgoglio del lavoro ... . Era un tempo in cui gli adulatori spargevano a piene mani il loro incenso, soprattutto nei testi scolastici, anche scientifici e tecnici. In uno di essi, per illustrare i concetti di variabile definita e indefinita, l’autore (francese) ricorreva al classico esempio dell’albero in crescita. Nella traduzione italiana l’albero spariva e veniva così sostituito: Si può dire ad esempio che S.E. Benito Mussolini aveva: y = 0 anni alla nascita a Predappio. y = 31 anni quando fondò il Popolo d’Italia. y = 36 anni quando entrò in Parlamento. y = 42 anni quando divenne primo ministro. Da quando frequentava le scuole elementari, indifferente verso ogni sport o gioco, privo di amici, Gian Giovanni si era rifugiato nella lettura, un caldo nido inaccessibile al mondo ostile. I suoi coetanei, bene o male, vivevano, lui leggeva. Tutto quello che gli capitava sotto gli occhi. Non soltanto libri, giornali umoristici (come il Bertoldo, il MarcAurelio, il 420 e il Travaso delle idee), riviste, fumetti ma anche segnali stradali, lapidi commemorative, carte topografiche, scritte oscene sulle porte dei gabinetti, ordinanze comunali che nessuno degnava di uno sguardo. Esclusi i numeri. Quando comparivano in un testo, semplicemente li saltava, non vedendoli nemmeno. Possedeva infatti una memoria a due scomparti, uno per i vocaboli e l’altro per i numeri; nel secondo, per usare il linguaggio degli informatici, era per lui faticosissimo «salvare il file»; quando riusciva, gli risultava quasi impossibile, anche dopo pochi minuti, «caricarlo». Di sè non conosceva taglia, peso, numero delle scarpe, grandezze fisiche secondo lui inutili da ricordare e perciò rimosse dopo averle misurate. Essendone privo, non aveva mai dato importanza al denaro. In particolare, Gian Giovanni adorava i fumetti, ma soltanto quelli comici, in cui i protagonisti cadono da un grattacielo senza subire danni e i cannoni sparano proiettili enormi ma inoffensivi. Leggeva e rileggeva soprattutto i fumetti di Carl Barks, uscendo dal mondo reale pieno di insidie, di dolori e di nemici, dimenticando le piccole e grandi umiliazioni, non sentendo più nemmeno il mal di denti che lo tormentava. Entrava nell’universo disneyano insieme a Paperino, l’eterno perdente pieno di

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difetti, in cui si identificava. Anni dopo, lesse con piacere questa dichiarazione di Dino Buzzati: «Quando per caso vengono a sapere che leggo volentieri le storie di Paperino, ridono di me, quasi fossi rimbambito. Ridano pure. Sono convinto che si tratti di una delle più grandi invenzioni narrative dei tempi moderni». Il padre di Gian Giovanni acquistava da sempre il Corriere della Sera ma il ragazzo si rifiutava di leggerlo sapendo che riportava soltanto notizie e commenti scelti e imposti dal regime. Come è noto, sotto la dittatura fascista i quotidiani ricevevano le notizie da pubblicare, dette «veline», direttamente dal Minculpop, come veniva chiamato il Ministero della cultura popolare. La cronaca nera era proibita. Secondo i fascisti, non era possibile si verificassero omicidi e suicidi in una Italia felice e ben governata; secondo le barzellette (unica valvola di sicurezza per i sudditi dei regimi dittatoriali), la cronaca nera era superflua perchè i criminali si trovavano al timone della nazione. Gian Giovanni frequentava assiduamente la Biblioteca comunale, prelevando di tutto: letteratura antica e moderna, romanzi gialli, testi di volgarizzazione scientifica, trattati di filosofia (di cui non capiva una parola), di sessuologia, ecc. Sua madre aveva tentato invano di convincerlo a leggere libri edificanti strappalacrime come Incompreso, La capanna dello zio Tom, Senza famiglia, I ragazzi della via Pal, Quo vadis?, Il piccolo lord, ora felicemente dimenticati. In pochi anni il ragazzo, pur rimanendo incolto, divenne (direbbe Fantozzi) mostruosamente erudito, non come il suo concittadino dissociatore e ricompositore di tutto lo scibile umano ma almeno quanto il direttore de La settimana enigmistica. Sapeva che Victor de Sabata, famoso come direttore d’orchestra, aveva anche composto un poema sinfonico, Juventus e lo citava pronunciandolo Giuventus, con gran divertimento degli ascoltatori. Sapeva che Gastone, il cugino di Paperino, alla sua prima apparizione in Italia, fu chiamato Bambo. Era anche aggiornato sul fatto che Novi Ligure si trova in Piemonte e Massa Lombarda in provincia di Ravenna. Non ignorava la differenza tra disastro (X grado della scala Mercalli) e catastrofe (XII grado), tra burrasca, tempesta e uragano; conosceva persino i significati di scripofilia e oniomania. Conosceva il significato di acronimi molto noti quali UPIM (Unico prezzo italiano, Milano) STANDA (Società tutti articoli necessari

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dell’abbigliamento e arredamento), Istituto LUCE (L’ unione cinematografica educativa). Tuttavia, come tutti gli autodidatti, commetteva errori di interpretazione. Sales engineer era per lui un ingegnere diplomato dai salesiani; coup de foudre, il colpo di fodero della sciabola adottato dai nobili per colpire i plebei, riservando l’arma ai pari grado. Credeva anche che i presidi sanitari fossero dirigenti ospedalieri. 8. Superati faticosamente gli esami di licenza nella scuola di avviamento professionale, Gian Giovanni inoltrò domanda di assunzione come bidello presso l’Istituto Tecnico di Roraro, presentando i diciotto documenti previsti dalla legge. Sua madre dovette però corrompere la segretaria dell’ufficiale sanitario, una lontana parente, per ottenere il certificato di sana e robusta costituzione. L’Istituto Tecnico Industriale «Candido Geranioli» era, ed è ritornato dopo la rivoluzione blablale, una scuola prestigiosa con insegnanti (pochi) di valore, conosciuta anche all’estero ma scarsamente dai rorarotti. Gian Giovanni fu esaminato personalmente dal signor preside cav. uff. dott. ing. prof. Salvatore Stalagmone (SS per gli studenti), uomo consapevole della sua superiorità sul resto del genere umano, essendo in ruolo ordinario quale vincitore di concorso nazionale per titoli ed esami. Erano tempi in cui, nella scuola, il personale era in maggioranza precario, vagante dalle Alpi alla Sicilia e viceversa. «Ora tutti, bene o male» - dirà il professor Palvezzi di cui si parlerà a lungo - «sono entrati in ruolo e i non addetti ai lavori non capiranno mai le sottili differenze tra il settedecimista e il ventuntrentesimista, tra un abilitato nei corsi abilitanti e un abilitato nell’ esame di abilitazione, tra un supplente incaricato a tempo indeterminato e un supplente incaricato part-time, tra un precario stabilizzato e un precario precario, tra un comandato e un raccomandato». Stalagmone, ex-gerarca, aveva un maniacale rispetto, appunto, per la gerarchia, come dimostra un grottesco episodio. Al Geranioli si tenne un corso di aggiornamento e, in una pausa dei lavori, la scuola offrì il caffè ai partecipanti. I bidelli precettati come camerieri, secondo le disposizioni di SS, domandarono a ciascuno quale titolo di studio possedesse, porgendo la tazzina soltanto agli insegnanti laureati.

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Per essere ricevuti dal preside era necessario presentare domanda in carta legale con qualche mese di anticipo; il calendario degli appuntamenti seguiva un rigido ordine: prima gli insegnanti laureati, poi gli insegnanti diplomati, infine gli esterni. Gli studenti non erano ammessi in presidenza, pur essendo i datori di lavoro del preside e di tutto il personale scolastico. Per motivi che ancora gli sfuggono, Gian Giovanni superò il terribile esame di cultura generale: gli furono chiesti, tra l’altro, i nomi della madre del duce, della moglie di Dante e (qui il preside fece un po’ di confusione) quello del ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno e ai naviganti intenerisce il core. «Chi dichiarò Son piccin cornuto e bruno / Me ne sto tra l’erbe e i fior?» - domandò alla fine il signor preside al ragazzo tremante. «Ti voglio aiutare, non si tratta del nostro docente di agraria professor Lo Brufolo». «Il grillo!» - rispose trionfalmente il ragazzo. Fu assunto come bidello supplente (periodo di prova cinque anni) e venne assegnato al laboratorio di analisi chimica qualitativa, un antro di streghe in cui era usato l’acido solfidrico, gas tossico di odore sgradevolissimo. Il reagente veniva allora preparato nei rudimentali apparecchi di Kipp, quelle tre sfere di vetro sovrapposte immancabilmente presenti sul bancone dello scienziato pazzo nei film di fantascienza. Dall’ ingresso del nuovo bidello nei laboratori chimici, le ordinazioni della vetreria scientifica subirono una brusca impennata; per la fretta di esaudire le richieste degli studenti - comportamento del tutto anomalo per un bidello - si lasciava sfuggire di mano matracci di vetro sottile, costose capsule di porcellana di Berlino, intere scatole di tubi da saggio. In una industria privata sarebbe stato licenziato per giusta causa. Un insegnante gli consigliò di chiedere il trasferimento al BIPM (Ufficio internazionale dei pesi e delle misure), ove avrebbe trovato il modo di ammaccare anche il prototipo del chilogrammo. La proposta divertì gli studenti; alcuni sostennero che, dopo una simile sciagura, sarebbe stata convocata una conferenza internazionale per stabilire un nuovo campione della massa. Per altri, il BIPM avrebbe conservato come standard il celebre cilindro di platino-iridio, rovinato e di massa leggermente inferiore a quella primitiva, imponendo la modifica delle scale di tutte le bilance sparse nel mondo. Eppure, malgrado gli incidenti sul lavoro, per la prima volta nella sua vita Gian Giovanni stava assaporando qualcosa di simile alla felicità. Preside fascista escluso - non lo vide più dopo l’esame perchè collocato a riposo - incontrò per la prima volta persone cortesi. Gli sembrava di vivere

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un bel sogno. Dottori, ingegneri, periti tecnici - da lui creduti (come appaiono nei fumetti), costantemente immersi in profonde ricerche scientifiche - si rivelarono esseri umani gentili e disponibili. Non lo ignoravano e addirittura, con sua grande sorpresa, quando parlava lo ascoltavano. Alcuni studenti di Roraro e dintorni trattavano il ragazzo come fuori Istituto, cioè male, ma erano pochi, per fortuna sua e di tutto il personale. In maggioranza, provenivano da regioni anche lontane. Alcuni trovarono quel ragazzo imbranato persino simpatico, sempre disponibile a rifornirli della vetreria e dei reagenti chimici necessari per le esercitazioni, in un frenetico andirivieni tra i laboratori, situati al secondo piano, e il magazzino, collocato strategicamente nel seminterrato. Conosciuta la sua passione per la lettura, gli donavano riviste e fumetti usati; davanti a tanta generosità Gian Giovanni, cresciuto ricevendo ordini e calci dai capetti della GIL, scherzi pesanti da parte dei compagni di scuola e minacce di terribili castighi divini dai preti, si commuoveva fino alle lacrime. Per la sua erre moscia gli studenti lo soprannominarono (R)auco suon de la ta(r)ta(r)ea t(r)omba, poi abbreviato in Auco. 9. Dopo qualche anno in Istituto, il Gian Giovanni della via Marchetti acquistò una certa fiducia in sè stesso, consapevole di costituire un piccolo ma necessario ingranaggio nella macchina scolastica. Era nato Auco del Geranioli. Fu anche ammesso in Portineria, per un periodo di noviziato di tre anni, senza diritto di parola. Il termine Portineria può far pensare ad un luogo deputato alle chiacchiere e ai pettegolezzi. Nulla di tutto ciò. Si trattava di un club esclusivo in cui venivano ammessi pochi eletti, indipendentemente dalla funzione esercitata nella scuola. Il nuovo preside, un vero gentiluomo, la frequentava fin da quando era professore. Membri di diritto erano i bidelli, allora pochissimi; membri associati pochi insegnanti, alcuni tecnici e qualche ex-allievo. La fama del club oltrepassava i confini dell’Istituto; in paese era luogo comune distinguere il personale del Geranioli in due categorie: «quelli dell’Istituto», aventi accesso alla Portineria, e gli altri. Nume tutelare della Portineria era il custode Giuseppe Citronellale, chiamato da tutti rispettosamente e affettuosamente signor Giuseppe;

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mutilato della prima guerra mondiale, autodidatta, piacevole conversatore, ricco di equilibrio e tolleranza, doti così rare nell’ambiente scolastico. Nessuno, a memoria d’uomo, l’aveva mai sentito affermare «secondo me» e «però io l’avevo detto». Era anche una miniera di aneddoti sulla storia minore della Scuola. Alla sua morte scriveranno, sul bollettino dell’Istituto: «Era un saggio ma non sapeva di esserlo, altrimenti sarebbe diventato superbo perdendo la saggezza». L’autorità e l’autorevolezza del signor Giuseppe erano indiscusse anche se, formalmente, il capo del personale subalterno era Joseph Dernibelungenring, ex-sergente delle SS, pelle scura, capelli e occhi nerissimi, forte accento partenopeo. Calzava stivali di cuoio in tutte le stagioni, incedendo come Eric von Stroheim ispezionando officine, laboratori, corridoi e latrine. Battendo il frustino sugli stivali, emetteva un suono inconfondibile cosicchè nessuno veniva mai colto il fallo a oziare. Joseph era stato assunto come braccio secolare dal preside Stalagmone nel 1945 ma soltanto dopo molti anni si scoprì che non era di origine tedesca: si chiamava Aniello Peppino fu Gennaro e non aveva nemmeno prestato il servizio militare. Quando venne smascherato, presentò le sue scuse al personale sfoderando l’immancabile «tengo famiglia» e fu perdonato. Nella nobile corporazione dei bidelli erano rappresentate molte regioni italiane. Auco conobbe Giacomo Cerasuolo detto Ghes, un timido e taciturno pugliese; addetto ai laboratori chimici, si imboscava in segreti ripostigli per tutta la giornata ed appariva dal nulla verso sera, camminando tra i banconi cantilenando «chiodete il ghes, chiodete il ghes», unico suo contributo al buon svolgimento delle esercitazioni. Alvise Ciapacan detto Comandi era un ingenuo padovano benpensante, credente e credulone; credeva persino nei politici della sua regione (la famosa triade PiRuBi, Piccoli, Rumor, Bisaglia) quando dichiaravano di poter risolvere in pochi mesi il problema del Mezzogiorno. Era sopravvissuto alla prigionia in un campo di concentramento nazista e definiva il comandante, un colonnello delle SS, «una brava persona, un buon padre di famiglia». Ciapacan era considerato un piccolo borghese conformista. Anche Auco lo ritenne tale fino al giorno in cui lo vide, in piena rivoluzione blablale, percorrere i corridoi della scuola con il «Giornale» di Montanelli nella tasca del camice.

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Auro rincontrò, in Portineria, due suoi insegnanti della scuola di avviamento: il professore di Legno e il professore di Ferro. Erano così chiamati i due istruttori addetti alle officine di falegnameria e di aggiustaggio, rispettati dagli studenti per le loro capacità tecniche, anche se possedevano soltanto la licenza elementare. Il primo era un valente ebanista e il secondo un provetto tornitore; per gli studenti, tutti gli insegnanti erano professori, da cui i curiosi appellativi. 10. Il personaggio più famoso della Portineria era Teofilo Ghisetti, un vecchietto di piccola statura, forte e agile come un torello. Era un bidello sui generis occupandosi, con risultati disastrosi, della centrale termica a carbone, degli impianti idraulici e di piccoli lavori di manutenzione. Falciava l’erba del prato interno e curava l’orto e il pollaio del signor Giuseppe. Aveva lavorato per breve tempo nei laboratori chimici e raccontava i suoi interventi decisivi durante lo svolgimento di delicate ricerche, storpiando i nomi dei prodotti chimici, offuscando il «cloruro demonio» e la «tintura d’odio» citate da Primo Levi ne «Il sistema periodico». La principale occupazione di Teofilo era però quella di raccontare storie mirabolanti di cui era stato protagonista assoluto, alla maniera del barone di Munchhausen con la spudoratezza di Bertoldo. Originario di Montecchio, nel Reggiano, affermava essere nato a Montecchio Maggiore e discendente dei Signori del luogo; di scarsa memoria, confondeva spesso Montecchi con Capuleti per cui un giorno era pronipote di Giulietta, un altro di Romeo. Una volta, messo alle strette da chi lo contestava, giunse persino a rivendicare come antenato un figlio segreto degli sventurati amanti, sconosciuto anche a Luigi da Porto e a Shakespeare. La fantasia di Teofilo si scatenava quando l’uditorio era numeroso ed in particolare quando qualcuno cercava di sbugiardarlo rimarcando le vistose contraddizioni. A suo dire, aveva esercitato le funzioni più disparate in ogni parte del mondo. In Portineria si parlava della Resistenza? Ebbene, si intrometteva dichiarando di aver combattuto come partigiano ma nella prima guerra mondiale. Un elenco incompleto delle sue attività: «primo acrobata» nel circo Orfei, tecnico del laboratorio di Igiene e Profilattici, barbiere da donna, cavallerizzo (mozzo di stalla, ndr) nelle «smisurate

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scuderie» dei principi Borromeo, sull’isola Virginia (uno scoglio di pochi metri quadrati nel lago di Varese, ndr). Il signor Giuseppe, quando Teofilo partiva lancia i resta con i suoi racconti, assumeva la parte di avvocato del diavolo pungolandolo, contraddicendolo, sollecitandolo ad escogitare nuove menzogne per giustificare le precedenti. Teofilo, messo alle strette, elencava i testimoni a difesa, in genere defunti da anni o emigrati in terre lontane. Soltanto una volta potè cantare vittoria poichè molti assistettero ad una sua performance. In portineria si parlava di un prossimo comizio dell’onorevole Greppi, sindaco di Milano nell’immediato dopoguerra. Ovviamente Teofilo dichiarò subito di essere stato per anni uomo di fiducia dei nobili Greppi e di aver cullato sulle ginocchia l’onorevole quando era ancora tenero infante, come del resto sosteneva di aver fatto con altre persone importanti. Al comizio, stupiti, lo si vide apparire sul balcone del Municipio, con aria compiaciuta, alla destra dell’oratore. Aveva incastrato i colleghi e lo dimostrava con smorfie e strizzatine d’occhio. Prima del comizio - si è saputo in seguito - lo sfrontato si era presentato a Greppi professandosi socialista e informandolo di essere stato devoto giardiniere nella sua casa di campagna. L’onorevole, anche se non l’aveva mai visto, si suppone per gentilezza e con un pizzico di demagogia, l’aveva voluto accanto a sè per tutta la durata del comizio. Da quel giorno, il repertorio di Teofilo si arricchì di un nuovo episodio, la cui autenticità non poteva essere messa in dubbio, considerati il numero e l’attendibilità dei testimoni. Nei suoi racconti tutto era eccessivo: le persone erano sempre personalità, gli animali iperbolici, come un gallo di oltre venti chilogrammi che aveva assalito la figlia tentando di spogliarla, successivamente fuggito per il rimorso lacerando la rete del pollaio con gli speroni. In pace e in guerra Teofilo aveva compiuto imprese memorabili, sempre in contatto diretto con importanti personaggi, dal ministro della real casa Falcone Lucifero al brigante Antonio Gasparoni, con cui aveva attraversato la Foresta Nera inseguito dai gendarmi borbonici. Aveva svolto mansioni di intendente nella villa di Guglielmo Marconi, a Pontecchio, sparando il famoso colpo di fucile nell’esperienza risolutiva; raccontava spesso lo storico avvenimento, infiorandolo di nuovi particolari ad ogni edizione e imprecando contro i biografi dello scienziato, rei di non aver mai citato il suo nome. Soldato semplice ma ovviamente in corpi speciali, aveva combattuto tanto nella prima quanto nella seconda guerra mondiale, rifiutando per

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modestia le promozioni sul campo. Altre volte raccontava di aver disertato per motivi politici. A questo punto compariva, nel racconto, un certo barone Visconti Sforza, ministro della guerra. L’importante personaggio, in marsina, cilindro e monocolo, incrociando Teofilo l’aveva «bonariamente ma con fermezza» redarguito con queste parole: «Affè mia, di te meravigliomi assai, o Teofilo. Orsù, che fai a Roraro quando dovresti essere giocoforza sul Carso a compier il tuo dover di patriotto? Ordunque, rispondi! Verbigrazia, comportandoti in codesto modo fai piangere la regina Margherita! Appropinquati, suvvia, mi punge vaghezza di inviarti all’impiccagione!». «Colpito al cuore da sì nobili parole», Teofilo era partito a piedi raggiungendo, dopo tre giorni di marcia forzata, la prima linea sul Piave. Tra i racconti di guerra il più noto agli studenti era quello del mulo (a volte asino, a volte cavallo) trainato da Teofilo carico di rifornimenti per una postazione isolata sul monte Grappa. Incurante del pericolo il nostro eroe, offertosi volontario per la rischiosa missione, sotto il martellare dell’artiglieria nemica era riuscito, sempre con lo sguardo in avanti, a raggiungere i commilitoni affamati, allibiti vedendolo impugnare la cavezza legata a ciò che rimaneva della testa dell’animale dilaniata da un missile. Troppo impegnato nella scalata, Teofilo non si era accorto di nulla. E se qualche ingenuo ascoltatore faceva notare che nella prima guerra mondiale i missili non esistevano, rispondeva che gli austriaci non soltanto erano armati di missili ma possedevano anche la bomba a dueterroni (deuteroni, ndr). Compiuta felicemente la missione, inforcati gli sci, Amedeo scese a valle ma, avvistato da una pattuglia di alpini austriaci, dovette seppellirsi nella neve, ove rimase tre giorni e tre notti respirando attraverso la canna del moschetto 91, cullato dal fruscio degli sci nemici - frush, frush - che gli passavano sopra la testa, Cessato il pericolo, il corpo ricoperto di ghiaccio, riprese la discesa ma, arrivato al campo, le sentinelle inorridite fuggirono urlando: «Il fantasma di Teofilo!». Un capitano dai nervi saldi, fortunatamente, lo riconobbe, lo abbracciò commosso e corse subito in tenda a stendere il rapporto, indirizzandolo direttamente al generale Diaz il quale, dopo qualche giorno, venne personalmente a congratularsi, accompagnato da un nugolo di alti ufficiali dello stato maggiore. Nel secondo conflitto mondiale Teofilo era stato internato in un campo di concentramento nazista; per le sue vaste conoscenze tecniche aveva potuto lavorare, e quindi mangiare, in una fabbrica dove si

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produceva una delle famose armi segrete. Himmler lo aveva sottoposto personalmente a spaventose torture, non riuscendo però a strappargli ove fosse il rifugio segreto del generale Badoglio, di cui manco a dirlo era stato l’attendente. Dopo tre anni di noviziato, ad Auco furono concessi la parola nelle conversazioni della Portineria e il diritto di partecipare all’annuale pranzo dei bidelli. Le inaspettate prove di fiducia lo rallegrarono, infondendogli un senso di sicurezza mai provato fino a quei giorni. Fuori scuola, finchè visse a Roraro, rimase il timido e complessato Gian Giovanni di sempre; entro le mura del Geranioli era nato Auco, rispettabile e rispettato bidello. Era questa l’atmosfera idilliaca dell’Istituto Geranioli prima dello scoppio della rivoluzione blablale.

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11. Trascorse qualche anno ed Auco dovette correggere alcuni suoi giudizi sul mondo della scuola. Rimase esterrefatto sentendo alcuni professori, dichiaratamente atei, dissertare serissimi su ariete e sagittario, pietre miliari di quell’ aberrazione del pensiero umano che fu l’astrologia. Alle soglie del Duemila - rimuginava - probabilmente la macchina del tempo di Wells è stata rimessa in funzione, direzione Medioevo. Scoprì in seguito che alcuni di loro, nello sciagurato Ventennio, scrivevano dio con la lettera minuscola ma, prudentemente, Duce con la maiuscola. Alcune professoresse, poi, dichiaravano apertamente di portare amuleti e di non prendere decisioni senza consultare la chiromante. Definivano la religiosità una forma di superstizione, accusando di idolatria le loro nonne oranti davanti alla statua della Madonna. Ma credevano negli oroscopi e nelle fatture, toccavano ferro o facevano le corna al passaggio di un funerale. Erano convinti dell’influenza nefasta degli ombrelli aperti in casa, delle scale a pioli e dei gatti neri. La fobia per questi ultimi ricordava ad Auco una vignetta di Jacovitti in cui, in un imprecisato Stato sudamericano, era in corso una fucilazione. Davanti ai condannati passa un gatto nero ed uno dei morituri, in spagnolo maccheronico, grida: «Un gato nigro! Ce porterà esfortuna!». Ma come biasimarli, riflettè Auco anni dopo, quando il primo TG2, che avrebbe dovuto calamitare l’attenzione di un pubblico non confessionale, stanco del clericalismo del TG1, terminava con l’oroscopo? Maturando sensibilmente, Auco divenne una specie di fratello maggiore degli studenti, meritevole di ascoltare i loro giudizi spietati sulla scuola e gli insegnanti. Molti di questi, non meno del 5 %, erano ritenuti aperti e preparati, impegnati a mandare avanti la baracca con tutte le loro forze, malvisti dal burocrati, per le continue richieste di macchine e apparecchi scientifici, e dai colleghi inetti. A differenza di questi ultimi, non pronunciavano mai la fatidica frase: «Per quello che mi passa lo Stato lavoro fin troppo». Auco ammirava molto la professoressa di Lettere Donata Eugenoli, valente scrittrice e traduttrice di romanzi. Era modesta e schiva e soltanto con pochi colleghi parlava di questa sua attività che la portava a frequentare grandi scrittori come Dino Buzzati e Guido Piovene. L’avere per collega

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una romanziera lasciava però del tutto indifferenti alcune saccenti prof che, per seguire la moda del tempo, leggevano faticosamente soltanto noiosissime opere di saggistica, senza capire un granchè. Insegnava chimica analitica una giovane signora siciliana, la prof. Giovanna Eliotropina, una delle poche amate e stimate dagli studenti. Era piccola di statura, graziosa e sempre elegante, di poche parole. Chi la conosceva soltanto superficialmente era portato a scambiare per superbia il suo atteggiamento riservato; era però obbligato a ricredersi quando aveva modo di apprezzare le sue doti di vera signora. Non era autoritaria ma autorevole. Il suo viso poco incline al sorriso incuteva negli studenti un certo timore. Tuttavia, molte studentesse le confidavano i loro problemi personali, trovandola sempre disponibile ad ascoltare e consigliare. Per la serietà e il rigore con cui svolgeva il suo compito, non fu mai contestata anche in piena rivoluzione blablale, a differenza di quanto accadde a certe sue colleghe soltanto in apparenza aperte ai problemi giovanili. L’insegnante più ammirato da Auco era il dott. Irnerio Palvezzi Tovi Manpeggi, ultimo discendente dell’ illustre casato bolognese, ordinario di chimica industriale e appassionato di letteratura spagnola. Comandante partigiano sull’Appennino, era scampato alla cattura, durante un rastrellamento, aiutato da una famiglia contadina: alcuni nomi dei componenti si possono leggere su una lapide del sacrario di Marzabotto. Insegnante per scelta, avendo rifiutato offerte di impiego remunerative, Palvezzi riusciva a trasmettere agli studenti il suo entusiasmo per la chimica, cercando di inculcare in loro il rispetto per la natura, senza per questo rinnegare le conquiste della scienza e della tecnica, come avrebbero fatto anni dopo gli ecoestremisti blablali. Agli studenti raccomandava chiarezza e concisione, citando spesso quanto scrisse il grande Mendeleev alla Società fisico-chimica russa comunicando la scoperta della legge periodica: «... disponendo gli elementi in ordine crescente di peso atomico, e andando a capo nello scriverli, si vengono a trovare in colonna gli elementi simili». «Ecco» - commentava - «Non è meraviglioso quel semplice, umile andando a capo nello scriverli usato per descrivere una scoperta costituente una pietra miliare nella storia della scienza? Ora, viceversa, quanto più una ricerca è futile, tanto più contorto e prolisso è il linguaggio usato nella relazione ... ».

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Palvezzi citava frequentemente - spesso poco compreso dagli allievi e ancor meno dai colleghi seriosi - alcune «leggi» attribuite ad un professore dell’università di Heidelberg di nome Edsel Murphy. Una di queste recita: «Se spiegate qualche cosa tanto chiaramente che nessuno possa fraintendervi, qualcuno fraintenderà». Il professore era una persona calma e tranquilla, non alzava mai la voce. Una sola volta Auco lo vide perdere le staffe. Fu quando un ricco imprenditore edile rorarotto, dopo avergli commissionato l’analisi dell’acqua del pozzo di un suo podere, rifiutò di pagare l’onorario essendo risultata non potabile. «Ma come» - sosteneva facendo il finto tonto - «subisco un danno perchè la mia acqua è imbevibile e mi tocca anche pagare, per giunta?». Palvezzi lo mandò al diavolo usando le più forti espressioni del Gamberini-Magli (Dizionario scatologico felsineo), con traduzione simultanea, come è costume di molti bolognesi. Tutto finì in Pretura ove Palvezzi - tra gli applausi del personale scolastico accorso in massa al processo - fu assolto per legittima difesa ed il querelante condannato a pagare le prestazioni fornitegli e le spese processuali. Un giorno arrivò al Geranioli una troupe televisiva per riprendere il laboratorio di un corso di specializzazione e Palvezzi riuscì a mantenere la calma anche in quella occasione. Il regista era un cretino e gli studenti si divertirono a sfottere il numeroso personale della RAI, una massa di incompetenti (sicuramente occupanti quel «posto» dietro raccomandazione del loro partito) che confondeva i cavi e sbagliava le luci. Si muovevano tra i delicati strumenti dei laboratori come elefanti in una cristalleria. Per le riprese sarebbe bastato un solo cameraman mentre erano otto, in trasferta da Torino ma parlavano in romanesco, il che faceva pensare a spese di trasferta ben maggiori (a carico del contribuente, naturalmente). Auco trovò in Palvezzi un padre spirituale laico e gli aprì il cuore, confidandogli le sue più che modeste aspirazioni: essere rispettato pur essendo una nullità, lavorare producendo qualcosa di utile, abitare in un luogo il più lontano possibile dalla via Marchetti con le sue radio a tutto volume. «Sì, apprezzo la sua onestà quando dichiara di valere poco o niente, ma non esageriamo!» - esclamò il professore - «Se tutti avessero una chiara consapevolezza dei propri limiti il mondo si fermerebbe. Gli

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insegnanti, a cominciare dal sottoscritto, smetterebbero di insegnare, i medici di curare i malati, gli ingegneri rinuncerebbero a progettare, gli artisti a creare, i politici di Roraro ... no, quelli continuerebbero a discutere di cose che non conoscono, spaziando dall’economia politica al sistema carcerario americano, dalla biologia molecolare alla telematica. Sa cosa scrisse Rossini? So di non essere Bach ma nemmeno Offenbach». Palvezzi raccontò ad Auco, tra altre cose, come svolse, in un laboratorio chimico dell’università di Roma, la prova pratica dell’esame di concorso per entrare in ruolo. I posti disponibili, in tutto il territorio nazionale, erano due. I sopravvissuti alla prova scritta dovevano individuare, in una miscela di sali, i cationi e gli anioni presenti. Nel corso delle analisi si scoprì che in tutti i campioni, diversi per ogni candidato, era presente il magnesio. Colto da un sospetto, memore dei film di ambiente romanesco, Palvezzi fece un rapido controllo dell’acqua distillata trovandola ricca di calcio e magnesio. Si trattava di comunissima acqua di rubinetto. I commissari controllarono ed accolsero le proteste degli esaminandi. Alla sera, passeggiando in centro, per scaricare la tensione Palvezzi e un collega si divertirono a simulare, usando un romanesco approssimato, un colloquio tra due bidelli incaricati di provvedere al rifornimento di acqua distillata. Giggi (dalla mascella cascante perchè tenere la bocca chiusa richiede un certo sforzo): «A Na’, chettedevodì?». Nando: «Chemmedevidì?» Giggi: «Nun me la sento, so’ tuto fracicato, sti botijoni so’ tropo pesanti!». Nando (con le mani a megafono): «Gige’, ciavemo una stancheza ... . Sai che famo?». Giggi: «Che famo?». Nando: «Con un tubo de goma colleghiamo i botijoni col rubineto de l’acqua e così non li dovemo solevare. So’ burini, nun se acorgerano de gnente ... ». La frequentazione dei laboratori chimici avvicinò Auco all’ affascinante regno della chimica, scoprendo un mondo straordinario in cui le sue certezze sul valore delle parole vennero sistematicamente frantumate. «Atomo significa indivisibile» - lesse; qualche pagina dopo si affermava che gli atomi sono costituti da particelle ancora più piccole. Incontrò gli acidi e le basi, ma nel momento in cui gli sembrò di capire la differenza tra le due categorie di sostanze, imparò che «un acido può comportarsi come una base, e viceversa, secondo le circostanze». Trovò anche una frase sibillina: «Si verifica una autoossidoriduzione quando alcune particelle di una sostanza agiscono come riducenti e si ossidano ed

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altre particelle della medesima sostanza agiscono da ossidanti e si riducono». Quindi, filosofeggiava tra sè, se tali contraddizioni esistono a livello degli atomi e delle molecole, perchè stupirsi di quelle di un organismo enormemente più complesso, la macchina umana, capace di commettere i più turpi delitti e nel contempo disposta a sacrificare la vita per amore, o in nome di una fede o di una ideologia? Anima candida, leggendo un capitolo dedicato ai carboidrati, fu colpito dal linguaggio scurrile usato nell’industria saccarifera, incontrando termini quali bagassa, scolo bianco, zucchero invertito, defecazione a secco. Con l’aiuto di Palvezzi, sia pure con una decina d’anni di ritardo rispetto ai coetanei, Auco maturò sensibilmente. All’Istituto Geranioli trovò nel lavoro l’unica ragione di vita, lontano dal mondo esterno e dai suoi orribili suoni. Nei giorni feriali viveva praticamente a scuola, nutrendosi di panini; alla domenica il signor Giuseppe gli apriva il cancello permettendogli di rifugiarsi in biblioteca. Chi non conosceva il motivo di tanta assiduità elogiava Auco per la sua dedizione alla scuola. Quando Palvezzi seppe che il ragazzo trascorreva anche le domeniche in Istituto, solo, senza amici, cercò di aiutarlo ad uscire dal bozzolo iscrivendolo al Club Alpino. Una domenica di primavera Auco fece la prima e ultima uscita. Al ritorno, i gitanti si adagiarono esausti nel cassone dell’autocarro, non esistendo ancora i pullman superluxe. Un certo Liduino, tenore del coro parrocchiale, iniziò a cantare, con una sgradevolissima voce da soprano, gioiose canzoni alpine, ripetendo più volte quella del soldato che elenca i destinatari dei pezzi del suo cadavere: la mia mamma, la mia bella mora, il mio capitano, ecc. Non resistendo allo strazio, quando Auco apprese che la sceneggiata si ripeteva puntualmente ad ogni gita e che nessuno, stremato per la fatica, aveva mai trovato la forza di uccidere Liduino, accantonò ogni velleità sportiva e tornò alle sue letture. L’acquisizione delle prime rudimentali nozioni sulle particelle elementari portò Auco ad elaborare, nientedimeno, una teoria per dimostrare l’esistenza di Dio. Cercò di esporla a don Ammonio ma non fu ascoltato, trattandosi di un argomento di nessun interesse per il sacerdote. Troppo fiero delle sue elucubrazioni per rassegnarsi a tenerle per sè, ne parlò con gli studenti della terza chimici C. Lo ascoltarono pazientemente.

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«Osservate» - pontificò - «la disordinata crescita di un albero. Sembra dovuta puramente al caso, come tanti altri fenomeni naturali. Ma passiamo al microcosmo. L’ albero, il terreno in cui sorge, i nostri corpi, i pianeti, le stelle, sono insiemi di atomi, a loro volta insiemi di protoni, neutroni ed elettroni. Consideriamo, per esempio, una delle tante particelle subatomiche, il protone. Ebbene, non esiste in tutto l’universo un protone diverso da un altro, sono assolutamente indistinguibili, hanno tutti, come sapete, la stessa massa (1,7·10-24 g) e la stessa carica elettrica (1,6·10-19 C). Tutto ciò può essere casuale? Trovo la prova dell’esistenza di Dio non nella varietà delle cose, ma nella perfetta eguaglianza delle particelle che le compongono». Ridacchiarono. 12. Il QBP (Quisquilie bazzecole pinzillacchere, omaggio al grande Totò) era il bimensile degli studenti dell’Istituto Geranioli, un vero giornale a stampa tipografica con fotografie, disegni e inserzioni pubblicitarie, in cui si rispecchiava il modo di sentire la scuola da parte degli studenti degli anni Sessanta. Vi si leggevano pettegolezzi, allusioni alle grazie e alle conquiste delle studentesse più carine, annunci economici tipo «Cercasi magazziniere disposto a rimanere per dieci minuti consecutivi in magazzino», satire degli insegnanti (lusingati di comparire sul giornale anche se beffeggiati). I redattori, pochi ma entusiasti, si occupavano anche di cose serie, come le interviste al preside e agli insegnanti (onore riservato a pochi eletti), rubriche fisse di critica teatrale, musicale e cinematografica, a dimostrazione di quanto sia falsa l’immagine, dipinta in anni successivi, dello studente dell’epoca. I redattori si occupavano accuratamente dell’ impaginazione; il risultato non aveva niente in comune con i futuri, sciatti «Ciclostilato in proprio, via del Carmine», interlinea 1 e 75 battute per riga, illeggibili tanto per la forma quanto per il contenuto, in cui la monotonia dello scritto era rotta soltanto dai buchi neri prodotti dalle lettere cave della portatile di don Furbetto, mai pulite a memoria d’uomo. Sul QBP, la rubrica più seguita era «La rassegna dei quintini». Ogni candidato all’esame veniva presentato in poche righe. I commissari d’esame, si favoleggiava, trovavano questi profili più attendibili di quelli ufficiali, ricchi di nebulose perifrasi, non potendo gli insegnanti dell’ultimo

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anno concluderli con Ammesso ma non capisce un. Qualche esempio: «G.S. Lo scorso anno ha chiesto alla commissione esaminatrice di concedergli un altro anno di esperienza e lo hanno accontentato». «G.B. Dopo l’insuccesso della fiamma d’amore è passato alla fiamma tricolore». «P.T. E’ ritenuto il disonore della classe data la sua appartenenza ai boy-scouts». «P.R.T. Svolge parecchie attività che completa con quella scolastica». «M.F. Ha il sorriso disarmante di colui che non sa quello che vuole». Spesso, i profili erano ripetitivi ma talvolta qualche caratteristica della vittima costituiva lo spunto per fare dell’umorismo alla Campanile. Bianca C. era una ragazza con un fisico da indossatrice mentre la sua compagna di classe Franca S. era stata svezzata con lasagne e zampone. Ebbene, il diabolico redattore del profilo aveva sentenziato: Sopra la Franca la Bianca campa. Sotto la Franca la Bianca crepa. Inaspettatamente, nel 1970, il lettori del QBP, abituati alle innocenti facezie sul tipo di quella citata, aprendo il giornale lessero esterrefatti: Cioè al limite vogliamo aprire un discorso configurandolo quale schema strutturale di una nuova soggettività proletaria per assumere la tematica dello sfruttamento e quella della circolazione gestendo nel contesto le contraddizioni interne a livello delle strutture coinvolgendo le masse popolari in una svolta concreta dialetticando con un lavoro di gruppo la ristrutturazione fuori e contro il sistema portando avanti conflittualmente un certo tipo di discorso a monte e a valle e anche tra il monte e la valle refertato alle attività prestazionali metascolastiche, parascolastiche, subscolastiche, anfiscolastiche, periscolastiche, extrascolastiche. «Nessun accenno alle attività scolastiche» - commentò Palvezzi. Seguiva un invito a partecipare ad una assemblea studentesca aperta anche a docenti e non docenti. La dichiarazione di intenti era partorita da un gruppo di Blablali, astutamente infiltrati nella redazione del QBP.

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I termini rivoluzione blablale e movimento blablale, coniati dal geom. Caseina, uno degli storici locali, sintetizzano il modo in cui a Roraro imperversò la contestazione globale. 13. Il movimento blablale degli studenti rorarotti era sorto per iniziativa di un gruppetto di insegnanti, essendo i ragazzi del tempo refrattari alla politica. In una riunione segreta furono indottrinati alcuni giovani vanitosi, con poche idee ma confuse, non molto portati allo studio delle materie scientifiche. Sarebbero diventati i capi del movimento. Uno di loro, a cui Palvezzi aveva chiesto la definizione di numero atomico [numero dei protoni presenti nel nucleo di un atomo, ndr], rispose «Cioè, secondo me, per numero atomico si intende quel numero che, rappresenta, cioè, nella misura in cui un atomo, per esempio quello del potassio, appartenendo questo elemento al primo gruppo della tavola periodica ... ». Fu interrotto da un gelido «Si accomodi» e ritornò stupito al proprio posto. L’insegnante più attivo nell’inculcare nei giovani il verbo rivoluzionario blablale, rendendoli consapevoli di vivere nella peggiore scuola e nella peggiore società del mondo, era approdato al Geranioli dopo aver chiesto invano di essere inviato come missionario nell’Africa Centrale: un vescovo, conoscendolo personalmente, aveva insabbiato la pratica. Per inciso, quel vescovo era di origine rorarotta. Privo del senso della misura come molti suoi concittadini, quando seppe che a Salisburgo esiste una Herbert von Karajan Strasse, omaggio della città al Maestro ancora vivente, si fece ritrarre in bronzo scala 2:1 e ordinò di collocare la statua nel cortile del seminario diocesano. Una notte, un ignoto seminarista, armato di vernice e pennello, scrisse HUMILITAS sul basamento. Il mancato missionario si chiamava Giorgio Indolo. Pur essendo intelligente e preparato, apparteneva a quella categoria di cattolici con la frenesia di soccorrere il prossimo, anche se questo non manifesta nessuna intenzione di essere aiutato. Ma lo faceva a modo suo, rabbioso contro tutto e contro tutti, auspicando ad esempio lo smantellamento dell’intero apparato industriale e, contemporaneamente, manifestando affinchè venissero aumentati di stanziamenti per gli aiuti al Terzo Mondo.

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Sembravano scritti per lui i versi di Roberto Mussapi: «Non c’è peggior / nemico dell’uomo / dell’animalista. / Dopo il filantropo, / naturalmente.» In un certo senso era in buona fede, animato dalle migliori intenzioni ma diventava pericoloso quando si agitava non tanto per i vecchi, i malati, gli immigrati, gli emarginati (di cui non gli importava nulla come persone) bensì per esaltarsi denunciando, discutendo, stigmatizzando e condannando la società colpevole di tante nequizie. Durante un’assemblea, Indolo sentenziò: «Questa scuola è da distruggere essendo il luogo dove i padroni vi indirizzano verso gli studi tecnici affinchè diventiate i loro servi». Commentò Palvezzi: «La République n’a pas besoin des savants, come disse il giudice condannando Lavoisier alla ghigliottina». Indolo aveva trasformato le sue lezioni in comizi contro il consumismo, l’inquinamento ed altri malanni che affliggono l’umanità, ma nel modo esasperato tipico dei fanatici. Gli studenti lo avevano soprannominato professore di Inquinatica. Gli scienziati, come è noto, sono divisi sul futuro del Pianeta: c’è chi sostiene l’avvento di una nuova glaciazione e chi il contrario, un surriscaldamento dovuto all’effetto serra. Il professor Indolo abbracciava alternativamente entrambe le teorie, pur di terrorizzare gli studenti con l’annuncio di imminenti catastrofi dovute - non aveva importanza - all’abbassamento o all’innalzamento della temperatura della Terra causati dal progresso tecnologico. «C’è del vero in queste prediche» - pensava Auco a proposito del consumismo - «persino i gatti della via Marchetti ora cacciano i passeri per puro divertimento, abbandonandoli una volta uccisi». Ma tornava con la memoria ai giorni di rigoroso digiuno impostogli, nell’infanzia, quando si ammalava. Cessata la febbre, tornava l’appetito ma la nonna a cui era affidato gli diceva «E’ una falsa fame. E’ la febbre mangina, sei ancora ammalato». E il digiuno proseguiva. Concludeva tra sè: «E’ vero, il consumismo è deleterio ma Indolo e i suoi seguaci non per questo devono descrivere gli anni della miseria come un paradiso perduto». Docente di chimica, Indolo classificava buoni i materiali e le sostanze naturali e cattivi i prodotti artificiali della grande industria. In questa ottica, inseriva nella prima categoria, oltre al nonadienale (a cui si deve il profumo delle viole mammole) anche il propantiolo (prodotto dalle puzzole) e persino i veleni dei funghi, l’acido formico delle formiche, l’oppio e la marijuana. Cattivi non erano soltanto l’acido formico della

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Montedison e i farmaci di sintesi e soprattutto i plastomeri e le tecnofibre. Indolo accusava persino la madre di Mosè di aver contribuito all’inquinamento del Nilo, poichè aveva deposto il figlio in un cesto di vimini spalmato con bitume e pece, materiali non biodegradabili. Palvezzi si permise di ricordargli pacatamente come siano poche le sostanze usate dall’uomo così come si trovano in natura; anche prodotti naturali come il latte, l’olio, la lana, la seta, il cotone, il legno sono utilizzabili soltanto dopo indispensabili trattamenti fisico-chimici. Tutto il resto è frutto di reazioni chimiche: sono artificiali, nel senso di prodotti frutto dell’opera umana, il pane, il vino, la birra, i farmaci, i laterizi, il cemento, le leghe metalliche ... . «Non accetto lezioni da un collega» - lo interruppe Indolo, gelido. Auco, quando sentiva criminalizzare la plastica, e non coloro che la gettano dappertutto insieme ad altri rifiuti, ricordava la sua infanzia e i poveri giocattoli di latta arrugginita e tagliente, veicolo ideale per il tetano, o di legno scheggiato, colorato con vernici contenenti solfuri di arsenico, impiegati da fabbricanti senza scrupoli per il loro basso costo. Indolo odiava la plastica anche perchè con essa si producono oggetti kitsch; in compenso, aveva «abbellito» il giardinetto con le statuine di gesso di Biancaneve e i Sette Nani e nel suo studio troneggiava una orribile riproduzione di una gondola, costruita incollando conchiglie. Ma il gesso e le conchiglie sono materiali naturali e tanto bastava. Coerente con le idee di una sinistra reazionaria cui apparteneva, Indolo auspicava un impossibile ritorno ad una civiltà contadina. Troppo occupato con il presente, sembrava non avesse mai sentito parlare delle carestie e delle epidemie così frequenti nell’epoca preindustriale, della sporcizia e del freddo in cui vivevano i poveri (oggi promossi al rango di non abbienti), un tempo la stragrande maggioranza della popolazione italiana. Questa idealizzazione del passato contadino ricordava ad Auco la retorica profusa nel libro di Stato di quinta elementare. Ai giovani lettori non parlava delle fatiche e degli orari di lavoro inumani cui era sottoposta la gente dei campi. I contadini comparivano, cantando liete canzoni, soltanto al momento dei pingui raccolti. Vinta la battaglia del grano, trebbiavano le messi dorate al punto giusto per volontà del duce. L’ illustrazione lo mostrava a torso nudo mentre gettava un covone nella trebbiatrice, circondato da un nugolo di questurini travestiti da contadini ma dalle facce inequivocabili. L’ uva cresceva e maturava spontaneamente

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in grappoli pronti per essere recisi dalle massaie rurali in divisa, al canto di «Quando scendi dai tuoi monti, paesanella / Ti sorridono le fonti [?] perchè sei bella», mentre le api frugano negli acini sparsi e ne escono sazie ronzando. In un consiglio dei professori, Indolo e altri blablali chiesero l’eliminazione dei libri di testo, da sostituire con appunti dettati dall’insegnante. Palvezzi li invitò pacatamente a leggere Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Quelli che l’avevano letto capirono che la proposta costituiva uno schiaffo morale. Un giorno, il signor Giuseppe raccontava ad Auco come, negli anni bui della guerra, in cui mancava tutto, nel laboratori chimici del Geranioli si preparasse il sale da cucina per reazione tra acido cloridrico e sodio carbonato, un’ assurdità dal punto di vista tecnico ed economico. Veniva poi distribuito al personale che lo barattava con pane e altri generi di prima necessità. La fase finale della storia venne udita per caso dal prof. Indolo; l’incauto, sentendo parlare di economia curtense, intervenne intonando laudi al buon tempo antico. Fu raggelato da un «Caro professore, lei è tanto giovane e inesperto ... . E’ convinto di vivere nel peggiore dei mondi al punto di osannare gli anni di guerra che non ha conosciuto, per sua fortuna! Vuol sapere cosa si cantava, a bassa voce, naturalmente, sull’aria di una canzonaccia squadrista? Quando Bandiera rossa cantavamo / Ben cento lire al giorno prendevamo / Adesso che si canta Giovinezza / Si va a dormire con la debolezza / Senza patate, senza fagioli / ... . Ha ascoltato le ultime parole? Non cantavamo «Senza salmone, nè fiorentine», ha capito? Al culmine delle nostre aspirazioni vi erano patate e fagioli! ». Indolo se ne andò offeso, senza controbattere. 14. Ebbe luogo la prima assemblea studentesca, novità assoluta al Geranioli. Non mancava nessuno. La maggioranza dei non iniziati credeva ingenuamente venissero discussi argomenti riguardanti la scuola. Ovviamente non fu così. Aprì la seduta lo studente Scatolo Sergio della IV Meccanici - altezza 1,85 m, torace in proporzione, nove in educazione fisica ma scarsino nelle materie tecniche - mandato allo sbaraglio dai congiurati. D’ora in poi, le

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parole volgari del linguaggio blablale saranno sostituite con i termini anatomici e fisiologici corretti. «Pene!» - esordì Scatolo - «Sia kiaro ke ci siamo riuniti, prostituta Eva, in questa skuola di feci molli, per dialoghizzare del falli nostri, no? Siamo impenati ma non feci dure, verga, e sappiamo ke tutti hanno il diritto di dire penate in pubblico! Esclusi i fascisti del fallo, no? E sia kiaro che per noi sono fascisti missini, liberali, demokristiani, socialdemokratici, repubblikani, socialisti, komunisti ed altri partiti del pene che ci dissociano le ghiandole seminali!» Per un fenomeno otticacustico mai chiarito, si leggevano le kappa nella sua voce. Scatolo continuò su questo tono per un quarto d’ora e concluse: «Chi fa da sè fa per tre ma l’unione fa la forza! Quando kala la notte i nottambuli si aggiornano!» [Il secondo slogan non l’ aveva ben compreso nemmeno il suo ideatore, ndr]. Non ancora vaccinati, come oggi, contro un simile linguaggio, i presenti in un primo tempo ammutolirono, mentre tra i fondatori del movimento si profilava la prima di una lunga serie di scissioni. Poi, alcuni chiesero e ottennero la parola. Il primo oratore fu don Ammonio. Coerente con il suo soprannome, avendo annusato il vento e capito prima degli altri da che parte stesse soffiando, elogiò la magistrale introduzione di Scatolo auspicando, sottolineando, coinvolgendo, ribadendo e stigmatizzando. Parlò ininterrottamente per mezz’ora, senza dire praticamente nulla, ma in modo eccellente. Da quel giorno, per tutta la durata della rivoluzione blablale, la via del Carmine, da cui si accedeva alla sagrestia della chiesa arciprepositurale, fu percorsa notte e dì dai galoppini dei più stravaganti movimenti. Si ridussero le spese sostenute da don Ammonio per riscaldare il locale: il ciclostile a disposizione dei blablali grafomani, ruotando ininterrottamente, sostituì egregiamente la stufa a cherosene. Dopo il sacerdote prese la parola uno studente, il cui cognome non risulta dai verbali dell’assemblea. Molti rivoluzionali erano infatti scognomati, come diceva Totò. Qualificatosi Luca, il ragazzo si autodefinì democratico periferico, cioè contrario al centralismo democratico,

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proponendo l’abbattimento delle centrali nucleari, termoelettriche, idroelettriche, geotermiche e del latte. Poli Ester, una ragazza della V chimici B, in preda ad una crisi isterica, si scagliò contro i produttori di fibre sintetiche, auspicando un ritorno all’uso esclusivo di quelle naturali. Proclamò nel contempo la sua solidarietà con gli operai in sciopero della «Poliammidine SpA», che sorgeva in un paese vicino a Roraro. Ascoltandola, Auco rivolse un pensiero di gratitudine all’ing. Wallace H. Carothers, l’inventore del nylon, a cui doveva i suoi calzini praticamente indistruttibili. Ricordò gli anni di scuola, quando allentava la cintura dei pantaloni affinchè scendessero fino a nascondere i buchi nelle calze di cotone. Ricordò anche sua madre quando esclamava con ammirazione, alludendo ad una sua ricca amica: «Porta le calze di seta!». Infatti, prima dell’avvento delle tecnofibre, soltanto le signore (leggi «ricche» e spesso poco «signore») indossavano le calze di seta mentre le «donne» (così venivano chiamate le non abbienti) non usavano calze lunghe e al massimo, nella stagione fredda, indossavano calze di lana infeltrita dai ripetuti lavaggi con sapone, un altro prodotto rimpianto dai blablali. Ora, - rifletteva - le calze di nailon sono alla portata di tutte le borse e molto più resistenti di quelle di seta, ormai indossate soltanto da qualche snob. Alla Poli Ester, tra urla e fischi, rispose il prof. Palvezzi: «Se volessimo vestirci di sola lana, tutta la superficie dell’Europa dovrebbe essere destinata a pascolo; se volessimo indossare soltanto indumenti di cotone, enormi superfici di terra verrebbero sottratte alla coltura dei cereali!». Un insegnante tecnico, sostenendo che rosso è progresso, propose di invertire il significato dei colori dei semafori: avanti con il rosso e alt al verde. Fu contestato da Indolo, il quale sostenne che il colore del progresso è il verde. Aggiunse una proposta dirompente: trasformare i funerali in festeggiamenti poichè «quando muore qualcuno, si verifica una leggera flessione sulla curva discendente delle risorse alimentari ed energetiche del Pianeta».

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Un allievo dei corsi professionali per infermieri urlò: «Dicono che questa è una scuola di feci e che deve essere distrutta: con una dieta appropriata cerchiamo intanto di migliorare le feci!». Fu accolto con una bordata di fischi e bollato come riformista, termine infamante, in quel tempo felice. Seguirono caotiche votazioni per alzata di mano sulle mozioni più strampalate e si costituì lo «Scuotimento dei Discenti», sembrando ai promotori troppo chiaro, e perciò banale, denominarlo «Movimento Studentesco». Ma suonò la campanella e la maggioranza dei convenuti se se andò. Rimasero soltanto i capi e qualche attivista a votare la seguente mozione, poi risultata approvata all’unanimità da tutta l’assemblea:

L’assemblea dello Scuotimento dei Discenti PRESO ATTO

della necessità di portare avanti un discorso a livello AUSPICA

al limite il coinvolgimento della comunità per realizzare sè stessa in misura esperienziale

DENUNCIA l’ingerenza degli Stati Uniti d’America nelle vicende interne dell’ Istituto Geranioli di Roraro

SI OPPONE alla gestione verticistica di base delle strutture

RIBADISCE la sua opposizione al sistema Delegato plenipotenziario della CIA, sezione di Roraro:

GO HOME !

15. La prima assemblea sembrò ai più essere anche l’ultima, considerata la latitanza di argomenti seri su cui impostare un dibattito. Ne furono invece convocate molte altre, in orario scolastico, ad un ritmo impressionante, con gli ordini del giorno più strani e futili. Sergio Scatolo fu defenestrato e i professori rivoluzionari nominarono leader degli studenti un certo Arsenio Mercaptani della III chimici B. Formalmente, risultava eletto dall’assemblea sovrana.

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Mercaptani era un giovane brutto, miope, occhiali con la montatura di sinistra, malrasato, capelli lunghi d’ordinanza. Era affetto da sigmacismo (il cosiddetto pifello), particolare comune a molti estremisti del tempo. (Le più bizzarre teorie, elaborate da alcuni sociologi per spiegare il fenomeno, non hanno mai trovato credito presso gli studiosi). Tra i partecipanti alle caotiche assemblee, Mercaptani era l’unico capace di mettere insieme quattro parole comprensibili, con un numero di cioè, di discorso, di a livello e di parolacce abbastanza contenuto. Pur dichiarandosi proletario - come imponeva le retorica del tempo - era un proletarista, un borghese nel senso più deteriore del termine, figlio unico del proprietario della «Roraro Carri». Non era questa una fabbrica di carri e carretti agricoli; la ragione sociale della ditta derivava dall’inglese car. Per una certa educazione ricevuta in famiglia e discrete possibilità economiche, Arsenio era inevitabilmente portato a sottomettere i compagni, in maggioranza autentici proletari. Non mancava di referenze. Qualche giorno prima dell’investitura, insieme a pochi coraggiosi, aveva compiuto tre giri intorno all’autosalone del padre, scandendo slogan rivoluzionari. Per distruggere il sistema - altro slogan ricorrente in quei tempi remoti - Mercaptani entrava a scuola sistematicamente in ritardo, con supponenza. Indugiava per qualche minuto davanti alla portineria e si poneva in capo - per dimostrare il suo disprezzo per le istituzioni - il berretto a cupola alla Lucio Dalla, in voga a quel tempo. Il signor Giuseppe, nauseato da queste manovre, un giorno lo aspettò al varco declamando ad alta voce dei versi di Pasolini letti su l’ «Espresso»: «Avete facce di figli di papà. / Vi odio come odio i vostri papà. / Buona razza non mente. / Avete lo stesso occhio cattivo ...». Mercaptani finse di non sentire, non volendo abbassarsi a discutere con il custode di un edificio di proprietà dello Stato repressore. Nessuno aveva mai visto Arsenio ridere, o sorridere, ma soltanto sghignazzare; ciò si verificava tutte le volte in cui era costretto ad ascoltare, incapace di ribattere, le tesi degli avversari politici, cioè tutto l’arco costituzionale e gli indifferenti. Camminava con passo strascicato e parlava lentamente, pronunciando rabbia, furore, violenza ed altre dure parole con una flemma più adeguata alla descrizione di un tramonto. Arsenio passava la sua giornata nel Bunker. Era così chiamato un seminterrato usato come ripostiglio, teoricamente messo a disposizione di

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tutti gli studenti, ma accessibile soltanto ai pochi attivisti dello Scuotimento. Il leader si incontrava talvolta anche in classe, semisdraiato sul banco ma, stranamente, soltanto quando veniva convocato dal Capo d’Istituto, per consultazioni, attraverso gli altoparlanti. (Il buon preside subentrato all’ing. Stalagmone aveva chiesto e ottenuto il trasferimento in altra sede. Il successore era un giovane intelligente e scaltro). Senza rivolgere uno sguardo ai compagni e all’insegnante, Mercaptani si alzava lentamente ed usciva in silenzio, cosciente dei gravi compiti che lo attendevano. Non sospettava, poveretto, di essere un burattino manovrato dall’astuto preside. Arsenio appariva talvolta anche in laboratorio, ove i compagni eseguivano con entusiasmo le ricerche dei componenti una miscela. Riposava per qualche tempo appoggiato al suo - diciamo così - posto di lavoro, sfinito per l’energia spesa nel comporre invettive in versi. (Non è facile trovare parole, oltre le scontate fogne, che facciano rima con carogne). Poi, tornava nel Bunker ritenendo disdicevole, per un futuro perito chimico, sporcarsi le mani con i reagenti. Tanto, e comunque, una volta terminato il lavoro, una delegazione di classe si sarebbe recata nel Bunker con la relazione sull’opera svolta. Assertore del lavoro di gruppo, uno dei cavalli di battaglia dei rivoluzionari blablali, Mercaptani apponeva la sua firma accanto a quelle dei compagni. Quando Auco seppe della nomina a leader di Mercaptani, anche se in primo momento aveva dimostrato simpatia per lo Scuotimento, giudicando oltremodo positivi l’anelito di libertà e la volontà di spazzare via gli ammuffiti costumi borghesi ottocenteschi, prese le distanze da quel gruppo di fanatici, diventando così automaticamente «nemico del popolo». A colleghi e studenti diceva: «Brutto segno, hanno scelto come condottiero un lavativo scansafatiche, abile nello sfruttare il lavoro dei compagni». Non sapeva di parafrasare Leo Longanesi: «Non sono le idee che mi spaventano ma le facce che rappresentano quelle idee». Infatti, avrebbe poi raccontato il prof. Palvezzi ai suoi figli, «mai come in quegli anni, a Roraro, tante cose giuste furono proclamate dalle persone sbagliate e la malafede di alcuni rivoluzionari respinse anzichè attrarre molti potenziali proseliti. Ancor oggi, per come sono stati allora presentati, molta gente prova avversione per i problemi ecologici». Arsenio Mercaptani si diplomerà perito chimico industriale capotecnico svolgendo il tema di Italiano, preparato dai burocrati del

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Ministero prontamente adeguatisi al nuovo corso, e presentando una tesi sperimentale. Tema. Il metodo partecipativo auspica il riorientamento delle linee di tendenza in atto secondo un modulo di interdipendenza, ipotizzando e perseguendo, in ambito omogeneo, ai diversi livelli, una congrua flessibilità delle strutture. Svolgimento. Coerente al tema, con ripetute citazioni di certi Kraxi, Kossiga e Kossutta e di una non ben precisata area laika. Tesi sperimentale. Analisi chimica di un film plastico usato per il trasporto delle derrate alimentari dalla produzione al consumismo nei Paesi ad economia mista. Studenti: Collettivo Rivoluzionario Filoneista della classe V C, sez. chimici industriali. Leader: Riv. Fil. Mercaptani Arsenio. Relatore: Chiar. Prof. Riv. Fil. Indolo Giorgio. Nella sua monumentale opera sul protocapitalismo lo Hart(1) accenna ad una deplorevole abitudine degli uomini dell’età del bronzo: il trasporto delle banane, dall’albero alla caverna, avvolte in foglie di banano, forse il primo esempio di contenitore a perdere. In tempi meno remoti, i sacerdoti di Baal lanciano invano anatemi contro le schiave, colpevoli di trasportare l’olio di sesamo apriti, acquistato al mercatino rionale di Sidone, non nella cavità delle mani bensì in otri di materiale plastico ricavato dalla gobba dei dromedari. Anche un lavoro di Jacovitti(2) e un film di Cerchio(3) mostrano quanto sia antico l’uso di anfore per il vino, canestri per la frutta, ampolle per balsami ed altri prodotti delle antiche civiltà consumistiche. [Seguono duecentosessantacinque pagine di cui ben tre dedicate alla parte sperimentale, ndr].

(1) Hart, Johnny - L’antichissimo mondo di B.C. - Milano, 1960. (2) Jacovitti, Benito - Pippo, Palla e Pertica e i gladiatori - Milano, 1961. (3) Cerchio, Fernando - Totò contro Maciste - Roma, 1962. 16.

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Negli anni Settanta, la popolazione scolastica dell’Istituto Genarioli aumentò notevolmente, con un corrispondente aumento del personale. La pace regnante da sempre in Istituto tra studenti, professori e bidelli, sotto la spinta rivoluzionaria dei Blablali, divenne guerra aperta. Auco potè osservare da vicino, nel bene e nel male, l’evolversi della situazione. Ebbe modo di conoscere alcuni strani tipi sbarcati al Geranioli, quasi tutti neolaureati e neodiplomati. Tra gli insegnanti, i nuovi venuti erano in maggioranza demotivati, considerando l’insegnamento come un impiego di serie C. «Tuttavia» - sosteneva il signor Giuseppe - «come biasimarli quando il personale scolastico è premiato, a distanza di anni dalla firma dei contratti di lavoro, dopo una serie di scioperi, con anticipi sugli arretrati?». «Alcuni dei nuovi insegnanti» - racconterà Palvezzi - «erano abilissimi nel redigere i programmi preventivi, poi non svolti per incapacità di organizzare il lavoro, a differenza dei docenti più anziani, i quali consideravano ipocrita mettere per iscritto ciò che soltanto in parte avrebbero potuto sviluppare nel corso dell’anno scolastico». Gli anziani meno furbi furono sconvolti sentendo parlare di «adeguata sistematizzazione, in blocchi tematici, dei contenuti di carattere fenomenologico operativo e delle correlazioni e/o interdipendenze metodologiche». Per qualche tempo si sentirono dei sopravvissuti, incapaci di adeguarsi al presente. Ma quando si accorsero che il linguaggio dei nuovi arrivati era soltanto una cortina fumogena, ripresero fiducia. Scriverà Giulio Nascimbeni: «... evitano la semplicità come se fosse un vizio disonorevole e lo fanno con autorevole sprezzo del ridicolo». Stanco di essere trattato con sufficienza dalle nuove leve, Palvezzi chiese di leggere, durante una riunione dei docenti, un «blocco tematico» dedicato ai tre stati di aggregazione dell’acqua. Tra lo stupore dei presenti, esordì, serissimo: «Finalità generali. Il curricolo interdisciplinare specifico, la propedeuticità e la complementarietà intercorrenti tra il ghiaccio, l’acqua liquida e il vapor d’acqua, tenendo conto dei prerequisiti dei discenti, della esigenza di raccordo tra le acquisizioni già in loro possesso e quelle nuove, che riflettono spesso la logica interdisciplinare specifica, devono conferire un taglio che consenta una apertura in varie direzioni, con possibilità di approfondimento in senso ecologico-ambientale, igienico-sanitario, agroalimentare, chimico-biologico, energetico alternativo.

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Obiettivi generali. La presentazione organica ed armonica delle correlazioni e delle interdipendenze tra i tre stati fisici dell’acqua sono volte alla formazione della personalità dei giovani per le potenzialità formative e culturali da essi intrinsecamente possedute; inoltre, attraverso lo studio e l’osservazione dei fenomeni di fusione e vaporizzazione, i discenti potranno acquisire una realistica immagine della natura della scienza, pur nel mantenimento di una corretta articolazione di ciascuna delle tra fasi (solida, liquida e gassosa) e in stretto raccordo ... ». Non potè continuare, subissato dagli applausi. Da quel giorno, molti giovani colleghi chiesero umilmente il suo parere prima di depositare in presidenza il programma preventivo, ed egli si divertì a suggerire piani di studio ancora più balordi e insensati di quello proposto. Uno degli ultimi acquisti del Geranioli era il professor Michelangiolo Proteano (Disegno tecnico). Rorarotto narcisista, godeva visibilmente quando apponeva la sua firma su registri di classe, verbali, petizioni ed altre scartoffie. Imperversava ovunque anche con il pennarello ed il suo nome era tristemente noto ai sovrintendenti alle Belle Arti. Colpiva ovunque. Chi avesse tempo da perdere può trovare la sua firma, accanto a quelle delle solite coppiette, sopra un piedone del Mosè di Michelangelo, su un sarcofago in S. Apollinare in Classe, sugli affreschi di Masolino a Castiglione Olona, sulla tomba di Ilaria del Carretto nel duomo di Lucca. Michelangiolo aveva vinto il terzo premio in un concorso di pittura, indetto dalla Pro loco di Roraro, «... per l’originale contributo neomoderno, senza ripiegamenti e ineleganze decadenti di sfocati pittoricismi, tracciato come punto di cronaca in larga misura privo di pesantezze metalliche, in splendida ambiguità tra la bidimensionalità dell’affresco e la tridimensionalità del duroplasto. Pur risentendo di una certa accademicità formale, le sue esangui figure costituiscono una somma di concrezioni che evidenziano una coagulazione del caos cromatico fortemente incisiva; i segni si affollano intorno ad un sentimento come il baluginìo di una umanità perduta». Come scrisse Ennio Flaiano, l’Italia è il paese dei geni compresi. Non disponendo di altri mezzi per accattivarsi la simpatia dei giovani, Proteano ricorreva alla demagogia. Quando entrava in classe faceva togliere la pedana sotto la cattedra, a suo parere simbolo del potere e non semplice accorgimento tecnico. Essendo piuttosto piccolo di statura era

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quindi costretto, tra le risate degli allievi, a salire su uno sgabello quando doveva usare la lavagna, inchiodata al muro dietro la cattedra. Un altro tipo strano era il professor Aldo Pentosi; insegnava matematica aprendo stancamente le pagine del libro di testo ed indicando ai ragazzi i numeri degli esercizi da svolgere. La sua vera passione era la dietrologia. Anche il più stupido avvenimento era, secondo lui, frutto di intrighi e ricatti «caratteristico atteggiamento degli individui del suo stampo» - commentò Palvezzi - «incapaci di ammettere il successo di un collega dovuto alle doti personali anzichè all’intervento di un personaggio influente». Era autore di un manuale di dietrologia, inedito, povero di definizioni ma, come richiedeva la materia, ricco di allusioni. Sfogliando il dattiloscritto, si incontravano velati accenni a rapporti omosessuali tra il sindaco di Roraro e quello di New York, a cui si doveva un piano di aiuti economici all’Italia. Più avanti si parlava di cospicui finanziamenti, da parte delle Cartiere Artigiane Riunite, ad un movimento ecologista, affinchè impostasse una campagna di stampa contro il polietilene usato per i sacchetti della spesa. Grandi e piccoli editori avevano rifiutato di pubblicare il lavoro sospettando si celasse, in quell’ammasso di idiozie, il messaggio di qualche potente, interessato alla pubblicazione del manuale per oscuri e inconfessabili motivi. Il professor Giorgio Indolo aveva invece stampato un saggio, a sue spese, prima in ciclostile e poi con la pedalina della Stamperia Artigiana Rorarotta. Per l’occasione, la piccola tipografia cambiò ragione sociale divetando Editrice Tipografica Rorarotta. Titolo del libro: «Discorso sul lied attribuito al cosiddetto Maestro di Mahler: E la Mariana la va in campagna / Fin ch’el sol tramonterà tramonterà tramonterà / Chissà quando chissà quando ritornerà». L’opera, di cui esiste ancora qualche copia nel bunker del Geranioli, fu così segnalata sull’Eco di Roraro da un avversario politico: «L’A. ribadisce e sviluppa la sua ideologia di retroguardia, confrontando spudoratamente la protagonista della popolare filastrocca con la donzelletta leopardiana. La Marianna, sottolinea l’A., non vien dalla campagna in sul calar del sole, ma va in campagna e si trova così bene che non si sa quando ritornerà. In oltre ottocento pagine viene tessuto l’elogio del tempo che fu, quando la Marianna si alzava ogni giorno prima dell’alba e faceva un po’ di footing, percorrendo gioiosa con la vanga in spalla i cinque kilometri che

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separavano il campo dal suo tugurio. Poi iniziava a zappare, continuando fino al tramonto, in una campagna non contaminata dai trattori e altre macchine inquinanti. In realtà, come testimoniò un pronipote, la Marianna è vissuta maledicendo con parole irriferibili l’essere nata contadina; a trent’anni ne dimostrava sessanta, sdentata, il viso solcato da profonde rughe scavate dai benefici raggi UV dei campi, il corpo deformato dai parti, il rachide ridotto a S dal peso del gerlo». 17. I pochi bidelli del decennio precedente la rivoluzione blablale erano maestri nell’arte di defilarsi quando si profilava un lavoro, ma con un certo stile, consapevoli di sbagliare. Inoltre, non avrebbero mai denunciato un collega al capo del personale. Per effetto della rivoluzione, vecchi e nuovi bidelli incattivirono, mettendo tutto in discussione. Si scannarono a vicenda, imprecando contro gli studenti imbrattatori, i professori che tolleravano lo scempio o addirittura collaboravano, il preside che non sapeva far rispettare i regolamenti (agli altri). Perso ogni pudore, oziavano tutto il giorno riuniti in gruppi, discutendo ad alto volume sui diritti dei lavoratori e sui ritardi nella corresponsione del «compenso per lavoro straordinario» , una sorta di fringe benefit per i poveri, ma uguale per tutti. Un’altra occupazione dei bidelli era quella di radunarsi davanti ad una finestra, commentando e criticando ad alta voce i metodi di lavoro di alcuni muratori intenti ad erigere una nuova ala dell’Istituto. Gli edili, quattro omaccioni che lavoravano per otto, furibondi rispondevano con insulti feroci agli otto bidelli che occupavano due posti previsti dalla pianta organica del Geranioli. Il portavoce della categoria dei non docenti era ovviamente l’ultimo arrivato, Capranica Nando, romano de Roma, viso rotondo, barba nera, occhiacci cattivi; ricordava vagamente un noto leader del Movimento Studentesco del tempo. Un corridoio dell’Istituto, dopo alcuni lavori di ampliamento, risultò lungo esattamente cento metri. Tre bidelli provvedevano alla sua pulizia e tutto andò liscio fino a che prese servizio Porfi Rina, una fanatica della pulizia. Ex-secondina in un carcere femminile, per deformazione professionale non sapeva parlare ma soltanto urlare a squarciagola. Auco la sentì da lontano confidare ad una collega un sospetto ritardo delle

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mestruazioni della figlia. La Porfi, più portata alla prevenzione che alla cura, divenne il terrore di studenti e professori, lanciando urla terribili quando gettavano dappertutto mozziconi di sigarette, cartacce ed altri rifiuti. Nessun professore filoneista avrebbe mai osato dichiararsi contro la libertà di imbrattamento. «Misteri delle ideologie» - notò Palvezzi - «i più assidui nell’ usare aule, corridoi e scale come pattumiere sono proprio gli studenti più vicini a Indolo, il mio collega ecologista». La Porfi, incaricata di sostituire uno dei tre bidelli addetti al lungo corridoio, pretese che il suo terzo venisse esattamente delimitato, non un centimetro di più, non un centimetro di meno. Dopo una interminabile assemblea in cui si parlò anche dei servizi segreti americani, i bidelli pretesero dalla presidenza l’inserimento, nel pavimento, di due lamine di ottone a 33,33 m di distanza. Da quel giorno, due terzi del lungo corridoio apparvero più sudici di quanto non fossero, per contrasto con il terzo della Porfi, tirato a specchio. Dopo qualche giorno dall’installazione dei confini, tuttavia, le discussioni ripresero: le lamine di ottone erano troppo larghe (circa mezzo centimetro) cosicchè non appariva chiaro chi dovesse pulirle. In una seconda assemblea fu deciso di praticare, dopo misurazioni più accurate, una sottile incisione sulle lastrine. L’incidente di confine fu poi dimenticato ma le urla ripresero più forti di prima, per motivi ancora più futili. Al Geranioli, per effetto della rivoluzione blablale, gli alti e i bassi, i grassi e magri, i colti e gli ignoranti, insomma ogni persona, animale e oggetto vennero classificati in due categorie: filoneisti e foboneisti. Erano filoneisti, per autodefinizione, i rivoluzionari blablali ma anche il pastore tedesco, i capelli lunghi, i maglioni e le sciarpone di lana, la chitarra, lo zucchero di canna, la Citroën Dyane, la grappa, il pandoro, l’eroina, gli zoccoli. Furono definiti foboneisti tutti i partiti politici, la cravatta, la riga dei pantaloni, le lenti a contatto, il panettone, lo zucchero di bietola, la cocaina, le scarpe con le stringhe. Venne targato foboneista anche il professor Palvezzi, un uomo che aveva combattuto in montagna per liberare il Paese da una dittatura cialtrona e preparare un mondo migliore per chi, allora non ancora nato, ora lo contestava. Le definirono retrogrado perchè detestava le chiacchiere, amava la sua professione e non tollerava comizi nei laboratori chimici.

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Auco, sfidando le ire di Mercaptani, diceva agli studenti dello Scuotimento con i quali era possibile dialogare, ma soltanto in privato: «Non potete dividere il mondo in buoni (voi e la classe operaia che non conoscete) e cattivi. Non esistono due persone sulla Terra aventi le stesse impronte digitali, lo sanno tutti». Incalzava: «Lo avrete studiato. Quando una persona mangia una bistecca, scinde le proteine della carne negli amminoacidi che le compongono, ricostruendo nel proprio organismo nuove proteine per così dire personali, diverse da quelle prodotte da chiunque altro mangi la stessa bistecca» . «Pregiudizi borghesi» - rispondevano. Auco tornava alla carica citando loro persino il principio di indeterminazione di Heisenberg: «Se sappiamo dove si trova una particella non sappiamo quello che sta facendo e se sappiamo cosa sta facendo non sappiamo dove si trova». Malgrado la ripugnanza per le tesi manichee dei rivoluzionari, Auco tentò una classificazione del personale del «Geranioli » dividendolo in categorie e sottocategorie: 1. Sinistra storica. 2. Cattolici. 2.1. Credenti e praticanti. 2.2. Credenti non praticanti. 2.3. Praticanti non credenti. 3. Destre. 3.1. Conservatori. 3.2. Nostalgici del regime fascista. 3.3. Contrari per reazione allo strapotere della categoria 4. 4. Rivoluzionari blablali. Nota. Molti docenti e non docenti appartenenti, negli anni del predominio DC, alla sottoclasse 2.3, ora appartengono alla classe 4. Apparteneva alla classe 3.3. la professoressa Rosalba Terpineolo, una bravissima insegnante di Lettere del corso B chimici, scrittrice di romanzi e commedie, amata dai ragazzi e dalle ragazze anche per i modi soltanto apparentemente bruschi con cui trattava studenti e colleghi, una corazza per nascondere un gran desiderio di dare e ricevere affetto. Era tuttavia poco conosciuta dalla maggioranza degli studenti del Geranioli, costituendo ogni

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sezione una repubblica indipendente. Spirito libero, anticonformista, allo scoppio della rivoluzione blablale si era dichiarata apertamente su posizioni di destra, quando molti colleghi delle classi 2. e 3., tra cui don Ammonio, si erano abilmente mimetizzati. Auco l’ammirava moltissimo e avrebbe raccontato spesso, agli studenti del dopo rivoluzione, il primo e ultimo intervento in assemblea della professoressa Terpineolo. Intrepida, aveva demolito con poche graffianti argomentazioni alcune fumose teorie blablali enunciate quel giorno. Subissata dai fischi, si era abilmente rimpossessata del microfono scandendo: «Signori, in America si fischia per applaudire: commossa, vi ringrazio e vi saluto». E se ne andò. In seguito, anche se non perdeva occasione per criticare ferocemente colleghi e allievi, gli studenti filoneisti riconobbero sempre la sua buona fede e la apprezzarono più di prima, disprezzando invece quei professori e bidelli schierati sulle loro posizioni soltanto per bassi interessi personali. In un mondo dove tutto veniva messo in discussione, alla ricerca di qualcosa di solido a cui appoggiarsi, Auco trovò conforto nelle definizioni del Sistema internazionale delle unità di misura. Sono dogmatiche ma democratiche - rimuginava - essendo il frutto di lunghi studi e di accordi internazionali; purtroppo nomi e simboli sono stravolti e non soltanto dalla stampa non specializzata. In un grande quotidiano Auco trovò alcune perle che ricopiò e commentò in un suo libriccino. Un uomo può sopportare senza rischi fino a 100 milligrammi di alcool al giorno (poca cosa, nemmeno 1 cm3 di vino, probabilmente l’autore intendeva millilitri). La dose giornaliera di alcool deve essere limitata a 400 millilitri (ora sono veramente troppi, corrispondenti a circa 3,5 l di vino). E’ una materia plastica che brucia con la stessa facilità di un comune oggetto di plastica (sic). Nel favoloso Antartide vi è carbone coke sui monti di Ellswohrt (veramente il coke è un carbone artificiale...). Il kilowatt è la forma più costosa di energia (l’autore voleva riferirsi probabilmente all’energia elettrica; per inciso il watt non è una unità di misura dell’energia ma della potenza). Sono state trafugate preziose filiere di platino-radio (è chiaramente un refuso, radio per rodio, ma i rivoluzionari blablali potranno sostenere che i lavoratori tessili operano in un ambiente radioattivo...). Nel fumo delle sigarette si trova il polonio 210, radioattivo (dopo questo gratuito terrorismo verbale, i fumatori continueranno imperterriti a fumare, magari durante una marcia contro le centrali nucleari...).

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18. Auco, anima semplice, assistette allibito all’irruzione delle parolacce. Gli adolescenti, si dice, da sempre praticano il turpiloquio per sentirsi adulti e vincere l’insicurezza propria della loro età. Al Geranioli nessuno studente, prima della rivoluzione blablale, avrebbe usato un linguaggio poco corretto in presenza di un professore. Ora, viceversa, erano alcuni professori e professoresse filoneisti ad infiorare i loro discorsi con i più crudi termini anatomici popolareschi. Appena tollerati dagli studenti per la loro insipienza, credevano in tal modo di dimostrarsi aperti e disponibili verso i problemi giovanili. Viceversa, il loro giovanilismo era patetico, insopportabile per i ragazzi. La docente di Spagnolo, Inmaculada Purisima Dolorida Elocuencia y Estafilococo in Scaramaglini, fondatrice e leader del collettivo Virulencia, durante un consiglio di classe aveva definito estronza la collega di Inglese Lina Morfo, anch’essa filoneista ma considerata più a destra perchè, nelle sue battaglie per la difesa della natura, si arrestava ai batteri, non blablando per la protezione dei virus. La Scaramaglini tormentava colleghi e studenti pretendendo di imporre a tutti le sue idee. Palvezzi era un uomo pacifico, ma alla fine non seppe più contenersi. «Cara collega» - le disse - «vorrei ricordarle un passo de La Fundación di Antonio Buero Vallejo, da lei sicuramente conosciuto...». «Sí, sí, cierto» - rispose l’incauta, pur sentendo parlare per la prima volta della tragedia antifascista e del suo autore. «Saprà anche che, durante la guerra civile, Vallejo fu condannato a morte dai franchisti». «Cierto, cierto». «Ebbene, ecco cosa scrisse: Te ahorcan porque no sonríes a quien ordena sonrisas, o porque tu Dios no es el suyo, o porque tu ateísmo no es el suyo». Infuriata, Inmaculada gli voltò le spalle e se andò. Contemporaneamente alle parolacce, si diffuse l’uso di eufemismi per indicare malattie, gravi difetti e umili mestieri, considerando offensivi i termini riportati su tutti i vocabolari. Nella legge 194 del 1978 si incontra:

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«E’ fatto divieto di usare il termine lebbra, lebbroso, lebbrosario e qualsiasi altra parola che dalla lebbra derivi». Oltre ai noti passaggi spazzino → netturbino → operatore ecologico, a Roraro il ciabattino diventò sutore, lo straccivendolo operatore tessile, il rottamaio metallurgicista, lo stalliere artiere ippico, il contadino operatore agricolo, l' apprendistato formazione professionale, Anche i bottegai di Roraro di adeguarono. La macelleria divenne sarcoteca, la calzoleria calceamentoteca, il carrettino del venditore ambulante di acciughe in salamoia ittioteca e così via. Le sorelle Tereftalici gestivano un polveroso negozietto di cianfrusaglie ed erano proprietarie di locali fatiscenti, affittati a famiglie poverissime. Vecchie bacucche tutte chiesa e bottega, nella ricorrenza di san Ribosio commissionavano una messa a don Ammonio per implorare dal santo, protettore dei locatori, la grazia di un aumento dei canoni di affitto. Travolte dall’ondata modernista, rimossero la brutta insegna sostituendola con tubi fluorescenti ancor più brutti. «Merceria Tereftalici» divente Boutique Terry. In omaggio al franco-inglese della nuova ragione sociale, accanto alle mutandine esposte in vetrina un cartello informava: «Anche a puà». Il figlio del cavalier Tiocumaroni (Roraro Pompe) consigliò al padre di cambiare l’insegna dell’impresa di pompe funebri in Tanatoteca, oppure Necroteca. La proposta non fu accolta. Vennero anche stravolti, una volta innescata la reazione a catena, catalizzata dal conformismo dei rorarotti, antichi modi di dire. Si diffusero strane espressioni quali non audiente come una campana; non fonante come un pesce; non videante come una talpa; chi va con il non sgambettante impara a non sgambettare; non ricciuto come una palla da biliardo e simili. L’ANMI di Roraro divenne ANNINA (Associazione Nazionale Non Integri Non Adeguati). I pacifisti divennero forze non armate e la caccia prelievo venatorio. L’atletica leggera attività motoria in senso espressivo, tanto per confondere le idee, mentre un capolavoro di chiarezza fu il cartello: «Circolazione trasportistico-autobussistica senza emissione del titolo di viaggio sul mobile, approciabile presso le ticketterie autorizzate, da obliterare in loco».

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19. La costituzione dello Scuotimento dei Discenti fu soltanto l’innesco della esplosione rivoluzionaria blablale. Dalle sue periodiche scissioni nacquero le più strane congreghe i cui membri, divisi su tutto, avevano in comune l’obiettivo: distruggere il sistema. «Ma quale sistema?» - chiedeva loro l’ingenuo Auco - «Il sistema metrico decimale? Il sistema periodico degli elementi? Il sistema del totocalcio?». «Il sistema e basta» - rispondevano, non sapendo nemmeno loro cosa fosse. Ma tant’è, lo slogan suonava bene e veniva scandito in ogni occasione. Auco chiese lumi a Palvezzi, che tradusse: «Distruggere il sistema significa scardinare l’istituto della delega, operazione che prelude l’avvento delle dittature. Non a caso Mussolini definì “ludi cartacei” le procedure elettorali e “sorda e grigia, di cui farò un bivacco per le mie camicie nere” l’aula di Montecitorio». In maggioranza, le associazioni si dichiararono collettivi, ma erano spesso costituite da pochissime persone, o addirittura da una sola, come il collettivo Virulencia già citato. A questo, si opponeva la confraternita dei Democratici Bonari, il cui ciclostilato di presentazione iniziava con «Siamo contrari ad ogni forma di violenza, sia essa esercitata dal singolo, dallo stato, dal clero o dal grande capitale». Dopo una ventina di pagine interlinea 1, una graforrea di 75 battute/riga, concludeva con «A morte polizia e carabinieri, a morte i preti, a morte i capitalisti». Un altro clclostilato, a cura del Collettivo Agnosticistico, terminava invece con l’invocazione: «Dio stramaledica gli amerikani». Alcune ragazzotte fondarono il collettivo femminista Fragilità il tuo nome è donna Amleto atto primo scena seconda. Erano pure loro contro il sistema parlamentare, dichiarandolo con un incisivo slogan: - ELEZIONI + EREZIONI. Presiedeva la sottocommissione «Sex without love» una diciottenne della V B chimici. Si chiamava Paola Romantrene ed era piuttosto brutta e scostante, scoraggiando qualsiasi approccio anche da parte dei coetanei con il chiodo fisso del sesso. Non era mai stata sfiorata da mano maschile e tuttavia, catturata dal linguaggio blablale, dissertava con saccenteria di orgasmi multipli, clitoridei, vaginali, e sapeva tutto attorno ai sei gradi della

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scala Penrig per la misurazione della rigidità del pene. Per lei tutti argomenti squisitamente teorici. Le compagne più smaliziate l’ascoltavano con gran divertimento mentre sui ragazzi i suoi sproloqui infarciti di termini anatomici e fisiologici esercitavano un effetto anafrodisiaco. Assistere ad un intervento chirurgico in una clinica ostetrico-ginecologica sarebbe stato più eccitante. Era però sufficiente vedere la Silvana, la più sexy della sezione, mentre si sfilava il maglione e indossava il camice di laboratorio, per rimettere le cose a posto. Gi androsteroidi riprendevano il loro moto vorticoso e i neuroni a scambiarsi frenetici i consueti messaggi. Paola, valente centometrista, era famosa in Istituto per un curioso episodio. Durante un campionato studentesco provinciale, partita male, aveva poi ricuperato terreno, tra le urla dei suoi tifosi, superando le compagne di qualche lunghezza. Quando la vittoria era ormai sicura, il colpo di scena. Paola rallentò deliberatamente, lasciandosi sorpassare. Aveva interpretato a modo suo, con una certa coerenza, gli insegnamenti dei compagni filoneisti. Giustificò infatti il suo comportamento con le parole: «Siamo tutte uguali e non è giusto che una di noi predomini sulle altre». Un altro collettivo era quello dei Filofoboneisti, così chiamato non riuscendo i membri ad accordarsi se blablare per qualcosa o contro qualcosa. Blablavano inoltre: L’arroganza al potere, i Falsoipocriticisti [I sinceri, ndr], i Mediomalisti (alla ricerca di una terza via tra il massimalismo e il minimalismo), La letteratura del rifiuto [rifiuto della letteratura, ndr] e altri dai nomi e dai programmi altrettanto strani. Il collettivo Riuniamoci e Discutiamone, aperto a chiunque, era frequentato da mediocri mitomani, esultanti per la possibilità di prendere la parola su argomenti di cui conoscevano poco o niente, esordendo con quel secondo me che ancor oggi mette Auco sulla difensiva quando lo sente pronunciare da qualcuno. Il gruppuscolo degli Scientisti era nato per combattere gli effetti negativi degli ioni positivi dell’atmosfera sull’equilibrio psicofisico dei giovani. Propugnava anche il parto in acqua quale preteso ritorno alla natura, anche se nessuna nostra remota antenata e nessuna femmina di animale terricolo lo ha mai praticato.

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Era nata in questo ambiente la leggenda metropolitana relativa al formaggio fabbricato con i bottoni. L’assurda diceria era dovuta al fatto che la galalite, un plastomero avente oggi soltanto interesse storico, venne ottenuta partendo dalla caseina del latte e usata tra l’altro per stampare bottoni. L’odio per l’industria era sfociato nel ridicolo. Poi, anche a Roraro, comparvero i primi animalisti. Inizialmente in pochi, aumentarono rapidamente dopo aver assistito ad una trasmissione televisiva in cui una distinta signora di mezza età, sentendosi richiedere quale fosse la sua massima aspirazione, aveva risposto: «Aiutare gli animali [pausa imbarazzata], i bambini...». Ebbe breve durata il Fronte vegetalista non vegetariano, più a sinistra degli Animalisti poichè gli accoliti decisero di rinunciare, per solidarietà con ogni essere vivente, anche agli alimenti di origine vegetale. Si ridussero a cibarsi di salgemma, unica sostanza minerale commestibile. Dopo qualche giorno il collettivo si sciolse tragicamente. Proliferarono sette pseudoreligiose, comunità di fanatici che si autodefinivano immuni da ogni imperfezione mentre il vero saggio, secondo Palvezzi, è colui che possiede il necessario senso autocritico e cerca, senza prevaricare sugli altri, di fare qualcosa per ridurre i danni provocati dall’ umana fragilità. Tra queste congreghe primeggiava la setta dei Bimillenaristi, spaventati dalla lettura dell’Apocalisse. Dopo aver eseguito strani e complessi calcoli - come i loro antenati dell’anno Mille - avevano dedotto che la fine del mondo sarebbe sopravvenuta allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 1999, preceduta da carestie, inondazioni, epidemie. «Vorrei sapere» - disse loro Palvezzi «come siete riusciti a calcolare questa data se non si conosce nemmeno l’anno di nascita di Gesù Cristo? Calmi, io sarò già morto ma quando voi arriverete al Duemila gli elettroni dell’universo seguiteranno a sciamare intorno al nucleo dei loro atomi, le molecole a vibrare incessanti, la terra continuerà a ruotare intorno al sole, il sistema solare a muoversi verso la costellazione di Ercole e le galassie ad allontanarsi l’una dall’altra, in cammino verso i sovrumani silenzi». Alcuni dei frequentatori delle varie assemblee erano convinti, con i loro interventi verbali, di cambiare il corso della storia; altri, più

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modestamente, di cambiare qualcosa a Roraro o almeno all’interno del Geranioli. Gli uni e gli altri peccavano di ingenuità perchè, come spiegò Palvezzi ad Auco, non sapevano che ogni decisione veniva presa, dai sostenitori della democrazia assembleare, in riunioni ristrette a pochi, tenute in luoghi segreti ma non troppo, quasi sempre nella sagrestia di don Ammonio. In genere, molti frequentavano le assemblee per puro presenzialismo; a loro si applicava a pennello il proverbio spagnolo divulgato al Geranioli dal prof. Palvezzi: Que quieren ser el niño al bautismo, la novia en la boda y el difunto el entierro [Coloro che vogliono essere il bimbo al battesimo, la sposa al matrimonio e il morto al funerale, ndr]. Scrisse il geom. Caseina nella sua Storia di Roraro: «I presenzialisti rorarotti costituiscono una specie umana difficilmente classificabile. Quando non presenziano sono persone del tutto normali e si dichiarano apolitici. Posseggono però la capacità di adeguarsi alle ideologie, al comportamento, al linguaggio, all’abbigliamento dei potenti di turno. I più ambiziosi sono disposti ad ogni bassezza pur di apparire in pubblico, compiendo acrobazie al fine di essere fotografati, filmati o ripresi in TV vicini al personaggio importante del momento, sia esso un politico, un canzonettista o un pugile. Nel ventennio fascista, pur non avendo combattuto in nessuna guerra, molti di loro partecipavano regolarmente ai ranci camerateschi degli ex-combattenti; in divisa nera, con l’aquilone sul berretto, si pavoneggiavano durante le ripetute, interminabili cerimonie. Dopo la Liberazione, si facevano largo a spintoni per essere fotografati vicino all’oratore, durante i comizi della Sinistra, esaltando i valori della Resistenza e vantando inesistenti benemerenze. Altri presenzialisti, in abito da sera, reggevano il baldacchino durante la processione nel giorno della festa patronale, tenuta al pomeriggio. Il collettivo «Democrazia capillare», ove non erano ammessi individui con i capelli corti, era sorto per contestare l’art. 380 del DPR 27.4.1955 che imponeva l’uso di cuffie di protezione in prossimità di organi rotanti e fiamme. In effetti, i muscolosi capelloni in cuffietta a rete, nelle officine e nei laboratori dell’Istituto, ricordavano i bravi dell’edizione dei Promessi Sposi illustrata dal Gonin. Ma la sicurezza innanzitutto. Auco ricordava il giorno il cui, in un laboratorio, i lunghi capelli di Arsenio Mercaptani presero fuoco, avendo il

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leader incautamente abbassata la testa sopra la fiamma di una bunsen. Per sua fortuna, due compagni lo coprirono prontamente con uno straccio bagnato; quattro sberle date per un nobile scopo ma con malcelata soddisfazione, completarono l’opera di spegnimento. Si perse ogni senso della misura. Auco sentì un ragioniere filoneista affermare serissimo, rivolto ad una collega: «No, questa sera non posso venire, devo partecipare ad un briefing a livello di capi scout». Ad una domanda del prof. Palvezzi, un allievo rispose «Secondo me, l’energia è il prodotto della massa per il quadrato della velocità». «Vorrà dire secondo Einstein» - rispose il professore, ma gli allievi non capirono l’ironia. Anche alla messa domenicale delle dieci, quella della Roraro-bene (alla quale spesso assistevano i blablali che in assemblea si proclamavano atei) divenne palestra blablale. Al momento dell’omelia, infatti, il sacerdote si sedeva compunto in un angolo. Dopo alcuni minuti di finto imbarazzato silenzio, e un finto incrociarsi di sguardi interrogativi, una ragazza si alzava ed iniziava a declamare con aria ispirata, come folgorata dall’accavallarsi di pensieri profondi: «Secondo me, quello che, cioè, oggi abbiamo sentito dire da Elia non mi trova del tutto d’accordo. Devo però ammettere che il discorso di Elia, cioè, formula un segno con una prevalenza del nuovo sul fondo usando un linguaggio cioè direi privo di significato ma appunto per questo significante...». (Dal tono confidenziale con cui la ragazza si riferiva al profeta sembrò, ai profani, l’allusione ad un compagno di assemblea che aveva appena espresso un parere). La ragazza si sedeva e - come da copione - si alzava un giovane, recitando frasi di questo genere: «Secondo me, siamo presenti in questa assemblea ecclesiale per portare avanti, cioè, un discorso di ricerca comportamentale, non per trovare delle risposte che non esistono. Precipuo della condizione umana, involucrata nella insostenibile pesantezza dell’essere, è trovare della forma di un numero considerevole di informazioni introiettate, viste cioè nella vastissima angolatura dell’interpretazione, nella misura in cui quanto ha detto Ezechiele [un altro compagno di scuola, ndr] sulla televisione quale concentrazione

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dell’esasperazione tecnica a monte e la madornale idiozia degli sprovveduti utenti a valle...». A molti genitori degli studenti del «Geranioli» non sembrò vero poter tornare a scuola per concionare sulla selezione e la meritocrazia appoggiando - a loro interessava unicamente la promozione del figlio o della figlia - le più strampalate teorie blablali, come quella del «sei» politico. Un volantino dello Scuotimento recitava infatti: «La selezione è un momento ben preciso della scuola borghese e si è visto che l’unico modo di risolvere queste cose è il sei generalizzato». Sotto la dittatura fascista questi genitori cantarono «Faccetta nera bell’abissina» sostituendola con «Camerata Richard benvenuto» durante la successiva campagna per la difesa della razza ariana. Educarono i figli a non pensare ma soltanto a credere, obbedire e combattere. Ora, spostandosi disinvoltamente da un estremo all’altro, come è costume dei rorarotti, gioirono invece di piangere sentendo un moccioso affermare serissimo in televisione: «Ho perso, ma è un gioco; del resto, secondo me, anche la vita è un gioco». Proliferarono i più bizzarri periodici ciclostilati; i titoli erano quelli di noti giornali e riviste, preceduti dai prefissi anti, o contro, oppure seguiti dagli aggettivi democratico o alternativo. Circolarono a Roraro Motociclismo democratico e Il mobilio alternativo. «Controinformazione culinaria» arrivò al quinto numero (si mormorava segretamente sponsorizzata dall’Ente Risi) lanciando una violenta campagna contro gli spaghetti al pomodoro, dichiarati cancerogeni. Lo stesso giornale, risorto sotto altro nome dopo la rivoluzione blablale, apparirà ricco di inserzioni dei più rinomati pastifici e sosterrà a spada tratta la dieta mediterranea. Alcuni insegnanti del Geranioli appartenevano a più di un collettivo e ciò comportava spostamenti frenetici da una riunione all’altra, sempre in ritardo sulla tabella di marcia. La prof. Lina Morfo a cui si è accennato, alta e magra, di aspetto sgradevole, portava occhialoni da intellettuale impegnata e indossava soltanto abiti firmati. Il look era completato dall’immancabile Citroën 2 CV - allora status symbol per la sua bruttezza - sporca e ammaccata. L ’interno era un’accozzaglia di rifiuti e compiti in classe mai corretti ed il vetro posteriore era tappezzato di patacche

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inneggianti alle fonti di energia pulita. In compenso, motore e marmitta difettosi emettevano dosi massicce di gas nocivi. La Morfo avrebbe dovuto insegnare Inglese ma, appartenendo a ben otto collettivi filoneisti, passava con disinvoltura dall’uno all’altro portando con sè il bambino appeso sulle spalle in un finto zainetto peruviano. Sempre occupata a discutere, in tutte le sedi, di sociozoologia, sociobotanica e sociomineralogia, non parlava che di classe operaia, non riuscendo tuttavia a dissimulare il suo disprezzo per la medesima, tipico di molti pseudointellettuali rorarotti del tempo. La maggior parte di essi non aveva mai visitato uno stabilimento industriale. In privato, chiamavano le operaie fabbrichine, termine dialettale dispregiativo. La Morfo era malmaritata con un vero operaio, un trevigiano fresatore alla ComCaRo, sua vittima privilegiata. Una sera, dopo l’ennesima discussione, giunto al limite della sopportazione, l’uomo uscì di casa sbattendo la porta. Se ne andò per sempre, declamando ad alta voce, come testimoniarono i vicini di casa, una specie di giaculatoria: Represiòn valamalòra, ristruturasiòn valamalòra, profesionalisasiòn valamalòra, programasiòn valamalòra. Il non più coniuge della Morfo Lina emigrò in Brasile, dove convive felicemente con una giovanissima meticcia analfabeta. Tornando a notte fonda da una riunione del comitato Roraro-Tanzania, la Morfo nemmeno si accorse della scomparsa del marito, troppo occupata ad elucubrare un documento da presentare al presidente degli Stati Uniti e al segretario generale del PCUS. Quella sera, infatti, era stata votata una mozione dal titolo: «Elezione dei membri delle delegazioni rorarotte da inviare a Washington e a Mosca onde portare avanti un certo tipo di discorso sulle nostre proposte per la pace nel mondo a livello di alto livello». In perenne crisi di identità, la prof, anzichè insegnare l’inglese, asfissiava gli studenti con domande tipo «Ma cosa devo insegnare? E in che modo imposto il discorso? E perchè dovrei portare avanti il discorso dell’inglese se per voi si profila i discorso della disoccupazione?». Ripeteva la stessa solfa durante gli scrutini, rifiutandosi di assegnare un voto agli allievi, fanatica ma in fondo in fondo coerente con le ideologie professate. Non così si poteva definire la sua collega di Fisica, professoressa Artemia Guanidinio. Aveva abbracciato la causa dei filoneisti quale copertura ideologica della sua scarsa voglia di lavorare. Era nota anche

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fuori Istituto per la fantasia nell’inventare le giustificazioni per le ripetute assenze e i sistematici ritardi. Un giorno il figlio aveva ingoiato un franco svizzero, un altro giorno era stata coinvolta in un tamponamento a catena causato della nebbia (sconosciuta a Roraro) e così via inventando. La Guanidinio era nota anche per aver giudicato un allievo per telefono, essendo giunta ad uno scrutinio finale senza possedere elementi di giudizio per assegnargli il voto. Anzichè limitarsi ad inventarlo al momento, come usavano altre sue colleghe, colta da raptus burocratico, con una scusa si era allontanata dalla sala del consiglio e, da un apparecchio installato nel locale pausa-caffè, in presenza di un gruppo di bidelli, aveva chiamato lo studente, ponendogli qualche domanda sul programma non svolto. Nessuno saprà mai quali furono le risposte. La prof riprese tranquillamente il suo posto, formulando un giudizio dettagliato sulle capacità, l’impegno, la buona volontà e la spiccata attitudine per lo studio della materie scientifiche del ragazzo, condensato alla fine con un sei buono per tutte le stagioni. 20. Dopo qualche mese dagli avvenimenti narrati, i filoneisti del Geranioli, stanchi di parlarsi tra loro, ritennero giunto il momento di esportare le ideologie blablali fuori Istituto. Si rivolsero in un primo tempo alle menti fragili, secondo loro più ricettive, dei ricoverati nella sezione staccata dell’ospedale psichiatrico provinciale, avente sede in un vecchio edificio alla periferia di Roraro. Sulla facciata, è ancora possibile leggere: DUCE ! TU SEI TUTTI NOI ! (Sulla incredibile sopravvivenza delle scritte murali fasciste, gli storici rorarotti sono divisi in due correnti. La prima, detta dei Tecnicisti, attribuisce il fatto alla eccezionale solidità dei pigmenti usati. La giunta comunale in carica ai tempi del tentato golpe Borghese - sostiene invece la categoria dei Dietrologisti - ha fatto dare una ripassata alle scritte per non farsi cogliere impreparata in caso di una possibile restaurazione nera). Nell’ospedale erano ricoverati, insieme agli psicopatici per così dire normali, alcune persone afflitte dalle più strane fobie: la destrofobia e la levofobia (non relative a posizioni politiche ma paura degli oggetti a destra o a sinistra del soggetto), la coprofobia e dulcis in fundo, la fobofobia,

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paura morbosa di diventare fobico. La struttura ospedaliera non era in grado di accogliere i tridecafobici e gli eptadecafobici (credenti nell’influsso negativo dei numeri 13 e 17), troppo numerosi. Si mandarono in avanscoperta Sergio Scatolo e alcuni Blablali fidati; prima di entrare, coprirono il «saluto al duce» con un cartello portante la scritta AUTOGESTIONE. I ricoverati furono adunati nel teatrino - la filodrammatica interna stava provando la commedia di Gino Rocca Xe no i xe mati no li volemo - e Scatolo iniziò ad arringarli alla sua maniera becera, convinto di infiammare i cuori e raccogliere nuovi adepti. Viceversa, gli appelli a ribellarsi contro una generica società, per colpa della quale si trovavano in quel triste luogo, espressi con il consueto linguaggio contorto, caddero nel vuoto. I ricoverati capirono soltanto le parolacce; il linguaggio scatologico, buono per studenti e professori, li offese. L’accoglienza fu gelida, non si levò nessun applauso e nessun urlo di protesta. Scatolo e i suoi, abituati al caos delle assemblee rorarotte, se ne andarono, mentre gli attori ripresero pacatamete le prove interrotte. Fallita questa missione, pur dichiarandosi come in passato contro il sistema rappresentativo, i rivoluzionari blablali ritennero opportuno presentare una lista civica alle imminenti elezioni comunali. 21. Le due industrie sopravvissute a Roraro erano la Roraro Pompe, cui si è accennato, e una fabbrica di strumenti musicali che produceva esclusivamente triangoli per orchestra e relative bacchettine, la ComCaRo (Commendator Cacodile, Roraro), già CavCaRo e CavUffCaRo. La ditta esportava i suoi manufatti in tutto il mondo e la concorrenza non era mai riuscita a stabilire la composizione della lega usata per i triangoli, priva di argento ma dall’inconfondibile suono argentino. Si vociferava di misteriosi metalli scandinavi quali il samario, il terbio e il disprosio. Alcuni studenti, durante una visita alla fabbrica, nel reparto sgrassatura in cui si percepiva un forte odore di acetone, videro un operaio intento a saldare un tubo con la fiamma ossidrica. «Ma vi è pericolo di esplosione!» - fecero notare. Risposta: «Pensate ai fatti vostri, conosco i miei diritti: sui cartelli c’è scritto vietato fumare ma io non fumo, lavoro!».

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Nell’ufficio del titolare si potevano ammirare la partitura originale, dono dell’autore, di Dafni et Cloe di Maurice Ravel, in cui il triangolo è largamente impiegato, e foto con dedica di celebri compositori e direttori d’orchestra. Vanto della collezione era una fotografia di Beethoven con dedica in italiano: «Dopo aver udito [sic] il meraviglioso suono dei vostri triangoli, ho inserito una marcia turca nella mia Nona Sinfonia, anche se ciò farà impazzire i critici musicali del futuro». L’unico figlio del commendatore, Giuseppe detto Pinuccio, era un giovane piccolo di statura e di cervello, grasso e repellente. Il suo viso, costantemente lucido di sudore, esprimeva disprezzo per tutto ciò che incontrava sul cammino. In confronto, il «Bacco adolescente» del Caravaggio, cui assomigliava, ha una espressione cordiale e intelligente. Pinuccio trascorreva il suo tempo bighellonando da un bar all’altro insieme ad un gruppetto di parassiti e puttanelle. Si spostava su una Cadillac decappottabile, dotata di trombe bitonali, ora proibite, spingendo al massimo l’acceleratore con il cambio in seconda affinchè tutti notassero il suo passaggio. In quel tempo, non erano ancora giunti in Italia i mostruosi fuoristrada giapponesi, oggi esibiti in città quando ci si reca al bar: sarebbe stato il primo acquirente. Pinuccio era odiato dalla popolazione ed aveva persino rischiato il linciaggio, quando aveva travolto un’ anziana signora sulle strisce pedonali. In quella occasione commentò con voce annoiata: «Quante storie per una vecchietta con il solo reddito di pensione! E poi, non sono forse assicurato?». Quel giorno si consolò offrendo un pranzo ai suoi accoliti a «Il fuoco di paglia - Limaxiatria & ranulcolusiatria», recente insegna per indicare la specialità in lumache e rane. Terminata l’abbuffata, emise un rutto spaventoso - gioco di società in cui era maestro - tra le ovazioni dei convitati. Volle anche strafare, proponendo un brindisi alle popolazioni del Bangladesh. Il soffitto del locale minacciò di crollare per gli applausi. La ComCaRo, allo scoppio della rivoluzione blablale, era in crisi; il mercato dei triangoli risultava saturo. Il titolare divenne ansiolitico-dipendente, meditando giorno e notte su una possibile produzione alternativa. Un nipotino del commendatore aveva il cranio bitorzoluto per reiterate cadute dal seggiolone. Un giorno, gli operai udirono il padrone

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urlare «Casco, casco !». Accorsero in direzione, esultando in cuor loro, ma trovarono l’imprenditore allegro come se avesse comperato ad un prezzo moderato un’altra onorificenza. Espose loro il suo progetto: produrre caschi di protezione per infanti, usando la lega dei triangoli per la calotta; avrebbe assicurato una eccezionale protezione agendo anche come segnale acustico della capocciata. La riconversione fallì. Una notte, l’intero paese fu svegliato da un forte rintocco di campana: era il suono di un casco ComCaRo indossato dal commenda prima di gettarsi nel vuoto dalla sommità della torre Littoria, l’edificio più alto di Roraro. 22. Vennero indette le elezioni amministrative. Per la prima volta, dopo la decisione di presentare una lista, i Blablali si trovarono davanti ad un vero problema da risolvere: il finanziamento. Pur non disponendo di fondi, promossero interminabili assemblee dedicate alla ricerca del nome e del simbolo di lista, senza trovare un accordo. Quanto ai candidati, nessun problema: sarebbero stati imposti, come sempre, dal direttorio-ombra. Quando le fratture tra le varie anime del Movimento sembravano insanabili, un colpo di scena. Pinuccio Cacodile si offriva come sponsor, chiedendo in cambio un aiuto nella propaganda dei triangoli e dei caschi. Questa era la motivazione ufficiale. La posta in gioco, in realtà, era più grossa. Pinuccio era da tempo in trattative per la vendita di un terreno acquitrinoso - in località Squallore - ad un palazzinaro romano piduista. Era però necessaria la licenza di edificabilità, negata dall’Amministrazione comunale per ovvi motivi ma che i Blablali avrebbero potuto concedere una volta al potere. Un un primo tempo, la proposta fu respinta come una provocazione ma alla fine prevalse il collettivo dei Pragmaticisti e vennero siglati due accordi tra Pinuccio e i Blablali, uno pubblico relativo alla propaganda di caschi e triangoli ed un altro segreto concernente l’area edificabile. La lista fu chiamata Controalternativa Democratica ed ebbe come simbolo un casco inscritto in un triangolo.

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Comparve sui muri di Roraro il primo manifesto elettorale del Movimento, in cui si parlava di schiavitù del lavoro, tempo libero a tempo pieno, equilibri sempre più avanzati dei prezzi al minuto, tavole rotonde imbandite per discutere sul consumismo, scioperi antisciopero della fame, e tante altre cose interessanti ma espresse con il solito gergo incomprensibile. Terminava con un formidabile: «Se tutti non sono liberi nessuno sarà libero!». Pur di catturare voti, i blablali si rivolsero spudoratamente a tutte le categorie sociali, comprese quelle demonizzate fino al giorno prima, non rinunciando all’abitudine di comporre slogan in versi. Per commercianti e artigiani, furibondi per la crescente avidità del fisco (lo Stato, in quegli anni, aveva iniziato a pretendere la denuncia dei loro ricavi) coniarono Intendenza di Finanza: prepotenza e tracotanza. Non fu compreso. Anche con i pensionati - di cui i partiti scoprono l’esistenza soltanto in campagna elettorale - fu un fiasco, poichè non apprezzarono i versi di Sergio Scatolo Siam ridotti pelle e ossa. Con un piede nella fossa. Votiam Controalternativa. E’ la sola prospettiva. I Blablali si rivolsero persino ai nostalgici. Un volantino recitava: «Si esistezializzava miglioristicamente quando il discorso del sostentamento era peggioristico e i sistemi trasportistici ferroautobussistici mobilavano in sintonizzazione con i tazebao degli stazionamenti» (Traduzione: Si stava meglio quando si stava peggio e i treni arrivavano in orario). Ovviamente, la popolazione con capì nulla. Dietro suggerimento di Pinuccio Cacodile si ricorse ad un suo amico, don Calogero Li Vispi, un esperto in psicologia delle masse, da tempo a Roraro in soggiorno obbligato. Forte di una secolare esperienza, don Calogero suggerì di non promettere bensì intimidire. Mercenari avrebbero avvicinato i cittadini con

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discrezione, comunicando con voce soave ciò che sarebbe accaduto a loro, e alle loro famiglie, se avessero votato i partiti tradizionali. Ma gli elettori, nel segreto delle cabine, avrebbero tenuto conto delle minacce? Era necessario ricorrere ad argomenti più efficaci. La gente si era smaliziata; molto tempo era trascorso da quando i democristiani avevano coniato lo slogan «Quando voti Dio di vede, Stalin no». Al Geranioli insegnava elettronica uno strano tipo, il prof. Karl Fadeohm, noto anche alla popolazione di Roraro per i suoi brevetti, tra cui uno stetoscopio elettronico capace di captare le grida di dolore degli alberi che costeggiano le strade, quando in essi vengono infissi i catarifrangenti. Aveva pure formulato un collirio antigelo per esquimesi e ideato un metodo per la produzione di lana colorata direttamente dalla pecora, mai applicato perchè i coloranti, somministrati alle cavie per via endovenosa, si concentravano nelle corna. Fadeohm viveva rintanato nel suo laboratorio, non parlava con nessuno e incuteva un timore reverenziale a studenti e colleghi. Antifascista, non si era mai iscritto al PNF; era quindi costretto a vagare da una Scuola all’altra, non potendo partecipare ai concorsi. Il giorno della Liberazione, trovato un distintivo fascista gettato da una finestra, lo mise all’occhiello e uscì per le strade di Roraro, così, per puro spirito di contraddizione. Prognosi: venti giorni salvo complicazioni. Questo era l’uomo. I rorarotti ricordano una memorabile conferenza del professore nell’aula magna del Geranioli. Il tema annunciato sui manifesti era affascinante: «Esistono forme di vita extraterrestre?». Nel giorno e nell’ora stabiliti l’aula era gremita all’inverosimile e l’attesa spasmodica. Alla comparsa del professore cadde il silenzio. Non si sentirono nemmeno i colpi di tosse emessi dal pubblico dei concerti e, malgrado il caldo soffocante, le signore rinunciarono alla fastidiosa abitudine di usare il programma come ventaglio. Fadeohm salì in cattedra, ripetè la domanda «Esistono forme di vita extraterreste?» indi rispose: «Non lo sappiamo e forse non lo sapremo mai». La conferenza era terminata e Fadeohm se ne andò senza attendere gli applausi.

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A pochi giorni delle elezioni circolarono in paese, all’insaputa di Fadeohm, strane voci relative alla sua ultima creazione, un tele-lettore di schede. Si diceva basato sulla oscillazione del numero quantico di spin dell’atomo di carbonio 13 (presente nella grafite delle matite in dotazione ai seggi) legata all’attrito tra mina e carta. Cuore dell’apparecchiatura, un semiconduttore a cristallacci liquidoni, dotato di eccezionale superconduttività alla temperatura di duecentonovanta gradi sotto zero. Il diabolico apparecchio sarebbe stato in grado di individuare, nel raggio di 20 km, il simbolo di lista contrassegnato dall’elettore, e non soltanto ciò. Fasci di neutrazzi, per i quali non esistono ostacoli, avrebbero consentito una precisa identificazione del votante. La popolazione, conoscendo il professore, credette ciecamente a queste fandonie. Poi, il tocco finale. Il mattino delle elezioni arrivarono a Roraro alcuni brutti ceffi assoldati dai Blablali nei paesi vicini. Si disposero immobili, in silenzio, nelle vicinanze dei seggi, fissando con sguardo torvo - senza alcuno sforzo, era la loro espressione naturale - chi si recava a votare, giocherellando con i comandi di misteriosi strumenti muniti di antenna. Il metodo, più sofisticato di quello usato dagli antenati dei Blablali armati di manganello e olio di ricino, funzionò. I rorarotti votarono in massa la lista del Casco. 23. DAL NOSTRO INVIATO Grazie alla nostra esperienza di corrispondenti di guerra, siamo riusciti a raggiungere l’unico comune italiano amministrato dai cosiddetti rivoluzionari blablali la cui lista (Controalternativa democratica) ha ottenuto la maggioranza assoluta nelle ultime elezioni amministrative. Il territorio comunale appare circondato da una fitta cortina di cespugli spinosi; chiunque provenga dal resto del mondo dovrà attraversarla nudo, quale rito purificatorio. All’ incrocio principale troviamo il semaforo costantemente verde sui quattro lati; non si notano conseguenze, ad eccezione di qualche tamponamento ciclopedonale, risultando assente qualsiasi mezzo di locomozione azionato da un motore. Per anziani, bambini e inabili

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funziona un servizio pubblico di risciò. Le carrozzelle sono trainate da pensionati ancora validi della locale Opera Pia dei Poveri. I muri sono tappezzati da ordinanze in cui si proibisce quasi tutto. Ci colpisce, in particolare, quella che istituisce il coprifuoco dalle 22 alle 6. La traduzione dal dialetto rorarotto di una grida è riportato in una finestrella a parte. Nel cinema Impero si proietta Come era verde la mia valle, da un romanzo di Julien Green, interpretato da Carlo Verdone, ed è annunciato un film americano doppiato in rorarotto: L’erba del visìn l’è sèmpar püsée verda. Al Teatro Chetosi è in cartellone I lumbàrd a la prima crusàda, prima assoluta in dialetto rorarotto del dramma lirico in quattro atti di un certo Pepìn Vèrt. Le osterie del paese offrono soltanto filetto di squalo verdesca con insalata verde, pere verdacchie, verdicchio di Matelica, verdiso di Conegliano e un verduzzo di incerta origine; per gli astemi, sciroppo alla menta. Nell’aula magna dell’Istituto Industriale parlerà il prof. Armando Verdiglione. Si dice abbia incantato i Blablali per la chiarezza del suo linguaggio (« Come procedono le cose? Come si dicono, come si fanno, come si scrivono, come si cifrano? Sta qui la cifrematica come esperienza originaria»). Ci avviciniamo guardinghi al palazzo municipale; al balcone sventolano un ex-tricolore ridotto alla sola striscia verde e il nuovo gonfalone del comune, copiato dal Manuale delle Giovani Marmotte. Vorremmo intervistare il sindaco. I pretoriani di guardia, dopo un’assemblea di due giorni e, per riposarsi, un sit-in di tre sui gradini della chiesa arciprepositurale, ci comunicano che potremo «ingressare» dal sindaco soltanto indossando abiti e biancheria intima privi di fibre sintetiche. Potremmo inoltre prendere appunti non con le solite biro di polistirene ma con matite di legno e pura grafite della val Chisone. Nell’anticamera del primo cittadino ci fanno sostare tra i poli di un grosso magnete naturale. Non cercano armi ma soltanto se abbiamo in tasca chiavi o altri oggetti di acciaio, da depositare nell’apposito contenitore di legno. Ci spiegano che il sindaco è ideologicamente allergico non soltanto alle fibre chimiche e alle sostanze plastiche sintetiche ma anche ai metalli ferrosi, essendo l’industria siderurgica altamente inquinante.

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Il sindaco si chiama Giorgio Indolo e lo intervistiamo mentre redige un’ordinanza, scrivendola su carta di cellulosa pura non additivata, quindi assorbente, usando una penna d’oca intinta in succo di mirtillo addensato con gomma di ciliegio. Indossa shorts e camicia di lino ingualcibile fortemente spiegazzati; al collo, un vistoso foulard verde; sul petto, un gigantesco medaglione di puro frassino con le iniziali IG incise a fuoco, sorretto da una collana di stringhe di vero cuoio. Signor sindaco, vorrebbe brevemente illustrarci il programma della nuova amministrazione? Voi giornalisti della stampa scritta e della stampa parlata siete insaziabili! A livello di popolazione residentistica e domiciliantistica, vogliamo aprire un dialogo costruttivo per gestire, nel contesto, le contraddizioni del sistema, realizzando una svolta nella ristrutturazione dell’habitat biosferico a monte e a valle del discorso ... . Perdoni, signor sindaco, temiamo di non aver compreso bene ... . Eppure sono stato chiarissimo. Al limite, a livello cittadino, ora che per merito nostro il limite della incidentistica stradale tende a zero nella misura in cui, progettisticando l’abolizione della moneta e il ritorno al baratto, stiamo portando avanti un discorso reazionario ... . Mi permetto di interromperla nuovamente, nessuno ha capito se siete progressisti o reazionari. Cercherò di usare un linguaggio più semplicistico, anche se non è facile quando si hanno le idee confuse. Siamo reazionari perchè reagiamo opponendoci conflittualmente alle degenerazioni progressiste; siamo progressisti portando avanti, cioè facendo progredire, un discorso reazionario. Ma ora sono stanco. L’intervista è terminata. 24. Conquistato il Palazzo, i Blablali si scatenarono mettendo in pratica le più strampalate teorie elaborate nelle assemblee e nei collettivi. Erano però terrorizzati dai vertiginosi progressi della scienza e della tecnica,

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incapaci di adeguarsi ad una realtà non inquadrabile nei loro schemi semplicistici.

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Dal Palazzo di Città

Ordinanza municipale n. 2069/05

IL SINDACO presa visione delle mozioni dell’Assemblea dello Scuotimento dei Discentitenuta il 14 ottobre c.a.

DELIBERA Art. 1. La lingua dei nostri avi sarà liberata dai toscanismi che l’hanno imbastarditaper cui, dal primo dicembre p.v. sarà reso obbligatorio l’uso del dialetto rorarotto, come nel buon tempo antico. Art. 2. Il manto stradale bituminoso, cancerogeno, verrà rimosso, onde possa ricrescere l’erba verde e gli animali da cortile possano riappropriarsi del suolo loro sottratto, come nel buon tempo antico. Art. 3. Le antenne TV dovranno essere abbattute. I membri di ogni unità familiare, finora prede della incomunicabilità da televisione, potranno finalmente dialoghizzare. Diverrà infatti obbligatoria la recita serale del rosario, come nel buon tempo antico. La TV non potrà essere sostituita con la lettura di libri e giornali, causa della totale distruzione delle foreste del pianeta. Tra breve verrà proibita la vendita di carta stampata a base cellulosica o sintetica. Art. 4. E’ proibito l’uso dei detergenti sintetici mentre è concesso quello del sapone, purchè preparato nel paiolo casalingo partendo da ossa, anche umane, e ceneri di vegetali. E’ consentito, fino all’esaurimento delle scorte,l’uso del detergente denominato “Last”, al puro succo di limone verde. Art. 5.

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I blu-jeans dovranno essere sostituiti con green-jeans, in attesa delle divise filoneiste in allestimento. Art. 6. I motivi musicali made in USA dovranno essere sostituiti con le composizioni dialettali rorarotte del buon tenpo antico, quali Non dritt el pader (Gobbo il padre, ndr), Vin DOC al bancun del numer sett ( L’osteriadel nunero sette, ndr) e Crapa minga folta la fàà i turtei (Testa pelata ha cucinato le frittelle, ndr ). Art. 7. Ogni unità abitativa dovrà consegnare, presso gli appositi centri di raccolta di quartiere, il pentolame in acciaio inox (contenente cromo e nichelio, sospetti di attività cancerogena) sostituendoli con analoghi strumenti in rame (tossico ma non cancerogeno), come nel buon tempo antico. Art. 8. Dal primo gennaio p.v., in tutto il territorio comunale non sarà più in vigore l’ora legale, causa di modificazioni dei bioritmo dei giovani in senso destrogiro. Art. 9. E’ abolito il sistema internazionale di unità di misura e sono ripristinate le unità di misura rorarotte dei nostri avi. L’unità fondamentale della lunghezzè il piede rorarotto, con i sottomultipli dito rorarotto e unghia rorarotta. Art.10. E’ proibito salutarsi con un ciao, poichè significa vostro schiavo. Dovrà essere sostituito con il termine rorarotto dei nostri avi: at’ salüt. Per ripristinare l’economia curtense, date le relativamente grandi dimensioni del territorio comunale, il paese venne suddiviso in diciassette quartieri autonomi e furono installate barriere daziarie tra l’uno e l’altro. La milizia ispezionava i sacchetti della spesa, controllando se la merce portava il contrassegno della contrada. I Blablali nominarono diciassette fabbri, diciassette falegnami, diciassette sarti di quartiere. Persino il supermercato Ipercoop fu smembrato in diciassette Minicoop, mentre l’Athletic Roraro Calcio fu

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suddivisa in diciassette squadrette di tre elementi ciascuna, data la scarsità di calciatori seri. In compenso, cinquantuno presenzialisti diventarono presidenti, vicepresidenti e tesorieri di società sportiva e lo stadio divenne sede di appassionanti derby per tutta la durata della stagione sportiva. Sul giornale locale, a proposito di un goal contestato, scrissero: «La squalifica, fondata sulla refertazione del quarto ufficiale di gara, deve essere revocata in quanto non rientra nei compiti di quest’ultimo refertare fatti anche gravi da addebitare agli ammessi nel recinto di gioco». Furono importati calessi e cavalli dal Terzo Mondo, risultando inefficiente la rete dei trasporti con risciò. Le autorimesse vennero riconvertite in stalle ma il Comune dovette organizzare in tutta fretta corsi di riqualificazione professionale, raccattando gli istruttori nell’Ospizio dei Poveri. I tassisti vennero riconvertiti in cocchieri, gli elettrauto in maniscalchi, i benzinai in distributori di fieno e avena. Nella soffitta dell’albergo Eden fu ritrovata, indi riappesa, la vecchia insegna «Alloggio e stallazzo». Ai ragionieri fu imposta la frequenza ad un corso di aritmetica, per essere in grado di eseguire le quattro operazioni senza calcolatrici; fu tuttavia concesso l’uso del regolo calcolatore, purchè di legno. Gli informatici dovettero anche frequentare un corso di calligrafia, dove impararono il gotico e il corsivo inglese, indispensabili per la compilazione del tabulati con penna e calamaio. Il capolavoro dei Blablali fu la rescissione dei contratti con l’ENEL per la fornitura dell’energia elettrica. Ciò avvenne quando scoprirono per caso che lo 0,4 % era di origine nucleare. Sarebbe troppo lungo elencare i disagi e le privazioni cui furono sottoposti i poveri rorarotti. Si fermarono le idrovore della località Squallore e l’acqua tornò a rallegrare i terreni bonificati. Ristabilito il turbato equilibrio ecologico, essendo proibito l’uso dei pesticidi (verderame escluso), la zona fu ripopolata dalla zanzara anofele. Il Comune si affrettò ad importare e mettere a dimora un centinaio di rubiacee del genere cinchona, onde poterne ricavare la chinina. Ignorava però che l’albero produce l’antimalarico soltanto dopo trent’anni di vita. Per il funzionamento degli ascensori nelle case di oltre cinque piani il Comune precettò cassintegrati di robusta costituzione. Con l’avvento della stagione invernale, si tornò alle stufe a legna. Al Geranioli ogni aula fu dotata di stufa; esistendo soltanto la canna fumaria

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della centrale termica, si dovettero aprire fori nelle finestre, come in tempo di guerra. Qualche blablale nostalgico pianse di commozione osservando la selva di tubi da stufa arrugginiti e i relativi «baffi» sui muri. Uno dopo l’altro, suprema contraddizione, gli alberi del parco pubblico e dei pochi boschi dei dintorni furono abbattuti nottetempo per ricavarne legna da ardere. E’ noto che un bovino emette intorno a quattrocento litri di metano al giorno, corresponsabile, secondo alcuni, della distruzione della fascia di ozono. Per salvare il Pianeta e nel contempo utilizzare una fonte di energia alternativa, il prof. Indolo ideò una specie di maschera da applicare alle vacche, convinto di ottenere grandi quantità di combustibile ecologico. Dopo la morte degli animali dell’ impianto pilota, il progetto fu accantonato. Alcuni cittadini tentarono di ribellarsi alle folli delibere municipali. Furono però messi a tacere dall’onnipresente Milizia, ideata da Pinuccio Cacodile per garantire l’ordine pubblico e «sistemare» i blablali disoccupati, in crisi di identità non avendo più nulla da contestare. Qualche ostinato blablale tentò di organizzare manifestazioni di autoprotesta ma non trovò seguaci; nelle ore notturne, tuttavia, malgrado il coprifuoco, gruppetti di irriducibili continuarono ad imbrattare i muri con invettive e scritte incomprensibili. I pretoriani della Milizia furono inquadrati in dictalegioni, suddivise in triconacontacoorti, tetracosamanipoli ed esadecurie. Si dovette richiamare in servizio, come istruttore, un vegliardo, il sergente Embolio Fosfano della milizia fascista. Sapeva soltanto urlare, come ai suoi tempi, «Rammolliti, farò di voi dei veri uomini!» e «Spezzeremo le reni alla Grecia!», il che era più che sufficiente per il compito affidatogli. Come sede della Milizia fu scelta l’ex-caserna dei Bersaglieri, abbandonata quando gli psicologi dello Stato Maggiore compresero che il clima e i negozianti di Roraro esercitavano un effetto depressivo sulle giovani reclute. Intorno alle dieci antimeridiane di ogni giorno feriale (dal martedì al giovedì) il trombettiere suonava la sveglia. Verso mezzogiorno, quasi tutti i miliziani confluivano con passo strascicato nel cortile della caserma. Si celebrava il rito della Scavalcamentazione Levogira: il blablale D, a destra di ogni fila ABCD, innescava una reazione a catena spostandosi a sinistra del blablale A; C si inseriva tra D e A, poi B si incuneava tra C a A

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cosicchè, alla fine dei complessi movimenti, il miliziano che prima si trovava all’estrema destra occupava ora il posto all’estrema sinistra. A completare il caos scesero in campo anche le suore. Alla periferia di Roraro esiste l’antico convento delle Magline, religiose di stretta clausura. In paese si credeva che le monache alternassero la preghiera con il lavoro, confezionando maglie di lana per i bimbi dei tropici. Il nome dell’ordine deriva invece da quello della fondatrice, Amalia di Rochefort. Durante la rivoluzione blablale una certa suor Gertrude fu punita con il trasferimento da un convento di Monza a quello di Roraro. Secondo lo storico geom. Caseina, «... era ella l’ultima figlia di un industriale tessile gallaratese, che poteva contarsi tra i più doviziosi ... Aveva destinati al chiostro i cadetti dell’uno e dell’altro sesso per lasciare gli stabilimenti al primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de’ figlioli, per tormentarsi e tormentarli nella stessa maniera». Nella sua monumentale Storia di Roraro il Caseina così prosegue: «Un lato del monastero delle Magline era contiguo ad una casa abitata da un giovane, scellerato di professione, uno de’ tanti che in que’ tempi, e co’ i loro sgherri, potevano, fino ad un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi ...». Lo scellerato citato dal Caseina era Pinuccio Cacodile, divenuto l’amante di suor Gertrude. Anche nel convento, un autoclave di istinti repressi, si fecero sentire gli effetti della presa del potere da parte dei Blablali. Dai secolari mugugni contro le autorità ecclesiastiche maschiliste, le suore passarono alla contestazione globale. Anzitutto, cambiarono nome una seconda volta. Suor Gertrude divenne suor Diabolika; suor Prudenziana, un donnone di centoventi chilogrammi, facendo un po' di confusione tra l’eroe dei fumetti e reminiscenze bibliche, volle chiamarsi suor Supermanna. Altre divennero suor Soraya, suor Greischelli, suor Ledidaiana, suor Dixanna, suor Alendelonna e persino suor Nikilauda. Poi, si diedero alle orge più sfrenate insieme ai blablali. Trascorso qualche tempo, comprendendo di essere considerate soltanto suore-oggetto, le monache gettarono la tonaca alle ortiche e si dispersero. 25.

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I poveri rorarotti, incapaci di insorgere, si rivolsero al governo e alla curia. Come è costume in provincia, gli uffici postali del capoluogo furono inondati di lettere anonime indirizzate al prefetto e al vescovo. Il primo risultato fu il trasferimento di don Ammonio in una sperduta parrocchia della Val Polimera; poi, il prefetto inviò un ispettore scortato da un battaglione di teste di cuoio. Parte della popolazione si rintanò in casa e parte fuggì in montagna, temendo il peggio. Inaspettatamente, i Blablali non si mossero, non eressero barricate per difendere la rivoluzione. Non accadde nulla perchè i leaders fuggirono abbandonando la truppa al suo destino. «Quando i blablali si opponevano al sistema», racconterà Palvezzi ai suoi figli - «tutto risultava facile e divertente, assemblee e manifestazioni più o meno spontanee erano un alibi per non lavorare, e l’operazione più faticosa era imparare a memoria slogan in versi. Nessuno era responsabile delle proprie azioni e, quando qualcosa funzionava male, era sempre per colpa di una generica società». Ora, viceversa, i rivoluzionari di un tempo erano stremati dalle fatiche del potere. Rapidamente come era nato, il movimento si dissolse e a Roraro tutto tornò come prima. Il geom. Caseina così concluse il capitolo della sua Storia di Roraro dedicato ai Blablali: «Anche se il fine di alcuni utopisti era quello di cambiare l’uomo, i rorarotti non migliorarono nè peggiorarono: divennero soltanto meno ipocriti poichè gli interessi materiali non ebbero più la necessità di nascondersi dietro la maschera di fumose ideologie». Vennero indette nuove elezioni e vinse la sinistra storica, considerata dai Blablali il nemico numero uno. 26. Nelle vacanze natalizie il prof. Palvezzi si recava a Marzabotto, carico di doni per i pronipoti dei contadini i quali, dopo averlo nascosto e sfamato durante un rastrellamento, finirono trucidati dalle SS di Kappler. Una volta decise di portare con sè Auco che potè così visitare Bologna, rimanendo affascinato non tanto dai celebri monumenti, quanto dalle antiche vie del centro storico, e dai loro nomi: via delle Dame, via delle Donzelle, via dell’Inferno, via de’ Poeti, via Senzanome (è strettissima; i

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bolognesi, guide ufficiali escluse, raccontano si chiamasse anticamente, prima di una visita papale, via Sfregatette). (Le guide della città tacciono anche, magnificando la statua del Nettuno del Giambologna, un particolare imbarazzante. Per conoscerlo, partendo dall’angolo tra via Ugo Bassi e la piazza del Nettuno, il visitatore cammini lentamente costeggiando il Palazzo d’Accursio e fissando la statua. Ad un certo punto apparirà la risposta del beffardo scultore del Cinquecento al legato pontificio che gli ordinò di coprire i genitali di Poseidone con la foglia di fico). Un altro particolare della città colpì Auco: il caldo colore rosso delle case e dei palazzi, simbolo della gioia di vivere dei bolognesi; per un occhio rorarotto circondato dalla pietra grigia, dal calcestruzzo grigio, dagli intonachi grigi, dai tetti in beola grigia, l’esperienza fu quasi traumatica. Auco percorse la città in lungo e in largo, leggendo avidamente targhe e lapidi poste in ricordo di celebrità bolognesi quali Guido Guinizelli, Guglielmo Marconi, Augusto Righi, Luigi Galvani, padre G.B. Martini, Marcello Malpighi, Ottorino Respighi, Giorgio Morandi, il cardinal Lambertini, poi Benedetto XIV (l’arguto bolognese famoso per aver detto, ad una dama molto scollata: «Il crocifisso d’oro che porta è molto bello ma ancora più bello è il calvario!»), Riccardo Bacchelli, Scipione dal Ferro «primo solutore delle equazioni cubiche», Gino Cervi, o vissute a Bologna: Mozart ospite dell’Accademia dei Filarmonici, San Domenico, Dante, Leopardi, Boccaccio, Erasmo, Casanova, il Bibbiena, Copernico, Donizetti, Rossini, Corelli, don Olinto Marella («padre dei poveri»), Carducci, il frate G.C. Croce autore del Bertoldo, Augusto Murri, Nicola Zanichelli e tanti, tanti altri. Su una piccola lapide posta sulla torre della Garisenda Auco lesse, emozionato, un passo dell’Inferno: Qual pare a riguardar la Carisenda / Sotto ‘ l chinato, quand’ un nuvol vada / Sovr’essa sì, ched ella incontro penda; / Tal parve Antéo a me che stava a bada / Di vederlo chinare... . In piazza del Nettuno trovò una lapide dedicata ad un certo Anteo Zamboni. Non avendo mai sentito questo nome, Auco chiese lumi a Palvezzi. Si tratta di un sedicenne che, nel 1926, sparò a Mussolini, colpendolo al naso di striscio, subito dopo linciato dai fascisti. Come per Cleopatra - riflettè Auco - se il povero Anteo Zamboni avesse mirato meglio, forse l’Italia non avrebbe conosciuto gli orrori della seconda guerra mondiale.

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E le ragazze. Così belle non ne aveva mai viste. Checchè ne pensi il professor Indolo sulla qualità della vita di fine secolo, a Bologna non esistono ragazze brutte. Auco incrociò ragazze in fiore che camminavano consapevoli di attirare gli sguardi maschili e le osservava, forse con troppa insistenza, bisbigliando spesso: «Splendida! Una meraviglia della natura!». Attendeva una rispostaccia ma, in genere, l’oggetto di tanta ammirazione accettava in silenzio il complimento dell’anziano bidello. Una sera, Palvezzi lo volle con sè ad ascoltare Il Messia di Haendel. Al momento il cui il coro intonò l’ Alleluja ed il pubblico, secondo la tradizione, si alzò in piedi come fece Giorgio I di Inghilterra alla prima esecuzione, forti singhiozzi disturbarono il concerto; il colpevole era Auco, incapace di dominare l’emozione. Tornato a Roraro, nel rivedere le umide pietre grigie di cui è permeato, Auco ebbe una crisi di malinconia che lo portò quasi alla disperazione, anche perchè mancavano ormai pochi mesi al pensionamento, e quindi all’ abbandono dell’ amato Geranioli, unica sua ragione di vita. Palvezzi gli venne incontro nuovamente, suggerendogli di andare a vivere a Bologna, non avendo legami familiari che lo trattenessero a Roraro. Il professore l’ avrebbe sistemato in una sua mansarda. Scaduti quaranta anni di servizio, Auco fu collocato a riposo. Con i soldi della «buonuscita» acquistò un ciclomotore e si trasferì, con le sue poche, povere suppellettili e i suoi tanti libri, nel capoluogo dell’Emilia-Romagna. A Roraro non tornò più. Negli amarcord, i luoghi di origine sono sempre idealizzati e ricordati con nostalgia; una infanzia e una giovinezza poco gioiose portarono Auco a ricordare soltanto i lati negativi del suo paese. 27. Sono trascorsi vent’anni dall’inizio della rivoluzione blablale e molte cose sono cambiate. Ma Roraro è sempre Roraro. Davanti ai cancelli del Geranioli, prima dell’inizio delle lezioni, studenti ciellini esibizionisti si radunano in cerchio, il collo torto, recitando una preghiera. Per il terzo principio di Newton, dalle bocche dei bidelli presenti allo show escono orribili bestemmie. Palvezzi, un laico che conosce il Vangelo meglio di loro, cita S. Matteo: «Non fate come gli ipocriti, i quali amano pregare agli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini».

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Gli oranti sono i nuovi presenzialisti, hanno riempito il vuoto creatosi con la scomparsa dei Blablali. «Come loro» - rileva Palvezzi - «sono arroganti, intolleranti e presuntuosi». Lo prova un loro manifesto blsfemo: Pronto? Sei in linea con Dio. Proprio così, possedendo in esclusiva numero e prefisso, comunicano con Dio in teleselezione e, secondo le malelingue, gestiscono in appalto, oltre ad alcune mense universitarie, anche il centralino per i messaggi degli infedeli. Don Ammonio, scontata la pena dell’esilio e tornato arciprevosto di Roraro, è il loro consigliere spirituale avendo conservate intatte, pur essendo in età avanzata, le sue doti di trasformista. Sui muri di Roraro, e di altre città, non compaiono più invettive spray ma si moltiplicano gli sgorbi incomprensibili tracciati dai cosiddetti graffitari. A questo proposito, Auco ha inviato la seguente lettera al direttore di un grande quotidiano e con sua sorpresa è stata pubblicata. La sua grafomania troverà sfogo in altre lettere, anch’esse regolarmente pubblicate: Un pretore di Genova ha condannato un tizio, reo di aver incendiato un cassonetto dei rifiuti, ad affiancare il lavoro dei netturbini. Benissimo. Tale pena potrebbe essere estesa anche agli imbrattatori di muri e monumenti. Sembra prediligano gli antichi palazzi appena ristrutturati e soltanto uno psichiatra potrebbe spiegare i motivi per cui faticano tanto e spendono cifre non indifferenti in vernici per sgorbiare tutto quanto capita sotto i loro occhi. Ci toccherà rimpiangere gli antichi viva e abbasso che almeno avevano una motivazione, sia pure discutibile? Tra Bologna e Roraro corrono (si fa per dire, impiegando in media otto giorni) molte lettere. Palvezzi informa Auco sui cambiamenti avvenuti al Geranioli e l’anziano bidello lo tempesta di domande non riuscendo a capire, candido come sempre, il contraddittorio comportamento dei presenzialisti ex-blablali. Palvezzi risponde pazientemente. Ecco un brano della corrispondenza. «Come spiega, professore, l’improvviso amore per la natura sbocciato nei cuori degli ex-blablali rorarotti, cultori della violenza contro uomini e animali?».

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«Francamente, non sono in grado di rispondere. Lottavano, a parole, per difendere gli emarginati, gli omosessuali, gli handicappati, gli zingari. Ora si battono per la sopravvivenza del lupo rodigino e della vipera eporediense. Curiosamente, non muovono un dito per salvare dal mattatoio vitelli e polli, animali miti e inoffensivi. Non soltanto. La domenica percorrono strade di campagna alla ricerca di polli ruspanti che pagano a peso d’oro, ignorando che il contadino li acquista da una multinazionale di un vicino allevamento in batteria. Difendono però a spada tratta i piccioni che prolificano eccessivamente, sporcando e rovinando i monumenti. Ovviamente, sono contro l’ingegneria genetica in agricoltura: temono venga contaminato il sapore caratteristico di alcuni alimenti, dimenticando che il problema della FAO è quello di sfamare i bambini del Terzo Mondo. Lottavano contro il nucleare, si battevano per le fonti alternative di energia e per il risparmio energetico. Adesso, laddove sono stati installati sofisticati impianti per l’utilizzazione dell’energia eolica, protestano perchè le grandi pale rotanti deturpano il paesaggio. Sono pure nemici dei bacini artificiali che alimentano le centrali idroelettriche. Tuttavia, elevano vibrate proteste quando, per un motivo qualsiasi, nelle loro case manca la corrente per qualche minuto. Insomma, pretenderebbero energia elettrica in quantità illimitata senza centrali per produrla. In compenso, nelle città, ostentano la loro volgarità recandosi al bar a bordo di enormi, neri carri funebri senza pennacchi chiamati fuoristrada, consumando fiumi di benzina. Inoltre, alcuni antichi ecoestremisti sono diventati ecofurbi, riuscendo a produrre e vendere preparati e materiali aggiungendo ai marchi di fabbrica, pour épater le bourgeois, i prefissi eco- , bio- e persino ecobio- ». «Cosa pensa della proliferazione dei ciarlatani?» «Tutto il male possibile. Alle soglie del Duemila riemergono ideologie irrazionali, la superstizione dilaga, gli oroscopi aprono le trasmissioni televisive e sono pubblicati anche dai giornali più autorevoli. Astrologi, chiromanti, cartomanti, medium, guaritori, santone, cultori del paranormale e imbroglioni assortiti imperversano ad ogni ora dal video, sono molto ascoltati e fanno affari d’oro. Ho letto su un quotidiano che il professor Massimo Polidoro, fondatore del CICAP (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale) ha inviato un appello al

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presidente della RAI perchè consideri l’opportunità di non trasmettere gli oroscopi. Era ora! Padri nobili del CICAP sono i professori Rubbia, Levi Montalcini, Hack, Regge, Dulbecco, Garlaschelli e Umberto Eco, Dario Fo, Piero Angela e altri. Purtroppo, sullo stesso quotidiano che riportava la notizia, commentandola positivamente, in un altra pagina si incontrava una scheda in cui si confrontavano due famose bellezze e cosa comparivano? Dopo le date e i luoghi di nascita, i loro segni zodiacali!». 28. Il prof. Palvezzi è stato « collocato a riposo per raggiunti limiti di età», orribile espressione del burocratese che rende ancora più triste il pensionamento, ricordando certi racconti di fantascienza in cui gli anziani improduttivi vengono eliminati con mezzi drastici. Risiede sempre a Roraro e, frequentando il Geranioli, si mantiene aggiornato. E’ così in grado di comunicare ad Auco, imbibendo con qualche goccia di cianuro la cartuccia della stampante, dove sono e cosa fanno gli ex-blablali più noti. Caro Giovannini, nelle sue lettere si scandalizza per l’incoerenza dei presenzialisti. Ricorderà quanto diceva il signor Giuseppe: «Diffida da chi non cambia mai idea». Sagge parole. Tuttavia, qui si esagera come sempre. Durante la rivoluzione blablale, come ricorderà, in ossequio alle teorie del dott. Benjamin Spock, la Morfo non aveva mai alzato le mani sul figlio. Benissimo. Adesso, seguendo le nuove teorie dello stesso pedagogo, affibbia al ragazzino tremendi schiaffoni se rincasa con un voto inferiore al sette, essendo tornata in auge la meritocrazia. Infatti, ora gli ex-blablali acquistano per i loro figli un manuale molto diffuso: Trenta agli esami universitari si prende così. Sergio Scatolo, laureato in psicologia, è diventato un creativo pubblicitario ed è un esponente locale di Forza Italia. Lavora per una famosa rete TV commerciale, usando un linguaggio castigato anche quando reclamizza prodotti collegati alle funzioni fisiologiche così spesso menzionate nei suoi discorsi in assemblea. Si devono alla sua fantasia, infatti, i famosi dieci piani di morbidezza.

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In rare occasioni, Scatolo ritorna per breve tempo il rivoluzionario antiamericano di un tempo. Sembra infatti sia stato l’ispiratore di un manifesto listato a lutto apparso sul muri di Roraro quando, il 28 gennaio 1986, è esploso un traghetto spaziale con cinque astronauti a bordo. Vi si poteva leggere, tra l’altro «Esultanti ci associamo alla sghignazzata mondiale per l’esplosione in volo ...». Come vede, l’odio per la tecnologia avanzata e per gli USA si mantiene sempre vivo. L’ ex-sindaco Indolo, deluso per la fine ingloriosa del movimento, ha dichiarato pubblicamente di non voler più occuparsi del bene comune ed è ripiegato sul privato. Si è convertito ad una misteriosa religione indiana e trasferito in una città del Meridione. Il disastro di Chernobyl gli ha suggerito di utilizzare la sua specializzazione in «inquinatica» per spillare denaro ai gonzi, aprendo uno studio denominato Sapienza Orientale. Definendosi Protoscienziato metafisico bergamasco, assiste persone facoltose che temono di essere contaminate dalle radiazioni nucleari. Sconsiglia la costruzione di rifugi e l’uso di complessi indumenti protettivi ma insegna «un metodo nutrizionale che rende le cellule invulnerabili i raggi gamma e ai neutroni, modificando il DNA del soggetto con una particolare dieta a base di sostanze naturali (ti pareva) dotate di energia tale da respingere quella delle radiazioni atomiche presenti e future». Convinti i clienti con la dialettica usata un tempo contro il consumismo, li induce ad acquistare a peso d’oro un disgustoso intruglio da lui stesso prodotto. Prosperano anche le grandi industrie statali e private da lui combattute. Fiutato il business dell’ecologia, dopo aver inquinato il pianeta con rifiuti di ogni genere, ora producono benzina pulita e costruiscono impianti di depurazione e smaltimento dei rifiuti per le piccole aziende e per i Comuni; non per il profitto, s’intende, ma per migliorare la qualità della vita della popolazione, come affermano sui paginoni dei quotidiani. Gli ex-discepoli di Indolo, troppo occupati a fare carriera, lottano tra loro senza esclusione di colpi, ricordando le prediche del Maestro soltanto in vacanza, quando capita loro di sedurre qualche svedese, preferendo al letto una spiaggia o la frescura di un bosco. Vale per loro quanto ha scritto Claudio Magris: «Anni fa la retorica sessantottina - falsa come gli stracci firmati da stilisti di moda - pretendeva di distruggere la meritocrazia e rischiava di distruggere semplicemente la capacità di imparare e di fare un lavoro. La reazione, che ne è seguita, ha

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fatto proprio il suo stile arrogante e aggressivo capovolgendone il significato ideologico e propone oggi modelli di successo, facce da yuppie e l’assillante dovere di vincere». Arsenio Mercaptani, laureato in scienze sociali, ora esponente della Lega Nord, ha partecipato ad un concorso provinciale per ufficiali giudiziari; la posizione di trentaquattresino in classifica gli ha permesso di trovare un «posto» sicuro proprio a Roraro. Le sue energie, volte un tempo a diffondere il verbo rivoluzionario, sono ora dedicate all’esecuzione di pignoramenti e sfratti. Mai Roraro conobbe un funzionario tanto zelante e senza pietà nell’applicare la legge. E’ capace di mettere sul lastrico, spalleggiato dai poliziotti (un tempo da lui definiti nazisti ), debitori morosi e intere famiglie sfrattate. Le sue vittime preferite sono gli immigrati di colore. Nessun pianto di bimbo lo commuove; conserva intatto il ghigno sprezzante che ne faceva l’idolo delle ragazze blablali. Paola Romantrene, la teorica del sesso, laureatasi in matematica, insegna al Geranioli ove - come da copione - sfoga le sue frustrazioni sugli allievi. E’ tuttora sola, piena di invidia per le sue ex-compagne di scuola che non parlano di sesso in pubblico ma ne apprezzano i piaceri in privato. Paola tratta gli studenti, e ancor più le studentesse, con alterigia, pretende da loro l’ impossibile, giustificandosi con la frase cretina, udita più volte da Auco: «Quando studiavo, i professori mi hanno angariata, umiliata, perseguitata; perchè dovrei essere comprensiva con voi?». Le verifiche orali non sono semplici interrogazioni ma interrogatori, da cui gli allievi escono distrutti dal suo sarcasmo; le ragazze più carine, in particolare, dopo essere cadute in confusione cercando di risolvere i suoi perfidi esercizi trabocchetto, devono ricorrere alla psicologa scolastica. Durante gli scrutini, trovandosi gomito a gomito con i suoi ex-professori, un tempo criminalizzati perchè si rifiutavano di assegnare il sei politico, la neo-prof spara le sue raffiche di due e di tre, accusando sfacciatamente gli insegnanti di scuola elementare e della media inferiore di permissività e incapacità di giudicare un allievo idoneo o meno a frequentare le «superiori». Molti cari saluti, le scriverò presto. Suo

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Auco è diventato un vecchio curvo e afflitto da lievi acciacchi che non gli impediscono, nelle domeniche d’estate, di viaggiare praticamente tutto il giorno in ciclomotore, sotto il sole di quella terra felice dove il box diventa boss e il boss si trasforma in bosh. Mete preferite Ravenna e i lidi romagnoli. A Ravenna, la prima volta che entrò in San Vitale, credette di trovarsi in paradiso. Stavano celebrando una messa sull’altare di alabastro; ai lati, i cortei di Giustiniano e di Teodora. Un piccolo coro, ad un certo punto, intonò il mottetto Ave verum Corpus di Mozart. Un binomio meraviglioso: la vista degli splendidi mosaici e una melodia sublime nella sua apparente semplicità. Che desiderare di più dalla vita? - gli venne fatto di pensare. A Molinella, paese natale di Giuseppe Massarenti, trovò soltanto un monumentino dedicato al santo laico, niente di speciale ma lo commossero le parole incise sul basamento: E se ‘l mondo sapesse ‘l cuor ch’egli ebbe, / Mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe. (Par. Canto VI ). Ricordò di aver letto che Mussolini inviò al confino e poi fece chiudere in manicomio il famoso sindaco di Molinella, definendolo - come non pensare ai Blablali? - «vecchio rammollito riformista» . A Marina di Ravenna aspira la brezza proveniente dal mare (lo intravede dietro una selva di cabine e ombrelloni), mangia una piadina e riprende la via del ritorno in città, attraversando paesi deserti e silenziosi. Radio, televisori, stereo e motociclette hanno accompagnato i proprietari nei luoghi di villeggiatura, particolarmente in quelli definiti Località di cura & soggiorno, dove ci si reca per ritrovare, amplificati, i rumori cittadini. Prendendo spunto da un fatto di cronaca, Auco scrisse questa lettera al direttore di un grande quotidiano, non pubblicata. Vorrei esprimere la mia comprensione al sig. E. A. di Lucca il quale, svegliato nel cuore della notte, ha perso la pazienza esplodendo quattro colpi di Smith & Wesson contro un gruppo di giovani che tenevano lo stereo dell’automobile a tutto volume. Non siamo nel vecchio West dove ciascuno si faceva giustizia da solo. Quei giovani, tuttavia, passata la paura, continueranno impunemente ad aggredire in questa forma altri cittadini, come accade dovunque. Non risulta che gli ecologisti, troppo occupati a salvare alberi e animali, promuovano manifestazioni contro questa forma dilagante di inquinamento acustico, non inevitabile come quello del traffico urbano, ma evitabilissimo se con le buone o le cattive si convincessero i

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fracassoni che uno stereo a tutto volume è assimilabile ad un arma impropria. Quindi, non stupiamoci se alcuni reagiscono violentemente alla violenza, come ha fatto il sig. A. I suoi avvocati potranno chiedere le attenuanti per legittima difesa? Auco si è iscritto ad un corso di storia della musica presso la «Primo Levi, università per la terza età» ed è entusiasta del professore, un valente pianista. L’inaugurazione dell’anno accademico si è tenuta nell’aula magna dell’Università, la magnifica chiesa sconsacrata di S. Lucia in via Castiglione. Ospite d’onore il premio Nobel Rita Levi Montalcini, accompagnata da una interminabile ovazione al suo lento passaggio nella navata fino a raggiungere la cattedra. Ha parlato a ruota libera spaziando dalla descrizione del cervello umano a ricordi del suo amico Primo Levi (le ha telefonato il giorno prima della morte), alle leggi razziali (è riuscita a fuggire aiutata dal partito d’Azione), alla dichiarazione: «Sono laica, non prego, non vado nella sinagoga ma rispetto tutte le religioni». Auco è stato colpito dalla frase: «I turpi delitti sono di pochi, la viltà è di molti» . Alla fine, gli allievi della Scuola di canto della Primo Levi hanno eseguito una bellissima melodia ebraica in cui ricorreva di continuo la parola shalom. Al ritorno da una gita in motorino si manifestarono i primi sintomi della malattia che permise ad Auco di terminare il pace la sua vacua esistenza. Avvertì dapprima strani brusii nelle orecchie ma non vi fece caso. Con il tempo, i ronzii si trasformarono in sibili ma, pessimista come sempre, credette fossero disturbi di poco conto. Con l’intensificarsi dei segnali cominciò a nutrire una debole speranza, pregustando la bellezza del creato in cui sarebbe vissuto se fosse accaduto il miracolo. Si recò, emozionato, dall’otorino della mutua. Il medico comprese subito la natura della malattia ma tergiversò. Ad una precisa domanda del paziente dovette tuttavia emettere il verdetto: «E’ questione di qualche mese, il fenomeno è purtroppo irreversibile, lei perderà totalmente l’udito ...». «Ma che purtroppo e purtroppo», - esclamò Auco salticchiando nell’ambulatorio per la gioia - «deve dire per fortuna! Si realizza il sogno di una vita. Sordo! Sordo! Finalmente sordo! Suonate, clacson e stereo di automobilisti cafoni; squillate, allarmi difettosi dei fuoristrada; strepitate,

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strombettate, ululate, schiamazzate: a questo punto, chi se ne frega? Scusi dottore, che mi importa?». Come previsto dallo specialista, Auco perse la capacità di udire e l’universo sprofondò in un magico, incantevole silenzio. 30. Al «San Procolo» vegeta uno strano vecchietto completamente sordo. Si aggira sorridendo ai compagni di sventura e al personale mentre la televisione trasmette un programma in cui si alternano cantanti dalle facce volgari; indossano stravaganti costumi di scena, adottati in seguito nella vita quotidiana dai più sprovveduti. Il volume del televisore è altissimo. In un locale vicino, altri assistono ad un film davanti ad un secondo televisore, aumentando la confusione. Non per nulla il San Procolo, un ricovero per anziani, è chiamato ufficialmente Casa di riposo. Ma il vecchio Auco sorride; pochi mesi prima sarebbe fuggito terrorizzato, alla ricerca affannosa di un luogo silenzioso, ormai inesistente, ove poter connettere i suoi pensieri. Vecchi tabaccosi sbuffano, scatarrano, ruttano e petano rumorosamente, si lamentano, litigano tra loro e con il personale per futili motivi. In mensa, si scatena un concerto di suggimenti e risucchi. Il cibo e l’assistenza sono buoni ma la privacy inesistente. A poca distanza, ha sede l’ufficio delle imposte, un poco più lontano la direzione provinciale della DC, mentre in una strada laterale sorge l’Istituto di Medicina legale dell’Università. A chiunque verrebbero i brividi trovandosi in un posto simile ma Auco è ugualmente felice. Non è più in grado di ascoltare il suo amato Brahms ma può vedere, sul televisorino della sua cella, Leonard Bernstein saltellare sul podio. I suoi gesti, buffi per chi osserva un direttore d’orchestra sul video ad audio spento, gli appaiono invece pertinenti, conoscendo i motivi delle quattro sinfonie, delle due ouvertures, dei concerti e di «Un requiem tedesco». Ad intervalli, compare in primo piano il viso del Maestro; è pieno di rughe, in contrasto con gli occhi limpidi, quasi infantili, gli occhi di una persona buona e intelligente. Alla fine del concerto, Auco non sente lo scrosciare degli applausi eppure si commuove quando Bernstein non si limita a stingere la mano ai solisti ma, come era suo costume, li abbraccia, e con loro i professori che incontra mentre esce di scena.

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Per sua fortuna, Auco non è costretto ad ascoltare, quale sigla di apertura di una Tribuna elettorale, una cacofonica caricatura del finale della «Prima» di Brahms. Eppure, la RAI disporrà sicuramente di uno o più consulenti musicali per ogni partito dell’arco costituzionale. Al San Procolo vi è molta libertà e il non più giovanissimo Auco (come dicono adesso per indicare chi ha superato l’ottantina) esce spesso non per sbevazzare come fanno i suoi compagni di sventura, ma per soddisfare l’antica passione per la lettura. Le scritte sui muri - non ne perde una, sgorbi a parte - gli rivelano l’esistenza di un mondo giovanile totalmente diverso da quello dei Blablali rorarotti. Si commuove perciò leggendo, al posto dei loro proclami, teneri messaggi quali «Stefy, torna a stare con me», «Marco ti amo alla follia» o sfide come «× Rubbi Odilia - Questa volta Luca sarà mio per sempre - Cristina». Come tutti gli anziani, Auco non ricorda ciò che è avvenuto o gli hanno detto il giorno prima mentre affiorano continuamente nella memoria fatti, persone, letture dell’ infanzia. Come la Chinina Migone, portentoso ritrovato per la crescita dei capelli: tutti i giornali riportavano i disegni di uomini che si pettinavano barba e capelli lunghissimi con un rastrello. Ricorda (frequentava la quinta elementare) quando Mussolini aveva dichiarato guerra all’Etiopia. In classe campeggiava una carta topografica di questo infelice Paese, piena di segni convenzionali indicanti la presenza di oro, argento, rame, carbone, petrolio, allevamenti di bestiame, ecc. Ricorda il giorno della partenza per l’Africa degli Alpini, con le divise di panno grigioverde, le fasce alle gambe e gli scarponi pesanti. Alla sera, dopo la sfilata, vagavano nelle strade del paese, ubriachi, insieme alle fidanzate o alle mogli piangenti. Auco sente che la fine si avvicina, non ha paura di morire ma della sofferenza fisica. Ammira la saggezza di un riminese che ha fatto incidere sulla sua tomba: Am so cavè un bel pinsì (Mi sono tolto un bel pensiero). Il vecchio bidello nevrotico è ora in pace con se stesso e il resto del mondo, in serena attesa dell’altra, definitiva pace.

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AL TRAMONTO IN AUTOSTRADA di G. Giacomo Guilizzoni Nel tardo pomeriggio di un giorno di agosto, percorrevo la A 14 con la mia nipotina Donatella di quattro anni. Dopo il tratto Bologna-Rimini, in cui il traffico è sempre intenso, l’autostrada si fece pressoché deserta. Non volendo tradire la fiducia dei genitori (mi avevano affidato la piccola con mille raccomandazioni) non accelerai, occupando la corsia più a destra, come dovrebbero fare coloro che viaggiano a velocità moderata. Viceversa, nei giorni in cui non circolano mezzi pesanti, la prima corsia è praticamente vuota poiché quasi tutti occupano, anche a bassa velocità, la seconda. Si sentono disonorati a muoversi sulla prima perché, ogni tanto, appare l’offensiva indicazione: «Veicoli lenti». Mi sorpassavano, oltre alle altre automobili, anche grossi TIR e persino qualche auto con roulotte. Al crepuscolo, nei pressi di Senigallia, Donatella gridò forte, indicando con la mano un grosso pullman che ci aveva sorpassati: - Nonno, guarda! - Che cosa? - Guarda! - Ma sì, è un pullman, lo vedo. - Intorno al pullman! Sopra il pullman! - ( ? ). - Ma proprio non li vedi? - Ma che cosa? Ora un TIR ci ha superati ed ha superato anche il pullman. - Che cosa è un tir? Non capivo cosa vi fosse di tanto insolito da richiamare l’attenzione di una bimba, eppure lei insistette. Gli occhi dei bambini - come è noto - sono puri, incontaminati, non esprimono l’egoismo, l’insoddisfazione, la gelosia, l’invidia e gli altri tormenti degli adulti. Questa volta erano pieni di gioia estatica, come se Donatella avesse assistito ad uno spettacolo meraviglioso. Nel frattempo, il pullman si era allontanato, lo sguardo della piccola divenne triste e ciò mi turbò non poco. Un istante prima la nipotina mi aveva trasmesso una felicità indicibile; ora, mi sentivo invaso da una strana malinconia e persino da un poco di paura.

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Stupito, accelerai e raggiunsi il pullman. Bastò questo per rendere la bimba di nuovo raggiante. Inoltre, con mio grande stupore, si mise a fare dei cenni di saluto con la mano. I passeggeri del grosso automezzo non si intravedevano nemmeno di schiena, per cui i gesti di Donatella non erano rivolti a loro. La bimba aveva visto e rivedeva qualcosa che a me e ai pochi che percorrevano l’autostrada risultava invisibile, non vi era altra spiegazione. Le parlai ma non mi ascoltò, continuando a sorridere e a salutare con la mano. Ad un certo punto, sentii confusamente che mi veniva suggerito qualcosa, non saprei dire come e da chi. Una voce interna mi disse: solo i puri di cuore come i bimbi sono in condizione di percepire ciò che tu non puoi, cerca di scacciare dalla tua mente il rancore e persino l’odio che nutri verso certe persone, per fortuna soltanto nel breve periodo in cui ti infastidiscono. Esegui un’analisi introspettiva, cerca di capire e giustificare il loro comportamento e forse … . Ubbidii all’ ordine e iniziai l’autoanalisi. Mi vennero in mente, per primi, i laudatori del buon tempo antico. Non li sopporto quando tuonano contro la plastica, la televisione, le automobili, i prodotti chimici. Ma in quel momento mi sforzai di capirli chiedendomi: e se fossero persone che, a differenza di me, hanno trascorso una infanzia e una giovinezza gioiosa ed ora vivacchiano la maturità o la vecchiaia infelici e stizzosi? Poi, passai agli imbrattatori. Detesto (ma siamo in tanti) i graffitari che lasciano dappertutto gli orribili segni del loro passaggio notturno, accanendosi in particolare sui monumenti e sui muri di antichi palazzi appena ristrutturati. Da punire con qualche settimana di lavori forzati, agli ordini di un netturbino particolarmente incattivito, obbligandoli a riportare a loro spese, nelle condizioni in cui l’hanno trovato, quanto hanno offeso. Ma … Si tratta di persone frustrate - sostengono gli psicologi - consapevoli di non contare nulla; il loro parere agli altri non interessa ed allora si sfogano in questa forma, gridando al mondo intero: «Esisto anch’io!». Molti sgorbi sono infatti ripetitivi e rappresentano per così dire la firma del poveraccio che li ha prodotti. Ecco, mi venne in mente il termine poveraccio invece della parola imbecille, usata abitualmente quando parlo di queste persone.

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Compresi vagamente di essere sulla buona strada e passai ad un altro argomento, immaginandomi fermo al semaforo mentre insulto con parole irriferibili il solito «furbo» che, al rosso, non rallenta, non muove neanche il capo per vedere se l’incrocio è libero e prosegue come se il semaforo non esistesse. (Un giorno indicai bruscamente il semaforo rosso ad un motociclista mentre quasi mi investiva sulle strisce pedonali. Risposta: «Lo vedo, non sono mica cieco!»). Delinquenti! Criminali! Ma … E se quell’ uomo in auto passa con il rosso avendo abbandonato il lavoro per accorrere dalla moglie ricoverata d’urgenza in ospedale? O non potrebbe essere un poliziotto in borghese all’inseguimento di un pericoloso malvivente? L’autoanalisi iniziava a dare i suoi frutti. Riuscii infatti a intravedere, nella luce diffusa del tramonto, un’ alone dorato avvolgere il torpedone. Percepii confusamente che dovevo continuare su questa strada e passai all’argomento più difficile: l’ astio, l’ira, il livore, l’acredine, persino l’odio scatenato in me dagli automobilisti che sostano al semaforo sotto casa con lo stereo al massimo volume, da cui sgorga un martellante, monocorde suono di tam-tam. Bastardo è la parola meno volgare che grido contro di loro. Se c’è una cosa che mi rende furioso è proprio questa, riflettevo nel delizioso silenzio dell’autostrada, rotto soltanto dal piacevole rumore del motore della mia auto e di quelli dei mezzi che mi sorpassavano. (Sì, piacevole, perché fino all’ età di trentacinque anni il mio mezzo di locomozione è stata la bicicletta). Anche quel giorno risuonavano nella mia mente la cacofonia e l’insopportabile ripetitività di certi ritmi, un tempo ascoltati soltanto nei film comici sui cannibali, l’ anello infilato nel naso e la sveglia al collo, danzanti intorno al pentolone dove bolle l’esploratore. E qui casca l’asino - mi dissi - prima strepito contro i nostalgici del buon tempo antico e poi mi comporto come loro … . L’aureola dorata che avvolgeva il pullman sparì. Ripresi fiato e mi costrinsi a trovare una giustificazione anche per i fracassoni. La loro difesa richiese una grande fatica ma infine ne uscii vittorioso. Potrebbero essere persone infelici, pensai: vogliono stordirsi forse perché innamorati respinti o abbandonati, oppure lavoratori licenziati, studenti che non hanno superato un esame, ragazze bruttine prive di amore, o anche … .

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Dovetti fermare i miei pensieri perché, al rumore del motore del pullman, si aggiunse un fremito d’ ali e ricomparve l’alone avvolgente il grosso veicolo. Avevo vinto e finalmente li vidi anch’io. Erano come quelli rappresentati da Cimabue, Giotto, Gentile da Fabriano e altri sommi pittori. Sconvolto, mi fermai ad un autogrill mentre il pullman si allontanava definitivamente. Osservai di nuovo Donatella. Inaspettatamente, le sue labbra mormorarono parole che nessuno le aveva mai insegnato. Credevo di averle dimenticate mentre erano soltanto nascoste in un frammento proteico del mio cervello. Avevo capito, finalmente, e mi unii a Donatella recitando: «Angelo di Dio che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me …». Avevo visto l’angelo rappresentato da Simone Martini nell’ «Annunciazione» degli Uffizi, il capo circondato da una ghirlanda di foglie, la veste ricamata di fiori, il ricco mantello e le penne delle ali dai colori sfumati; l’angelo di Tobiolo del Perugino nella Certosa di Pavia, dalla veste azzurra, il mantello rosso con la fodera verde e le ali scure; i sei piccoli angeli dalle ali d’oro che circondano la «Madonna Rucellai» di Duccio di Buoninsegna agli Uffizi; l’angelo dell’ «Annunciazione» del Botticelli, sempre agli Uffizi, dal mantello trasparente e le curiose ali verdi e altri che ora non ricordo. Gli artisti, anche i minori - è risaputo - sono persone che posseggono un quid che li eleva al disopra della media. I pittori di cui rammentavo le opere avranno visto gli angeli nella loro infanzia - riflettei - e, a differenza dei comuni mortali, avranno ricordato il loro aspetto nei periodi creativi. Da quel giorno, so che cosa vedono i bambini quando indicano qualcosa invisibile agli adulti.

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Sulla prima pagina del «Corriere della Sera» del giorno dopo comparve la finestrella:

SFIORATA GRAVISSIMA TRAGEDIA Pullman con quarantatre bambini in gita scolastica sbanda e precipita in una scarpata nei pressi di Civitanova Marche. Miracolosamente, nessun ferito. Il racconto delle maestre e dell’autista, pure illesi, in Cronache a pag. 14.

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IL «CHIRURGO» di G. Giacomo Guilizzoni Il primo fu scoperto sul greto del canale Villoresi, nei pressi di Parabiago. Gli avevano amputato l’avambraccio sinistro, usando una tecnica raffinata, da sala operatoria. Il moncherino dell’uomo era immerso in un pozzetto di sangue da cui colava un filo purpureo: scendeva lungo il ripido pendio, disegnando una linea irregolare che si fermava prima di raggiungere la superficie dell’acqua. Quando fu trovato, l’uomo era già morto per l’emorragia. Il medico legale non riscontrò sul cadavere altri segni di violenza. I vigili del fuoco scandagliarono il canale ed esaminarono accuratamente il terreno circostante. Dell’ avambraccio, nessuna traccia. La vittima fu subito identificata poiché non le era stato sottratto nulla. Si chiamava Samuele Voghera ed era un avvocato di Bergamo, persona rispettabilissima, noto in città come consulente di fiducia dei maggiori industriali locali. Come accade in questi casi, i giornali parlarono a lungo di quello che fu chiamato il «giallo del Villoresi». Gli inquirenti scavarono nella vita pubblica e privata dell’avvocato, senza trovare nulla che potesse giustificare l’atroce fine. Trascorse qualche mese dal ritrovamento dell’avvocato Voghera quando, sulle rive del Ticino, presso Golasecca, un pescatore mattiniero scoperse, inorridito, il corpo del commendator Ladislao Attimoni, noto industriale tessile. Nelle sue tasche i carabinieri trovarono una forte somma di denaro, documenti, numerose carte di credito e un prezioso orologio antico. Attimoni era morto dissanguato come l’avvocato bergamasco e per lo stesso motivo, l’amputazione dell’ avambraccio sinistro, scomparso anche questa volta. L’esame autoptico non rivelò altri segni di violenza. L’ipotesi più attendibile per capire il movente dei due delitti era quella del maniaco. Tra i cronisti, tuttavia, vi fu chi sostenne trattarsi di una nuova forma di «avvertimento» mafioso; altri batterono la pista degli usurai, altri ancora accusarono la loggia P 2. Non mancò chi incolpò i soliti servizi segreti, ovviamente «deviati». A distanza di pochi mesi dalla morte dell’avvocato, la dottoressa Ersilia Santelloni, una quarantenne in carriera, direttore di filiale di un

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grande istituto bancario, fu trovata ancora viva da un cercatore di funghi, in un bosco del varesotto tra Varano Borghi e Corgeno. L’uomo era fortunatamente munito di «cellulare», per cui i soccorsi furono tempestivi e la donna venne salvata. Anche a lei era stato amputato l’avambraccio sinistro con la stessa tecnica usata dal «Chirurgo», come fu chiamato l’ignoto assassino dopo il primo delitto. Le ricerche furono minuziose ma l’arto della donna non fu mai trovato. La Santelloni, ancora sotto choc, riferì di essere stata rapita, nella sua villa sul lago Maggiore, da tre uomini mascherati. L’avevano imbavagliata e portata nel bosco, non ricordava altro. Sicuramente, prima della cruenta operazione, dovevano averla anestetizzata. Gli inquirenti sottoposero la signora ad un fuoco di fila di domande, anche di carattere intimo. La Santelloni raccontò tutto della sua vita, tacendo però un particolare che poi si rivelò decisivo per capire il movente dei delitti e tentare di risalire ai colpevoli. Unici indizi: le tre vittime del «Chirurgo» si conoscevano e appartenevano alla classe medio-alta. L’inchiesta stava per essere archiviata come le precedenti quando un certo maresciallo Scavone - non colto e preparato come i sostituti procuratori con cui lavorava, ma profondo conoscitore della fragilità umana - chiese e ottenne di interrogare la signora senza testimoni. Il sottufficiale era un carabiniere dal carattere buono e comprensivo, appartenente ad una delle poche categorie di persone a cui - come risulta dalle statistiche - gli italiani concedono ancora la loro fiducia. La Santelloni, dopo aver fissato a lungo il viso onesto del maresciallo, gli confessò quanto aveva taciuto negli interrogatori precedenti. «Deve sapere, egregio maresciallo» - iniziò la signora - «quanto sia difficile emergere nel nostro ambiente: la concorrenza è spietata. Soltanto pochi possiedono quel mix di intelligenza, furbizia, memoria, nervi saldi, cinismo, direi anche crudeltà, indispensabile per non retrocedere, una volta saliti sui primi gradini. Spesso, queste doti non sono sufficienti». La signora fece una lunga pausa. «Ecco perché io e pochi altri nel mondo abbiamo accettato l’offerta del professor Kevin Warwick di sperimentare la sua ultima

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creazione. Di fare le cavie, insomma. Gli italiani erano dieci. Siamo rimasti in otto». «Vincolata da un giuramento, non ho parlato di questo fatto con gli inquirenti; lo farò con lei, maresciallo, se mi promette di mantenere il segreto. Soltanto ora mi rendo conto che anche i miei “colleghi” sono in pericolo». La Santelloni continuò: «Warwick mi inserì, sotto la pelle del braccio sinistro, un costosissimo chip lungo poco più di due centimetri. Il microprocessore interagiva direttamente con le mie facoltà cerebrali, potenziandole notevolmente. Possedevo, in altri termini, un piccolo cervello sussidiario e quindi una memoria a prova di amnesia che si aggiungeva alla memoria biologica». «Qualcuno - ritengo Attimoni (uno sbruffone) deve aver pronunciato qualche parola di troppo in presenza di estranei - proseguì la Santelloni - «Così, la malavita ha saputo dell’ esperimento in corso e, temo, conosce anche i nomi delle altre “cavie”». Il maresciallo Scavone non voleva credere alle proprie orecchie. Scippi. Si trattava di volgari scippi. Sofisticati ma sempre scippi. Il «Chirurgo», di cui tanto favoleggiavano i giornali, non era un maniaco, non era un mostro ma un miserabile scippatore. Aveva semplicemente rubato tre microprocessori, del valore di decine di milioni, insieme ai loro contenitori. Con questa piccola differenza: i contenitori non erano borse o borsette, erano braccia umane. I criminali erano stati particolarmente efferati? Sì, ma non più di un comune delinquentello in motocicletta quando strappa la borsetta ad una donna anziana, pur sapendo che la vittima frequentemente oppone resistenza e cade, spesso ferendosi mortalmente. Il maresciallo promise di non rivelare a nessuno quanto aveva udito. Dietro suo consiglio, la Santelloni prese contatto con i sette compagni «potenziati». Assunsero un «gorilla» e i delitti cessarono.

L’esperimento del dottor Warwick potè continuare mentre il «Chirurgo» scomparve nel nulla da cui era emerso.

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CONCERTO PER PIANOFORTE E ORCHESTRA di G. Giacomo Guilizzoni In città non si parlava d’altro, persino al Bar Sport e dai barbieri. Il 3 aprile 1997, al Teatro Monteverdi, era in programma un concerto - unico in Italia - del celebre pianista armeno Aram Bagaran, con l’Orchestra Filarmonica di Bratilsava diretta da Lothar Weiss. Una settimana prima - tra gli oroscopi, l’ intervista alla veggente di Rescaldina, gli scoop sugli amori dei cantanti di musica leggera, dei calciatori e delle modelle - persino i rotocalchi nazional-popolari avevano dedicato qualche riga all’avvenimento. Un noto conduttore televisivo, famoso per la sua capacità di banalizzare qualsiasi persona e argomento, mesi prima aveva invitato Bagaran ad una comparsata nel suo «contenitore» (così chiamato per la scarsità dei contenuti), ricevendo uno sdegnoso rifiuto. Sconvolto dalla risposta negativa, uso a respingere le pressanti richieste di attori, scrittori e politici, fu ricoverato in una clinica psichiatrica. Per più giorni non fece che ripetere: «Ed ecco a voi ... Ed ecco a voi...» . La sera del concerto la sala era gremita. I presenti appartenevano alle tre consuete categorie: appassionati di musica, autorità, presenzialisti. Alcuni erano accorsi in teatro per puro conformismo, non avendo mai ascoltato un concerto nemmeno registrato o in televisione. L’orchestra, tra l’indifferenza generale, eseguì l’ouverture «Egmont» di Beethoven. Alla fine, qualche applauso di cortesia. Il pubblico era accorso soltanto per ascoltare Bagaran. In programma, il Concerto n. 2 in si bemolle maggiore di Brahms. Ricorreva, in quel giorno, il centenario della morte del compositore. Weiss risalì sul podio ma il solista non comparve. Trascorsero alcuni minuti di silenziosa tensione. Poi, il pubblico iniziò a rumoreggiare. I professori, innervositi, accordarono una seconda volta gli strumenti ma di Bagaran nessuna traccia. Il concertista, colpito da un malore, giaceva su un divano del suo camerino in attesa dell’ambulanza. Il sovrintendente Bianchi, dal proscenio, comunicò l’accaduto e dal pubblico si levarono grida di protesta. All’improvviso apparve dal nulla, immobile accanto a Weiss, un uomo piccolo di statura, corpulento, dai lungi baffi, la barba bianca e lo

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sguardo di una persona di intelligenza superiore. Dimostrava una sessantina d’anni e indossava una lunga giacca di foggia antiquata; dal collo, appeso ad un cordone, pendeva un occhialino. Le persone munite di binocolo poterono osservare il suo viso bellissimo ma di un pallore innaturale. In sala vi fu un momento di silenzio ma poi le urla ripresero. Alcuni gridarono: «Chi è costui?». «E’ un mitomane!». «Buttatelo fuori!». Trascorse qualche minuto e si verificò il secondo degli strani fenomeni accaduti in quella memorabile serata. L’Uomo fissò la marea vociante e il suo sguardo triste di disapprovazione fece ammutolire anche i più esagitati. Weiss e gli orchestrali fissarono perplessi il personaggio, trovando nel suo viso qualcosa di familiare. Come il pubblico, rimasero immobili, quasi ipnotizzati dall’apparizione. Nel loggione, un anziano dall’aspetto dimesso si rivolse ai vicini gridando: «L’ho riconosciuto! Io so chi è!». Fu zittito bruscamente. L’Uomo dalla barba bianca sedette al pianoforte e fece un cenno con la testa al direttore. Weiss fu invaso dal panico, ricordando di aver eseguito molte prove ma con Bagaran. Il pianista, con i suoi capricci da diva del cinema, lo aveva più volte portato all’esasperazione; soltanto nella prova generale, infine, l’intesa tra il solista e l’ orchestra era risultata perfetta. Ed ora? Cosa sarebbe accaduto con un pianista sconosciuto? Un disastro. Senza rendersi conto di ubbidire ad un ordine, Weiss diede inizio all’esecuzione. La bacchetta del maestro tremava. Il pianista espose, insieme al corno, il primo tema; poi, si verificò un altro curioso fenomeno: ogni strumentista intervenne al momento giusto, ignorando la presenza del direttore per tutta la durata del concerto. Tutto procedette perfettamente, mai dialogo tra pianoforte e orchestra raggiunse una simile perfezione. Consapevole della sua inutile presenza, dopo poche battute Weiss abbassò le braccia e rimase immobile, avendo intuito che l’orchestra era diretta dal misterioso pianista senza nemmeno muovere il capo. «Telepatia» - concluse tra sé - «Non vi è altra spiegazione». Molti si accorsero dello strano comportamento del direttore ma diedero poca importanza al fatto, troppo impegnati nell’ ascolto.

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Il pubblico, presenzialisti compresi, ascoltò in religioso silenzio, inchiodato alle poltrone con le mani strette ai braccioli, tutto il primo movimento, intenso, appassionato, uno squarcio di sublime bellezza. Molte signore smisero persino la fastidiosa abitudine di usare il programma come ventaglio. Nella pausa tra il primo e il secondo movimento, non si udirono nemmeno i consueti colpi di tosse: in sala regnò per alcuni secondi un magico, incantevole silenzio. Seguirono il tumultuoso Allegro appassionato, il nostalgico, affascinante Andante - in cui il pianoforte dialoga con il violoncello - e il finale Allegretto grazioso. Soprattutto durante il secondo movimento, anche gli ascoltatori più smaliziati raggiunsero una tensione al limite dello spasimo: non avevano mai sperimentato una emozione tanto intensa. Tra gli spettatori, molti conoscevano il Secondo Concerto di Brahms, avendo ascoltato questo prodigio della mente umana, dal vivo o registrato, interpretato da grandi pianisti quali Backhaus, Rubinstein, Pollini, Cortot, Gieseking, Krystian Zimerman, Sviatoslav Richter e tanti altri. Si era avverato quanto aveva scritto lo stesso Brahms: «Con questo concerto ho voluto mostrare che l’artista debba raschiarsi di dosso tutte le passioni per poter sciamare nell’etere più puro». Inconsapevolmente, il pubblico degli appassionati avvertì la profonda differenza tra questa e le esecuzioni conosciute: l’ Uomo aveva eseguito il vero Concerto n. 2, diverso da quello interpretato dai grandi pianisti. «La musica» - sostenne il direttore d’orchestra Carlo Maria Giulini in una intervista - «è l’unica arte che sulla carta è morta; si vedono soltanto puntini neri che chiamiamo note. Bisogna cercare di approfondire con umiltà ciò che hanno voluto dire i geni...». Tra gli astanti, qualcuno ebbe l’ impressione di vivere in un luogo e in un tempo lontani. Alcuni avvertirono - anche se non avevano mai visto la città magiara - l’arcana sensazione di trovarsi a Budapest, sede della prima esecuzione dell’opera. Terminato il concerto, i professori dell’ orchestra e il pubblico rimasero immobili in silenzio per parecchi minuti. Poi, tutti si alzarono in piedi e un boato scosse la sala. I critici dei più importanti quotidiani persero il proverbiale distacco ed urlarono le frasi entusiastiche che

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avrebbero telefonato al giornale la sera stessa, una volta tanto d’accordo tra loro. Weiss rimase immobile per alcuni minuti sul podio, a testa bassa, con le braccia abbandonate sui fianchi. Piangeva. Il pianista, invitato dal direttore ad alzarsi ed avvicinarsi al proscenio, non si mosse, non ringraziò la folla. Rimase seduto, rigido, davanti allo Steinway, ruotando leggermente il capo una sola volta per esprimere, con un malinconico sorriso, la sua riconoscenza agli orchestrali. Poi, si alzò in piedi e scomparve. Non già perché si fosse allontanato. No, letteralmente svanì, in un tempo non misurabile. Calò un silenzio innaturale, rotto dalla voce stridula dell’uomo del loggione. Gridava: «Era lui!, Era lui! L’avevo riconosciuto! Non era un interprete di Brahms!». Infatti. Il pianista era Johannes Brahms.

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31 DICEMBRE 1999 di G. Giacomo Guilizzoni Mi chiamo AA@↔ls 501 e sono uno studente nato nel 2042. L’ultimo periodo del XX secolo, quando le malattie si curavano con i farmaci e gli autoveicoli funzionavano a benzina o a gasolio, fu chiamato «era del computer» perché in quel tempo vennero costruite arcaiche macchine - chiamate appunto computer - di cui esistono esemplari nei musei. Ora sarebbero perfettamente inutili perché - come è noto - il nostro cervello biologico, nei primi giorni di vita, viene potenziato impiantandovi una megamemoria artificiale e una ricetrasmittente. La seconda ci permette di comunicare con qualsiasi persona in qualunque punto della Terra, ed anche con i coloni sulla Luna e su Marte, senza ricorrere a ingombranti macchinari come gli antichi videotelefoni satellitari. Comunque, i nostri antenati, essendo stati capaci di ideare e utilizzare macchine prodigiose per quei tempi remoti, dovevano - a mio avviso - possedere una mente razionale. E invece no. Il nonno mi ha raccontato come, negli anni ‘90, regnasse ovunque la superstizione. Astrologi, cartomanti, chiromanti, veggenti, guaritori, santoni, cultori del paranormale e ciarlatani assortiti erano allora molto ascoltati, anche se qualche saggio (il nonno ricorda l’astrofisica Margherita Hack, i Nobel Carlo Rubbia, Rita Levi Montalcini e Dario Fo, lo scrittore Umberto Eco, lo scienziato Silvio Garattini, il giornalista Piero Angela) cercava di smascherare i loro imbrogli. Il rudimentale cervello esclusivamente biologico del nonno è stato contaminato da un virus - dedussi. Quanto affermava mi sembrava incredibile. Mi ingannavo. Incuriosito, consultai giornali, riviste e video dell’epoca, leggendo esterrefatto intere pagine dedicate agli oroscopi e visionando la pubblicità demenziale di maghi e fattucchiere dai nomi ridicoli. In un giornale del 2000 si parlava di una ragazza, specializzata in informatica, scartata in un colloquio di lavoro perché il suo segno astrale era «importante per la creazione di un gruppo di lavoro armonico».

Era dunque questo il Medioevo di cui ci parla l’insegnante di Storia!

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Il nonno mi ha parlato anche della proliferazione di sette pseudoreligiose, comunità di fanatici che si autodefinivano immuni da ogni imperfezione mentre il vero saggio - sosteneva - è colui che possiede il necessario senso autocritico e cerca, senza prevaricare sugli altri, di fare qualcosa per ridurre i danni provocati dall’ umana fragilità.

Tra queste congreghe primeggiava la setta dei Bimillenaristi, le cui dottrine erano ispirate al passo del libro dell’Apocalisse dove si legge: «... avvenne un terremoto grande e il sole divenne nero, la luna divenne come sangue e le stelle del cielo caddero sulla terra [...] e il cielo si ritrasse come un libro che si riavvolge.». Dopo aver eseguito complessi calcoli, i Bimillenaristi - come i loro antenati dell’anno Mille - avevano dedotto che tutto ciò, preceduto da carestie, inondazioni, epidemie, sarebbe avvenuto allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 1999. Ovviamente, non accadde nulla di particolare. Quella notte, gli abitanti del mio paese, meno uno, vegliarono. I credenti si adunarono in preghiera nelle chiese; per tutti, credenti e non credenti, fu l’occasione per festeggiare l’inizio dell’anno 2000 con cenone e danze. Mio nonno, spirito bizzarro, dormì invece il sonno del giusto. Aveva letto che Gesù Cristo era nato nel 5 o nel 4 a. C. per cui il terzo millennio era iniziato anni prima e nessuno se ne era accorto. Quindi, sostenne, perché attribuire tanta importanza al 31 dicembre 1999 se non era il 31 dicembre 1999? Anche quella notte - mi disse il nonno - gli elettroni dell’universo seguitarono a sciamare intorno al nucleo dei loro atomi, le molecole a vibrare incessanti, la Terra continuò a ruotare intorno al Sole, il sistema solare a muoversi verso la costellazione di Ercole e le galassie ad allontanarsi l’una dall’altra, in cammino verso i sovrumani silenzi.

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IL FIUME di G. Giacomo Guilizzoni Vicino alle città e ai paesi ove abitiamo scorre un fiume senza nome. Alcuni, in un certo momento della loro vita, lo attraversano rapidamente, spinti da una forza a cui cercano invano di resistere; per altri la traversata è difficile, dolorosa, interminabile. Altri, ancora, si tuffano volontariamente nelle sue acque. Corrono voci strane e contraddittorie su quello che ci aspetta sull’altra riva, della quale alcuni negano l’esistenza. Pochi sono sinceri quando parlano del Fiume; la maggioranza sostiene di averlo rimosso dalla mente. Mah! Prima o poi tutti, umili e potenti, ci troveremo sulle sue rive, anche se trascorriamo la maggior parte della nostra esistenza a giocare con gli oggetti, le parole e i numeri. Il Fiume è attualmente uno degli ultimi tabù che sta per essere abbattuto - sembra - come tanti altri. Tuttavia, il nostro Paese ha la più bassa percentuale di donatori di organi nella Comunità Europea, dopo la Grecia. Il Corriere della Sera ha pubblicato tempo fa la lettera di una lettrice, firmata S.D.S., di cui riporto uno stralcio: «... l’iscrizione all’AIDO può essere esclusivamente determinata da una profonda partecipazione coinvolgente la nostra struttura psicosociologica, religiosa e morale ed io, che forse sarei stata propensa se l’offerta mi fosse cresciuta dentro...». Giorni dopo, nella pagina delle lettere al direttore, è comparsa quella di un lettore indignato (il sottoscritto): Non mi sembra che la signora S.D.S. possegga, come dichiara, grande «sensibilità di cittadina», essendo stata «forse» propensa ad iscriversi all’AIDO se l’offerta le fosse «cresciuta dentro». Campa cavallo. Affiorano dalle sue parole antiche superstizioni mascherate sotto frusti vocaboli anni Settanta, paragonabili oggi a monete fuori corso. Non ritengo di possedere le strutture psicosociologiche, religiose e morali della signora S.D.S. perciò mi permetto di ricordarle che, dopo la morte, in nostri organi saranno come i ricambi di uno sfasciacarrozze ancora utilizzabili, e nient’altro. Quindi, perchè non permettere, anche ricorrendo per legge al silenzio/assenso, il loro impiego per una nobile causa, considerata la scarsità di donatori di organi volontari?

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Rimosso durante il giorno, il Fiume compare nel sonno del mio amico Alberto, provocandogli incubi spaventosi. Pur sapendo quanto sia deprimente ascoltare il resoconto dei sogni altrui, mentre i nostri sembrano tanto interessanti, ancor oggi Alberto mi racconta le sue ossessioni notturne, o meglio quella ossessione. Infatti, cambiano i luoghi e le circostanze ma ogni volta, all’angolo di una strada, dietro una porta di casa, insomma in un posto qualsiasi, il mio amico avverte inaspettatamente, persino nel bel mezzo di un sogno piacevole, la presenza del Fiume. Gli appare all’improvviso una donna di mezza età, nè bella nè brutta, insignificante; non pronuncia parola, lo guarda soltanto: Alberto si rende conto in una frazione di secondo che si tratta del Fiume, rabbrividisce terrorizzato, urla «Eccola! E’ lei!» e si sveglia con il cuore in tumulto.

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IL PROFESSORE DI INQUINATICA di G. Giacomo Guilizzoni Negli anni in cui - come affermò Renzo Arbore in una intervista - «ridere era un peccato, il successo una colpa e la dietrologia una regola», nella scuola X di Y sbarcò un nuovo insegnante. Si chiamava Giorgio Indolo e si fece subito notare trasformando le lezioni in comizi contro il consumismo, l’inquinamento ed altri malanni che affliggono l’umanità, ma nel modo esasperato tipico dei fanatici. Gli studenti lo soprannominarono professore di Inquinatica. La sua principale attività era quella di rendere i giovani consapevoli di vivere nella peggiore scuola e nella peggiore società del mondo. Era ripiegato sull’ insegnamento dopo aver chiesto invano di essere inviato come missionario nell’Africa Centrale. Il vescovo a cui si era rivolto lo conosceva personalmente ed aveva insabbiato la pratica. Pur essendo intelligente e preparato, Indolo era in perenne conflitto con il resto dell’umanità, rabbioso contro tutto e contro tutti; auspicava ad esempio lo smantellamento dell’intero apparato industriale e, contemporaneamente, manifestava affinchè venissero aumentati gli stanziamenti per gli aiuti al Terzo Mondo. Il professore agiva in buona fede ma diventava pericoloso quando si agitava non tanto per i poveri, i malati, gli immigrati, gli emarginati (di cui non gli importava nulla come persone) bensì per esaltarsi denunciando, discutendo, stigmatizzando e condannando la società colpevole di tante nequizie. Sembravano scritti per lui i versi di Roberto Mussapi: «Non c’è peggior / nemico dell’uomo / dell’animalista. / Dopo il filantropo, / naturalmente». Gli scienziati, come è noto, sono divisi sul futuro del Pianeta: alcuni predicono l’avvento di una nuova glaciazione e altri il contrario, un surriscaldamento dovuto all’effetto serra. Il professor Indolo abbracciava alternativamente entrambe le teorie, pur di terrorizzare gli studenti con l’annuncio di imminenti catastrofi dovute all’abbassamento (o all’innalzamento) della temperatura della Terra, causati dal progresso tecnologico. Docente di chimica, Indolo classificava buoni i materiali e le sostanze naturali e cattivi i prodotti artificiali della grande industria. In

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questa ottica, inseriva nella prima categoria, oltre al nonadienale (a cui si deve il profumo delle viole mammole) anche il propantiolo (prodotto dalle puzzole) e persino i veleni dei funghi, l’acido formico delle formiche, l’oppio e la marijuana. Cattivi non erano soltanto l’acido formico della Montedison e i farmaci di sintesi ma soprattutto le resine e le fibre sintetiche. Indolo accusava persino la madre di Mosè di aver contribuito all’inquinamento del Nilo, avendo deposto il figlio in un cesto di vimini spalmato con bitume e pece, materiali non biodegradabili. Come è noto, sono ben poche le sostanze usate dall’uomo così come si trovano in natura; anche prodotti naturali come il latte, gli oli vegetali, la lana, la seta, il cotone, il legno sono utilizzabili soltanto dopo indispensabili trattamenti fisico-chimici. Tutto il resto è frutto di reazioni chimiche: sono artificiali, nel senso di prodotti frutto dell’opera umana, il pane, il vino, la birra, la maggioranza dei farmaci, i laterizi, il cemento, le leghe metalliche, ecc. Indolo e i suoi seguaci criminalizzavano gli oggetti di plastica e non coloro che li gettano dappertutto insieme ad altri rifiuti. Ignorava che, prima della scoperta dei plastomeri, i bimbi si trastullavano con giocattoli di latta arrugginita e tagliente, veicolo ideale per il tetano, o di legno scheggiato, colorato con vernici contenenti solfuri di arsenico, impiegati da fabbricanti senza scrupoli per il loro basso costo. Indolo odiava la plastica anche perchè con essa si producono oggetti kitsch; in compenso, aveva «abbellito» il giardinetto di casa con le statuine di gesso di Biancaneve e i Sette Nani e nel suo studio troneggiava una orribile riproduzione di una gondola costruita incollando conchiglie. Ma il gesso e le conchiglie sono materiali naturali e tanto bastava. Indolo auspicava un impossibile ritorno ad una civiltà contadina. Troppo occupato con il presente, sembrava non avesse mai sentito parlare delle carestie e delle epidemie così frequenti nell’epoca preindustriale, della sporcizia e del freddo in cui vivevano i poveri (oggi promossi al rango di non abbienti), un tempo la stragrande maggioranza della popolazione italiana. Un giorno, un collega di Indolo, stanco di sentirlo pontificare, fece circolare la seguente storiella, parodia di un racconto dei «Fioretti di S. Francesco». Ove si narra come in cotal guisa fra Giorgione da Fabriano ricondotto fusse sul retto sentiero, con argomentar quieto, ad opera delli santi confratelli.

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Addivenne una volta che in uno santo luogo nomato Geranio, uno garzone, rispuondente al nome di fra Giorgione da Fabriano, giugnesse colà in cerca di scabbie. Tutta la congregazione festosamente il ricevette, ancorchè il saggio padre guardiano Giuseppe da Susello havvi subito osmato in colui una possession diabolica, insistendo imperocch’egli, prima di accoglierlo, per prudentia venisse sottoposto al demoniumtesto, sorta di quizzo ivi portato da fra Michele Buondì del Tripudio, giunto d’oltre il Mare Oceano. Tutti li frati si dispuosero in cerchio intorno al novizio e padre Giuseppe, a colui approssimandosi, così benignamente pregollo di rispuondere alla domanda: - Che tu dei fare per raggiungere la santitade? Il giovane rispuose: - Inizio il discorso sulla santitade. Padre Giuseppe ripetè la domanda e lo sciagurato rispuose: - Porto avanti il discorso sulla santitade. Per la terzesima volta frate Giuseppe pose l’ istesso quesito. A questo punto, il nomato Giorgione, ispaventato, subitamente si fece mutolo, mentre avrebbe dovuto rispuondere «Oro et laboro» fin dall’inizio del giudicamento. Conciossiacosachè, avendo compreso li frati come colui fusse invasato dal dimonio, impugnarono eziandio lunghi bastoni nocchiuti et il batterono nodo a nodo con li detti bastoni gridando: - Penitentia, penitentia! Lungi da noi sugliardo e bugiardo millantator dimonio! Vattene extra con gli Extra! Innanzi a cotali pacate argomentazioni il giovin frate incominciò a piagnere amarissimamente et dicea ad alta voce: - Guai a me, ch’io son degno de lo ninferno! Quinci ricognobbe la colpa sua e domandonne umilmente la penitenzia. Sotto la mortificazion della carne, subitamente si partì da lui ogni tentatione e da indi innanzi ristette calmo, orando et laborando come ognun dee.

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ACCADDE A LEIDA di G. Giacomo Guilizzoni La sera del tre ottobre del 2005, l’anziano professore Heicke Kamerlingh Onnes Jr., dell’università di Leida, in Olanda, era felice e preoccupato: il giorno dopo, con la sua équipe, avrebbe cercato di raggiungere lo zero assoluto, la più bassa temperatura possibile. Una impresa ai limiti della fantascienza. Il professore aveva lavorato per anni al difficile problema, seguendo le orme del suo avo - il celebre «mago del freddo» - di cui portava il nome. Finanziato dal governo europeo, Kamerlingh Onnes Junior aveva progettato e costruito una complessa macchina basata su una sua scoperta, l’effetto CAM (effetto crio-adronico-magnetico). Cuore dell’apparecchiatura era la camera criogenica, un cilindro orizzontale posto all’interno di un gigantesco elettromagnete. Il cilindro poteva contenere a malapena un uomo sdraiato ed era stato costruito usando costosissime leghe di neodimio, samario e lutezio, resistenti alle bassissime temperature. Il resto della macchina era costituito dalle apparecchiature per l’utilizzazione dell’effetto CAM, racchiuse in uno spesso involucro di materiali termoisolanti. «Si è fatto tardi» - disse il professore ai suoi collaboratori, eccitatissimi - «Andate a riposarvi; domani sarà una giornata dura. Controllerò un’ ultima volta gli strumenti interni». Kamerlingh Onnes Jr. era un gentiluomo colto nel senso più nobile del termine, dalla vita privata esemplare. Possedeva un atteggiamento di sereno distacco verso la materia trattata, come il suo più famoso collega danese Niels Bohr a cui si deve l’ironica definizione: «Esperto è colui che ha commesso tutti gli errori che si possono commettere in un campo ristretto». Allievi e tecnici adoravano il professore per la sua sapienza e la sua disponibilità; i colleghi lo ammiravano incondizionatamente. Era diventato titolare della cattedra di Criologia esclusivamente per meriti scientifici e non - come accade talvolta - per motivi politici. Era ateo ma ricercava la fede senza trovarla. Non professava nessuna religione ma inviava regolarmente, in segreto, modeste somme

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di denaro (il suo reddito era inferiore a quello di un commerciante di rottami analfabeta) ad un ex- allievo missionario in India. Ma torniamo a quella sera. Il professore entrò con fatica nella camera criogenica e compì un grave errore: chiuse il portello dietro di sè. Poi, iniziò a controllare i circuiti con un vecchio tester, malgrado il lavoro fosse stato compiuto più volte con sofisticati dispositivi computerizzati. Ma il destino era in agguato. Chissà come, il telecomando di avviamento sfuggì dalla tasca del camice del professore, cadendo su alcuni pulsanti. Nella camera, la temperatura iniziò ad abbassarsi, lentamente ma inesorabilmente. All’inizio comparvero lievi fiocchi di neve, prodotti dalla condensazione del vapor d’acqua emesso dal respiro affannoso del professore. In pochi minuti il corpo dello scienziato divenne una scultura di ghiaccio, per il congelamento del sudore e dell’umidità degli abiti. Poi, il sangue solidificò e sopravvenne la morte. Alcuni fili di piombo di uno strumento, per la bassa temperatura, vibrarono emettendo un suono argentino. Più tardi, il fondo e le pareti della camera furono ricoperti da un leggero strato di un liquido azzurrognolo, mobilissimo. Era l’ aria dell’ambiente, liquefatta. La temperatura scese ancora, l’aria solidificò in cristalli duri come il diamante ed il cadavere del professore diventò più fragile del vetro. Un piccolo urto sarebbe stato sufficiente per ridurlo in minuscoli frammenti. Meno 270 °C, meno 271 °C, meno 272 °C ... . Alla temperatura di 273,16 gradi sotto zero, improvvisamente, il corpo dell’uomo scomparve, mentre la temperatura iniziava lentamente a risalire. Il professore si «risvegliò» in un «luogo» sconosciuto, più vuoto degli spazi interstellari in cui vagano solitarie molecole di idrogeno. Si rese conto, stupito, di esistere senza possedere un corpo. Non aveva più occhi per vedere, orecchie per ascoltare, cervello per elaborare i dati ricevuti da questi e altri organi, eppure pensava. Si rese conto di poter anche comunicare con entità simili a lui di cui avvertiva, senza capire come, la presenza. Ma esistevano come, dove, quando? Erano energia pura, svincolata dalla materia, dallo spazio e dal tempo? Le particelle elementari costituenti la materia - è noto - sussistono perchè in continuo movimento, che diventa tanto più lento quanto più si

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abbassa la temperatura. Portati allo zero assoluto, gli atomi, le molecole e gli ioni del corpo dello scienziato, totalmente immobilizzati, non ebbero più ragione di esistere. Scomparvero in una frazione di secondo, trasformandosi in quella forma di energia alla quale i filosofi diedero vari nomi: anima, mente, spirito, ego, psiche, personalità, principio vitale, essere, essenza, consapevolezza e altri ancora. Fino a quel momento, il professore aveva ritenuto la memoria un insieme di impulsi elettrici dei neuroni del cervello (come avviene nei microchip dei computer). Dovette ricredersi. Infatti, pur essendo rimasto senza il supporto del corpo, rammentava tutto della sua vita terrena, gli affetti, le gioie e i dolori. Balenò in lui il ricordo improvviso delle parole di Amleto: «Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non ne sogni la tua filosofia». Il mattino dopo, Kamerlingh Onnes fu atteso invano per iniziare l’ esperimento. Per mesi lo cercarono dappertutto ma non fu mai trovato, nè vivo nè morto. Alcuni ritennero che il professore si fosse suicidato, anche se nulla, nel comportamento, nelle parole e negli scritti, faceva pensare ad una così tragica decisione. I giornalisti più fantasiosi parlarono di omicidio per gelosia professionale. Altri accusarono i soliti servizi segreti, naturalmente «deviati». Si parlò anche di crisi mistica. Negli anni successivi qualcuno sostenne di aver intravisto il professore in uno sperduto convento sulle alpi bernesi; altri riferirono di averlo incontrato in un tempio buddista del Tibet; altri ancora giurarono di averlo visto a Calcutta in una comunità di monaci indù. Dopo ogni segnalazione, i giornali di tutto il mondo riparlavano del caso per qualche giorno. Infine, sulla vicenda dello scienziato scomparso calò il silenzio. Kamerlingh Onnes Jr. fu dimenticato mentre altri tentarono invano, e tentano tuttora, di raggiungere lo zero assoluto.

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QUANDO ZILANO FU INVASA DAGLI ORCHI di G. Giacomo Guilizzoni Nelle favole - è noto - i protagonisti sono streghe, fate, maghi, orchi, dolci fanciulle, cavalieri; dopo alterne vicissitudini, il Bene annienta il Male, come è giusto. I protagonisti di questa fiaba sono orchi boriosi e prepotenti che imperversarono, per un lungo periodo, nella grande città di Zilano. Principi, damigelle prigioniere nella torre del castello, fatine buone e maghi burberi ma bonaccioni sono del tutto assenti dalla storia. Ma il lieto fine è ugualmente assicurato. Molti, molti anni orsono, la città di Zilano fu invasa da centinaia di orchi. Non erano giganti come nelle antiche favole ma ragazzi, ragazze, donne e uomini come noi. Si potevano riconoscere soltanto osservandoli attentamente: non si muovevano con disinvoltura ma a scatti quasi impercettibili. L’ unica occupazione degli orchi era quella di organizzare manifestazioni di protesta contro tutto e contro tutti. Quasi ogni giorno, il traffico di Zilano era bloccato da cortei di orchi vocianti. Nel mese di agosto, tuttavia, anche loro, sfiniti dalle lunghe marce, andavano a riposarsi al mare o in montagna. Durante le ferie degli orchi, ai pochi rimasti in città, Zilano appariva quasi bella. I politici del tempo, troppo occupati nei loro meschini giochi di potere, sottovalutarono l’arrivo degli orchi. Erano mediocri uomini di governo ma efficientissimi nel sottogoverno, a cui dovevano l’ascesa alle massime cariche dello Stato. I cittadini si trovarono immersi in un clima di paura e di sospetto. I commercianti erano la preda più ambita da alcuni orchi i quali, scandendo fumosi slogan, si staccavano dai cortei, entravano nei negozi e nei supermercati, arraffavano ogni genere di merce ed uscivano senza pagare. I negozianti, rassegnati, non chiedevano nemmeno l’intervento delle forze dell’ordine, allora impotenti per l’inettitudine dei governanti. Alcuni sociologi pretesero di spiegare tutto ciò scoprendo un non ben precisato «disagio giovanile ». Al calar del sole, negozi, cinema, teatri, ristoranti, bar, ritrovi di ogni genere, un tempo frequentatissimi, serravano i battenti. Gli zilanesi si rinchiudevano nelle loro case, in cui avevano installato serrature

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supplementari e dispositivi di allarme a porte e finestre. Di notte, Zilano diventava una città morta in balìa degli orchi e dei delinquenti comuni. Attraverso le persiane socchiuse, gli zilanesi, conosciuti per la frenetica attività nel lavoro e nel divertimento, osservavano sconsolati le strade e le piazze deserte, un tempo brulicanti di vita giorno e notte. Gli orchi erano riconoscibili anche per il modo con cui si esprimevano, un italiano oscuro per la presenza di parole difficili (alcune totalmente inventate) e per la contorta costruzione dei periodi. Fu persino pubblicato un dizionario Orchese-Italiano / Italiano-Orchese, di cui si trova ancora qualche copia sulle bancarelle. Consultandolo si incontra che, per esempio, gli orchi non usavano i verbi «fare», «continuare» e simili ma li sostituivano con un «portare avanti il discorso» e trasformavano il verbo «conoscere» in «coscientizzare». Per il timore di apparire banali, scrivevano «sommazione» (termine medico) o «sommatoria» (termine matematico) anzichè semplicemente «somma», e così via. Scrivevano, a proposito del coordinamento tra le materie di insegnamento in una scuola, di «adeguata sistematizzazione, in blocchi tematici, dei contenuti di carattere fenomenologico operativo e delle correlazioni e/o interdipendenze metodologiche». «Ottimo» divenne ottimale; «massimo», massimale; «minimo», minimale; il verbo «dimenticare» diventò rimuovere. Un leader degli orchi, noto professore universitario, aveva scritto, come se esprimesse un concetto ovvio: «Congiungere, nella prospettiva della soggettività popolare, la tematica dello sfruttamento e quella della circolazione, condizione teorica fondamentale a che il problema della dinamica riesca a trovare soluzioni ». I maligni sussurravano che il linguaggio difficile e contorto degli orchi fosse una cortina fumogena per nascondere il vuoto. Scrisse Giulio Nascimbeni: «Evitano la semplicità come se fosse un vizio disonorevole e lo fanno con autorevole sprezzo del ridicolo». Di notte, gruppi di orchi si divertivano ad insudiciare i muri con scritte prive di senso, incendiavano i cassonetti delle immondizie e le cabine telefoniche, frantumavano le vetrine dei negozi, capovolgevano le automobili, insomma godevano nell’ insozzare (forse perchè sozzi dentro), oltraggiare, distruggere ciò che altri avevano costruito con tanto ingegno e tanta fatica. E lo facevano accampando motivazioni ideologiche incomprensibili.

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Per aumentare la confusione, gli orchi si erano divisi in due fazioni contrapposte, Destra e Sinistra. Questi termini non significavano conservatore e progressista, no, no. Gli orchi di destra erano così chiamati perchè il loro quartier generale si trovava in piazza San Godenzo che si raggiunge, avendo di fronte il Duomo, svoltando a sinistra. Gli orchi di sinistra tenevano invece i loro comizi in piazza San Flaminio, a cui si arriva, sempre dalla piazza del Duomo, svoltando a destra. Misteri delle ideologie. La città fu divisa in due territori di influenza; nelle zone di confine tra i due protettorati, tuttavia, i cortei di destra e di sinistra si snodavano talvolta sui due lati di una piazza o di una via. In quelle occasioni i cittadini, temendo il peggio, fuggivano, i negozianti abbassavano le serrande, mentre gli avversari si scambiavano insulti nella loro lingua, in un crescendo pauroso, senza però arrivare allo scontro fisico. Gli orchi schiattavano per la rabbia, vomitando ingiurie come le seguenti. «Il criterio metodologico estrinseca il superamento dell’attuale livello nel riorientamento delle linee di tendenza in atto! » - urlavano gli orchi di destra. «Il bisogno emergente privilegia la verifica critica degli obiettivi in una visione organica ricondotta ad unità!» - rispondevano quelli di sinistra. Controbattevano gli orchi di destra, aumentando il numero delle parolacce: «L’utenza potenziale si caratterizza per il ribaltamento della logica preesistente in maniera articolata e non totalizzante!». Un bel giorno, durante uno di tali scontri verbali, gli orchi di sinistra urlarono a quelli di destra le parole più oltraggiose a memoria d’orco: «Il modello di sviluppo porta avanti un corretto rapporto tra strutture, sovrastrutture e infrastrutture secondo un modulo di interdipendenza orizzontale! ». Era troppo. Lo scontro fu inevitabile. Gli zilanesi, dalle finestre delle case e degli uffici, poterono osservare - impauriti ma in cuor loro soddisfatti - il susseguirsi delle operazioni belliche. Armati di bastoni, spranghe, catene ed altre armi improprie, gli orchi si affrontarono in campo aperto.

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Sotto i colpi le teste si staccarono dai corpi, gli arti dal torso. Gli zilanesi videro, inorriditi, orchi senza testa proseguire la lotta spiccando un braccio di un avversario come un ramo da un albero, orchi senza braccia abbattere a calci un nemico rimasto con una gamba sola ed altre atrocità da film horror. Compresero così quale fosse la vera natura degli orchi, anche per la comparsa dei fili, fino a quel momento invisibili perchè sostituiti con onde radio, collegati con i corpi dei contendenti. Non vi furono nè vincitori e nè vinti. Il campo di battaglia risultò, alla fine del combattimento, un ammasso disordinato di teste, torsi, gambe, braccia, avviluppate dall’abbraccio mortale dei fili. Marionette. Gli orchi erano marionette manovrate fino a quel momento da astuti e ben nascosti burattinai. Un lungo applauso risuonò in tutta la città. Gli orchi si erano autodistrutti, l’incubo era terminato. Da quel giorno, la pace tornò a regnare a Zilano. Alla sera, nella bella stagione, i cittadini si riappropriarono delle piazze, delle strade e dei parchi, passeggiando in tutta tranquillità con i loro bambini. Nei giorni festivi, usciti dai teatri e dai cinema, gli zilanesi, secondo le loro possibilità economiche, facevano le ore piccole al ristorante e in pizzeria o gustando un gelato seduti su una panchina. Le indagini per individuare i burattinai si conclusero con un nulla di fatto.

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UN INCONTRO A PERUGIA di G .Giacomo Guilizzoni Una domenica di luglio, sotto un cielo temporalesco, Perugia era semideserta, e così pure il parcheggio nella parte bassa della città. Per la prima volta utilizzavo le scale mobili installate dal Comune per raggiungere il centro storico, un’idea geniale. Come è noto, il percorso è sotterraneo, nel ventre di antiche fortificazioni. Fui piacevolmente colpito dalla cupa bellezza del luogo e ancor più dalle musiche rinascimentali trasmesse a basso volume dagli altoparlanti; si riconoscevano i suoni del liuto e delle trombe. Mentre salivo sulla prima scala mobile, sgombra, notai, in basso, una famigliola giapponese. I turisti erano fermi, a bocca aperta, colpiti dalla solennità del luogo, preludio alle magnificenze che avrebbero incontrato alla sommità: corso Vannucci, il grandioso Palazzo dei Priori, la stupenda Fontana Maggiore, la Cattedrale, le incantevoli ripide cordonate in pietra e mattoni, gli archi, le porte medievali: quanti rullini avrebbero impressionato? Salii sulla seconda rampa, deserta. Si udì uno scoppio di tuono, le luci si spensero, la scala si fermò e la musica tacque. Proseguii e arrivato in cima mi fermai stupito. Ai piedi della terza rampa, alla fioca luce delle lampade di sicurezza, vidi due persone, un gentiluomo dall’aspetto autoritario e un giovane con un viso da stupidotto. Non sono curioso e difficilmente colgo i particolari di ciò che vedo ma questa volta fu diverso. L’uomo indossava una ricca e ampia veste di seta blu, semicoperta da un leggero mantello arancione, e un curioso cappello conico blu con una larga tesa rossa. Il ragazzo era un capellone biondo con pantaloni scuri aderenti, corsetto blu, scarpe rosse; sul capo portava, con apparente disinvoltura, un cappello rosso somigliante ad un fez turco, ma molto più grande. Con la mano destra impugnava una lunga canna. Erano nobili africani (non riuscivo a vedere il colore della pelle) o asiatici? Occidentali certamente no. Appena li udii conversare mi resi conto che l’ ipotesi non reggeva: parlavano entrambi uno strano italiano, strano ma comprensibile anche da un ignorante come me. Ricordo un brano del loro dialogo e lo riferisco, scavando nella memoria, in modo approssimato.

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«Adunque, Giovannozzo, te ne priego io molto, ben so che queste contrade cognosci» - esclamò il gentiluomo, turbato - «Come può questo essere? Ben che fa poco da quando le persone, vedestile, eranvi ferme mentre la scala si moveva! E così doviziosi e prodighi son li signori del palagio per aver disposto la costruzione di cotali gradini d’ argento?». «Messer no» - rispose il giovane - «Io so bene qual egli è, non trattasi di argento ma di un vile metallo da loro chiamato acciaro inoxidabile». «Piacemi forte tanta maravigliosa cosa! Ordunque dispiegami, ove sono ascosi li ronzini o li homini che spingon li gradini a rampicar verso l’alto? Ben mi sarebbe caro il saperlo». «Non vi sono ronzini né homini, messer Tedaldo, la scala haila un astruso espediente di troppa gran virtù che adopra la forza dei lampi! Lo nomano motore electrico e può fare cose troppo più che né voi né io possiamo». «Gnaffe, ora hai tu viso di motteggiare? Per certo tu non di’ il vero! Giuro a Dio che mai non me ne farai più niuna. Or ben ti darei tali frustate, scelerato, che tu ti ricorderebbe forse un mese di questa beffa!». «Egli è com’io vi dico, ch’io sia impiccato per la gola!». «E i musici ? Dove trovansi i musici che or non è guari sonavano con tanta perizia?». «Io il vi dirò, signor mio, qui non vi sono musici; ciò che ascoltavi è prodotto da un congegno che imprigionò le note di sonatori fiorentini e il ripete imperituramente ». «Ahi, misero te traditor del tuo signore! Che Dio ti metta in mal anno! Un’altra di menzogne come questa e ti farò piagnere quaranta dì...». Le luci si riaccesero, la scala si rimise in moto, la musica riprese e le due figure scomparvero. Saranno entrati in una delle grandi gallerie laterali - dedussi. Mi recai a visitare - era la prima volta - la Galleria Nazionale. Anche ad un profano quale sono, i dipinti e le sculture esposti apparvero meravigliosi. E quali nomi: Piero della Francesca, il Perugino, il Pinturicchio, Arnolfo di Cambio, Gentile da Fabriano, il Beato Angelico ... . Sono un superficiale; dopo avere ammirato le opere del Duecento senese mi stancai subito e proseguii, dando soltanto un rapido sguardo ai

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capolavori, limitandomi a leggere le targhette riportanti autore e titolo dell’opera. Ad un certo punto, tuttavia, una forza esterna, invisibile, mi immobilizzò davanti ad una tavola, «La guarigione di una giovane» del Perugino, appartenente al ciclo delle storie di San Bernardo. Al centro, la miracolata, circondata dal santo e da alcuni frati inginocchiati. Inebetito per lo stupore, alla loro destra, in piedi, vidi un uomo indossante una ricca veste blu, un mantello arancione e un cappello a cono. Alla loro sinistra, munito di un lungo bastone, si trovava un ragazzo con la faccia da stupidotto, i pantaloni scuri aderenti, il corsetto blu, il fez e le scarpe rosse.

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LA PICCOLA q di G.Giacomo Guilizzoni

C’erano una volta, nel regno di Glossaria, un padre ed una madre da cui erano nate molte figlie. Cinque erano dette Vocali e i loro nomi erano a, e, i, o, u. Le altre sorelle, chiamate Consonanti, erano ventuno. Quando si incontravano, Vocali e Consonanti si divertivano molto a ballare in gruppi di numero variabile, creando una infinità di insiemi, brevi come sì e no o lunghi come precipitevolissimevolmente, inventando così le parole che noi adoperiamo per comunicare con i nostri simili e alcuni animali e forse un giorno - opportunamente tradotte - useremo per conversare anche con le piante. Quando un vocabolo inventato risultava gradito alle giocherellone, veniva inserito in un librone detto vocabolario. L’insieme delle parole costituì la lingua primigenia. I vocaboli che iniziavano con la q erano pochi e questa consonante aveva un forte complesso di inferiorità, esaltato dalla malvagità di alcune sorelle che la schernivano volgarmente dicendole: «Ma va a skùndat, ti séet una farlòka, una nagùta, ti séet ul disunùr da la famija!». Tradotta dalla lingua primigenia la frase significa: «Ma vai a nasconderti, sei una persona che parli poco e male, una nullità, sei il disonore della famiglia!». Le più crudeli erano le sorelle b e d, a lei molto somiglianti, costituenti le iniziali di un gran numero di parole. La apostrofavano così: «Ma sta cìto, piucìn, ti ke ti ghée la gambèta giü in bass in la pùlvar, méntar niàltar a gl ’ èmm in sü vers ul ciél. Vàrda che i paròl quadar, equivalent e quiz s’ pòdan scriv benisìm cuadar, ecuivalent e cuiz senza cambiàa la vus!» («Stai un po’ zitta, pidocchietto, la tua stanghetta affonda nella polvere mentre la nostra è rivolta verso il cielo. Sappi che le parole quadro, equivalente e quiz si possono benissimo scrivere cuadro, ecuivalente e cuiz senza che il loro suono cambi!». Un giorno la q, stanca di essere canzonata, prese il coraggio a due mani (o meglio, ad una stanghetta) e chiese udienza al re Diccionario XIV lo Spietato. Erano tempi in cui, su tutti i popoli del Pianeta, regnava un monarca assoluto, avente cioè poteri senza limiti.

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La piccola q venne ricevuta a palazzo e dopo sette giorni di anticamera fu ammessa al cospetto del sovrano; in quel momento, stranamente, il re era di ottimo umore. La lettera q si inchinò così profondamente da sembrare una b, consegnò una supplica al re e questi la lesse subito. La poveretta non ambiva a diventare importante come le sorelle s, p, c - iniziali di migliaia di vocaboli. Chiedeva soltanto di essere rispettata pur occupando poche pagine del vocabolario. Il sovrano andò oltre la modesta richiesta, risolvendo il problema alla maniera di Robin Hood il quale, come sapete, rubava ai ricchi e donava il bottino ai poveri. Per anni, gli araldi percorsero il regno in lungo e in largo, leggendo ad alta voce in ogni città, paese, villaggio, un decreto reale che suonava: «Udite udite udite! Il nostro grazioso sovrano stabilisce che, dall’ultimo quarto di luna:

1) Tutte le parole che cominciano con la lettera c dura e il digramma ch dovranno essere scritte iniziandole con la lettera q.

2) Per evitare errate interpretazioni i sudditi dovranno acquistare il nuovo Real Vocabolario.

3) I trasgressori verranno inviati in crociera, sulle triremi della Imperial Regia Marina, come vogatori». Fu approntato in gran fretta il nuovo vocabolario, di cui furono stampate e vendute milioni di copie. A Bologna, nella biblioteca dell’Archiginnasio, prima sede della più antica università del mondo (nel 1988 è stato celebrato il suo nono centenario), in una stanza blindata contenente pergamene e papiri di valore inestimabile, pochi studiosi possono visionare alcuni frammenti del Real Vocabolario, sopravvissuti a incendi, terremoti, guerre e rivoluzioni. Vi si trovano parole come qasa, qi, qiave, qrema, quore e simili. Non vi dico la felicità di q: le pagine del Vocabolario a lei dedicate aumentarono notevolmente. La gioia della lettera q , tuttavia, durò poco. Alla morte del monarca, il reame si frantumò in tanti piccoli regni. Da quel giorno, gli uomini abbandonarono la lingua primigenia, iniziando a parlare e a scrivere in moltissimi idiomi molto diversi tra loro. Il reale vocabolario della lingua universale fu dimenticato e ne vennero compilati tanti quanti erano i linguaggi parlati. Per uno scherzo

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del destino, la lettera q tornò ad occupare, nei vocabolari italiani, inglesi, francesi, spagnoli e tedeschi, soltanto poche pagine. «Ma tutte le favole non hanno il lieto fine?» - osserverete. E’ vero. Scherzavo. La povera q era tornata una consonante derelitta ma … … nel 1939 il celebre scrittore irlandese James Joyce compose dei versi in cui si parlava di Three quark for mister Mark [Tre quark per il signor Mark], inventando la parola quark, priva di significato, soltanto per fare rima con Mark. Molti anni dopo, e precisamente nel 1964, il fisico americano Murray Gell-Mann suggerì di chiamare quark, proprio per il significato ambiguo del termine, le ancor oggi misteriose particelle che compongono tutta la materia dell’universo. La consonante q, nello stesso anno, pur continuando ad occupare poche pagine nei vocabolari, anche se non si vede è presente in tutte le parole che indicano oggetti materiali. Infatti, ogni cosa - le stelle, i pianeti, gli animali, i vegetali, i minerali - è costituita da atomi in cui si trovano cinque tipi di particelle (chiamate con nomi fantasiosi: superiore, strano, incantato, bello e alto), i quark. Non è cosa da poco per la piccola, rara lettera q.

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PER CHI PREGO’ LA SIGNORA RUTH di G. Giacomo Guilizzoni Nel salone - o era uno spazio aperto, non si capiva bene essendo immenso, in apparenza privo di confini precisi - una folla sterminata vagava qua e là senza far nulla. Solo, tenuto a distanza dagli altri come un appestato, vi era un uomo dallo sguardo torvo e nel contempo disperato; possedeva ridicoli baffetti e un ciuffo di capelli gli scendeva sulla fronte. Uomini e donne erano invasi di noia mortale, come quella che assalirebbe, se naufragasse su un’ isola deserta, una persona socievole e amante del lavoro, della lettura e della musica. Erano oppressi dal tedio, come quando si segue, già sapendo che alla fine non accadrà nulla, il movimento della lancetta dei secondi di un orologio, trovando lunghissimo anche un solo minuto. Gli abitanti quel triste luogo erano sordomuti e non avevano bisogno di nutrirsi e di dormire. Vivevano - si fa per dire - soltanto di speranza, e ciò permetteva loro di sopportare l’interminabile attesa di qualcosa che - percepivano confusamente - avrebbe un giorno cambiato la loro condizione. Ad intervalli di tempo irregolari, qualcuno dei presenti improvvisamente sussultava e poi, letteralmente, spariva. Il fenomeno era l’unico diversivo in grado di rompere per un istante la monotonia del posto. A questo punto si impone un chiarimento. Come è noto, ogni oggetto possiede una lunghezza, una larghezza e un’altezza. I fisici, tuttavia, ipotizzano l’esistenza di altre dimensioni, concetto difficile da afferrare dai nostri sensi, capaci di credere soltanto a ciò che si può vedere e toccare. Molti anni orsono, un ignoto scienziato, firmandosi C.W.W., pubblicò un libro di volgarizzazione scientifica, intitolato «La relatività e mister Robinson», in cui illustrava con due esempi la possibile esistenza di una quarta, una quinta, una sesta dimensione e altre ancora. Il monoserpente - secondo C.W.W. - è un ipotetico animale privo di larghezza e altezza. Per lui esiste una sola dimensione e non può concepirne altre: il suo universo è una linea e non riesce a pensare possa esistere qualcosa di fianco, o sopra, o sotto questa linea. Il duopesce,

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animale a due dimensioni, conosce soltanto lunghezza e larghezza e il suo universo è una superficie, per cui non è in grado di ipotizzare l’esistenza di una terza dimensione, non può immaginare vi sia qualcosa sopra o sotto di lui. Il mondo a tre dimensioni in cui viviamo è inimmaginabile tanto per il monoserpente quanto per il duopesce - incapaci di astrazione - eppure esiste. Ma noi possiamo intuire sussistano altre dimensioni oltre alle tre così familiari, e non scartare l’ ipotesi apparentemente assurda. Orbene, l’uomo dai baffetti ridicoli si trovava nella Quarta, un luogo a quattro dimensioni. Con i suoi compagni attendeva il passaggio alla Quinta e da questa alle successive. Il fenomeno era segnalato, appunto, da un sussulto e dalla susseguente scomparsa del soggetto. L’uomo dai ridicoli baffetti trascorse molti anni nella Quarta. Ad uno ad uno, i suoi compagni sobbalzarono e scomparvero. Nel frattempo, ne arrivarono altri. Nel periodo in cui, nella Quarta, accadevano questi fatti, sulla Terra viveva una piccola, anziana signora ebrea di nome Ruth. La signora Ruth era molto religiosa e si recava quotidianamente a pregare nella sinagoga, non per sè, ma per i genitori, due fratelli, altri parenti e amici morti tragicamente quando era ancora una bambina. Ricordava lucidamente le torture subite quando, negli anni Quaranta, in Germania e in altre nazioni europee, gli Israeliti vennero spogliati dei loro averi, uccisi o internati nei terribili campi detti «di lavoro» ma in realtà luoghi di sterminio. Motivo? Semplicemente essere nati Ebrei. Voi ragazzi, abituati a vivere in un Paese libero, aperto, aventi come compagni di scuola e di giochi figli di emigrati di Paesi lontani, dal diverso colore della pelle ma ovviamente con diritti e doveri uguali ai nostri, stenterete a credere che, soltanto a causa di una aberrante ideologia, milioni di persone furono annientate in modo scientifico, senza pietà. La signora Ruth era una delle poche scampate alla morte nel lager di Auschwitz. L’ anziana signora, solitamente timida e mite creatura, quando mostrava a qualcuno il numero tatuato su un braccio, riviveva le atrocità subite e recitava ad alta voce l’invettiva di Primo Levi diretta all’aguzzino Adolf Eichmann: «O figlio della morte, non ti auguriamo la morte. Possa tu vivere insonne cinque milioni di notti, e visitarti ogni

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notte la doglia di ognuno che vide rinserrarsi la porta che tolse la via del ritorno, intorno a sè farsi buio». Fin da piccola, la signora Ruth aveva desiderato di recarsi a pregare a Gerusalemme. Dopo aver risparmiato anche sul cibo per raggranellare il denaro necessario, partì per la città santa. Appena giunta, si accostò al Muro del Pianto singhiozzando disperatamente ma non riuscì, come faceva di solito, a pregare per i suoi cari scomparsi. In quel luogo sacro, una voce interiore le suggerì queste parole di Gesù, da lei mai lette o ascoltate: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano. Amando coloro che vi amano che cosa fate di straordinario?». In un tumulto di emozioni contrastanti la signora Ruth esclamò, rispondendo alla Voce: «E’ vero! E’ del tutto spontaneo che io preghi per chi ho amato e mi ha amata! Da una vita prego il mio Signore per i miei cari, pur sapendo che non ne hanno bisogno! Saranno sicuramente nel seno di Abramo! Ma i nemici? I miei aguzzini dove si troveranno? E dove si troverà il loro capo, il maggiore responsabile di tante crudeltà?». Fu allora che una signora ebrea, il viso rivolto al Muro del Pianto, tra un rabbino vestito di nero ed un soldato armato di mitraglietta, rimuovendo dalla mente le angherie subite, elevò al Cielo una preghiera per il capo supremo dei nazisti, perdonandolo. Nessun ebreo o cristiano, prima di lei, aveva interpretato il messaggio evangelico, pregando per il nefando assassino, per l’essere più odiato del secolo XX. Nella quarta dimensione l’uomo con i baffetti ridicoli sussultò e scomparve. Era transitato nella Quinta. Un primo, piccolo passo verso la redenzione e ciò per merito del grande cuore di una piccola, sconosciuta signora ebrea di nome Ruth.

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SE. di G. Giacomo Guilizzoni Nella primavera del 1965, come ogni mattina, il giovane Alberto Bianchi si recò a scuola, l’Istituto Tecnico Industriale «Werner Heisenberg». Erano trascorsi esattamente vent’anni dalla capitolazione degli Alleati. Quel giorno, in Germania, si festeggiava la vittoria. Nelle province del Sacro Romano Impero era una giornata lavorativa come tutte le altre. In tutto l’impero gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado dovevano svolgere l’annuale tema in classe; Alberto si accinse al compito, condotto a termine sempre nello stesso modo, come gli era stato insegnato fin dalle scuole elementari. Lo scritto era gonfio di retorica, traboccante di maiuscole.

3 maggio 1965, anno XX del S.C.R. Tema. Parla della Vittoria del Grande Reich e del compito che ti hanno assegnato. Svolgimento. Ricorre oggi il ventennale della Vittoria della Germania Nazista e della sua Alleata, la Repubblica Sociale Italiana, sugli eserciti degli Stati demo-pluto-giudaico-comunisti. Il 3 aprile del 1945 è una data indimenticabile. Insieme ai nostri Fratelli europei, noi Negersklaven italiani dobbiamo alla magnanimità dell’Imperatore l’ordine, la pulizia e il pane quotidiano. Non meriteremmo questi privilegi, avendo tradito il nostro Alleato Germanico nel 1943. Al nostro Imperatore Adolf II e ai suoi Scienziati rivolgiamo ogni giorno un pensiero deferente per averci donato l’ alkanöl, farmaco che, assunto ogni giorno, ci rende immuni da ogni malattia fisica e psichica. Possiamo così svolgere i compiti assegnati a ciascun Negersklave con grande solerzia e serenità. Rivolgiamo anche un particolare, affettuoso grazie alla onnipresente Geheime Staatspolizei (da noi chiamata familiarmente Gestapo) che ci protegge dai malfattori, peraltro quasi scomparsi. Come mi è stato insegnato, un tempo le persone si distinguevano in civili e militari. Ora, per volere dell’Imperatore, giustamente siamo tutti irreggimentati; al momento indosso la divisa blu, priva di gradi, degli studenti di scuola media superiore ma il prossimo anno, se riuscirò a diplomarmi, diventerò sergente! Mi stanno programmando per lavorare con materiali radioattivi e devo prendere la massima confidenza con le «braccia meccaniche». Svolgerò un lavoro pericoloso in qualche Centro Nucleare e già mi hanno preparato ai gravi rischi che

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comporta l’assunzione delle radiazioni ionizzanti. In questo caso l’alkanöl non ha nessun effetto. Spero tanto di ottenere il diploma per poter servire al meglio, con tutte le mie forze, se necessario fino alla morte, il mio Imperatore, avendo stampato nel cuore l’antico ma sempre attuale motto fascista: Credere - Obbedire - Combattere. Come è noto, il secondo conflitto mondiale si concluse nel 1945 con la vittoria della Germania sugli Alleati, poiché l’ arma segreta, di cui si parlò molto durante la guerra e ritenuta dai più un semplice strumento di propaganda, esisteva veramente. Fu realizzata da un gruppo di scienziati tedeschi coordinati da Wernher von Braun. Il 20 aprile 1945, su Londra e su Mosca, la Germania lanciò due bombe nucleari, distruggendo entrambe le capitali nemiche. Dopo pochi giorni, Gran Bretagna e URSS si arresero senza condizioni, ritirando le truppe dai territori occupati. In America prevalsero gli isolazionisti. Gli USA ed il Canada rimpatriarono le loro armate e la flotta dislocata nel Mediterraneo, impegnandosi a non interferire nelle vicende politiche europee per novantanove anni (1a clausola del Trattato di Norimberga). L’intera Europa, dal Portogallo alla Siberia, divenne un feudo tedesco. In Africa, le colonie ex-inglesi, ex-francesi ed ex-portoghesi costituirono per l’ Impero fonte di materie prime e manodopera quasi gratuita. L’unione con gli Stati ex-nemici, e anche neutrali come Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda e Svezia, prese il nome, su proposta di Mussolini, di Sacro Romano Impero e il Führer fu proclamato imperatore. Gli abitanti degli antichi Stati persero la qualifica di cittadini - riservata unicamente ai tedeschi di razza ariana - e divennero Negersklaven (letteralmente: «schiavi negri»). Ogni ex-capitale diventò sede di un gauleiter tedesco dai poteri illimitati. In Italia, il Führer nominò Benito Mussolini gauleiter a vita. Il Papa e la sua corte si trasferirono nelle Filippine. Il Vaticano e la basilica di San Pietro divennero un museo; lo stesso avvenne per tutte le altre chiese cattoliche, luterane e anglicane mentre le sinagoghe sopravvissute ai bombardamenti furono rase al suolo. Nell’Impero esistono due caste: i Tedeschi, liberati dalle fatiche dei lavori manuali e pericolosi, e i Negersklaven, inquadrati militarmente. Ai secondi viene somministrata quotidianamente una droga, l’alkanöl, che li rende automi pronti ad obbedire ciecamente alle ferree leggi.

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Ai Negersklaven sono affidati, dalla nascita all’età di sessantacinque anni (quando vengono internati nelle VWH, Verschwindenhausen, termine che si potrebbe tradurre in «Case della Scomparsa») compiti di ogni genere, secondo una rigida programmazione. In ogni momento della loro vita, i Negersklaven validi tra i quindici e i sessantacinque anni possono essere inviati a presidiare i confini dell’Impero, per ostacolare le mire espansionistiche dei cino-giapponesi. Nel 1962 l’imperatore Adolf I morì per un tumore al cervello malgrado una équipe di medici (puniti con l' impiccagione dopo qualche giorno) gli avesse somministrato, come riferì la stampa, dosi massicce di alkanöl. Gli successe Gunther Heinegger che prese il nome di Adolf II. Due anni dopo morì anche Mussolini in un incidente aereo e fu nominato governatore (ma di fatto lo era sempre stato) l’ ex-capo della Gestapo italiana Sebastian Koll. Nell’anno in cui Alberto Bianchi svolse il tema del quale si è detto, suo nonno Filippo aveva compiuto 64 anni. Per lui era iniziato il conto alla rovescia; avrebbe lavorato ancora un anno prima di entrare nella Casa della Scomparsa. Nato all’inizio del secolo, era quindi vissuto prima come libero cittadino nell’ Italia democratica, poi come suddito della dittatura fascista e infine come schiavo dei tedeschi. Nonno Filippo avrebbe desiderato insegnare al nipote le profonde differenze tra democrazia e dittatura, elezione e nomina, cittadino e suddito. Tuttavia, in parte per effetto dell’alkanöl e in parte per non compromettere i familiari, non parlò mai del suo passato. Il nipote, nato e cresciuto sotto un regime tirannico, era stato educato all’obbedienza cieca e assoluta ai superiori, cosa per lui del tutto naturale, non avendo la possibilità - come l’aveva avuta il nonno - di fare confronti. I libri di storia, prodotti dallo Stato (le case editrici private erano state abolite) non nascondevano la passata esistenza dei partiti e dei parlamenti, ma li descrivevano come associazioni a delinquere spazzate via dal nazismo. Secondo i nazisti, nell’impero tutti i giovani potevano frequentare la scuola, i pasti erano assicurati, gli adulti avevano un lavoro sicuro. Alle necessità di tutti, cittadini e schiavi, provvedeva l’imperatore attraverso burocrazia, tribunali e polizia. Questo dicevano ai giovani i libri, i maestri e i professori.

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Venne il giorno in cui nonno Filippo dovette presentarsi alla locale Casa della Scomparsa. Si fece accompagnare da Alberto e, prima di attraversare il lugubre cancello, senza farsi notare dai miliziani di guardia, introdusse un foglietto piegato in una tasca del nipote. I due si abbracciarono, sapendo che non si sarebbero più incontrati; il potente alkanöl li aveva però resi quasi insensibili e non provarono una particolare emozione nel salutarsi in un simile, tragico momento. Rimasto solo, il ragazzo aprì il foglio. Vi erano scritte in stampatello soltanto tre parole: VIVA LA LIBERTA’, espressione audacissima di dissenso. Tutti i libri e i dizionari erano stati epurati ed il nobile termine libertà era scomparso insieme a molti altri. Ad Alberto la scritta risultò perciò incomprensibile. «Povero nonno» - riflettè - «chissà che cosa voleva dirmi; da tempo straparlava per l’ arteriosclerosi». Appallottolò il messaggio, lo gettò in un cestino dei rifiuti e se ne andò.

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TEOFILO di G. Giacomo Guilizzoni Nell’Istituto Tecnico Industriale di Roraro, molti anni orsono, il personaggio più popolare e benvoluto da studenti e insegnanti si chiamava Teofilo Ghisetti. Era un ometto forte e agile come un torello. Si occupava, con risultati disastrosi, della centrale termica a carbone, degli impianti idraulici e di piccoli lavori di manutenzione. Falciava l’erba del prato interno e curava l’orto e il pollaio del custode. Aveva lavorato per breve tempo nei laboratori chimici e amava raccontare i suoi interventi decisivi durante lo svolgimento di delicate ricerche, storpiando i nomi dei prodotti chimici, offuscando il cloruro demonio e la tintura d’odio di un personaggio de «Il sistema periodico» di Primo Levi. La sua principale occupazione era quella di raccontare storie mirabolanti di cui era stato protagonista assoluto, alla maniera del barone di Munchhausen con la spudoratezza di Bertoldo. Originario di Montecchio, nel reggiano, affermava essere nato a Montecchio Maggiore, discendente il linea diretta dei Signori del luogo; di scarsa memoria, confondeva spesso Montecchi con Capuleti per cui un giorno era pronipote di Giulietta, un altro di Romeo. Una volta, messo alle strette da chi lo contestava, giunse persino a rivendicare come antenato un figlio segreto degli sventurati amanti, sconosciuto anche a Luigi da Porto e a Shakespeare. Il giorno in cui venne a sapere che un allievo della sezione chimici possedeva un titolo nobiliare, giurò di chiamarsi Teofilo Ghisetti di Castelghisetto. La fantasia di Teofilo si scatenava quando l’uditorio era numeroso ed in particolare quando qualcuno cercava di sbugiardarlo rimarcando le vistose contraddizioni. Un vero specialista nella parte di avvocato del diavolo era il Custode dell’ Istituto. Sulla base dei periodi vissuti dal Nostro in Italia e all’estero ne aveva calcolato l’età: 434 anni. A suo dire, Teofilo aveva esercitato le funzioni più disparate in ogni parte del mondo. Si parlava della Resistenza? Ebbene, si intrometteva dichiarando di aver combattuto come partigiano sulle montagne della Val d’Ossola, ma nella prima guerra mondiale. Un elenco incompleto delle sue attività: primo acrobata nel circo Orfei, tecnico del laboratorio di Igiene e Profilattici, barbiere da donna, responsabile delle apparecchiature poste nell’ incartapecora

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(intercapedine, ndr) di una centrale nucleare, secondo pilota di tricoteo (elicottero, ndr), cavallerizzo (mozzo di stalla, ndr) nelle smisurate scuderie dei principi Borromeo, sull’isola Virginia (uno scoglio di pochi metri quadrati nel lago di Varese, ndr) e così inventando, contraddicendosi, giurando, citando come testimoni persone defunte da anni o emigrate in terre lontane. Nei suoi racconti tutto era eccessivo: le persone erano sempre personalità, gli animali iperbolici, come un gallo di oltre venti kilogrammi che aveva assalito la figlia tentando di spogliarla, successivamente fuggito per il rimorso lacerando la rete del pollaio con gli speroni. In pace e in guerra Teofilo aveva compiuto imprese memorabili, sempre in contatto diretto con importanti personaggi, dal ministro della real casa Falcone Lucifero al brigante Antonio Gasparoni, con cui aveva attraversato la Foresta Nera, inseguiti dai gendarmi borbonici. Aveva svolto mansioni di intendente nella villa di Guglielmo Marconi, a Pontecchio, sparando il famoso colpo di fucile nell’esperienza risolutiva; raccontava spesso lo storico avvenimento, infiorandolo di nuovi particolari ad ogni edizione e imprecando contro i biografi dello scienziato, rei di non aver mai citato il suo nome. Soldato semplice ma ovviamente in corpi speciali, aveva, a suo dire, combattuto tanto nella prima quanto nella seconda guerra mondiale, rifiutando per modestia le promozioni sul campo. Altre volte raccontava di aver disertato per motivi politici. A questo punto spuntava, nel racconto, un certo barone Visconti Sforza, ministro della guerra. L’importante personaggio, in marsina, cilindro e monocolo, incrociando Teofilo sulla strada di casa, lo aveva «bonariamnte ma con fermezza» redarguito con queste parole: « Affè mia, di te meravigliomi assai, o Teofilo. Orsù, che fai qui quando dovresti essere giocoforza sul Carso a compier il tuo dover di patriota? Ordunque, rispondi! Verbigrazia, comportandoti in cotesto modo fai piangere la regina Margherita! Appropinquati, suvvia, mi punge vaghezza di inviarti all’impiccagione! Dietro … front! Avanti marsh!». «Toccato da sì nobili parole», Teofilo aveva ubbidito al comando e, in tre giorni di marcia forzata, era tornato in prima linea sul Piave. Tra i racconti di guerra il più noto è quello del mulo (a volte asino, a volte cavallo) trainato da Teofilo e carico di rifornimenti per una postazione isolata sul monte Grappa. Incurante del pericolo, il nostro

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eroe, offertosi volontario per la rischiosa missione, sotto il martellare dell’artiglieria nemica riuscì, sempre con lo sguardo in avanti, a raggiungere i commilitoni affamati, allibiti vedendolo impugnare la cavezza legata a ciò che rimaneva della testa dell’animale, dilaniato da un missile. Troppo impegnato nella scalata, Teofilo non si era accorto di nulla. E se qualche ingenuo ascoltatore faceva notare che nella prima guerra mondiale i missili non esistevano, rispondeva che gli Austriaci non soltanto erano armati di missili ma possedevano anche la bomba a dueterroni (deuteroni, ndr). Compiuta felicemente la missione, inforcati gli sci, Teofilo scese a valle ma, avvistato da una pattuglia nemica, dovette seppellirsi nella neve, ove rimase tre giorni e tre notti cullato dal fruscio degli sciatori austriaci (frush, frush) che passavano sopra la sua testa, respirando attraverso la canna del moschetto 91. Cessato il pericolo, totalmente ricoperto di ghiaccio, riprese la discesa ma, arrivato al campo, le sentinelle inorridite fuggirono urlando: «Il fantasma di Teofilo!». Un capitano dai nervi saldi, fortunatamente, lo riconobbe, lo abbracciò commosso e corse subito in tenda a stendere il rapporto, indirizzandolo direttamente al maresciallo Diaz il quale, dopo qualche giorno, venne personalmente a congratularsi con il nostro eroe, accompagnato da un nugolo di alti ufficiali dello stato maggiore. Nel secondo conflitto mondiale Teofilo era sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti utilizzando le sue conoscenze di chimica (aveva letto anche lui « Se questo è un uomo » di Primo Levi) guadagnandosi la stima e l’affetto di un colonnello delle SS (« una brava persona, quasi un padre, per me »). Tuttavia, Himmler lo aveva sottoposto personalmente a spaventose torture, non riuscendo però a strappargli ove fosse il rifugio segreto del generale Badoglio, di cui manco a dirlo era stato attendente.

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C' E' LA SESTA… LA SETTIMA… di G. Giacomo Guilizzoni Tutto iniziò una notte quando, stanco di leggere, l'anziano Simone, abitante di Roraro, spense la lampada e premette le nocche sulle palpebre chiuse, come usava fare da bambino, per osservare gli arabeschi mobili, dai colori via via più brillanti con l’aumentare della pressione sul bulbo oculare. Avvenne qualcosa di più di una eccitazione anomala del nervo ottico, qualcosa che lo sconvolse. I colori si susseguivano in un microcosmo di fondi rossi punteggiati di blu, intrecci bizzarri di curve dai colori inverosimili, ammassi gialli simili alle nebulose a spirale, code di uccello del paradiso, cristalli di ghiaccio arancione, finestre illuminate d’azzurro su uno sfondo nero. Improvvisamente, udì una voce nota, inconfondibile, pronunciare il suo nome: «Simone». Non era una di quelle voci caratteristiche dei sogni, segnava l’inizio di una esperienza durata qualche mese. Gli sembrava la voce di un suo amico di gioventù, proveniente da una distanza immensa. Fu turbato ma riuscì ugualmente a riaddormentarsi. Il mattino seguente aveva dimenticato tutto. Trascorso qualche tempo, Simone rifece per caso il giochetto degli occhi premuti e la stessa voce lo chiamò nuovamente. D’istinto rispose: «Mario, sei veramente tu?». «Sì». «Ma ... ma ... dove sei? In ... paradiso?». «No, no, sono ancora a Roraro, nella Quinta». «A Roraro? La Quinta? Che cosa significa?». «La quinta dimensione. Con il tuo gesto hai aperto il Varco». «Quinta dimensione? Varco?». «Perché tanto stupore? Non ricordi quel libro che ti avevo prestato? Parlava di due strani animali, il monoserpente e il duopesce...». «La relatività e mister Robinson!».

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«Sì, proprio quello». A questo punto il colloquio si fece ancor più surreale: i due rievocarono, sia pure per breve tempo, gli esempi ideati dal signor Robinson per spiegare la possibile esistenza di n dimensioni. «Il monoserpente, se ricordo bene, è un ipotetico animale privo di larghezza e altezza. Per lui esiste una sola dimensione e non può concepirne altre: il suo universo è una linea». «Bravo. Il duopesce, animale a due dimensioni, conosce soltanto lunghezza e larghezza e il suo universo è una superficie. Per cui non è in grado di ipotizzare l’esistenza di una terza dimensione. Riesci a comprendere qualcosa, Simone? Tu, al momento, vivi in tre dimensioni. Veramente sarebbero quattro con il tempo, non ho capito bene la faccenda ma sono in buona compagnia, come mi ha rassicurato il nostro caro professor Lusardi. L’ho incontrato più volte e abbiamo parlato anche di te. Tu vivi in quattro dimensioni ma puoi intuire ne esistano altre; il monoserpente e il duopesce, incapaci di astrazione, non sono in grado di farlo». «E’ vero! E’ vero!». «Ebbene, ora vivo in un mondo dove esiste anche una quinta dimensione. Se dalla dimensione abbandonata qualcuno lo chiede, ci è concesso aprire il Varco prima di partire e comunicare con chi desideriamo». «Ma... ma..., non è vero niente, tutto questo è una allucinazione!». «Non stai vaneggiando. Ti prego, non alterarti. Stiamo comunicando telepaticamente. Sono Mario e se ci incontreremo...». Il circuito telepatico, all’improvviso, si aprì. Simone ebbe un attacco di tachicardia. Pur nella confusione dei pensieri che si accavallavano nella sua mente, era tuttavia riuscito ad intravedere l’esistenza di un legame tra gli occhi premuti e l’apertura del Varco, come l’aveva chiamato Mario. Sconvolto, premette i bulbi oculari fino a che il dolore divenne insopportabile. Non

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ottenne nessun risultato. Le notti successive provò e riprovò ad aprire il Varco ma non accadde nulla. Dopo alcune notti dal primo colloquio, Simone riprovò ad utilizzare la singolare chiave e la sua costanza fu premiata: alla riapertura del Varco, tuttavia, non era più eccitato come nella prima sconvolgente esperienza, pur essendo un ansioso in servizio permanente effettivo. Mario gli aveva trasmesso, insieme alle parole, la calma necessaria per essere in grado di parlare di cose più grandi di loro. Era tranquillo come lo era stato poche volte nella sua vita. Tuttavia, le domande si sovrapponevano e ne risultava una grande confusione. «Come sei ? Cosa fai ? Dove ti trovi significano ancora qualcosa i termini giovane e vecchio? Le tue ultime foto mostrano un ragazzo diciottenne ma sono trascorsi moltissimi anni dal giorno in cui sei letteralmente scomparso; con il tempo ti ho completamente dimenticato». «Come spiegartelo? Non capiresti. Posso soltanto farti qualche un esempio. Gli artisti - è noto - possiedono un quid che li colloca sempre un passo più avanti rispetto ai comuni mortali. Ebbene, alcuni pittori hanno rappresentato inconsciamente sulla tela, in modo sia pure approssimativo, il mondo a cinque dimensioni. Vai in biblioteca e cerca qualche monografia sui cubisti, Braque, Carrà…». «Lo farò. Ma in che modo sei giunto, diciamo... lì?». «Anche questo è troppo difficile da spiegare. Una cosa è certa: conserviamo intatti i ricordi della nostra vita trascorsa nella Quarta. Qui la chiamiamo così. Ma adesso devo chiudere». In un successivo incontro, i due ripresero il discorso interrotto, rievocando i tempi trascorsi insieme. «Ti ricordi cosa rappresentò il fascismo per noi studenti di quell' epoca? Una buffonata: le parole d'ordine, le divise, i pennacchi, il linguaggio da caserma, l'abolizione della stretta di mano…». «Si saluta romanamente!».

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«Il lei sostituito con il voi!». «Una buffonata che doveva presto tramutarsi in tragedia». «Infatti, venne la guerra e uno dei primi provvedimenti governativi fu il razionamento dei generi alimentari. Noi ragazzi avevamo sempre fame. Ti ricordi le spedizioni in bicicletta a Borgospesso, alla ricerca di patate e fagioli sottratti all'ammasso? I quaranta chilometri del ritorno erano i più difficili, con un sacco di venti chilogrammi di patate sul manubrio e uno zaino in spalla pieno di fagioli. Per il sovrappeso, i freni della bicicletta non funzionavano e, per fermarsi a riprendere fiato, occorreva buttarsi contro un mucchio di ghiaia». «Ricordo, ricordo. Per la beata incoscienza giovanile ciò appariva persino divertente».

«E gli incontri in casa mia per studiare insieme? I libri non venivano nemmeno aperti e ci mettevamo a discutere dei nostri autori preferiti, delle ragazze e della morte, argomento consueto di conversazione, in quei tempi. Con terrore di mia nonna (credeva fosse una canzone antifascista) cantavamo a squarciagola, in gregoriano ascoltato in chiesa, involgarendolo come fa Berlioz nel finale della Sinfonia Fantastica:

Dies irae dies illa solvet saeculum in favilla teste David cum Sybilla ... . Poi, a bassa voce: Avanti o popolo, alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa! Bandiera rossa trionferà. Evviva il comunismo e la libertà!

In quei tempi i termini antifascista e comunista erano sinonimi e nessuno sapeva quanto siano inconciliabili i termini comunismo e libertà».

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«E poi? Il 25 luglio 1943 la radio lanciò il famoso comunicato: "Sua maestà il re imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro, segretario di stato, di sua eccellenza il cavalier Benito Mussolini ...". Quel cavaliere era un colpo di genio o parto di un burocrate formalista? - pensarono in molti». «Si seppe che il duce era stato arrestato dai carabinieri, per ordine del re, e imprigionato in una località segreta. Il re nominò capo del governo il generale Badoglio, uomo avido di onori e denaro - si seppe poi. I giornali andarono a ruba, rivelando per la prima volta gli scandali coinvolgenti Mussolini e i gerarchi. Si venne a sapere che il duce aveva un amante, Claretta Petacci, sorella di una attricetta dei telefoni bianchi, in arte Miriam di San Servolo, nome che ci ricordava un personaggio di Achille Campanile: Fiamma d’Arienzo alias Brigida Ciabatta». «Tutti, fino a quel giorno, erano stati fascisti, partecipando regolarmente alle frequenti "adunate oceaniche" nella piazza davanti alla "Casa del Fascio", sfoggiando fantasiose divise e gli immancabili stivali neri. Molti di loro erano capimanipolo, capicenturia, capifabbricato poiché quasi tutti, allora, erano capiqualcosa. Soltanto il ragionier Cicoria non era mai stato visto in divisa; al "sabato fascista" si metteva una cravatta rossa, come usavamo fare anche noi studenti. Alla notizia della caduta del fascismo, da tutte le finestre, esclusa quella del ragionier Cicoria, si affacciarono gli inquilini esultanti, gridando: "Abbasso il duce! Viva il re! Viva l’esercito!"». «E tu, Simone, candido come sempre, chiedesti ad alcuni di loro: "Ma non eravate tutti fascisti convinti?". Ricordo la risposta degli spudorati: "Siamo sempre stati democratici, operando contro il regime dall’ interno!"». «Ma era tutto troppo bello per essere vero, L'otto settembre la radio lanciò il famigerato comunicato: "Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha richiesto un armistizio al generale Eisenhower,

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comandante in capo delle forze armate angloamericane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze armate italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza". Il re, Badoglio e gli alti papaveri fuggirono da Roma. L’esercito fu abbandonato al suo destino. Gli Alpini del locale battaglione gettarono le uniformi e si dispersero. Alcuni tornarono nelle famiglie di origine, altri fuggirono in montagna costituendo i primi nuclei della Resistenza». E - ricordi? - la teppaglia saccheggiò la caserma asportando brande, coperte, oggetti di ogni genere».

«Nel gennaio del 1944, fu chiamata alle armi la classe 1925. Tu, Mario, giovane aitante, fosti arruolato in artiglieria. mentre io fui dichiarato rivedibile per deficienza toracica. Da quel giorno intercorse, tra noi, una fitta corrispondenza. Le tue frasi erano spesso incomprensibili per le rigacce nere con cui la censura cancellava molte parole. A me risultò comunque che ti trovavi sulle alture di Genova, bombardata dal cielo e dalla flotta inglese, padrona assoluta del golfo. Alla mia ultima lettera non seguì alcuna riposta e da allora non seppi più nulla di te». «Ecco ciò che non hai mai saputo» - disse Mario. «Come ti ho detto, tutto è stato trascritto nella mia nuova memoria. L'otto settembre, militare di leva, ho disertato e mi sono unito ai partigiani della Valle Grossa. Il gruppo a cui appartenevo, male armato, si è scontrato più volte con i nazifascisti e talvolta li abbiamo messi in fuga. La nostra forza era la speranza di un mondo migliore e cantavamo Partigiani di tutte le valli Pronto il mitra, le bombe: cammina! La tua Patria, travolta, in rovina, La tua Patria non deve morir. Nella nostra brigata erano confluiti militari sbandati come me, renitenti alla leva (i giovani che Mussolini credeva di aver forgiato…), ebrei, perseguitati politici, ufficiali

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badogliani, prigionieri inglesi e russi fuggiti ai tedeschi. Tanto diversi ma uniti nella lotta contro il nazifascismo. Un giorno, durante una scaramuccia, una pallottola mi colpì al ventre e vidi il mio sangue bagnare le felci del bosco. Per il dolore e l'emorragia svenni e i miei compagni - non mi ricordo quali - mi trascinarono in una delle baite semidiroccate che usavamo come rifugio. Deliravo. Viste le mie gravi condizioni decisero di portarmi in quella che definivano infermeria, piuttosto lontana. Vi riuscirono senza fare cattivi incontri. Mi attendeva la nostra infermiera, un angelo…». «Giovanna Cismon!». «Sì, proprio lei. Non dirmi che la conosci». «Sì, l'ho conosciuta dopo la Liberazione. E' famosa in tutta la zona». «Avvisata da una staffetta, Giovanna aveva preparato il necessario per l'intervento chirurgico. E infatti, dopo avermi anestetizzato nell' unico modo possibile, cioè premendomi sul viso un batuffolo di cotone imbevuto di cloroformio, mentre alcuni compagni mi bloccavano, eseguì l'intervento. La sala operatoria era una baita ed il lettino un tavolaccio dove giacevo su un lenzuolo inzuppato di sangue. Eppure me la cavai. Due giorni dopo ero migliorato a vista d'occhio, avevo la pellaccia dura! Il terzo giorno dopo l'intervento arrivarono i tedeschi in forze e dovemmo fuggire. Due compagni costruirono una rudimentale barella. Pioveva a dirotto ed il torrente era gonfio. Mi caricarono sulla barella ed iniziarono una marcia forzata verso il passo di Aspasico, con la speranza di arrivare in val Fumosa ed unirsi al grosso delle nostre forze. Ma i tedeschi incalzavano ed una bomba a mano uccise sul colpo i compagni che mi trasportavano, lasciandomi illeso. Non vidi più gli altri compagni di fuga e i tedeschi non videro me, nascosto nella fitta vegetazione. Mi trovai dunque solo, inzuppato di pioggia, immobilizzato su un tappeto di foglie marce, vicino a due cadaveri. La ferita mi doleva fortemente ma più forte del dolore era la consapevolezza della fine. Per qualche giorno resistetti, succhiando le foglie bagnate dalla pioggia e

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mangiando qualche castagna. In un primo tempo sperai che, prima o poi, qualche compagno sarebbe ritornato in mio aiuto. Poi, capii chiaramente che era giunta la fine, avvertendo l'odore dolciastro della morte emesso dai miei compagni caduti. Ti ricordi quando, da studenti, il professore di chimica ci parlò di due ammine chiamate cadaverina e putrescina? Allora erano per noi soltanto parole e formule, mentre ora… . Ricorderai che mi sono sempre vantato di essere un duro; ebbene, in quelle ore, ho invocato la mamma. Nel delirio della febbre udivo la mia voce, come se fosse stata quella di un altro, cantare le canzoni che ci avevano inculcato con la forza, da ragazzini, al "sabato fascista". Gridavo: Saluto al re! Viva il re! Saluto al duce! A noi! Uno due, uno due! Passo! Cadenza! Per fila destr marsc! Alt! Fianco sinistr, sinistr! Attenti! Riposo! Attenti! Riposo! Attenti! Riposo! Intoniamo Vincere! "Vincere, vincere, vincere / E vinceremo in cielo in terra e in mare / E' la parola d’ordine / Di una suprema volontà!". Ti ricordi quando sostituivano vincere con mingere ed il capocenturia non capiva o fingeva di non capire? Ora cantiamo Saluto al Duce - vaneggiavo - "Dio ti manda all’Italia / Come manda la luce / duce, duce, duce!" . Ora Salve o Re: "Salve o re imperator / Vittorioso il duce dié / A Roma e al mondo un grande imper / Fecondato dal lavor…". Terminiamo con l' Inno dei Balilla, pronti, via!. "Fischia il sasso / Il nome squilla / del ragazzo di Portoria…". Rammenti quando cantavamo la parodia dell' inno: "Fischia il sasso / Il nome squilla / Di Arcibaldo e Petronilla / E l’intrepido Cagnara / Sta suonando la guitara / Era bronzo / Quello stronzo …".

Poi, la voce tacque e mi invase una piacevole sensazione; il dolore era scomparso! Ti ricordi quando abbiamo letto, scettici, quel libro in cui l' autore ha raccolto le testimonianze di persone uscite dal coma? Come loro mi vedevo dall’alto, pallidissimo, immobile sulle foglie fradice. Eppure, avevo la netta sensazione di possedere un corpo, molto diverso da quello immobile che osservavo stupito».

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«Prima Corinzi! Il corpo spirituale!». «No. Ero lucidissimo e rivedevo simultaneamente tante cose fatte, viste o ascoltate. Galleggiavo sopra il mio corpo e riuscivo persino a spiegare la possibilità di fluttuare e attraversare gli oggetti, ricordando quanto ci avevano insegnato a scuola sull’ immenso spazio vuoto esistente negli atomi tra il nucleo e gli elettroni. Balenò in me il ricordo improvviso delle parole di Amleto: "Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non ne sogni la tua filosofia". Vidi il mio corpo e quelli dei miei compagni scivolare lentamente nel torrente in piena. Provai una strana sensazione di benessere fisico, in questo nuovo corpo così etereo ma così reale. Poi, dovetti partire. Hai visto come Stanley Kubrick rappresenta un viaggio nel tempo nel film "2001: Odissea nello spazio"? Ebbene, mi accadde qualcosa di simile, mentre avvertivo che il mio corpo subiva un’ altra metamorfosi. Un’ impressione angosciosa. Dopo qualche ora? giorno? mese? uscii dal tunnel e mi trovai in un luogo sconosciuto, indescrivibile. Ero circondato da cose mai viste e ciò mi ricordava quanto avevo letto sul nostro cervello che elabora a modo suo le immagini che gli trasmettono gli occhi. Osserva un albero con il tronco bruno e le foglie verdi: è proprio come tu lo vedi? O è qualcosa totalmente diverso? Sicuramente appare diverso agli occhi di un insetto. Avevo la sensazione di essere circondato dalle pareti di una stanza contenente oggetti familiari e di intravedere, attraverso una finestra, il lago e le montagne. Ma era tutto terribilmente differente da quanto ricordavo! Tuttavia avvertivo confusamente di trovarmi ancora a Roraro. Cosa proveresti se improvvisamente, mentre stai scrivendo, le linee tracciate si allargassero rapidamente fino ad occupare tutto il foglio? E se le lettere del libro che stai leggendo acquistassero una terza dimensione ed uscissero dalla pagina come alabarde, puntando suoi tuoi occhi? Ne saresti terrorizzato. Ebbene, a me succedeva qualcosa di simile, vedevo cose che dovevano essere familiari come

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persone, muri, mobili, ma in una forma diversa, vista con occhi diversi. Mi spiegarono come tutto ciò fosse perfettamente naturale, avendo acquistato un altro senso che mi permetteva di valutare il mondo in quattro dimensioni. Il terrore saliva a ondate ma fui rassicurato dalle voci provenienti da due esseri che mi ponevano di fronte qualcosa che compresi essere una sorta di specchio. Esitando, osservai l’immagine riflessa: ero simile a loro!». «Ma... ma...». «Ti prego, non farmi altre domande. Cerca sul vocabolario il lemma inesplicabile; troverai: "qualcosa che non si può comprendere o spiegare". Anzi, se ci sarà concesso ancora di comunicare, userò, come ho fatto finora, parole a te familiari perché tu possa comprendere qualcosa; però saranno soltanto delle cattive traduzioni. Dove sono? - chiesi. Mi risposero: A Roraro. Benvenuto. Calmati, non corri alcun pericolo. Siamo felici di averti con noi. I due esseri che mi parlavano con dolcezza e comprensione erano mia nonna Clotilde e sua sorella Lucia, giunte a Roraro per incarico dell’Accoglienza». «L’Accoglienza?». «Chiamiamo così una organizzazione internazionale, dal nome inglese difficile da pronunciare; si occupa dei nuovi arrivi nella Quinta. Ogni giorno, nello stesso angolo del mondo dove hanno terminato la loro vita nella Quarta, arriva qualcuno: richiedono assistenza altrimenti impazzirebbero. In maggioranza sono persone anziane che hanno abbandonato il vestito logoro, anche se fino all’ultimo momento si sono ribellate a chi parlava loro della morte. Ma non mancano i giovani. I novizi angosciati vengono ricevuti, quando è possibile, da persone care vissute con loro nella Quarta. La nonna e la prozia Lucia hanno risposto immediatamente alla chiamata salendo sul primo treno in partenza da Alessandria...». «Treno? Ma quanto sto ascoltando è parto della mia mente malata! Non sei tu che parli, sto sognando ad occhi aperti! E ... lì... lì… vi sono anche i treni? Anche i treni?».

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«Certamente. Il mondo dove vivo adesso è diverso da quello della Quarta soltanto per l’esistenza della quinta dimensione, soltanto per questo. Anche qui esistono campi e fabbriche, lavoratori e perdigiorno, ricchi e poveri, sani e ammalati…». «Ma tu ... come vivi?» «Non molto bene. Ho problemi di salute. Ho trascorso quattro anni in campagna, a Pioppera, adottato dalla nonna e dalla prozia Lucia e coccolato come un bambino. «Hai detto che ora ti trovi a Roraro. Quando sei tornato?». «Da molto tempo. Ho trovano impiego come analista chimico nello stesso stabilimento in cui abbiamo lavorato nei mesi estivi quando eravamo studenti, ricordi? Con l’arrivo di mio padre e poi di mia madre, la famiglia si è parzialmente ricostruita. La nonna, però...». «Però?». «Ora sono tanto stanco...». Simone fu invaso da una grande tristezza senza comprenderne il motivo. All’improvviso, Mario esclamò, con voce soffocata: «Ti devo salutare ... Non tentare più di riaprire il Varco, sarebbe inutile ... Forse ci risentiremo, ma non da qui». A quel punto, a Simone apparve chiaro il significato di alcune parole pronunciate da Mario: «Se ci incontreremo...», «Ci è concesso aprire il Varco prima di partire...», «Se ci sarà concesso ancora di comunicare»… «Ma allora non ci incontreremo mai?» - esclamò. «Mai? C’è la Sesta... la Settima...».

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