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Didattica speciale per le attività didattichea.a. 2014/2015
Dottoressa Romina De Cicco
Indice
Cap. 1. Quando la didattica diventa “speciale” Concetto di disagio Concetto di handicap
Cap. 2. La sindrome di Down La sintomatologia Il quadro clinico I tratti sindromici e lo sviluppo del linguaggio I tratti sindromici e lo sviluppo psico-motorio
Cap. 3. L’autismo I tratti autistici Metodo ABA Teacch
Bibliografia essenziale
Cap. 1 Quando la didattica diventa “speciale”
La didattica speciale è la disciplina che ci offre i mezzi per lavorare con
persone che hanno delle patologie. Il diversamente abile è una persona
che noi dobbiamo ritenere, concepire, uguale a tutti gli altri in termini di
essere umano e di capacità differenti da quelle che non sono limitate dalla
patologia. Ma non possiamo certo fingere che esistano delle limitazioni
oggettive perchè sarebbe ipocrita farlo. Il nostro obiettivo è quello di
lavorare in maniera fredda, sistematica e scientifica per far sì che la
persona che abbiamo davanti raggiunga il massimo livello possibile di
autonomia dalla famiglia, dai professionisti del settore, dai familiari per
migliorare, in sostanza, la qualità della sua vita.
Lavorare in maniera sistematica e scientifica significa che dobbiamo
osservare e analizzare bene il contesto familiare, sociale, economico,
affettivo emotivo dell’utente di cui dobbiamo prenderci cura.
Facciamo un esempio: ad un bambino del primo ciclo della scuola
primaria con ipovisione, va consigliata la verifica della visione aptica
attraverso il tatto. In questo caso, l’insegnante deve sapere che la
dimensione del bambino da privilegiare è quella specifica del corpo e del
movimento, attraverso l’individuazione ben precisa del valore dello spazio
come aspetto determinante per costruire unità didattiche di
apprendimento. In questo caso, le unità di base devono mirare al
riconoscimento dell’identità del bambino in un determinato spazio che il
bambino ha già fatto suo e la scoperta di un nuovo spazio da innalzare
attraverso una sequenza di unità didattiche di apprendimento che devono
essere individuate, dopo un’attenta osservazione delle abilità e capacità di
base; in questo passaggio ci si può avvalere della diagnosi funzionale e
del profilo dinamico funzionale per conoscere il percorso del bambino
nell’arco di vita da 0 a 5 anni.
Facciamo un secondo esempio, parlando della dislessia.
La dislessia, è una sindrome classificata come disturbo specifico
dell’apprendimento e la sua maggiore manifestazione si coglie nella
difficoltà di leggere ad alta voce. In realtà il problema non ha a che fare
solo ed esclusivamente con la lettura ma con tutte le azioni che compie il
soggetto. Un bambino dislessico ha sicuramente un problema di
organizzazione spazio-temporale; un bambino dislessico ha sicuramente
un’andatura irregolare; un bambino dislessico ha sicuramente un
problema nell’organizzazione del so spazio. Con questo voglio dire, che
se un bambino è un dislessico nel leggere lo è anche nel camminare, nel
pensare, nel giocare, in altre parole, il problema è sempre trasversale
all’individuo.
Quello che possiamo definire meglio come “un’interferenza” ed è nostro
dovere individuarla, può essere notata in tutti i campi. Per questo motivo,
l’esperto, l’operatore e/o l’insegnante di sostegno deve preoccuparsi,
insieme alla scuola e alla famiglia di trovare delle strategie metodologico –
didattiche che rafforzino le potenzialità e le competenze di spazio e tempo
a tutti i livelli.
Esercizi quindi per rafforzare, prima / dopo; dx / sx; sopra / sotto; avanti /
dietro; ecc.
È indispensabile ricordare che nessuna patologia ha aspetti identici e
manifestazioni identiche nelle persone, per cui, il nostro lavoro di
osservazione, ascolto e preparazione del progetto di intervento sarà ogni
volta differente, perchè nuovo, perchè ogni bambino e/o soggetto adulto è
diverso, perchè ogni bambino e/o soggetto adulto reagisce, parla, si
esprime, vive stati emotivo – affettivi diversi, ha una storia diversa.
Dobbiamo ricordarci inoltre che il bambino e/o il soggetto adulto con
handicap nella maggior parte dei casi sopravvive ai suoi genitori, motivo
per cui, arriverà ad un momento della propria vita in cui sarà costretto a
doversi autogestire. Questo è quello che dobbiamo porci come obiettivo: il
raggiungimento del grado di autonomia possibile.
Autonomia dai genitori, amici, parenti e dai professionisti del settore, e se
possibile, una indipendenza personale ed economica.
La fase iniziale è sempre quella di individuare le potenzialità di base di
ciascuno sulla base di alcuni indicatori di qualità da scoprire, secondo la
patologia che è stata diagnosticata al bambino e/o al soggetto adulto.
L’anamnesi rappresenta sempre un elemento determinante per poter
progettare un piano di intervento individualizzato, per questo motivo
occorre analizzare, se possibile con la massima collaborazione della
famiglia, l’iter storico a partire dalla nascita fino all’ingresso del bambino
nella scuola, e/o del soggetto adulto nel mondo del lavoro e cogliere tutti
gli elementi e i dettagli possibili per costruire un percorso adeguato e
individualizzato.
In didattica speciale dobbiamo lavorare n maniera sistematica e
scientifica, ossia, osservare il contesto familiare, sciale, economico,
emotivo, ecc. della persona di cui dobbiamo prenderci cura, perchè nel
progetto individuale riabilitativo dobbiamo tener presente sempre del
contesto dell’utente, del territorio nel quale vive, della piccola comunità
che lo circonda affinchè gli si possa costruire quella rete “protetta” che lo
aiuti in futuro a rendersi auto-sufficiente; artefice del suo vivere quotidiano.
È indispensabile ricordarci che nessuna patologia si manifesta allo stesso
modo nelle persone; dunque, il mio lavoro di osservazione, ascolto,
preparazione e progettazione di un piano di intervento individualizzato è
ogni volta differente.
La didattica speciale pone al centro della propria riflessione teorica e
operativa l’interazione e la riflessione umana tra il soggetto, ossia la
persona che è oggetto attivo della fase riabilitativa, e gli oggetti
dell’educazione intesi come le conoscenze e i modelli di comportamento
all’interno delle istituzioni come scuole, case-famiglia, strutture
specializzate per portatori di handicap, ecc.
Questo significa che quando parliamo di didattica speciale per
l’integrazione dobbiamo orientarci con un approccio scientifico e costruire
delle conoscenze disponibili, verificabili e verificarne l’affidabilità nel
contesto. Perchè è ovvio che tutto ciò che si progetterà per la didattica
sarà orientata e mirato considerando le risorse del territorio, il contesto
sociale, il contesto che accoglie il soggetto, gli strumenti disponibili e le
risorse.
Dunque, in questo senso, la didattica assume un ruolo particolarmente
“speciale” perchè fa da mediatore fra il soggetto e gli oggetti
dell’apprendimento. In questo senso il ruolo dell’educatore è molto
complesso e importantissimo perchè di grande responsabilità.
In didattica speciale abbiamo due doti: la creatività e l’intuizione.
Per quel che riguarda la creatività: capacità di risolvere i problemi
elaborando ipotesi di intervento sempre nuove perchè le strategie
innovative, in questo lavoro, molto spesso, rappresentano il valore
aggiunto che aiuta nella risoluzione di micro-problemi (non parlerò
VOLUTAMENTE mai di guarigione perchè per alcune patologie non è
possibile farlo, dunque, preferisco fare riferimento al miglioramento della
qualità della vita).
Per quel che riguarda l’intuizione: comprendere un problema in modo
intuitivo collegandolo ad altre situazioni. Perchè tutte le attività che si
svolgono con il soggetto devono avere un’interdisciplinarità e
un’osservazione diretta, minuziosa, scrupolosa, profonda, dettagliata di
quanto il soggetto fa, non fa, gli piace, non gli piace fare, riesce e/o non
riesce a fare, cosa gli riesce meglio e in quali momenti della giornata,
cercare di fare delle associazioni del tipo: quando ha litigato con il
compagno rifiuta l’attività, oppure, quando lo saluta quella bambina o
ragazza gli riesce meglio questo compito, ecc.
Concetto di disagio
Nella prospettiva fenomenologica, quella che prenderemo in esame, il
disagio è prima di tutto un vissuto, e come tale può essere compreso
soltanto a partire dal punto di vista del soggetto; non possiamo, noi
operatori, dare per scontato che una certa situazione determini uno stato
di disagio, nè quale nome attribuire a quel “disagio”. In effetti, la parola
“disagio” è ambigua, troppo vaga e generica: si limita a rilevare
un’assenza, un’inadeguatezza. Non è un caso che abbia così tanti
sinonimi: “sofferenza”, “crisi”, “disturbo”, “stress”, “malattia”, ma anche
“tristezza”, “nostalgia” possono andare bene, in alcune situazioni per
descrivere il nostro disagio. Dis-agio: l’origine etimologica conferma il
senso di qualcosa che non c’è, un vuoto, un’assenza.
Potremmo dire che il disagio è una mancata risposta ad un bisogno o
anche ad un desiderio dell’essere umano. Ma esistono altre forme, più
radicali, di disagio: per esempio il disagio di non aver più desideri o
bisogni, di non sapere più chi sei, o di non averlo mai saputo.
C’è uno stare male che è più assoluto del “sentirsi a disagio”. In questi
casi è particolarmente evidente l’impossibilità di oggettivare il disagio e
l’illusorietà di tante strategie che mirano a fornire una risposta concreta,
immediata, diretta come se fosse possibile dare soluzione o sollievo a
questo disagio attraverso un processo deterministico, lineare, causale.
Un primo passo per comprendere il disagio, che rappresenta un modo di
per sè per intervenire sul disagio, consiste proprio nel dargli un nome, dei
confini, dei connotati che proprio perchè soggettivi, hanno un’elevata
probabilità d’incidere significativamente sull’esperienza, di dare forma
all’esperienza.
Nella nostra cultura, il disagio ha quasi sempre una connotazione
negativa. Raramente, anche tra gli specialisti, se ne coglie il potenziale di
scoperta, di apprendimento, di motivazione al vivere. Eppure, lo sappiamo
bene, quando un essere umano è a disagio vorrebbe fare qualcosa per
uscirne: secondo i teorici dell’apprendimento, diverse forme di disagio
psicologico e/o fisico, dovuto allo piazzamento cognitivo, alla crisi, a forti
emozioni, sono pre-condizioni per l’evoluzione di nuovi comportamenti, di
nuove rappresentazioni di sé e del mondo, di strategie relazionali o
cognitive in un dato soggetto.
Se prendiamo in considerazione, in particolare, gli adulti, possiamo dire
che solo il disagio dovuto a grandi spiazzamenti può diventare promotore
di cambiamento. Qual è infatti l’adulto che, trovato un equilibrio vivibile
nelle sue condizioni e abitudini, decide di cambiare? È rarissimo, anche
perchè sarebbe antieconomico. Ecco perchè l’educazione degli adulti dà
tanta importanza alla nozione di “crisi”.
Se si eliminano le cause o le manifestazioni superficiali del disagio, resta il
fatto che un intervento troppo rapido il più delle volte aggira la necessità
vitale, per il soggetto, di dare senso all’esperienza, gli evita la fatica e il
dolore di interrogarsi per comprendere il proprio disagio, e con esso una
parte del senso della propria esistenza.
Chi si occupa di servizi alla persona e di riabilitazione non dovrebbe
considerare il disagio solo un nemico da combattere, ma una risorsa
preziosa, un’esperienza da interrogare e addirittura da ricercare e
provocare attivamente in qualche caso.
Queste premesse sono importanti per comprendere la nozione di cura di
sé. Se il disagio non è a priori, non è oggettivo ma soggettivo, se è
un’occasione di apprendimento, allora l’unica cura possibile, il rimedio al
disagio, è la cura di sé, intesa come ascolto dei propri bisogni e desideri,
comprensione attiva dell’esistenza, riflessione, bilancio, progetto di vita.
L’uomo ha inventato tanti modi per occuparsi dei propri disagi; modi
antichi, come le tecnologie della cura di sè. - Michel Foucault (1988) le
aveva definite tout court “tecnologie del sé” - perchè nel praticarle con
una certa assiduità finiamo per affermare la nostra stessa esistenza, la
nostra identità. Alcuni esempi: il diario, l’esame di coscienza, l’espressione
letteraria e la poetica, una lettera o una telefonata ad una persona amica,
una conversazione, uno scritto autobiografico.
Concetto di handicap
Di fronte ad una condizione di “malattia” le funzioni che appaiono
maggiormente compromesse sono il ruolo lavorativo e quello sessuale, e,
di seguito, le relazioni sociali, l’attività nel tempo libero, la partecipazione
alla vita familiare e la cura di sé.
La disabilità (derivata da una menomazione fisica o psichica) comporta
direttamente, a causa della sua psicopatologia, e indirettamente, mediante
meccanismi psicosociali di cronicità, un correlato sociale: l’handicap.
La minore competitività rispetto alla collettività e lo stigma sociale
determinano, uno svantaggio nei confronti degli altri, apportando una serie
di ulteriori conseguenze sociali sfavorevoli.
Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’handicap indica “una
condizione di svantaggio per un determinato individuo, dovuta ad una
menomazione o ad una disabilità che limita o impedisce l’esercizio del
ruolo normale per quell’individuo (in relazione all’età, al sesso, ai fattori
socio-culturali) ed evidenzia una discordanza fra l’attività e la condizione
effettiva dell’individuo.
È un fenomeno sociale che rappresenta la conseguenza, sul piano sociale
e ambientale delle menomazioni e delle disabilità dalle quali il singolo
individuo è affetto”.
L’ICDH definisce l’handicap “una condizione di svantaggio vissuta da una
determinata persona in conseguenza di una menomazione o di una
disabilita, che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo
normalmente proprio a quella persona in relazione all’età, al sesso e ai
fattori socio-culturali”.
L’handicap costituisce, dunque, uno svantaggio vissuto che non sempre
implica una precisa consapevolezza della propria ridotta competitività; la
condizione di svantaggio dipende dall’interazione tra la componente
personale e l’ambiente sociale.
Le definizioni hanno avuto una sorta di evoluzione e cambiamenti fino ad
oggi:
- Menomazione: la mancanza di parte o di tutto un membro, o la
presenza di un difetto ad un membro, o ad un organo, o ad una
funzione organica;
- Invalidità: la perdita o la riduzione delle capacità funzionali;
- Handicap: la perdita o la limitazione di attività causate
dall’invalidità;
- Inabilità: l’impossibilità di esercitare un’attività lavorativa abituale.
Tenendo presente che nel linguaggio corrente va acquisendo maggiore
credibilità il concetto di “diversamente abili” in quanto accentua gli aspetti
positivi e le abilità residue di una persona.
Il concetto di handicap pertanto può applicarsi solo a quelle circostanze in
cui il soggetto si trova a dover rispondere a specifici contesti e ad
altrettante specifiche richieste alle quali non è in grado di far fronte.
Questa focalizzazione sull’ handicap consente di programmare un’attività
riabilitativa, che miri non solo al recupero delle abilità ridotte, ma
soprattutto alla valorizzazione di quelle residue.
Oggi quando parliamo di riabilitazione sociale intendiamo dire che la presa
in carico da parte, dell’ente o del privato, è di tutto il nucleo familiare e
della piccola comunità in cui vive l’utente. Spesso però quando parliamo di
presa in carico non capiamo bene il significato, nel pratico, di come e cosa
avviene.
Una delle attività fondamentali dell’intelligenza è l’apprendimento.
L’organismo vivente si conserva trasformandosi e questa attività è il
fondamento dell’apprendimento. Nell’individuo, apprendere significa
modificare il proprio comportamento (esterno e interno, motorio, ma anche
mentale) per mezzo dell'esperienza. Un apprendimento intelligente è
quello che modifica le strutture in possesso al fine di controllare meglio
l'ambiente.
Organizzare la memoria o il sapere, ad esempio, è un caso di
apprendimento intelligente. Così è possibile pure parlare di attività
intelligente quando si sanno programmare le attività di studio, quando si
rende al massimo con le proprie capacità. Il fine dell'apprendimento,
quindi, è di stabilire un nuovo sistema di relazioni fra percezione e
comportamento in funzione di un significato nuovo o di un'azione futura.
Alla domanda: «come si apprende?» non è possibile dare una risposta
unica. Molte sono le vie e molte le teorie. La riflessologia parla di riflessi
condizionati, secondo la terminologia di PavIov. Uno stimolo neutro
diventa un segnale quando si associa a uno stimolo che a sua volta si
collega a un bisogno primario o a un comportamento che già si possiede.
Sentire improvvisamente per la strada il rumore di un clacson fa scattare
dei movimenti di difesa, che già possediamo, come volgere il capo o fare
un salto. Il riflesso di fuga oppure un comportamento già appreso viene, in
questo caso, messo in azione da uno stimolo esterno che inizialmente era
soltanto neutro. Nello stesso modo si possono apprendere a memoria certi
tipi di comportamento o di parole, a loro volta uniti a determinati stimoli
ambientali.
Il riflesso condizionato è un comportamento riservato più agli animali che
all'uomo, ma molte attività umane hanno la medesima base. Anche
l'apprendimento per prove ed errori è una forma di apprendimento più
legata ad attività del comportamento che ad attività mentali.
L'apprendimento per prove ed errori sottolinea l'inutilità degli errori per
conseguire un certo comportamento: l'errore viene sistematicamente
eliminato e il movimento o l'atteggiamento utile rinforzato (Skinner). Perciò
al centro di questo tipo di apprendimento stanno le abitudini, sia di
comportarsi che di pensare. In effetti molti automatismi vengono prodotti
senza che il soggetto ne abbia coscienza; ed è anche vero che una
struttura è composta da una serie di atti concatenati tra loro, per cui basta
modificarne uno perchè l'intera struttura venga alterata (L. Trisciuzzi,
1991).
Esaminiamo alcuni casi di mancato apprendimento:
1. lo stimolo non viene appreso, non viene colto, non arriva. Lo
scolaro non può inserire il segnale inviato dall'insegnante proprio
repertorio cognitivo in quanto il segnale può risultare estraneo alla
sua conoscenza, ad esempio, nel caso di un termine linguistico
nuovo e non conosciuto; oppure un'espressione lessico troppo
complessa per l'età, per la cultura o per la capacità mentale del
soggetto. In tutti questi casi non vi è apprendimento la parola o la
nozione o anche il comportamento rimangono sospesi e non si
integrano con il resto: non possono essere assimilati, mancando gli
schemi idonei;
2. lo stimolo o il segnale viene rifiutato perchè si collega a punizione.
L'informazione, in un caso del genere, perde il s carattere mentale,
intellettivo e ne assume uno emotivo. L'emozione e la
preoccupazione o il timore di una punizione interferisce nell'atto
cognitivo e blocca l'apprendimento. L'attenzione viene dislocata
sugli aspetti negativi dell'apprendimento e il segnale rifiutato;
3. non si ha apprendimento quando un segnale si rivela inadeguato,
per cui non è possibile farlo rientrare nella mappa cognitiva dei
soggetto o vi rientra in modo errato, assumendo u significato
diverso dal voluto; il soggetto o non lo usa o lo usa i modo errato: in
ogni caso l'apprendimento non è avvenuto;
4. non si ha apprendimento, nel senso di attività integrabile nell'azione
futura, quando la memorizzazione avviene in forni puramente
meccanica. Un brano appreso a memoria, ma non compreso, è
inutilizzabile in contesti diversi;
5. anche un segnale ambiguo o distorto da deficienze (visive o uditive)
del soggetto non può essere considerato appreso, poiché non può
essere adeguatamente impiegato in attività successive. In questi
casi, spetta all'insegnante cercare di rendersi conto della
deficienza, e non al soggetto, poiché quest'ultimo non ha la
possibilità di avere il riscontro con il segnale non distorto;
6. infine, è possibile inserire tra i casi di mancato apprendimento le
situazioni di anormalità personale del soggetto, come le neurosi o
le psicosi (manie e fobie). Queste anormalità psichiche, creando
delle stereotipie mentali, bloccano la percezione delle informazioni,
che rimangono fluttuanti nella marea delle sensazioni emotive.
Dalle considerazioni sulle diverse cause di mancato apprendimento, che
l'insegnante dovrebbe avere sempre presenti, emerge l'importanza della
verifica, sia come autocontrollo o feedback da parte dell'allievo, sia come
verifica vera e propria da parte dell'insegnante.
Va detto, innanzitutto, che l’alunno porta a scuola tutto se stesso e ogni
attività, ogni apprendimento, lo coinvolge a tutti i livelli, e non solo quelli
mentali, come dovrebbe essere o come sarebbe sperabile. La tensione
emotiva è sempre presente e può avere riflessi positivi, ma anche
profondamente negativi, sull'attività di apprendimento, a seconda del
soggetto, della capacità di questi di sostenerne l'influenza e naturalmente
a seconda dell'intensità. L'emotività agisce direttamente o indirettamente
sull'attività di apprendimento e interessa in modo particolare la scuola.
Le alterazioni organiche delle funzioni cognitive sono complesse e
poliformi, e vanno da un livello minimo, più o meno diffuso, a lesioni molto
gravi, fino al livello dell'idiozia.
Gli studiosi del problema concordano nell'indicare le insufficienze mentali
secondo i seguenti livelli:
- insufficienza mentale profonda. A questo livello di sviluppo il
soggetto non va oltre il limite dì 2/3 anni di età. Tutto parziale,
compresa l'autonomia della vita quotidiana il linguaggio è quasi
inesistente o ridotto a qualche fonema.
I soggetti a questo livello sono dipendenti o da persone o da
istituzioni ospedaliere. Va anche rilevato che all'insufficienza
mentale profonda o grave si associano spesso alterazioni
neurologiche e crisi epilettiche;
- insufficienza mentale severa e moderata. Le funzioni mentali e
personali di questi soggetti non superano il livello di 6 anni di
età. le indicazioni relative all'età si riferiscono più a un quadro
generale e non specifico, poiché sussistono dei ritardi (nello
sviluppo psicomotorio o del linguaggio o ideativo) che indicando
un'età inferiore al quadro di riferimento. Tuttavia, è possibile
trovare una certa autonomia nelle condotte sociali della vita
quotidiana, in particolare se il soggetto vive in un ambiente
familiare ricco di stimolazioni affettive e relazionali. Il linguaggio
rimane a livello asintattico, per cui anche la scolarizzazione è
scadente e si perde rapidamente. Il pensiero rimane al livello
preoperatorio;
-insufficienza mentale lieve. A questo livello sarebbe erroneo dare
delle indicazioni di età con cui comparare le capacità. Il livello non
ha una misura reale, ma si adegua più ad un livello di socialità che
di capacità misurabili. In sostanza, a questo livello la scuola, in
quanto istituzione di apprendimento e di rapporti interindividuali,
diviene un fattore determinante. Tuttavia, l'insuccesso e i relativi
traumi sono sempre in agguato. Il linguaggio si presenta
abbastanza ricco e ben organizzato, anche se poi l'espressione
scritta non raggiunge il livello che ci si aspetta. Non risultano
grosse anomalie somatiche, sebbene spesso lo sviluppo motorio,
quello prassico e soprattutto quello ritmico non raggiungono un
buon livello.
Alcuni autori ritengono che l'insufficienza mentale possa essere vista
come il risultato d un processo o di una serie di processi diversi per natura
o per origine e ritengono che, anche nel caso in cui un fattore organico sia
in gioco, l'insufficiente mentale non deve far fronte solamente ad una
difficoltà innata, ma anche al modo in cui la madre utilizza questa
mancanza in un mondo fantasmatico che finisce per essere comune ad
entrambi.
Naturalmente va chiamata in causa la stessa società che «disperde» delle
capacità, pur sempre esistenti, in quanto ha dei limiti bassi di tolleranza e
nello stesso tempo dei livelli di achievemen troppo alti e selettivi.
Da quando Alfred Binet e Simon Thèophile misero insieme una lunga lista
di domande che in quel tempo (1905) doveva formare repertorio-base di
conoscenze da parte di bambini in età scolare, molti sono stati i tentativi
per ampliare, aggiornare, migliorare le prove (concetto di intelligenza).
Per completare il «concetto di intelligenza», come Binet e Simon avevano
definito l'esito delle prove, nel 1912 uno studioso (W. Stern) ideò una
misura che definì «quoziente di intelligenza» o più semplicemente QI.
Il Q1 è il risultato del rapporto tra età mentale ed età cronologica.
Ciò significa che se il rapporto tra i due valori (età mentale ed età
cronologica) è uguale a 1, il quoziente di intelligenza è uguale a 100.
Se un bambino di 10 anni raggiunge nelle prove la sua età mentale, allora
10 su 10 uguale a 1, che moltiplicato per 100 dà 100, ossia un quoziente
mentale nella media.
La prova del quoziente diventa problematica se il bambino ha 12 anni e,
se alle prove la sua età mentale non va oltre a 10.
Allora 10 su 12 diventa un numero inferiore a 1, ossia 0,83.
Il numero inferiore a 100 indica un quoziente intellettivo inferiore a 100,
ossia alla media.
Il quadro che si prospetta in questi casi è il seguente: partendo da 100,
che rappresenta la «norma» dell'individuo medio, i valori dei quozienti si
distribuiscono nel modo qui illustrato:
120-129 Superiore
110-119 Medio-superiore
90-109 Medio
80-89 Medio-inferiore
70-79 Inferiore
50-69 Debole di mente
25-49 Deficenti-mentali
La classificazione psicometrica delle insufficienze mentali come è stata
presentata offre la seguente indicazione:
Età mentale QI
Insufficienza mentale lieve 8-12 40/70
Insufficienza mentale media 3-7 25-40/45
Insufficienza mentale grave 0-2 0-20/25
Pur accettando, in linea di massima, questo tipo di indicazione, è chiaro
che il problema non può risolversi in un numero.
Una classificazione numerica esclude di per sé considerazioni qualitative,
come l'indicazione della personalità del soggetto.
2. La Sindrome di Down
“Difficilmente uno specchio può essere tanto sporco da non
rispecchiare, almeno in qualche modo, l’immagine e difficilmente può
esistere una lavagna tanto ruvida che non ci si possa almeno in
qualche modo scrivere qualcosa”1.
Con questa frase, così come, prima Comenio ora C. Vitale, voglio
sottolineare con forza che ogni persona è capace di apprendere; certo,
come suggerisce Vitale sono necessarie strutture adeguate e strategie di
intervento ma chi sta leggendo sa benissimo che nella società
contemporanea tutto ciò non manca “se sappiamo coglierlo”.
Per introdurre la Sindrome di Down ho bisogno in primo luogo di fare due
distinzioni dal punto di vista genetico; è possibile trovare una sindrome di
Down sporadica ed una familiare ereditaria.
La sindrome sporadica è quella più comune; ad oggi sono state
individuate varie cause capaci di determinare o favorire la non
disgiunzione cromosomica al momento della meiosi2.
1 G. Albertini, N. Cuomo, G. Biondi, Lo sviluppo e l’educazione del bambino con sindrome di
Down, Omega edizioni, 1992, pag. 9. In C. Vitale, Il valore della diversità, Pensa Editore, Lecce
2007, pag.63.
Le interpretazioni delle possibili cause continuano ad essere tuttavia
molteplici:
una dipendenza poligenica della sindrome;
il difetto cromosomico sembra dovuto inoltre a fattori materni e non
paterni;
l’incidenza dell’età avanzata della madre (e forse anche dei genitori
materni), svolge un ruolo predisponente molto importante e certo;
diversi studiosi affermano che l’età della madre predisponente è
quella che va dai 40 ai 45 anni, mentre in Italia possiamo affermare
che tale età è inferiore, circa 35-40 anni, anche se, proprio in Italia,
negli ultimi anni si sono verificata un’elevata incidenza nei figli di
madri in età inferiore ai 35 anni.
Dunque, come sopra citato, alcune forme sono ereditarie e anche se i
genitori sono fenotipicamente sani possono presentare irregolarità
cromosomiche, anche se l’età dei genitori può essere inferiore ai 20 anni.
Cerchiamo ora di inquadrare la sindrome in dettaglio e da un punto
di vista storico.
È stata scoperta da John Langdon Down3; nelle sue ricerche notò delle
caratteristiche comuni ad individui con deficit cognitivo, come i capelli lisci, 2 La più grave alterazione durante la meiosi è detta non-disjunction, cioè la mancata
separazione di una coppia di cromosomi (o di una coppia di cromatidi). Rilevata per la prima
volta nei cromosomi X di Drosophila è legata nell’uomo a numerose sindromi: la sindrome di
Down, è associata alla non disgiunzione dei cromosomi della coppia 21; la sindrome di
Klinefelter e quella di Turner della coppia dei due cromosomi X; la sindrome di Pätau (trisomia
13) della coppia 13 e la sindrome di Edwards (trisomia 18) della coppia 18, Enciclopedia
Treccani. 3 Hobart Zambon Anna, La Persona con Sindrome Down Roma, Il Pensiero Scientifico Editore,
1996.
gli occhi a mandorla, il naso piccolo, e il viso largo.
L’origine della Sindrome di Down, conosciuta anche come Trisomia 21, è
genetica questo significa che insorge al momento del concepimento.
Viene chiamata anche con il nome Trisomia 21 perchè appaiono tre
cromosomi nella coppia 21 invece che due e quindi il numero di
cromosomi in ogni cellula è 47 anzichè 46, perchè al momento della
divisione cellulare quest’ultimi rimangono attaccati invece di separarsi
normalmente.
Siamo in grado di distinguere tre tipi di Sindrome Down:
1. Trisomia 21 libera: si verifica nel 95% dei casi, il cromosoma
in più è presente nello sperma o nell’uovo, oppure nella prima
divisione cellulare e come conseguenza ogni cellula avrà tre
cromosomi alla coppia 21.
2. Trisomia 21 da traslocazione: si verifica più raramente, solo
nel 2 o 3% dei casi, durante la divisione cellulare una parte del
cromosoma 21 si spezza “trasloca” e si attacca al cromosoma
14, oppure all’altro cromosoma 21; è evidente che in ognuno
dei casi è presente del materiale genetico in più. Circa 2/3
delle traslocazioni avvengono durante la fertilizzazione, 1/3 è
ereditato da uno dei due genitori, in questo caso abbiamo
l’unica forma di Sindrome Down che è legata a un aspetto
genetico del padre o della madre.
3. Mosaicismo: è la forma meno comune infatti si verifica
intorno al 2% dei casi. In questa forma di Trisomia 21 la
divisione cellulare, avviene in modo difettoso dopo la
fertilizzazione, durante la seconda o la terza divisione o
durante quelle successive. Alcune persone con mosaicismo,
possono avere un numero minore di caratteristiche legate alla
Sindrome Down4.
Le caratteristiche fisiche più comuni sono: il taglio degli occhi è piegato
verso l’alto, le mani corte e tozze, delle orecchie piccole, la bocca piccola,
la nuca può essere un po’ piatta e il collo più corto.
Questi sopradescritti sono gli aspetti somatici, l’altra caratteristica della
Sindrome è il ritardo mentale, in sostanza il deficit cognitivo che viene
riscontrato, non è prevedibile e varia da una persona all’altra.
Il ritardo mentale può essere considerato come un’anomalia della funzione
intellettiva, dovuta in questi casi a fattori genetici. Il soggetto con ritardo
mentale necessita di un’azione di recupero, che avrà sempre dei risultati
variabili in relazione all’età in cui il trattamento inizia, la gravità, il tipo di
ritardo, le sue caratteristiche personali. Perchè quest’azione sia possibile
sono necessarie una serie di concomitanze fondamentali: essere inserito
in un contesto ri-educativo idoneo all’interno del quale il soggetto si senta
bene e riesca a relazionarsi, conoscere a fondo la sua personalità, la
dinamica affettiva, le sue motivazioni, le sue scelte, lavorare con pazienza
e perseveranza. La Trisomia 21 inoltre è in grado di interferire sullo
sviluppo del sistema nervoso centrale, producendo uno sbilanciamento
nello sviluppo psicomotorio, più del 40% dei bambini con Sindrome Down
nasce con problemi cardiaci, si possono riscontrare malformazioni
all’apparato gastroenterico, difetti della vista quali: lo strabismo, la miopia,
ecc. La perdita totale o parziale di alcune funzioni, compromette non
soltanto l’integrità funzionale dell’individuo, ma ha delle ripercussioni sulla
vita di relazione e sociale in senso lato. Numerose indagini
epidemiologiche hanno messo in evidenza che l’incidenza della Sindrome
4 Contardi A., Vicari S. (a cura di), Le persone down. Aspetti neuropsicologici, educativi e
sociali, Angeli, Milano 19952.
aumenta con l’aumentare dell’età materna:
ETÀ MATERNA
INCIDENZA
Inferiore a
30 anni
1 su 1500
30-34 anni 1 su 580
35-39 anni 1 su 280
40-44 anni 1 su 70
oltre 45 anni 1 su 38
L’altro fattore di rischio dimostrato è avere avuto un precedente figlio
affetto da Sindrome Down. In Italia un bambino su 800 nasce con la
Sindrome Down5, cioè ne nascono approssimativamente due al giorno.
Si presume che attualmente esistano in Italia circa 40.000 persone con
Sindrome Down. La Sindrome di Down può essere diagnosticata anche
prima della nascita, intorno alla 16°- 18° settimana di gestazione con
l’amniocentesi6, o tra la 12° e la 13° settimana con la villocentesi che
consiste in un prelievo di cellule da cui si svilupperà la placenta.
Alla nascita, il bambino dovrebbe essere sottoposto ai seguenti esami:
1. L’esame del cariotipo per individuare il tipo di Trisomia 21
2. Uno screening neonatale dove per il bambino Down si accerta
ad es. il funzionamento della ghiandola tiroidea.
3. Un esame del sangue
4. Una visita pediatrica
5 Dati statistici aumentano con l’avanzare dell’età della madre.6 L’amniocentesi è un esame che si effettua attraverso il prelievo con una siringa di una piccola
quantità del liquido amniotico che avvolge il feto all’interno dell’utero, non è totalmente indolore
(varia da persona a persona), non è invasivo, è privo di rischi. Solo le donne che hanno
raggiunto i 35 anni di età possono effettuare questo esame gratuitamente.
Inoltre saranno necessarie le vaccinazioni come per qualsiasi altro
bambino normale.
Lo sviluppo del bambino Down avviene con un certo ritardo, però
crescendo può raggiungere sia pure in tempi più lunghi, conquiste simili a
quelle dei bambini normali: cammineranno, inizieranno a parlare, correre e
giocare. Dal punto di vista riabilitativo non si tratta di compensare o
recuperare una particolare funzione, quanto di organizzare un intervento
educativo globale che favorisca la crescita e lo sviluppo del bambino in
un’interazione dinamica tra le sue potenzialità e l’ambiente. È importante
ricordare che ogni bambino è diverso dall’altro e necessita di interventi
che rispettino la propria individualità e i propri tempi, non solo per questa
patologia ma per qualsiasi tipo di intervento, che sia riabilitativo,
educativo-formativo, o altro.
La maggior parte dei bambini Down può raggiungere un buon livello
d’autonomia personale; imparare a curare la propria persona, a cucinare,
a coltivare i propri hobby. Per lo sviluppo delle potenzialità del bambino,
per la realizzazione della sua personalità, ed il raggiungimento delle
capacità funzionali e dei più elevati livelli di autonomia è necessaria una
integrazione degli interventi. Tra la diverse figure educative, occorre che la
famiglia, educatori, operatori dei servizi territoriali, possano pensare,
riflettere, progettare, vagliare e fare delle scelte insieme al bambino. In
questo processo è importante porsi in una relazione d’ascolto, non solo
nei riguardi del bambino, ma anche tra adulti che con lui interagiscono;
saper collaborare, mettendo in comune energie, competenze,
riconoscendo e superando le dinamiche personali che spesso
interferiscono; queste sono dinamiche che purtroppo si verificano molto
spesso e ci si dimentica del motivo per cui si sta discutendo. Interi volumi
non fanno che sottolineare l’importanza e il valore di mettere al centro
delle nostre riflessioni e azioni quotidiane il bambino ma poi ci ritroviamo a
discutere di azioni e aspetti che non hanno nulla a che vedere con lui.
Abbandoniamo progetti interessanti per mancanza di coesione, evitiamo la
ricerca e l’innovazione per rifugiarci nella sicurezza routinaria che non è
utile a nessuno se non a tranquillizzare noi stessi. È bene riflettere su
questi aspetti, che, credetemi, accadono molto più di quanto immaginate.
La sintomatologia
Il soggetto colpito presenta caratteristiche somatiche tali da permetterne
l’immediata individuazione da parte non solo di specialisti, ma anche di
profani che abbiano avuto l’occasione di osservarne uno.
Alle caratteristiche somatiche si associa l’insufficienza mentale, costante,
anche se più o meno grave. Il quoziente intellettivo medio oscilla fra 0,30-
0,50, ma si possono avere anche dei casi con sviluppo intellettivo migliore.
Il viso del down presenta le caratteristiche seguenti: forma rotondeggiante
e paffuta; cranio microbrachicefalo, quasi sferoide, con base appiattita;
fronte arrotondata; naso piccolo con radice appiattita e narici allargate;
occhi del tutto tipici della sindrome, con rima palpebrale sottile od obliqua
verso l’alto e l’esterno, con epicanto completo nel lato mediale; spesso
ipertelorismo, iride con macchie biancastre; zigomi alti, a volte arrossati;
bocca piccola con labbra di aspetto carnoso ma molli ed ipotoniche, con
cicatrici, ragadi, e fissurazioni per processi infiammatori frequentissimi;
lingua voluminosa, spesso portuosa, palato ogivale; gengive arrossate a
volte ipertrofiche ed infiammate; dentizione ritardata ed irregolare, denti
fragili e cariati; orecchie impiantate di solito normalmente, a volte più
basso con padiglione molto semplice, male orlato, con conca di forma
irregolare; nuca larga e piatta con tessuto cutaneo e sottocutaneo così
largo da ricordare il collo del gatto7.
Il corpo del down è tozzo e goffo: il tronco è normale, ma la pelle è
flaccida ed arida, l’addome è voluminoso, ipotonico con diastasi dei
mucosi retti e frequente ernia ombelicale. Gli arti sono corti, tozzi con
acromicria e modesto ritardo dell’ossificazione. La mano, come abbiamo
già detto, è piccola, larga, tozza, carnosa e rugosa; in particolare sono
poco sviluppati e corti i metacarpi e le falangi. Le dita sono abdotte
all’indice, il 5° dito presenta una clinodattilia. Le pliche cutanee sono
caratteristiche: quasi costantemente si osserva la piega palmare traversa,
denominata anche linea delle quattro dita o scimmiesca, che suddivide il
palmo della mano in 2 zone, una prossimale e una distale. Il 5° dito ha
quasi in tutti i casi una sola flessoria.
Le malformazioni cardiache si riscontrano in circa il 40% dei down nati vivi
e sono responsabili della loro elevata mortalità nel 10° anno di vita 8. Si
tratta nella maggior parte dei casi di anomalie delle valvole mitrale e
tricuspide; di comunicazione interventricolare; di persistenza del dotto
arteriosi, ecc. Più rare sono le malformazioni a carico di altri organi od
apparati: atresie intestinali, soprattutto del duodeno; ernie diaframmatiche;
malformazioni dell’apparato urogenitale; labbro leporino, ecc.
Lo scheletro presenta alcune alterazioni tipiche della sindrome di Down. Il
ritardo della ossificazione e dell’accrescimento è evidente anche a carico
del cranio e delle ossa facciali che restano ipoplastiche; ritardata e
diminuita è la pneumatizzazione dei seni paranasali. A carico del bacino
esiste una notevole diminuzione dell’angolo acetabolare e dell’angolo
iliaco. Tali alterazioni sono già presenti nella età neonatale e talvolta sono
7 Contardi A., S. Vicari (a cura di), Le persone down. Aspetti neuropsicologici, educativi e
sociali, Angeli, Milano19952, pag. 146-152.
8 Ibidem.
importanti al fine di indirizzare la diagnosi. Sono inoltre evidenti le
alterazioni degli arti che provocano ipoevolutismo, a volte, nanismo con
acromicria.
L’ipotonia generalizzata e la lassità legamentosa conferiscono a
concorrere nel ritardo dell’apprendimento dei vari movimenti e posture,
che avviene normalmente nei primi due anni di vita.
La cute è anelastica, ruvida, secca, desquamante, a volte furfuracea,
rugosa nel bambino più grande e nell’adulto.
Le mucose sono parimenti anelastiche facilmente infiammate; tali processi
sono evidenti soprattutto a carico delle labbra, degli occhi delle gengive,
delle narici e possono dare luogo, come detto, a fissurazioni ed a ragadi.
Sono colpiti frequentemente anche i tessuti periungueali con esito
dell’ispessimento delle unghie. I capelli sono secchi e fragili.
Il down presenta una particolare suscettibilità alle infezioni, soprattutto
dell’apparato respiratorio, della cute e delle mucose. Circa il 2% dei
soggetti affetti da sindrome di Down nella loro vita si ammalano di
leucemia acuta. Turpin e Lejeune9 hanno sospettato che il cromosoma 21
possegga geni per il controllo della leucogenesi e che la loro trisomia
favorirebbe la comparsa di leucemia acuta mentre il loro difetto, quale si
ha nel cromosoma PH1, condizionerebbe a la leucemia mieloide cronica.
Lo sviluppo somatico del down è rallentato e raggiunge dimensioni inferiori
alla norma nell’età adulta; tuttavia raramente si manifesta un vero
nanismo.
Lo sviluppo sessuale è parimenti ritardato, più per il maschio che per la
femmina. Non sono riferiti casi di paternità.
Lo sviluppo psicomotorio è costantemente ritardato. L’ipotonia che è
sempre di grado notevole nel bambino della prima infanzia, aggrava e
rallenta ulteriormente le varie acquisizioni motorie che segnano lo sviluppo
9 J.Lejeune, fondatore della genetica moderna.
intellettivo dei primi anni di vita. Tuttavia il ritardo si rende più manifesto
nel bambino della seconda e terza infanzia. Esistono bambini, come già
detto, con difetti intellettivi gravi ed altri, capaci di ottenere un discreto
grado di autonomia e l’acquisizione di un lavoro manuale.
L’andatura è goffa, il linguaggio è elementare, povero, rudimentale,
avviene con ritardo e con difficoltà. La voce è in ogni caso rauca, dovuta a
ipoplasia ed imperfezioni della laringe e delle corde vocali; c’è una
anormale ristrettezza delle vie aeree superiori con ipertrofia delle adenoidi.
Nel maschio adulto, per ipogenitalismo si può conservare il timbro
eunucoide. Il carattere è docile e gaio sebbene possano manifestarsi
improvvise crisi di collera. Per la frequente presenza di una grave
cardiopatia congenita, per la marcata suscettibilità alle infezioni e per gli
scarsi poteri di difesa, un gran numero di down decede entro i primi 5 anni
di vita; altri per leucemia e solo il 20% raggiunge l’età adulta, oggi circa
50-60 anni.
Negli ultimi anni l’impiego di antibiotici e di chemioterapici per combattere
le complicazioni infettive, che frequentemente colpiscono i down, di
polivitaminici e di ricostituenti, ha notevolmente migliorato le prognosi della
sindrome di Down.
Mettendo a frutto le buone capacità di imitazione del soggetto down si può
realizzare il trattamento rieducativo, che si basa esclusivamente nello
sviluppare le attitudini psicomotorie del soggetto.
Sfruttando le doti tipiche del down, quali la docilità, la compiacenza,
l’affettuosità, si potranno ottenere risultati buoni anche nell’apprendimento
scolastico. È necessario tener conto del grado di autostima e del “livello di
aspirazione” della persona, difatti la consapevolezza dei propri limiti, gli
insuccessi, possono condurlo ad una scarsa curiosità e ad aver una
minore stima di se stesso. Non è sufficiente dare una definizione del
ritardo mentale senza tener conto dell’ambiente socioculturale in cui il
soggetto vive e del conseguente comportamento adattivo. Ma ora certi
preconcetti sono in parte stati smantellati e il problema del bambino Down
è stato posto in termini diversi tali da lasciare spazio al lavoro dei genitori,
degli specialisti e degli educatori in genere. Le aspettative si sono
concretizzate nella continua scoperta e nella verifica delle potenzialità del
bambino che hanno “sconvolto” la vecchia concezione del soggetto
“mongoloide” intellettivamente irrecuperabile e socialmente inutile.
Le stimolazioni possono favorire una migliore utilizzazione delle capacità
cognite residue essendo stato dimostrato uno scarto con la loro reale
utilizzazione. I fattori ambientali vengono visti in una luce diversa, nel
senso che possono ripercuotersi sul piano biologico determinando una
variazione sinaptica10.
Il quadro clinico
Scientificamente, la malattia è denominata “Sindrome di Down” ma a volte
viene chiamata anche “Trisomia 21” o “Idiozia Mongoloide”, (tuttavia,
questo termine non è quasi più in uso). È così chiamata perchè il volto dei
soggetti affetti da questa malattia somiglia grossolanamente a quello dei
Mongoli. Il termine idiozia, invece, vuole esprimere un’intelligenza ad uno
stadio di sviluppo inferiore a quello della media dei soggetti sani. Questo
perchè si ha un ritardo o un arresto dello sviluppo celebrare in toto, che, a
sua volta, dipende da un errore cromosomico.
10 Vedi G. Mastrangelo, "Manuale di neuropsichiatria dell'età evolutiva", Il Pensiero Scientifico,
Roma 1995.
Alcune anomalie umane sono dovute ad anomalie del corredo
cromosomico trasmesso al figlio dai genitori al momento dell’unione della
cellula uovo e dello spermatozoo; il mongolismo è un’anomalia degli
autosomi ed esattamente si verifica per la presenza tra loro di un
cosiddetto “extracromosoma 21”.
In pratica, tra i quarantasei cromosomi della cellula, dei quali, ventitrè
provengono dal padre, ventitrè provengono dalla madre, invece che aversi
due cromosomi 21 (uno proveniente dal padre, uno dalla madre) se ne
hanno tre. Questo errore si verifica probabilmente in uno dei momenti di
divisione cellulare detto “meiosi”, ed è inoltre il motivo per cui il
mongolismo è stato chiamato anche trisomia 21. Precisiamo che a volte
non si notano tre cromosomi 21, ma due, però si nota la presenza di
materiale del cromosoma 21 su altri cromosomi. In questo caso si parla di
“traslocazione”; la distinzione tra questi due tipi di mongolismo è
importante perchè, nel primo caso (più frequente) le manifestazioni
cliniche sono più gravi, però la probabilità di mettere al mondo un secondo
figlio anch’egli mongoloide sono le stesse di quelle che ha un’altra coppia
qualsiasi della stessa età.
Invece, se si tratta di traslocazione, le manifestazioni sintomatologiche
sono meno gravi ma, poiché il difetto è trasmesso dal corredo
cromosomico di uno dei due genitori, se si avrà un secondo figlio le
probabilità che sia anch’egli mongoloide sono molto più alte11.
Il mongolismo non è una malattia rara: secondo alcuni autori se ne verifica
un caso ogni settecento nascite. Spesso la madre è in età avanzata,
superiore ai quaranta anni, ma può essere molto giovane; in questo caso
si tratterebbe di una portatrice.
Non è stata notata una preponderanza di pazienti di un sesso su quelli
11 Rett A., Trisomia 21: aspetti biologici del bambino Down, in Vincenzo A. Piccione (a cura di),
Difficoltà di apprendimento e analisi delle minorazioni, Armando, Roma 1997, pp. 127-136.
dell’altro sesso per quanto riguarda questa sindrome.
La durata di vita può essere la più varia e si può prevedere che la
sopravvivenza media di un paziente ben curato, che non presenti alcun
difetto cardiaco congenito, possa raggiungere quella normale.
L’iride è fissurata, la mascella piccola, il palato stretto e ciò rende la cavità
orale inadeguata a contenere la lingua che frequentemente tende a
protendere dalla bocca (macroglossia).
Il 50% circa dei pazienti con tale anomalia mostrano malformazioni
cardiache congenite. Sono proprio tali malformazioni congenite
responsabili di gran parte della mortalità precoce di questi bambini.
I tratti sindromici del linguaggio
I bambini Down, all’inizio della scolarizzazione, presentano un ritardo più o
meno grave a seconda dei casi, nell’acquisizione del linguaggio
espressivo. Per esempio, hanno difficoltà nell’articolazione delle parole,
oppure possiedono un vocabolario linguistico ridotto rispetto a quello dei
loro coetanei, oppure si esprimono usando parole singole al posto di intere
frasi. Tutto ciò spesso fa supporre erroneamente all’insegnante ed ai
compagni che a una ridotta capacità di esprimersi corrisponda una eguale
ridotta capacità di comprensione.
La capacità di comprensione dei bambini Down è sempre più sviluppata
della capacità di verbalizzazione. Essendo presenti queste difficoltà di
espressione verbale è probabile che il bambino ricorra a volte ad altre
modalità di comunicazione, la mimica facciale, il gesto, il contatto fisico, il
movimento, rumori ed espressioni sonore più o meno significative, ecc.;
sono questi gli strumenti che il bambino può utilizzare per comunicare a
modo suo con i coetanei e l’insegnante.
L’accettazione, la comprensione e la risposta che si devono fornire anche
a questo tipo di comunicazione dovranno incoraggiare il bambino ad un
ulteriore sviluppo delle capacità espressive più comunemente usate e
quindi ad un miglior inserimento nel gruppo classe. Teniamo conto quindi
che il linguaggio è innanzitutto “motivazione alla comunicazione” e non
“capacità articolatorie” ed il miglior aiuto che si può fornire nell’ambito
scolastico consiste nell’invitare la classe a rivolgersi al compagno con
naturalezza, come farebbe un qualsiasi altro bambino, incoraggiandolo
però a spiegarsi e a parlare meglio, quando non riesce a farsi capire in
tutti i momenti della complessa o banale verbalizzazione.
Per esempio, nel caso in cui il bambino Down richieda la merenda soltanto
indicandola, l’insegnante potrà rispondergli: “vuoi la merenda? Si, ecco
questa è la merenda!”. In seguito, invece, si potrà occasionalmente far
finta di non aver capito chiedendo: “cos’è che vuoi? Ah, si, la tua
merenda!”. In questo modo si può cominciare ad esplorare la capacità
espressiva del bambino senza sottoporlo a frustrazioni o richieste alle
quali ancora non è in grado di rispondere. Un altro importante
accorgimento è quello di usare sempre la stessa parola nelle stesse
situazioni: per esempio, che la “merenda” sia sempre chiamata “merenda”
(se si decide di chiamarla così) piuttosto che “merendina” o “pizza”. Questi
semplici accorgimenti non faranno miracolosamente sparire la difficoltà di
linguaggio del bambino Down, ma lo aiuteranno molto nel contesto
scolastico. Per un discorso più specifico riguardante tali difficoltà il
bambino potrà invece essere seguito da una logopedista e sarà di
fondamentale importanza avviare una collaborazione reciproca tra gli
insegnanti e il terapista per una comune programmazione pedagogica,
terapeutica e didattica.
Nella comunicazione possiamo distinguere:
1. Un periodo prelinguistico: durante il quale non esiste un linguaggio
vero e proprio, ma il sistema di comunicazione tra mamma e
bambino è dato da un gioco di sguardi, il bimbo apprende ad
impossessarsi dello sguardo della madre, è una forma di scambio
reciproco. Egli risponde alle stimolazioni dei genitori attraverso un
linguaggio non verbale (pianti, sorrisi, gesti). A struttura di
conversazione con reciprocità entra in gioco verso la fine del primo
anno nel bambino normale, e verso la fine del secondo anno in
quello con Trisomia 21. Il bambino Down è spesso molto calmo e
poco reattivo, non si integra in un vero circuito di comunicazione,
non prima dei cinque o sei mesi. Il sorriso sociale è notevolmente
ritardato nel bambino trisomico, è a questo livello che i ritardi sono
più significativi, poichè richiedono parecchi mesi per comparire.
Quest’ultimo quindi, ride più tardi e sorride meno del bambino con
sviluppo normale. Questo ritardo sul piano della quantità dei sorrisi,
influenzano in maniera negativa la relazione che sta insorgendo
genitori- bambino. I contatti-oculari mamma-bambino nel corso dei
primi sei mesi, sono elementi importanti per lo sviluppo di un primo
sistema di comunicazione. La formazione di questo contatto tra il
bambino trisomico e la mamma, si stabilisce verso 7 o 8 settimane.
Se il bambino Down da quando è molto piccolo, passa meno tempo
ad esplorare l’ambiente extra-materno, è comprensibile che questo
difetto di conoscenza si traduca in conseguenze nei vari aspetti
dello sviluppo. Questi problemi implicano deficit che coinvolgono
componenti psicologiche.
2. Un primo periodo d’articolazione del linguaggio: lo sviluppo del
vocabolario e lo sviluppo fonologico sono lenti nei bambini con
Trisomia 21. La produzione di una parola come la comprensione,
implica delle capacità che sono lungi dall’essere banali. La fase più
rapida dello sviluppo lessicale comincia dopo i 2 anni per i bambini
normali, invece nel bambino trisomico questa fase si estende fino a
4 o 5 anni. La loro parola rimane meno intelligibile dei bambini
normali a causa dei problemi articolatori dovuti ad un insieme di
cause quali:
- ipotonia dei muscoli degli organi dell’articolazione
- deficit uditivo
- ritardo nella maturazione neuromotoria.
3. Un periodo ulteriore di sviluppo: verso i 5-6 anni le espressioni
prodotte dai bambini con Trisomia 21 cominciano a incorporare
alcune preposizioni e articoli. L’allungamento graduale degli
enunciati prosegue verso gli anni dell’adolescenza, comunque resta
il fatto che il linguaggio resta povero sul piano grammaticale, però
questo non significa che le cose dette, i significati pensati e
trasmessi siano banali o privi d’interesse. Si deve tenere presente
che i soggetti con Sindrome Down fanno un largo uso della
situazione e del contesto extra-linguistico. La loro produzione di
linguaggio resta comunque in ritardo rispetto alle altre attività
cognitive. Secondo alcuni ricercatori l’aspetto sintattico è
maggiormente danneggiato rispetto a quello della ricchezza del
numero di vocaboli. La capacità di comprensione del linguaggio
supera di molto quelle di produzione.
Ci sono tre effetti in cui è evidente l’impatto della comprensibilità verbale
sull’apprendimento del linguaggio e sulla comunicazione12:
1. le carenze di comprensibilità verbale interferiscono con la
comprensione del messaggio; ciò può portare il Down a ridurre i
tentativi nel parlare, limitando produzione e apprendimento
linguistico.
12 A.I.P.D., La Persona Down verso il 2000 Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 1997.
2. Un secondo effetto dell’incomprensibilità verbale è una
frustrazione dalla mancanza di comprensibilità del messaggio.
Questa frustrazione deve essere affrontata subito in quanto può
comportare problemi comportamentali; al fine di migliorare
l’efficacia della comunicazione, è utile introdurre la
comunicazione gestuale per arricchire il discorso e non come
una seconda lingua.
3. Il terzo effetto è sulla complessità del messaggio tentato. I
bambini sceglieranno di produrre messaggi brevi e
comprensibili.
I tratti sindromici e lo sviluppo psico-motorio
Il bambino mongoloide nel primo anno di vita si presenta poco reattivo agli
stimoli esterni e le tappe del suo sviluppo psichico e motorio sono dunque
più lente. Infatti, di solito è tardiva l’acquisizione del controllo del capo,
della posizione seduta, della deambulazione che si conquista dopo i tre
anni. Il suo quoziente di intelligenza è sempre deficitario e raramente
arriva ai limiti inferiori della normodotazione, ma gli consente di imparare
dall’ambiente circostante un linguaggio essenziale e tutto quello che è
necessario per una certa autosufficienza.
Fino a pochi decenni fa, questi bimbi morivano per infezioni intercorrenti,
soprattutto a carico dell’apparato respiratorio (broncopolmoniti, ecc.); oggi
questa patologia è invece ben controllata grazie anche all’insieme delle
strategie di prevenzione e cura, per cui sempre più frequentemente essi
arrivano ed oltrepassano l’età adulta, vivendo la loro vita senz’altro in
maniera infantile, ma tanto più felicemente quanto più si sarà saputo
creare intorno a loro un’atmosfera di serenità e accettazione.
Con ritardo compaiono i segni di sviluppo del bambino normodotato: il
primo sorriso, la posizione eretta, la deambulazione (quasi sempre verso i
due anni), l’interesse verso l’ambiente.
Le prime parole possono comparire a tre anni e le prime frasi a cinque
anni e mezzo. Il linguaggio è limitato ed impastato e, se non rieducato, il
livello espressivo sarebbe pari a quello di due anni.
Il bambino affetto da sindrome di Down sa imitare qualunque gesto e
qualunque motivo musicale; ama ripetere ciò che vede fare ai coetanei e
agli adulti. Trova piacere nel fare l’attore mentre gli altri lo guardano
compiaciuti. Ricorda con facilità luoghi dove è stato ed oggetti, anche
dopo lungo tempo, impara ritmi e canzoncine con gran facilità, il livello
psicomotorio è basso per impaccio motorio generalizzato, soprattutto
evidenziabile nell’uso delle mani.
Lo schema corporeo è povero e col passare del tempo non si arricchisce
molto. Ciò vale anche per l’orientamento spaziale che riflette tutta una
situazione psico-intellettiva deficitaria. Le reazioni sono lente, perchè la
soglia percettiva è meno elevata del normale.
I soggetti Down soffrono di avitaminosi e presentano disturbi nella
regolazione della glicemia. L’avitaminosi si manifesta costantemente in
tutti i bambini trisomici. Tra le conseguenze più evidenti c’è la patologia
della pelle, che si presenta secca e screpolata. A causa del disturbo nella
regolazione della glicemia, il soggetto Down può trovarsi in uno stato di
ipoglicemia o di iperglicemia. Nel caso dell’ipoglicemia il bambino avverte
un senso di fame, vertigini, nausea. Il comportamento è alterato: labilità
attentiva, instabilità o sonnolenza, perdita di controllo. Al momento del
pasto successivo ad una crisi ipoglicemica, dopo un inizio di pasto talvolta
difficoltoso, l’assunzione di cibo non è oppure è mal controllata dal
bambino. Perciò dopo il pasto, che spesso è eccessivo, si scatena una
crisi ipoglicemica, con le ben note conseguenze: immagazzinamento di
zuccheri sotto forma di grassi, disturbi digestivi, sonnolenza o instabilità a
seconda degli individui. Il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie,
l’uso degli antibiotici ed i progressi della cardiochirurgia infantile, hanno
permesso, per gli individui Down, un’aspettativa di vita attuale di 55 anni
circa. La socializzazione non presente difficoltà in quanto generalmente è
docile e molto affettuoso.
Scolasticamente è un buon bambino. Seguito dall’insegnante, il soggetto
Down può imparare a leggere e a scrivere, a fare le operazioni
aritmetiche, a servirsi dei mezzi espressivi, soprattutto di quelli musicali.
Può acquisire un’ampia autonomia sociale ed essere avviato ad attività di
lavoro non eccezionalmente faticose, nelle quali dà prova di volontà e
capacità.
Il trattamento educativo-riabilitativo pur non essendo presente nell’indice
mi sembrava ovvio inserirlo nel contesto del lavoro.
In questo ambito vanno comprese sia le impostazioni educative di base,
sia le attività specifiche per stimolare le funzioni cognitive compromesse.
L’impostazione educativa comprende quell’insieme di atteggiamenti e di
comportamenti che tendono a stabilire una relazione significativa
attraversa la quale influire sulla maturazione psicologica del bambino e
sullo sviluppo delle capacità di adattamento all’ambiente. L’atteggiamento
di fondo deve essere improntato sull’accettazione e sulla disponibilità, in
modo che il bambino senta continuamente la possibilità di ricevere un
aiuto e di trovare comprensione e sicurezza. Ciò non significa che si
debba essere in ogni occasione protettivi e, peggio ancora, permissivi, in
quanto un simile atteggiamento tenderebbe ad infantilizzare il bambino,
impedendone la crescita e l’adattamento alla realtà. È opportuno pertanto
che, accanto al sostegno e allo stimolo, si adottino al momento giusto
atteggiamenti di fermezza onde evitare comportamenti ricattatori o di
aperta provocazione.
Bisogna tener presente che molti bambini Down hanno già acquisito,
nell’ambito della famiglia, abitudini verso le quali bisogna orientare gli
interventi educativi con la prospettiva di modificare, in tempi lunghi, quelli
che non facilitano il processo di crescita o che disturbano le relazioni con
gli altri. Il piano di intervento educativo va quindi programmato, quando è
possibile, con la collaborazione della famiglia, in relazione alle
caratteristiche del bambino e ai problemi che egli presenta: ansia
eccessiva, marcata dipendenza, instabilità psicomotoria, negativismo,
aggressività, reazioni di panico ecc.
Ognuno degli aspetti comportamentali prima elencati deve essere
approfondito nella sua dinamica ed affrontato con pazienza, costanza e
soprattutto coerenza.
Condizione indispensabile per l’attuazione di un qualsiasi programma
educativo è quindi la necessità di stabilire preliminarmente con il bambino
con problemi una relazione affettiva che sia valida sotto tutti i punti di vista
(emotivo, gestuale, verbale, fisico, ecc.).
Sul versante dell’abilitazione molto è stato detto ed ampiamente provato
dal prof. Bollea13, autorevole studioso delle problematiche presenti nelle
varie tappe evolutive del bambino Down. Questi insiste soprattutto sulla
necessità di rispettare i tempi del suo sviluppo e le caratteristiche della
sua famiglia, proponendo un intervento educativo in cui il bambino sia
sempre parte attiva.
Il trattamento abilitativo, che deve essere unitario ed intimamente inserito
nel contesto relazionale del bambino, comprende: l’educazione
sensopercettiva, l’educazione psicomotoria, l’educazione del linguaggio,
l’educazione spazio-temporale, l’avviamento alla scrittura e alla lettura.
La prima fase del processo di apprendimento si rivolge all’educazione
sensopercettiva. Sono infatti i sensi che raccolgono tutte le segnalazioni e
le informazioni che provengono dal mondo esterno. Sviluppare la
percezione è quindi una condizione fondamentale per l’acquisizione della
13 Rett A., Trisomia 21: aspetti biologici del bambino Down, in Vincenzo A. Piccione (a cura di),
Difficoltà di apprendimento e analisi delle minorazioni, Armando, Roma 1997.
conoscenza degli aspetti fisici dell’ambiente e per la formazione di
rappresentazioni mentali precise.
L’insufficiente mentale ha notevole difficoltà a costruire da solo i dati
precisi della realtà, mediante un solo sistema di ricezione; egli ha infatti
bisogno di numerose e intense stimolazioni sensoriali associate a
esperienze manipolative. Parallelamente all’educazione sensopercettiva,
dev’essere sviluppata l’educazione psicomotoria, in quanto, anche la
psicomotricità è strettamente funzionale all’intelligenza. Attraverso di essa,
il soggetto acquista la nozione di spazio, prende contatto con l’ambiente e
con gli oggetti, costruisce la sua realtà e ampia le sue conoscenze. Il
rapporto tra linguaggio ed insufficienza sensopercettiva e psicomotoria è
molto stretto.
Come le insufficienze sensoriali e motorie si ripercuotono sul linguaggio,
così un linguaggio che non può costruirsi o strutturarsi impedirà certe
differenziazioni della percezione e dell’azione. Il linguaggio, inoltre, è base
indispensabile alla costruzione del pensiero. L’educazione del linguaggio,
per tale motivo, comporta un impegno e una competenza tecnica,
nell’ambito di un programma comprendente semplici esercizi di stimolo
generale verso ogni forma di comunicazione (gestuale, mimica, verbale)
ed esercizi più specifici, tendenti non solo ad arricchire il vocabolario, ma
anche a sviluppare le capacità fonetiche per correggere i disturbi di
articolazione.
L’educazione spazio-temporale, che già si realizza in parte nel contesto
degli esercizi sensopercettivi e psicomotori, viene più specificamente
attuata con una successione di esperienze, che passano attraverso la
conoscenza del corpo e della posizione che esso assume nello spazio.
L’educazione temporale deve integrare quella spaziale, in quanto ogni
attività si svolge in una spazio e in una successione temporale. Soltanto
l’esperienza o un’azione internamente vissuta possono dare al bambino la
conoscenza di “prima, adesso, dopo”.
Alla nozione di tempo è legata quella di durata, che va continuamente
sottolineata.
L’avviamento alla scrittura e alla lettura comprende una serie di attività
pre-grafiche che vanno dallo scarabocchio, alla riproduzione di cerchi,
quadrati, triangoli all’uso del colore rispettando le forme tracciate, alla
rappresentazione di oggetti e di figure, alla capacità di esprimersi
attraverso il disegno. I bambini Down hanno iniziative e desiderio di attività
pratiche, amano molto più il lavoro che il gioco, e dal punto di vista
cognitivo è opportuno metterli in condizione di seguire procedimenti
induttivi oltre i quali non è facile guidarli.
Cap. 3. L’autismo
I primi studi finalizzati a definire i portatori di questa sindrome furono
condotti quasi contemporaneamente da Leo Kanner14 e da Frederick
Asperger15.
I due studiosi arrivarono alle medesime conclusioni: i bambini affetti da
autismo hanno un’innata incapacità di formare un tipico contatto affettivo
biologicamente determinato con le persone; “handicap” che persisteva
anche nell’età adulta.
Kanner e Asperger notarono alcune stereotipie di movimento e del
linguaggio, e una mancata resistenza al cambiamento; evidenziarono
14 Sono passati più di 50 anni da quando uno psichiatra della Johns Hopkins University, il dott.
Leo Kanner, scrisse il primo articolo applicando il termine autismo a un gruppo di bambini che
erano chiusi in se stessi e che avevano severi problemi di socializzazione, di comunicazione e
comportamentali. Questa lezione vuole fornire una panoramica generale della complessità di
questa disabilità dello sviluppo, dando un sommario di gran parte dei principali aspetti
dell'autismo.15 Il lavoro di ricerca dello psichiatra e pediatra austriaco non fu riconosciuto fino agli anni
novanta.
come questi bambini però fossero in grado di attivare prestazioni di
capacità intellettuali in aree ristrette.
Le conclusioni alle quali i due studiosi giunsero presentano tre aree di
disaccordo, afferenti sostanzialmente alle abilità linguistiche, motorie e di
apprendimento.
Leo Kanner osservò che il linguaggio dei bambini presi in esame non
veniva utilizzato per comunicare, tanto da fargli pensare ad un problema di
sordità. Asperger, invece, rilevò che l’eloquio dei bambini da lui presi in
esame era scorrevole.
In riferimento alle abilità motorie Kanner registrò alcune difficoltà: i soggetti
erano impacciati solo nelle abilità grosse, Asperger invece, sottolineò che
tali difficoltà erano presenti anche nella motricità fine.
In riferimento all’area dell’apprendimento, Asperger descriveva gli autistici
come “pensatori astratti”, mentre Kanner li riteneva capaci di prestazioni
più elevate qualora fosse data loro la possibilità di apprendere in maniera
meccanica.
Da allora ad oggi gli studi in materia ci permettono di definire l’autismo
come un grave e permanente disturbo fisico del cervello che causa
un’incapacità di sviluppo perdurante per tutta la vita. Si ipotizza un
substrato biologico al disturbo autistico, con particolare profilo
neuropsicologico caratterizzato da specifici deficit affettivi,
comportamentali e cognitivi.
Molti neonati autistici sono "diversi, "strani" fin dalla nascita. Due
caratteristiche comuni che si possono ritrovare in questi neonati sono
l’incurvare la schiena per allontanarsi dalla persona che li accudisce in
modo da evitare il contatto fisico ed il non riuscire ad anticipare il fatto di
essere presi in braccio (restano cioè passivi, col corpo abbandonato). Nei
primi mesi di vita sono spesso descritti come bambini passivi o
estremamente agitati.
Ci si riferisce ad un bambino come passivo quando è tranquillo per la
maggior parte del tempo e richiede poca o nessuna attenzione da parte
dei genitori. Per estremamente agitato si intende invece un
neonato/infante che durante le ore di veglia piange molto, a volte
ininterrottamente.
Durante l'infanzia, molti di questi bambini iniziano a dondolarsi e a
picchiare la testa contro la culla, anche se ciò non sempre avviene. Nei
primi anni di vita, alcuni bambini autistici raggiungono tappe dello sviluppo
(quali parlare, gattonare e camminare) molto in anticipo rispetto alla
media; in altri casi le stesse tappe vengono raggiunte invece con notevole
ritardo. Approssimativamente, un terzo dei bambini autistici si sviluppa in
modo normale fino ad una età compresa tra un anno e mezzo e tre anni,
dopodiché i sintomi autistici cominciano ad emergere. Il comportamento di
questi soggetti, per riassumere, da un punto di vista sintomatologico,
presenta sostanzialmente sei manifestazioni prevalenti: una forte
incapacità di sviluppare una normale socializzazione, disturbi del
linguaggio (ecolalia) e della comunicazione, difficoltà nelle relazioni con
persone, oggetti e avvenimenti e nelle risposte alle stimolazioni sensoriali,
nei ritardi e nelle particolarità dello sviluppo e nelle presenze di stereotipie.
Durante l'infanzia, dunque i bambini autistici possono restare indietro
rispetto ai loro coetanei nelle aree della comunicazione, della
socializzazione e della percezione. Inoltre, possono cominciare a
manifestarsi comportamenti disfunzionali quali comportamenti
autostimolatori (ad esempio, comportamenti ripetitivi e non finalizzati,
come dondolarsi, agitare le mani), comportamenti autolesionistici (es.,
mordersi le mani, picchiare la testa), problemi del sonno e
dell'alimentazione, scarso contatto di sguardo, insensibilità al dolore,
iper-/ipo-attività e deficit dell'attenzione. Una caratteristica abbastanza
comune nell’autismo è il comportamento insistentemente ripetitivo o
insistentemente perseverante dell'individuo. Molti bambini diventano
estremamente insistenti sulle routine; se una routine viene cambiata,
anche di poco, il bambino può essere sconvolto e collerico. Alcuni esempi
comuni sono: mangiare e/o bere lo stesso cibo ad ogni pasto, vestire certi
abiti o insistere che altri vestano sempre gli stessi abiti, andare a scuola
usando sempre la stessa strada. Una possibile ragione per l’insistenza
sulla ripetitività nell’autismo potrebbe essere l’incapacità di comprendere e
di confrontarsi con nuove situazioni.
Individui autistici hanno alle volte difficoltà col passaggio alla pubertà.
Approssimativamente il 20% ha convulsioni per la prima volta durante la
pubertà, dovute probabilmente a variazioni ormonali. Molti problemi
comportamentali inoltre possono diventare più frequenti e più severi
durante questo periodo. D’altra parte invece, altri passano attraverso la
pubertà con relativa facilità. A differenza di quanto succedeva 20 anni fa,
quando molti individui autistici venivano istituzionalizzati, ci sono oggi
molte e diverse possibilità di sistemazione, flessibili a seconda dei casi.
In età adulta, alcuni vivono con i genitori, altri in case di residenza, altri
vivono in modo semi-indipendente, altri ancora vivono in maniera del tutto
indipendente.
Ci sono individui che riescono a frequentare l’università e a laurearsi e
alcuni che sviluppano relazioni adulte e possono sposarsi. Nell’ambiente
lavorativo, molti adulti autistici possono essere lavoratori affidabili e
coscienziosi. Sfortunatamente però possono avere difficoltà nel trovare
lavoro in quanto, essendo molti di loro socialmente impacciati e potendo
apparire eccentrici o differenti, hanno sovente difficoltà con i colloqui di
assunzione, con i pregiudizi diffusi fra la gente comune.
Nonostante non sia nota una causa unica dell’autismo, c'è crescente
evidenza che questo possa essere causato da una varietà di problemi. Ci
sono per esempio indicazioni di un'influenza genetica.
Ad esempio, due gemelli monozigoti (cioè gemelli identici) hanno
maggiore probabilità di essere autistici rispetto a due gemelli dizigoti (cioè
fratelli gemelli). Nel caso di gemelli monozigoti, c'è una sovrapposizione
del 100% dei geni, mentre nei gemelli dizigoti, c'è una sovrapposizione
genetica del 50%, la stessa che c'è nei fratelli non gemelli.
L’autismo è riconosciuto come una sindrome comportamentale causata da
un disordine dello sviluppo biologicamente determinato, il cui esordio è
fatto risalire nei primi 3 anni di vita. Dalla prima definizione elaborata da
Kanner sul concetto di autismo; numerose sono state le modifiche che lo
hanno interessato, come il passaggio da un’unica Sindrome, ad uno
Spettro di disturbi indicante manifestazioni di sintomi molto diversi. Le
aree prevalentemente interessate sono quelle relative all’interazione
sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti e alla capacità
di stabilire relazioni con gli altri16. Tale disturbo viene incluso in una
classificazione diagnostica, come entità separata ed indipendente solo nel
1980, con la pubblicazione del DSM-III (APA,1980); mentre nel DSM- IV
viene inserito fra i Disturbi Generalizzati dello Sviluppo (DGS). Questi
sono definiti dagli americani come Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (PDD,
Pervasive Developmental Disorder). Mentre a livello internazionale si
preferisce parlare di Disturbi Dello Spettro Autistico.
Parlare di Spettro Autistico significa non far riferimento a categorie
diagnostiche separate ma ad un continuum costituito da un nucleo
centrale rappresentato dall’Autismo Nucleare di Kanner; intorno al quale
16 SINPIA, Società Italiana di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza “Linee guida per
l’autismo” Erickson 2005.
sono presenti tante altre diagnosi che vanno ad incontrarsi con il Ritardo
Mentale.
Attualmente i criteri comportamentali per la diagnosi, e le classificazioni
maggiormente utilizzate dagli esperti sono: quello americana del DSM IV,
quella dell’ICD-10, curata dall’O.M.S. e quella francese CFTMEA
sviluppata dal Centre A. Binet.
Ripercorrendo la storia dell’inserimento del concetto di Autismo fra i DGS
è da notare che ad inizio secolo la diagnosi della psicopatologia che
interessava bambini, adolescenti ed adulti, avveniva utilizzando schemi
basati su una categorizzazione essenzialmente tripartita che
comprendeva schizofrenia, malattia affettiva e nevrosi. Il primo
inquadramento diagnostico dei disturbi psicotici può essere attribuito a
Kraepelin che aveva ricondotto tutti i casi dei psicosi infantile al gruppo di
demenza precoce. Sotto l’influenza teorizzata da Kraepelin
l’inquadramento in un unico gruppo diagnostico della psicosi infantile
come forma di schizofrenia si è mantenuto per un lungo periodo. Nel 1952
uscì la prima pubblicazione del DSM-I, dove il termine ufficiale per
connotare il disturbo mentale fu “reazione”, a riprova dell’influenza
dell’approccio psicobiologico e psicoanalitico17, bisognerà attendere il
1980 per vedere inserito nel DSM III l’autismo come entità clinicamente
distinta. Dalla prima classificazione, si è giunti ormai nel 2002 alla quarta
edizione revisionata del DSM (DSM IV-TR18), e oggi ad una quinta, curata
dall’American Psychiatric Association, dove le psicosi infantili sono inserite
fra i Disturbi generalizzati dello sviluppo. Negli anni si sono sviluppati
differenti orientamenti sull’autismo, fra questi, quelli maggiormente
accreditati sono:
17 ROAZEN P. - trad.it. Ascesa e caduta di Bruno Bettelheim. Psicoterapia e scienze umane.
1997, xxx, 3:13-43.18 American Psychiatric Association DSM -IV-TR Manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali Milano Masson 2002.
la teoria psicodinamicaIl problema posto dalla psicoterapia delle psicosi infantili ha suscitato
l'interesse degli autori psicoanalitici, ben prima della descrizione, da parte
di Kanner dell'autismo infantile. Già nel 1930, infatti M. Klein scriveva che
uno dei compiti principali dell'analisi infantile doveva essere anche quello
di studiare e curare le psicosi dell'infanzia (Klein, 1968). La Mahler19,
partendo dalle sua distinzione tra psicosi autistiche primarie e psicosi
simbiotiche individua alcuni principi nella cura analitica dei bambini
psicotici. Il primo obiettivo terapeutico sarà secondo la Mahler quello di
coinvolgere il bambino in una "esperienza simbiotica correttiva" (Mahler,
1972, p. 169) che consenta al bambino, nel corso di un periodo di tempo
piuttosto lungo, di pervenire ad un livello più alto di rapporto con l'oggetto,
rivivendo anche le precedenti fasi dello sviluppo. Ciò può essere
conseguito se il bambino ripercorre le varie tappe di sviluppo (pre-
simbiotica, simbiotica e di separazione - individuazione) con il supporto di
un terapeuta che funga da Io ausiliario. Il terapeuta dovrà anche fornire al
bambino quelle funzioni dell'Io che servono a proteggerlo dalla eccessiva
stimolazione proveniente dall'esterno e, al contempo, dagli stimoli interiori
minacciosi. Il bambino psicotico si trova su uno stato di panico e angoscia
in cui emerge la paura della perdita dei confini dell’Io e l'incapacità di
contenere l'aggressività. Il terapeuta dovrà porre dei limiti al bambino,
soprattutto ai suoi impulsi aggressivi ed autodistruttivi. Per esempio,
intervenendo ed aiutandolo nell'organizzare meglio un gioco che tende ad
essere frammentario e incomprensibile. Può inoltre svolgere, con il
bambino una funzione pedagogica.
Secondo la Mahler, per il bambino autistico è più adatta la terapia
individuale, necessaria per farlo uscire dal suo isolamento. Certi interventi
pedagogici non potranno essere proficui fino a quando il bambino non 19 MAHLER M. (1968) “Le psicosi infantili” Boringhieri, Torino, 1972.
avrà cominciato a sviluppare un qualche tipo di rapporto simbiotico. Ciò
non vale per il bambino primariamente simbiotico che sarà in grado di
trarre profitto dagli interventi educativi non appena saranno scomparse le
sue tipiche reazioni di panico e sarà pronto per instaurare rapporti
diversificati che sostituiscono lo stato di fusione con la madre. Partendo
dalle profonde reazioni di panico che spesso i bambini autistici hanno di
fronte al tentativo di rompere il loro isolamento, la Mahler suggerisce di
cercare di trarre fuori dall'isolamento il bambino con l'aiuto della musica,
usando stimolazioni piacevoli dei suoi organi sensoriali, utilizzando oggetti
inanimati; non usando, quindi l'approccio diretto soprattutto quello
corporeo. La Mahler ha proposto, in particolare per le psicosi simbiotiche,
un metodo terapeutico che vede la presenza della madre accanto al
bambino e al terapeuta. Questi sono impegnati in sedute della durata di 2
o 3 ore durante le quali la madre e il terapeuta operano congiuntamente
per la riabilitazione del bambino. Il coinvolgimento della madre è una delle
differenze sostanziali tra il modello terapeutico della Mahler e quello di un
altro importante autore psicoanalitico, B. Bettelheim20. Quest'ultimo ritiene
invece opportuna la separazione del bambino dalla madre e la cura in una
istituzione appositamente predisposta. L’obiettivo della terapia è quello di
evitare che il bambino si ritiri in una posizione difensiva autistica. Deve
essere incoraggiato a rivivere con un sostituto di madre un rapporto
esclusivo simbiotico-parassitico, più gratificante, anche se regressivo.
Questo rapporto deve essere liberamente messo a disposizione del
bambino e diventare per lui una difesa nel periodo in cui deve uscire dal
circolo vizioso del suo deformato rapporto con la madre (Mahler, 1972,
p.193).
La Mahler propone pertanto un modello di terapia che, per la psicosi
simbiotica in particolare, tiene unita la diade madre-bambino e si
differenzia da quello classico dell’analisi infantile. 20 BETTHELEIM B., “Psichiatria non oppressiva”, Feltrinelli, Milano, 1976.
Negli ultimi anni, alcuni autori di scuola psicoanalitica hanno sottolineano
la necessità che la presa in carico del bambino sia precoce e preveda
accanto alla psicoterapia psicoanalitica individuale, altri interventi,
farmacologici ed educativi, che tengano conto della eterogeneità dei
quadri mostrati dai bambini autistici.
Teorie cognitivo-comportamentaliNel 1979 i cognitivisti Wing e Gould21 distinsero tre diverse tipologie di
persone affette da autismo: aloof (isolati), abbastanza simili ai pazienti
descritti da Kanner, passive (passivi) soprattutto nei confronti
dell’ambiente circostante, e odd (bizzarri), socialmente attivi, ma con
comportamenti incongruenti ed inconsueti. Da uno studio degli stessi
autori è emerso che disturbi di socializzazione, della comunicazione, e
dell’immaginazione hanno la tendenza ad apparire insieme piuttosto che
isolatamente. Essendo questa caratteristica particolarmente evidente
nell’autismo, da allora si preferisce diagnosticarlo in base a questa tre
aree sintomatiche. Tuttavia questo metodo di classificazione rischia di non
tener conto di altri aspetti peculiari del disturbo, se pure non presenti nella
totalità dei pazienti, quali le stereotipie, i comportamenti stimolatori (come
il dondolarsi) e la preoccupazione ossessiva per il mantenimento
dell’immutabilità degli ambienti o delle abitudini. Sul finire degli anni ‘80 fu
proposto un modello cognitivo basato sulla teoria della mente di Uta Frith22, che ipotizzava una disfunzione cognitiva, probabilmente causata
da un danno neurologico, che colpisce i processi centrali del pensiero,
deputati a elaborare, interpretare, confrontare ed immagazzinare le
21 WING L. & GOULD, J. Severe impairment of social interaction and associated abnormalities
in children; epidemiology and classification, Journal of Autism and Developmental Disorders,
9, 11-29. (1979).22 FRITH U. “L’autismo. Spiegazione di un enigma”, Roma - Bari 1998.
informazioni in forma coerente e dotata di senso e a dare inizio ad azioni,
portate a termine attraverso meccanismi di output. Nell’autismo, ipotizza la
studiosa, la debolezza delle forze coesive centrali di alto livello
spiegherebbero le migliori prestazioni dei bambini autistici nei test che
comportano la capacità di distaccare un’informazione rilevante dal
contesto (disegno di cubi, figure nascoste). In loro i processi di input si
attiverebbero senza la meta costituita dal bisogno di creare coerenza.
Distacco è il termine usato dalla Frith per definire tale debolezza della
coesione centrale di alto livello. Questa, secondo la studiosa, sarebbe la
spiegazione degli isolotti di capacità intatta di cui parlava Kanner (come le
eccellenti capacità mnestiche), che sono piuttosto spiegabili come segni di
una disfunzione cognitiva. Questo spiegherebbe, a suo avviso, il fatto che
la percezione dei bambini autistici rifletta un mondo frammentato, strano e
sempre imprevedibile, in cui nulla appare costante, ma tutto è motivo di
paura, ansia e apprensione.
La Teoria della mente23 (che comporta la capacità di distinguere tra stati
mentali propri e altrui, ovvero tra quanto pensano, sanno, desiderano e
provano gli altri e quanto sta nella propria mente), chiarisce, secondo
Frith, l'estrema difficoltà delle persone autistiche a mentalizzare (cioè a
interpretare eventi e comportamenti in base agli stati mentali di coloro che
ne sono i protagonisti - intenzioni, scopi, desideri, etc.), collegando
informazioni provenienti da fonti diverse (eventi, oggetti, persone e
comportamenti) in un insieme coerente dotato di significato. Il difficile
sviluppo della Teoria della mente e l'incapacità di mentalizzare sono
responsabili del disturbo comunicazionale e sociale delle persone
autistiche, che si manifesta con:
- l’assenza di interessi diretti alle interazioni reciproche e alla
condivisione di stati mentali
23 Idem.
- l’incapacità di entrare in empatia con gli stati mentali e le emozioni
altrui;
- la comprensione del linguaggio e delle relazioni sociali e affettive a un
livello che rimane letterale, in quanto osservazioni e interazioni non
sono sentite come parte di una rete di presupposti impliciti .
C’è, conclude la Frith una falla nella predisposizione della mente a dare un
senso al mondo. Ad essa si devono, secondo la studiosa, i movimenti
corporei stereotipati (o preoccupazioni di natura altamente ripetitiva),
riguardanti i movimenti delle mani (come schioccare le dita o battere le
mani) o dell'intero corpo (dondolarsi, buttarsi a terra, oscillare) e i pensieri
tipici di queste persone: Essi paiono a qualcuno interpretabili come delle
difese, che i soggetti con sindrome autistica opporrebbero al caos del
mondo esterno che essi avvertono nella vita quotidiana; altre stereotipie
avrebbero un carattere squisitamente consolatorio (dondolarsi, p. es.),
sempre in risposta alla stessa esigenza di rituali che garantiscano un
minimo di sicurezza calcolata, una sorta di cullarsi di fronte al panico
indotto in loro dall'incapacità di selezionare gli stimoli esterni e attribuire a
tutti il corretto significato. Si tratterebbe, in sostanza, di un qualche
meccanismo di difesa che controlla il livello di attivazione in situazioni di
particolare stress. Le azioni delle persone autistiche, quindi,
risponderebbero all'esigenza di una coerenza locale: esse non
acquisterebbero significato da un'unità o da un insieme più ampio di
appartenenza, ma esaurirebbero in se stesse il loro significato. La
ripetizione, in particolare, sarebbe dovuta all'incapacità dei processi
superiori del pensiero di chiudere i processi di output in maniera adeguata.
Questa teorie risale ad un iniziale ipotesi proposta da Leslie24 che si basa
sull'assunto che esista nella mente umana un modulo specializzato nel
produrre rappresentazioni di stati mentali come credere, conoscere e fare 24 http://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_della_mente
finta. L'input di questo modulo sarebbe costituito da rappresentazioni
primarie prodotte da altri moduli, che codificano stati di fatto in modo
letterale. Il suo output, l’informazione in uscita, è costituito da
rappresentazioni secondarie chiamate meta-rappresentazioni.
La meta-rappresentazione è una particolare struttura di dati che codifica
l’atteggiamento di un agente nei confronti di una proposizione. Per agente
Leslie intende una persona che di fronte a una proposizione (significato di
una frase) attribuisce un determinato significato come sperare, credere o
far finta. La mancanza di adeguate capacità comunicative negli individui
autistici deriverebbero, dall'incapacità di formulare a livello mentale delle
meta-rappresentazioni.
Le conferme sperimentali del deficit meta-rappresentativo sono state
ottenute studiando le capacità di formulare false credenze in bambini
autistici. Leslie, partì dall’ipotesi di considerare il gioco di finzione, che
compare ben presto nelle prestazioni dei bambini, come se fosse basato
su un meccanismo cognitivo che permette di immagazzinare
separatamente eventi tangibili (reali e fisici) da quelli mentali (di finzione).
Visto che nei bambini autistici il gioco di finzione appariva molto più
povero, Leslie e Frith indagarono la possibilità dell'esistenza di una reale
incapacità dei bambini con autismo di registrare gli stati mentali
separatamente da quelli fisici. Da questa ricerca è nato il test della falsa
credenza. Su queste basi molti studiosi sostengono che il deficit meta-
rappresentativo nei bambini con autismo potrebbe essere ricondotto al
funzionamento anomalo del meccanismo specializzato nell'acquisizione
della teoria della mente. Baron Cohen sulla scia degli studi di Leslie, Frith
va a descrivere quattro meccanismi che potrebbero stare alla base della
capacità umana di leggere la mente. Questi maturano nel corso dello
sviluppo del bambino e possono essere anche considerati come stadi che
si succedono temporaneamente l’uno all’altro; “Questi meccanismi
riflettono grosso modo quattro proprietà del mondo: volizione, percezione,
condivisione dell’attenzione e degli stati epistemici”25. Alla luce degli studi
di Baron Cohen sul significato mentalistico degli occhi questi conclude che
i bambini autistici sembrano “ciechi” ed ipotizza che le difficoltà sarebbero
strettamente connesse all’incapacità di sviluppare una teoria della mente.
Gli autistici appaiono, sostiene, come soggetti che non conoscono gli stati
mentali interni, sono in grado di ricordare, conoscere, imparare, ma non di
comprendere quell’attività, né di formulare opinioni su di essa. Il concetto
di bugia diventa inconcepibile, come le nozioni di illusione, credenza,
intuizioni, errori, supposizioni o inganni.
Teorie cognitivo-comportamentali
Centro d’interesse di questo approccio è l’acquisizione di abilità, per
l’autonomia, in quanto l’autismo viene considerato come una carenza o un
eccesso di comportamenti, che è possibile modificare. Meazzini26 ricorda
come il rapporto persona- ambiente sia basato su una circolarità reciproca
che, in un contesto ecologico comportamentale, troverebbe forma nel
concetto di Determinismo Circolare di tipo interazionistico, secondo la
prospettiva di un individuo-sistema a sua volta costituito da diversi
sottosistemi integrati (repertorio affettivo-motivazionale, cognitivo, e socio-
interpersonale). Il comportamento di una persona con handicap è visto
quindi come la risultante di molteplici cause come disturbi organici di
origine genetica, ambiente, stato fisico attuale e il tipo di repertori in
possesso dell’individuo derivati dalla sua teoria di apprendimento
25 BARON COHEN S. “ L'autismo e la lettura della mente” Astrolabio, Roma (1997)26 MEAZZINI P., BATTAGLIESI G. Psicologia dell’handicap, Masson (1995).
focalizzando l’attenzione sulle determinanti ambientali dei comportamenti
problematici nell’autismo, i sostenitori del modello comportamentale
ipotizzano una carenza di rinforzi per i comportamenti adattivi del bambino
ed il loro accesso per quanto riguarda invece alcuni comportamenti
autostimolatori e ripetitivi.
Teoria organicista-farmacologicaL'intervento terapeutico nei disturbi pervasivi dello sviluppo deve essere
tipicamente intensivo, prolungato ed integrato, con associazione di
interventi educativi riabilitativi funzionali, psicologi, sociali, familiari e
farmacologici. Le scarse conoscenze sulle basi neurofisiologiche
dell'autismo fanno sì che l'approccio farmacologico a questa patologia sia
ancora principalmente sintomatico, volto a favorire comportamenti più
adeguati e socialmente accettabili, oppure sia mirato a contenere
manifestazioni associate in comorbilità. I dati attuali indicano che
l'intervento farmacologico incide in modo molto marginale sulla storia
naturale del disturbo autistico.
La molteplicità fenomenica dei “quadri autistici" e le scarse conoscenze
circa la patogenesi di tale disturbo giustificano i molteplici tentativi
terapeutici con sostanze farmacologicamente anche molto diverse tra di
loro di cui si è cercato di volta in volta di sfruttare l'attività specifica su un
sintomo.
Obiettivo prevalente dell'intervento farmacologico diviene quindi quello del
controllo di manifestazioni sintomatiche che possono negativamente
influenzare la qualità della vita egli altri interventi terapeutici.
Il trattamento deve essere preceduto da una attenta analisi funzionale che
evidenzi i sintomi bersaglio, che possono essere molto diversi nei vari
soggetti (stereotipie e condotte aggressive, disturbi dell'attenzione,
alterazioni dell'umore, disturbi del sonno). L’impiego di queste sostanze in
età evolutiva richiede inoltre particolare attenzione per l'insorgenza di
possibili effetti collaterali.
● Stereotipie e aggressività27:
L’aloperidolo è un neurolettico da tempo noto. Sono riportati
miglioramenti nelle stereotipie, sull'aggressività, nella chiusura
relazionale, e, più dubbi, in alcuni parametri cognitivi. Neurolettici usati
in modo aspecifico per contenimento nel caso di disturbi
comportamentali, come impulsività, auto/etero-aggressività, iperattività,
sono: Tioridazina, Cloropromazina, Flufenazina. I dati in favore della
loro utilizzazione sono scarsi. Questi hanno un’azione sedativa e degli
effetti a lungo termine come farmaci di seconda scelta. Sono in
aumento le indicazioni all'utilizzo dei neurolettici atipici, sia nelle forme
resistenti ai neurolitici tradizionali, sia come intervento di prima scelta.
Il Risperidone risulta efficace nel ridurre comportamenti stereotipati,
aggressività, impulsività, chiusura relazionale (in minor grado).
La somministrazione deve essere graduale. Studi sull’impiego
dell'Olanzapina in bambini con differenti diagnosi, tra le quali disturbi
psicotici non meglio precisati, riferiscono miglioramenti nella regolarità
del ritmo sonno-veglia e nel controllo dell'aggressività. La Clonidina,
utilizzato come antipertensivo, si è dimostrato molto efficace nel
controllo delle crisi di rabbia, utilizzato nell'adolescente a dosaggi non
ipotensivi. La scarsa sperimentazione ne fa sconsigliare comunque
l'utilizzo.
● Disturbi dell'umore:
Antidepressivi quali SSRI (farmaci serotoninergici), triciclici ed altri
sono stati frequentemente utilizzati per contrastare la chiusura
27 PANARAI A. “I farmaci per l’autismo”, Notiziario dell’osservatorio autismo della Regione
Lombardia (3),7,1997.
relazionale, disinibire il comportamento, ridurre i disturbi
comportamentali (autoaggressività - stereotipie). Sono indicati inoltre
nelle forme depressive associate ai disturbi pervasivi dello sviluppo. I
farmaci più efficaci e i loro dosaggi sono: la Fluoxetina28, la
Clorimipramina, Trazodone. Da un recente studio la Fluoxetina è
risultata efficace nel 60% dei soggetti (età 2 - 7 anni), con
miglioramento del comportamento comunicativo, sociale e
dell'affettività.
La risposta favorevole alla Fluoxetina è significativamente correlata
alla storia familiare di disturbo affettivo maggiore (Sindrome
depressiva). Possono peraltro rapidamente comparire incrementi
dell'ansia, dell'irritabilità dei disturbi comportamentali (soprattutto con
Fluoxetina e Clorimipramina).
● Disturbi dell'attenzione:
La Pemolina può controllare, utilizzata per brevi periodi, i disturbi
dell'attenzione e l'iperattività, ma può portare ad un peggioramento di
tic eventualmente presenti.
● Disturbi del sonno:
La Melatonina ha contribuito in alcuni casi al miglioramento del sonno,
al rasserenamento dell'umore, alla diminuzione delle stereotipie anche
per periodi discretamente lunghi dopo la sospensione del farmaco
senza che si siano manifestati rilevanti effetti collaterali. Brevi cicli di
Benzodiazepina hanno efficacia sull'umore.
● Terapie Vitaminiche ed Altri Supplementi Nutrizionali29:
28 MHLINGER et AL. “Fluoxetine and autism”, Journal of the American Academy of Child and
Adolescent Psychiatry, 29, 285. (1990)29 MARTINEAU et al “Vitamin B 6, magnesium, and combined B6 - Mg: therapeutic effects in
childhood autism“, Biological Psychiatry 20, 467-468, (1986).
Hanno avuto un grosso clamore negli anni passati. Il presupposto
teorico è l'azione su un supposto disturbo metabolico nucleare,
secondo il modello cosiddetto ortomolecolare. È stata effettuata una
sperimentazione più rigorosa relativamente al trattamento con vitamina
B6, associata o meno a magnesio, e dimetilglicina. Attualmente
l'efficacia terapeutica è molto criticata, anche per le carenze
metodologiche di molti studi. L'intervento farmacologico nelle Sindromi
autistiche deve essere uno strumento che renda più efficaci gli
approcci di tipo psicoeducativo, riabilitativo e psicoterapico rivolti al
bambino. Poichè non si può curare il disturbo autistico, ma unicamente
i suoi sintomi più invalidanti, si rischia di incorrere in una politerapia
che rappresenterebbe un "bombardamento farmacologico"; per ovviare
a ciò è opportuno utilizzare come farmaci di prima scelta quelli a più
ampio spettro. La terapia psicofarmacologica ha significato solamente
se associata ad una presa in carico globale del bambino autistico e
della sua famiglia.
Terapia Doman - Delacato:Delacato inizialmente faceva parte, con G. Doman e R. Doman, di un
gruppo di lavoro di chiara impostazione medico-fisiatrica, dedicato alla
riabilitazione di bambini cerebrolesi.30 Una delle conclusioni del gruppo di
lavoro era che lo sviluppo del bambino procede per stadi, i quali, se
vengono saltati, impediscono al bambino di raggiungere il suo potenziale.
Compito del programma di riabilitazione è far ripetere al bambino lo stadio
che è stato saltato, e farglielo ripercorrere in modo da stimolare il suo
cervello allo sviluppo. Inoltre, si constatò che esistono diversi gradi di
lesione cerebrale, dalla grave alla lieve, e che il fattore più comune della
lesione cerebrale lieve erano i problemi di percezione (tattile, visiva o
30 DOMAN GLEN “Che cosa fare per il vostro bambino cerebroleso” Armando Editore, Roma
(1995)
acustica). In seguito Delacato31 iniziò a lavorare con bambini normali dal
punto di vista motorio, ma che presentavano gravi disturbi del
comportamento. Di qui passò a studiare l'autismo. Dall'osservazione che
molti dei sintomi di bambini cerebrolesi sono simili a quelli dell'autismo,
inizia a considerare gli atteggiamenti autistici come una conseguenza di
un problema sensoriale o percettivo.
I bambini autistici vengono considerati come cerebrolesi con gravi
problemi sensoriali: non potendo sfruttare gli stimoli che provengono
dall'esterno, perchè i canali di comunicazione col cervello sono difettosi,
essi cercano di normalizzare la via attraverso un comportamento ripetitivo
che va a stimolare il canale stesso. I bambini autistici non sono dunque
psicotici, ovvero non si comportano così per cause psicologiche ma per
motivi neurologici.
Sono individuati 3 tipi di deficit sensoriale:
Ipersensibilità: passa troppa parte di informazione al cervello
e si crea un sovraccarico.
Iposensibilità : passa una parte troppo piccola di informazione
che quindi non riesce ad essere adeguatamente processata
ed elaborata.
Rumore bianco : la percezione è disturbata da un'interferenza
sensoriale interna, ovvero la stessa attività dell'inefficiente
sistema sensoriale crea interferenza nel sistema.
Per la cura di questo disturbo bisogna quindi prima aiutare il bambino a
sopravvivere agli stimoli per poi procedere a normalizzare il suo sistema
sensoriale. In sintesi: i bambini autistici non sono psicotici ma cerebrolesi
la lesione causa disfunzioni percettive, di tre tipi: iper, ipo e rumore
bianco.32 Gli autismi (stereotipie) sono sintomi di lesione cerebrale che 31 DELACATO C “Alla scoperta del bambino autistico”, Armando Editore, Roma 1996.32 www.delacato.com
sono qui chiamati atteggiamenti sensoriali, e sono tentativi di normalizzare
le vie sensoriali lese. Il bambino cerca di curare se stesso, cercando di
farlo si distrae dalla realtà e dall'osservazione del comportamento si
possono individuare le vie lese; si può capire se il deficit è di tipo iper, ipo
o rumore bianco e si possono normalizzare le vie offrendo al bambino
l'esperienza e la stimolazione giusta attraverso quella specifica via
compromessa. Quando il canale è normalizzato, il comportamento
ripetitivo cessa ed il bambino riesce a concentrarsi sul mondo reale. A
questo punto lo si curerà come si curano le lesioni cerebrali lievi,
offrendogli l'opportunità di ripercorrere lo stadio che è stato in qualche
modo saltato.
I Disturbi Generalizzati dello Sviluppo sono caratterizzati da
compromissione grave e generalizzata in diverse aree dello sviluppo:
capacità di interazione sociale reciproca, capacità di comunicazione, o
presenza di comportamenti, interessi, e attività stereotipate. Le
compromissioni qualitative che definiscono queste condizioni sono
nettamente anomale rispetto al livello di sviluppo o all’età mentale del
soggetto.
Questa sezione contiene:
- Il Disturbo Autistico
- Il Disturbo di Asperger
- Il Disturbo Disintegrativi della Fanciullezza
- Il Disturbo di Rett
- Il Disturbo generalizzato dello sviluppo, non altrimenti
specificato.
Questi disturbi si evidenziano nei primi anni di vita e sono spesso associati
al Ritardo Mentale.
● Disturbo Autistico:Corrisponde a quello che in altre classificazioni viene chiamato
autismo infantile precoce e autismo di Kanner e le caratteristiche
diagnostiche sono:
Criterio A. Un totale di almeno 6 (o più) voci da 1) 2) 3) con almeno 2
da 1) e uno ciascuna da 2) e 3)
1. Compromissione qualitativa dell’interazione sociale, manifesta con
almeno 2 dei seguenti:
a) Mancata compromissione nell’uso di svariati comportamenti
non verbali, come sguardo diretto, l’espressione mimica, le
posture corporee e i gesti, che regolano l’interazione sociale:
b) Incapacità di sviluppare reazioni coi coetanei adeguate al
livello di sviluppo;
c) Mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie,
interessi o obiettivi con altre persone (per es., non mostrare,
portare, né richiamare l’attenzione su oggetti di proprio
interesse);
d) Mancanza di reciprocità sociale ed emotiva.33
L’interazione sociale si riferisce alla caratteristica propria del genere
umano di condividere con l’altro, emozioni, interessi, attività e stili di
vita propri del gruppo di appartenenza. Tale caratteristica, che
assume le connotazioni di un bisogno primario, si esprime con una
serie di comportamenti osservabili che variano nel tempo. Può
esservi l’incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate
al livello di sviluppo che può assumere diverse forme secondo l’età
i soggetti più piccoli possono avere uno scarso o nullo interesse nel
33 SINPIA (Società italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza),: Linee guida
per l’autismo-diagnosi e interventi,. Erikson 2005
fare amicizia, i più grandi possono essere interessati all’amicizia,
ma mancare delle convinzioni che regolano l’interazione sociale. Si
passa da comportamenti molto elementari, come lo sguardo ed il
sorriso (propri dei lattanti) a comportamenti progressivamente più
strutturati ed espliciti di ricerca dell’altro per condividere esperienze,
interessi e attività; nell’autismo è seriamente compromesso tale
bisogno e, conseguentemente risultano atipici i comportamenti ad
esso correlati. Bisogna tuttavia tener presente che il rapporto
interpersonale non è mai - o quasi mai - completamente assente,
ma è limitato a richiedere qualcosa o qualche azione e non ha
condividere.
2. Compromissione qualitativa della comunicazione come manifestato
da almeno 1 dei seguenti:
a) Ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio
parlato (non accompagnato da un tentativo di compenso
attraverso modalità alternative di comunicazione come gesti o
mimica).
b) In soggetti con linguaggio adeguato, mancata
compromissione della capacità di iniziare o sostenere una
conversazione con altri;
c) Uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio
eccentrico;
d) Mancanza di giochi di simulazione vari e spontanei, o di
giochi di imitazione sociale adeguati a livello di sviluppo.
Tale criterio fa riferimento a due aree funzionali: la capacità di
capire (in ricezione) e di utilizzare (in espressione) i codici
comunicativi che permettono all’individuo di entrare in interscambio
con l’altro; e la capacità di accedere a giochi di finzione, cioè di
riproporre in chiave ludica situazioni sociali vissute e mentalmente
rielaborate. La compromissione quantitativa della comunicazione
espressa in questo criterio fa piuttosto riferimento all’incapacità da
parte del bambino autistico di appropriarsi di quei codici che
servono nella comunicazione. Tali codici si riferiscono al linguaggio
verbale, alla componente posturo - cinetica (posture, sguardo,
atteggiamenti mimici, gesti) e alla componente non verbale del
linguaggio (intonazione, prosodia, pause). Il deficit del
padroneggiamento dei codici della comunicazione investe sia il
versante ricettivo che quello espressivo. Il gioco di finzione è inteso
come capacità del bambino di riproporre in chiave ludica situazioni
sociali vissute e rielaborate; rappresenta una tappa obbligatoria
nello sviluppo del bambino. Molte ricerche hanno dimostrato
l’incapacità del bambino autistico di effettuare giochi di finzione34,
che sarà atipica in quanto ipostrutturata rispetto alla normalità;
limitata a solo alcune azioni riprodotte in maniera meccanica e
ripetitiva, priva di un reale piacere di condivisione con l’altro.35
3. Modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e
stereotipati, come manifestato da uno dei seguenti:
a. Dedizione assorbente a uno o più tipi di interessi ristretti e
stereotipati anomali o per intensità o per focalizzazione;
b. Sottomissione del tutto rigida a inutili abitudini o rituali specifici;
c. Manierismi motori stereotipati e ripetitivi (battere o torcere le
mani o il capo, o complessi movimenti di tutto il corpo);
d. Persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti.
34 BARON-COHEN S.,COX A.,BAIRD G. Psychological markers in the detection of autism in
infancy in a large population,British Journal of Psychiatry, vol. 168,199635 ROGERS S,J.HEPBURN S.L., STACKHOSE T. Imitation performance in toddlers with
autism and those with other developmental disorders, Journal of child psychology and
psychiatry, vol. a, 2003
Sono inclusi in questo criterio, tutti quei movimenti, gesti o azioni
che per la loro frequenza e la scarsa aderenza al contesto
assumono la caratteristica di comportamenti atipici o bizzarri. Il
soggetto autistico, presenta un interesse perseverante per diversi
aspetti della realtà, che può manifestarsi con la raccolta di stimoli
provenienti dal proprio corpo (guardarsi le mani o assumere
posizioni bizzarre per la sensazione che queste gli rimandano),
l’osservazione di particolari oggetti ed eventi (ruote che girano,
ventilatori elettrici apertura e chiusura delle porte), l’intenso
attaccamento ad alcuni oggetti inanimati. Il comportamento si
presenta ritualizzato nelle azioni quotidiane come il mangiare, il
lavarsi, l’uscire; queste devono essere svolte secondo sequenze
rigide ed immutabili. Questo bisogno si verifica anche nel gioco nei
percorsi da seguire per raggiungere un luogo familiare. Ciò
evidenzia una notevole sensibilità ad avvertire variazioni anche
minime del set percettivo e la conseguente reazione di profondo
disagio che conferisce a queste abitudini un carattere ossessivo-
compulsivo. Considerati nel loro insieme i comportamenti inclusi in
questi primi aspetti sembrano evidenziare un particolare
funzionamento mentale, caratterizzato da povertà di contenuti
ideativi, dalla ripetitività di quelli presenti e da una scarsa flessibilità
di schemi mentali che risultano rigidi, perseverativi e poco
modificabili dall’esterno.
Criterio B. Ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle
seguenti aree con esordio prima dei 3 anni di età: 1) interazione
sociale, 2) linguaggio usato nella comunicazione sociale, o 3) gioco
simbolico o di immaginazione. Il DSM IV TR inserisce tra i criteri un
esordio prima dei tre anni, che si esprime con ritardi o atipie nelle
aree dell’interazione sociale e/o del gioco simbolico; facendo
riferimento ai resoconti dei genitori dei bambini autistici risulta che
in oltre l’80% dei casi il quadro clinico dell’autismo si è realizzato
entro il 20° mese di vita, inoltre si riferisce una regressione nello
sviluppo del linguaggio, che si manifesta come cessazione dopo
che il soggetto ha acquisito 5-10 parole.
Criterio C. L’anomalia non è meglio attribuibile al disturbo di Rett o
al disturbo disintegrativi della fanciullezza36. Il DSM IV TR inserisce
il disturbo autistico nei disturbi pervasivi dello sviluppo che, pur
condividendo con altre categorie alcune caratteristiche se ne
differenzia per una diversa espressività dei sintomi della triade
ovvero delle caratteristiche clinico - evolutive.
● Disturbo di Asperger:Il disturbo di Asperger presenta quali elementi clinici che lo portano ad
essere incluso tra i disturbi pervasivi dello sviluppo:
1. Compromissione qualitativa dell’interazione sociale, che il più
delle volte si manifesta - attraverso un approccio sociale agli
altri eccentrico e unilaterale, piuttosto che attraverso
l’indifferenza sociale ed emotiva - (American Psychiatric
Association, 2002);
2. Presenza di schemi di comportamento, interessi e attività
ristretti e ripetitivi, che si esprimono soprattutto con una -
dedizione assorbente a un argomento o a un interesse
circoscritto, sul quale il soggetto può raccogliere una grande
quantità di fatti ed informazioni - (American Psychiatric
Association, 2002).
Contrariamente al disturbo Autistico, non vi sono ritardi clinicamente
significativi del linguaggio (singole parole sono usate all’età di 2 anni, 36 Idem
frasi comunicative all’età di 3 anni), nello sviluppo cognitivo o nello
sviluppo della capacità di auto-accudimento adeguate all’età, nel
comportamento adattivo (tranne che nell’interazione sociale), nella
curiosità riguardo all’ambiente della fanciullezza. Tale diagnosi non
viene fatta se vengono soddisfatti i criteri per un altro disturbo
generalizzato dello sviluppo o per la schizofrenia; tuttavia il dibattito
scientifico, suggerisce prudenza nell’uso indiscriminato di questa
analisi, poiché i criteri non sempre permettono una diagnosi
differenziale tra il disturbo autistico ad alto funzionamento, il disturbo di
Asperger e il disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti
specificato. Il disturbo di Asperger sembra avere un esordio piuttosto
tardivo rispetto al disturbo Autistico e sembra vi sia una più comune
incidenza tra i maschi.
● Disturbo disintegrativo della fanciullezza:È una categoria che viene denominata all’interno di altre
classificazioni, Sindrome di Heller o psicosi disintegrativa. La
manifestazione fondamentale del Disturbo Disintegrativo della
Fanciullezza (DDF) è una marcata regressione in diverse aree del
funzionamento dopo un periodo di almeno 2 anni di sviluppo
apparentemente normale. Tale sviluppo (apparentemente normale) è
rispecchiato da una comunicazione verbale e non verbale, relazioni
sociali, giochi e comportamento adattivo adeguato all’età. Dopo i primi
2 anni di vita ma prima dei 10 anni, si va incontro ad una perdita
clinicamente significativa di capacità e di prestazioni acquisite in ambiti
come: espressioni o ricezione del linguaggio, capacità sociali o
comportamento adattivo, controllo della defecazione, gioco o capacità
motorie. I soggetti con questo disturbo mostrano deficit sociali e della
comunicazione e caratteristiche comportamentali (interessi ristretti,
ripetitivi, stereotipati) che si ritrovano nel Disturbo autistico. Dati recenti
sembrano indicare una maggiore distribuzione nei maschi.
Contrariamente al disturbo di Asperger, il DDF è caratterizzato da una
perdita clinicamente significativa delle competenze e da una maggiore
probabilità di Ritardo Mentale.
● Disturbo di Rett:La caratteristica fondamentale del Disturbo di Rett (descritto per la
prima volta dall’austriaco Andreas Rett nel 1966) è lo sviluppo di deficit
specifici multipli successivo ad un periodo di funzionamento normale
dopo la nascita. I soggetti hanno uno sviluppo motorio apparentemente
normale nei primi 5 mesi di vita; tra i 5 e i 48 mesi di età la crescita del
cranio rallenta. L’ aspetto principale è l’aprassia, poiché vi è una
perdita di capacità manuali finalistiche già acquisite in precedenza, con
successivo sviluppo di caratteristici movimenti stereotipati delle mani
che somigliano al torcersi o lavarsi le mani presenti durante la veglia e
assenti nello stato di sonno. L’interesse per l’ambiente sociale
diminuisce nei primi anni dopo l’esordio del disturbo, sebbene
l’interazione sociale possa spesso svilupparsi in seguito lungo il
decorso. Vi è l’insorgenza di problemi nella coordinazione dell’andatura
o dei movimenti del tronco associati a compromissione dello sviluppo
della ricezione e dell’espressione del linguaggio con grave ritardo
psicomotorio. Il suo esordio si evidenzia prima dei 4 anni, di solito nel
primo o secondo anno e permane per tutta la vita, sebbene ci possano
essere alcuni rari recuperi di sviluppo.
Il Disturbo di Rett differisce dal Disturbo Disintegrativo di Fanciullezza
e dal Disturbo di Asperger per la sua caratteristica distribuzione tra i
sessi, per l’esordio e per le caratteristiche del deficit. Il disturbo di Rett
è stato diagnosticato solo nelle femmine mentre il DDF e il disturbo
autistico sembrano più comuni nei maschi.
● Disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificatoQuesta categoria è comunemente usata nei casi in cui vi è una grave e
generalizzata compromissione dello sviluppo, dell’interazione sociale
reciproca o delle capacità di comunicazione verbale o non verbale, o
quando non sono presenti comportamenti, interessi o attività
stereotipate, ma non risultano soddisfatti i criteri per uno specifico
DGS, la schizofrenia, il Disturbo Schizotipico di personalità o il Disturbo
di Evitamento di Personalità. Ne deriva una categoria residua, per la
quale non sono ancora definiti i criteri diagnostici. Molto spesso il
quadro clinico mette in risalto comportamenti caratteristici, che non
sono inseriti tra i criteri diagnostici del DSM IV TR, poiché non
patognomonici come:
- Abnorme risposta agli stimoli sensoriali. Molti bambini autistici,
apparentemente sordi ai comuni suoni dell’ambiente, mostrano
una particolare sensibilità nei confronti di alcuni stimoli uditivi
(es. cigolii, sirene, campanelli). Tali suoni scatenano nel
bambino violente reazioni di panico, con tentativi di proteggersi
(es. coprirsi le orecchie con le mani). Risposte simili possono
riscontrarsi anche nei confronti di stimoli visivi (flash, luci
intense, determinanti oggetti) o di alcuni stimoli tattili.
L’elemento caratterizzante è rappresentato dalla tonalità
emotiva di fondo che li accompagna, la crisi di panico. Questa è
scatenata spesso da stimoli di diversa natura, che per un
disturbo percettivo assumono connotazioni emozionali
aberranti.
- Condotte autolesive. Diversi bambini autistici presentano
condotte auto-aggressive, quali battere il capo contro la parete
o colpirsi il capo con un pugno.
- Presenza di particolari abilità. Queste “isole di speciali
competenze” che spesso disorientano i genitori e che possono
rendere difficile la diagnosi, riguardano la capacità di
discriminare e riconoscere particolari stimoli visivi,
un’eccezionale memoria per numeri o date, o un’inaspettata
capacità di leggere e recitare interi brani.
- Ritardo Mentale. Secondo Rapin e Katzman37circa in 75% dei
pazienti autistici presenta ritardo mentale; l’estendersi del
concetto di Spettro autistico ha determinato però stime
notevolmente differenti evidenziando la diminuzione in
percentuale al 50%.
- Epilessia. L’epilessia si verifica in circa il 30-40% dei casi. In
un terzo insorge nei primi anni di vita senza assumere
caratteristiche particolari38.
La classificazione secondo L’ICD-10
Parallelamente alla produzione dei DSM, ed in competizione con essa,
l’OMS produceva le varie edizioni dell’ICD. Il primo ICD che introdusse un
capitolo per i disturbi mentali fu l’ICD-6 del 1946, che fu adottato, quando
fu fondato l’OMS, a cavallo degli anni 50, più o meno quando uscì il DSM
I. Con la classificazione dell’OMS all’interno dell’ICD-10, International
Classification of Disease39, l’autismo viene inserito nella categoria delle
Sindromi da alterazione globale dello sviluppo psicologico che
comprendono:
- Autismo infantile37 RAPIN I. e KATZMAN R, “Neurobiology of autism”, annals of neurology, vol.43 (1998)38 COHEN D.J e VOLKMAR F.R., “Autismo e disturbi generalizzati dello sviluppo” Gussago,
Vannini Editrici,200439 WORLD HEALTH ORGANIZATION: ICD 10. “Classificazione delle sindromi e dei disturbi
psichici e comportamentali. Descrizioni cliniche e direttive diagnostiche (CDCG). Criteri
diagnostici per la ricerca (DCR), Milano, Masson,1997.
- Autismo atipico
- Sindrome di Rett
- Sindrome disintegrativa dell’infanzia di altro tipo
- Sindrome iperattiva associata a ritardo mentale e movimenti
stereotipati
- Sindrome di Asperger
- Altre sindromi da alterazione globale dello sviluppo psicologico.
- Sindrome non specificata da alterazione globale dello sviluppo
psicologico.
Molte delle categorie utilizzate per le Sindromi da alterazione globale dello
sviluppo sono sovrapponibili a quelle dei Disturbi generalizzati dello
sviluppo descritte dal DSM IV. Ciò vale in particolare per l’Autismo infantile
definito come Disturbo autistico nel DSM; la sindrome di Rett (disturbo di
Rett), la Sindrome Disintegrativa dell’infanzia di altro tipo (disturbo
disintegrativo di fanciullezza), Sindrome di Asperger (disturbo di
Asperger), la Sindrome non specificata da alterazione globale dello
sviluppo psicologico (sovrapponibile al Disturbo generalizzato dello
sviluppo NAS in cui è compreso anche il quadro dell’autismo atipico).
● Autismo atipicoSi tratta di una sindrome che si differenzia dell’Autismo per
l’insorgenza o per il mancato riscontro di tutti e tre i requisiti diagnostici.
Così la compromissione dello sviluppo si rende manifesta per la prima
volta solo dopo i tre anni e/o per la mancata dimostrabilità
dell’anormalità in una delle tre aree richieste alla diagnosi di autismo
(interazione sociale comunicazione, comportamento). L’autismo atipico
si ha più spesso in individui gravemente ritardati, il cui livello offre
poche opportunità per la manifestazione dei comportamenti devianti
specifici richiesti per la diagnosi di autismo. La stessa atipicità si
verifica anche in individui con un grave disturbo evolutivo specifico
della comprensione del linguaggio, pertanto costituisce a pieno titolo
una condizione separata di autismo.
● Sindrome iperattiva associata a ritardo mentale e movimenti stereotipati:
Si tratta di bambini con grave ritardo mentale (QI al di sotto di 50) e
gravi problemi di iperattività e di deficit attentivi frequentemente
associato a comportamenti stereotipati. Non è chiaro fino a che punto i
disturbi comportamentali siano in funzione del basso QI o del danno
celebrale. Tale sindrome viene considerata dallo stesso ICD10, come
mal definita e di incerta validità nosografia.
Associata alla diagnosi di autismo, si riscontra spesso anche una diagnosi
di Ritardo Mentale (QI 35-50), anomalie nello sviluppo e delle capacità
cognitive. I soggetti con autismo sono spesso iperattivi, hanno difficoltà a
mantenere l’attenzione, possono essere impulsivi, a volte aggressivi,
avere eccessi di collera e manifestare comportamenti autolesivi. Possono
essere presenti inoltre anomalie dell’umore o dell’affettività e scarsa
capacità di valutazione dei rischi. Per ciò che riguarda il suo sviluppo,
questo può variare nel tempo secondo del livello di crescita della persona.
Nei bambini in età infantile vi può essere l’incapacità di stare in braccio;
indifferenza o avversione all’affetto, al contatto fisico: mancanza di
contatto visivo, di risposta mimica, o di sorrisi finalizzati al rapporto sociale
e mancanza di risposta al richiamo dei genitori.
I bambini piccoli con questo disturbo possono trattare gli adulti come
intercambiabili oppure possono attaccarsi meccanicamente ad una
determinata persona.
Nel corso dello sviluppo questi può diventare maggiormente disponibile ed
essere coinvolto passivamente nell’interazione sociale, tendendo
comunque a trattare le altre persone in modi inusuali aspettandosi, ad
esempio, che le persone rispondano a domande rituali in modi specifici,
avendo uno scarso senso dei confini delle altre persone, ed essendo
eccessivamente intrusivi nell’interazione sociale. Nei soggetti più grandi, le
prestazioni che comportano memoria a lungo termine come orari dei treni,
date storiche, formule chimiche, parole astratte di canzoni, possono
essere eccellenti, ma le informazioni tendono ad essere ripetute più volte
a prescindere dall’adeguatezza dell’informazione rispetto al contesto
sociale. Come già accennato in precedenza il Disturbo può avere delle
connotazioni comuni ad altri Disturbi come ad esempio:
● la Schizofrenia con esordio nella fanciullezza si ha dopo anni di
sviluppo normale, infatti, solo occasionalmente ha la propria
strutturazione nella prima infanzia. Di solito vi è una storia di sviluppo
relativamente normale con la strutturazione, poi la comparsa di
allucinazioni e la trasformazione della realtà tipica della schizofrenia.
Una mancanza di sviluppo sociale è spesso parte della storia
precedente della malattia. La diagnosi di schizofrenia può essere
aggiunta a quella di disturbo autistico se un soggetto autistico presenta
caratteristiche di quest’ultima con sintomi quali deliri o allucinazioni.
● Nel Mutismo selettivo non si trova una grave compromissione
dell’interazione sociale, di modalità ristrette di comportamento e le
capacità comunicative risultano essere adeguate almeno in alcune
situazioni. La storia e la presentazione del mutismo selettivo sono
piuttosto differenti da quelle dell’autismo poiché sebbene i soggetti con
autismo siano spesso muti il loro mutismo non è mai di natura selettiva.
● Il Disturbo stereotipato del movimento è caratterizzato da
manierismi motori (stereotipie) e ritardo mentale. Se il bambino
risponde a criteri per uno dei disturbi pervasivi dello sviluppo, la
diagnosi di questo tipo viene subito scartata.
● La Demenza ha occasionalmente la propria strutturazione
nell’infanzia; il modello tipico di demenza con strutturazione
nell’infanzia è il progressivo deterioramento delle funzioni mentali e
motorie.
● Il Disturbo Ossessivo Compulsivo e presente in bambini con
interessi e comportamenti non usuali. Le abilità sociali sono
preservate, così come quelle linguistiche e comunicative, se sono
presenti deficit in questa area questi sono qualitativamente diversi da
quella dell’autismo, ma questo non prescinde che la diagnosi si
sovrapponga.
● Il Disturbo di personalità schizoide è caratterizzato da un
isolamento relativo, con però abilità a relazionarsi normalmente in altri
contesti.
Questi disturbi non sono diagnosticati prima dei 18 anni e fanno parte
anche se marginalmente, dello spettro autistico.
● Il Ritardo mentale profondo e severo può avere varie caratteristiche
spesso associate con l’autismo, in particolare i movimenti stereotipati.
Oltre ai disturbi appena esaminati altri aspetti che possono essere
inglobati nello Spettro autistico sono presenti nelle patologie di origine
genetica come:
● la Sindrome da x Fragile è riconosciuta come una delle più
importanti cause del ritardo mentale e si evidenzia per un deficit
cognitivo variabile nei diversi soggetti. Il primo segno della malattia è il
ritardo nello sviluppo psicomotorio, in particolare nell'apprendimento
del linguaggio. Il ritardo mentale è di grado variabile e spesso si
associa ad anomalie comportamentali come irrequietezza, instabilità
psicomotoria e incapacità a fissare l'attenzione. Queste caratteristiche
persistono con l'avanzare dell'età. Il comportamento delle persone
affette da x fragile può andare da un carattere estroverso e sociale a
comportamenti simili all'autismo (iperattività, incapacità di fissare negli
occhi gli altri, avversione all'essere toccati, comportamento
stereotipato). A volte possono manifestarsi anche episodi convulsivi.
● la Sindrome di Algelman è una sindrome di origine genetica. Le
caratteristiche principali della sindrome sono un grave ritardo
psicomotorio, l’assenza di linguaggio o l'utilizzo di poche parole,
problemi di equilibrio e movimenti scoordinati (atassia) con tremore agli
arti. Altre caratteristiche comuni a tutte le persone affette sono: la
tendenza a ridere in modo eccessivo e senza motivo, ipereccitabilità,
iperattività, scarsa attenzione.
● Nella Sindrome di Williams40 le caratteristiche psichiche sono la
presenza di un certo ritardo nell’acquisizione delle tappe fondamentali
dello sviluppo motorio e problemi con l’equilibrio e con la coordinazione
dei movimenti. Spesso nell’infanzia si rileva un’iperattività che tende a
scomparire con l’adolescenza. Il ritardo intellettivo può essere di grado
medio o grave. Da piccoli i bambini con sindrome di Williams
presentano un ritardo nel linguaggio, che è poi recuperato ampiamente
40 . GIANNOTTI A e VICARI S. "La sindrome di Williams: aspetti clinici e riabilitativi" a cura di. F.
Angeli 1999.
negli anni: da adolescenti hanno, infatti, una buona padronanza del
linguaggio, tale da non far sospettare la presenza di ritardo mentale.
Queste capacità verbali tuttavia si dimostrano spesso solo formali, in
quanto i contenuti del discorso possono essere sovente carenti.
Difficilmente le persone affette riescono a sostenere una
conversazione non iniziata da loro, fanno domande stereotipate, sono
spesso ecolalici (cioè ripetono parole dette da altri) e ripetitivi. Tipica è
anche l’iperacusia (ipersensibilità ai rumori forti e acuti, come il
trapano, la sirena etc.), presente tra il 70% e il 90% dei casi.
● La Sindrome Down dal punto di vista evolutivo appare caratterizzata
da un ritardo mentale di gravità variabile, da uno sviluppo ritardato
nelle aree psicomotoria, linguistica, cognitiva, ecc. Tuttavia è stata
riscontrata un’estrema variabilità nelle competenze delle persone con
Sindrome di Down.
Come si è evidenziato, per affrontare le difficoltà diagnostiche ogni
importante centro di studi e di approccio terapeutico ha definito una
propria “autism check list” che, quale più quale meno offrono la possibilità
di monitorare l’andamento della terapia oltre che la definizione precisa di
diagnosi. Le tante somiglianze fra queste entità hanno condotto molti
specialisti ad introdurre, come già accennato, il concetto che i disturbi
principali che li contraddistinguono (interazione sociale, comunicazione,
comportamento), possono presentarsi in maniera e gravità differenti,
introducendo così il concetto di Spettro Autistico. Tale termine sta a
significare quindi che gli individui con una diagnosi di autismo “classico” o
Sindrome di Asperger condividono una serie di caratteristiche comuni, ma
anche importanti differenze. Tale eterogeneità implica che ogni persona
con un Disturbo dello Spettro Autistico è significativamente diversa da
un’altra. La grande varietà di Disturbi è un fattore che genera senza
dubbio una notevole confusione, che viene poi ulteriormente aumentata
dalla non rara coesistenza di altre disfunzioni, quali ad esempio il deficit
dell’attenzione, ed iperattività, la sindrome di Tourette, la difficoltà di
apprendimento, la depressione, l’ansietà, la sindrome ossessivo-
compulsiva, ecc. In conclusione, “l’autismo” (inteso nella sua eccezione
più ampia) non va più considerato come un’entità clinica unica ma
piuttosto come uno Spettro di manifestazioni molto eterogenee.
I tre elementi di base che caratterizzano l’autismo sono:1. problemi a livello interazione sociale,
2. problemi di comunicazione,
3. problemi a livello comportamentale.
Interazione sociale: “Perchè non mi guarda mai?”, “Perchè ride
quando piango, invece di piangere con me o di chiedermi perchè
sono così triste? ecc. Per un bambino autistico è difficile leggere
l’espressione degli occhi, i gesti, gli atteggiamenti. È difficile
comprendere come ci sentiamo, i nostri pensieri, le nostre
intenzioni.
Comunicazione: distinzione tra linguaggio e comunicazione, dove
per linguaggio o linguaggi intendiamo dei sistemi di simboli,
codici, mentre per comunicazione intendiamo un messaggio
sociale. La comunicazione è un messaggio sociale. Infatti pur
non parlando la stessa lingua è possibile comunicare e quindi
comprendersi, in quanto possiamo leggere e decodificare i nostri
messaggi figurati. Quando consideriamo la qualità del linguaggio
del bambino autistico vediamo che un numero alto di bambini
non sviluppano la capacità di parlare. I bambini autistici sono in
continua lotta per interpretare sia il significato delle parole in se
stesse, sia il messaggio sociale dato dal contesto.
Comportamento: comportamenti stereotipati, ripetitivi, presenza
di rituali, comportamento ossessivo-compulsivo, iperattività,
comportamento oppositivo.
Le indagini statistiche dimostrano tende a riguardare una percentuale
sempre più alta della popolazione mondiale. Il dato statistico più citato è
che l’autismo si manifesta in 4,5 casi su 10.000 nascite. Questo dato è
basato su indagini a larga scala condotte negli Stati Uniti ed in Inghilterra.
Si stima inoltre che il numeri dei bambini che ha comportamenti autistico-
simili sia dai 15 ai 20 ogni 10.000.
L’autismo colpisce i maschi con una frequenza tre volte maggiore delle
femmine. Questa differenza tra i due sessi non è peculiare dell'autismo
poiché molte disabilità dello sviluppo hanno un rapporto maschi - femmine
anche più elevato. Per fronteggiare i problemi che tale sindrome
comporta, anche a livello sociale, sono stati elaborati alcuni programmi di
intervento che suggeriscono determinate tecniche da utilizzare.
Chiaramente tali tecniche si differenziano sulla base delle teorie alle quali
si ispirano, che interpretano il disturbo autistico assumendo un’ottica
particolare. Le varie tecniche in uso possono essere raggruppate secondo
tre principali orientamenti al problema: l’orientamento psicodinamico
(riconducibile alla teoria psicoanalitica); l’orientamento che enfatizza gli
aspetti biochimici coinvolti nell’autismo sfociando nella proposta della
somministrazione di farmaci per contenere i sintomi maggiormente
disturbanti quali l’iperattività, l’aggressività, l’autolesionismo e l’ansia;
l’orientamento di tipo cognitivo-comportamentale, quest’ultimo si ispira agli
studi di Skinner e di Wolpe, i cui principi sono considerati validi ai fini della
modificazione dei comportamenti inappropriati e socialmente problematici.
La tecnica applicata è quella del rinforzo (rivolta ai comportamenti
desiderati) e della punizione (per tentare di far diminuire i comportamenti
indesiderati), approfondiremo più avanti questa tecnica parlando del
Metodo ABA.
Metodo ABA
L’ABA (Applied Behavior Analysis) è un programma che si basa sul
modello comportamentale dell’apprendimento. Ha lo scopo di costruire il
repertorio dei comportamenti sociali necessari all’adattamento e di
diminuire i comportamenti problematici. Nel modello comportamentale,
l’autismo è considerato una sindrome i cui deficit ed anomalie hanno una
base neurologica, ma che offre malgrado tutto un appiglio alle tecniche di
modificazione comportamentale. I bambini affetti da autismo apprendono
poco in modo spontaneo nel loro ambiente naturale. Possono tuttavia
apprendere in un ambiente specificamente predisposto per un
apprendimento sistematico. Questo tipo di trattamento consiste
nell’apprendimento di piccole unità di comportamenti attraverso prove
ripetute. Il comportamento viene quindi frazionato in piccole tappe che
vengono impartite, nella maggior parte dei casi, in una situazione di
apprendimento individuale. Il bambino deve rispondere ad un compito, ad
esempio: “Guardami”. All’inizio il bambino può essere aiutato da un
incitamento fisico. Le risposte corrette, anche ottenute grazie ad aiuti,
vengono evidenziate da una ricompensa. Quando il bambino dà una
risposta sbagliata, l’adulto la ignora e gli dà degli incitamenti per ottenere
la risposta corretta. In un primo tempo il bambino viene ricompensato
anche per una risposta imperfetta ma che si avvicina a quella giusta. Man
mano che progredisce l’apprendimento, aumentano le esigenze, ed il
bambino deve dare risposte sempre più elaborate per ottenere la
ricompensa. Inizialmente le ricompense sono soprattutto alimentari, ma
presto cedono il posto ai rafforzamenti sociali. All’inizio, i comportamenti
su cui si lavora sono semplici: restare seduti al tavolo, imitare, fare
attenzione. In seguito, si lavora anche su comportamenti più complessi
come il linguaggio, il gioco, l’interazione sociale. Le prove vengono
ripetute finché il bambino non riesce rispondere correttamente senza
l’aiuto dell’adulto. I comportamenti del bambino vengono regolarmente
registrati e le modificazioni vengono segnalate attraverso dei grafici che
mostrano l’evoluzione. In genere, l’unità utilizzata è la frequenza di un
comportamento, la quale viene rilevata a diverse riprese prima di qualsiasi
intervento, per stabilire la linea di base. Questa serve da riferimento per
valutare l’avanzamento verso l’obiettivo.
Man mano che il bambino progredisce nell’apprendimento i
comportamenti acquisiti vengono sollecitati in un ambiente meno
strutturato in modo da facilitare la generalizzazione. Quando il bambino
diventa capace di generalizzare ad altri ambienti, il comportamento si
rafforza perché è utile e funzionale al quotidiano e così assume senso.
Per certi comportamenti l’apprendimento può avvenire direttamente
nell’ambiente abituale del bambino. Si tratta di rilevare le iniziative positive
del bambino e di rafforzarle immediatamente. Questo tipo di
apprendimento è detto “incidentale”, che avviene cioè nel momento in cui
emergono determinati comportamenti in un ambiente naturale e vengono
rafforzati. Il ricorso a questa tecnica presuppone che il bambino abbia
l’opportunità di presentare frequentemente il comportamento perché lo si
possa rafforzare.
La progressione normale avviene da una situazione duale, in cui il
bambino impara individualmente con un adulto, ad una situazione di
gruppo, in cui il bambino può applicare il comportamento appreso, ed in
questo modo rafforzarlo. A partire da risposte semplici vengono elaborati
comportamenti più complessi che possono essere utilizzati nella vita di
tutti i giorni e aumentano l’adattamento del bambino.
Per i comportamenti inappropriati, l’analisi funzionale permette di
determinare gli avvenimenti che li scatenano o li rafforzano. Sulla base di
quest’analisi viene elaborata una strategia di trattamento del
comportamento preso a bersaglio. Nel caso di comportamenti la cui
funzione sembra essere quella di cercare il contatto in modo inadatto, si
procede in modo da distogliere l’attenzione verso di essi per evitare che si
rafforzino. Parallelamente, vengono impartiti mezzi più positivi per entrare
in comunicazione. I comportamenti problematici possono essere attenuati
anche attraverso l’applicazione e l’apprendimento di risposte positive
incompatibili con essi.
L’applicazione di queste tecniche di modificazione del comportamento
richiede una formazione specifica che dovrebbero avere tutti coloro che
stanno vicino al bambino, per poter aumentare le opportunità degli
apprendimenti organizzati in un programma coerente. I programmi
comportamentali devono comunque essere seguiti da una persona
competente che sappia condurre un’analisi funzionale corretta, definire i
buoni comportamenti di mira, scegliere ed avviare le procedure più adatte
ed evitare che certi comportamenti indesiderabili vengano
involontariamente rafforzati da pratiche inadeguate.
A parte il lavoro sui bersagli di comportamento definiti, è stata sollevata la
questione di una possibile influenza sulla prognosi di valutazione a lungo
termine. Gli studi iniziali indicavano che era difficile ottenere miglioramenti
sostanziali a lungo termine (De Myer et al., 1981), ed il bilancio del primo
programma intensivo si era rivelato deludente, nella misura in cui i
bambini regredivano dopo l’interruzione del trattamento (Lovaas et al.,
1973). In seguito, l’approccio comportamentale è evoluto verso un lavoro
sistematico sulla generalizzazione ed il consolidamento delle acquisizioni,
grazie ad una diversificazione degli ambienti di apprendimento (Rogé,
1993; Rogé et al., 1997). Da ciò, i risultati raggiunti sono nettamente più
incoraggianti e dimostrano che l’intervento precoce può modificare
sensibilmente la prognosi (Mc Eachin et al., 1993, Rogers, 1996). Dopo
qualche anno, sulla base di questi lavori, ma con l’apporto specifico della
neuropsicologia, si è sviluppata in Francia la terapia dello scambio e dello
sviluppo (TED). Essa ha lo scopo di sostenere lo sviluppo delle grandi
funzioni sensori-motrici, in vista del loro utilizzo in un contesto in cui
diventano funzionali.
In questo tipo di intervento la modalità principale è quella
dell'insegnamento attraverso prove distinte ("discrete trial teaching -
DTT”). L'insegnamento DTT anche chiamato "insegnamento senza errori"
("errorless learning"):
- viene svolto in un ambiente che elimina le distrazioni che possono
impedire l'apprendimento;
- scompone le abilità in parti più comprensibili per il bambino;
- insegna una parte dell'abilità per volta;
- fornisce aiuti al bambino;
- usa i principi dell'ABA (in modo particolare i principi dell'uso corretto del
rinforzo).
Questo tipo di insegnamento è particolarmente adatto ai bambini.
Sappiamo che questi bambini riescono a imparare relativamente poco in
modo spontaneo dal loro ambiente naturale. Infatti non osservando bene
le persone che li circondano non si servono di una delle tecniche di
apprendimento umano più importante ovvero l'osservazione e l'imitazione.
Questi bambini non sono intrinsecamente gratificati a compiere molte
azioni quindi il processo di apprendimento non è il processo spontaneo di
azione-gratificazione sociale intrinseca come è invece per i bambini a
sviluppo tipico. L'insegnamento DTT è molto adatto per i bambini autistici
perchè è un metodo che riesce a superare tutti questi impedimenti
nell'apprendimento. Il bambino a sviluppo tipico non ha bisogno di premi
artificiali per mostrare alla madre il suo disegno. Infatti egli è
intrinsecamente gratificato dalla reazione della madre (esattamente come
il neonato prova piacere intrinseco a sorridere alla mamma). Il bambino
autistico non trova il rinforzo naturale e intrinseco in queste situazioni. Il
metodo di insegnamento DTT sostituisce, con un rinforzo artificiale, il
rinforzo naturale e intrinseco che il bambino tipico trova spontaneamente
nel suo ambiente dando così al bambino autistico un motivo per compiere
le azioni (imitare, produrre suoni, ecc.) che lo porteranno allo sviluppo di
abilità quali imparare guardando i coetanei, parlare, utilizzare il gioco
simbolico, ecc.
Inizialmente queste abilità saranno “meccaniche”. Il bambino le eseguirà
esclusivamente per avere il suo "premio". Ma la generalizzazione di
queste abilità iniziali è parte integrante della programmazione.
L'obiettivo finale è infatti l'uso spontaneo delle abilità in contesti sempre
più naturali.
1. Obiettivi dell'intervento;
2. L'ambiente fisico;
3. La raccolta dati.
4. Strutturazione della terapia.
1. Gli obiettivi si concentrano sulle seguenti abilità: il linguaggio, la
comunicazione, il gioco, la socializzazione e le autonomie. Gli
obiettivi sono individualizzati per ogni bambino, ma seguono un
filo logico di programmazione.
2. L'ambiente fisico deve facilitare l'apprendimento e al tempo
stesso risultare più comodo e gradevole possibile. È necessario
eliminare potenziali distrazioni e tali distrazioni variano a
seconda del bambino (ad es. un bambino che si autostimola
visivamente non deve lavorare in un ambiente ricco di stimoli
visivi così come un bambino che è distratto da rumori
ambientali dovrebbe invece lavorare in un ambiente silenzioso).
Le prove discrete di solito vengono fatte con il bambino e
l'adulto seduti uno di fronte all'altro, con un tavolino dell'altezza
del bambino. Potrebbe essere utile un secondo tavolino per
l'adulto, per appoggiare il quaderno e altri materiali.
3. I dati sono raccolti durante tutte le sessioni. I dati raccolti
servono come documentazione della programmazione della
terapia.
4. Le attività svolte con le prove discrete a tavolino vengono
alternate con piccole pause. A seconda del protocollo di terapia
comportamentale su cui ci si basa i tempi dedicati alle attività a
tavolino e al gioco variano. I tempi consigliati sono di circa 5
minuti sia per svolgere le attività a tavolino sia per vivere il
momento ludico. Se il bambino possiede delle abilità di gioco
funzionale potrà giocare per conto suo durante le pause,
altrimenti sarà seguito dall'adulto anche in questi momenti.
Durante queste pause non gli dovrebbe essere permesso di
autostimolarsi.
Le attività più difficili vanno alternate con quelle più facili. Il tutto deve
svolgersi con il ritmo più adatto per quel bambino: abbastanza veloce per
mantenere l'attenzione del bambino ma non così veloce da frustrarlo. La
terapia va strutturata in modo personalizzato rispetto al singolo bambino e
quindi varia considerevolmente da soggetto a soggetto.
Teacch
Il programma TEACCH (Trattamento ed Educazione di bambini con
Autismo ed Handicap nella Comunicazione) è un trattamento nato
nell’ambito del Dipartimento di psichiatria dell’Università della Carolina del
nord degli anni sessanta. Il merito è quello di investire due grandi filoni: da
una parte vi sono lo studio, la ricerca e la diffusione delle conoscenze sul
fenomeno dell’autismo e dall’altra la costruzione di curricula, di strumenti
educativi, di valutazione e di intervento.
Alcuni studiosi di questo programma fanno presente, giustamente, che
non esiste un metodo Teacch da apprendere per poi applicare con ogni
alunno autistico, bensì esistono strumenti di diagnosi e di valutazione
elaborati da Chapel Hill (CARS, PEP, AAPEP), nonché esperienze,
modelli, suggerimenti e modalità di lavoro, che nel loro complesso
formano un patrimonio per chiunque abbia intenzione di attingervi e di
esplorare utili indicazioni operative.
Il programma Teacch può considerarsi un punto di riferimento attraverso
cui acquisire conoscenze e abilità nella consapevolezza che il modello che
ne scaturisce va integrato con ciò che fa già parte del proprio bagaglio
professionale.
Rappresenta una modalità di presa in carico globale della persona:
consiste infatti in un sistema di servizi che comprende scuola, centri
riabilitativi, strutture e case-famiglia per adulti. All’interno del programma
TEACCH sono state messe a punto metodologie e strategie educative
basate sull’educazione strutturata e su un approccio cognitivo-
comportamentale. Queste metodologie sono state rielaborate e proposte
anche in Europa e negli ultimi anni sono molte le realtà italiane che vi
hanno fatto riferimento, cercando di adattarle a una realtà sociale e
culturale diversa, che prevede, tra l’altro, l’integrazione scolastica.
Le priorità principali sono: concentrarsi sull’individuo, capire l’autismo,
adottare gli aggiustamenti appropriati ed un’ampia strategia d’intervento
che va costruita partendo dalle abilità e dagli interessi già esistenti. È
necessario capire le persone con autismo così come sono e costruire un
programma su ogni persona; questo non porta ad aspettative troppo
basse o troppo alte, ma richiede che si parta da dove le persone sono al
momento e si lavori per aiutarle a svilupparsi fin dove possono. Questo è
un approccio diverso rispetto allo sposare un modello di comportamento
normale uguale per tutti e pretendere che un autistico si adatti a tale
modello. Organizzare l’ambiente, sviluppare sistemi di lavoro schematici,
fare richieste chiare ed esplicite ed utilizzare materiali visivi ha favorito lo
sviluppo di abilità, consentendo così agli autistici di utilizzare tali abilità
indipendentemente dagli adulti.
L’approccio Teacch tiene conto di tutti gli aspetti della vita della persona
autistica e della sua famiglia. Pur enfatizzando la capacità di lavorare in
maniera indipendente, bisogna riconoscere che la vita non è solo lavoro, e
che anche la comunicazione e la capacità di socializzare e di divertirsi
possono essere imparate dagli autistici, ed hanno un importante impatto
sul loro benessere. Quindi, una parte importante del Teacch è finalizzata a
sviluppare abilità comunicative, a incrementare interessi sociali e tempo
libero, e ad incoraggiare l’autistico a partecipare a tali opportunità. Una
collaborazione attiva nell’intervento da parte dei familiari è una qualità
fondamentale per il successo del programma e la loro testimonianza è
indispensabile per una carretta valutazione delle capacità del soggetto,
delle sue potenzialità e del suo livello di sviluppo. È importante che il
bambino, durante l’apprendimento, possa essere gratificato da frequenti
successi: una volta valutate le sue capacità, i compiti proposti saranno
quindi scelti non fra le attività in cui fallisce, ma fra le abilità emergenti,
cioè fra le prestazioni che il bambino riesce a portare a termine con l’aiuto
dell’adulto. Se il bambino dispone di un buon programma, apprende in un
tempo ragionevole; se l’apprendimento non avviene a breve termine, è il
programma che non funziona e che deve essere rivisto.
Bisogna ricordare però, l’approccio di tipo TEACCH, pur utilizzando
tecniche comportamentali come il rinforzo, non è di tipo strettamente
comportamentale: infatti, piuttosto che forzare il bambino a modificare il
proprio comportamento, si preferisce modificare l’ambiente in modo che
l’apprendimento sia reso più agevole, presentandogli progressivamente le
difficoltà, tutto ciò per far sì che la persona venga rispettata nella sua
diversità. Lo scopo quindi, del programma educativo è di favorire lo
sviluppo dell’individuo, la sua integrazione sociale e l’autonomia, tenendo
conto dei deficit specifici che il disturbo artistico comporta. Uno degli
obiettivi essenziali è che nell’età adulta la persona autistica possa
integrarsi con gli altri membri della società e di permettergli di gestire al
meglio la propria vita quotidiana.
L’intervento prevede, nella sua versione originale, un alto numero di ore di
insegnamento (fino a 40 settimanali) e l’utilizzo di rinforzi sia positivi che
negativi. Le singole abilità che ci si propone di far apprendere al bambino
vengono suddivise in singole sottounità. L’intervento prevede la
registrazione obiettiva dei comportamenti che ci si propone di far acquisire
o di estinguere. Questo tipo di intervento, che è stato anche
accompagnato da ricerche che ne hanno dimostrato la relativa efficacia, si
è successivamente modificato per far fronte a uno dei principali limiti
osservati: quello di avere una scarsa efficacia nella generalizzazione degli
apprendimenti. Il bambino poteva, cioè, apprendere un’abilità nel contesto
di apprendimento ma non riuscire poi a utilizzarla nei contesti di vita
quotidiana o in presenza di altre persone.
Quali sono le linee guida per capire qual è il trattamento più adeguato?
1) Innanzitutto l’intervento deve essere precoce, poiché è dimostrato
che interventi precoci hanno esiti migliori; è stato dimostrato che
un intervento precoce (in età prescolare) della durata di almeno
due anni produce esiti migliori, includendo nel 75% dei casi il
linguaggio e mostrando un incremento delle performance
cognitive.
2) L’intervento dovrà essere prevalentemente educativo e prevedere
almeno 25 ore settimanali, distribuite nei veri contesti di vita
3) L’intervento deve prevedere adeguate valutazioni (informali e
standardizzate) sia all’inizio che in itinere.
4) L’intervento deve prevedere un insegnamento individualizzato
basato sull’educazione strutturata e su strategie di tipo cognitivo-
comportamentale
5) L’intervento deve comprendere interventi specifici per lo sviluppo
della comunicazione.
6) Il trattamento dovrà proporsi il raggiungimento della più ampia
autonomia possibile del soggetto insieme al miglioramento della
qualità della vita della famiglia.
7) Il trattamento farmacologico può integrare gli interventi
psicoeducativi e rappresenta un intervento essenzialmente di tipo
sintomatico (Masi, Millepiedi, Cosenza e Mucci, 2003).
8) Le metodologie più validate a livello scientifico sono quelle che
utilizzano strategie di tipo cognitivo-comportamentale, in
particolare quelle che prevedono una generalizzazione
dell’intervento ai contesti quotidiani
Utilizzo di supporti visivi per la comunicazione e per il comportamento (l’informazione visiva rende concreta l’informazione verbale):
Lavagne relative alle scelte
Schede visive delle attività
Carte del Prima e del Dopo
Sistemi di lavoro indipendente
Utilizzo delle procedure di rinforzo
Varietà dei materiali
Obiettivi: Dare prevedibilità
Insegnare abilità funzionali
Sviluppare una comunicazione spontanea
Sviluppare il lavoro indipendente
Usare conseguenze naturali per correggere
i comportamenti
Comunicazione: qualsiasi scambio di informazioni tra persone (attraverso gesti, espressioni del viso, suoni, simboli scritti, ecc.)
• Il linguaggio umano è un mezzo di comunicazione che ci permette di
comunicare in modo molto preciso. Ogni lingua è un codice di simboli
arbitrariamente scelti che rappresentano oggetti, concetti e fatti.
Comunicare non necessariamente significa parlare.
• La Comunicazione deve essere bi-direzionale.
• La discussione sulla comunicazione si basa sul “Comportamento
Verbale” (Verbal Behavior, 1957) di B.F. Skinner
• Imitativo (Echoic)
• Richieste (Mand)
• Etichette (Tact)
• Intra-Verbale (Intra-verbal)
• Ecolalico: quando ripetiamo la parola appena sentita
• Comunicativo (Legato a Richieste): quando diciamo “hamburger”
perchè vogliamo un hamburger
• Nominativo (legato ad un riconoscimento): quando diciamo la parola
“hamburger” in quanto lo abbiamo appena visto. Es. “Stanno
mangiando un hamburger”.
• Intraverbale: quando usiamo la parola hamburger in risposta ad una
domanda. Es. “Che cosa ti piace mangiare? – L’hamburger.”
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