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Struttura dell'illecito aquiliano, risarcimento in forma specifica,
casistica pretoria significativa sulle figure codicistiche ed
extracodicistiche di responsabilità.
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Indice
1. FUNZIONE DELLA RESPONSABILITÀ AQUILIANA E DANNI PUNITIVI
1.1 DANNI PUNITIVI: LA PAROLA ALLE SEZIONI UNITE : Corte di
Cassazione, ordinanza del 16.5.2016, n. 9978;
1.2 ASTREINTES: Corte di Cassazione, sentenza del 15 aprile 2015, n. 7613
2. DANNO AMBIENTALE
2.1 Corte Cost. 1 giugno 2016, n. 126;
2.2 Cons. Stato 7 novembre 2016, n. 4647;
2.3 Corte giust 2015 n. 534;
3. RESPONSABILITÀ PER ESERCIZIO DI ATTIVITÀ PERICOLOSE
3.1 Cassazione Civile, sez. III, sentenza 27/11/2015 n. 24211;
3.2 Cassazione civile sez. III 10 ottobre 2014 n. 21426;
4. RESPONSABILITÀ DA COSE IN CUSTODIA
4.1 Corte di Cassazione, sentenza del 27 giugno 2016, n.13222;
4.2 Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 22 marzo 2016, n. 5622;
5. RESPONSABILITÀ PER ROVINA DI EDIFICIO
Corte di Cassazione, sez. III civile, sentenza 10 giugno 2016, n.12041;
6. RESPONSABILITÀ EX ART. 2049
Corte di Cassazione, sentenza n. 12283 del 2016;
7. RESPONSABILITÀ DELLO STATO
Corte di Cassazione, sentenza del 22 novembre 2016, n. 23730.
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Selezione giurisprudenziale
1. FUNZIONE DELLA RESPONSABILITÀ AQUILIANA E DANNI PUNITIVI
1.1 DANNI PUNITIVI: LA PAROLA ALLE SEZIONI UNITE : Corte di
Cassazione, ordinanza del 16.5.2016, n. 9978;
La prima sezione della Corte di Cassazione rimette alle Sezioni Unite la questione della compatibilità dei
danni punitivi con l'ordine pubblico.
Secondo l'orientamento tradizionale, la sentenza straniera che riconosca danni punitivi non sarebbe delibabile
per contrasto con l'ordine pubblico. Ed infatti, il sistema della responsabilità civile nell'ordinamento nazionale,
affrancatosi da quello della responsabilità penale, si caratterizza per una funzione reintegratoria/riparatoria e
non punitiva.
Tuttavia l'ordinanza di rimessione evidenzia un'evoluzione in materia di nozione di ordine pubblico e
un'apertura legislativa a favore di rimedi risarcitori con funzione non riparatoria ma sanzionatoria.
(omissis) 3.- L'orientamento contrario alla riconoscibilità delle sentenze straniere di condanna al pagamento di
somme a titolo di danni punitivi (espresso da Cass. n. 1183 del 2007) è rinforzato dall'affermazione secondo cui a
giustificare il diniego di riconoscimento è sufficiente, in sostanza, anche solo il dubbio dell'esistenza di una
condanna ai punitive damages, non essendo "sintomatica l'assenza nella pronuncia straniera di esplicito rinvio
all'istituto" in esame (in tal senso Cass. n. 1761 del 2012). Secondo quest'ultima sentenza, "la mancanza di
motivazione nella sentenza straniera, che in linea di principio non integra in sé una violazione dell'ordine
pubblico (cfr. Cass. n. 9247 del 2002, n. 3365 del 2000), non può mantenere un significato neutro ai fini del
riconoscimento in Italia", nel caso in cui manchi "qualsiasi indicazione positiva circa la causa
giustificativa della statuita attribuzione patrimoniale e sia omesso [il] richiamo in essa e nella
impugnata sentenza a regole legali e/o criteri esteri propri della liquidazione del danno in questione e
nella specie applicabili". Al giudice della delibazione, ai fini della verifica di compatibilità con l'ordine
pubblico (inteso come) interno, si chiede di "conoscere i criteri legali in concreto applicati dal giudice
straniero nell'adozione della pronuncia, e segnatamente, con riferimento al tema controverso, quelli
seguiti per qualificare la responsabilità e le conseguenti voci di danno ristorabili, onde evincere la causa
giustificatrice dell'attribuzione" e, in sostanza, di controllare la "ragionevolezza e proporzionalità del
liquidato in sede estera in rapporto non solo alle specificità dell'illecito ed alle patite conseguenze, ma
anche ai criteri risarcitori interni". A questa metodologia decisoria si è sottratta la Corte veneziana (omissis) La
Corte, in tal modo, non ha fatto applicazione di un principio - della non delibabilità, per contrasto con
l'ordine pubblico, della sentenza straniera che riconosca danni punitivi - la cui attuale vigenza
nell'ordinamento suscita, in effetti, perplessità. 4.- E' necessaria una premessa sull'ambito applicativo del
principio di ordine pubblico, a norma degli artt. 16, 64 e 65 della legge n. 218 del 1995. La giurisprudenza di
legittimità ha compiuto una progressiva evoluzione nell'interpretazione del principio di ordine pubblico
(cui si aggiungeva, nell'abrogato art. 31 disp. sulla legge in generale, il richiamo al buon costume), inteso
originariamente come espressione di un limite riferibile all'ordinamento giuridico nazionale, costituito
dal complesso dei principi che, tradotti in norme inderogabili o da queste desumibili, informano
l'ordinamento giuridico e concorrono a caratterizzare la struttura etico-sociale della società nazionale in
un determinato momento storico (vd. Cass. n. 3881 del 1969 e n. 818 del 1962, quest'ultima escludeva che il
principio andasse inteso in senso internazionale, astratto o 10 universale); successivamente, si è ritenuto che
l'indagine sulla conformità all'ordine pubblico andasse riferita all'ordine pubblico interno se la
sentenza da riconoscere riguardava cittadini italiani e all'ordine pubblico internazionale se riguardava
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(soltanto) cittadini stranieri (vd. Cass. n. 228 del 1982); nella giurisprudenza più recente prevale il riferimento
all'ordine pubblico internazionale, da intendersi come complesso dei principi fondamentali
caratterizzanti l'ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma fondati su esigenze di
tutela dei diritti fondamentali dell'uomo comuni ai diversi ordinamenti e desumibili, innanzi tutto, dai
sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria (vd., tra le tante,
Casa. n. 1302 e 19405 del 2013, n. 27592 del 2006, n. 22332 del 2004, n. 17349 del 2002, n. 2788 del 1995).
Questa evoluzione del concetto di ordine pubblico segna un progressivo e condivisibile allentamento
del livello di guardia tradizionalmente opposto dall'ordinamento nazionale all'ingresso di istituti
giuridici e valori estranei, purché compatibili con i principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla
Costituzione, ma anche dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e,
indirettamente, dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (si è osservato, in dottrina, che il nostro
ordinamento si propone, in tal modo, di 11 salvaguardare la stessa comunità internazionale che trova la sua difesa
anche negli ordinamenti interni dei vari Stati). Se ne ha conferma nella normativa comunitaria, che esclude il
riconoscimento (ora previsto come automatico) nei soli casi di "manifesta" contrarietà all'ordine pubblico (vd., ad
es., l'art. 34 del regol. CE 22 dicembre 2001 n. 44, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e
l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale; l'art. 26 del regol. CE 11 luglio 2007 n. 864, sulla
legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali; l'art. 22 e 23 del regol. CE 27 novembre 2003, n. 2201, in
tema di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e della responsabilità genitoriale;
l'art. 24 del regol. CE 18 dicembre 2008, n. 4/2009, in materia di obbligazioni alimentari); nella giurisprudenza
comunitaria, dove il ricorso alla nozione di ordine pubblico presuppone l'esistenza di una minaccia reale, attuale e
grave nei confronti di un interesse fondamentale della società (vd. Corte giust. DE, 4 ottobre 2012, C-249/11,
per giustificare le deroghe alla libera circolazione delle persone invocabili dagli Stati membri) e nella
giurisprudenza di legittimità. Quest'ultima ha evidenziato come il rispetto dell'ordine pubblico debba essere
garantito, in sede di controllo della legittimità dei provvedimenti giudiziari e degli atti stranieri, avendo riguardo
non già all'astratta formulazione della disposizione straniera o alla correttezza della soluzione adottata alla luce
dell'ordinamento straniero o di quello italiano, bensì "ai suoi effetti" (come ribadito da Cass. n. 9483 del 2013), in
termini di compatibilità con il nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento (nel senso che le norme
espressive dell'ordine pubblico sono quelle fondamentali e non coincidono con quelle, di genere più ampio,
imperative o inderogabili, vd. Cass. n. 4040 del 2006, n. 13928 del 1999, n. 2215 del 1984, sicché il contrasto con
queste ultime non costituisce, di per sé solo, impedimento all'ingresso del provvedimento straniero). In altri
termini, l'ordine pubblico non si identifica con quello esclusivamente interno, poiché, altrimenti, le norme di
conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all'applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a
quelle italiane, cancellando la diversità tra i sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale
privato (è chiara in tal senso Cass. n. 10215 del 2007). Se è acquisito che l'ordine pubblico è costituito non dalle
singole norme del nostro ordinamento, ma dai principi fondamentali di esso (vd., in linea di principio, già Cass.
n. 543 del 1980), non è chiaro come individuare l'esistenza di tali principi e, in particolare, se sia possibile
individuarli immediatamente nelle norme di legge ordinarie (come sembra ricavarsi da Cass. n. 2215 del 1984),
ipotizzando, ad esempio, un collegamento funzionale con disposizioni costituzionali. In realtà, non può essere
indicativo dell'esistenza di un principio di ordine pubblico il solo fatto che il legislatore ordinario abbia
esercitato la propria discrezionalità, in una determinata direzione, con riferimento a materie e istituti
giuridici la cui regolamentazione non sia data direttamente dalla Costituzione, ma sia rimessa allo
stesso legislatore (in presenza di una riserva di legge o, entro certi limiti, di norme costituzionali
programmatiche). Come efficacemente rilevato in dottrina, se il legislatore è libero di atteggiarsi come meglio
ritiene, allora potranno avere libero ingresso prodotti giudiziali stranieri applicativi di regole diverse, ma
comunque non contrastanti con valori costituzionali essenziali o non incidenti su materie disciplinate
direttamente dalla Costituzione. Non è conforme a questa impostazione, ad esempio, l'orientamento che, in
passato, negava ingresso alle sentenze straniere di divorzio, solo perché la legislazione ordinaria dell'epoca
stabiliva l'indissolubilità del matrimonio (vd. Cass. n. 3444/1968), sebbene detta indissolubilità non esprimesse
alcun principio o valore costituzionale essenziale. La progressiva riduzione della portata del principio di ordine
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pubblico, tradizionalmente inteso come clausola di sbarramento alla circolazione dei valori giuridici - cui tende,
invece, il sistema del diritto internazionale privato - è coerente con la storicità della nozione e trova un limite
soltanto nella potenziale aggressione del prodotto giuridico straniero ai valori essenziali dell'ordinamento interna,
da valutarsi in armonia con quelli della comunità internazionale. Il giudice della delibazione, al quale è affidato
il compito di verificare preventivamente la compatibilità della norma straniera con tali valori, desumibili
direttamente da norme e principi sovraordinati (costituzionali e internazionali), dovrà negare il contrasto in
presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con l'assetto normativa interno, quando
questo rappresenti una delle diverse modalità di attuazione del programma costituzionale, quale risulti
dall'esercizio della discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico. Si tratta di un
giudizio simile a quello di costituzionalità, ma preventivo e virtuale, dovendosi ammettere il contrasto con
l'ordine pubblico soltanto nel caso in cui al legislatore ordinario sia precluso di introdurre,
nell'ordinamento interno, una ipotetica norma analoga a quella straniera, in quanto incompatibile con i
valori costituzionali primari (già secondo Corte cost. n. 214 del 1983, la verifica del rispetto dei principi
supremi dell'ordinamento costituzionale costituisce un "passaggio obbligato della tematica dell'ordine pubblico").
5.- In questa prospettiva, non dovrebbe considerarsi pregiudizialmente contrario a valori essenziali
della comunità internazionale (e, quindi, all'ordine pubblico internazionale) l'istituto di origine
nordamericana dei danni non risarcitori, aventi carattere punitivo: una statuizione di tal genere potrebbe
esserlo, in astratto, solo quando la liquidazione sia giudicata effettivamente abnorme, in conseguenza di una
valutazione, in concreto, che tenga conto delle "circostanze del caso di specie e dell'ordinamento giuridico dello
Stato membro del giudice adito" (è in tal senso il Considerando 32 del regol. CE 11 luglio 2007, n. 864, sulla
legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali). Analoghe indicazioni provengono dal diritto comparato:
(omissis) 6. - Venendo alle ragioni che hanno indotto questa Corte a negare l'ingresso, nel nostro ordinamento, di
sentenze straniere contenenti statuizioni di condanna ai danni punitivi, il leading case è la sentenza di questa
Corte n. 1183 del 2007, che ha riguardato un caso, analogo a quello in esame, di responsabilità da prodotto
difettoso per i vizi di un casco da motociclista. Ne è stata tratta la seguente massima: "Nel vigente ordinamento
alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha
subito la lesione, anche mediante l'attribuzione al danneggiato di una somma di denaro che tenda a eliminare le
conseguenze del danno subito mentre rimane estranea al sistema l'idea della punizione e della sanzione
del responsabile civile ed è indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta. quindi incompatibile
con l'ordinamento italiano l'istituto dei danni punitivi che, per altro verso, non è neanche riferibile alla
risarcibilità dei danni non patrimoniali o morali. Tale risarcibilità è sempre condizionata all'accertamento della
sofferenza o della lesione determinata dall'illecito e non può considerarsi provata 'in re ipsa'. inoltre esclusa la
possibilità di pervenire alla liquidazione del danni in base alla considerazione dello stato di bisogno del
danneggiato o della capacità patrimoniale dell'obbligato". In senso analogo si è espressa la già citata Cass. n. 1781
del 2012, la quale ha precisato che, altrimenti, vi sarebbe un arricchimento senza una causa giustificatrice
dello spostamento patrimoniale da un soggetto all'altro (anche secondo Cass. n. 15814/2008, in linea
generale, "ne/ vigente ordinamento diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto
soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all'effettivo pregiudizio subito
dal titolare del diritto leso né il medesimo ordinamento consente l'arricchimento se non sussista una causa
giusrificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro"). Secondo Cass., sez. un., n. 15350 del
2015, in tema di risarcibilità del cd. danno tanatologico, "i danni risarcibili sono solo quelli che consistono nelle
perdite che sono conseguenza della lesione della situazione giuridica soggettiva e non quelli consistenti
nell'evento lesivo, in sé considerato"; pertanto, "la progressiva autonomia della disciplina della
responsabilità civile da quella penale ha comportato l'obliterazione della funzione sanzionatoria e di
deterrenza (v., tra le tante, Cass. n. 1704 del 1997, n. 3592 del 1997, n. 491 del 1999, n. 12253 del 2007, n.
6754/2011) e l'affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria)". 7.- E'
dubbio, tuttavia, se la funzione riparatoria- compensativa, seppur prevalente nel nostro ordinamento,
sia davvero l'unica attribuibile al rimedio risarcitorio e se sia condivisibile la tesi che ne esclude, in
radice, qualsiasi sfumatura punitiva-deterrente (una parte della dottrina, infatti, auspica un parziale recupero
7
della categoria dell'"illecito civile", cui si connette la funzione preventiva o deterrente del rimedio risarcitorio,
quale strumento più adeguato per la tutela dei diritti fondamentali della persona); è anche dubbio se al
riconoscimento di statuizioni risarcitorie straniere, con funzione sanzionatoria, possa opporsi un
principio di ordine pubblico desumibile da categorie e concetti di diritto interno, finendo, in tal modo,
per trattare la sentenza straniera come se fosse una sentenza di merito emessa da un giudice italiano
(come rilevato dalla dottrina, espressasi in senso prevalentemente critico rispetto ai precedenti di questa Corte del
2007 e del 2012). E soprattutto, si dovrebbe dimostrare che la funzione del rimedio risarcitorio,
attualmente configurato in termini esclusivamente compensatori, assurga al rango di un valore
costituzionale essenziale e imprescindibile del nostro ordinamento, rispetto al quale (secondo la proposta
metodologica delineata sub p. 4) non sarebbe consentito neppure al legislatore ordinario di derogarvi,
conclusione questa cui, però, non si spinge neppure la citata Cass., sez. un., n. 15350 del 2015. In realtà, si deve
tenere conto sia dello scopo del giudizio delibatorio che è di dare ingresso nell'ordinamento interno non alla
legge straniera, ma ad una sentenza o ad un atto, nell'ambito di uno specifico rapporto giuridico, con limitata
incidenza sul piano del diritto interno - sia della "evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso
una funzione anche sanzionatoria e deterrente" (come rilevato da Cass. n. 7613 del 2015 - che, nonostante le
differenze, ha evidenziato i "tratti comuni" tra i. punitive damages e le astraintes, queste ultime non implicanti
alcuna incompatibilità con l'ordine pubblico - e da una parte della dottrina, la quale ha osservato che la funzione
anche afflittiva del risarcimento del danno non patrimoniale non era estranea ai lavori preparatori del codice
civile, nei casi di particolare intensità dell'offesa all'ordine giuridico). E' il segno della dinamicità o
polifunzionalità del sistema della responsabilità civile, nella prospettiva della globalizzazione degli
ordinamenti giuridici in senso transnazionale, che invoca la circolazione delle regole giuridiche, non la loro
frammentazione tra i diversi ordinamenti nazionali. 8.- Tale evoluzione è testimoniata da numerosi indici
normativi che segnalano la già avvenuta introduzione, nel nostro ordinamento, di rimedi risarcitori con
funzione non riparatoria, ma sostanzialmente sanzionatoria. Si possono segnalare, a titolo solo
esemplificativo, i seguenti: - l'art. 12 della legge 8 febbraio 1948 n. 47, che, in materia di diffamazione a mezzo
stampa, prevede il pagamento di una somma "in relazione alla gravità dell'offesa ed alla diffusione dello
stampato"; - l'art. 96, comma 3 (aggiunto dall'art. 45 della legge 18 giugno 2009, n. 69), c.p.c., che prevede la
condanna della parte soccombente al pagamento di una "somma equitativamente determinata", in funzione
sanzionatoria dell'abuso del processo (nel processo amministrativo vd. l'art. 26, comma 2, del d.lgs. 2 luglio 2010,
n. 104); - l'art. 709 tel o.p.c. (inserito dall'art. 2 della legge 8 febbraio 2006 n. 54), in base al quale, nelle
controversie tra i genitori circa l'esercizio della responsabilità genitoriale o le modalità di affidamento della prole,
il giudice ha il potere di emettere pronunce di condanna al risarcimento dei danni, la cui natura assume
sembianze punitive; - gli artt. 158 della legge 22 aprile 1941, n. 633 e, soprattutto, 125 del d.lgs. 10 febbraio 2005,
n. 30 (proprietà industriale), che riconoscono al danneggiato un risarcimento corrispondente ai profitti realizzati
dall'autore del fatto, connotato da una funzione preventiva e deterrente, laddove l'agente abbia lucrato un
profitto di 21 a maggiore entità rispetto alla perdita subita dal danneggiato, sebbene il cons. 26 della direttiva CE
(cd. Enforcement) 29 aprile 2004, n. 48 (sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale), attuata dal d.lgs. 16
marzo 2006, n. 140 (v. art. 158), abbia precisato che "il fine non è quello di introdurre un obbligo di prevedere un
risarcimento punitivo" (Cass. n. 8730 del 2011 ne ammette la "funzione parzialmente sanzionatoria, in guanto
diretta anche ad impedire che l'autore dell'illecito possa farne propri i vantaggi"); - l'art. 187 undecies, coma 2, del
d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (in tema di intermediazione finanziaria), che prevede, nei procedimenti penali per i
reati di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, che la Consob possa costituirsi parte
civile e "richiedere, a titolo di riparazione dei danni cagionati dal reato all'integrità del mercato, una somma
determinata dal giudice, anche in via equitativa, tenendo comunque conto dell'offensività del fatto, delle qualità
del colpevole e dell'entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato"; - il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 (artt.
3-5), che ha abrogato varie fattispecie di reato previste a tutela della fede pubblica, dell'onore e del patrimonio e,
se i fatti sono dolosi, ha affiancato al risarcimento del danno, irrogato in favore della parte lesa, lo strumento 22 3
afflittivo di sanzioni pecuniarie civili, con finalità sia preventiva che repressiva (il cui importo è determinato dal
giudice sulla base dei seguenti criteri: gravità della violazione, reiterazione dell'illecito, arricchimento del soggetto
8
responsabile, opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell'illecito, personalità
dell'agente, condizioni economiche dell'agente). (omissis) 9. - Queste le ragioni che inducono il Collegio a
giudicare opportuno un intervento delle Sezioni Unite sul tema della riconoscibilità delle sentenze
straniere comminatorie di danni punitivi. La Corte, visto l'art. 374, secondo comma, c.p.c., rimette gli atti al
Primo Presidente per l'eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, in quanto implicante la soluzione di
una questione di massima di particolare importanza.
1.2 ASTREINTES: Corte di Cassazione, sentenza del 15 aprile 2015, n. 7613
Non si può considerare in contrasto con un principio fondamentale, desumibile dalla Costituzione o da fonti
equiparate, il provvedimento di condanna al pagamento di una somma che si accresce con il protrarsi
dell'inadempimento, impartito da un giudice al fine di coazione all'adempimento di un obbligo infungibile. Al
contrario, la misura comminata tutela il diritto del creditore alla prestazione principale accertata con
provvedimento giudiziale, dunque mira ad assicurare il rispetto di fondamentali e condivisi principi, quali il
giusto processo civile, inteso come attuazione in tempi ragionevoli e con effettività delle situazioni di vantaggio,
ed il diritto alla libera iniziativa economica.
(omissis)
5.3. - Anche l'ordinamento italiano conosce, a fronte dell'inadempimento di obblighi non coercibili in
forma specifica, misure generali e speciali volte ad ottenerne l'adempimento mediante la pressione
esercitata sulla volontà dell'inadempiente a mezzo della minaccia di una sanzione pecuniaria, che si
accresce con il protrarsi o il reiterarsi della condotta indesiderata.
Senza pretese di completezza, si ricordano quelle norme secondo cui il provvedimento che accerta la violazione
fissa una somma per ogni inosservanza o violazione successiva o per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione dei
comandi in esso contenuti: così, in tema di brevetto e marchio, gli art. 86 r.d. 29 giugno 1127, n. 1939 e 66 r.d. 21
giugno 1942, n. 929, abrogati dal d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, che ha dettato a tal fine le misure degli art. 124, 2
comma, e 131, 2 comma; l'art. 140, 7 comma, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, c.d. codice del consumo, dove si
tiene conto della “gravità del fatto”; secondo alcuni, l'art. 709 ter, n. 2 e n. 3, c.p.c., introdotto dalla l. 8 febbraio
2006, n. 54, per le inadempienze agli obblighi di affidamento della prole; l'art. 614 bis c.p.c., introdotto dall'art. 49
l. 18 giugno 2009, n. 69, il quale contempla il potere del giudice di fissare una somma pecuniaria per ogni
violazione ulteriore o ritardo nell'esecuzione del provvedimento, “tenuto conto del valore della controversia,
della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”; l'art. 114
d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, redatto sulla falsariga della norma appena ricordata, che attribuisce analogo potere al
giudice amministrativo dell'ottemperanza.
In altri casi, è il giudice che commina la condanna, ma con riferimento ad un importo determinato in modo
globale una tantum: si menzionano l'art. 12 l. 8 febbraio 1948, n. 47, che prevede una somma aggiuntiva a titolo
riparatorio nella diffamazione a mezzo stampa (cfr. Cass. 17 marzo 2010, n. 6490; 26 giugno 2007, n. 14761) e
l'art. 96, 3 comma, c.p.c., introdotto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69.
Si tratta, nelle suddette disposizioni, di una condanna comminata direttamente dal giudice civile che fissa la
norma del caso concreto; onde parzialmente diverse sono le ipotesi in cui è la legge che direttamente commina
una determinata pena per il trasgressore: come - accanto alle disposizioni penali degli art. 388 e 650 c.p. - l'art. 18,
14 comma, dello statuto dei lavoratori, ove, a fronte dell'accertamento dell'illegittimità di un licenziamento di
particolare gravità, la mancata reintegrazione è scoraggiata da una sanzione aggiuntiva; l'art. 31, 2 comma, l. 27
luglio 1978, n. 392, per il quale il locatore pagherà una somma in caso di recesso per una ragione poi non
riscontrata; l'art. 709 ter, n. 4, c.p.c. che attribuisce al giudice il potere di infliggere una sanzione pecuniaria
aggiuntiva per le violazioni sull'affidamento della prole; o ancora l'art. 4, d.l. 22 settembre 2006, n. 259, convertito
9
in l. 20 novembre 2006, n. 281, in tema di pubblicazione di intercettazioni illegali, che dispone la riparazione
consistente in una somma di denaro determinata in ragione di ogni copia stampata o con riguardo al bacino di
utenza della diffusione avvenuta con mezzo radiofonico, televisivo o telematico (anche se il giudice dovrà tenere
conto, in caso di azione risarcitoria, di quanto così corrisposto).
Deve constatarsi, dunque, che lo strumento di coercizione del comportamento desiderato mediante
condanna giudiziaria ad una somma progressiva a ciò rivolta - nel perseguimento di fini privati, ma a
volte anche superindividuali o generali - è presente nel nostro ordinamento, ed anzi l'area dei diritti
presidiati dallo stesso è venuta man mano ad estendersi.
5.4. - È noto come allo strumento del risarcimento del danno, cui resta affidato il fine primario di
riparare il pregiudizio patito dal danneggiato, vengano ricondotti altri fini con questo eterogenei, quali
la deterrenza o prevenzione generale dei fatti illeciti (posto che la minaccia del futuro risarcimento scoraggia
dal tenere una condotta illecita, anche se, secondo gli approdi dell'analisi economica del diritto, l'obiettivo di
optimal deterrence è raggiunto solo se la misura del risarcimento superi il profitto sperato) e la sanzione
(l'obbligo di risarcire costituisce una pena per il danneggiante).
Si riscontra, dunque, l'evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche
sanzionatoria e deterrente, sulla base di vari indici normativi (quali, ad esempio, l'art. 125 d.lgs. 10 febbraio 2005,
n. 30 sulla violazione di un diritto di proprietà industriale, o l'art. 158 l. 22 aprile 1941, n. 633, come sostituito
dall'art. 5 d.lgs. n. 140 del 2006, sulla protezione del diritto d'autore, che determinano il danno anche tenuto
conto degli utili realizzati in violazione del diritto), specialmente a fronte di un animus nocendi; pur restando la
funzione risarcitoria quella immediata e diretta cui l'istituto è teso, tanto da restare imprescindibile il
parametro del danno cagionato.
5.5. - Risarcimento del danno ed astreinte costituiscono misure fra loro diverse, con funzione l'uno
reintegrativa e l'altra coercitiva al di fuori del processo esecutivo, volta a propiziare l'induzione
all'adempimento.
Parimenti, il danno punitivo ha struttura e funzione non coincidenti con l'astreinte.
A voler individuare, tra questi ultimi, dei tratti comuni, si può pur considerare che entrambi mirano (a coartare)
all'adempimento: l'astreinte di un obbligo ormai posto all'interno della relazione diretta tra le parti, in quanto
derivante dal provvedimento giudiziale (anche qualora in origine si trattasse di illecito extracontrattuale) e da
adempiersi in futuro; il danno punitivo - ma solo se riguardato come previsione normativa astratta fra gli
strumenti a disposizione del giudice adito - all'adempimento futuro dell'obbligo generale del neminem laedere o
dell'obbligazione contrattuale principale, restando però il contenuto suo proprio quello di sanzione per il
responsabile, così che il profilo della coazione ad adempiere si configura con riguardo ad altri potenziali
danneggianti o danneggiati. Insomma, a voler ravvisare in entrambi gli istituti il fine di coartazione della volontà,
si dovrà parlare, da una parte, di funzione deterrente propria, e, dall'altra parte, di una funzione deterrente solo
indiretta.
Il parallelismo si estende in senso inverso, perché l'astreinte, se mira a convincere all'adempimento, ex post
funziona anche come sanzione per il suo contrario.
E, dunque, può pur dirsi che le astreintes e i danni punitivi, già negli ordinamenti di derivazione, operano sia
come strumenti sanzionatori e sia come forme di coazione indiretta all'adempimento.
Eppure, le differenze restano fondamentali: permane il fatto che l'astreinte non ripara il danno in favore
di chi l'ha subito, ma minaccia un danno nei confronti di chi si comporterà nel modo indesiderato.
Allorché la misura pecuniaria sia comminata in aggiunta non alla condanna risarcitoria, ma a quella a consegnare
un bene determinato (come, nella specie, le azioni rappresentative del capitale sociale), l'astreinte si allontana dalla
liquidazione del danno punitivo, presentando i caratteri di una tecnica di tutela di altro tipo, ossia
d'induzione all'adempimento mediante una pressione (indiretta nel senso che non ricorre agli organi dello
Stato, ma diretta per il fine perseguito) a tenere il comportamento dovuto.
5.6. - Se la funzione sua propria è quella di coartare all'adempimento, a tutela del creditore e
dell'interesse generale all'esecuzione dei provvedimenti giudiziari, allora l'astreinte comminata nel
provvedimento del giudice belga non contrasta con l'ordine pubblico italiano.
10
Non si può considerare invero in contrasto con un principio fondamentale, desumibile dalla
Costituzione o da fonti equiparate, il provvedimento di condanna al pagamento di una somma che si
accresce con il protrarsi dell'inadempimento, impartito da un giudice al fine di coazione
all'adempimento di un obbligo infungibile.
Al contrario, la misura comminata tutela il diritto del creditore alla prestazione principale accertata con
provvedimento giudiziale, dunque mira ad assicurare il rispetto di fondamentali e condivisi principi,
quali il giusto processo civile, inteso come attuazione in tempi ragionevoli e con effettività delle
situazioni di vantaggio, ed il diritto alla libera iniziativa economica.
Né rileva che l'art. 614 bis c.p.c., secondo quanto deducono i ricorrenti, non esistesse quando il giudice belga ha
comminato la condanna: a parte il rilievo che la compatibilità con l'ordine pubblico va delibata al momento della
definizione del giudizio di opposizione all'exequatur (cfr. Cass. n. 1782 del 2012), altri indici normativi
nell'ordinamento erano comunque preesistenti (cfr. Cass. 23 settembre 2011, n. 19454).
Sotto il profilo della proporzionalità della misura, pure menzionato dai ricorrenti, basti infine rilevare che
l'astreinte per sua natura lievita in ragione del ritardo nell'adempimento, in quanto la caratteristica
della tecnica di tutela è appunto che più tarda l'attuazione della condotta dovuta, più grande è la
sanzione: onde basta adempiere per evitare l'evento, con la conseguente non contrarietà all'ordine
pubblico anche sotto tale aspetto.
(omissis)
2. DANNO AMBIENTALE
2.1 Corte Cost. 1 giugno 2016, n. 126;
La Corte Costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 311, comma 1,
del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), sollevata, in riferimento agli artt.
2, 3, 9, 24 e 32 della Costituzione, nonché al principio di ragionevolezza, nella parte in cui attribuisce al
Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, e per esso allo Stato, la legittimazione
all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale, escludendo la legittimazione concorrente o
sostitutiva della Regione e degli enti locali sul cui territorio si è verificato il danno.
Secondo la Corte, all’esigenza di unitarietà della gestione del bene “ambiente” non può sottrarsi la fase
risarcitoria. Ciò non esclude però che sussista il potere di agire per il risarcimento del danno subito da parte di
( altri )soggetti quali le istituzioni rappresentative di comunità locali. In proposito, infatti, la Cassazione ha
più volte affermato che la normativa speciale sul danno ambientale si affianca alla disciplina generale del
danno posta dal codice civile.
(omissis)
5.− Le questioni sollevate vanno inquadrate nel contesto della disciplina del danno ambientale.
5.1.− È noto che, sebbene il testo originario della Costituzione non contenesse l’espressione ambiente, né
disposizioni finalizzate a proteggere l’ecosistema, questa Corte con numerose sentenze aveva riconosciuto
(sentenza n. 247 del 1974) la «preminente rilevanza accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute
dell’uomo (art. 32) e alla protezione dell’ambiente in cui questi vive (art. 9, secondo comma)», quali valori
costituzionali primari (sentenza n. 210 del 1987). E la giurisprudenza successiva aveva poi superato la
ricostruzione in termini solo finalistici, affermando (sentenza n. 641 del 1987) che l’ambiente costituiva «un bene
immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e
separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità. Il fatto che
l’ambiente possa essere fruibile in varie forme e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie norme
11
che assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua
sostanza di bene unitario che l’ordinamento prende in considerazione».
Il riconoscimento dell’esistenza di un «bene immateriale unitario» non è fine a se stesso, ma funzionale
all’affermazione della esigenza sempre più avvertita della uniformità della tutela, uniformità che solo lo
Stato può garantire, senza peraltro escludere che anche altre istituzioni potessero e dovessero farsi
carico degli indubbi interessi delle comunità che direttamente fruiscono del bene.
5.2.− L’espressa individuazione, a seguito della riforma del Titolo V, e della materia «tutela
dell’ambiente, dell’ecosistema», all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., quale competenza
esclusiva dello Stato, fotografa, dunque, una realtà già riconosciuta dalla giurisprudenza come
desumibile dal complesso dei valori e dei principi costituzionali.
Essa si accompagna al riconoscimento, nel successivo terzo comma dell’art. 117 Cost., della rilevanza dei
numerosi e diversificati interessi che fanno capo alle Regioni e quindi ai relativi enti territoriali.
Ne risulta così confermato il punto fermo del sistema elaborato dalla giurisprudenza circa la pluralità dei profili
soggettivi del bene ambientale (sentenza n. 378 del 2007).
6.− La prima disciplina organica della materia (la legge 8 luglio 1986, n. 349 “Istituzione del Ministero
dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale”) rispecchiava tale pluralità, prevedendo (art. 18, comma
3) che l’azione di risarcimento del danno ambientale potesse essere promossa «dallo Stato, nonché dagli enti
territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo».
Ciò era coerente con una visione al cui centro era l’introduzione di una peculiare responsabilità di tipo
extracontrattuale connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno ingiusto all’ambiente: in questa
prospettiva civilistica non era illogico collegare l’azione ad ogni interesse giuridicamente rilevante.
7.− Il quadro normativo è tuttavia profondamente mutato con la direttiva 21 aprile 2004, n. 2004/35/CE
(Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale) che, nel recare la disciplina del danno ambientale in termini generali e di
principio, afferma che la prevenzione e la riparazione di tale danno nella misura del possibile «[contribuiscono] a
realizzare gli obiettivi ed i principi della politica ambientale comunitaria, stabiliti nel trattato»; tenendo fermo,
peraltro, il principio «chi inquina paga», pure stabilito nel Trattato istitutivo della Comunità europea (n. 1 e n. 2
del “considerando”).
In particolare, nell’Allegato II della direttiva, che attiene alla «Riparazione del danno ambientale», si pone in luce
come tale riparazione è conseguita riportando l’ambiente danneggiato alle condizioni originarie tramite misure di
riparazione primaria, che sono costituite da «qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi
naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie». Solo qualora la riparazione primaria non dia luogo a un
ritorno dell’ambiente alle condizioni originarie, si intraprenderà la riparazione complementare e quella
compensativa.
7.1.− Il cambiamento di prospettiva, con la conseguente collocazione del profilo risarcitorio in una posizione
accessoria rispetto alla riparazione, è stato fatto proprio dal legislatore, che in sede di attuazione della direttiva,
con il d.lgs. n. 152 del 2006, ha statuito la priorità delle misure di “riparazione” rispetto al risarcimento
per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell’assoluta peculiarità del danno al bene o risorsa
“ambiente”.
Poi, con l’art. 5-bis del decreto-legge n. 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di
obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 20 novembre 2009, n. 166, − per rispondere a una procedura
di infrazione della UE − si è precisato che il danno all’ambiente deve essere risarcito con le misure di riparazione
«primaria», «complementare» e «compensativa» contenute nella direttiva n. 2004/35/CE; prevedendo un
eventuale risarcimento per equivalente pecuniario esclusivamente se le misure di riparazione del danno
all’ambiente fossero state in tutto o in parte omesse, o fossero state attuate in modo incompleto o difforme
rispetto a quelle prescritte ovvero risultassero impossibili o eccessivamente onerose;
Infine, con l’art. 25 della legge 6 agosto 2013, n. 97 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea − Legge europea 2013), per rispondere all’ulteriore contestazione
12
della Commissione europea, si è ulteriormente riordinata la materia, eliminando i riferimenti al risarcimento “per
equivalente patrimoniale” e imponendo per il danno all’ambiente “misure di riparazione” (specificate
dall’Allegato 3 alla Parte sesta del d.lgs. n. 152 del 2006).
7.2.− Di particolare rilievo è l’individuazione dei soggetti che sono tenuti al ripristino. L’adozione delle
misure necessarie è in prima battuta a carico del responsabile del danno, ai sensi dell’art. 311 del d.lgs. n. 152 del
2006, ma lo stesso articolo, al comma 2, prevede che, quando le misure risultino in tutto o in parte omesse, o
comunque realizzate in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, il Ministro dell’ambiente e
della tutela del territorio e del mare procede direttamente agli interventi necessari, determinando i costi delle
attività occorrenti per conseguire la completa e corretta attuazione e agendo nei confronti del soggetto obbligato
per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti.
8.− Le conseguenze del processo evolutivo indotto dalla normativa comunitaria sono chiaramente percepite da
questa Corte quando afferma (sentenza n. 641 del 1987), in ordine all’art. 18 citato, che la legittimazione attiva
dello Stato (e allora degli enti territoriali) trovava il suo fondamento «nella loro funzione a tutela della collettività
[…] e degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio».
La qualificazione in termine di “funzione” manifesta il carattere pubblicistico del ruolo di chi è preposto alla
tutela del bene ambientale, carattere, del resto, confermato dalla modalità del suo esercizio. L’art. 311, più volte
citato, riconosce al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare la possibilità di scegliere tra la
via giudiziaria e quella amministrativa. Nel secondo caso (artt. 313 e 314 del codice dell’ambiente), con ordinanza
immediatamente esecutiva, il Ministero ingiunge a coloro che siano risultati responsabili del fatto il ripristino
ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica entro un termine fissato.
Qualora questi non provvedano in tutto o in parte al ripristino nel termine ingiunto, o all’adozione delle misure
di riparazione nei termini e modalità prescritti, il Ministro determina i costi delle attività necessarie a conseguire la
completa attuazione delle misure anzidette secondo i criteri definiti con il decreto di cui al comma 3 dell’art. 311
e, al fine di procedere alla realizzazione delle stesse, con ordinanza ingiunge il pagamento, entro il termine di
sessanta giorni dalla notifica, delle somme corrispondenti.
8.1.− Questa Corte ha ritenuto in proposito (sentenza n. 235 del 2009), che «la scelta di attribuire
all’amministrazione statale le funzioni amministrative trova una non implausibile giustificazione nell’esigenza di
assicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a
criteri di uniformità e unitarietà, atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e
considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi ecologici, in ragione del quale gli effetti del
danno ambientale sono difficilmente circoscrivibili entro un preciso e limitato ambito territoriale».
In effetti, una volta messo al centro del sistema il ripristino ambientale, emerge con forza l’esigenza di una
gestione unitaria: un intervento di risanamento frazionato e diversificato, su base “micro territoriale”, oltre ad
essere incompatibile sul piano teorico con la natura stessa della qualificazione della situazione soggettiva in
termini di potere (funzionale), contrasterebbe con l’esigenza di una tutela sistemica del bene; tutela che, al
contrario, richiede sempre più una visione e strategie sovranazionali, come posto in evidenza, oltre che dalla
disciplina comunitaria, dall’ultima Conferenza internazionale sul clima tenutasi a Parigi nel 2015, secondo quanto
previsto dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
9.− È in questo contesto normativo e giurisprudenziale che si inserisce la nuova disciplina del potere di agire in
via risarcitoria (d.lgs. n. 152 del 2006), che – contraddittoriamente, secondo il giudice rimettente − ha riservato
allo Stato, ed in particolare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il potere di agire,
anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale (art. 311), e ha
mantenuto solo «il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei
beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi»
(art. 313, comma 7, secondo periodo).
9.1.− La modifica rispetto alla disciplina precedente è in realtà la conseguenza logica del cambiamento di
prospettiva intervenuto nella materia.
All’esigenza di unitarietà della gestione del bene “ambiente” non può infatti sottrarsi la fase risarcitoria.
Essa, pur non essendo certo qualificabile come amministrativa, ne costituisce il naturale completamento, essendo
13
volta a garantire alla istituzione su cui incombe la responsabilità del risanamento, la disponibilità delle risorse
necessarie, risorse che hanno appunto questa specifica ed esclusiva destinazione.
9.2.− (omissis)
10.− Ciò non esclude – come si è visto − che ai sensi dell’art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006 sussista il
potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rappresentative di comunità locali, per i danni
specifici da essi subiti.
La Corte di cassazione ha più volte affermato in proposito che la normativa speciale sul danno
ambientale si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del danno posta
dal codice civile, non potendosi pertanto dubitare della legittimazione degli enti territoriali a costituirsi
parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il
risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola
od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello,
generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di
rilievo costituzionale.
11.− Quanto allo specifico profilo di censura connesso al fatto che la disciplina espone al rischio di una inazione
statuale, specie nel caso di sovrapposizione tra danneggiato e danneggiante, rischio evidenziato – a detta del
ricorrente − dalla mancata costituzione di parte civile, anch’esso è infondato.
A prescindere dalla considerazione che la proposizione della domanda nel processo penale è solo una delle
opzioni previste dal legislatore, potendo lo Stato agire direttamente in sede civile, o in via amministrativa, quel
che conta è che l’interesse giuridicamente rilevante di cui sono portatori gli altri soggetti istituzionali non può che
attenere alla tempestività ed effettività degli interventi di risanamento.
Ebbene, tale interesse è preso in considerazione dall’art. 309 del codice dell’ambiente secondo cui le Regioni, le
Province autonome e gli enti locali, anche associati, oltre agli altri soggetti ivi previsti, «possono presentare al
Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, […] denunce e osservazioni, corredate da
documenti ed informazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno
ambientale e chiedere l’intervento statale a tutela dell’ambiente».
Di tale interesse – suscettibile di tutela giurisdizionale già secondo principi generali − è espressamente prevista
l’azionabilità dinanzi al giudice amministrativo con le relative azioni dal successivo art. 310.
Il sistema, dunque, è idoneo a scongiurare il rischio paventato.
(omissis)
2.2 Cons. Stato 7 novembre 2016, n. 4647;
La direttiva 2004/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità
ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che
non osta a una normativa nazionale la quale, nell'ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile
della contaminazione di un sito o ottenere da quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità
competente di imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non
responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi
effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali
interventi (Conferma della sentenza del T.a.r. Marche, Ancona, sez. I, n. 857/2009).
(omissis)
4.La causa pone la vexata quaestio dei limiti della responsabilità per danno ambientale del proprietario
attuale delle aree interessate da un conclamato fenomeno di inquinamento ( nella specie delle falde
acquifere) non ascrivibile sul piano eziologico alla sfera di azione del proprietario medesimo.
14
5.Giova premettere che l'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, con l' ordinanza n. 21 del 2013 , aveva
rimesso alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea la seguente questione interpretativa: (omissis)
Con sentenza del 4 marzo 2015 (resa nella causa C-534/13), la Corte di Lussemburgo ha confermato e chiarito il
proprio orientamento (invero, già espresso nella sentenza 9 marzo 2010, C- 378/08), non diverso da quello
preponderante emerso nell'ordinamento italiano e richiamato dalla stessa ordinanza di rinvio dell'Adunanza
plenaria, affermando che "la direttiva 2004/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 21 aprile
2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale,
deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale (...) la quale, nell'ipotesi in
cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da
quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente di imporre l'esecuzione
delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della
contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati
dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali
interventi".
La decisione conferma quindi la legittimità, alla luce dei principi desumibili dal diritto Europeo di matrice
unionale, dell'impianto del Codice dell'ambiente che esclude l'imposizione, a carico del proprietario estraneo
all'inquinamento del sito, di misure di prevenzione o di riparazione, fatta eccezione per quelle che il soggetto
intraprenda spontaneamente ai sensi dell'art. 245 cit..
5.Le amministrazioni appellanti assumono che gli interventi imposti alla società qui appellata rientrerebbero
giustappunto nelle misure di emergenza esigibili anche in confronto del proprietario non responsabile
dell'inquinamento il quale, in ogni caso, sarebbe tenuto ad eseguire gli interventi di bonifica prescritti per essersi
prestato alle preliminari attività di monitoraggio delle acque di falda; donde sarebbe pienamente legittimo l'ordine
di messa in sicurezza di emergenza della falda a mezzo della realizzazione di barriere idrauliche in prossimità delle
sorgenti di contaminazione della falda in aggiunta all'eliminazione dei focolai di inquinamento.
6.(omissis) 7.Il Collegio ritiene che la tesi delle amministrazioni appellanti non sia condivisibile e che meriti piena
conferma la impugnata sentenza.
(omissis) Ora, sul punto, è ormai pacifico l'orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio di Stato (ex
multis, Cons. Stato, VI, n. 550 del 2016; Cons. Stato, VI, n. 4225 del 2015) che esclude il coinvolgimento coatto
del proprietario di un'area inquinata, non responsabile dell'inquinamento, nelle attività di rimozione, prevenzione
e messa in sicurezza di emergenza. Al più tale soggetto, in qualità di proprietario dell'area, potrà essere chiamato,
nel caso, a rispondere sul piano patrimoniale e a tale titolo potrà essere tenuto al rimborso delle spese relative agli
interventi effettuati dall'autorità competente ( nella specie, il Comune, ai sensi dell'art. 14 della LR Marche 2
agosto 2006 n. 13, come mod. dalla LR 29 novembre 2013 n. 44) nel limite del valore di mercato del sito
determinato dopo l'esecuzione di tali interventi, secondo quanto desumibile dal contenuto dell'art. 253 del
Codice dell'ambiente.
8. La sentenza merita di essere confermata anche nella parte in cui, pur ravvisando nella specie la sussistenza della
autonoma iniziativa della società proprietaria delle aree nella fase iniziale del procedimento di recupero
ambientale, ha escluso che allo stesso potessero essere addossate le importanti opere di bonifica imposte con i
gravati provvedimenti; e ciò in considerazione della oggettiva difficoltà di assimilare le opere imposte al
proprietario ( barrieramento idraulico delle acque di falda) con quelle di messa in sicurezza di emergenza ( che
risultano conseguenti ad eventi di contaminazione repentina e sono funzionali a contenere la diffusione delle
sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito, in attesa di eventuali
ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente, ai sensi dell' art. 240, comma 1,
lett. m) D.Lgs. n. 152 del 2006).
(omissis)
15
2.3 Corte giustizia 2015 n. 534 in C‑ 534/13;
«Rinvio pregiudiziale – Articolo 191, paragrafo 2, TFUE – Direttiva 2004/35/CE – Responsabilità
ambientale – Normativa nazionale che non prevede la possibilità per l’amministrazione di imporre, ai
proprietari di terreni inquinati che non hanno contribuito a tale inquinamento, l’esecuzione di misure di
prevenzione e di riparazione e che prevede soltanto l’obbligo di rimborsare gli interventi effettuati
dall’amministrazione – Compatibilità con i principi del “chi inquina paga”, di precauzione, dell’azione
preventiva e della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente»
(omissis)
34 Nella sua decisione di rinvio, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato rileva che la giurisprudenza
amministrativa italiana non è concorde sull’interpretazione delle disposizioni della parte IV del codice
dell’ambiente e, più in generale, su quelle relative agli obblighi del proprietario di un sito contaminato.
35 Infatti, mentre una parte della giurisprudenza, basandosi tra l’altro, sui principi di precauzione, dell’azione
preventiva e del «chi inquina paga», propri del diritto dell’Unione, ritiene che il proprietario sia tenuto ad
adottare le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica anche qualora non sia l’autore della
contaminazione, un’altra parte dei giudici italiani esclude, al contrario, qualsiasi responsabilità del
proprietario non responsabile della contaminazione e nega, di conseguenza, che l’amministrazione
possa esigere da tale proprietario misure del genere. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato condivide
quest’ultima opinione, dominante nella giurisprudenza amministrativa italiana.
36 A tale proposito il giudice del rinvio, riferendosi alle sentenze della Corte ERG e a., (C‑ 378/08,
EU:C:2010:126), e ERG e a., (C‑ 379/08 e C‑ 380/08, EU:C:2010:127), si basa su un’interpretazione
letterale del codice dell’ambiente e sui principi della responsabilità civile i quali richiedono un nesso
causale tra la condotta e il danno. L’esistenza di tale nesso sarebbe necessaria al fine di determinare vuoi una
responsabilità soggettiva, vuoi una responsabilità oggettiva per il danno considerato. Il nesso suddetto
mancherebbe nel caso in cui il proprietario non sia l’autore della contaminazione. Di conseguenza, la sua
responsabilità sarebbe fondata unicamente sulla sua qualità di proprietario, non potendo essergli attribuita la
contaminazione né in via soggettiva, né in via oggettiva.
37 In tale contesto, il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la
questione pregiudiziale seguente:
«Se i principi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’articolo 191, paragrafo 2, [TFUE] e dalla
direttiva [2004/35] (articoli l e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) – in particolare, il principio
“chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio della correzione, in
via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella
delineata dagli articoli 244, 245, 253 del [codice dell’ambiente], che, in caso di accertata contaminazione di un sito
e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da
quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle
misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a
carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli
interventi di bonifica».
(omissis)
Sull’applicabilità dell’articolo 191, paragrafo 2, TFUE
(omissis)
40 Di conseguenza, dal momento che l’articolo 191, paragrafo 2, TFUE, che contiene il principio «chi inquina
paga», è rivolto all’azione dell’Unione, detta disposizione non può essere invocata in quanto tale dai privati al fine
di escludere l’applicazione di una normativa nazionale, quale quella oggetto della causa principale, emanata in una
16
materia rientrante nella politica ambientale, quando non sia applicabile nessuna normativa dell’Unione adottata in
base all’articolo 192 TFUE, che disciplini specificamente l’ipotesi di cui trattasi (v. sentenze ERG e a.,
EU:C:2010:126, punto 46; ERG e a., EU:C:2010:127, punto 39, e ordinanza Buzzi Unicem e a., EU:C:2010:129,
punto 36).
41 Parimenti, l’articolo 191, paragrafo 2, TFUE non può essere invocato dalle autorità competenti in materia
ambientale per imporre misure di prevenzione e riparazione in assenza di un fondamento giuridico nazionale.
42 Occorre tuttavia rilevare che il principio «chi inquina paga» può trovare applicazione nelle controversie di
cui al procedimento principale nei limiti in cui esso è attuato dalla direttiva 2004/35. Tale direttiva, adottata sulla
base dell’articolo 175 CE, divenuto l’odierno articolo 192 TFUE, ai sensi della terza frase del considerando 1,
intende garantire la realizzazione «degli obiettivi e dei principi della politica ambientale [dell’Unione], quali
stabiliti nel Trattato» e applica il principio «chi inquina paga» come enuncia il suo considerando 2.
(omissis)
Sui requisiti della responsabilità ambientale
54 Come emerge dagli articoli 4, paragrafo 5, e 11, paragrafo 2, della direttiva 2004/35, in combinato disposto
con il considerando 13 della stessa, affinché il regime di responsabilità ambientale sia efficace, è necessario che
sia accertato dall’autorità competente un nesso causale tra l’azione di uno o più operatori individuabili
e il danno ambientale concreto e quantificabile al fine dell’imposizione a tale operatore o a tali operatori
di misure di riparazione, a prescindere dal tipo di inquinamento di cui trattasi (v., in tal senso, sentenza
ERG e a., EU:C:2010:126, punti 52 e 53, e ordinanza Buzzi Unicem e a., EU:C:2010:129, punto 39).
55 Nell’interpretare l’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), di tale direttiva, la Corte ha considerato che
l’obbligo dell’autorità competente di accertare un nesso causale si applica nell’ambito del regime di
responsabilità ambientale oggettiva degli operatori (v. sentenza ERG e a., EU:C:2010:126, punti da 63 a 65,
e ordinanza Buzzi Unicem e a., EU:C:2010:129, punto 45).
56 Come emerge dall’articolo 4, paragrafo 5, della direttiva 2004/35, detto obbligo sussiste anche
nell’ambito del regime della responsabilità ambientale soggettiva derivante dal comportamento doloso
o colposo dell’operatore di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera b), di tale direttiva nel caso di attività
professionali diverse da quelle di cui all’allegato III di detta direttiva.
57 La particolare importanza del requisito di causalità tra l’attività dell’operatore e il danno ambientale ai fini
dell’applicazione del principio «chi inquina paga» e, di conseguenza, del regime di responsabilità istituito dalla
direttiva 2004/35, emerge altresì dalle disposizioni di quest’ultima riguardanti le conseguenze da trarre dalla
circostanza che l’operatore non abbia contribuito all’inquinamento o al rischio di inquinamento.
(omissis)
59 Allorché non può essere dimostrato alcun nesso causale tra il danno ambientale e l’attività dell’operatore,
tale situazione rientra nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale, alle condizioni ricordate al punto 46 della
presente sentenza (v,. in tal senso, sentenza ERG e a., EU:C:2010:126, punto 59, e ordinanza Buzzi Unicem e a.,
EU:C:2010:129, punti 43 e 48).
60 Orbene, nella specie, dagli elementi forniti alla Corte e dalla formulazione stessa della questione
pregiudiziale emerge che le appellate nel procedimento principale non hanno contribuito alla formazione dei
danni ambientali di cui trattasi, circostanza che spetta al giudice del rinvio confermare.
61 È ben vero che l’articolo 16 della direttiva 2004/35 prevede, conformemente all’articolo 193 TFUE, la
facoltà per gli Stati membri di mantenere e adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale, compresa, in particolare, l’individuazione di altri soggetti responsabili, a
condizione che tali misure siano compatibili con i Trattati.
62 Tuttavia, nella specie, è pacifico che, secondo il giudice del rinvio, la normativa di cui trattasi nel
procedimento principale non consente di imporre misure di riparazione al proprietario non responsabile della
contaminazione, limitandosi al riguardo a prevedere che siffatto proprietario può essere tenuto al rimborso dei
costi relativi agli interventi intrapresi dall’autorità competente nei limiti del valore del terreno, determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi.
17
63 Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla questione pregiudiziale
che la direttiva 2004/35 deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come
quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare
il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non
consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al
proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso
delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del
sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi.
(omissis)
3. RESPONSABILITÀ PER ESERCIZIO DI ATTIVITÀ PERICOLOSE
3.1 Cassazione Civile, sez. III, sentenza 27/11/2015 n. 24211;
Il gestore del maneggio, proprietario o utilizzatore dei cavalli ivi esistenti adibiti allo svolgimento di lezioni di
equitazione da parte di allievi, risponde quale esercente di attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c. dei
danni riportati dai soggetti partecipanti qualora gli allievi siano cavallerizzi principianti o inesperti.
(omissis)
Orbene, avendo nel caso l'attore "invocato in primo grado la responsabilità del convenuto ai sensi dell'art. 2043
cod. civ.", nell'affermare che "il divieto di introdurre domande nuove (la cui violazione è rilevabile d'ufficio da
parte del giudice) non gli consente di chiedere successivamente la condanna del medesimo convenuto ai sensi
dell'art. 2050 c.c. (esercizio di attività pericolose) o art. 2051 c.c. (responsabilità per cose in custodia) a meno che
l'attore non abbia sin dall'atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di
fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie
contemplata da detti articoli (enunciazioni assenti nella fattispecie se si esamina l'atto di citazione di primo
grado)", la corte di merito ha invero erroneamente ritenuto tardiva la domanda di condanna ex artt. 2050 e 2052
c.c. per essere stata dalla M. formulata per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni.
(omissis)
Va sotto altro profilo posto in rilievo che, come questa Corte ha del pari già avuto modo di sottolineare, laddove
in caso di allievi più esperti l'attività equestre è soggetta alla presunzione di responsabilità di cui all'art. 2052 c.c.
(con la conseguenza che spetta al proprietario od all'utilizzatore dell'animale che ha causato il danno fornire non
soltanto la prova della propria assenza di colpa, ma anche quella che il danno è stato causato da un evento
fortuito), il gestore del maneggio risponde viceversa quale esercente di attività pericolosa ex art. 2050 c.c. dei
danni riportati dai soggetti partecipanti alle lezioni di equitazione qualora gli allievi siano come nella specie
principianti, del tutto ignari di ogni regola di equitazione, ovvero giovanissimi (v. Cass., 19/6/2008, n. 16637).
In altri termini, il gestore del maneggio, proprietario o utilizzatore dei cavalli ivi esistenti adibiti allo
svolgimento di lezioni di equitazione da parte di allievi, risponde quale esercente di attività pericolosa
ai sensi dell'art. 2050 c.c. dei danni riportati dai soggetti partecipanti qualora gli allievi siano
cavallerizzi principianti o inesperti (v. Cass., 1/4/2005, n. 6888, ove si è ritenuto il gestore responsabile, per
attività pericolosa, dei danni subiti da una giovane, titolare di una attestazione di idoneità psicofisica alla
cavalcatura, che era caduta da cavallo nel corso della sua sesta lezione).
Orbene, nel ritenere nel caso applicabile l'art. 2043 c.c., e non già l'art. 2050 c.c., pur movendo dal rilievo che "La
giurisprudenza di legittimità non è univoca sulla responsabilità del gestore del maneggio in caso di infortuni
durante le lezioni di equitazione. Un precedente orientamento le escludeva dal novero delle attività pericolose ...
La giurisprudenza successiva distingue invece tra allievi principianti ed allievi esperti, facendo risiedere su tale
distinzione in fatto un diverso paradigma di responsabilità rispettivamente ex artt. 2050 e 2052 con diverse
implicazioni probatorie per il preteso responsabile dell'illecito", in ragione del decisivo rilievo assegnato
all'erroneamente (alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto) ravvisata circostanza che "le prospettazioni ex
18
artt. 2050 e 2052 c.c. rappresentano una inammissibile mutatio libelli, in quanto formulate nella comparsa
conclusionale, privando l'avversario della possibilità della prova liberatoria prevista dalle singole fattispecie (il
caso fortuito ex art. 2052 c.c. e l'adozione delle misure volte ad evitare il danno ex art. 2050 c.c.)", la corte di
merito ha nell'impugnata sentenza invero disatteso i suindicati principi.
(omissis)
3.2 Cassazione civile sez. III 10 ottobre 2014 n. 21426;
“L'attività di polizia svolta per la tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica non può ritenersi per
sua natura attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 cod. civ., in quanto essa si configura come compito
indefettibile imposto allo Stato e, quindi, attività assolutamente doverosa e priva di intrinseca attitudine lesiva,
siccome esercitata in difesa di beni e interessi dell'intera collettività e volta ad opporsi, dunque, alle potenziali
offese che possano essere ad essi inferte da agenti esterni.
Tale attività può, tuttavia, ricondursi nell'ambito della fattispecie di cui al citato art. 2050 cod. civ. per la
natura dei mezzi adoperati; ove, però, si tratti di armi e di altri mezzi di coazione di pari pericolosità, ai fini
della sussistenza della responsabilità ex art. 2050 cod. civ. occorre riscontrare - in base ad un giudizio di
merito non implicante un sindacato sulle scelte rimesse alla discrezionalità amministrativa, ma che attinge ai
suoi limiti esterni - l'inoperatività della scriminante di cui all'art. 53 cod. pen. e ciò, segnatamente, sia in
ragione di un uso imperito o imprudente degli anzidetti mezzi pericolosi ovvero del loro oggettivo carattere di
anormalità ed eccedenza e, dunque, di sproporzionalità evidente rispetto alla situazione contingente.
Ai fini del riparto dell'onere probatorio, spetta al soggetto danneggiato, che invoca la responsabilità della p.a.
per la intrinseca pericolosità dei mezzi effettivamente adoperati (armi o altri mezzi di coazione del pari
pericolosi) nell'attività di polizia rivolta alla tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica, fornire la
dimostrazione di quelle concrete ed oggettive condizioni atte a connotare il fatto come illecito, in quanto
antigiuridico (oltre a dover fornire la dimostrazione del nesso eziologico tra la pericolosità dei mezzi adoperati
ed il danno patito); incomberà, invece, alla p. a. la prova di aver adottato, in ogni caso, tutte le misure idonee
a prevenire il danno”.
(omissis)
3. - Il motivo è fondato nei termini di seguito precisati.
3.1. - Alla luce di un orientamento pressoché costante di questa Corte, agli effetti dell'art. 2050 cod. civ. è da
reputarsi "pericolosa" l'attività che venga cosi qualificata dalla legge di pubblica sicurezza o da altre
leggi speciali (attività pericolosa "tipica"), nonché quella che (attività pericolosa "atipica"), per sua stessa
natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati o per la sua spiccata potenzialità offensiva, comporti
la rilevante possibilità di un danno (tra le tante, Cass., 16 febbraio 1996, n. 1192; Cass., 19 luglio 2002, n.
10551; Cass., 10 novembre 2010, n. 22822).
In tal senso, occorre avere riguardo non già alla "pericolosità della condotta" in sé, che viene a configurarsi come
tale per l'imprudenza di chi la pone in essere e che rimane, quindi, nell'alveo della fattispecie disciplinatoria della
responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ.; bensì, al profilo oggettivo della pericolosità che connota una certa
attività, quale potenzialità lesiva notevolmente superiore al normale.
Dunque, la "presunzione di responsabilità" ex art. 2050 cod. civ. (cosi, tra le tante, Cass., 27 maggio 2005, n.
11275; Cass., 9 marzo 2006, n. 5080; Cass., 18 luglio 2011, n. 15733) si correla, essenzialmente, alla
peculiarità intrinseca della natura dell'attività o alla caratteristica dei mezzi adoperati, tali da presentare
"connotati tipici di pericolosità eccedenti il livello del normale rischio connesso all'ordinario esercizio"
dell'attività medesima (cfr. Cass., 27 febbraio 1984, n. 1393), da rilevarsi in base a dati statistici, ad
elementi tecnici ed alla comune esperienza (Cass., 21 dicembre 1992, n. 13530; Cass. n. 10551 del 2002, cit.).
19
L'indagine sulla pericolosità dell'attività di cui al citato art. 2050 ha di mira, pertanto, il contenuto intrinseco della
stessa e a prescindere dal fatto che "sia svolta senza fine di lucro o per fini filantropici" (Cass., 24 luglio 2012, n.
12900).
3.2. - I principi innanzi rammentati sono divenuti patrimonio comune nell'applicazione della norma di cui all'art.
2050 cod. civ. anche rispetto alla pubblica amministrazione, nel senso che la giurisprudenza di questa Corte, a
partire dagli anni '80 del secolo scorso, ha inteso superare quell'indirizzo ermeneutico che predicava un limite
generalizzato all'operatività della predetta disposizione nei confronti della p.a. "quale che sia il settore in cui essa
operi e quali che siano le finalità di rilevanza pubblicistica, dirette o mediate, che essa persegua" (Cass. n. 1393 del
1984, cit.).
Si è, quindi, escluso (come segnatamente messo in rilievo dalla già citata Cass. n. 1393 del 1984) che potessero
fungere da elementi selettivi, idonei a circoscrivere la più ampia portata applicativa della disposizione di cui all'art.
2050 cod. civ., la qualità del soggetto agente e lo scopo speculativo dell'attività [essendo la norma ancorata al dato
oggettivo della "attività" e ricollegandosi la ratio dell'inversione dell'onere probatorio "al concetto di rischio
(prevedibile) d'impresa, ravvisabile in ogni campo di attività economica organizzata"], nonché la presunzione di
legittimità dell'atto amministrativo ed i limiti del sindacato del giudice ordinario sull'attività discrezionale della p.a.
(essendo la norma legata ad una condotta ed a scelte tecniche, piuttosto che discrezionali).
Il risultato, condiviso dalla dottrina unanime, è stato quello di rimuovere un area di privilegio in favore della p.a.,
affermandosi, per l'appunto, la "inesistenza di un principio cardinale, insito nel sistema, atto a giustificare
l'esonero della Pubblica Amministrazione, monoliticamente intesa, dalla soggezione al precetto di cui all'art. 2050
c.c", per quindi approdare ad una indagine "caso per caso", correlata alla attività precipua svolta dall'ente
pubblico ed all'eventuale regolamentazione che di essa venga dettata per lo svolgimento dell'attività medesima (in
tal senso ancora Cass. n. 1393 del 1984, cit.).
3.3. - Proprio alla luce del percorso esegetico innanzi richiamato emerge, dunque, che l'operatività dell'art. 2050
cod. civ. nei confronti della pubblica amministrazione è stata sempre affermata in relazione ad attività, lato sensu,
tecniche od oggettivamente di impresa e cioè di produzione di beni e servizi. In particolar modo, essa si è avuta
nel campo dell'attività ferroviaria e di quella correlata alla produzione di energia elettrica (più di recente, cfr.
Cass., 1 aprile 1995, n. 3829 e Cass., 4 aprile 1995, n. 3935), ma anche in caso di navigazione aerea, ritenuta
attività pericolosa non in ragione della sua stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati, ma in
concreto, per le particolari circostanze oggettive in cui essa viene esercitata (così Cass. n. 10551 del 2002, cit.; cfr.
anche Cass., 28 gennaio 2013, n. 1871).
L'applicabilità dell'anzidetta disposizione alla p.a. è stata, invece, sempre esclusa - senza che ciò abbia comportato
significative critiche da parte della dottrina -in relazione alle attività che, come quella di polizia o quelle militari,
"siano svolte per soddisfare imprescindibili esigenze della collettività, nelle quali si identificano le sue stesse
finalità istituzionali" (per le attività di polizia: Cass., 30 novembre 2006, n. 25479; per le attività militari: Cass., 12
ottobre 1964, n. 2575, Cass., sez. un., 4 gennaio 1964, n. 3, Cass., 23 febbraio 1956, n. 507).
Quanto alle ragioni che giustificano, nelle ipotesi anzidette, un tale esonero dall'applicazione dell'art. 2050 cod.
civ., la più recente Cass. n. 25479 del 2006 le ha ravvisate, in sostanziale continuità con l'orientamento precedente
(e risalente nel tempo), nell'assenza "di un fine utilitario proprio dell'amministrazione e non potendo il
Giudice sindacare l'idoneità e sufficienza delle misure e dei mezzi da essa posti in essere
nell'organizzazione dei suoi servizi".
3.4. - Peraltro, è appena il caso di precisare che nessun dubbio si pone sul fatto che, anche nelle anzidette ipotesi
ritenute esonerate dal regime della responsabilità speciale, la p.a. possa comunque rispondere del fatto illecito ai
sensi dell'art. 2043 cod. civ., per violazione del generale precetto del neminem leadere.
3.5. - Venendo al caso di specie, occorre anzitutto puntualizzare - alla stregua di un'indagine che, come visto, è
orientata essenzialmente da un criterio casistico, legato al tipo di attività di volta in volta rilevante - che l'attività
cui ha riguardo la vicenda in esame, secondo la stessa ricostruzione fattane dal giudice del merito, è quella,
affidata istituzionalmente alla autorità di pubblica sicurezza, della tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza
pubblica.
20
3.5.1. - Si tratta di quell'attività che già l'art. 1 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (recante il testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza) indicava come indirizzata "al mantenimento dell'ordine pubblico, alla sicurezza dei cittadini,
alla loro incolumità e alla tutela della proprietà", nonché alla "cura" dell'"osservanza delle leggi e dei regolamenti"
ed al "soccorso nel caso di pubblici e privati infortuni".
Attività che, nel contesto dell'ordine costituzionale democratico, segnato dai valori precettivi della Carta
Fondamentale del 1948, la Corte costituzionale, nel fornire le coordinate concettuali dell'endiadi ordine
pubblico/sicurezza pubblica (poi recepite e normativizzate quasi pedissequamente dall'art. 159 del d.lgs. 31
marzo 1998, n. 112), ha ritenuto essere indirizzata alla preservazione di quel "complesso dei beni giuridici
fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l'ordinata e civile convivenza nella comunità
nazionale", tra i quali rientrano "l'integrità fisica e psichica delle persone, la sicurezza dei possessi e il rispetto o la
garanzia di ogni altro bene giuridico di fondamentale importanza per l'esistenza e lo svolgimento
dell'ordinamento" (tra le altre, Corte cost., sentenze n. 15 del 1973, n. 218 del 1988, n. 1013 del 1988, n. 129 del
2009 e n. 72 del 2010).
Tanto che, anche alla luce delle riforma costituzionale del 2001 (legge costituzionale n. 3 del 2001), che ha inciso
sul Titolo V della Parte II della Costituzionale, la materia dell'"ordine pubblico e sicurezza" - come sopra
considerata - è stata ancora espressamente riservata (come, del resto, già lo era in precedenza, sia in base al testo
originario dell'art. 117 Cost. - per esclusione dalle competenze regionali -, sia in base alla legislazione ordinaria:
art. 4 del d.P.R. n. 616 del 1977 e art. 159 del d.lgs. n. 112 del 1998, citato) alla legislazione esclusiva dello Stato
(art. 117, secondo comma, lett. h, Cost.), per la sua vocazione di indefettibile compito da realizzarsi
uniformemente su tutto il territorio della Repubblica in favore dell'intero corpo sociale.
3.5.2. - L'attività di polizia cosi delineata è, dunque, coessenziale alla tenuta dell'ordinamento giuridico ed alla
esistenza stessa della società democratica, siccome rivolta a preservare e difendere beni ed interessi garantiti dalla
stessa Costituzione e, fra questi, in special modo quelli inviolabili della persona umana, considerata sia
singolarmente, che come partecipe di una collettività.
Si tratta di un compito rivolto al mantenimento di una "finalità immanente del sistema costituzionale" (Corte
cost., sent. n. 15 del 1973, cit.), il cui intrinseco carattere (e non già soltanto la finalità, seppur non utilitaristica,
che lo orienta), in coerenza con le stesse norme che lo contemplano, è quello di evitare che beni ed interessi, sia
collettivi, che individuali, siano posti in pericolo e che ad essi sia recato un vulnus.
Dunque, attività in se stessa non lesiva, ma rivolta proprio ad elidere la potenzialità offensiva originata ab
externo.
Inoltre, detta attività si presenta come compito indefettibile della p.a., sicché il suo svolgimento non si pone sul
mero piano della liceità - e, dunque, non è animato, nelle sue fondamenta, da una scelta (politica) riguardante l'an
stesso del suo esercizio (come accade per quei compiti la cui assunzione da parte della p.a. non è conseguenza
necessitata del loro carattere di immancabilità, giacché funzionali all'esistenza stessa dell'ordinamento) -, ma su
quello della doverosità, tanto da configurarsi tra le espressioni paradigmatiche dell'adempimento di un dovere
"imposto", che, alla stregua dell'art. 51 cod. pen., esclude l'antigiuridicità stessa del fatto.
In siffatti termini, l'attività di polizia di sicurezza non può ritenersi, di per sé stessa, per la sua natura
intrinseca, rientrante "sicuramente tra quelle pericolose", come ritenuto dalla Corte di appello di Bari,
sottraendosi essa, come tale, alla presunzione di colpa ex art. 2050 cod. civ. per essere compito
indefettibile dello Stato e, dunque, attività imposta, assolutamente doverosa, priva di intrinseca
attitudine lesiva, giacché svolta in difesa di beni e interessi dell'intera collettività e volta ad opporsi,
quindi, a potenziali offese degli stessi provenienti da agenti esterni.
3.6. - Quanto, poi, al profilo della "natura dei mezzi adoperati", che è alternativo criterio di
individuazione dell'"attività pericolosa per sua natura" ex art. 2050 cod. civ., non può escludersi che
l'attività di polizia rivolta alla tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica possa, in
determinate ipotesi, assumere il predetto connotato.
La presunzione di responsabilità può derivare, infatti, dall'uso di mezzi, non di coazione, che vengano ad
assumere, in concreto e in condizioni anormalità, secondo un apprezzamento rimesso al giudice del merito,
21
carattere di oggettiva pericolosità, come può accadere - come già ricordato (è il caso dell'elicottero: Cass. n. 10551
del 2002, cit.) - per i mezzi di navigazione aerea.
Tuttavia, il profilo problematico si pone, all'evidenza, rispetto all'uso (e non alla mera ostensione) delle armi e di
altri mezzi di coazione fisica con pari potenzialità offensiva, sulla cui intrinseca pericolosità - e, dunque, sulla
conseguente loro idoneità ad originare la fattispecie di responsabilità ex art. 2050 cod. civ. - non è dato, in linea di
principio, dubitare (cfr. Cass., 30 novembre 1977, n. 5222; Cass., 7 novembre 2013, n. 25058).
Occorre, però, osservare che, ai sensi dell'art. 53 cod. pen., l'"uso delle armi o di altro mezzo di coazione
fisica" da parte del pubblico ufficiale che vi sia "costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere
una resistenza all'Autorità" esclude la punibilità e, con essa, l'ingiustizia del danno (Cass., 13 ottobre 2003, n.
15271). Sicché, quanto all'uso delle armi e di altri mezzi di coazione fisica (che si palesino intrinsecamente
pericolosi al pari delle armi), la sussistenza dell'illecito riconducibile all'art. 2050 cod. civ., quale presunzione di
responsabilità della p.a. ancorata alla pericolosità del mezzo, viene esclusa dalla operatività della scriminante del
loro uso legittimo ai sensi dell'art. 53 cod. civ., che elide l'antigiuridicità del fatto.
Nell'ipotesi in cui, tuttavia, la scriminante anzidetta non ricorra, in carenza dei relativi presupposti oggettivi o,
segnatamente, per eccesso colposo (art. 55 cod. pen.), il fatto manterrà il carattere di illecito e la sua vocazione ad
essere sussunto nella fattispecie risarcitoria di cui all'art. 2050 cod. civ..
E tale sussunzione potrà, quindi, apprezzarsi non soltanto nel caso di uso imperito o imprudente dell'arma o del
mezzo di coazione, ma anche nell'ipotesi in cui le armi o i mezzi di esercizio della forza (del pari pericolosi)
effettivamente adoperati si palesino oggettivamente anormali od eccedenti e, dunque, all'evidenza sproporzionati
rispetto alla situazione contingente (cfr. sulla valenza del principio di proporzionalità anche nell'ambito della
scriminante di cui all'art. 53 cod. pen., tra le altre, Cass. pen., sez. IV, n. 854 del 15/11/2007 - dep. 10/1/2008;
Cass. pen., sez. V, n. 38229 del 24/06/2008 - dep. 7/10/2008; sulla rilevanza della scelta del mezzo anche Cass.,
6 agosto 1997, n. 7274), alla stregua di un giudizio di fatto che non implica un sindacato sulle scelte discrezionali
della p.a., ma la ponderazione dei limiti esterni ad essa, i quali risiedono non solo nel rispetto delle regole, anche
tecniche, dettate da norme e regolamenti, ma pure in quelle di comune prudenza.
Sul piano del riparto dell'onere della prova, spetterà, quindi, al soggetto danneggiato, che invoca la responsabilità
della p.a. per la intrinseca pericolosità dei mezzi adoperati (armi o altri mezzi di coazione del pari pericolosi),
fornire la dimostrazione di quelle concrete ed oggettive condizioni atte a connotare il fatto come illecito, in
quanto antigiuridico (oltre a dover fornire la dimostrazione del nesso eziologico tra la pericolosità dei mezzi
adoperati ed il danno patito); incomberà, invece, alla p.a. la prova di aver adottato, in ogni caso, tutte le misure
idonee a prevenire il danno (in tale complessiva prospettiva cfr. ancora Cass. n. 10551 del 2002, cit.).
4. - Vanno, quindi, enunciati i seguenti principi di diritto:
(omissis)
4. RESPONSABILITÀ DA COSE IN CUSTODIA
4.1 Corte di Cassazione, sentenza del 27 giugno 2016, n.13222;
In caso di sinistro come nella specie avvenuto all’interno o nell’ambito della cosa in custodia (nel caso,
esercizio pubblico di rivendita di pane), dei danni conseguenti ad omessa o insufficiente relativa
manutenzione il proprietario o il custode (tale essendo anche il possessore, il detentore e il concessionario)
risponde ex art. 2051 c.c., in ragione del particolare rapporto con la cosa che al medesimo deriva dalla
disponibilità e dai poteri di effettivo controllo sulla medesime, salvo che dalla responsabilità presunta a suo
carico si liberi dando la prova del fortuito.
In altri termini, il danneggiato che domanda il risarcimento del pregiudizio sofferto in conseguenza
dell’omessa o insufficiente manutenzione della cosa in custodia, o di sue pertinenze, invocando la
22
responsabilità del custode è tenuto, secondo le regole generali in tema di responsabilità civile, a dare la prova
che i danni subiti derivano dalla cosa, in relazione alle circostanze del caso.
Tale prova consiste nella dimostrazione del verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la
cosa in custodia, e può essere data anche con presunzioni, giacché la prova del danno è di per sé indice della
sussistenza di un risultato “anomalo”, e cioè dell’obiettiva deviazione dal modello di condotta improntato ad
adeguata diligenza che normalmente evita il danno.
Facendo eccezione alla regola generale di cui al combinato disposto degli art. 2043 e 2697 cod. civ., l’art. 2051
c.c. integra invero un’ipotesi di responsabilità caratterizzata da un criterio di inversione dell’onere della prova,
imponendo al custode, presunto responsabile, di dare eventualmente la prova liberatoria del fortuito.
(omissis)
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, custodi sono tutti i soggetti, pubblici o privati, che
hanno il possesso o la detenzione (legittima o anche abusiva: v. Cass., 3 giugno 1976, n. 1992) della cosa (v.,
Cass., 20/2/2006, n. 3651; Cass., 20/10/2005, n. 20317).
Custodì sono anzitutto i proprietari, come tali gravati da obblighi di manutenzione e controllo della cosa
custodita.
In caso di sinistro come nella specie avvenuto all’interno o nell’ambito della cosa in custodia (nel caso, esercizio
pubblico di rivendita di pane), dei danni conseguenti ad omessa o insufficiente relativa manutenzione il
proprietario o il custode (tale essendo anche il possessore, il detentore e il concessionario) risponde ex art.
2051 c.c., in ragione del particolare rapporto con la cosa che al medesimo deriva dalla disponibilità e dai
poteri di effettivo controllo sulla medesime, salvo che dalla responsabilità presunta a suo carico si liberi
dando la prova del fortuito.
In altri termini, il danneggiato che domanda il risarcimento del pregiudizio sofferto in conseguenza dell’omessa o
insufficiente manutenzione della cosa in custodia, o di sue pertinenze, invocando la responsabilità del custode è
tenuto, secondo le regole generali in tema di responsabilità civile, a dare la prova che i danni subiti derivano dalla
cosa, in relazione alle circostanze del caso concreto (cfr. Cass., 20/2/2006, n. 3651).
Tale prova consiste nella dimostrazione del verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la
cosa in custodia, e può essere data anche con presunzioni, giacché la prova del danno è di per sé indice della
sussistenza di un risultato “anomalo”, e cioè dell’obiettiva deviazione dal modello di condotta improntato ad
adeguata diligenza che normalmente evita il danno (cfr. Cass., 20/2/2006, n. 3651).
Facendo eccezione alla regola generale di cui al combinato disposto degli art. 2043 e 2697 cod. civ., l’art. 2051
c.c. integra invero un’ipotesi di responsabilità caratterizzata da un criterio di inversione dell’onere della
prova, imponendo al custode, presunto responsabile, di dare eventualmente la prova liberatoria del
fortuito (v., da ultimo, Cass., 9/6/2016, 11802).
In ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce cui fanno riscontro corrispondenti
obblighi di vigilanza, controllo e diligenza alla stregua non solo di specifiche disposizioni normative ma già in
base alle clausole generali di diligenza e buona fede (cfr. Cass., 30/06/2014, n14065; Cass., Sez. Un.,
21/11/2011, n. 24406) o correttezza (in base ai quali è tenuto ad adottare tutte le misure idonee a prevenire ed
impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e alla funzione della cosa e alle
circostanze del caso concreto), nonché in ossequio al principio di c.d. vicinanza alla prova, in caso di danno
derivato dalla cosa il custode è allora tenuto a dimostrare che esso si è verificato in modo non prevedibile né
superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso (v., da ultimo, Cass., 9/6/2016, n.
11802).
A tale stregua, il danneggiato è dunque tenuto a provare l’evento dannoso e la sua derivazione dalla cosa.
Il custode deve viceversa dimostrare di avere espletato, con la diligenza adeguata alla natura e alla
funzione della cosa in considerazione delle circostanze del caso concreto, tutte le attività di controllo,
vigilanza e manutenzione su di esso gravanti in base a specifiche disposizioni normative, e già del
principio generale del neminem laedere (v. Cass., 20/2/2006, n. 3651).
23
Siffatta inversione dell’onere probatorio incide indubbiamente sulla posizione sostanziale delle parti,
agevolando la posizione del danneggiato e aggravando quella del danneggiante, sul quale grava anche
il rischio del fatto ignoto (v. Cass., 9/6/2016, n. 11802; Cass., 10/10/2008, n. 25029; Cass., 29/9/2006, n.
21244; Cass., 20/2/2006, n. 3651. E già Cass., 14/3/1983, n. 1897).
Il danneggiato non è invece tenuto a provare anche la sussistenza dell’insidia o trabocchetto, né la condotta
omissiva o commissiva del custode (v. Cass., 20/2/2009, n. 4234; Cass., 14/3/2006, n. 5445: Cass., 20/2/2006,
n. 3651).
Dell’insidia o trabocchetto, quale “figura sintomatica di colpa”, nella giurisprudenza – anche di legittimità – si era
invero giunti ad addossare la prova al danneggiato.
Questa Corte ha peraltro al riguardo ormai da tempo chiarito che l’insidia o trabocchetto determinante pericolo
occulto non è elemento costitutivo dell’illecito aquiliano, in quanto non previsto dalla regola generale ex art. 2043
c.c. né da quella speciale di cui all’art. 2051 c.c. (v. Cass., 17/5/2001, n. 6767), bensì frutto dell’interpretazione
giurisprudenziale (cfr. Cass., 9/11/2005, n. 21684; Cass., 13/7/2005, n. 14749; Cass., 17/5/2005, n. 6767; Cass.,
25/6/2003, n. 10131), che al fine di limitare le ipotesi di responsabilità ha finito per indebitamente gravare del
relativo onere probatorio il danneggiato, in contrasto con il principio cui risulta ispirato l’ordinamento di generale
favor per il medesimo, quale titolare della posizione giuridica soggettiva giuridicamente rilevante e tutelata
rimasta lesa o violata dalla condotta dolosa o colposa altrui, che impone al relativo autore di rimuovere o
ristorare, laddove non riesca a prevenirlo, il danno inferto (cfr., con riferimento a differenti ipotesi, da ultimo,
Cass., 27/10/2015, n. 21782; Cass., 29/9/2015, n. 19213; Cass., 20/10/2014, n. 22222. E già Cass., 20/2/2006,
n. 3651).
A tale stregua, in quanto elemento estraneo alle relative regole sia di “struttura” che funzionali, si è da questa
Corte precisato che l’insidia o trabocchetto può ritenersi assumere semmai rilievo ai fini della prova da fornirsi
del danneggiante di avere, con lo sforzo diligente adeguato alla natura della cosa e alle circostanze del caso
concreto, adottato tutte le misure idonee a prevenire che la cosa in custodia prospetti per i terzi una situazione di
pericolo occulto ed arrechi danno (cfr., con riferimento alla responsabilità della P.A. per la manutenzione delle
strade, Cass., 14/3/2006, n. 5445. E, conformemente, Cass., 20/2/2009, n. 4234. Cfr. anche Cass. 11/1/2008, n.
390). Altresì sottolineandosi, con specifico riguardo alla regola di responsabilità aggravata ex art. 2051 c.c., che è
sul piano del fortuito, quale esimente di responsabilità, che l’insidia e il trabocchetto possono se del caso
assumere rilievo per superare, avuto riguardo alle circostanze concrete del fatto, la presunzione di responsabilità
ivi prevista, qualora il custode dimostri che l’evento dannoso presenta i caratteri dell’imprevedibilità e
dell’inevitabilità non superabili con l’adeguata diligenza del caso, ovvero l’evitabilità del danno solamente con
l’impiego di mezzi (non già di entità meramente considerevole bensì) straordinari (cfr. Cass., 20/2/2006, n. 3651,
e, da ultimo, Cass., 9/6/2016, n. 11802).
Atteso che il custode presunto responsabile può se del caso, in presenza di condotta che valga ad integrare la
fattispecie ex art. 1227, 1 co., c.c., dedurre e provare il concorso di colpa del danneggiato, senz’altro configurabile
anche nei casi di responsabilità presunta ex art. 2051 c.c. del custode (v. Cass., 9/6/2016, n. 11802; Cass.,
22/3/2011, n. 6529; Cass., 8/8/2007, n. 17377; Cass., 20/2/2006, n. 3651), ai diversi fini della prova liberatoria
da fornirsi dal custode per sottrarsi a detta responsabilità è invero necessario distinguere tra le situazioni di
pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della cosa in custodia e quelle provocate da una repentina ed
imprevedibile alterazione della stessa.
Solamente in quest’ultima ipotesi può invero configurarsi il caso fortuito, in particolare allorquando
l’evento dannoso si sia verificato prima che il custode abbia potuto rimuovere, nonostante l’attività di
controllo espletata con la dovuta diligenza al fine di tempestivamente ovviarvi, la straordinaria ed
imprevedibile situazione di pericolo determinatasi (v. Cass., 9/6/2016, n. 11802; Cass., 24/2/2011, n. 4495.
V. altresì Cass., 12/4/2013, n. 8935; Cass., 12/3/2013, n. 6101; Cass., 18/10/2011, n. 21508; Cass., 6/6/2008, n.
15042; Cass., 20/2/2006, n. 3651).
Con particolare riferimento ai danni cagionati da precipitazioni atmosferiche, si è da questa Corte invero esclusa
l’ipotesi del caso fortuito o della forza maggiore invocabile dal custode ad esonero della propria responsabilità in
presenza di fuori dai canoni normali, allorquando il danno trovi origine nell’insufficienza delle adottate misure
24
volte ad evitarne l’accadimento (cfr., con riferimento a differente fattispecie, Cass., 17/12/2014, n. 26545). E si è
precisato che l’eccezionalità ed imprevedibilità delle precipitazioni atmosferiche possono configurare caso
fortuito o forza maggiore idonei ad escludere la responsabilità del custode per il danno verificatosi solo quando
costituiscano causa sopravvenuta autonomamente sufficiente a determinare l’evento (cfr., con riferimento a
differente ipotesi, Cass., 24/9/2015, n. 18877).
Orbene, nell’impugnata sentenza la corte di merito ha invero disatteso i suindicati principi.
(omissis)
Essendo rimasto accertato che la caduta all’interno del locale costituisce diretta conseguenza della condizione del
pavimento reso scivoloso dall’acqua piovana introdotta dai numerosi clienti ivi entrati con gli ombrelli
sgocciolanti (cfr., con riferimento a caduta cagionata dalla condizione del pavimento reso scivoloso dall’acqua
piovana introdotta da chi entrava nei locali di un ufficio giudiziario, Cass., 8/5/2008, n. 11227; con riferimento
all’affermata responsabilità del titolare di un supermercato per i danni subiti da terzi e causa del pavimento del
locale reso scivoloso dal versamento di liquidi dei quali non era stata disposta la rimozione, Cass., 15/11/1996, n.
10015), e che l’affollavano altresì impedendo al personale di poter provvedere ad asciugarlo, emerge evidente
come a fronte di una situazione al custode (e ai suoi preposti) ben nota ed evidente non può invero escludersi,
diversamente da quanto affermato dai giudici di merito nell’impugnata sentenza, la diretta derivazione del sinistro
(la caduta, con conseguente rottura del femore, della cliente) dalla cosa (l’affollata panetteria dal pavimento reso
viscido dalla pioggia), in ragione delle relative condizioni che l’avevano resa pericolosa e insidiosa determinate
anche) dalla condotta del custode non improntata alla diligenza, prudenza e cautela dovute in relazione alle
concrete circostanze del caso. Laddove il comportamento mantenuto dall’odierna ricorrente, privo di qualsivoglia
carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, non i può invero certamente dirsi interruttiva del nesso di causalità
(cfr., con riferimento a diverse fattispecie, Cass., 29/2/2016, n. 3983; Cass., 22/2/2016, n. 3428).
A tale stregua, non avendo in particolare dimostrato, alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto, che l’evento
dannoso presentasse i caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità non superabili con l’adeguata diligenza del
caso, ovvero che l’evitabilità del danno fosse perseguibile solamente con l’impiego di mezzi straordinari (cfr.
Cass., 9/6/2016, n. 11802. E già Cass., 20/2/2006, n. 3651); né che l’infortunata abbia fatto un uso anormale
della cosa cosi singolare da non poter essere neppure prevedibile e prevenibile (cfr. Cass., 8/5/2008, n. 11227),
nulla avendo al riguardo indicato la corte di merito, limitatasi invero ad apoditticamente affermare che “non
adoperò la necessaria attenzione nel muoversi su un pavimento che non poteva non aspettarsi bagnato”; né,
ancora, di avere, con lo sforzo diligente adeguato alla natura della cosa e alle circostanze del caso concreto,
adottato tutte le misure idonee a prevenire che il panificio presentasse per i clienti una situazione di pericolo ed
arrecasse ad essi danno (cfr. Cass., 9/6/2016, n. 11802. E già Cass., 20/2/2006, n. 3651), non può invero
ritenersi dal custode presunto responsabile assolto l’onere di dare la prova liberatoria ai sensi dell’ultimo comma
dell’art. 2051 c.c..
Va al riguardo d’altro canto osservato che, ove ritenuta anch’essa colposa sulla base invero di precisi indici
rivelatori di negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di leggi, regolamenti, regole e discipline, e non già di
un generico giudizio di “disattenzione”, dalla corte di merito invero apoditticamente desunta argomentando dal
mero rilievo che non vi fu nella circostanza “la caduta di altri clienti, il che significa che i medesimi stavano ben
attenti a mettere i piedi, date le particolari condizioni della giornata”), la condotta della cliente odierna ricorrente
può nella specie se del caso assumere rilievo sotto il profilo del concorso ex art. 1227, l co., c. c., da provarsi da
parte del custode, presunto responsabile (cfr. Cass., 9/6/2016, n. 11802; Cass., 22/3/2011, n. 6529; Cass.,
8/5/2008, n. 11227. E già Cass., 20/2/2006, n. 3651).
Non accolto da questa Corte il c.d. criterio equitativo proporzionale del nesso di causalità (v. Cass., 21/7/2011,
n. 15991; Cass., 29/2/2016, n. 28931, con conseguente esclusione che possa trovare correlazione in termini di
automatica percentuale corrispondenza ad “operazioni di a apporzionamento/frazionamento” del nesso di
causalità (v. Cass., 21/7/2011, n. 15991), esclusivamente a tale stregua può invero se del caso pervenirsi, in
ragione della graduazione della colpa (e nella considerazione dell’entità delle conseguenze che dalla concorrente
condotta colposa derivano) ex art. 1227 1 co., c.c., ad una limitazione dell’ammontare di risarcimento gravante
sul custode responsabile (v. Cass., 29/2/2016, n. 2893; Cass., 8/5/2008, n. 11227; Cass., 20/7/2002, n. 106411.
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(omissis)
4.2 Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 22 marzo 2016, n. 5622;
In tema di responsabilità degli enti locali per i danni causati dai beni dei patrimonio demaniale la
presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia prevista dall’art. 2051 c.c. non si applica, per i
danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, le volte in cui non sia possibile esercitare sul bene stesso la
custodia intesa quale potere di fatto sulla cosa. La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, di
cui all’art. 2051 c.c., opera anche per la P.A. in relazione ai beni demaniali, con riguardo, tuttavia, alla
causa concreta del danno, rimanendo l’amministrazione liberata dalla medesima responsabilità ove dimostri
che l’evento sia stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né
eliminabili con immediatezza.
(omissis)
2.- Con l’unico motivo del ricorso si denunzia «erronea e/o falsa interpretazione e/o applicazione dell’art. 2051
c. c. con particolare riferimento alla nozione di “fatto della vittima” ad efficacia interruttiva del nesso di causa
(ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.)». Il motivo è infondato.
La corte di appello non si è discostata dai principi di diritto enunciati da questa Corte in tema di responsabilità
degli enti locali per i danni causati dai beni dei patrimonio demaniale, e secondo i quali: a) «la presunzione di
responsabilità per danni da cose in custodia prevista dall’art. 2051 c.c. non si applica, per i danni subiti
dagli utenti dei beni demaniali, le volte in cui non sia possibile esercitare sul bene stesso la custodia
intesa quale potere di fatto sulla cosa; in riferimento al demanio stradale, la possibilità concreta di
esercitare tale potere va valutata alla luce di una serie di criteri, quali l’estensione della strada, la
posizione, le dotazioni e i sistemi di assistenza che la connotano, per cui l’oggettiva impossibilità della
custodia rende inapplicabile il citato art. 2051» (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 9546 del 22 aprile 2010; Sez. 6 – 3,
Ordinanza n. 12821 dei 19 giugno 2015); b) «la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, di
cui all’ad. 2051 c.c., opera anche per la P.A. in relazione ai beni demaniali, con riguardo, tuttavia, alla
causa concreta del danno, rimanendo l’amministrazione liberata dalla medesima responsabilità ove
dimostri che l’evento sia stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non
conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione,
ovvero da una situazione (nella specie, una macchia d’olio, presente sulla pavimentazione stradale, che
aveva provocato la rovinosa caduta di un motociclista) la quale imponga di qualificare come fortuito il
fattore di pericolo, avendo esso esplicato la sua potenzialità offensiva prima che fosse ragionevolmente
esigibile l’intervento riparatore dell’ente custode» (così Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6101 del 12 marzo 2013;
conformi, in precedenza: Sez. 3, Sentenza n. 15042 del 6 giugno 2008; Sez. 3, Sentenza n. 20427 del 25 luglio
2008; Sez. 3, Sentenza n. 8157 dei 3 aprile 2009; Sez. 3, Sentenza n. 24419 del 19 novembre 2009; Sez. 3,
Sentenza n. 24529 del 20 novembre 2009; Sez. 3, Sentenza n. 15389 del 13 luglio 2011; Sez. 3, Sentenza n. 15720
dei 18 luglio 2011; Sez. 3, Sentenza n. 21508 del 18 ottobre 2011).
In particolare, la corte ha ritenuto, in fatto, con valutazione non sindacabile nella presente sede (e dei resto non
sindacata, essendo denunziata con l’unico motivo di ricorso solo violazione di legge e non vizio di motivazione),
che: a) non era possibile per il comune porre in essere un’attività così imponente come quella che sarebbe stata
necessaria per liberare da neve e ghiaccio l’intero territorio comunale, in considerazione dell’eccezionalità degli
eventi atmosferici che si erano determinati; b) che l’incidente si è verificato perché la ricorrente non aveva
osservato la necessaria prudenza richiesta dalla situazione climatica eccezionale (ampiamente nota e
riconoscibile), che avrebbe imposto la massima attenzione per evitare di transitare sulle lastre di ghiaccio che si
erano formate sul manto stradale, peraltro di non difficile individuazione. La mancata osservanza da parte della
danneggiata anche del minimale precetto di diligenza consistente nel guardare per terra onde evitare di calpestare
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visibili lastre di ghiaccio nell’impegnare l’attraversamento pedonale, unitamente alle particolari circostanze
atmosferiche che avevano reso impossibile la completa liberazione dell’intero territorio comunale da neve e
ghiaccio, sono state ritenute circostanze idonee ad integrare la prova liberatoria del caso fortuito.
La ricorrente deduce che la corte di appello avrebbe omesso di valutare l’incidenza causale sull’evento lesivo
delle condizioni di fatto della strada dotate di idoneità al nocumento e imputabili all’ente custode, il carattere
non anomalo o abnorme della propria condotta, la prevedibilità e prevenibilità dell’evento da parte del comune e
quanto meno un eventuale concorso di colpa.
Le circostanze di fatto richiamate risultano peraltro tutte prese espressamente in esame dalla corte. In relazione
ad esse, in sostanza, viene solo richiesta una diversa valutazione delle prove e un riesame dei merito dei
giudizio.
Ma ciò non è possibile in sede di legittimità, (omissis) 2.- II ricorso è rigettato.
(omissis)
5. RESPONSABILITÀ PER ROVINA DI EDIFICIO
Corte di Cassazione, sez. III civile, sentenza 10 giugno 2016, n.12041;
La Terza Sezione Civile ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la
questione, su cui sussiste contrasto, relativa all’operatività, o meno, della responsabilità ex art. 1669 c.c. anche
in caso di lavori di ristrutturazione di edifici.
(omissis)
Considerato che:
-il ricorso investe la questione dell'ambito di operatività della previsione di cui all'art. 1669 c.c.,
assumendosi che la norma non si applica ai soli vizi riguardanti la costruzione ex novo di un edificio o di una
parte di esso, ma concerne anche gli interventi edilizi compiuti su un edificio già esistente, laddove si determini –
comunque una situazione di rovina (o pericolo di rovina) o si manifestino gravi difetti;
-l'orientamento cui si è richiamata la sentenza impugnata è chiaramente espresso da Cass. n. 24143/2007 con
l'affermazione che "la responsabilità dell'appaltatore ex art. 1669 cod. civ. trova applicazione esclusivamente
quando siano riscontrabili vizi riguardanti la costruzione dell'edificio stesso o di una parte di esso, ma non anche
in caso di modificazioni o riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose immobili,
anche se destinate per loro natura a lunga durata"; il principio è stato recentemente ribadito, negli stessi termini,
da Cass. n. 10658/2015;
-a conclusioni diverse è pervenuta Cass. n. 22553/2015, che ha affermato il principio secondo cui"in tema di
appalto, può rispondere ai sensi dell'art. 1669 c.c. anche l'autore di opere su preesistente edificio, allorché queste
incidano sugli elementi essenziali dell'immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale";
-benché tale ultima sentenza si sia fatta carico delle due pronunce di segno contrario ed abbia affermato che esse,
più che configurare un "contrasto sincrono di giurisprudenza", sono il risultato di una "diversa valutazione
complessiva delle emergenze fattuali", ritiene il Collegio che
-a prescindere dalle possibili peculiarità 'fattuali' delle singole situazioni esaminate- ricorra un evidente
contrasto tra i principi di diritto affermati: nell'un caso, infatti, si circoscrive l'operatività dell'art. 1669
c.c. alla sola ipotesi di costruzione ex novo e ciò che risulta rilevante è proprio la rovina (o il pericolo di
rovina) o il grave difetto conseguente a vizio di tale costruzione (o a vizio del suolo su cui essa è stata
realizzata); nell'altro, ciò che assume rilievo è invece l'idoneità delle opere compiute sull'immobile ad
incidere su elementi essenziali dello stesso (o anche su elementi secondari, ma rilevanti sulla
funzionalità globale), a prescindere dalla circostanza che si sia trattato di costruzione ex novo o di
intervento di ristrutturazione;
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-l'opzione fra l'una o l'altra interpretazione è -all'evidenza- tale da comportare, a priori, l'affermazione o
l'esclusione della possibilità di scrutinare l'ipotesi di una responsabilità ex art. 1669 c.c. in relazione ad interventi
di ristrutturazione, indipendentemente dalla loro estensione e dalla loro incidenza sugli elementi essenziali di un
immobile preesistente;
-ricorre pertanto -ad avviso del Collegio- l'opportunità di rimettere la questione alle Sezioni Unite della Corte per
la soluzione del contrasto. (omissis)
6. RESPONSABILITÀ EX ART. 2049
Corte di Cassazione, sentenza n. 12283 del 2016;
Ai fini della configurabilità della responsabilità per fatto dell'ausiliario (e del preposto) assume fondamentale
rilievo la circostanza che dell'opera del terzo il debitore comunque si sia avvalso nell'attuazione della propria
obbligazione, ponendo la medesima a disposizione del creditore. Il debitore risponde allora direttamente di tutte
le ingerenze dannose che al dipendente o al terzo preposto, della cui opera comunque si è avvalso, sono state rese
possibili dalla posizione conferitagli rispetto al creditore danneggiato, e cioè dei danni che il medesimo ha
potuto arrecare in ragione di quel particolare contatto cui è risultato esposto nei suoi confronti il creditore o il
terzo estraneo.
(omissis) Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, in base alla regola di cui all'art. 1228 c.c.
(e all'art. 2049) il debitore che nell'adempimento dell'obbligazione si avvale dell'opera di terzi risponde anche dei
fatti dolosi o colposi di costoro (v. Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 4/3/2004, n. 4400; 3 Cass., 8/1/1999, n.
103), ancorché non siano alle sue dipendenze (v. Cass., 11/12/2012, n. 22619; Cass., 21/2/1998, n. 1883; Cass.,
20/4/1989, n. 1855). La responsabilità per fatto dell'ausiliario (e del preposto) prescinde infatti dalla sussistenza
di un contratto di lavoro subordinato o contrattuale, irrilevante essendo la natura del rapporto tra i medesimi
intercorrente ai fini considerati, fondamentale rilievo al riguardo viceversa assumendo la circostanza che
dell'opera del terzo il debitore comunque si sia avvalso nell'attuazione della propria obbligazione,
ponendo la medesima a disposizione del creditore (v., da ultimo, con riferimento a diversa fattispecie, Cass.,
6/6/2014, n. 12833; Cass., 26/5/2011, n. 11590), sicché la stessa risulti a tale stregua inserita nel
procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio. La responsabilità che dall'esplicazione dell'attività
di tale terzo direttamente consegue in capo al soggetto che se ne avvale riposa invero sul principio
culus commoda elus et incommoda, o, più precisamente, come detto, dell'appropriazione o
"avvalimento" dell'attività altrui per l'adempimento della propria obbligazione, comportante
l'assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino ( cfr., Cass., 27/8/2014, n. 18304 ). Né, al
fine di considerare interrotto il rapporto in base al quale esso è chiamato a rispondere, vale distinguere tra
comportamento colposo e comportamento doloso del soggetto agente (che della responsabilità del primo
costituisce il presupposto), essendo al riguardo sufficiente (in base a principio che trova applicazione sia nella
responsabilità contrattuale che in quella extracontrattuale) la mera occasionalità necessaria (v. Cass., 17/5/2001,
n. 6756; Cass., 15/2/2000, n. 1682). Il debitore ( nel caso, la società odierna ricorrente ) risponde allora
direttamente di tutte le ingerenze dannose che al dipendente o al terzo preposto, della cui opera
comunque si è avvalso, sono state rese possibili dalla posizione conferitagli rispetto al creditore
danneggiato, e cioè dei danni che il medesimo ha potuto arrecare in ragione di quel particolare contatto
cui è risultato esposto nei suoi confronti il creditore (cfr., con riferimento alla responsabilità della struttura
sanitaria, Cass., 27/8/2014, n. 18304) o il terzo estraneo ( nella specie, il Condominio ). (omissis)
7. RESPONSABILITÀ DELLO STATO
Corte di Cassazione, sentenza del 22 novembre 2016, n. 23730.
28
La questione analizzata dalla Corte attiene alla possibilità di configurare una responsabilità dell'ente regione
per l'adozione, da parte della propria assemblea competente, di una legge regionale contenente alcune norme
successivamente dichiarate incostituzionali, nell'ipotesi per violazione dell'art. 117, comma 2, lett. s), e comma
3, della Carta, perché invasive della competenza legislativa statale, con riferimento, più in particolare, all'art.
4, comma 1, lett. a), della l. n. 36 del 2001. La Corte non condivide la tesi secondo cui tale fattispecie sarebbe
sussumibile nello schema della violazione, da parte del legislatore statale, dei vincoli derivanti
dall’ordinamento nazionale. Deve escludersi che dalle norme dell'ordinamento comunitario "possa farsi
derivare, nell'ordinamento italiano, il diritto soggettivo del singolo all'esercizio del potere legislativo - che è
libero nei fini e sottratto perciò a qualsiasi sindacato giurisdizionale - e che possa comunque qualificarsi in
termini di illecito da imputare allo Stato-persona, ai sensi dell'art. 2043 c.c., una determinata conformazione
dello Stato-ordinamento" (Sez. lav., n. 10617 del 1995, Rv. 494208). Di qui la configurazione
dell'obbligazione indennitaria legale.
Esclusa una responsabilità per atti legislativi, se ne individua altra diversamente fondata sulla
sovraordinazione gerarchica tra ordinamenti prima che tra fonti .
Dal punto di vista del diritto comunitario, cioè, l'inesatta azione ovvero l'omissione legislativa sono un fatto
antigiuridico, mentre tali non sono per l'ordinamento nazionale, in cui è approntata solo la tutela data dal
giudizio di costituzionalità, per le norme legislative ad esso soggette.
La fattispecie qui in esame, al contrario, non permette di individuare la suddetta distinzione tra ordinamenti,
tali non potendo considerarsi, dal punto di vista dell'unitario ordinamento nazionale, quello derivante dalle
leggi statali e quello enucleabile dalla legislazione regionale.
(omissis)
La questione posta, in quanto sottesa a tutti i motivi in esame, riguarda la possibilità di configurare una
responsabilità dell'ente regione per l'adozione, da parte della propria assemblea competente, di una legge
regionale contenente alcune norme successivamente dichiarate incostituzionali, nell'ipotesi per violazione dell'art.
117, comma 2, lett. s), e comma 3, della Carta, perché invasive della competenza legislativa statale, con
riferimento, più in particolare, all'art. 4, comma 1, lett. a), della l. n. 36 del 2001.
Secondo la prospettazione fatta propria anche dalla decisione di merito qui gravata, la descritta fattispecie
sarebbe sussumibile nel medesimo schema ricostruttivo della violazione, da parte del legislatore statale, dei
vincoli derivanti dall'ordinamento sovranazionale comunitario, con ripetibilità dei presupposti di responsabilità
quali individuati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenze 10 novembre 1991 "Francovich", cause
riunite C-6/90 e C-9/90, e soprattutto 5 marzo 1996 "Brasserie du pecheur" e "Factortame" cause riunite C-
46/93 e C-48/93). In entrambe le ipotesi, infatti, vi sarebbe violazione della fonte sovraordinata, ferma la
verifica, a valle, degli altri presupposti risarcitori.
La tesi non può essere condivisa.
Come noto, secondo l'ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, enucleata per il caso di omessa o tardiva
trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie, dalla suddetta
violazione del diritto dell'Unione europea sorge il diritto degli interessati alla rifusione dei danni che va
ricondotto, anche a prescindere dall'esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una
previsione risarcitoria, allo schema della responsabilità per inadempimento dell'obbligazione ex lege dello Stato,
di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente
sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell'ordinamento comunitario, connotato da primazia
rispetto a quello del singolo Stato membro, ma non anche alla stregua dell'ordinamento interno (Sez. un., n. 9147
del 2009, Rv. 607428, e succ. conf. quale Sez. 6-3, n. 307 del 2014, Rv. 629469).
L'arresto delle menzionate Sezioni Unite ha prestato adesione all'orientamento (allora minoritario) che escludeva
- come appunto deve escludersi - che dalle norme dell'ordinamento comunitario "possa farsi derivare,
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nell'ordinamento italiano, il diritto soggettivo del singolo all'esercizio del potere legislativo - che è libero nei fini e
sottratto perciò a qualsiasi sindacato giurisdizionale - e che possa comunque qualificarsi in termini di illecito da
imputare allo Stato-persona, ai sensi dell'art. 2043 c.c., una determinata conformazione dello Stato-ordinamento"
(Sez. lav., n. 10617 del 1995, Rv. 494208). Di qui la configurazione dell'obbligazione indennitaria legale.
La ricostruzione in parola, pertanto, prende le mosse proprio dall'esclusione di una responsabilità per atti
legislativi, e ne individua altra diversamente fondata sulla sovraordinazione gerarchica tra ordinamenti prima che
tra fonti (al netto di valvole ermeneutiche di salvaguardia quali quelle sottese alla c.d. teoria dei controlimiti,
riferite alla tutela dei diritti ritenuti imprescindibili per l'assetto costituzionale nazionale).
Dal punto di vista del diritto comunitario, cioè, l'inesatta azione ovvero l'omissione legislativa sono un fatto
antigiuridico, mentre tali non sono per l'ordinamento nazionale, in cui è approntata solo la tutela data dal giudizio
di costituzionalità, per le norme legislative ad esso soggette.
La fattispecie qui in esame, al contrario, non permette di individuare la suddetta distinzione tra ordinamenti, tali
non potendo considerarsi, dal punto di vista dell'unitario ordinamento nazionale, quello derivante dalle leggi
statali e quello enucleabile dalla legislazione regionale.
Dal che consegue che, a fronte della libertà della funzione politica legislativa (artt. 68, comma 1, 122,
comma 4, Cost.), non è ravvisabile un'ingiustizia che possa qualificare il danno allegato in termini di
illecito, e arrivare a fondare il diritto al suo risarcimento quale esercitato nel presente giudizio.
È vero che gli studi, non solo italiani, in cui è stato partitamente affrontato il tema della responsabilità (ex art.
2043 c.c.) da atto legislativo (che in tesi potrebbe essere, come logico, anche quello statale di cui poi sia risultata
accertata l'illegittimità costituzionale) ha ritenuto di poter trarre sollecitazioni espansive dalle fattispecie relative ai
rapporti con gli ordinamenti sovranazionali, ma si tratta di riflessioni che si pongono esse stesse in termini, allo
stato delle norme positive, di pura problematicità speculativa.
Sull'insindacabilità dell'attività esplicativa di funzioni legislative non si registrano segnali difformi nella
giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. un., n. 10416 del 2014, Rv. 630492, e, con riferimento anche qui
incidentale all'atto da qualificare, per l'ordinamento, come politico, Sez. un., n. 10319 del 2016, Rv. 639675).
Ne deriva l'infondatezza del ricorso principale, con assorbimento di tutti gli altri profili.
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