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1 Favole, fiabe e racconti fantastici IL PIACERE DI LEGGERE FAVOLE MODERNE J. Prévert Un tempo, gli asini p. 1 S. Gallo La scimmia e il coccodrillo p. 3 FIABE DI OGGI S. Roncaglia Le avventure di una principersa p. 6 B. Pitzorno L’incredibile storia di Lavinia p. 16 FANTASMI, VAMPIRI, STREGHE I. B. Singer Lo spiritello buono p. 19 M. Pressler Un vampiro impaurito p. 23 La magia delle storie Antologia 1

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1Favole, fiabe e racconti fantastici

IL PIACERE DI LEggERE

FAVOLE MODERNE

J. Prévert Un tempo, gli asini p. 1

S. Gallo La scimmia e il coccodrillo p. 3

FIABE DI OggI

S. Roncaglia Le avventure di una principersa p. 6

B. Pitzorno L’incredibile storia di Lavinia p. 16

FANTASMI, VAMPIRI, STREgHE

I. B. Singer Lo spiritello buono p. 19

M. Pressler Un vampiro impaurito p. 23

La magia delle storie

Antologia 1

1

I l p I a c e r e d I l e g g e r e

Il pIacere dI leggere

Antologia 1

Un tempo gli asini erano animali completamente selvatici. Cioè, mangiavano quando avevano fame, bevevano quando

avevano sete e correvano nei prati quando ne avevano voglia.A volte capitava che un leone mangiasse un asino e tutti gli altri scappassero via piagnucolando, ma il giorno dopo non ci pensa-vano più e ricominciavano a ragliare, bere, mangiare, dormire… In breve, tranne le volte in cui veniva il leone, se la passavano decisamente bene.Un giorno i padroni dell’universo (è così che gli uomini amano parlare di se stessi) arrivarono nella terra degli asini e questi, ben felici di vedere i nuovi arrivati, corsero loro incontro.Mentre galoppavano, pensavano: «Sono strani animali pallidi. Camminano su due zampe. Hanno orecchie molto piccole e non sono tanto belli, ma non importa, dobbiamo dar loro un caloroso benvenuto. È il minimo che possiamo fare».E gli asini fecero delle cose strane per divertire gli uomini: si ro-tolarono sul prato muovendo gli zoccoli, cantarono la canzone degli asini e, per giocare, diedero agli uomini delle piccole spin-

Uno dei difetti peggiori dell’uomo è senz’altro l’arroganza messa bene in evidenza da Fedro nella favola «Il lupo e l’agnello». Questa caratteristica umana non è migliorata nel corso dei millenni e il poeta francese Jacques Prévert sottolinea come alcuni uomini si siano spinti fino a voler dominare ogni essere vivente.Gli asini di questa favola non rappresentano, infatti, soltanto gli animali maltrattati e usati per soddisfare i bisogni dei «padroni dell’universo», ma anche tutte le popolazioni conquistate e sottomesse.

Jacques Prévert

1. La magia delle storie favole moderne

Un tempo, gli asini…

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te facendoli cadere sull’erba. Ma agli uomini gli scherzi fatti da-gli altri non piacciono e, cinque minuti dopo il loro arrivo nella terra degli asini, i padroni dell’universo legarono tutti gli asini come una filza di salsicce.Tutti tranne il più giovane, il più tenero. Questo lo uccisero e lo arrostirono su uno spiedo. Gli uomini si sedettero attorno all’asi-no con i loro coltelli in mano: era cotto a puntino. Iniziarono a mangiare e subito fecero delle smorfie. Poi buttarono i coltelli per terra.Uno degli uomini disse (tra sé e sé): «Non è buono come il man-zo! Non è buono come il manzo!».Un altro: «Non mi piace. Preferisco l’agnello».Un altro: «Fa proprio schifo!». (E gli vennero le lacrime.)Quando videro l’uomo che piangeva, gli asini catturati pensaro-no che fosse per il rimorso. «Ci lasceranno andare», pensarono gli asini. Ma gli uomini si alzarono e iniziarono a parlare tra di loro, gesticolando continuamente.Poi, in coro, dissero:– Questi animali non sono buoni da mangiare. Hanno un brutto verso. Hanno delle orecchie lunghe e ridicole. Sicuramente sono stupidi e non sanno leggere né far di conto. li chiameremo so-mari, faremo di loro ciò che vorremo e ci porteranno i nostri carichi. Dopotutto, siamo noi i padroni, qui. Avanti!E gli uomini portarono via gli asini.

J. Prévert, Storie e altre storie, Guanda

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Il pIacere dI leggere

1. nota: significato.

Sofia GalloLa scimmia e il coccodrillo

Sulle rive di un lago nel Sud del paese c’erano molti alberi di banane e, siccome le scimmie sono ghiotte di banane, su

quegli alberi ne vivevano a frotte.Uno scimmiotto nuovo del luogo si trovò da solo in mezzo a gruppi di scimmie che erano padrone del territorio e venne iso-lato. Non riusciva a fare amicizia con le altre scimmie, era uno straniero per loro; un giorno, mentre rosicchiava pensieroso la sua banana appollaiato su un ramo di un albero pencolante sul lago, vide un coccodrillo che nuotava. Lo scimmiotto non sape-va che il coccodrillo fosse pericoloso per le scimmie: non era mai vissuto in riva ad un lago e non conosceva la terribile voracità dei coccodrilli.Il coccodrillo era giovane come lo scimmiotto e non aveva anco-ra imparato a essere feroce con gli altri animali e a divorare le scimmie; non sapeva che non avrebbe dovuto tendergli la mano dell’amicizia.Successe dunque che lo scimmiotto era solo soletto e il giovane coccodrillo pure, così incominciarono a chiacchierare e divenne-ro buoni amici; il coccodrillo faceva salire lo scimmiotto sul suo dorso e lo portava a spasso sul lago, gli faceva vedere i grandi alberi sulla riva, am-mirare il suo riflesso nell’ac-qua e ridevano e si divertiva-no insieme.Un giorno il giovane cocco-drillo raccontò della sua nuo-va amicizia alla mamma; rac-contò di come fosse simpati-co lo scimmiotto, con la sua voglia di scherzare, di quan-to fosse agile e intelligente, e disse che gli sarebbe piaciuto farglielo conoscere.La mamma ascoltò con pa-zienza, poi disse:

Antologia 1 1. La magia delle storie

Nell’India del Sud ci sono molti alberi di banane in foreste rigogliose e ricche di laghi. Qui vivono le scimmie e molti animali carnivori come i coccodrilli.Tratta dal Panchatantra (trascrizione delle fiabe che hanno come oggetto gli animali), questa è la storia di un’amicizia, forzatamente di breve durata, tra uno scimmiotto e un coccodrillo.

favole moderne

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– Va bene, incontrerò volentieri il tuo giovane amico, ma sai che cosa dovresti fare? Portarlo qui giù, sott’acqua, sul fondo del lago.– Se trascino lo scimmiotto in fondo al lago, potreb-be morire – osservò il coccodrillo perplesso. – Lui non può vivere sott’acqua.– Infatti la scimmia è un animale che non dovreb-be diventare amico del coccodrillo, perché i coc-codrilli di regola mangiano le scimmie – ribatté secca la mamma.Il giovane coccodrillo non disse più niente e si ri-fiutò di accompagnare sul fondo del lago il suo amico scimmiotto. La mamma continuò a insistere.– Appena vediamo che non respira più lo riportiamo a galla. Stai tranquillo, non gli faremo del male – dis-se in mala fede.Alla fine il coccodrillo si lasciò convincere e un giorno dis-se al suo amico che lo avrebbe portato in mezzo al lago per fargli conoscere la sua mamma.Lo scimmiotto non aveva alcun motivo per non fidarsi del gio-vane coccodrillo e con un gran balzò salì sul suo dorso. Quan-do però si trovò in mezzo al lago e il coccodrillo incominciò a immergersi, si accorse che c’era qualcosa che non andava per il verso giusto.– Fermati! – cominciò a urlare. – Non andare sott’acqua! Io lì non riesco a respirare.– Non ti preoccupare – gli disse allora il coccodrillo gentile. – La mia mamma ha detto che appena ti manca il fiato ti riportiamo a galla.Lo scimmiotto intuì che la mamma aveva cattive intenzioni.– Perché vuole incontrarmi sul fondo del lago? – chiese al l’amico.– Non lo so…– Allora vai a chiederle perché vuol vedermi sott’acqua e non sulla superficie del lago e la prossima volta verrò con te –. Lo scimmiotto era convinto ormai che la mamma del suo amico vo-lesse divorarlo.Il giovane coccodrillo accettò la sua proposta, lo riportò sulla sponda del lago e poi andò a chiedere alla mamma il perché del-la sua richiesta.– La ragione vera per cui voglio che tu mi porti lo scimmiotto in fondo al lago – dichiarò la mamma senza più nascondere le sue vere intenzioni – è che il cuore delle scimmie è tenero e gustoso; è la parte più buona della scimmia e faremo una buona cena.Al giovane coccodrillo l’idea non piaceva, ma pensò che forse era quella l’usanza tra i coccodrilli e tornò dallo scimmiotto. Aveva

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deciso di portarlo alla mamma senza dargli subito delle spie-gazioni.– Vieni con me – gli disse. – Non voglio trascinarti in posti pericolosi; quando saremo là in mezzo ti rac-conterò tutto.Lo scimmiotto si fidò di nuovo e salì a cavalcioni sul dorso del coccodrillo.Quando si trovarono in mezzo al lago, il giova-ne coccodrillo gli disse la vera ragione per cui la madre desiderava incontrarlo.Lo scimmiotto riconobbe la franchezza dell’amico e gli disse:– Davvero vuole mangiare il mio cuore? Lo avessi saputo prima!– Prima? Che cosa vuoi dire? – chiese il coccodrillo in-terdetto.– Sì, vedi… – riprese lo scimmiotto – io posso anche darlo il mio cuore alla tua mamma, perché tu sei il mio migliore amico, peccato che oggi l’abbia lasciato là sull’albero di banane. Sai, non sapevo che le interessasse così tanto!Il coccodrillo pensò che lo scimmiotto dicesse la verità, non sa-peva ancora che un cuore non può vivere fuori dal suo corpo e ri-portò lo scimmiotto a riva.Astuto e reso grande da questa esperienza, lo scimmiotto salì sull’albero di banane e, consapevole ormai del pericolo che il coc-codrillo rappresentava per lui, salutò da lontano e per sempre il suo compagno di giochi: mai più gli avrebbe concesso la sua amicizia.Quel giorno il giovane coccodrillo gli aveva ancora creduto, ma l’indomani non si sarebbe più fatto ingannare dalla storia del cuore lasciato sull’albero e lo avrebbe divorato senza pietà. Così gli ordinava la sua natura di coccodrillo.Lo scimmiotto rimase un po’ di tempo a vivere lì, su quegli al-beri in riva al lago, poi se ne andò a cercare un gruppo di scim-mie disposte ad accoglierlo, a integrarlo nella loro vita quotidia-na; dimenticò il lago, dimenticò il suo giovane amico coccodril-lo, ma restò sempre all’erta avvicinandosi a laghi o fiumi quan-do andava a bere…

Ciascuno si comporta secondo natura; non si può mai agire con-tro di essa. Il raggiungimento della consapevolezza della propria natura significa aver raggiunto l’età adulta.

S. Gallo, Sette favole dall’India, Sinnos editrice

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Il pIacere dI leggere

Antologia 1 1. La magia delle storie

Silvia RoncagliaUna fiaba ricca di giochi di parole, battute e colpi di scena che ti divertirà molto.

Le avventure di una principersa

1. C’era una volta…

… C’era una volta una principersa…

– Una principessa! – direte voi!

Infatti, non appena si affacciò a questa storia ed entrò nel libro,

trovò un bosco; ci si addentrò, come spesso fanno le principesse

per svariati motivi, e… si perse!

Ed ecco la nostra principersa che vaga nel bosco, senza più ritro-

vare la strada di casa, anzi, la strada per il castello, perché è lì,

si sa, che vivono tutte le principesse delle favole.

Cammina, cammina… non arrivò proprio da nessuna parte!

Anzi, le pareva di essere nella stessa radura da cui era passata

ore prima, o vicino a una grande quercia che aveva già visto nel-

la mattinata; di graffiarsi in cespugli di rovi che già l’avevano

ferita, di attraversare ruscelli già attraversati.

Gira e rigira, era sempre nel folto del bosco, incapace di trovare

una via per uscirne.

La principersa cominciò a disperarsi. Avrebbe più rivisto il buon

re Cunimondo, suo padre? Avrebbe ancora potuto farsi servire e

riverire dalle sue cameriere che la vestivano, pettinavano e pro-

fumavano da quando era nata? E il principe Cicisbeo, il suo pro-

messo sposo, cosa avrebbe detto a non vederla più?

Cicisbeo aveva sempre la candela al naso e gli lacrimavano gli

occhi: soffriva, da sempre, di una forma cronica di raffreddore

da fieno, tuttavia era giovane e di sangue blu! E poi gli era stata

promessa in sposa appena nata, come è logico che si faccia con

le principesse. Ora non l’avrebbe più rivisto!

Il povero Cicisbeo, dal dispiacere, avrebbe avuto gli occhi ancora

più rossi e lacrimosi e avrebbe consumato quintali di fazzoletti

soffrendo di rimpianto per lei!

Solo all’idea, la principersa cominciò a piangere e singhiozzare e

si lasciò cadere lunga e distesa in una radura del bosco.

Era stremata, infreddolita, affamata, le facevano male i piedi e

aveva tanta paura. Insomma, si sentiva come già si erano senti-

fiabe di oggi

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te tutte le principerse perse nei boschi prima di lei!

Biancaneve si era comunque risvegliata circonda-

ta da animaletti gentili che l’avevano condotta alla

casa dei sette nani. La Bella Addormentata, nel fol-

to di un inestricabile bosco di rovi, non aveva dovu-

to far altro che schiacciare un pisolino e, al risve-

glio… ecco pronto un bel principe!

Hansel e Gretel, che erano soltanto dei poveracci,

senza un briciolo di sangue blu, se l’erano comun-

que cavata più che bene ed erano tornati a casa con

un tesoro.

Dunque, nel bosco ci si perde per qualche cosa, sì,

deve avere uno scopo: la principersa ne era più che certa!

Quindi, singhiozzò e pianse fiduciosa finché non si addormentò,

certa di risvegliarsi circondata da dolci cerbiatti e da uccelletti

canori. Senz’altro le avrebbero suggerito una soluzione, svolaz-

zandole intorno e tirandola dolcemente per il mantello!

La risvegliò invece un improvviso grugnito; si riscosse e vide,

nell’ombra, una massa scura. Poi la terra sotto di lei tremò e la

massa scura le si fece incontro al galoppo.

La principersa fece appena in tempo ad arrampicarsi, neppure

lei capì come, su un albero lì vicino. Non aveva mai fatto niente

di simile; era delicata, aggraziata e in vita sua non si era mai ar-

rampicata neppure sopra a una seggiola per rubare la marmel-

lata! D’altronde gliela servivano in vasetti d’oro e d’argento: ba-

stava suonare un campanellino e chiedere! Ora comunque era in

cima a una grande quercia e da lassù, seduta su un ramo, con i

vestiti a brandelli, vide un grosso cinghiale grufolare e scavare

attorno all’albero.

Il cuore le batteva forte forte!

Girò attorno lo sguardo e vide, vicinissime, due grandi lanterne

gialle, poi udì un rumor d’ali e un lugubre lamento. Le lanterne

gialle si allontanarono: era una civetta!

Il cuore le batteva all’impazzata!

Per fortuna, portava in cintura una boccetta piena di sali e li an-

nusò per non svenire. È molto romantico svenire, ma non era il

caso: sotto c’era un cinghiale!

Il cuore le rullava come un tamburo!

Passò del tempo e c’era silenzio. Che il cinghiale se ne fosse an-

dato? La principersa, per controllare, si sporse e… batté la testa

contro un grosso ramo che non aveva visto.

La principersa.

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2. La principresa

Quando si risvegliò, dapprima non capì cosa le stesse suc-

cedendo. Aveva male alla testa e scivolava per terra sulla

schiena, trascinata via da chissà quale forza. Forse sognava. Poi

aprì gli occhi e vide sopra di sé le cime degli alberi e il cielo rosa

dell’alba, e tutto si muoveva molto veloce. Infine capì che era lei

a muoversi veloce, trascinata per i capelli da una grossa mano!

– Aiuto, aiuto! – cominciò allora a gridare, ma ormai era una

principresa, presa e fatta prigioniera da un grande gigante.

– Zitta, gallinaccia! – le gridò il gigante, infastidito dalle sue

urla di paura.

Ma la principresa urlò ancora più forte:

– Aiuto, aiuto! Qualche principe corra a salvarmi, aiuto! Un orri-

bile gigante mi ha rapita!

La principresa sapeva che, se si viene catturate da orchi, gigan-

ti, perfidi maghi e vecchi re cattivi, senz’altro c’è un eroe nei pa-

raggi, pronto a correre in aiuto.

Ma alle sue grida rispondeva solo l’eco di un’altissima montagna

alla quale si avvicinavano a grandi passi.

Con ogni passo il gigante superava diverse miglia e la principre-

sa, trascinata per i capelli, un po’ si sentiva sollevare a mezz’aria

e un po’ sfiorava il terreno con la schiena e le gambe, abbastanza

da graffiarsi e farsi male.

Il gigante era infatti altissimo, ma aveva le braccia lunghe lun-

ghe e così le grandi mani villose arrivavano praticamente a terra.

– Aiuto, aiuto! Un mostro mi ha rapita! Chi sei, perfido gigante,

tu che osi rapire una povera principessa nel bosco?

– Io sono il Gigante Maleodorante – rispose lui.

C’era infatti nell’aria un odore nauseabondo e adesso era chiaro

da dove provenisse!

Che incubo! Che destino crudele!

Mille volte meglio essere rapiti dal Mago del Freddo

che l’avrebbe rinchiusa in una montagna di ghiaccio,

fredda ma pulita!

Meglio farsi rapire dal Diavolo in persona all’inferno;

un po’ caldo, ma l’odore di bruciato era sicuramente

meglio di quell’orribile fetore!

Il Gigante Maleodorante viveva sul Piz del Puz, la più

alta cima di un grande massiccio montuoso chiamato

il Grande Letamaio e lassù, sul cucuzzolo, aveva co-

struito il suo castello: Castel Melmoso. Per raggiun-

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gerlo, attraversarono luoghi orribili: dapprima la valle delle Puz-

zole, e qui la principresa si turò il naso con tutte e due le mani;

poi il bosco della Grande Muffa, dove la principersa fu colta dalla

nausea; infine il gigante, con tre passi, scavalcò la palude della

Fetida Fogna. E qui la povera principersa, trascinata come una

zattera sul pelo dell’acqua (se acqua si poteva chiamare quell’or-

ribile liquido!) aveva il voltastomaco!

Finalmente arrivarono a Castel Melmoso, ma anche qui aleg-

giava un’aria così fetida e densa da potersi tagliare col coltello,

come una fetta di gorgonzola.

Il Gigante Maleodorante entrò nella grande sala da pranzo dove

degli orribili mostriciattoli stavano preparandogli una gustosa

cena: sul fuoco del camino rosolavano due grosse puzzole, con

tanto di pelo e coda, e in tavola era già servita una bella zuppa

calda di cimici!

– Mangia, ti invito alla mia tavola! – disse il gigante lasciando

cadere la principresa su una seggiola a capotavola.

Ma lei a mangiar quella roba non ci pensò neppure!

Il gigante trangugiò tutto d’un fiato la sua zuppa di cimici con

un risucchio da scarico di lavandino, si pulì la bocca col dorso

della mano e disse:

– Ho intenzione di sposarti!

– Scordatelo! Questo mai!

– Ci penserà il tempo a farti cambiare idea!

– Qualcuno verrà a salvarmi!

– Non ci contare, qui non arriverà mai nessuno! Chi attraversa

le mie terre puzza per tutta la vita. Nessun principe è disposto a

tanto! Chi l’ha fatto, ha salvato sì una principessa, ma questa si

è poi sempre rifiutata di sposare un uomo che puzzava e avreb-

be puzzato per sempre. È considerata quindi un’impresa inutile.

Non arriverà nessuno, non ci contare!

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I l p I a c e r e d I l e g g e r e

3.  La princispera

La princispera invece ci contava e per giorni e

giorni digiunò e aspettò, convinta di vedere

arrivare un prode cavaliere su uno splendido stal-

lone bianco.

La princispera sperava e sospirava, ma poi si con-

vinse che il destino andava aiutato almeno un

poco. Così scrisse richieste d’aiuto sulle foglie e di-

sperse le foglie al vento. Getto giù dalla finestra

una bottiglia con dentro un messaggio e quella af-

fondò nelle acque nere e limacciose del fossato che

circondavano il castello, ma forse, chissà per qua-

li vie, sarebbe giunta al mare. Poi si rassegnò a

mangiare e cominciò a nutrirsi con le zuppe di ci-

mici, le puzzole e qualsiasi altra schifezza venisse

servita in tavola, perché altrimenti il prode cavaliere che doveva

arrivare avrebbe trovato soltanto una princispera morta per la

fame!

Tutte le sere il Gigante Maleodorante, prima di scendere a dor-

mire nella stalla (perché era lì che si coricava), le rivolgeva la so-

lita domanda:

– Ti sei finalmente decisa a sposarmi?

E lei tutte le sere rispondeva:

– Scordatelo! Questo mai!

Stanco di tutti questi dinieghi, il gigante pensò di usare dei si-

stemi un po’ cattivi per convincerla.

– Ci penserò io a farti cambiare idea! – disse. – Da domani sarai

una principezza!

4.  La principezza

La principezza veniva usata come pezza da piedi, cioè come

stuoino, all’ingresso del castello. Lì si pulivano i piedi gli

ospiti e gli zoccoli i cavalli, i gatti si affilavano le unghie e i cani

ci si acciambellavano sopra per dormire e, se avevano le pulci, si

grattavano anche!

Dopo una settimana di questo trattamento, il gigante era certo

di poterla convincere e una sera le chiese:

– Ti sei finalmente decisa a sposarmi?

Ma anche se per giorni e giorni era stata una principezza, la sua

risposta non cambiò:

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I l p I a c e r e d I l e g g e r e

– Scordatelo! Questo mai!

– Ci penserò io a farti cambiare idea! – disse il gigante che co-

minciava a perdere la pazienza, ma cercava di non darlo a ve-

dere. – Dovrai spazzare, pulire e lustrare Castel Melmoso in un

giorno solo. Se riuscirai sarai libera, ma se non riuscirai dovrai

scegliere: o il matrimonio o un’orribile fine!

E così dicendo le mise in mano uno straccio e una scopa: ora la

nostra eroina era diventata una princispazza!

5.  La princispazza

La princispazza si guardò intorno sgomenta: pulire Castel

Melmoso era, lo si può ben capire, un’impresa impossibile.

Ma proprio nel pensare questo, la princispazza si rianimò. Infat-

ti sapeva bene, e lo saprete anche voi, che quando nelle favole si

presenta un’impresa impossibile, subito sbucano fuori, pronti a

risolvere le cose, aiutanti meravigliosi.

A volte intervengono formiche gentili, altre volte vecchie cornac-

chie fatate o topolini magici che in quattro e quattr’otto lavorano

al tuo posto e l’impresa impossibile diventa un gioco da ragazzi!

Ma in questa storia, niente da fare! Le cornacchie a cui si rivol-

geva facevano «cra» come cornacchie normalissime e, come vere

cornacchie, volavano via sbattendo le ali. I topi squittivano e le

formiche erano intente alle loro occupazioni.

La princispazza, persuasa infine che nessun aiuto magico sareb-

be giunto, si rimboccò le maniche, prese la ramazza e si mise a

spazzare. E spazzò fino a sera. Ma al tramonto non aveva pulito

nient’altro che la prima fila di mattonelle di una

sola sala del castello. Eppure aveva trasportato

fuori almeno cinquantotto carriole piene, colme

di sporcizia e immondezza!

E così alla sera il Gigante Maleodorante le si fece

incontro, sicuro di sé, con la solita domanda:

– Ti sei finalmente decisa a sposarmi?

Ma la princispazza gli riservava la solita rispo-

sta:

– Scordatelo! Questo mai!

– Hai scelto l’orribile fine? – chiese allora il gi-

gante.

– Non mi pare! – fece lei sprezzante.

E il Gigante Maleodorante, che puzzava sì, ma

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non era stupido, capì bene cosa aveva voluto dirgli con queste

parole: qualsiasi fine le avesse riservato, era pur sempre me-

glio del matrimonio!

Allora si fece rosso di rabbia e di vergogna:

– Ah, ci penserò io a farti cambiare idea! – gridò perdendo del

tutto la pazienza. – Ma, se proprio non vorrai cambiarla… be’, al-

lora finirai nella principressa!

6.  La principressa

La principressa era una macchina terribile: una grande pres-

sa per principesse! Pressava le principesse che poi, ridotte a

dimensioni minime, venivano inscatolate sottovuoto. C’era, pare,

un mercato fiorente di principesse in scatola in America o in

Giappone e lì il gigante spediva le principrese che si erano rifiu-

tate di sposarlo.

Sulla macchina scintillante c’era un cartello scritto a chiare let-

tere:

Se tu non mi vuoi sposare,orgogliosa principessa,non c’ è nulla da fare:

finirai dentro la pressa!

E il gigante la lasciò lì, davanti alla grande principressa, a medi-tare su queste parole. C’era anche un principressatore, uno stra-no vecchietto addetto a far funzionare la pressa e, quando rima-sero soli, la nostra eroina, tutta tremante, gli chiese:– Ma è proprio vero? Il gigante mette in scatola le principesse orgogliose e le vende? E c’è davvero chi le compra?– Oh, sì! – confermò il vecchio. – C’è chi le usa come soprammo-bili, oppure chi ogni tanto le annusa perché hanno profumo di favola. A volte, le principesse in scatola vengono comprate da qualche scrittore per bambini: all’occorrenza si apre la scatola e si versa la principessa in qualche storia!Questa storia non le piaceva affatto, ma neppure le piaceva l’idea di finire in altre storie non sue, magari anche peggiori di questa. E così, per non finire nella principressa, la nostra eroina, veden-do una finestra aperta, decise! Corse alla finestra e, prima che il vecchio principressatore avesse anche solo il tempo di sbattere gli occhi, si gettò di sotto: meglio morta sfracellata sulle rupi del Piz del Puz che pressata e inscatolata! E poi questa era almeno una morte eroica, degna di una principessa nobile e pura!

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I l p I a c e r e d I l e g g e r e

E cadde volteggiando e volteggiò cadendo finché, alla fine di quel vertiginoso volo, inaspettatamente si sentì affondare in una poltiglia calda e maleodorante. L’immenso Piz del Puz non era una montagna come le altre. Sembrava una scoscesa cima roc-ciosa, ma non era in realtà che un immenso letamaio. Era stato come atterrare in un gran budino!E così non era morta, anzi stava benone, ma era diventata irri-mediabilmente una principuzza.

7.  La principuzza

La principuzza cominciò a vagare senza sapere bene nean-che lei che direzione prendere. Per giorni e giorni attraversò

solo zone orribili e maleodoranti di cui però non poteva più per-cepire il fetore: puzzava troppo lei!Infine, non si sa come, arrivò alla periferia di un paese: c’era un grande spiazzo dove stavano montando delle giostre e un tendo-ne, forse per una festa paesana. Chi l’incrociava nel cammino, sobbalzava, si turava il naso e passava dall’altro lato della strada.– Chi è quella?– Un qualche fenomeno da baraccone!– Non sanno proprio più cosa inventare! – commentava qualcu-no. – Sai, la donna cannone non fa più notizia!– Ma questa fa puzza!– Forse penseranno di attirare i clienti con qualche novità!– Mmmm… sarà! Questa più che attirare, respinge!E si allontanavano ridendo.– Ma chi è quella? – cominciava a chiedersi qualcun altro.

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I l p I a c e r e d I l e g g e r e

E la principuzza a un certo punto rispose:– Sono una principessa, mi sono persa in un bosco e poi…– E poi sei caduta in un letamaio! – concludeva ridendo il pas-sante.– Sì, sì, infatti è andata proprio così! E sapreste indicarmi il ca-stello di re Cunimondo, mio padre?– Hai detto il castello? Ho capito bene? Se vuoi ti indico dov’è una stalla!E tutti scoppiavano a ridere.Tutto il giorno non fece che incontrare gente che la evitava, che si turava il naso e cambiava strada, oppure che rideva e la pren-deva in giro.Nessuno comunque la prendeva sul serio e alla fine la principuz-za ci perse la testa e diventò una principazza.

8.  La principazza

La principazza era come impazzita.Non sapeva più chi era, oppure credeva di saperlo e sostene-

va cose insensate.– Io sono Biancaneve – diceva.– Ah sì? Biancaneve aveva il viso bianco come la neve, le labbra rosse come il sangue e i capelli neri come l’ebano. Tu sei solo nera come l’ebano, ma… dalla testa ai piedi!Allora la principazza vagava smarrita finché non incontrava qualcun altro. Incrociava un gruppetto di bambini che, solo a ve-derla, scappavano urlando e li chiamava, li tratteneva per la ma-glia e diceva:– Non ve ne andate, ve ne prego, io sono una principessa di san-gue reale, sono Aurora, la Bella Addormentata nel bosco!– Ah sì, a me sembra che tu sia «la brutta addormentata sul le-tamaio».– Dove hai dormito, Aurora? In una stalla?La principazza allora cominciava a dubitare. Forse era Ceneren-tola. Andava quindi negli orti e bussava con le nocche contro tutte le zucche che trovava, poi aspettava che si trasformassero in carrozze. Ma non accadeva niente e così ogni sera, aspettan-do la buona fata e il cocchio dorato, si addormentava in un orto diverso.Poi finirono i frutteti e gli orti e, al limitare della campagna, aveva inizio un bosco, chissà, forse quello in cui si era smarrita quando era una principersa. La principazza ci si inoltrò, camminò a lungo e la sera si addor-mentò in una radura.

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9.  La principensa

Si risvegliò diversa.Capita a tutti di addormentarsi pieni di foschi

pensieri e poi di risvegliarsi e di trovare che il mondo ci sorride. Oppure, a volte, si è confusi e preoccupati, ma dopo una bella dormita tutto sembra più chiaro.Insomma, capita che tutto cambi e anche la principazza si risvegliò cambiata. Non si sen-tiva più smarrita: non era più una principazza. Era diventata una principensa!E la principensa cominciò a pensare.I primi pensieri si affacciarono timidi come coni-gli e timidi scapparono a nascondersi chissà dove, lasciando solo un lieve prurito che subito la princi-pensa grattò via dalla testa. Ma dopo i primi pensieri ne vennero altri, liberi come farfalle: svolazzavano qua e là e avevano vita breve, ma di tanto in tanto si posavano da qualche parte. Questi facevano davvero prurito e, per quanto si grattasse la testa, la principensa non riusciva a cacciarli via.Infine ne avanzarono altri, sicuri e baldanzosi come un esercito in marcia che semina ovunque l’eco del suo passo.Un passaggio simile lascia in testa clangore di trombe e rullar di tamburi, ma non fa prurito. E così la principensachetiripensa smise di grattarsi e continuò a pensare.E pensò al re Cunimondo che era buono, sì, ma sciocco, noioso e tondo.E pensò a Cicisbeo che era di sangue blu, ma non ci si perdeva granché a non vederlo più.E pensò a tutti i principi che non erano mai arrivati come a dei treni che non sono mai passati e ci si immagina portino chissà dove, mentre magari fermano a Lambrate o a Canicattì, oppure finiscono su un binario morto.Per cui eccola, la nostra principensa, seduta sotto un faggio che continua a pensare.Sapete ora che cosa ha pensato?Ha pensato di uscire dal bosco, di uscire dalla favola, di uscire dal libro perché, a pensarci bene, forse non conviene poi tanto fare la principessa!

S. Roncaglia, Principerse e filastrane, Nuove Edizioni Romane

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Antologia 1 1. La magia delle storie

Bianca PitzornoC’era una volta una bambina scalza e lacera che vendeva fiammiferi; stava morendo di fame e di freddo all’angolo di una strada tra l’indifferenza dei passanti.Era la vigilia di Natale e nevicava, nevicava.Ve la ricordate la bella e triste fiaba La piccola fiammiferaiadi Andersen?Questa che leggerete ha la stessa protagonista, ma è una fiaba moderna, ambientata in una grande città e ci riserva… un’imprevedibile sorpresa.

L’incredibile storia di LaviniaLavinia aveva solo sette anni; fin da quando aveva memoria, era sempre stata una piccola fiammiferaia randagia e aveva dovuto imparare a cercarsi da sola i ripari più convenienti.Scese la notte. La piazza era deserta ormai. Solo le luci delle pub-blicità si muovevano dando un’illusione di vita e di calore, invece faceva sempre più freddo.Stringendosi addosso i suoi stracci Lavinia si raggomitolò più stretta che poteva nell’angolo della vetrina, poggiò la testa con-tro il muro e si addormentò.Era la notte della vigilia di Natale a Milano.Mentre Lavinia dormiva, in tutte le case della città i bambini a tavola guardavano il padre che tagliava il panettone e protesta-vano: – No, non ne voglio! Sono pieno fin qui. Guarda che se me ne fai mangiare anche una fettina piccola piccola, vomito!E i padri si scandalizzavano: – Che indecenza! Questo è un in-sulto alla miseria. Anche la notte di Natale devi fare tante storie per mangiare! Pensa a quei poveri negretti affamati che dareb-bero chissà che cosa per una fetta di panettone…Lavinia non era una negretta, ma nel sonno si lamentava lo stes-so per la fame, e avrebbe dato chissà cosa per una fetta di panet-tone. Se almeno quei papà che predicavano così bene le avesse-ro comprato qualche scatola di fiammiferi prima di rincasare e mettersi a tavola!Sognava tacchini arrosto e grandi torte, montagne di patate frit-te, lasagne, polpette, salami e zabaione. Sognava insalate russe e «hamburger col tomato» così come li aveva visti nelle vetrine del-le rosticcerie, senza potersi mai permettere di assaggiarli.Verso mezzanotte i sogni di Lavinia furono interrotti dalla bru-sca frenata di un taxi. La bambina alzò gli occhi e vide una bel-la signora scendere dalla macchina proprio sul marciapiede di fronte a lei. Era vestita in modo poco adatto per una notte così fredda. Aveva un abito scollato, di velo azzurro molto trasparen-te (Lavinia poté notare le mutande, anch’esse azzurre); le caviglie nude, i piedi infilati in due pantofoline di velluto, e in testa…Lavinia dovette coprirsi la bocca con le mani per soffocare una risata… In testa la donna aveva il cappello più strano che si pos-

fiabe di oggi

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sa immaginare. Una specie di lungo imbuto rovesciato, tutto de-corato come un albero di Natale.«Ce n’è di matti, in giro!» pensava Lavinia, continuando a goder-si lo spettacolo, visto che ormai si era svegliata. La signora pagò il tassista che le fece cinque inchini profondissimi, uno dopo l’al-tro: evidentemente aveva ricevuto una bella mancia. Poi si dires-se verso Lavinia.«Caspita!» pensò la bambina. «Sta’ a vedere che questa matta mi compra tutte le scatole di fiammiferi!».Ma quando fu vicina, la signora si chinò porgendo una sigaretta e chiese: – Scusa, hai da accendere?«E adesso cosa le dico?» pensò Lavinia disperata. «Le dico che sì, ho i fiammiferi, ma che me li deve pagare? Non sarebbe gentile. E poi gliene serve uno solo, non una scatola…».Così, con un gesto da gran signora, aprì una scatola nuova, ac-cese un fiammifero e lo porse alla donna. Questa accese la si-garetta senza avvicinarla alla bocca e senza aspirare, come se si trattasse di una candela, poi tese velocemente il braccio verso l’alto. Dalla sigaretta scaturì una fontana luminosa, uno zampil-lo di scintille come quelle dei fuochi artificiali…«È proprio matta» pensò Lavinia «non ha di meglio da fare a quest’ora di notte? Non ha una casa dove andare a dormire al cal-do? Le verrà un accidente con questo vestito leggero e scollato!».Poi si fece coraggio e le chiese: – Scusi, signora, va forse a una festa mascherata?– No, perché? – rispose la sconosciuta.– E allora perché è vestita a quel modo? – ribatté Lavinia.– Ma perché sono una fata, no? – rispose la donna, come se fosse la cosa più naturale del mondo.Lavinia pensò: «È proprio matta. Le fate stanno solo nei libri». Come se le avesse letto nel pensiero, la donna la osservò pensie-rosa e poi disse: – Strano… Di solito le piccole fiammiferaie si trovano nei libri di fiabe…Si guardarono a vicenda diffidenti. Nessuna delle due aveva in-tenzione di lasciarsi imbrogliare.Poi la donna disse a Lavinia: – Io sono vera. Prova a darmi un pizzicotto! – e senza aspettare allungò la mano e pizzicò Lavinia su un braccio. – Ahi! – strillò la bambina. – Ero io che dovevo piz-zicare te! – e le sferrò un calcio, che per la verità non le fece mol-to male perché Lavinia era a piedi nudi. – Così adesso siamo pari – disse con calma la fata – ora siamo certe della reciproca esi-stenza. Lavinia, sei stata gentile e generosa. Ti voglio ricompen-sare per avermi offerto gratis il tuo fiammifero.«Adesso mi regala un sacco di soldi!» pensò eccitata la bambina. «Adesso mi trasporta nella reggia di un principe che mi spose-

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rà… Adesso mi fa diventare bellissima… E cosa me ne faccio del-la bellezza? Ah, sì, la gente pagherà per vedermi e con i soldi mi comprerò un sacco di roba da mangiare».– Voglio farti un regalo eccezionale – continuò la fata – un anel-lo magico. Eccolo!Se lo tolse da una tasca del vestito di velo e lo infilò al dito di La-vinia. Era un anellino neanche d’oro, liscio, senza nessuna pietra.– A cosa serve? – chiese Lavinia speranzosa che all’aspetto mo-desto corrispondesse un potere sensazionale.La fata si mise a ridere da sola, da quella mattacchiona che era.– A cosa serve? – insistette Lavinia.– A trasformare le cose in cacca.– Cosaaa?!– A trasformare le cose in cacca. Sei diventata sorda per caso? – le domandò l’altra con un sorriso angelico. Lavinia cominciò a piagnucolare. – Bel regalo! Non mi mancava che questo anello! Sono già così disgraziata, senza casa, senza mamma, assiderata, a pancia vuota… e tu mi vieni a fare un regalo così! – e cercava di sfilarsi l’anello dal dito; ma quello non si staccava più.– È tuo per sempre – disse la fata. – Non potrai mai perderlo. Ma guarda che non è un regalo di poco valore come pensi… Anzi! Se userai la tua intelligenza, vedrai che col potere dell’anello ri-uscirai a fare grandi cose. Solo, bisogna che aguzzi l’ingegno…Mentre Lavinia, a bocca aperta, continuava a rigirarsi l’anello in-torno al dito, improvvisamente il cartellone pubblicitario che era lì davanti diventò di color marrone, poi si afflosciò su se stesso e diventò un mucchietto molle e puzzolente sul marciapiede.– Visto? – disse la fata. – Hai imparato da sola come si fa. Co-munque le istruzioni per l’uso sono queste: se vuoi trasforma-re qualcosa in cacca, la dovrai fissare intensamente facendoti ruotare l’anello intorno al dito in senso orario. Se vorrai che tor-ni alla condizione originale la dovrai fissare girando l’anello in senso inverso. Attenta a non sbagliare, mi raccomando.Con un fischio improvviso fermò un altro taxi che passava in quel momento, vi balzò sopra e scomparve alla vista di Lavinia.Sconcertata, la piccola fiammiferaia pensò: «Ho forse sognato?».Ma l’anello era al suo dito, e davanti a lei il mucchietto di cacca fumava nel freddo della notte.Allora, per controllare l’esattezza delle istruzioni, lo fissò turan-dosi il naso e girò l’anello nell’altro senso. Subito il pannello pub-blicitario si drizzò al suo posto, pulito e lucente com’era prima.– Bene – disse Lavinia – almeno le istruzioni erano esatte. Ades-so però devo pensare seriamente al modo migliore di usare que-sta strana magia.

B. Pitzorno, L’ incredibile storia di Lavinia, Einaudi Ragazzi

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Antologia 1 1. La magia delle storie

Una storia del mondo ebraico raccontata da un’anziana zia a un ragazzino curioso e attento.

Durante l’estate, nel giorno di Shabbath, dopo il pasto princi-pale, mentre lo zio Giuseppe schiacciava un pisolino, a mia

zia Yentl piaceva raccontare storie. Si sedeva sulla panca davan-ti alla casa e, subito, la gatta – Dvosha – la raggiungeva. Ogni Shabbath, al gatto venivano dati gli avanzi del pasto: pezzetti di carne e pesce. Dvosha si accoccolava ai piedi della zia; amava ascoltarla mentre raccontava le storie. Dal modo in cui piegava le orecchie e strizzava gli occhi – verdi come l’uva spina – era evi-dente che capiva ciò che la zia diceva.Per lo Shabbath, zia Yentl indossava un vestito con arabeschi ri-camati e un cappellino ornato con perline di vetro e decorato con nastri rossi, verdi e azzurri. Mia madre e due nostre vicine – Riva e Sheindel – uscirono. Io fui l’ultimo ad arrivare e mi acco-modai su uno sgabello. A parte il fatto che mi piaceva ascoltare le storie di zia Yentl, prima o poi mi avrebbe dato la frutta dello Shabbath: una mela, una pera o delle prugne. Talvolta, mi dava anche un biscotto con la cannella e l’uvetta. Quando me lo porge-va, diceva sempre la stessa cosa: – Ti darà energia per studiare.Questa volta la conversazione ruotava intorno a un demonietto o spiritello domestico chiamato lantuch: a zia Yentl piaceva parla-re di demoni, spiriti e folletti.

Isaac B. SingerLo spiritello buono

fantasmi, vampiri, streghe

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La sentii dire:– Un lantuch? Sì, esiste uno spirito chiamato lantuch. Oggigior-no, la gente non crede più a queste cose ma, ai miei tempi, sape-vamo che non tutto può essere spiegato dalla ragione: il mondo pullula di segreti. Il lantuch è uno spiritello, ma non malvagio. Non causa alcun danno. Al contrario, cerca di aiutare il più pos-sibile i membri della famiglia. È come se facesse parte di essa. Di solito è invisibile, ma talvolta accade che si riesca a vederlo. Dove vivono i lantuch? In cantina, oppure nella legnaia; alcune volte dietro la stufa, con i grilli. I lantuch adorano i grilli. Gli procu-rano il cibo e capiscono la loro lingua.– Quando crescerò, zia Yentl, anch’io imparerò la lingua dei grilli – dissi io.

La zia Yentl sorrise con ogni ruga del suo volto…– Bambino mio, non è una lingua che si possa imparare. Solo il re Salomone conosceva il linguaggio degli animali. Lui poteva parlare con i leoni, con gli orsi, con i lupi, e anche con tutti gli uccelli. Ma torniamo al lantuch. Ce n’era uno nella casa dei miei genitori. D’estate viveva nella legnaia; d’inverno, dietro la stu-fa. Non potevamo vederlo, però ci capitava di sentirlo. Una volta, mia sorella Keila starnutì e lui disse «Salute!». Lo sentimmo tut-ti. Il lantuch voleva bene a tutti noi, ma amava mia sorella Kei-la più di chiunque altro. Quando Keila si sposò e andò a vivere a Lublino presso i suoceri (all’epoca io avevo solo otto anni) il lan-tuch andò da lei per salutarla: accadde l’ultima notte che passò in casa. Nel cuore della notte, Keila sentì un rumore e la porta si aprì da sola.Il lantuch si avvicinò al letto di Keila e le disse in rima:

Lava, lava la bacinella,metti a mollo la scodella,la mannaia e la padella,

tu che mangi la ciambella,ché se io mi do da fare

non potrai dimenticare.

Keila era così spaventata che non riusciva più a parlare. Il lan-tuch la baciò in fronte e se ne andò. Mia sorella rimase stordita a lungo, poi accese una candela. A Keila piaceva molto la torta di mandorle. Quando mia madre (che riposi in pace) la preparava per Simchat Torah o per Purim1, boccone dopo boccone, lei se ne mangiava metà. Be’, comunque accese la candela: sopra la coper-ta c’era una torta di mandorle ancora calda. Scoppiò a piange-re, e tutti accorremmo da lei. Ho visto quella torta alle mandorle

1. Simchat Torah … Purim: si tratta di due importanti festività ebraiche.

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con i miei occhi. Da dove il lantuch l’avesse presa, proprio non lo so. Forse era stata preparata da qualche casalinga, e lui l’aveva rubata, o magari l’aveva cucinata lui stesso. Keila non mangiò la torta, ma la ripose: divenne dura come un sasso.Nella nostra città, Janòw, viveva un maestro, con una moglie malata e una figlia cieca dalla nascita. All’improvviso, l’inse-gnante morì, e le due donne rimasero sole e indifese. In città si parlava di ricoverarle all’ospizio per i poveri, ma chi vorrebbe an-dare a vivere in un luogo simile? Lì, i poveri dormivano su stuo-ie di paglia posate sul pavimento; anche il cibo non era granché. Quando un incaricato si presentò per condurre madre e figlia all’ospizio, entrambe cominciarono a lamentarsi: «Piuttosto che marcire all’ospizio per i poveri, preferiamo morire!».Non si può costringere una persona ad andare all’ospizio. L’inca-ricato pensò che il marito avesse lasciato qualche gulden, e che finché le donne avessero avuto del cibo si sarebbero date delle arie. Quando sarebbe subentrata la fame, avrebbero ringraziato Dio che ci fosse un ospizio per i poveri.Passarono giorni e settimane: madre e figlia non cedevano. Tut-ta la città si incuriosì: che cosa combinavano? La madre era co-stretta a letto; la figlia, cieca. Ci sono persone prive di vista che riescono ad andare in giro, ma la figlia del maestro (che si chia-mava Tzirel) non era mai uscita dal suo cortile. Riesco ancora a vederla: i capelli rossicci, il viso luminoso e le braccia e le gam-be sottili. Aveva occhi azzurri, che sembravano sani, ma lei non vedeva niente. La gente cominciò a chiedersi se per caso madre e figlia avessero da parte più soldi di quanti tutti avevano ipotiz-zato: no, non poteva essere. Il maestro era sempre stato povero, e poi né la madre né la figlia uscivano mai di casa. Nessuna delle due era stata vista nei negozi. Allora, anche se avessero avuto i soldi, dove prendevano il cibo?Miei cari, c’era un lantuch nella loro casa. Quando si accorse che chi portava a casa il pane era morto, lasciando le donne senza un soldo e in rovina, assunse l’impegno di mantenerle. Ridete? Non c’è niente da ridere. Portava loro tutto quello di cui avevano bisogno: pane, zucchero, aringhe… Faceva tutto di notte.Una volta, nel cuore della notte, passando davanti alla loro casa, un giovane sentì qualcuno che spaccava la legna. Si insospet-tì. Chi poteva mettersi a fare un simile lavoro a quell’ora? Aprì il cancelletto del cortile e vide un’ascia che colpiva i ciocchi e le schegge di legno che volavano tutt’intorno, ma non c’era nessu-no a manovrarla. Era il lantuch che preparava la legna per l’in-verno. Il giorno dopo, quando il giovane raccontò ciò che aveva visto, tutti gli risero dietro. – Probabilmente l’hai sognato – gli dissero. Ma era tutto vero.

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Alcune settimane più tardi. Sempre di notte, uno spedizioniere stava rientrando da Lublino. Passò accanto a un pozzo e vide la corda che scendeva nell’acqua e il secchio pieno che risaliva, ep-pure non c’era nessuno lì intorno. Immediatamente pensò che quel fatto fosse opera della «banda» delle creature della notte. Lo spedizioniere, che si chiamava Meir David, era un uomo for-te, che non si spaventava facilmente. Afferrò le sue frange ritua-li e, con voce calma, recitò: «Ascolta, o Israele»; quindi aspettò per vedere che cosa sarebbe successo. Dopo che l’uomo invisibi-le ebbe levato un secchio d’acqua, ne tirò su un altro; poi i due secchi presero ad allontanarsi, come se un portatore invisibile li stesse trasportando su un giogo. Meir David seguì i secchi fino alla casa abitata dalla vedova e dalla figlia cieca. Il giorno dopo lo spedizioniere si recò dal rabbino e gli raccontò quello che ave-va visto. Meir David era un uomo onesto e non era affatto il tipo da inventarsi le cose. In città, si creò un grande scompiglio. Il rabbino convocò la vedova e la figlia, ma la donna anziana era troppo malata per camminare; non riusciva più nemmeno a par-lare. Poco tempo dopo, morì.La figlia cieca disse al rabbino: «Qualcuno provvede a noi, ma chi sia, io non lo so. Dev’essere un angelo dal paradiso».No, non era un angelo, ma il lantuch. Dopo la morte della ma-dre, la figlia vendette la casa e andò a vivere presso alcuni pa-renti in Galizia…

– E il lantuch la seguì? – chiese la nostra vicina Riva.– Chi lo sa? Di norma, non si muovono dalla casa dove vivono – rispose zia Yentl.– Vivono in eterno? – domandò Sheindel.– Nessuno vive in eterno – replicò la zia.Ci fu un attimo di silenzio. Guar-dai la gatta: si era addormentata. Zia Yentl mi lanciò un’occhiata.– Adesso ti prendo la frutta dello Shabbath. Se un giovanotto vuole studiare la Torah, deve mantener-si in forze.Mi portò tre prugne e un biscotto.

I. B. Singer, Storie per bambini, Mondadori

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Antologia 1 1. La magia delle storie

Tempi duri per i vampiri! Le «meraviglie» del mondo moderno possono nasconderebrutte sorprese.

Mirjam Pressler

fantasmi, vampiri, streghe

–… Il giovane vampiretto Eklesi aveva una gran sete. Erano tre giorni che non beveva più sangue e, quan-

do un vampiro ha molta sete, può perdere facilmente la testa…Il padre chiuse il libro che teneva sulle ginocchia.– Bene, domani continuerò a leggervi la storia. Adesso, però, tutti a nanna!– Va bene, papà – disse Susanna. Diede uno sguardo all’altro let-to, dove Chicca dormiva già. Non c’era da meravigliarsi, Chicca si addormentava non appena toccava il cuscino.Il padre si chinò sopra Susanna e le diede un bacio sul naso. Un bel bacione rumoroso. Susanna lo prese per le orecchie e ricam-biò il bacio. Il padre rise contento. Arrivato alla porta disse:– Sogni d’oro, tesoro.Poi spense la luce e chiuse la porta.Susanna rimase tranquilla distesa sotto le coperte. Sentì i respi-ri regolari di Chicca. La notte era calda. Attraverso la finestra aperta e la tenda socchiusa entrava un raggio di luna. I colo-ri avevano un aspetto biancastro, sembrava quasi che qualcuno avesse mescolato della tempera bianca ai colori naturali. Soltan-to i capelli di Chicca erano come sempre, nerissimi, senza la mi-nima traccia di tempe-ra bianca.Susanna si alzò sen-za far rumore e andò all’armadio. In fondo in fondo, sotto le magliet-te, c’era la torcia1. Pre-se la torcia, poi il libro dal tavolo e si infilò sot-to le coperte. Il fascio di luce della torcia dipin-geva un cerchio chiaro sulle pagine del libro. Attraverso la porta udì il televisore acceso nel salotto.

Un vampiro impaurito

1. torcia: si tratta ovviamente di una torcia elettrica.

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Dove era arrivato? In che punto papà aveva interrotto la lettura? Ah, ecco…– … Il giovane vampiretto Eklesi aveva una gran sete. Erano tre giorni che non beveva più sangue e, quando un vampiro ha mol-ta sete, può perdere facilmente la testa.Eklesi rifletté. In una casa vicina miagolava un gatto. «Il san-gue di gatto ha un gusto schifoso» pensò Eklesi. «Ma dove c’è un gatto dev’esserci un bambino». Eklesi fu attratto dalla casa. Si mise in marcia.Improvvisamente udì abbaiare un cane nella stessa casa. Ekle-si passò velocemente oltre la casa. Odiava i cani. I cani abbaia-no nei momenti meno adatti. Per esempio, giusto nel momento in cui stava per addentare il collo di un bel giovane!Eklesi si sentì seccare la gola: «Non pensare ai giovani colli!» ordinò a se stesso. «Datti una mossa, Eklesi. Guardati attorno. Troverai quello che cerchi da qualche altra parte».Eklesi arrestò i suoi passi proprio di fronte a una casa. Senza fare rumore si avvicinò a una finestra e sbirciò dentro. Su un divano stava seduto un essere umano. Un uomo. Dormiva. Ma che cos’era quello? Dall’altra parte della stanza c’era un mobilet-to rettangolare. Dentro a questo strano mobile correvano tanti uomini mezzi nudi. Combattevano tra di loro. Sciabole luccicava-no, sangue scorreva. Sangue rosso!Eklesi si accorse che le sue ginocchia tremavano. I suoi occhi si annebbiarono e per un momento non vide più nulla, tranne un velo nero con tanti puntini grigi.Quando si riprese, riuscì nuovamente a vedere il mobile dove gli esseri umani continuavano a combattere. Sempre più sangue scorreva, mentre ai bordi del mobile vide cavalli in preda al pani-co2 nitrire e impennarsi. Eklesi non riuscì a controllarsi. Si in-filò nella stanza attraverso la finestra aperta. Lo sfarfallìo3 da-vanti ai suoi occhi riprese più forte di prima, impedendogli di pensare o di ragionare. Si buttò contro il mobiletto, affondando i suoi denti da vampiro contro il primo collo che vedeva. Ci fu un tonfo. E poi…– Susanna, alzati! – chiamò sua madre. – Ma non hai sentito la sveglia?Susanna tirò fuori la testa dalle coperte. Il libro si era chiuso. La torcia era spenta. La pila era scarica.Ancora mezzo addormentata, Susanna si vestì e andò in salotto. Passando davanti al televisore, vide qualcosa di bianco, piccolo, sul tappeto. Susanna si chinò: erano due piccoli canini4 bianchi.

M. Pressler, Anche i vampiri sbagliano, Edizioni il capitello

2. panico:paura forte e incontrollata.

3. sarfallìo: svolazzare continuo, tipico delle farfalle.

4. canini:denti aguzzi.