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“Quale People Mix in azienda: rischi e opportunità”
L’invecchiamento demografico:
contraddizioni, rischi e opportunità per il Sistema Impresa
Un’iniziativa
Osservatorio Famiglia Professionale HR
in collaborazione con
“Quale People Mix in azienda: rischi e opportunità” L’invecchiamento demografico: contraddizioni, rischi e opportunità per il Sistema Impresa A cura di Marco Autorino- HAY GROUP Daniela Grimolizzi- ELIS HR Academy
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“Quale People Mix in azienda: rischi e opportunità” L’invecchiamento demografico: contraddizioni, rischi e opportunità per il Sistema Impresa
1 Executive Summary
1. Executive summary .............................................................................................................................................................................7 1.1 Introduzione ......................................................................................................................................................................................7 1.2 Principali evidenze ............................................................................................................................................................................8 1.2.1 Distribuzione demografica in azienda ...........................................................................................................................................8 1.2.2 Produttività ....................................................................................................................................................................................9 1.2.3 I Senior: un patrimonio da valorizzare ........................................................................................................................................10 1.2.4 Politiche HR di Gestione del People Mix ......................................................................................................................................11
2 Lo studio
2. Lo studio ............................................................................................................................................................................................14 2.1 Obiettivo .........................................................................................................................................................................................14 2.2 Metodologia....................................................................................................................................................................................15
3 Il contesto
3. Contesto ............................................................................................................................................................................................16 3.1 Dinamiche demografiche e sostenibilità del mercato del lavoro ..................................................................................................16 3.2 I paradossi di Matusalemme ..........................................................................................................................................................24
4 Evidenze emerse
4. Evidenze emerse................................................................................................................................................................................26 4.1 Introduzione ....................................................................................................................................................................................26 4.2 Distribuzione demografica e trend evolutivi .................................................................................................................................29 4.3 Perfomance e Produttività ..............................................................................................................................................................31 4.4 Il paradigma del ciclo evolutivo delle competenze, legato alle diverse fasi della vita professionale (Lieberum-Heppe-Schuler,
2005) ................................................................................................................................................................................................33 4.5 Formazione e modalità di apprendimento ....................................................................................................................................35 4.5.1 L’apprendimento lungo tutto l’arco della vita ............................................................................................................................39 4.5.2 L’apprendimento degli adulti ......................................................................................................................................................40 4.6 Aspettative e valori .........................................................................................................................................................................43 4.6.1. Diverse generazioni a confronto.................................................................................................................................................45 4.7 Motivazioni, engagement e disagio ...............................................................................................................................................47 4.8 Politiche HR di gestione del people mix .........................................................................................................................................49 4.8.1. Politiche di sistema .....................................................................................................................................................................52 4.8.2. Politiche a livello aziendale ........................................................................................................................................................54 4.8.3. Verso un modello di Diversity Management…………………………………………………………………………………………………………………….….56 4.9. Il People Mix nel passaggio dallo start up alla fase matura del ciclo di vita dell'impresa…………………………………………..………….58
5 Possibile percorso per le aziende
5. Possibile percorso per le aziende ......................................................................................................................................................60 5.1 Mapping e gestione proattiva del fenomeno come leva del business in una prospettiva a lungo termine .................................60
6 Conclusioni
6. Conclusioni ........................................................................................................................................................................................64
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1. Executive summary
1.1 Introduzione
Il processo d’invecchiamento demografico
accompagna in maniera ineluttabile la
modernizzazione delle società occidentali e
ha due cause principali: la denatalità, frutto
dei cambiamenti socio-culturali che hanno
investito il nostro paese con conseguenze
forti a livello individuale e familiare, e la
longevità, conseguenza delle migliorate
condizione di vita e del progresso medico-
scientifico che hanno contribuito ad allungare
notevolmente la vita media degli individui.
L’attenzione posta oggi al fenomeno è
giustificata non solo dalle conseguenze
strettamente demografiche che avrà sulla
struttura e sulla composizione delle
popolazioni interessate, ma anche e
soprattutto dalle sue implicazioni di natura
sociale ed economica. I processi
d’invecchiamento che interessano i paesi
sviluppati rappresentano, infatti, un
fenomeno neutrale, “senza connotazioni in
negativo o in positivo” (De Sarno Prignano e
Natale, 1990), ma diventano un problema se
l’adeguamento del sistema economico ai
mutamenti demografici non è abbastanza
rapido. Appare, dunque, necessario
individuare un punto di equilibrio tra
l’inevitabilità di alcune dinamiche
demografiche e le necessità imprescindibili
dei sistemi economici (Stranges, 2006).
E’ all’interno di questo scenario che si colloca
la ricerca “Quale People Mix in azienda: rischi
e opportunità”, realizzata dal gruppo di lavoro
ELIS- HAY GROUP e finalizzata all’analisi del
fenomeno della “gestione della demografia”
nei contesti organizzativi.
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1.2 Principali evidenze
1.2.1 Distribuzione demografica in azienda
Gli organici aziendali sono composti da una percentuale significativa di popolazione senior e la proiezione
di people mix mostra una tendenza verso una sempre maggiore diversificazione
Dalla ricerca emerge la percezione
generalizzata dell’importanza del fenomeno
anche se, spesso, mancano chiavi di lettura e
politiche lungimiranti da parte delle aziende
per poterlo gestire in maniera proattiva. Il
management comincia a essere preoccupato
ma non ha ancora una reale consapevolezza
della situazione che non è mappata,
mancando adeguate metriche e strumenti di
lettura utili a comprendere il reale impatto
del fenomeno e le possibili strategie di
gestione.
Le aziende sono chiamate a gestire in
maniera proattiva e strategica i frequenti
vuoti generazionali e le concentrazioni di
risorse in una fascia di età, derivanti dal fatto
che non sempre le organizzazioni sono
riuscite a pianificare in maniera equilibrata la
presenza delle diverse generazioni in azienda
e a gestirne l’ingresso e l’uscita in
proporzione.
Gli organici aziendali mostrano una
percentuale significativa di popolazione
senior con un valore medio che si attesta al
43% di Over45 sul totale della popolazione
aziendale. Il management deve, quindi,
confrontarsi con le criticità derivanti dal
progressivo innalzamento dell’età anagrafica
aziendale e, più in generale, con le
conseguenze legate all’evoluzione della
composizione demografica degli organicii.
Nella previsione espressa dalle aziende
intervistate sui trend evolutivi, emerge la
consapevolezza che in futuro il people mix in
azienda sarà molto diverso e sempre più
variegato, con la conseguente necessità di
implementare politiche gestionali che siano
in linea con la composizione degli organici
aziendali. Per le imprese, in sostanza, diventa
indispensabile la ricerca di un assetto
demografico non subito ma programmato.
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In particolare, sarà sempre più necessario
facilitare il trasferimento di conoscenza cross
generazionale. In modo particolare,
attraverso azioni formalizzate di trasmissione
delle esperienze e delle competenze
maturate sul campo dagli Over45 verso i più
giovani, accanto all’opportunità anche del
processo di trasfert inverso: dai più giovani ai
più senior, soprattutto relativamente a
conoscenze informatiche e innovazioni
tecnologiche.
1.2.2 Produttività
La produttività aziendale è sempre meno governabile con una riduzione del costo del lavoro e va gestita
attraverso la valorizzazione della perfomance
Nei contesti organizzativi analizzati non si
riscontra, in generale, un calo di performance
per gli Over45. Molto dipende dalla tipologia
di lavoro: su ruoli più professionalizzati e di
responsabilità la performance tende, infatti, a
essere più alta per i senior, mentre su ruoli
più operativi e dove le tecnologie tendono a
una rapida obsolescenza i giovani, in genere,
performano meglio. Di contro, escludendo le
posizioni più alte, si riscontra una maggiore
produttività delle risorse junior considerando
il più alto costo del lavoro dei senior. Il dato
trova riscontro, del resto, in una tendenza
generalizzata a una progressiva
marginalizzazione degli Over45 a favore dei
giovani che “costano meno”, non tenendo,
spesso, nella giusta considerazione la
conseguente perdita del know how tecnico. Si
dovrebbe trovare, invece, un nuovo punto di
equilibrio tra i due elementi del costo e della
qualità del lavoro, attraverso una diversa
gestione della produttività orientata a
benefici di lungo termine che abbiano effetti
stabili e incisivi sul business aziendale.
Le imprese, inoltre, riscontrano oggi una
difficoltà crescente nel ricorrere a strumenti
di solidarietà sociale, che hanno permesso in
passato di alleggerire il costo del lavoro, e
sono chiamate a gestire la produttività
aziendale in modo diverso. Fino a oggi,
infatti, è stata gestita lavorando
principalmente sulla leva della riduzione del
costo del lavoro e, spesso, sulla sostituzione
di lavoratori più senior e costosi con altri più
giovani ed “economici”. E’, invece, sempre
più necessario lavorare sulla perfomance,
facendo leva sulla valorizzazione, motivazione
e capacità di contribuire dell’organizzazione
esistente.
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1.2.3 I Senior: un patrimonio da valorizzare
Le organizzazioni devono scoprire più forti e nuove motivazioni per individui ricchi di esperienza e
competenze, in modo da non sperperare la risorsa più importante che abbiamo: “i nostri anni di vita”.
I senior esprimono spesso un disagio dovuto
a una frequente mancanza di riconoscimenti
e gratificazioni con la conseguente percezione
di costituire un “peso” per l’azienda. Il disagio
è, inoltre, acuito dal fatto che, con
l’introduzione delle nuove regole dei sistemi
pensionistici, vedono allontanarsi l’età
pensionabile e prendono consapevolezza di
contesti organizzativi con modelli di
progressione di carriera e di sviluppo molto
diversi da quelli che avevano conosciuto
appena entrati in aziendaii. I più giovani,
inoltre, vengono in genere percepiti come
soggetti in grado di esprimere un maggiore
potenziale, capaci di innovare e di
apprendere più facilmente le nuove
tecnologie. A questo si aggiunge il processo
di stereotipizzazione negativa nei confronti
dei più anziani che si esprime in “credenze”
prive di fondamento scientifico, come quella,
comunissima, del calo delle prestazioni
intellettuali e della capacità lavorativa nel
periodo compreso fra i 45 e i 65 anni.
Si registra, in genere, un numero ridotto e la
mancanza di percorsi di formazione e
sviluppo disegnati per il personale più senior
volti a sviluppare una maggiore
autoconsapevolezza, recuperare motivazione
e fiducia, riconvertire/ riqualificare,
sviluppare competenze trasversali e
permettere un miglior trasferimento del
know how a colleghi più giovani. Alcune
aziende, infatti, preferiscono dedicare il
budget della formazione a risorse più giovani
nella convinzione che hanno più tempo per
“ripagare l’investimento fatto”. Questo
fenomeno è, inoltre, accentuato dalla
percezione che alcuni senior possano avere
una minore motivazione ad apprendere e un
atteggiamento di chiusura nei confronti della
formazione.
Le direzioni del personale cominciano, in ogni
caso, a rendersi conto della necessità di
promuovere la “manutenzione della capacità
di imparare e di adattarsi ai contesti in
continua evoluzione”, attraverso azioni di
ripensamento delle attività di formazione e di
sviluppo in una direzione che sia
maggiormente inclusive e che risponda alle
specifiche esigenze delle diverse popolazioni
aziendali. Il tutto nella consapevolezza che
l’invecchiamento demografico cambia anche
lo scenario di business delle aziende. Infatti, a
fronte di un’evoluzione del mercato e dei
prodotti che vede la popolazione anziana
assumere una posizione dominante nel ruolo
di clienti e consumatori, disporre di una
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composizione del personale, per età, genere
e appartenenza etnica, che rifletta quella
della clientela potenziale, diventerà sempre
più una condizione importante di
competitività per le imprese. Attuare
politiche di gestione del people mix diventa,
quindi, strategico e, insieme, vitale per le
aziende.
1.2.4 Politiche HR di Gestione del People Mix
Nella contraddizione tra standardizzazione e personalizzazione, le aziende devono scegliere il loro giusto
mix gestionale
Nei contesti organizzativi analizzati, si
registra una generale mancanza di politiche
del personale differenziate volte al
riconoscimento e alla valorizzazione delle
varie generazioni presenti in azienda. Il dato
contrasta con l’evidenza che è stata indicata
in modo concorde dagli intervistati e che
riguarda la presenza in azienda di aspettative
e valori generazionali spesso “antitetici” a cui
il management è chiamato a dare legittimità.
Unica segmentazione che spesso trova una
risposta proattiva è quella dei “giovani
talenti” rispetto alla quale si è cercato di
disegnare percorsi accelerati di formazione e
sviluppo.
L’affermazione di una politica gestionale
strategica che tenga conto della demografia
aziendale passa, invece, per il riconoscimento
del personale di tutte le classi d’età e per lo
sviluppo di un ambiente interno che valorizzi
il dialogo intergenerazionale.
E’ proprio in questa prospettiva di
condivisione strategica che vanno lette quelle
azioni di trasferimento della conoscenza e
delle esperienze tra lavoratori di diverse
generazioni, sempre più necessarie a fronte
di organici aziendali caratterizzati da una
composizione demografica diversificata e da
frequenti vuoti generazionali che tendono a
intesificare le differenze.
Dalla ricerca emerge una generalizzata
consapevolezza dell’importanza di queste
azioni, anche se le formalizzazioni del
processo in Comunità di Pratica strutturate
rappresentano ancora best practice
implementate solo di rado nei contesti
organizzativi.
Gli intervistati concordano nell’indicare la
presenza frequente di disagi organizzativi
cross generazionali. I giovani, infatti, spesso
trovano dei “tappi organizzativi” in alcuni
quadri apicali e dirigenti ricoperti da persone
senior. Al tempo stesso, alcuni senior soffrono
ruoli di responsabilità ricoperti da giovani
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dirigenti e quadri, magari assunti dall’esterno.
La conseguenza è un micro clima spesso
negativo, con una perdita di fiducia e un
conseguente impatto sulla motivazione e la
produttività dei gruppi di lavoro. Le aziende
sono, dunque, chiamate a promuovere
l’engagement per le diverse generazioni,
attraverso una lettura delle differenti
dimensioni di fidelizzazione all’azienda e una
rimozione di quelle forme di disagio,
anch’esse diverse in base alla specifica età
anagrafica. In particolare, emerge la
necessità di promuovere l’engagement delle
giovani generazioni fortemente individualiste
e poco fidelizzate.
Gli intervistati dichiarano, infatti, una
frequente preoccupazione legata all’elevato
turnover che prevedono al superamento
della crisi economica. Si tratta, in particolare,
di promuovere l’enablement per le diverse
generazioni al fine di rimuovere le barriere
all’azione e trasformare il loro entusiasmo in
risultati e azioni. Un alto engagement unito a
un alto enablement aumenta, infatti, il
numero di dipendenti con performance
superiori alle aspettative di circa il 40%iii.
La maggiorparte degli intervistati concorda
nell’indicare una frequente difficoltà dei capi,
specie se giovani, nel gestire gruppi di lavoro
composti da risorse di diverse generazioni.
Nonostante questa evidenza, mancano,
tuttavia, iniziative specifiche di supporto ai
capi nella gestione del people mix nella
convinzione, spesso emersa, che le politiche
gestionali debbano prescindere dall’età
anagrafica e riferirsi, invece, unicamente al
ruolo. Il contrasto tra politiche uniformi per
ruolo e riconoscimento delle diversità
generazionali riflette, in maniera più
generale, una contraddizione propria dei
moderni sistemi gestionali divisi tra
standardizzazione da un lato e
personalizzazione dall’altro. All’interno di
questa contraddizione, le aziende devono
scegliere il loro giusto mix gestionale
percorrendo la strada più conforme allo
specifico contesto organizzativo.
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In sintesi, possiamo dire che le direzioni del
personale riconoscono un’importanza
crescente a politiche attive di “diversity
management”, incluso quella generazionale,
anche se le stesse hanno spesso difficoltà a:
1. mappare gli organici aziendali rispetto
alle diverse dimensioni di diversity
comprendendone disagi, aspettative,
valori e opportunità;
2. comunicare efficacemente il valore per il
business di una gestione proattiva della
diversity;
3. definire politiche coerenti e lungimiranti;
4. aiutare il management a una gestione
coerente.
Per superare queste difficoltà e gestire il
fenomeno in un’ottica strategica, diventa
indispensabile integrare politiche di sistema a
linee di azione aziendale, nella
consapevolezza che i modelli di diversity
management creano valore perché
riconoscono, comprendono e utilizzano le
differenze tra le persone agendo sul Capitale
Umano e, dunque, su competenze,
motivazione, valori, cultura e sulla diversità. I
modelli di diversity management lavorano su
quelle leve gestionali che aumentano la
produttività e consentono di mappare gli
organici aziendali comprendendo l’impatto
sul business e sulla soddisfazione del cliente
di eventuali disagi di specifiche generazioni e,
più in generale, cross generazionali.
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2. Lo studio
2.1 Obiettivo
La ricerca ha analizzato il fenomeno della
“gestione della demografia” in azienda, intesa
come una delle principali sfide di "people
management“ di oggi e degli anni a venire. I
principali nodi da risolvere sembrano essere:
La riduzione di performance e di
produttività, reale o percepita, delle
risorse più senior in azienda;
La difficoltà ad attrarre, reperire e
motivare personale giovane;
La perdita delle conoscenze, tacite e non,
con l'uscita di risorse di esperienza;
La difficoltà nel gestire, motivare e far
collaborare insieme in maniera efficace le
diverse generazioni con valori, talenti e
aspettative diverse;
La necessità di assicurare il giusto mix di
risorse considerando la pressione sui costi
del lavoro;
L’urgenza di una formazione e un
aggiornamento continuo, una condivisione
della conoscenza e una trasformazione
organizzativa per la popolazione di ogni
età in azienda, considerando la rapida
evoluzione delle tecnologie e delle
esigenze di mercato.
Il gruppo di lavoro ELIS- HAY GROUP ha
analizzato il fenomeno con l’intento di avviare
una riflessione su misure d’intervento e
modelli organizzativi in grado di arginare un
problema sociale che sta emergendo con
sempre maggiore forza cogliendone le
potenzialità inespresse, quali la perdita e il
trasferimento del know how aziendale; il
recupero della motivazione; la gestione e
valorizzazione delle diverse generazioni in
azienda, con un focus sul generation mix in
un’ottica gestionale di confronto e
condivisione delle diversità.
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2.2 Metodologia
Lo studio, condotto attaverso una
metodologia di ricerca di tipo qualitativo, ha
avviato un approfondimento della tematica in
oggetto, all’interno di un momento ancora
esplorativo di definizione dei contorni
dell’oggetto di studio.
La ricerca è stata condotta attraverso
interviste semistrutturate su un panel
composto da 13 aziende del Consorzio ELIS
che hanno manifestato una sensibilità alla
tematica. Il panel è composto da aziende
appartenenti a diverse industry e che si
differenziano in termini di grandezza, fase di
sviluppo organizzativo e mercato di
riferimento.
Stante la natura qualitativa della ricerca, il
campione non vuol essere rappresentativo
del sistema Italia. In ogni caso, analizzare il
fenomeno all’interno di organizzazioni
diverse, che stanno vivendo in maniera
differente il fenomeno del people mix, ha
permesso di coglierne diversi punti di vista,
dandone una lettura estesa e in gran parte
coincidente con le principali evidenze
sociologiche.
La ricerca è stata condotta attraverso
un’intervista in presenza rivolta al
Responsabile Risorse Umane con il contributo
dei Referenti Interni delle funzioni Gestione,
Formazione e Sviluppo.
Le interviste sono state realizzate nel periodo
settembre 2010-febbraio 2011 ed è stato
utilizzato un questionario aperto strutturato
in 3 macro dimensioni tematiche.
Le 3 aree investigate sono state le seguenti:
1. Distribuzione demografica in azienda
People Mix attuale e trend evolutivi
2. Diverse generazioni a confronto
Perfomance e Produttività
Modalità di apprendimento e Interventi
formativi
Aspettative professionali e Valori
Engagement e Disagio
3. Politiche HR per gestire il People Mix
Politiche Gestionali e Capi
Interventi di knowledge management
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3. Contesto
“I quarant’anni sono quell’età in cui ci si sente finalmente giovani. Ma ormai è troppo tardi!” (Pablo Picasso)
3.1 Dinamiche demografiche e sostenibilità del mercato del lavoro
L'invecchiamento demografico della
popolazione è un fenomeno comune a tutte
le società a economia avanzata che assume
un’influenza fondamentale per le sue
implicazioni di natura sociale ed economica,
accanto alle conseguenze strettamente
demografiche che avrà sulla composizione
delle popolazioni interessate. Il fenomeno
appare, in particolare, quale fattore incidente
sulle trasformazioni che anche il lavoro sta
subendo.
L’invecchiamento demografico trova in
Europa la sua manifestazione più netta a
causa di due concomitanti fattori: una forte
diminuzione della fecondità e l’allungamento
della vita media.
Se la longevità è di per sé una conquista,
l’invecchiamento demografico è una sua
conseguenza ineluttabile che pone, però,
diversi problemi di ordine sociale, culturale
ed economico. Il numero sempre crescente di
anziani si tradurrà, infatti, in richieste sempre
maggiori in termini previdenziali, assistenziali,
di fornitura di servizi socio-sanitari e di cura.
Oltre a ciò, lo squilibrio che si ingenererà tra
le classi economicamente produttive e le
classi anziane, che percepiscono la pensione
e hanno livelli di spesa sanitaria più elevati,
mette a dura prova la sostenibilità dei sistemi
di welfare contemporanei (Stranges, 2007).
All’interno di questo scenario, diventano
rilevanti gli andamenti dei tassi di
partecipazione al lavoro delle classi d’età
mature, in una rinnovata cultura
imprenditoriale tesa all’adozione di pratiche
volte a prolungare la vita attiva degli
ultracinquantenni.
Per inquadrare la situazione demografica
italiana ed europea può essere utile fornire
qualche dato sul processo di invecchiamento,
così come riassunto nella Tabella 3.1.
Il contributo dal basso al processo di
invecchiamento è reso evidente dal valore
assunto dal TFT (Tasso di Fecondità Totale)
che è in tutti i paesi al di sotto del valore di
ricambio generazionale di 2,1 figli per donna
in età feconda, mentre il contributo dall’alto
si esprime attraverso il valore assunto dalla
vita media alla nascita, che ha oramai
superato gli ottanta anni per le donne e i
settantacinque per gli uomini in quasi tutti i
paesi. Per quanto riguarda l’aspettativa di vita
alla nascita, il valore più elevato è quello della
Svezia per i maschi (78,4anni), seguito
proprio dal valore dell’Italia (77,7), mentre
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per le femmine è la Francia a superare seppur
di pochissimo (83,8anni) il valore italiano
(83,7). Molto indicativa l’analisi della
suddivisione della popolazione nelle tre
macroclassi d’età, che corrispondono,
rispettivamente, all’infanzia (0-14anni), all’età
adulta (15-64) e alla vecchiaia (65anni e più).
È possibile, infatti, rilevare come vi siano ben
diciassette dei ventisette paesi nei quali la
quota di ultrasessantacinquenni supera il
15%, e otto di questi nei quali tale quota di
anziani è maggiore della quota di giovani.
L’Italia è il paese nel quale la distanza tra
questi due macrogruppi di popolazione è
maggiore (5,4 punti percentuali di differenza).
Tali osservazioni sono ulteriormente
rafforzate dall’analisi del valore assunto
dall’indice di vecchiaia, ottenuto come
rapporto percentuale tra la popolazione
anziana e la popolazione giovane. L’Italia è,
appunto, il paese che mostra il valore più
elevato di tale indice (137,7%), il che equivale
a dire che ci sono quasi 140 anziani ogni 100
bambini.
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Tabella 3.1: Indicatori del processo di invecchiamento demografico nei paesi Ue 27 al 1° gennaio 2005. Valori e relativi indici di posizione e di dispersione
Paesi Indice di vecchiaia (valori %)
Numero medio di figli per donna
Vita media alla nascita (in anni)
Popolazione per classi di età (valori %)
Maschi Femmine 0-14anni 15-64anni 65anni e
più
Austria 99,4 1,42 76,4 82,1 16,3 68,2 15,5
Belgio (b) 98,8 1,64 (b) 75,9 (b) 81,7 17,3 65,6 17,1
Bulgaria 123,9 1,29 68,9 76,0 13,8 69,0 17,2
Cipro 62,0 1,49 77,0 81,4 20,0 68,1 11,9
Danimarca 79,8 1,78 75,2 79,9 18,9 66,3 14,9
Estonia (b) 101,3 1,40 66,0 76,9 16,6 67,6 15,8
Finlandia 90,9 1,80 75,3 82,3 17,6 66,8 15,5
Francia 88,6 (b) 1,89 76,7 83,8 18,6 65,1 16,4
Germania 128,3 1,37 75,7 81,4 14,7 67,3 18,0
Grecia (b) 122,8 1,29 76,6 81,4 14,6 67,8 17,5
Irlanda 54,1 1,99 (b) 75,8 (b) 80,7 20,9 67,9 11,1
Italia 137,7 1,33 (a) 77,7 (a) 83,7 14,1 66,4 19,5
Lettonia 111,5 1,24 65,5 77,2 15,4 68,5 16,2
Lituania 88,3 1,26 66,4 77,8 17,7 67,3 15,0
Lussemburgo
76,5 1,70 (b) 75,0 (b) 81,0 18,8 67,2 14,1
Malta 75,6 1,37 (b) 76,7 (b) 80,7 18,2 68,8 13,0
Paesi Bassi 75,7 1,73 76,4 81,1 18,5 67,6 13,8
Polonia 78,4 1,23 70,0 79,2 17,2 69,8 13,0
Portogallo 109,0 1,42 (b) 74,2 (b) 80,5 15,7 67,5 16,8
Regno Unito
(b) 87,9 1,74 (b) 76,2 (b) 80,7 18,3 65,8 16,0
Repubblica ceca
94,0 1,23 72,6 79,0 15,2 70,9 14,0
Romania 92,5 1,29 67,7 75,1 15,9 69,4 14,7
Slovacchia 67,8 1,25 70,3 77,8 17,6 71,0 11,6
Slovenia 106,3 1,22 (b) 72,6 (b) 80,4 14,6 70,4 15,1
Spagna 115,9 1,32 77,2 83,8 14,5 68,6 16,8
Svezia 97,7 1,75 78,4 82,7 17,8 65,1 17,2
Ungheria 100,0 1,28 68,6 76,9 15,9 68,6 15,5
Media 95,0 1,47 73,5 80,2 16,8 67,9 15,3
Mediana 94,0 1,37 75,3 80,7 17,2 67,8 15,5
Min 54,1 1,22 65,5 75,1 13,8 65,1 11,1
Max 137,7 1,99 78,4 83,8 20,9 71,0 19,5
Range 83,6 0,77 12,9 8,7 7,1 5,9 8,4
Dev stand 20,5 0,24 4,0 2,4 1,9 1,6 2,0
Coeff var (%)
21,6 16,22 5,5 3,0 11,2 2,4 13,3
a (stima) b (dati relativi all’anno 2003) Fonte: elaborazioni su dati Eurostat, 2006- M. Stranges 2008
In generale, osservando tutti i dati riportati
nella Tabella 3.1 è possibile notare che,
nonostante sussistano delle lievi differenze
tra i ventisette paesi che compongono
l’Unione Europea, sembra che vi sia tra loro
una sostanziale omogeneità riguardo agli
indicatori di invecchiamento.
L’invecchiamento che interessa la
popolazione italiana ha avuto origine già nel
corso del XX secolo, a seguito della
conclusione del processo di transizione
demografica che ha interessato tutti i paesi a
sviluppo avanzato, e si è progressivamente
acuito a mano a mano che vi è stato un
allungamento della vita media dovuto, in
particolare, al miglioramento delle condizioni
sociali e igienico-sanitarie e all’introduzione
di cure e terapie più efficaci. Nonostante si sia
19
recentemente registrata una lieve ripresa del
tasso di fecondità totale, l’invecchiamento
demografico continua ad aumentare in
ragione della crescita della speranza di vita
alla nascita (Tabella 3.2). La percentuale di
ultrasessantacinquenni è ulteriormente
cresciuta negli ultimi anni, passando dal
18,69% del 2002 al 20,04% del 2008. Gli
anziani “guadagnano” terreno non tanto a
scapito dei giovanissimi, la cui quota nei
medesimi anni è solo leggermente diminuita,
ma soprattutto a svantaggio della
popolazione adulta la cui diminuzione è stata
pari a 1,15 punti percentuali (Tabella 3.2).
Tabella 3.2
Tale dato conferma le preoccupazioni
riguardo al crescente scompenso tra
componenti produttive e improduttive della
popolazione (Stranges, 2009). La situazione
non è certo destinata a migliorare in futuro,
anzi tenderà a peggiorare: le previsioni
recentemente rilasciate dall’Istat (2009)
stimano, infatti, un aumento della quota di
anziani fino a un valore del 33% della
popolazione totale nel 2050. È possibile,
inoltre, notare che, in linea con quanto
osservato in precedenza, la parallela
diminuzione percentuale del resto della
popolazione riguarderà in misura maggiore gli
adulti, il cui peso scenderà dall’attuale 65,9%
al 54,1%, rispetto ai giovani, che passeranno
dal 14% al 12,9% (Figura 3.1).
*Stima
Fonte: elaborazioni su dati Istat, 2009- M. Stranges 2009
20
Figura 3.1
Attraverso l’analisi della piramide della
popolazione (Figura 3.2) è possibile, infine,
comprendere in maniera intuitiva come il
profilo e la struttura per sesso ed età della
nostra popolazione stia rapidamente
cambiando. La forma della piramide italiana,
a salvadanaio nel 2010, diverrà presto
riduttivoiv: la base stretta rimarrà tale, come
conseguenza della denatalità, mentre la parte
alta tenderà ulteriormente ad allargarsi,
grazie all’accresciuta longevità. La parte più
scura della piramide rappresenta la
popolazione potenzialmente produttiva
(classi d’età 20-64 anni): è evidente come tale
segmento di popolazione sia destinato a
ridursi progressivamente sia in termini
assoluti, sia in termini relativi rispetto agli
altri segmenti di popolazione, soprattutto
nelle classi d’età tra i 30 e i 49 anni.
La crescita della popolazione anziana
interesserà, in particolare, il gruppo dei
grandi vecchi- Over75. Appare evidente come
i problemi connessi alla sostenibilità dei
sistemi di Welfare diverranno in futuro ancor
più rilevanti, in considerazione del fatto che
le fasce di popolazione più estreme sono
quelle effettivamente improduttive alle quali
sono connessi non solo i costi pensionistici,
ma anche maggiori costi sanitari ed
assistenziali (Stranges, 2009).
Fonte: M. Stranges, 2009
21
L’età media aziendale sta crescendo: gli
organici aziendali si attestano, infatti, su una
media di circa 42 anniv. Allo stesso modo,
l’età media della promozione a posizioni
dirigenziali è passata dai 38 anni del 1985 ai
43 anni del 2010vi, determinando un
rallentamento dei percorsi di crescita delle
popolazioni aziendali più giovani e un
conseguente problema di motivazione delle
stesse. Più in generale, l’invecchiamento
della popolazione, congiunto all’aumento
degli inattivi, tende a rallentare la crescita del
PIL pro capite in molte economie avanzate,
con una diminuzione annua prevista in Italia
dello 0,2%vii. Il tema del mantenersi attivi
nella seconda metà di vita rappresenta,
quindi, una delle principali questioni da
affrontare affinché si possa garantire alla
popolazione, anche nel prossimo futuro,
benessere e prosperità. Le imprese saranno
impegnate nella messa a punto di politiche
capaci di incidere sugli assetti regolativi del
mercato del lavoro, oggi incentrati su logiche
ormai anacronistiche di sostituzione young
in-old out.
In una prospettiva di aggiornamento continuo
delle competenze dei lavoratori e, più nello
specifico, di prolungamento della vita attiva
per gli Over45, le imprese saranno chiamate a
muoversi sempre più lungo un approccio di
lifelong learning che accomuni tutte le classi
d’età, senior inclusi. Eppure, nonostante
Fonte: M. Stranges, 2009
Figura 3.2 Figura 3.2
Fonte: M., Stranges, 2009
22
questa evidenza, la partecipazione a
interventi formativi per le persone tra i 45 e i
50 anni scende di quasi il 20% (P. Iacci, 2005)
rispetto ai colleghi più giovani. Anche in
Francia, che, a differenza dell’Italia, ha
costruito un sistema di formazione
permanente molto esteso che interessa gran
parte degli occupati, si è riscontrato un
accesso più ridotto ai programmi formativi
dei lavoratori che hanno superato i 50 anni.
Più in generale, si percepisce ancora
l’invecchiamento della manodopera come un
freno all’innovazione: così il 42% dei capi
d’azienda francesi ritiene che l’accrescimento
della fascia di lavoratori oltre i 50 anni avrà
effetti negativi sull’introduzione delle nuove
tecnologie (Behaghel,2005)
Il dato richiama, più in generale, una
frequente discriminazione basata sull’età che
rappresenta uno degli stereotipi più comuni
nella cultura industriale del mondo
occidentale e che negli Stati Uniti va sotto il
nome di ageism. Si tratta di un insieme di
“credenze” non provate scientificamente,
secondo le quali dopo i 45 anni
l’apprendimento è più lento e la capacità
lavorativa minore: niente di più falso. I dati
documentabili rivelano, invece, che la
maggior parte degli anziani ha una normale
abilità cognitiva, incluso l’apprendimento e la
memoria. La crisi economica ha, poi,
accellerato fenomeni di pressione sul costo
del lavoro finalizzati all’incremento della
produttività aziendale, portando a
un’ulteriore progressiva marginalizzazione dei
senior a favore dei junior che costano meno.
Negli ultimi anni, le organizzazioni sindacali
hanno mostrato una costante attenzione al
fenomeno della disoccupazione giovanile che
rappresenta, senza dubbio, una delle priorità
a cui il Sistema Paese è chiamato a dare
risposte immediate. A fronte dello scenario
delineato, emerge, tuttavia, un’ulteriore
attenzione da perseguire tanto da parte dei
sindacati quanto delle rappresentanze
datoriali e, più in generale, del mondo delle
Istituzioni. Ci si riferisce alla necessità di porsi
concretamente il tema della spendibilità delle
risorse mature sul mercato del lavoro a fronte
di una diffusa tendenza delle organizzazioni a
perseguire, come obiettivo primario, lo
svecchiamento dell’impresa. E’, dunque, forte
la contraddizione tra sostenibilità dei sistemi
di welfare e modalità di gestione delle
popolazioni più anziane da parte delle
aziende che tendono alla precoce espulsione
dal mercato del lavoro degli Over45. Il
sistema impresa mostra una diffusa
resistenza ad adottare politiche di demografia
aziendale che siano finalizzate a una gestione
strategica del people mix e, in questo modo,
si pone in contrasto rispetto a quelle
prospettive di Corporate Social Responsibility
che caratterizzano ormai tutte le moderne
culture organizzative.
23
I modelli organizzativi odierni stanno
cambiandoviii e richiedono competenze
manageriali e approcci gestionali diversi dal
passato, spesso non in linea con i valori e le
aspettative dei senior. In particolare, ci si
riferisce all’abbandono di modelli di
progressione in carriera strettamente
associati all’età anagrafica a favore di
strutture organizzative sempre più piatte e
orizzontali. Si tratta, in sostanza, di modelli
organizzativi molto diversi da quelli che
hanno caratterizzato il “passato prossimo”
delle imprese e che determinano, non di
rado, forme di disagio e malessere nelle
popolazioni aziendali più senior. Va ricordato,
inoltre, che dopo una certa età- 45 anni circa-
non si registrano aumenti significativi dei
livelli retributiviix, con un conseguente calo
motivazionale dei senior a cui si continuano a
richiedere performance elevate, senza poter
di fatto intervenire con la leva del Reward. Le
aziende devono dare risposta al malessere
che caratterizza, spesso, le classi d’età mature
e, più in generale, devono saper gestire quei
disagi cross generazionali, presenti
frequentemente nei moderni contesti
organizzativi. Una necessità, d’altronde,
legata al fatto che nelle moderne
organizzazioni coesistono almeno quattro
diverse generazioni portatrici di valori e
subculture differenti, con aspettative
professionali e stili di vita propri.
Il sistema impresa è chiamato, oggi più che
mai, a far fronte al fenomeno attraverso
politiche di gestione della diversità
generazionale, dando risposte adeguate ai
diversi bisogni e istaurando un dialogo e un
confronto costruttivo tra le parti in gioco.
24
3.2 I paradossi di Matusalemme
Nella sola Italia, gli ultracentenari sono già
più di 8000 e continuano a crescere. In un
periodo di tempo che equivale al 99,9% della
storia umana, la speranza di vita non ha mai
superato i 40 anni. Oggi, invece, una neonata
su due ha un’attesa di vita superiore ai 100
anni. Suo fratello mediamente arriverà ai 95
anni. A poco a poco, con l’innalzamento della
vita media, tutti i tempi si sono dilatati e tutti
noi stiamo per diventare dei Matusalemmex.
L’invecchiamento demografico è
accompagnato da una serie di paradossi che
ostacolano il prolungamento della vita attiva
della popolazione più anziana con evidenti
conseguenze sui sistemi di welfare e sulla
sostenibilità delle economie avanzate (Iacci,
2005). I paradossi, elencati di seguito,
tratteggiano in estrema sintesi lo scenario
attuale caratterizzato da una forte
contraddizione: se da un lato, infatti,
l’invecchiamento demografico rappresenta
un fenomeno ampiamente riconosciuto e
documentato anche nella sua evoluzione
futura nelle società occidentali a economia
avanzata, dall’altro mancano adeguate
politiche di sistema e politiche aziendali in
grado di gestire adeguatamente il fenomeno.
Primo paradosso di Matusalemme- Young in,
old out-
Più cresce la popolazione matura, più le si
richiede di rimanere in attività, e meno ci si
preoccupa di come potrà rimanerci, perché
viene precocemente emarginata dal mercato
del lavoro. Nell’economia fondata sul sapere
si disperde il valore conoscitivo accumulato
dai lavoratori maturi, ai quali si chiede di
pensionarsi più tardi senza saperne utilizzare
il potenziale contributivo produttivo.
Secondo paradosso di Matusalemme- Young
up, old down-
Più cresce la complessità delle nostre
organizzazioni, più si accorcia il tempo per
imparare a dirigerle.
Terzo paradosso di Mausalemme- Young
more, old less-
Quanto più nelle organizzazioni c’è necessità
di esperienza, tanto meno essa viene
valorizzata perchè si espelle anzitempo chi
l’ha accumulata.
Quarto paradosso di Matusalemme- Young
good, old bad-
Più le realtà organizzative diventano
complesse, meno si valorizzano le
potenzialità delle persone di mezza età che
operano in esse, ritenendole non più
25
adeguate. Esse vengono precocemente
esplulse dalle organizzazioni produttive e si
sviluppano su di loro stereotipi di percezione
sociale che tendono a discriminarle e
svalutarle.
26
4. Evidenze emerse
4.1 Introduzione
L’Italia è, insieme al Giappone, il paese più
vecchio al mondo e l’attuale incidenza
percentuale del 40% delle persone con età di
50 anni aumenterà fino a coprire la metà
della popolazione nel 2050xi. Le recenti
previsioni demografiche dimostrano che il
fenomeno dell’invecchiamento è destinato ad
aumentare. Secondo le previsioni prodotte
dall’Istat, infatti, la popolazione nella classe
30-44 è destinata a perdere circa 3 milioni e
mezzo di unità nei prossimi vent’anni, a
vantaggio di quella tra i 50 e i 64 anni.
L’invecchiamento demografico in Italia è
stato, inoltre, più rapido e intenso rispetto
agli altri paesi europei: infatti, nell’ultimo
ventennio, tra il 1988 e il 2008, l’incidenza
percentuale delle persone con 50 anni e oltre
è passata dal 32% al 39% della popolazione
totale, con una crescita che ha riguardato
soprattutto gli Over65. Nei prossimi decenni,
tale fenomeno sarà ancora più sensibile e lo
spostamento dalla fascia più giovane a quella
più matura della popolazione attiva avrà un
forte impatto negativo sulla crescita del
paese, se i livelli di occupazione (e in parte
anche di produttività) dei meno giovani si
manterranno sui livelli attuali. Rispetto alla
media europea (44,7%), infatti, il tasso di
occupazione degli older workers (55-64) è in
Italia pari al 33,8% (A. Rosina, 2009). Questa
differenza in termini di popolazione attiva è
destinata a creare problemi di sostenibilità
del sistema sociale e previdenziale via via
crescenti.
Va, dunque, riorientata la cultura
imprenditoriale verso l’adozione di pratiche
intese a prolungare la vita attiva degli
ultracinquantenni. Le aziende, invece, spesso
sono convinte di “risparmiare” espellendo il
lavoratore anziano senza considerare, o
sottovalutando, il forte danno derivante dalla
perdita delle competenze e considerando, al
contrario, unicamente la questione dal punto
di vista del costo del lavoro. Gli Over40
costituiscono lo “zoccolo duro” delle
imprese, sono i veri depositari del know how
aziendale, la loro esperienza costituisce un
riferimento per i più giovani, fornendo
stabilità, affidabilità e continuità. Si deve
trovare necessariamente un punto di
equilibrio tra i due elementi del costo e della
qualità del lavoro. Aumentare la
partecipazione dei lavoratori maturi è,
d’altronde, una necessità ineludibile per lo
sviluppo del nostro paese (A. Rosina, 2009).
Siamo uno dei paesi, dove non solo si vive più
a lungo, ma si vive anche meglio in età
anziana. È quindi necessario sfruttare questo
27
potenziale attivo al fine di rendere meno
gravoso il peso sulla spesa pensionistica di
una fascia di popolazione oggi inattiva che al
contrario potrebbe dare ancora molto in
termini di produttività del lavoro.
L’attuale struttura demografica italiana ed
europea induce, senza dubbio, al
ripensamento dell’intero sistema di welfare.
In merito, le prime sollecitazioni sono giunte
dalle decisioni dell’Unione Europea che, nel
Consiglio Europeo di Stoccolma del 2001, ha
proposto, per il 2010, un traguardo del 50%
di occupazione per gli Over55 e, nel Consiglio
di Barcellona del 2002, ha stabilito il
raggiungimento di un aumento progressivo
per l’età media alla quale i lavoratori
dovranno smettere di lavorare. L’Italia nel
2001 mostrava un tasso di occupazione per i
lavoratori fra i 55 e i 64 anni del 28,1%. Fra il
2000 e il 2003, si è avuto un incremento
raggiungendo un tasso di occupazione per
questa fascia di età del 30,3% mentre nel
2005 il valore italiano si attestava al 31,4%,
ben al di sotto del valore medio europeo del
42,5% (Tabella 4.1).
Tabella 4.1 L’Italia e gli obiettivi europei. Valori al 2005
Obiettivo
Descrizione
(entro il
2010)
Valore da
raggiungere
Valore
medio
europeo*
Valore
italiano
Distanza
dall’obiettivo
(assoluta)**
Raggiungimento
dell’obiettivo
(%)***
Lisbona
Tasso di
occupazione
generale
70,0% 63,8% 57,6% 12,4% 82,3%
Tasso di occupazione
femminile
60,0%
56,3%
45,3%
14,7%
75,5%
Stoccolma
Tasso di occupazione
dei
lavoratori 55-64anni
50,0% 42,5% 31,4% 18,6% 62,8%
Barcellona
Età media di
uscita dal
mercato del lavoro
65,4anni 60,9anni 59,7anni 5,7anni 91,3%
* media Ue25 ** calcolata come differenza tra il valore obiettivo e il valore reale italiano *** percentuale calcolata come rapporto tra il valore italiano sul valore obiettivo Fonte: elaborazioni su dati Eurostat, 2006b- M. Stranges, 2008.
28
In ogni caso, nonostante un lieve aumento
percentuale, rimaniamo fortemente al di
sotto dei livelli indicati dall’UE con un tasso di
occupazione degli older workers nel 2009 pari
al 33,8%. Più in generale, rispetto alle
tendenze di progressivo e inarrestabile
invecchiamento demografico, i principali
indicatori del mercato del lavoro evidenziano,
nonostante un’inversione di tendenza degli
ultimi anni, un basso livello occupazionale
nelle classi d’età mature, riproponendo con
forza una situazione che è stata definita come
il “paradosso dell’invecchiamento funzionale
in società demograficamente senescenti”
(Carrera, Mirabile, 2000). In Italia, se da una
parte le riforme previdenziali hanno puntato
a ritardare il pensionamento, dall’altra, nel
mercato del lavoro risultano ancora poco
sviluppate le azioni rivolte al sostegno
dell’occupazione delle persone avanti con gli
anni.
Il caso italiano resta particolarmente
problematico per l’inerzia del sistema
d’imprese nell’adottare sistemi di Age
Management (Ilmarinen, 2007) coerenti con
gli obiettivi collettivi di allungamento della
vita media attiva: sono, per esempio, poco
sviluppate pratiche di pianificazione delle
carriere, di tutela della salute e di
aggiornamento professionale. Le politiche
attive del lavoro, nonostante interessanti
sperimentazioni a livello locale, sono ancora
lontane dall’incorporazione dei principi
dell’invecchiamento attivo come linee guida
per supportare lo sviluppo dei percorsi
lavorativi sull’intero arco del corso di vita. In
particolare, la debolezza della formazione
continua (Isfol, 2008) rappresenta un freno
allo sviluppo di un approccio innovativo
all’invecchiamento attivo se si considera,
come scrive Orio Giarini, che “la formazione,
anche quella continua, non deve limitarsi solo
all’aggiornamento della specializzazione di
ciascuno, ma deve permettere e facilitare il
cambiamento di direzione, nel corso della
vita, con attività consone a ogni gruppo di
età” (2005).
29
4.2 Distribuzione demografica e trend evolutivi
Le aziende intervistate mostrano una
percentuale significativa di popolazione
aziendale senior e frequenti vuoti
generazionali accompagnati da
concentrazioni della popolazione aziendale in
uno o più cluster demografici (Grafico 4.1). Il
dato mostra come, spesso, nei contesti
organizzativi non siano state messe in atto
politiche di pianificazione strategica degli
organici.
La frequente assenza in azienda di politiche
demografiche lungimiranti riflette una più
generale situazione di contesto in cui si
insinua la percezione dell’importanza del
fenomeno, pur nell’assenza di azioni tanto
politiche quanto normative in grado di tener
testa agli inarrestabili cambiamenti
demograficixii. La previsione espressa dalle
aziende intervistate sui trend evolutivi
conferma la persistenza e il consolidamento
di vuoti generazioni, dovuti, in particolare,
all’assenza della classe intermedia, accanto a
una tenuta della numerosità della
popolazione aziendale seniorxiii (Grafico 4.2).
Più in generale, emerge la consapevolezza
che in futuro il people mix in azienda sarà
molto diverso e sempre più variegato, con la
conseguente necessità per le imprese di un
assetto demografico non subito ma
programmato.
Grafico 4.1
Fonte: Ricerca “Quale People Mix in azienda: rischi e opportunità”, ELIS-Hay Group, 2010 Le percentuali sono state calcolate su 9 delle 13 aziende che costituiscono il campione della ricerca
30
Tutte le rilevazioni statistiche e gli studi
sociologici concordano nel prevedere un
innalzamento della vita media:
l’invecchiamento demografico s’identifica,
infatti, come un fenomeno, caratteristico del
contesto europeo, dovuto a una diminuzione
delle nascite accompagnata da un
contestuale allungamento della vita media.
Per effetto di queste dinamiche, in Italia si
prevede che la percentuale di anziani oltre i
65 anni sulla popolazione totale raggiungerà
il 15% prima del 2015. Le implicazioni del
fenomeno sulla sostenibilità finanziaria del
sistema pensionistico sono evidenti così
come lo sono le implicazioni sui contesti
aziendali e sulle relative politiche
demografiche e gestionali. Appare evidente
la necessità di politiche attive del lavoro
finalizzate a garantire l’occupabilità degli
Over55 e l’adozione di una cultura
imprenditoriale tesa a prolungare la vita
lavorativa attiva degli ultracinquantenni. In
particolare, le aziende dovranno far fronte
alle più comuni conseguenze legate
all’evoluzione della composizione
demografica aziendale:
Perdita del know how con scenari, specie
nei contesti altamente tecnologici, di
turnover non disponibili tanto sul
mercato quanto in azienda;
Scontri generazionali tra popolazioni
aziendali lontane in termini anagrafici e
culturali; scontri, del resto, acuiti dai
frequenti vuoti demografici della
popolazione intermedia che ha, per sua
Grafico 4.2
Fonte: Ricerca “Quale People Mix in azienda: rischi e opportunità”, ELIS-Hay Group, 2010
31
natura, una funzione di mediazione e
filtro tra gli estremi anagrafici;
Implementazione di modelli gestionali
più attenti alla retention, in particolare
delle popolazioni più giovani che sono
caratterizzate da un forte individualismo
e una scarsa fidelizzazione;
Sviluppo di politiche di gestione delle
diversità generazionali e, più in generale,
del people mix in termini non solo
anagrafici ma anche culturali e di genere;
Necessità di un efficientamento delle
strutture manageriali attraverso lo
sviluppo di strutture organizzative
orizzontali adatte a un contesto in
continua evoluzione, che, se da un lato,
incontrano le aspettative professionali
dei più junior, dall’altro, si scontrano con
la cultura delle popolazioni senior.
4.3 Perfomance e Produttività
Le evidenze di contesto generale mostrano
come il prolungamento della vita lavorativa
sia ricercato soprattutto per salvaguardare gli
equilibri del sistema pensionistico, ma non è
valorizzato pienamente nel suo effettivo e
polivalente potenziale. Le cause di questo
dato possono essere collegate a una serie di
ostacoli alla valorizzazione dei lavoratori
senior. Innanzitutto, le misure di flessibilità,
introdotte negli ultimi anni nella regolazione
dei rapporti di lavoro, riguardano in
particolare le fasi di primo inserimento nel
lavoro e molto meno le fasi successive. Si
rileva, inoltre, la diffusa presenza, in
particolare in Italia rispetto agli altri Paesi
europei, di sistemi normativi e meccanismi
contrattuali che determinano una
progressione retributiva strettamente
correlata all’anzianità. Si crea così una
convenienza per le aziende nel sostituire
personale anziano, la cui gestione è irrigidita
e costosa, con nuovi ingressi di giovani
operatori, gestibili almeno all’inizio con
formule più agili e che non impegnano i
datori di lavoro in una prospettiva di lungo
periodo. Si registra, infine, la persistenza, nel
contesto interno di molte organizzazioni del
nostro tempo, di un “paradigma del deficit”,
riferito ai lavoratori più anziani, le cui
prestazioni vengono diffusamente ritenute
inferiori a quelle dei giovani a causa del
deterioramento delle abilità mentali e fisiche.
Si enfatizza, quindi, l’aspetto negativo
dell’età, associandola a una perdita di abilità
e a una diminuzione della performance fisica,
senza dare importanza agli aspetti che hanno
un valore positivoxiv e ignorando anche i
32
diffusi riscontri empirici che smentiscono tale
assunto.
Dalla ricerca, in generale, non si riscontra un
calo di performance negli Over45. Molto
dipende dalla tipologia di lavoro: su ruoli più
professionalizzati e di responsabilità la
performance tende a essere più alta per i
senior. Le variabili che su questi ruoli
incidono pesantemente sull’alto livello di
performance, associato alla popolazione
senior, sono il forte know how tecnico e
l’esperienza maturata. Si registra, inoltre, un
alto livello di performance degli Over45
legato all’affidabilità e alla motivazione,
mentre i junior appaiono maggiormente
volubili e caratterizzati da una minore
dedizione al lavoro, spesso collegata ad una
remunerazione più bassa. Emerge, di contro,
un calo di performance delle popolazioni più
anziane sui ruoli più operativi in termini di
prestazione e dove le tecnologie tendono a
una rapida obsolescenza.
La produttività mostra livelli percentuali simili
a quelli riscontrati per la performance. Infatti,
si registra una maggiore produttività delle
popolazioni più anziane su ruoli aziendali di
responsabilità, in quanto, relativamente a
questi, il costo del lavoro più alto è
proporzionato a una performance più elevata.
Di contro, escludendo le posizioni più alte,
per le quali l’esperienza e il know how fanno
la differenza, sugli altri ruoli si registra una
maggiore produttività dei lavoratori junior
considerando il più alto costo del lavoro dei
senior.
Il dato trova riscontro in una diffusa tendenza
delle aziende verso una progressiva
marginalizzazione degli Over45 a favore dei
giovani che costano meno, non considerando,
spesso, la conseguente perdita del know how
tecnico e privilegiando, in questo modo, gli
effetti di breve termine sulla produttività
aziendale. Si deve trovare, invece, un
bilanciamento tra il costo e la qualità del
lavoro, attraverso una diversa gestione della
produttività orientata a benefici di lungo
termine che abbiano effetti stabili e incisivi
sul business aziendale.
Emerge, in sostanza, la necessità di dover
gestire la produttività aziendale in modo
diverso. Fino a oggi, è stata gestita facendo
leva principalmente sulla riduzione del costo
del lavoro e, spesso, sulla sostituzione di
lavoratori più senior e costosi con altri più
giovani ed economici. E’, invece, sempre più
necessario lavorare sulla perfomance, agendo
sulla valorizzazione, motivazione e capacità di
contribuire dell’organizzazione esistente.
Questa prospettiva appare l’unica strada
realisticamente percorribile in un contesto
caratterizzato dal progressivo innalzamento
dell’età media degli organici aziendali. Il
management potrà far leva sempre meno sul
costo del lavoro e sarà chiamato sempre più a
governare le leve gestionali della
performance per innalzare il livello di
33
produttività aziendale. Questa rinnovata
prospettiva manageriale porta con sè il
superamento del “paradigma del deficit” e
una riaffermazione dei senior come veri
depositari del know how aziendale. La loro
esperienza, infatti, costituisce un riferimento
per i più giovani, fornendo stabilità,
affidabilità e continuità. Le aziende, in
definitiva, devono adottare una strategia in
prospettiva, contribuendo a prolungare e
migliorare la qualità della vita professionale,
attraverso soluzioni intese a garantire pari
opportunità per tutti i lavoratori, a
prescindere dall’età, e orientate a valorizzare
il “ciclo evolutivo delle competenze, legato
alle diverse fasi della vita
professionale”(Lieberum-Heppe-Schuler,
2005).
4.4 Il paradigma del ciclo evolutivo delle competenze, legato alle diverse fasi della vita
professionale (Lieberum-Heppe-Schuler, 2005)
Se si accoglie l’ipotesi di tre distinte fasi del
normale ciclo di vita professionale e di
carriera di un lavoratore, per esempio
secondo la suddivisione 15-30 anni, 30-45 e
45-65, una serie di studi di ordine psicologico
e gerontologico suggeriscono che le persone
più anziane, mentre perdono alcuni aspetti
della precedente capacità lavorativa, vengono
a disporre però di competenze non possedute
in modo significativo nelle fasi precedenti
(Figura 4.1). L’ipotesi suffragata da alcuni di
questi studi è, dunque, la seguente: il
progredire dell’anzianità comporta non solo i
vantaggi comunemente associati
all’esperienza (familiarità con i diversi
problemi, conoscenza dei “trucchi del
mestiere” e del contesto operativo, etc.), ma
anche un sostanziale miglioramento delle
competenze sociali e di relazione (Lieberum-
Heppe-Schuler, 2005). Di pari passo, il
modello del ciclo di vita riconosce alcuni
effetti negativi dell’età come la diminuzione
della performance fisica e della capacità di
apprendimento, pregiudizi, del resto,
facilmente confutabili. Si tratterebbe, in ogni
caso, di due ordini di effetti di segno opposto,
che determinerebbero comunque un
sostanziale bilanciamento. All’interno del
quadro tratteggiato, un’organizzazione del
lavoro attenta a valorizzare le potenzialità
proprie di ciascuna fase della vita
professionale dei lavoratori aiuterebbe a
sviluppare ulteriormente il contributo dei
lavoratori senior, facendo leva anche su
quegli aspetti dell’evoluzione tecnologica che
relativizzano l’importanza della prestanza
fisica per molti tipi di attività lavorative. In
particolare, l’evoluzione medica e
farmacologica dell’ultimo trentennio ha
diminuito l’effetto di quei fattori negativi
34
legati all’età, quali la malattia e il
deperimento fisiologico, migliorando la salute
degli individui e producendo, quindi, un
aspetto favorevole legato alle classi d’età più
mature. L’innovazione tecnologica intesa in
senso ampio, comprensivo delle connesse
modificazioni d’ordine organizzativo e socio-
ambientalexv, gioca anch’essa potenzialmente
a favore dell’impiego lavorativo delle classi
d’età mature. Infine, si manifestano ormai
pesantemente gli effetti della terziarizzazione
dell’economia e, nella moderna società della
conoscenza, viene meno quel nesso lineare
tra competenze tecniche predefinite e
applicazione orientata ai risultati. Si
rivalutano, quindi, l’esperienza e la sensibilità
acquisita sul campo; in questo, le risorse di
esperienza diversificata, di un vissuto di più
lunga durata possono divenire preziose,
anche se non si possono considerare un
portato “automatico” dell’età.
Fonte: G. Rebora, 2005 in “Troppo vecchi a quarant’anni? Come sopravvivere al giro di boa nel mondo del lavoro.”, P. Iacci (a cura di)
Fig. 4.1 Ciclo di vita delle competenze (Liederum-Heppe-Schuler, 2005)
35
4.5 Formazione e modalità di apprendimento
La prima motivazione addotta per giustificare
l’emarginazione del lavoratore senior dal
mercato del lavoro riguarda il mancato
aggiornamento, soprattutto la mancanza di
alfabetizzazione informatica e la non
conoscenza delle lingue stranierexvi. In realtà,
il nucleo del problema riguarda la percezione
delle imprese e dei singoli soggetti su questo
tema. Le imprese sono convinte che la
persona matura non possa aggiornarsi o
imparare cose nuove e il singolo, convinto di
essere ormai “fuori dal giro”, non si attiva,
finendo così per autoescludersi
spontaneamente. Si tratta di un classico
circolo vizioso che è necessario superare
attraverso un profondo cambiamento
culturale, sia all’interno delle organizzazioni,
sia nell’atteggiamento delle singole persone
di fronte al lavoro. E’ scientificamente
dimostrato, infatti, che le capacità di
apprendimento sul lavoro di una persona
matura cominciano a non essere paragonabili
a quelle di un trentenne o quarantenne solo
una volta superata la soglia dei 70 anni
(Baroni,2004). Fino ad allora, se la persona è
motivata allo sforzo mnemonico e
all’applicazione, può continuare ad
apprendere con successo, potendo così
rispondere adeguatamente alle necessità
professionali.
Dalla ricerca emerge tutta la complessità del
fenomeno: da un lato, infatti, si osserva la
persistenza del “circolo vizioso” legato alle
presunte minori capacità di apprendimento
dei seniorxvii, mentre dall’altro è chiara la
consapevolezza della necessità di interventi
formativi e di sviluppo che rispondano alle
specifiche esigenze delle diverse popolazioni
aziendali, Over45 compresi.
In molte aziende intervistate, si riscontra un
numero ridotto o la mancanza di percorsi di
formazione e sviluppo disegnati per il
personale più senior, volti a sviluppare una
maggiore autoconsapevolezza, recuperare
motivazione e fiducia,
riconvertire/riqualificare, sviluppare
competenze trasversali e permettere un
miglior trasferimento del know how a
colleghi più giovanixviii. Alcune aziende, in
sostanza, preferiscono dedicare il budget
della formazione a risorse più giovani nella
convinzione che hanno più tempo per
ripagare l’investimento fatto
dall’organizzazione su di loroxix. Questo
fenomeno è accentuato dalla percezione che
alcuni senior possano avere una minor
motivazione ad apprendere e un
atteggiamento di chiusura nei confronti della
formazionexx. L’atteggiamento di chiusura, in
molti casi, deriva dall’aver vissuto negli anni
la formazione più come un’attività di routine,
Fig. 4.1
36
senza averne colto appieno il valore,
piuttosto che come una scelta dettata
dall’interesse personale e finalizzata allo
sviluppo delle competenze professionali in
un’ottica di employability. Gli Over45 sono
cresciuti avendo in mente che il periodo della
formazione è relegato all’età scolare e che,
dopo, s’impara solo sul campo, facendo le
cose. Questo è vero, ma solo in parte. Il
cosidetto lifelong job, il mestiere di tutta una
vita, inizia, infatti, a essere un ricordo del
passato e il suo posto è preso dal concetto
dell’occupabilità, in altre parole la
rivendibilità sul mercato del lavoro delle
competenze personali possedute. Cambia il
concetto di formazione aziendale: da attività
che l’organizzazione erogava in relazione ai
propri interessi di aggiornamento dei
lavoratori a nuova richiesta da parte dei
singoli che vogliono difendere il loro valore
sul mercato del lavoro, interno ed esterno
all’organizzazione di appartenenza. Al
concetto di lifelong job si è sostituito, in
sostanza, il nuovo concetto di lifelong
learning. La bassa motivazione
all’apprendimento dei senior è, invece,
riconducibile sostanzialmente a due ordini di
fattori che mostrano l’urgenza di ripensare,
da un lato, le politiche aziendali per
valorizzare il ruolo e le competenze degli
Over45 e, dall’altro, l’offerta formativa in
modo che risponda al reale fabbisogno delle
classi più mature. Il primo fattore connesso
alla bassa motivazione all’apprendimento
riguarda la consapevolezza dei senior di non
poter ottenere ulteriori promozioni e
avanzamenti di carriera, tanto per il livello
organizzativo raggiunto quanto per
l’appiattimento delle strutture aziendali,
sempre più orizzontali rispetto alle strutture
verticistiche e gerarchiche del passato.
Questo fattore richiama la necessità di
soluzioni organizzative specifiche che siano in
grado di valorizzare i lavoratori senior
all’interno degli inevitabili cambiamenti in
atto nei contesti aziendali e far fronte alle
nuove sfide del contesto postmoderno. Il
secondo fattore indicato dagli intervistati fa
riferimento, invece, alla presenza, in molti
contesti organizzativi, di corsi a catalogo che
le popolazioni aziendali più senior hanno già
avuto modo di frequentare e, quindi,
all’assenza di interventi formativi progettati
ad hoc per queste classi d’età. Il dato
contrasta con un’evidenza cruciale, secondo
la quale la formazione è il punto cardine su
cui poggiano tutte le strategie di evoluzione
del mercato del lavoro per gli Over45.
Strategie formative per riqualificare,
aggiornare e arricchire le competenze. Più in
generale, possiamo dire che a fronte di un
generale rischio di obsolescenza delle
conoscenze, legato alla rapidità con cui il
sapere si evolve nell’odierna società della
conoscenza, è indispensabile un
aggiornamento progressivo e continuo delle
37
competenze per tutti i lavoratori, Over45
compresi. La formazione continua, quindi,
non solo assume un notevole rilievo tra le
politiche per la competitività e la crescita, ma
è strettamente correlata alle politiche del
welfare e ogni tentativo di prolungamento
della vita attiva sarà più riuscito laddove il
lavoratore sarà beneficiato di opportunità di
formazione nel corso della sua vita
professionale. Le aziende sono chiamate a
orientare in maniera strategica le azioni
formative e di sviluppo, valutandone il
ritorno dell’investimento e superando il
timore che spesso accompagna gli interventi
formativi predisposti tanto per i più giovani
quanto per la popolazione più matura. Nel
primo caso, il timore è legato a problemi di
retention nei confronti di una classe d’età
caratterizzata da un basso livello di
fidelizzazione all’azienda e da
un’appartenenza all’organizzazione di tipo
strumentale più che affettivo. Nel caso delle
popolazioni più anziane, invece, il timore è
legato alla loro fuoriuscita dal mercato del
lavoro, soprattutto in un contesto in cui le
condizioni lavorative, ancora prevalenti in
gran parte dei contesti organizzativi di
imprese ed enti, non sembrano tali da
motivare più di tanto le persone a protrarre
nel tempo la propria occupazione,
soprattutto a fronte di prestazioni
pensionistiche spesso decisamente
vantaggiose.
L’assenza di una politica lungimirante sul
fenomeno contrasta, dunque, con l’urgenza
di ripensare all’interno dei contesti aziendali
la formazione in modo che risponda alle reali
esigenze delle popolazioni aziendali più
mature e che sia progettata tenendo in
attenta considerazione gli stili di
apprendimento propri degli adultixxi. E’ pur
vero, in ogni caso, che le direzioni del
personale cominciano a rendersi conto che
hanno il compito di promuovere la
manutenzione della capacità di imparare e di
adattarsi ai contesti in continua evoluzione,
attraverso azioni di ripensamento delle azioni
di formazione e di sviluppo in una direzione
che sia maggiormente inclusive e che
risponda alle specifiche esigenze delle diverse
popolazioni aziendali. Il 55% delle aziende
intervistate, infatti, dichiara la necessità di
predisporre interventi di formazione e
sviluppo specifici per le diverse classi d’età
che compongono gli organici aziendali,
sempre più diversificati per cultura, stili di
vita e storia professionale. Relativamente alla
popolazione più giovane, viene indicata la
necessità di un forte investimento formativo
sul fronte tecnico accanto a interventi di
tutorship e job rotation, finalizzati a una
conoscenza approfondita del contesto
organizzativo in affiancamento alle
popolazioni più mature. Invece, gli interventi
formativi ritenuti auspicabili per gli Over45
38
sono riconducibili a quattro macrocategorie
specifiche:
1. Interventi di Self awareness, finalizzati a
motivare le persone e a svilupparne
comportamenti organizzativi in linea con
i nuovi contesti organizzativi che
appaiono più piatti e orizzontali rispetto
al passato, attraversati da cambiamenti
continui e sempre più orientati a
meccanismi di crescita che premiano
dimensioni diversexxii;
2. Interventi di Self efficacy, indirizzati allo
sviluppo dell’autostima delle persone
attraverso una presa di coscienza delle
proprie capacità di organizzare le azioni
necessarie per conseguire determinati
livelli di prestazione;
3. Interventi di riqualificazione
professionale, ritenuti necessari, in
particolare, su aspetti legati alla
tecnologia, ai processi di business e alle
procedure aziendali, per sostenere il
prolungamento della vita attiva dei
lavoratori maturi;
4. Interventi, infine, di Knowledge Transfer
orientati a sviluppare nelle popolazioni
più anziane la capacità di trasferire
conoscenze e competenze ai più giovani
per valorizzarne l’esperienza e il ruolo
all’interno dell’azienda. Ci si riferisce, in
sostanza, alla necessità per le aziende di
comprendere appieno il patrimonio di
competenze e conoscenze posseduto dai
senior al fine di metterlo al servizio delle
giovani leve e di tutta l’organizzazione.
In sintesi, in un contesto di business in cui la
fonte della ricchezza non è più costituita dal
dominio delle materie prime, delle tecnologie
o degli impianti, ma soprattutto dalla
conoscenza e dalla capacità
d’apprendimento, la catena del valore
dell’impresa si sposta verso le attività
knowledge intesive e diventa cruciale
investire sulla valorizzazione del capitale
umano. In quest’ottica, occorre ritrovare un
nuovo senso della formazione nelle
organizzazioni e, in particolare, scoprire più
forti e nuove motivazioni per individui ricchi
di esperienza e competenze, per il loro e
l’altrui benessere, in modo da non sperperare
la risorsa più importante che abbiamo, i
nostri anni di vita.
39
4.5.1 L’apprendimento lungo tutto l’arco della vita
A partire dal 1996, anno europeo del lifelong
learning (LLL), l’educazione degli adulti ha
iniziato a essere interpretata sempre più
come chiave per lo sviluppo e l’aumento della
competitività (Alberici, 1999), in connessione
con il passaggio dalla “società del lavoro” alla
“società della conoscenza” (ISFOL, 2004), ma
anche come strategia per fornire strumenti
efficaci di lotta all’esclusione sociale e di
integrazione (Mezzana, Montefalcone,
Quaranta, 2004). Queste nuove
interpretazioni dell'educazione degli adulti,
che vengono trainate da numerosi fattori di
natura demografica (struttura della
popolazione), economica (competitività nel
mercato globale), e tecnologica (rapidità dei
cambiamenti) (Merriam, Caffarella, 1999),
vanno di pari passo con alcune significative
trasformazioni in corso nel campo
dell'istruzione, descritte efficacemente con
una serie di opposizioni: da teacher-centred a
learner-centred; dal curriculum classico ai
programmi modulari o personalizzati; dal
sapere depositato al sapere come
costruzione continua; dal teorico al pratico
(Jarvis, 2001). Si tratta, in sostanza, dello
spostamento dell’attenzione dagli aspetti
istituzionali del percorso formativo al
soggetto che apprende e alle sue necessità e
caratteristiche (ISFOL, 2004). Questo
spostamento del focus ha una tappa
simbolica nel concetto di educazione
permanente, che è stato lanciato
dall’UNESCO negli anni ’70 (Lengrand, 1970)
e che ha acquisito negli anni sempre
maggiore centralità nell'ambito delle
strategie di sviluppo economico e sociale. Al
livello europeo, questa centralità ha avuto
come risultato l'adozione, da parte di molti
paesi, di politiche fondate sulla relazione tra
formazione, inserimento di gruppi
svantaggiati e lotta all'esclusione sociale.
Politiche che testimoniano l’assunzione di
una visione trasversale dell’apprendimento a
supporto delle strategie generali relative ai
giovani, all’impiego, all’inclusione sociale e
alla ricerca (M. Cacace; S. Taurelli). In
particolare, la formazione permanente
costituisce una pratica irrinunciabile per far
fronte ai nuovi assetti demografici delle
società a economia avanzata caratterizzati da
un aumento progressivo della popolazione
più anziana e dalla conseguente necessità di
sviluppare politiche attive del lavoro,
finalizzate a prolungare la vita attiva degli
ultracinquantenni. E’ proprio all’interno di
questo scenario che emerge la necessità per
le organizzazioni di promuovere la già citata
manutenzione della capacità di imparare e di
adattarsi ai contesti in continua evoluzione e,
per agire efficacemente, le imprese devono
tenere in attenta considerazione quelle che
40
sono riconosciute come le specificità
dell’apprendimento nei soggetti adulti.
Queste specificità sono descritte nella teoria
dell’apprendimento degli adulti che ha
trovato in Malcom Knowles il suo massimo
esponente (1970).
4.5.2 L’apprendimento degli adulti
Numerose ricerche (Bruner, 1961; Erikson,
1964; Getzel e Jackson, 1962; Bower e
Hollister, 1967; Cross, 1981; Iscoe e
Stevenson, 1960; Robinson, 1988; Smith,
1982; Stevenson-Long, 1979; White, 1959)
fanno ipotizzare che, man mano che gli
individui maturano, il loro bisogno e la loro
capacità di essere autonomi, di utilizzare la
loro esperienza, di riconoscere la loro
disponibilità ad apprendere e di organizzare il
loro apprendimento attorno a problemi della
vita reale crescano costantemente
dall'infanzia fino alla preadolescenza e poi
assai rapidamente durante l'adolescenza. I
soggetti adulti hanno, quindi, nel processo di
formazione delle loro specificità che è
necessario tenere in attenta considerazione,
affinchè lo specifico intervento formativo sia
realmente efficace e valido. La teoria
andragogica sviluppata da Knowlesxxiii
descrive queste specificità basandosi sui
seguenti presupposti fondamentali:
Il bisogno di conoscere: quando gli adulti
iniziano ad apprendere qualcosa per conto
loro investono una considerevole energia
nell'esaminare i vantaggi che trarranno
dall'apprendimento (Tough, 1979). Il primo
compito del facilitatore dell'apprendimento
è, dunque, aiutare i discenti in questo
risveglio di consapevolezza.
Il concetto di sé del discente: man mano che
una persona matura e diventa adulta, il
concetto di sé passa da un senso di totale
dipendenza a un senso di crescente
indipendenza e autonomia. L’adulto deve
sentire che il proprio concetto di sé viene
rispettato dall’educatore e quindi deve
essere collocato in una situazione di
autonomia (contrapposto a una situazione di
dipendenza).
Il ruolo dell'esperienza: la maggiore
esperienza degli adulti assicura maggiore
ricchezza e possibilità d'utilizzo di risorse
interne ma può avere anche tratti negativi
nel senso di una maggiore chiusura rispetto a
idee nuove e a diverse modalità di approccio.
Inoltre, mentre per i bambini l'esperienza è
qualcosa che capita loro, per gli adulti essa
rappresenta chi sono. Essi cioè tendono a
41
derivare la loro identità personale dalle loro
esperienze. L’esperienza si configura, quindi,
come un elemento prioritario da considerare
nella formazione degli adulti tanto come
opportunità quanto come elemento di
chiusura. Qualsiasi gruppo di adulti sarà più
eterogeneo – in termini di background, stile
di apprendimento, motivazioni, bisogni,
interessi e obiettivi – di quanto non accada in
gruppi di giovani. Da qui deriva il grande
accento posto nella formazione degli adulti
sull'individualizzazione delle strategie
d'insegnamento e di apprendimento, sulle
tecniche esperienziali piuttosto che
trasmissive e sulle attività di aiuto tra pari.
La disponibilità ad apprendere: quanto viene
insegnato deve migliorare le competenze e
deve poter essere applicato in modo efficace
alla vita quotidiana.
L'orientamento verso l'apprendimento: non
deve essere centrato sulle materie ma sulla
vita reale. Gli adulti, infatti, apprendono
nuove conoscenze, capacità di
comprensione, abilità e atteggiamenti molto
più efficacemente quando sono presentati in
questo contesto. Questo punto ha
un'importanza cruciale nelle modalità di
esposizione dell'insegnante, nella definizione
di obiettivi e contenuti e nella progettazione
più generale dell'intervento formativo.
La motivazione: nel caso degli adulti le
motivazioni interne sono in genere più forti
delle pressioni esterne. Tough (1979) ha
scoperto che tutti gli adulti sono motivati a
continuare a crescere e a evolversi, ma che
questa motivazione spesso viene inibita da
barriere quali un concetto negativo di sé
come studente, l'inaccessibilità di
opportunità o risorse, la mancanza di tempo.
In questo gioca un ruolo fondamentale la
promozione dell'autodeterminazione,
soddisfacendo i bisogni psicologici innati di
competenza, autonomia e relazione. La
competenza consiste nel sentirsi capaci di
agire sull'ambiente sperimentando sensazioni
di controllo personale, l'autonomia si riferisce
alla possibilità di decidere personalmente
cosa fare e come, mentre il bisogno di
relazione riguarda la necessità di mantenere
e costituire legami in ambito sociale. Tutti
questi elementi vanno considerati all’interno
di setting formativi predisposti per gli adulti.
Un altro approccio teorico che ci sembra
particolarmente utile nella comprensione
delle caratteristiche dell’apprendimento degli
adulti è il modello di apprendimento
esperienziale elaborato da David Kolb.
Secondo questo modello l'apprendimento
sarebbe un processo circolare a quattro stadi:
1. esperienza concreta di una data realtà
che avvia e conclude il processo di
apprendimento;
42
2. osservazioni e riflessioni, relative
all'esperienza, che vengono effettuate
analizzando la stessa da differenti
prospettive a seconda del proprio campo
percettivo (schemi di riferimento
operativi e concettuali);
3. formulazione di concetti astratti atti a
integrare le osservazioni e le riflessioni
precedenti in teorie preesistenti e a dare
loro un significato di generale validità;
4. verifica empirica delle teorie formulate
attraverso la sperimentazione
dell’estensibilità di tali teorie in nuove
situazioni di decisione.
Ogni stadio del modello corrisponde a una
diversa attitudine all'apprendimento-
concretezza, riflessione, astrazione, azione- e
ogni individuo, quando compie l'intero
processo di apprendimento, passa attraverso
questi quattro stadi con i suoi ritmi e le sue
specifiche modalità individuali.
In relazione a quanto analizzato, diventa
strategico predisporre interventi di sviluppo e
formazione che tengano conto dei modelli
teorici descritti. Si tratta, in sostanza, di dare
risposte efficaci alla progressiva
smaterializzazione del lavoro e alla crescita
delle sue componenti intellettuali, attraverso
interventi formativi che siano in linea con le
esigenze e gli stili di apprendimento delle
popolazioni aziendali. In particolare, le
imprese sono chiamate a sostenere i tassi di
partecipazione al lavoro delle classi d’età più
mature, che caratterizzeranno sempre più la
composizione degli organici aziendali,
attraverso azioni formative che siano in linea
con le loro esigenze e che superino la
stereotipizzazione negativa nei loro
confronti.
43
4.6 Aspettative e valori
Una delle caratteristiche più rilevanti del
mercato del lavoro nei paesi
economicamente sviluppati è il progressivo
incremento di diversità nella forza lavoro, che
porta le imprese a registrare un aumento di
eterogeneità degli organici in termini
culturali, di genere e anagrafici.
In particolare, nelle moderne organizzazioni
coesistono diverse generazioni portatrici di
valori e subculture differenti, con aspettative
professionali e stili di vita propri. Si tratta di
veri e propri microcosmi generazionali che
esprimono modelli interpretativi di senso e
subculture spesso in contrapposizione tra
loro. Le aziende sono chiamate a far fronte al
fenomeno attraverso modelli gestionali che
siano in grado di gestire efficacemente le
diversità generazionali, non sempre lette o
comprese appieno. Il management deve dare
risposte adeguate ai diversi bisogni e alle
diverse aspettative, istaurando un dialogo e
un confronto costruttivo e arricchente tra le
parti in gioco. Il tutto nella consapevolezza
che “l’eterogeneità dei lavoratori non
rappresenta di per sé un vantaggio
competitivo per le imprese” (Guest, 2002;
Purcell et al., 2003). “Per portare benefici la
diversità deve essere, infatti, gestita in modo
efficace, efficiente ed equo: è la gestione
consapevole della diversità che diventa fonte
di vantaggio competitivo per le imprese”
(Barabino and Jacobs, 2000).
Le aziende intervistate concordano
nell’associare alle popolazioni più giovani e
alle classi più mature aspettative
professionali e valori contrapposti, facendo
emergere un quadro del tutto in linea con le
più generali evidenze sociologiche e di
contesto generale. Le aspettative degli
Over45 riguardano, infatti, il consolidamento
della propria carriera professionale
all’interno dello stesso contesto
organizzativo, mentre i junior propendono
per una crescita attraverso una
diversificazione professionale in contesti
aziendali diversi. Questo dato trova conferma
nei valori definiti all’unanimità dagli
intervistati come propri delle due generazioni
a confronto. Così, l’Appartenenza all’azienda
come collettività, che rappresenta la
44
dimensione valoriale comune ai senior,
diventa un’Appartenenza all’azienda di tipo
strumentale per le popolazioni più giovani.
Più in generale, mentre le classi mature si
fanno portatrici di valori tradizionali, quali il
forte senso d’identità e l’orgoglio di
appartenenza all’azienda, la fedeltà verso
l’organizzazione intesa come comunità di
appartenenza, la propensione verso
riconoscimenti collettivi, il rispetto delle
gerarchie e la stabilitàxxiv, i più giovani
esprimono valori meno collegati alla
dimensione collettiva e più a quella
individuale. Emerge una forte propensione
delle classi d’età più giovani verso le
dinamiche individuali e i nuovi modelli
gestionali di performance management
basati sui sistemi di valutazione della
prestazione come elemento prioritario della
progressione professionale. I junior
esprimono una tendenza molto forte alla
crescita professionale e alla concezione
dell’azienda intesa non più come comunità di
appartenenza ma come contesto in cui poter
sviluppare le proprie competenze
professionali da rivendere, poi, dentro e fuori
l’organizzazione, all’interno di percorsi di
carriera paralleli e molteplici. E’ proprio sulla
dimensione della carriera che emerge una
forte contrapposizione in termini di
aspettative professionali tra le due
generazioni. I senior mostrano, infatti,
aspettative di crescita nel proprio ruolo
all’interno di un percorso di progressione
professionale strutturato e verticale. I più
giovani, invece, nutrono aspettative di
crescita professionale in tempi stretti e in
modo multifunzionale e orizzontale, in linea,
del resto, con la tendenza attuale delle
organizzazioni verso l’implementazione di
strutture piatte e flessibili. Proprio questo
tipo di aspettative dei giovani, spesso, entra
in contrasto con i tempi relativamente lunghi
di progressione in carriera caratteristici dei
contesti organizzativi caratterizzati, ancora,
da una struttura verticale e gerarchica. Il
contrasto, poi, si accentua nell’attuale
scenario di crisi economica, che porta a una
generale situazione di stallo dei percorsi di
crescita professionale nelle organizzazioni. Le
aspettative dei senior tendono a riferirsi,
invece, a due tipologie di fattori:
1. un riconoscimento delle competenze e
dell’esperienza, non solo in termini
economici ma anche attraverso attività
di trasferimento del know how alle
generazioni più giovanixxv;
2. l’implementazione di modelli gestionali
di work family balance che soddisfino le
esigenze di conciliazione tra tempo di
lavoro e tempo privatoxxvi.
Infine, è interessante notare come l’attuale
crisi economica renda la stabilità, che è una
dimensione valoriale propria dei senior, un
45
valore di forte riconoscimento anche per i più
giovani. Infatti, molte delle aziende
intervistate hanno espresso una forte
preoccupazione proprio in relazione a una
presunta difficoltà a trattenere i più giovani,
soprattutto una volta superata l’attuale crisi
economica, in quanto “i junior mostrano
bassi livelli di engagement e appaiono poco
fidelizzati all’azienda”. Ancora una volta,
emerge, dunque, l’urgenza di politiche
gestionali orientate a mappare gli organici
aziendali e a scegliere il “giusto” mix
gestionale.
4.6.1 Diverse generazioni a confronto
Il dibattito sul “generation divide” è oggi più
che mai aperto e sono evidenti i rischi
connessi al salto culturale senza precedenti
che esiste tra le diverse generazioni. In
particolare, i giovani appartenenti alla
“Generazione Y” (Tabella 4.2), nati negli anni
Ottanta, costituiscono una popolazione
particolarmente critica in merito alle
politiche di gestione e sviluppo delle Risorse
Umane. E’ una generazione cresciuta nell’era
dell’Information & Communication
Technology, di Internet, dell’iPod che vive le
contraddizioni dell’inserirsi in un mercato del
lavoro caratterizzato da occupazioni flessibili
e precarie. L’ingresso di questi giovani nel
mondo del lavoro determina la necessità di
attivare differenti approcci da parte delle
imprese nella selezione, formazione e
gestione di questi nuovi lavoratori, nonché di
costruire sistemi e meccanismi in grado di
farli convivere e integrare con i lavoratori
appartenenti alle precedenti generazioni.
Tabella 4.2 Quattro generazioni a confronto
46
La definizione di nuove politiche di Human
Resources Management richiede però una
profonda conoscenza dei valori, degli
interessi e delle aspettative professionali che
caratterizzano la “Generazione Y”. Su tale
argomento l’Istud conduce da anni un
programma di ricerca culminato nel 2009 nel
volume “Generazione Y” (Boldizzoni, Sala,
2009). Nell’introduzione, Boldizzoni paragona
gli Yers a nuovi Holden, evidenziando nei
giovani di oggi la stessa “ambizione alla non
ambizione” e il desiderio di differenziarsi dai
padri che aveva caratterizzato il giovane
Holden di Salinger. Ciò che differenzia
profondamente il vecchio dai nuovi Holden è
la tecnologia, che permette un salto quantico
nel modo in cui i giovani di oggi s’informano,
socializzano, comunicano, si organizzano. Ma
soprattutto, i nuovi Holden sembrano dare
alle cose importanza e segno diversi dai loro
padri. Cosa succede allora quando gli Yers
entrano nelle imprese? Quando questa
diversità dalla società si sposta alle imprese,
che per definizione dovrebbero essere
comunità di individui orientati nella stessa
direzione per il raggiungimento degli obiettivi
aziendali? Le conseguenze di un generation
mix non gestito sono intuibili. Aspettative
disattese, processi di comunicazione
inefficaci, rallentamento dei processi
decisionali, insoddisfazione, scetticismo e
sfiducia reciproca, diversa interpretazione
delle priorità e degli obiettivi, scarso
allineamento rispetto agli obiettivi sono solo
alcune delle conseguenze possibili della
presenza di due mondi che appaiono
profondamente diversi nella stessa azienda.
La questione è complessa e sta già
influenzando la riflessione sui processi di
socializzazione, valutazione e motivazione.
Come gestire la diversità? Le aziende e i
Responsabili HR hanno due strade davanti a
loro: continuare con politiche e modelli
comportamentali cooptativi e
omogeneizzanti volti a perpetuare nelle
prossime generazioni i modelli valoriali
elaborati dalle generazioni passate, oppure
tentare di capire a fondo il nuovo portato di
aspettative, comportamenti, interpretazioni
del mondo di chi sta iniziando a proporsi al
mercato del lavoro e provare ad adattarsi
valorizzando il generation mix.
47
4.7 Motivazioni, engagement e disagio
In un contesto di business in cui i mezzi di
produzione sono di proprietà dei lavoratori e
la de-materializzazione determina lo sviluppo
di attività knowledge intensive, il capitale
umano diventa la vera risorsa strategica su
cui investire attraverso innovativi sistemi
gestionali. Il problema è sapere e volere
gestire il nuovo capitale, attraverso politiche
organizzative che sappiano valorizzarlo e
promuoverne lo sviluppo. Predisporre
innovativi modelli gestionali significa, tra
l’altro, mappare le sempre più numerose
differenze cross generazionali presenti nei
contesti organizzativi odierni e saperne
riconoscere l’eterogeneità in termini di valori
e aspettative professionali. Questi aspetti,
infatti, fidelizzano le persone ai contesti
aziendali e sono differenti in base alla
specifica età anagrafica. Le aziende sono,
dunque, chiamate a promuovere
l’engagement per le diverse generazioni,
attraverso una lettura delle differenti
dimensioni di fidelizzazione all’azienda e una
rimozione di quelle forme di disagio,
anch’esse diverse in base alla specifica età
anagrafica. Le aziende intervistate
concordano nell’indicare forme di disagio e
fattori di fidelizzazione generazionali,
associati, cioè, a specifiche popolazioni
anagrafiche. L’engagement dei senior appare
legato, infatti, a valori tradizionali, quali la
fidelizzazione all’azienda di appartenenza, il
senso del sacrificio nel lavoro, la passione e la
motivazione verso l’attività svolta, la stabilità
e la crescita professionale di tipo verticale. Gli
Under35, invece, esprimono una motivazione
legata a dimensioni valoriali diverse che
appaiono in contrasto con quelle delle
generazioni più mature e che lasciano
prevedere uno scenario di scarsa
fidelizzazione e di turnover elevato. I più
giovani, infatti, manifestano una minore
propensione al sacrificio e un’appartenenza
all’azienda di tipo strumentale, all’interno di
percorsi di crescita multi-aziendali e paralleli.
In generale, quindi, s’intravedono i già citati
problemi di attraction e retention delle nuove
generazioni, che si manifesteranno
soprattutto al superamento della crisi
economica, mentre si registra un legame
molto forte al contesto organizzativo di
appartenenza della popolazione più anziana.
Il disagio, invece, viene indicato dagli
intervistati come una dimensione cross
generazionale, che accomuna, quindi, tutte le
generazioni, pur essendo legato a fattori
diversi in base all’età. Il disagio espresso dai
senior spesso è dovuto a una progressiva
marginalizzazione per mancanza di
riconoscimenti e gratificazioni con la
conseguente percezione di costituire un peso
per l’azienda. Il malessere delle popolazioni
48
più mature è, inoltre, acuito dal fatto che
vedono allontanarsi l’età pensionabile e
prendono consapevolezza di contesti
organizzativi con modelli di progressione
professionale e di sviluppo diversi da quelli
che avevano conosciuto appena entrati in
aziendaxxvii. I più giovani, inoltre, vengono in
genere percepiti come soggetti in grado di
esprimere un maggiore potenziale, capaci di
innovare e di apprendere più facilmente le
nuove tecnologiexxviii. A questo si aggiunge il
processo di stereotipizzazione negativa nei
confronti dei più anziani che si esprime,
spesso, in una credenza, tanto diffusa quanto
priva di fondamento scientifico, relativa a un
calo delle prestazioni intellettuali e della
capacità lavorativa degli stessi. Alcuni senior
soffrono ruoli di responsabilità ricoperti da
giovani dirigenti e quadri, magari assunti
dall’esterno. Altri, invece, esprimono
malessere nei casi in cui vengono superati,
nel processo di crescita, dai più giovanixxix
oppure se si trovano a svolgere la stessa
attività dei junior, anche se associata a una
retribuzione più alta. Il disagio espresso dalle
generazioni più giovani è riconducibile,
invece, essenzialmente alle loro aspettative
di crescita professionale in tempi stretti che
non trovano, spesso, realizzazione a causa di
un generale e diffuso blocco dei percorsi di
crescita professionali legato all’attuale crisi
economica. Tanto la lentezza dei percorsi di
carriera verticali, che ancora tendono a
persistere in alcune aziende, quanto l’assenza
di una comunicazione chiara relativa a un
percorso di crescita strutturato, che risulta,
invece, propria di quelle imprese che si
stanno muovendo verso l’implementazione
di strutture manageriali di tipo orizzontale,
provoca un diffuso malessere nei più giovani.
Disagio accentuato dal fatto che i junior
trovano spesso dei “tappi organizzativi” in
alcuni quadri apicali e dirigenti ricoperti da
persone senior. L’età anagrafica media della
promozione a posizioni dirigenziali è passata,
infatti, dai 38 anni del 1985 ai 43 anni del
2010, determinando un rallentamento dei
percorsi di crescita delle popolazioni aziendali
più giovani e un conseguente problema di
motivazione delle stessexxx. Più in generale, è
l’allungamento dell’età pensionabile ad avere
effetti sulla lentezza dei percorsi di crescita
dei profili junior. Concludendo, dalla ricerca
emerge che in molte delle aziende
intervistate sono presenti disagi cross
generazionali con la conseguenza di un micro
clima spesso negativo, la perdita di fiducia e
un conseguente impatto sulla motivazione e
la produttività dei gruppi di lavoro. Le
aziende sono chiamate, allora, ad adottare
una strategia in prospettiva tesa a
promuovere l’engagement tanto dei senior,
che appaiono in genere fidelizzati ma, al
contempo, portatori di un forte malessere,
quanto delle giovani generazioni, fortemente
individualiste e anch’esse protagoniste di
49
forme, seppur diverse, di disagio. Le aziende
devono promuovere, in particolare,
l’enablement per le diverse generazioni al
fine di rimuovere le barriere all’azione e
trasformare il loro entusiasmo in risultati e
azioni. Un alto engagement unito a un alto
enablement aumenta, infatti, il numero di
dipendenti con performance superiori alle
aspettative di circa il 40%xxxi.
4.8 Politiche HR di gestione del people mix
Nei contesti organizzativi analizzati, si
registra una generale mancanza di politiche
del personale differenziate finalizzate al
riconoscimento e alla valorizzazione delle
varie generazioni presenti in azienda. Il dato
contrasta con l’evidenza indicata in modo
concorde dagli intervistati e relativa alla già
citata presenza in azienda di aspettative e
valori generazionali spesso “antitetici” a cui il
management è chiamato a dare legittimità.
Emerge, dunque, la consapevolezza
dell’importanza del fenomeno anche se
spesso mancano chiavi di lettura e politiche
lungimiranti per poterlo gestire in maniera
proattiva. Il management comincia a essere
preoccupato ma non ha ancora un quadro
chiaro della situazione che non è mappata,
mancando adeguate metriche e strumenti di
lettura utili a comprendere il reale impatto
del fenomeno e le possibili strategie di
gestione. Unica segmentazione che spesso
trova una risposta proattiva è quella dei
“giovani talenti” rispetto alla quale si è
cercato di disegnare percorsi accelerati di
formazione e sviluppo. L’affermazione di una
politica gestionale strategica che tenga conto
della demografia aziendale passa, invece, per
il riconoscimento del personale di tutte le
classi d’età e per lo sviluppo di un ambiente
interno che valorizzi il dialogo
intergenerazionale. Favorire una cultura dello
scambio e della condivisione significa
valorizzare l’esperienza delle generazioni più
mature e metterla al servizio della crescita
dei giovani ma significa anche legittimare lo
scambio in senso contrario in un’ottica di
arricchimento reciproco saltando quei fossati
che spesso lacerano le organizzazioni. E’
proprio in questa prospettiva di
arricchimento reciproco e di condivisione
strategica che vanno lette quelle azioni di
trasferimento della conoscenza e delle
esperienze tra lavoratori di diverse
generazioni sempre più necessarie a fronte di
organici aziendali caratterizzati da una
composizione demografica diversificata e da
50
frequenti vuoti generazionali che tendono a
intesificare le differenze. Dalla ricerca
emerge una generalizzata consapevolezza
dell’importanza della messa in campo di
azioni di trasferimento del know how tra
generazioni: il 73% degli intervistati dichiara,
infatti, lo sviluppo in azienda di azioni di
knowledge management finalizzate al
trasferimento delle conoscenze dai senior alle
generazioni più giovani. Tuttavia, le
formalizzazioni del processo in Comunità di
Pratica strutturate rappresentano ancora
best practice implementate solo di rado nei
contesti organizzativi. Si registra, infatti, la
mancanza generalizzata di azioni formalizzate
di trasmissione delle esperienze e delle
competenze maturate sul campo dagli
Over45 verso i giovani, spesso giunti nel ruolo
senza tutte le necessarie sicurezze per
affrontare le sfide del mercato. Questa
situazione crea inevitabilmente frizioni e
perdita di “continuità nel mestiere”. Gli
intervistati concordano sulla necessità di
formare i senior al trasferimento del know
how per dare risposta a diversi fattori
emergenti: dalla necessità di valorizzare
l’esperienza dei senior attraverso azioni di
knowledge management, intese come
coronamento di carriera, all’esigenza di
gratificare e rendere attiva la popolazione
aziendale più matura. Le attività di
knowledge management appaino, inoltre,
utili a ridurre i costi della formazione con
l’impiego di docenti interni e a colmare i
frequenti divari generazionali in termini di
conoscenze e competenze. Questo
riconoscimento generalizzato dei senior come
“i pilastri” delle imprese in termini di
esperienza e know how aziendale contrasta
poi con la frequente mancanza di
riconoscimenti e di azioni di sviluppo per gli
stessixxxii. Il paradosso è evidente e richiama
nuovamente la necessità di un’adeguata
lettura del fenomeno e il conseguente
sviluppo di politiche gestionali orientate al
people mix.
La maggiorparte degli intervistati concorda
nell’indicare una frequente difficoltà dei capi,
specie se giovani, nel gestire gruppi di lavoro
composti da risorse di diverse generazioni.
Nonostante questa evidenza, mancano
tuttavia iniziative specifiche di supporto ai
capi nella gestione del people mix nella
convinzione, spesso emersa, che le politiche
gestionali debbano prescindere dall’età
anagrafica e riferirsi, invece, unicamente al
ruolo. Il contrasto tra ricerca di politiche
uniformi per ruolo e riconoscimento delle
diversità generazionali riflette, in maniera più
generale, una contraddizione propria dei
moderni sistemi gestionali divisi tra
standardizzazione da un lato e
personalizzazione dall’altro. All’interno di
questo contrasto, le aziende devono scegliere
il loro giusto mix gestionale percorrendo la
51
strada più conforme allo specifico contesto
organizzativo.
In conclusione, possiamo dire che le direzioni
del personale riconoscono importanza
crescente a politiche attive di “diversity
management”, incluso quella generazionale,
anche se le stesse hanno spesso difficoltà a:
1. mappare gli organici aziendali rispetto
alle diverse dimensioni di diversity,
comprendendone disagi, aspettative,
valori e opportunità;
2. comunicare efficacemente il valore per il
business di una gestione proattiva della
diversity;
3. definire politiche coerenti e lungimiranti;
4. aiutare il management a una gestione
coerent
Fonte: G. Rebora, 2005 in “Troppo vecchi a quarant’anni? Come sopravvivere al giro di boa nel mondo del lavoro.”, P. Iacci (a cura di)
Per superare queste difficoltà e gestire il
fenomeno in un’ottica strategica, diventa
indispensabile integrare politiche di sistema a
linee di azione a livello aziendale. I due livelli
d’intervento vanno intrecciati in una visione
d’insieme (Figura 4.2) al fine di utilizzare
pienamente tutte le competenze che i singoli
e le organizzazioni hanno accumulato nel
tempo e che non ha senso “buttare a mare”
senza motivo. L’obiettivo si muove nel senso
di una più ampia soddisfazione delle persone
non più giovani e di un migliore
funzionamento delle organizzazioni
complesse.
Figura 4.2 Condizioni di sistema e linee di azione a livello aziendale per valorizzare ruolo e competenze degli over 45
52
4.8.1 Politiche di sistema
Tra le politiche di sistema, è necessario menzionare innanzitutto, una politica sanitaria finalizzata a
rafforzare e promuovere l’invecchiamento attivo e sano, accanto a una politica previdenziale volta
a conciliare i tempi della formazione, del lavoro e della vita. In quest’ottica integrata, è emersa la
proposta del “quarto pilastro pensionistico” che prospetta i vantaggi di un esteso ricorso al lavoro
a tempo parziale delle persone che hanno superato i 60 anni, anche con l’adozione di forme di
pensionamento graduale, che configurino un periodo di transizione tra l’impiego a tempo pieno e
il pensionamento a tutti gli effetti. Si realizzerebbe in questo modo non solo il prolungamento
della vita attiva, ma una configurazione più equilibrata dei tempi di lavoro, formazione e vita, con il
passaggio da una distribuzione verticale a una orizzontale delle attività (Figura 4.3).
Fonte: G. Rebora, 2005 in “Troppo vecchi a quarant’anni? Come sopravvivere al giro di boa nel mondo del lavoro.”, P. Iacci (a cura di)
In secondo luogo, le politiche attive del
lavoro andrebbero orientate anche verso
l’occubabilità delle fasce di età più mature,
intervenendo sull’eccesso di istituti che
favoriscono l’uscita dall’attività lavorativa,
come cassa integrazione, mobilità,
prepensionamenti e incentivi aziendali per
uscite precoci e puntando, invece, su
interventi di riqualificazione e reinserimento.
Ai primi si fa ricorso, spesso, in concomitanza
con l’assunzione di lavoratori più giovani
mediante contratti a tempo determinato o
atipici. La promozione di un sistema efficace
di formazione continua, inoltre,
aumenterebbe la partecipazione al lavoro
della popolazione anziana favorendone
Fonte: G. Rebora, 2005 in “Troppo vecchi a quarant’anni? Come
sopravvivere al giro di boa nel mondo del lavoro.”, P. Iacci (a cura di)
Figura 4.3 Distribuzione delle attività in base all’età (fonte: Liedtke, 2005)
Fonte: G. Rebora, 2005 in “Troppo vecchi a quarant’anni? Come
sopravvivere al giro di boa nel mondo del lavoro.”, P. Iacci (a cura di)
53
l’invecchiamento attivo. In linea generale,
l’attivazione di processi sistematici di
formazione permanente, rivolte verso tutte
le classi di età presenti nel mondo del lavoro,
contribuisce a creare un clima e un contesto
favorevole all’apprendimento. Come
abbiamo già sottolineatoxxxiii, la formazione
assume, in sostanza, un notevole rilievo non
solo per la competitività e la crescita delle
imprese, ma è strettamente correlata alle
politiche del welfare, agendo sul
prolungamento della vita attiva delle
popolazioni più mature.
Infine, ricordiamo l’evoluzione delle politiche
salariali e contrattuali da una forza d’inerzia,
che porta all’incremento dei salari in ragione
dell’anzianità, indipendentemente
dall’effettiva produttività o dal contributo
offerto, verso nuovi strumenti che motivino i
lavoratori anziani ad accettare retribuzioni
meno elevate, combinate a vantaggi di altra
natura (rapporti di lavoro a tempo parziale
dopo i 55-60 anni, orari flessibili, etc.),
offrendo, in questo modo, un ventaglio di
possibili soluzioni, fra le quali sia possibile
concordare e scegliere quelle più adatte alle
diverse possibili soluzioni.
54
4.8.2 Politiche a livello aziendale
Le moderne politiche gestionali vanno
indirizzate verso la valorizzazione del
personale di tutte le classi d’età e,
soprattutto, verso una gestione innovativa e
responsabile dei lavoratori senior. Superare il
paradigma del deficit di competenze a favore
del competence ageing model significa
riconoscere che le persone sviluppano con
l’età competenze che non erano significative
nelle precedenti fasi del ciclo di vitaxxxiv e, in
questa diversa prospettiva, diventa strategico
predisporre un ambiente di lavoro “orientato
all’età” e, più in generale, al diversity
management.
Va attuata, inoltre, una segmentazione delle
politiche del personale nella convinzione che
la gestione del personale assume i connotati
di una sorta di marketing interno di prodotti
e servizi attento alla differenziazione di
politiche e modalità di intervento per i diversi
gruppi di operatori (Lieberum-Heppe-Schuler,
2005). La questione richiama la già citata
contraddizione dei moderni sistemi gestionali
divisi tra standardizzazione da un lato e
personalizzazione dall’altro e la necessità, per
le aziende, di scegliere il loro giusto mix
gestionale.
Appare indispensabile strutturare un
ambiente interno e sviluppare una cultura
diffusa che valorizzino l’esperienza e il
dialogo intergenerazionale nel
riconoscimento del ruolo della diversità e del
pluralismo come ricchezza. Non basta
accettare che i gruppi di lavoratori di diverse
età esprimano differenti caratteristiche;
occorre anche evitare che i due gruppi
finiscano per divenire estranei l’uno all’altro,
minimizzando i contatti e la reciproca
influenza. Il riferimento è qui alla già
segnalata esigenza di “gettare ponti su questi
fossati” che spesso lacerano le
organizzazioni.
Inoltre, si possono segnalare soluzioni
organizzative specifiche in grado di
“svecchiare” l’organizzazione, nel
superamento di tutte le soluzioni nella logica
del fisso, del permanente, dell’irreversibile,
per valorizzare paradossalmente proprio i
lavoratori senior.
Solo un’organizzazione flessibile, giovane,
“svecchiata” riuscirà, infatti, a gestire la
diversità, a trarre beneficio da competenze
diverse, riconducibili a lavoratori di diverse
età e che esprimono diverse culture.
Un’organizzazione, in sostanza, che sia in
grado di riconoscere i diversi ordini di
contributi e apporti corrispondenti alle
diversità delle risorse e delle competenze
attivabili dalle persone per quello che sono in
un determinato momento, collegando gli
stessi incentivi economici in una logica di
55
“elementi variabili” e non “fissi”, per evitare
che il sistema premiante configuri situazioni
rigide dannose. In prospettiva, è forse
proprio questo il contributo importante e
paradossale che i “vecchi” possono dare alle
organizzazioni del futuro, con la loro stessa
presenza: obbligarle a diventare flessibili, a
essere organizzazioni giovani (Rebora, 2005).
Relativamente alla gestione delle carriere,
invece, si può prevedere:
1. una più ricca gamma di ruoli e famiglie
professionali, articolata per linee
orizzontali e non gerarchiche,
comprensiva anche di posizioni atte a
valorizzare l’esperienza dei lavoratori
senior;
2. la definizione di percorsi di sviluppo per
linee orizzontali attraverso l’affidamento
di incarichi con una durata definita,
secondo una logica di progetto, e
implicanti forme di rotazione e di
reversibilità nel tempo;
3. l’affiancamento di forme di carriera di
status alla carriera di ruolo, riconoscendo
l’esperienza con l’attribuzione di
prestigio, di ascolto privilegiato e di
incarichi atti a valorizzare il potenziale di
quanti hanno saputo accumulare nel
tempo conoscenza e saggezza.
Infine, il riferimento è allo sviluppo di
interventi di consulenza e sostegno per i
lavoratori senior, ma in prospettiva più in
generale per tutti gli operatori aziendali,
finalizzati a favorire le rispettive potenzialità,
affrontare eventuali forme di disagio, gestire
in modo più consapevole la propria crescita
personale e professionale (mentoring,
coaching, counseling, employee assistance
program). E’ utile ricordare che i lavoratori
senior possono divenire destinatari e utenti
di tale formule, ma in alcuni casi possono
anche essere chiamati a esercitare un ruolo
professionale in questi campi, per esempio il
ruolo di mentor per gli operatori più giovani.
Ciò rientra anche in quel concetto
d’ampliamento della gamma di ruoli che è
stato sopra menzionato e nelle azioni di
knowledge management già citate.
56
4.8.3 Verso un modello di Diversity Management
Dalla fine degli anni ’80, fattori quali la
globalizzazione, la femminilizzazione del
mercato del lavoro, la cross-culture, l’ageing
della forza lavoro, l’impegno internazionale
contro la discriminazione e le dichiarazioni
circa gli effetti positivi della gestione delle
diversità sulla legittimazione organizzativa e
sulla reputazione d’impresa (Visconti, 2004)
stanno alimentando il dibattito
internazionale sulla gestione delle diversità
delle persone in impresa (diversity
management). La gestione delle diversità non
può essere interpretata come una moda
manageriale (Cuomo and Mapelli, 2007): i
trend demografici, l’apertura dei mercati, i
cambiamenti politico-sociali fanno, infatti,
della diversità una sfida presente e futura per
le imprese di tutti i paesi industrializzati. Se le
imprese riconoscono che le persone non
sono un insieme omogeneo e indifferenziato
di esseri umani, ma sono profondamente
diverse fra loro sulla base di una molteplicità
di caratteristiche, anche le soluzioni da loro
adottate per gestire le competenze dei
lavoratori e per incidere sul loro livello di
motivazione e di commitment affettivo
(Meyer and Allen, 1991) dovrebbero tener
conto dell’esistenza di queste diversità. Si
tratta di passare dalla "gestione delle risorse
umane" alla "gestione consapevole delle
diversità delle persone": una gestione
d’impresa intenzionalmente impostata in
modo da tener conto dell’esistenza delle
diversità dei lavoratori. Per arrivare a una
gestione consapevole delle diversità delle
persone in impresa, il primo passo da
intraprendere è quello di una revisione della
cultura organizzativa in direzione del
riconoscimento dell’esistenza di diversità fra
le persone e dell’impegno da parte
dell’impresa a rispettare e a far rispettare al
proprio interno tali diversità in modo che
ognuno senta tenute in considerazione la sua
dignità di persona, le sue caratteristiche e i
suoi bisogni. Dal riconoscimento
dell’esistenza di eterogeneità nei lavoratori e
dall’impegno dell’impresa verso il loro
rispetto scaturisce la necessità di realizzare
un parallelo e contemporaneo cambiamento
organizzativo determinato dalla scelta della
logica strategica di gestione delle diversità
che si vuole adottare, dall’identificazione
delle dimensioni di diversità verso cui
realizzare appositi interventi di gestione e
dalla conseguente definizione delle
caratteristiche degli interventi da
implementare (Dass and Parker, 1999;
Ivancevich and Gilbert, 2000; Cox, 2001). In
Italia il diversity management è un approccio
organizzativo ancora poco conosciuto,
applicato e indagato nonostante la sua
rilevanza economica e sociale per le imprese.
57
Si parla di rilevanza economica in quanto
numerosi studi (Milliken and Martins, 1996;
Kandola and Fullerton, 1998; Ivancevich and
Gilbert, 2000) sostengono che una "più
attenta" gestione delle diversità delle
persone (efficiente, efficace ed equa) può
migliorare l’utilizzo delle risorse a
disposizione, può ridurre i costi relativi al
turnover e all’assenteismo, può ridurre i
contenziosi sul lavoro, può permettere di
comprendere meglio i bisogni dei clienti,
migliorare la qualità del servizio loro offerto e
di conseguenza la loro soddisfazione, può
aumentare la creatività d’impresa e la
capacità di problem-solving di gruppo,
nonché migliorare l’immagine dell’azienda. Si
parla, invece, di rilevanza sociale in
considerazione del fatto che la gestione della
diversità può essere collegata alla Corporate
Social Responsability, al superamento della
discriminazione in ambito lavorativo e alla
possibilità di migliorare la qualità di vita dei
lavoratori attraverso una serie di interventi
tra cui una maggiore attenzione al work-life
balance (Kossek and Lobel, 1996; Liff and
Dickens, 2000; Thomas, 2004; O’Leary and
Weathington, 2006).
Nonostante la consapevolezza dei potenziali
risvolti positivi che la gestione delle diversità
può avere sia per le imprese che per le
persone, nel nostro Paese c’è una generale
limitata conoscenza e un ridotto utilizzo della
gestione delle diversità. All’interno di questo
quadro, le organizzazioni sono chiamate ad
assumere il Diversity Management come
sviluppo attivo e cosciente di un processo
manageriale lungimirante, orientato al valore
strategico e comunicativo di accettazione
delle differenze e uso di alcune differenze e
somiglianze come un potenziale
dell’organizzazione, un processo che crea
valore aggiunto per l’impresa. Per dirla con le
parole di Thomas Roosevelt, considerato il
padre del Diversity Management: “Questo
nuovo modello di gestione delle diversità
consente all’organizzazione di internalizzare
le differenze tra gli impiegati in modo da
imparare e crescere grazie a loro. Siamo nella
stessa squadra con le nostre differenze – non
malgrado loro” (Roosevelt and J. Ely, 1996).
58
4.9. Il People Mix nel passaggio dallo star up alla fase matura del ciclo di vita dell’impresa
Il fenomeno del People Mix assume una
specifica configurazione all’interno di quei
contesti organizzativi che stanno vivendo il
passaggio dalla fase di start up a quella
matura. Le aziende del campione che
rientrano in questa categoria mostrano,
infatti, una condizione comune e dati
uniformi su tutte le dimensioni indagate dalla
ricerca. In particolare, emerge una
concentrazione della popolazione aziendale
all’interno della classe centrale (tra 35 e 45) e
la proiezione, dichiarata all’unanimità,
riguarda un invecchiamento progressivo degli
organici aziendali. Si parla di "un'onda
inarrestabile" che è difficile arginare e che,
spesso, si tenta di contenere assumendo
giovani leve, con la speranza di portare in
azienda una “ventata d’aria fresca” finalizzata
a riequilibrare gli organici e a spingere
all’innovazione. In alcuni casi, questa
strategia viene associata all’incentivazione
del turnover dei dipendenti più maturi che
appaiano meno performanti. In ogni caso,
questi interventi, non inseriti all’interno di
una policy strutturata di gestione del people
mix, non appaiono funzionali a una gestione
efficace del fenomeno. La proiezione futura
che accomuna gli intervistati, infatti, riguarda
un innalzamento dell’età degli organici
aziendali e frequenti vuoti generazionali nella
classe centrale. Appare evidente, ancora una
volta, quella contraddizione di fondo che
accomuna il sistema impresa del nostro
Paese: da un lato, la percezione del
fenomeno e, dall’altro, l’assenza di politiche
gestionali adeguate. Nei contesti
organizzativi analizzati, emerge, spesso, la
presenza di una forma di disagio cross
generazionale dovuto al fatto che, nel
passaggio dalla fase di start up a quella di
maturità, le opportunità di crescita
professionale sono sempre meno numerose a
fronte di un fisiologico stallo delle
promozioni. Questo blocco determina uno
stato di malcontento diffuso tanto nei
giovani, che esprimono un orientamento
molto forte alla crescita professionale,
quanto nelle popolazioni più mature, che
vedono il loro percorso di sviluppo
bruscamente interrotto. L’urgenza di
governare in qualche modo questo malessere
è legata alla necessità di attivare nuove policy
gestionali che sappiano leggere l’evoluzione
della composizione degli organici aziendali e
sappiano dare risposte adeguate alle
aspettative dei dipendenti che,
inevitabilmente, cambiano con
l’innalzamento dell’etàxxxv. Al di là delle
specifiche situazioni, il dato che accomuna in
maniera trasversale questi contesti aziendali
riguarda la paura di invecchiare, che può
essere efficacemente descritta utilizzando le
59
parole di un intervistato "... è come un
50enne che rinnega l'età cercando
disperatamente di rimanere giovane a ogni
costo con ginnastica e plastiche...non vuole
accettare di non essere più giovane”. In
definitiva, anche in questi contesti aziendali,
esattamente come nel resto del campione
analizzato, il management comincia a leggere
il fenomeno da un punto di vista
demografico, ma non riesce a monitorarlo e a
comprenderne appieno i rischi e l’impatto sui
processi HR e, più in generale, sul business. Il
sistema impresa non può più posticipare
l’assunzione di responsabilità nei confronti di
un fenomeno che sta cambiando la
composizione degli organici aziendali e
rappresenta, più in generale, un’evoluzione
epocale che sta modificando la fisionomia
delle moderne società a economia avanzata.
Le imprese hanno, dunque, il compito di
affrontare e rimuovere la contraddizione
odierna tra percezione del problema e
assenza di adeguate azioni a supporto.
60
5. Possibile percorso per le aziende
5.1 Mapping e gestione proattiva del fenomeno come leva del business in una prospettiva a
lungo termine
Come è stato riscontrato nella ricerca e come
emerge dall’analisi della letteratura, la
maggior parte delle aziende in Italia tende a
focalizzarsi prevalentemente sugli obiettivi di
breve periodo e raramente riesce a
prevedere quale potrà essere l’impatto
dell’evoluzione demografica sul proprio
people mix e, più in generale, sulla capacità di
fare leva sullo stesso per raggiungere
strategie ed obiettivi di business.
Nella pianificazione strategica aziendale
alcune organizzazioni cominciano a includere
anche lo “strategic workforce planning”, che
ha l’obiettivo di assicurare che si possa
disporre del capitale umano necessario per
abilitare il raggiungimento delle strategie
aziendali di lungo periodo.
Non crediamo esista una “best practice” per
un efficace “strategic workforce planning” in
quanto le strategie aziendali, i contesti socio-
culturali in cui opera l’azienda ed il people
mix attuale vs desiderato sono molto diversi.
Possiamo però individuare un possibile
percorso logico che le aziende possono
seguire per gestire in maniera proattiva il
fenomeno dell’evoluzione demografica e
valorizzare il capitale umano in risposta alle
esigenze strategiche del business.
1. Definizione/conferma della strategia del
capitale umano di lungo periodo.
Il primo passo è quello di comprendere
appieno le esigenze di capitale umano
che saranno necessarie e che
risulteranno abilitanti al raggiungimento
delle strategie ed obiettivi aziendali ed al
rafforzamento delle “competenze core”.
Queste dovranno essere tradotte in una
definizione delle conoscenze, skill e
valori delle risorse nelle rispettive aree,
quando e dove queste
risorse/competenze saranno necessarie,
che tipo di cultura organizzativa, etc.
2. Diagnosi del fenomeno in azienda
Rispetto alle strategie del capitale
umano è necessario comprendere la
situazione attuale e prevedere quello che
potrà succedere se non dovessero essere
messi in campo interventi correttivi.
Tipicamente una diagnosi potrà
includere delle interviste al
management, dei focus group con alcune
categorie target, la somministrazone di
questionari, l’analisi di documentazione
aziendale disponibile (indagini di clima,
demografici aziendali, performance delle
risorse target, piani di formazione e
sviluppo esistenti, piani e politiche delle
61
risorse umane, etc.). La diagnosi si
conclude con un documento che
riassume i principali punti forza,
opportunità e rischi rispetto al fenomeno
dell’evoluzione demografica ed il relativo
impatto sul business di una gestione
subita e non proattiva.
3. Sensibilizzazione del management
Una volta completata la fase di diagnosi
e mappatura del fenomeno, è utile
condividere le principali evidenze
raccolte con il top management
aziendale. Senza un coinvolgimento e
una presa di consapevolzza di
quest’ultimo risulterà molto difficile
porre in essere qualsiasi tipo di azione.
4. Definizione di modelli gestionali, valoriali
e di politiche HR coerenti con le
strategie del capitale umano e le
evidenze emerse
In questa fase il management delle
Risorse Umane, in partenership con
quello di linea, è opportuno che
ridefinisca o adatti le politiche del
personale alle specificità aziendali, al fine
di affrontare in maniera proattiva il
fenomeno creando le condizioni
favorevoli per la valorizzazione delle
competenze e delle potenzialità di un
people mix in evoluzione. Alcuni esempi
di interventi raccolti dalle aziende e
presenti in letteratura riguardano: -
ripensamento delle politiche di total
reward (incluso benefits) in funzione dei
diversi cluster di popolazione in azienda;
- rivisitazione del performance
management e percorsi di sviluppo e
carriera; -ripensamento e maggiore
flessibilità nell’utilizzo del part-time e di
soluzione innovative di organizzazione
del lavoro ( e.g telelavoro); - politiche di
wellness; - creazione di comunità di
pratica e meccanismi di knowledge
sharing; -istituzione di ruoli
formali/informali di mentor, coach o
maestro di mestiere; - percorsi di
formazione e sviluppo - etc.
Risulta importante assicurare una
coerente integrazione tra i vari strumenti
di gestione, sviluppo e formazione
presenti in azienda.
5. Percorsi di sviluppo e formazione per le
categorie target
Le categorie target possono essere
molto diverse tra di loro (senior da
valorizzare e da riconvertire, junior di
potenziale per i quali è necessario
accelerare la crescita e conoscenza dei
processi core aziendali, etc.). Pertanto, i
percorsi vanno disegnati in base alle
specifiche esigenze.
Un possibile percorso per il target
“senior” potrebbe avere i seguenti
obiettivi: - mappare e prendere
consapevolezza delle proprie
competenze, valori, aspirazioni e
62
capacità di apprendimento; -
recuperare/aumentare energia e
motivazione; -ricostruire/rafforzare
fiducia e senso del lavoro; - definizione di
un piano di sviluppo individuale; -
formazione sulle principali aree di gap; -
monitoraggio e ritatratura
dell’intervento; etc.
6. Percorsi di sviluppo e formazione per i
capi.
Dalle evidenze raccolte in molte aziende
emerge che la maggior parte dei capi ha
difficoltà nel gestire la complessità
derivante da un people mix in
evoluzione. I capi sono sotto pressione
in quanto la complessità del business è
crescente e le esigenze, aspirazioni,
valori e competenze delle diverse
categorie di popolazione aziendale (
giovani di potenziale, senior, donne,
emigrati, etc.) sono molto articolate e
spesso conflittuali. Ciò richiede stili di
leadership, capacità manageriali e
approcci molto diversificati ed articolati
per meglio rispondere alle singole
situazioni.
A tale proposito, molte aziende stanno
pianificando percorsi di sviluppo e
formazione per la popolazione dei capi
che tipicamente includono: -presa di
consapevolezza degli stili di leadership
agiti e del microclima generato nei propri
team di lavoro attraverso
strumentazione diagnostica e feedback a
360°; - definizione di un piano di sviluppo
individuale; -formazione e coaching sulle
principali aree di gap; - etc.
7. Sensibilzzazione delle istituzioni.
Come ricordato più volte, gli attuali
strumenti di gestione e normativa del
lavoro disponibili in Italia non aiutano
oggi le aziende ad affrontare in maniera
proattiva il fenomeno dell’evoluzione
demografica. Le soluzioni ed approcci
perseguiti ( ad es. ricerca di
“svecchiamento” della popolazione
aziendale attraverso il ricorso a
prepensionamenti e/o utilizzo di
ammortizzatori sociali) mal rispondono
alle esigenze di una gestione proattiva
delle diverse fasce di età, anche dei più
senior, mirata a valorizzarne e
potenziarne le competenze e la
performance.
Le aziende, per stimolare il
cambiamento, devono farsi parte attiva
nei confronti delle associazioni di
categoria (parte datoriale e sindacale),
delle istituzioni locali e centrali e nei
confronti dei media. E’ auspicabile un
ripensamento delle politiche di welfare
con delle azioni di supporto alle politiche
di “invecchiamento attivo” con delle
rivisitazioni normative, agevolazioni
fiscali e politiche di formazione e
riqualificazione.
63
I primi segnali cominciano a vedersi. Ad
esempio, in alcuni comparti cominciano
a rendersi disponibili fondi sociali mirati
alla riqualificazione del personale
Over50.
64
6. Conclusioni
L’allungamento del ciclo di vita è la più
grande conquista e uno dei cambiamenti
epocali del nostro tempo: in meno di un
secolo, e in particolare nei paesi cosiddetti
sviluppati, c’è stato un aumento di circa 30
anni per quanto riguarda l’aspettativa di vita.
Nonostante la crescita d’interesse e allo
stesso tempo l’allarmismo che ruota intorno
a tale fenomeno, i concetti e i parametri di
analisi di questa rivoluzione demografica
sono rimasti statici e obsoleti, in quanto si
continua a parlare di invecchiamento con
un’ottica negativa, quasi discriminatoria.
L’invecchiamento della società appare ormai
un’espressione “vecchia” e inadeguata,
poiché non coglie che, ciò che sta diventando
realmente “vecchio”, è la nozione stessa
dell’età e che la nostra società sta diventando
e diventerà sempre più paradossalmente
giovane. La vera sfida della rivoluzione
demografica consiste, dunque,
nell’individuare politiche che conducano a un
ripensamento della gestione dell’età e alla
creazione di un nuovo framework culturale,
che non sia basato sulla divisione ciclica delle
età, ma su un nuovo “pensiero senza età”.
Questa presa di coscienza comporta una
battaglia principalmente culturale nella
consapevolezza della necessità di un
processo di svecchiamento della nostra
società, come punto di partenza per il futuro
di tutti. E’ necessario aumentare attivamente
qualità e quantità della partecipazione dei
lavoratori maturi per lo sviluppo del nostro
paese e in questo cambiamento le imprese
sono chiamate a offrire un contributo attivo
attraverso politiche di inclusione finalizzate a
sostenere la partecipazione attiva al mercato
del lavoro delle classi d’età più mature. Dallo
studio emerge la contraddizione che
caratterizza il fenomeno: da un lato la
consapevolezza che la popolazione più
matura va considerata una risorsa da
capitalizzare tanto nel mercato del lavoro
quanto nel più generale contesto societario;
dall’altro un’assenza di adeguate politiche e
azioni a supporto. Le aziende intervistate
mostrano, in sostanza, una percezione
generalizzata dell’importanza della tematica
ma si registra in maniera altrettanto
generalizzata la tendenza a sottovalutare il
fenomeno. Il grado di problematicità
derivante dal processo d’invecchiamento
dipenderà in maniera forte da come i governi
e i soggetti economici saranno in grado di
guardare agli effetti del processo stesso,
mitigando quelli indesiderati attraverso
l’attuazione di strumenti ad hoc e
cogliendone, invece, le eventuali
opportunità. Le imprese devono, dunque,
rispondere positivamente alla “sfida”
dell’invecchiamento demografico attraverso
65
strategie ad hoc per adeguarsi alla nuova
strutturazione del mercato. Che i vecchi di
oggi siano molto diversi da quelli di ieri lo
confermano i dati. Indubbiamente qualcosa
sta cambiando nelle abitudini, nello stile di
vita e nei comportamenti di consumo degli
anziani. Le aziende che per prime
guarderanno alla vecchiaia come una risorsa
saranno in grado di trasformare le sfide
dell’invecchiamento demografico in
opportunità di business. Più in generale,
appare dovuta e quanto mai necessaria
l’attenzione del mondo delle istituzioni al
fenomeno, nella considerazione che gli
anziani possono essere una risorsa per
l’intera società, non solo perchè vivono di
più, ma perché godono di buona salute. Lo
sviluppo di politiche a sostegno dei nuovi
assetti demografici passa, dunque, attraverso
l’aumento dei tassi di partecipazione al lavoro
delle classi d’età mature, all’interno di azioni
che tengano in considerazione gli effetti di
lungo periodo e un ripensamento dell’intero
sistema di welfare.
66
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67
Si ringraziano per la collaborazione
le aziende che hanno partecipato alla ricerca:
Si ringrazia HAY GROUP
per aver collaborato allo studio ELIS-HR Academy
68
Note
i Il riferimento è a fattori molteplici e fortemente interconnessi tra loro: dalla perdita del Know how, legata alla fuoriuscita dal mercato del lavoro dei senior , agli scontri generazionali tra popolazioni aziendali lontane in termini anagrafici e culturali. Per un approfondimento, si rimanda al paragrafo 4.2 ii Per un approfondimento, cfr. paragrafo 4.5, nota 23
iii Da indagini internazionali 2010- Hay Group
iv Benché ciascuna popolazione presenti un proprio profilo peculiare, vengono solitamente individuati tre profili tipici di piramide:
espansivo, riduttivo e stazionario. Il primo è quella a base larga, segno di un’alta natalità, e parte alta più stretta, segno di un’altrettanto elevata mortalità. La seconda tipologia di profilo è, invece, quello in cui la parte bassa, dove vi sono le classi d’età più giovani, è più stretta rispetto alla parte centrale e alta, segno di denatalità e bassa mortalità. Questo profilo è tipico delle popolazioni che invecchiano. Infine, il profilo stazionario si riscontra in quelle popolazioni che hanno mediamente lo stesso ammontare di popolazione in tutte le classi d’età. v Da indagine Total Cash- Italia 2010- Hay Group
vi Da indagine Leadership e differenze generazionali- Italia 2010- Hay Group
vii Cfr. “The impact of Ageing on Demand, Factor Markets and Growth”- OECD 2007
8 Il cambiamento è determinato dalla spinta concomitante di fattori sia interni che esterni alle imprese: l’internazionalizzazione e la globalizzazione dei mercati, lo sviluppo di strutture piatte e orizzontali, il forte orientamento al mercato, i fenomeni di riorganizzazione e delocalizzazione, etc. ix La dinamica delle retribuzioni medie individuali analizzata per fascia d’età sulle posizioni dirigenziali mostra un’evidente e progressiva flessione a partire dalla fascia d’età 40-45 anni (Hay Group, 2010). x Matusalemme, vissuto prima del diluvio universale, è forse il più noto patriarca biblico. Proverbiale per la sua longevità- secondo la Genesi sarebbe, infatti, morto all’età di 969 anni- egli rappresenta la forza, la persistenza, la saggezza e la determinazione del popolo eletto da Dio. xi Elaborazione su dati Istat. Previsioni della popolazione 2007-2051: Cfr. http://demo.istat.it/
xii A oggi, due sono i dispositivi di legge pensati per sostenere l’occupazione matura. Il primo è l’art. 20 della legge 266/97 che
prevede un beneficio pari al 50% della contribuzione complessiva dovuta agli enti previdenziali in caso di assunzione di un dirigente privo di occupazione in aziende con meno di 250 dipendenti. Il secondo, più recente, riguarda l’art. 54 del d.lgs. 276/2003 (la cosiddetta legge Biagi) che prevede che possano essere assunti con il contratto d’inserimento, tra le altre categorie, anche i lavoratori over 50 purchè privi di un posto di lavoro. Lo sgravio contributivo previsto varia dal 25% al Centro-nord al 100% al Sud del Paese. Il primo provvedimento ricordato ha avuto effetti assolutamente marginali, mentre il secondo è troppo recente per poterne valutare la reale incidenza, ma sicuramente si tratta di ben poca cosa rispetto all’entità e alla complessità sociale del fenomeno. Nel 2003, inoltre, è stata introdotta la legge 216 che vieta ogni tipo di discriminazione in base all’età ma si dimentica, poi, qualsiasi tipo di sanzione per i trasgressori. xiii
Il 39% degli intervistati dichiara un innalzamento dell’età anagrafica mentre il restante 46% un abbassamento della stessa: in questi casi, a fronte della presenza di vuoti nella classe intermedia, si prevede una tenuta della numerosità della popolazione senior e l’elemento discrimante che fa propendere gli intervistati nel dichiarare un abbassamento o un innalzamento dell’età anagrafica riguarda la previsione o meno di immissioni di neoassunti in azienda. xiv
Per un approfondimento, Cfr. paragrafo 4.4 xv
La riduzione dei fattori di disagio presenti negli ambienti di lavoro legati alla qualità dell’aria, all’inquinamento acustico e ai più generali livelli di sicurezza ha determinato la riduzione dei livelli di stress e fatica fisica e il conseguente sviluppo di contesti organizzativi più funzionali. xvi
Il dato trova conferma con quanto emerge dalla ricerca: in molte aziende intervistate, infatti, si registra una difficoltà a stimolare la popolazione più senior verso l’apprendimento delle lingue straniere e una maggiore difficoltà delle popolazioni aziendali più mature a confrontarsi con le nuove tecnologie. Questa evidenza, tuttavia, non risulta caratteristica dei profili manageriali. xvii
Al 39% degli intervistati, che dichiara livelli più bassi di apprendimento per i senior, si somma un ulteriore 23% che associa alla popolazione anziana una bassa motivazione ad apprendere e un atteggiamento di chiusura nei confronti della formazione. xviii
Diverso è per chi ricopre posizioni chiave o funzioni centrali in un’azienda: queste solitamente sono oggetto di costante attenzione e sviluppo indipendentemente dall’età anagrafica dei titolari delle posizioni, al fine di mantenere e sviluppare le core competencies dell’impresa. In questi casi, però, stiamo parlando di una piccola nicchia della popolazione aziendale, dove, peraltro, anche i soggetti che ricoprono quelle posizioni chiave si scoprono essere in genere particolarmente proattivi nel mantenimento della loro professionalità. xix
A fronte di un budget che si fa sempre più limitato, le aziende spesso predispongono attività formative e azioni di sviluppo per i più giovani, mettendo da parte e, in alcuni casi, incentivando alla mobilità volontaria, una classe d’età che rappresenta, invece, i pilastri dell’azienda in termini di storia organizzativa e know how tecnico. xx
Queste evidenze non sono caratteristiche dei profili manageriali che appaiono più propensi all’apprendimento e alla formazione rispetto ai profili più bassi. xxi
Per una trattazione approfondita sulla teoria dell’apprendimento ed educazione degli adulti, Cfr. paragrafo 4.5.2 xxii
I meccanismi aziendali di crescita delle moderne organizzazioni tendono a premiare dimensioni molto diverse dal passato, quando l’età anagrafica rappresentava il fattore predominante di progressione di carriera. Oggi, invece, le aziende danno importanza alla flessibilità, alla conoscenza delle lingue straniere, all’’innovazione, alle competenze di networking e sono fortemente basate su sistemi di performance management.
69
xxiii
L'andragogia è una teoria unitaria dell'apprendimento ed educazione degli adulti. Il termine venne ufficialmente coniato nel 1833 in Germania, ad opera di Alexander Kapp, in contrapposizione a quello di pedagogia. Si tratta di un modello incentrato sulla comprensione della diversità di bisogni e interessi di apprendimento degli adulti rispetto ai bambini, che ha trovato in Malcom Knowles il suo massimo esponente. L’educazione degli adulti è stata probabilmente la primissima forma di educazione sistematica. Tutti i grandi maestri dei tempi antichi, infatti, insegnavano ad adulti e non ai bambini. Grazie alle loro esperienze con gli adulti, questi maestri consideravano l'apprendimento un processo di ricerca attiva e inventarono, di conseguenza, tecniche per coinvolgere attivamente i discenti. Al contrario, le prime scuole apparse in Europa nel VII secolo avevano come scopo principale l'indottrinamento ai dogmi della fede, per cui elaborarono metodologie diverse. La pedagogia, che ne è derivata, attribuisce all'insegnante la piena responsabilità delle decisioni riguardo ai contenuti, le modalità e la valutazione di tutto quello che verrà appreso. Si tratta di un'istruzione guidata dal docente e che si discosta, quindi, dall’approccio andragogico che attribuisce al discente un ruolo attivo nel processo di apprendimento. xxiv
Il dato trova conferma in una recente indagine condotta dal dipartimento di Scienze demografiche dell’Università “Sapienza” in collaborazione con l’ISFOL, che ha messo a confronto la capacità lavorativa del personale giovane (Under35) e anziano (Over50). Secondo quanto emerge dalla ricerca della “Sapienza”, infatti, sono a favore dei lavoratori anziani, tra gli altri, gli aspetti riguardanti la responsabilità e l’affidabilità, la gerarchia, la sensibilità agli interessi dell’impresa, la fedeltà all’azienda. In definitiva, i senior sembrano costituire una solida base per l’impresa, un punto di riferimento stabile e affidabile che garantisce di fare fronte alle diverse esigenze di economicità, efficienza ed efficacia. xxv
La propensione degli Over45 verso il riconoscimento aziendale delle competenze acquisite sostiene la necessità di valorizzarne l’esperienza attraverso percorsi strutturati di affiancamento, finalizzati al trasferimento del know how ai più giovani e intesi come “coronamento” del percorso di carriera. Si tratta d’interventi indispensabili per far fronte alle fuoriuscite fisiologiche e ai frequenti vuoti generazionali. xxvi
Quest’ultimo aspetto appare, in realtà, in contrasto con le principali evidenze sociologiche che identificano la propensione verso modelli gestionali di conciliazione come una dimensione propria più delle giovani generazioni che di quelle mature. xxvii Cfr. paragrafo 4.5, nota 23 xxviii
Un livello più alto di potenziale è, in genere, associato ai junior e appare legato a un atteggiamento nei confronti dell’attività lavorativa centrato sulla tensione alla qualità della prestazione e sulle dimensioni dell’innovazione e dello sviluppo delle nuove tecnologie. xxix
Si tratta di situazioni sempre più frequenti, stante la propensione delle moderne organizzazioni verso strutture di carriera meritocratiche e sempre meno legate all’età anagrafica. Ad aggravare queste situazioni c’è, poi, la frequente assenza di azioni di sviluppo per i senior, spesso ritenute inutili a fronte di ingenti investimenti sui giovani. xxx
Da indagine Total Cash- Italia 2010- Hay Group. E’ interessante, inoltre, ricordare come dalla stessa ricerca emerge, tra l’altro, che la popolazione complessiva dei dirigenti Over50 si attesta al 41% della popolazione dirigenziale complessiva. xxxi
Da indagini internazionali 2010- Hay Group. xxxii Cfr. paragrafo 4.5 xxxiii
Cfr. Paragrafo 4.5 xxxiv
Cfr. Paragrafo 4.4. xxxv
Ci si riferisce, in particolare, all’esigenza di conciliazione tra vita privata e vita professionale che caratterizza, in maniera particolare, i 40enni che, in genere, hanno famiglia e, dunque, esprimono bisogni legati a nuove forme di sostegno aziendale sia in termini di tempo che di servizi a supporto. Va sottolineato, in ogni caso, che il work life balance è un valore tipico anche della Generation Y, seppur inserito all’interno di un contesto di vita e di bisogni molto diverso.