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5 A ARTE/ RCHITETTURA/AMBIENTE vano il problema “della grande di- mensione”: The Illinois, citta verticale alta un miglio (‘56) e la revisione, venti anni dopo, di Broadacre city, città- regione orizzontale (‘36-’56) di F. L. Wright. Essi annunciavano le nuove ricerche megastrutturali per un habitat futuri- bile che simulavano la complessità delle metropoli; mentre l’avanguar- dia artistica scopriva il fascino di queste ultime nell’esposizione This is Tomorrow (R. Hamilton, ‘56). La nuova visione spaziale e artistica liquidava nello stesso tempo: l’ango- scia paralizzante dell’informale, gli stereotipi del realismo socialista, l’ac- cademia tardo-razionalista, il ritorno all’ordine neo-storicista. Inoltre essa, a differenza dello statuto funzionali- sta, avvertiva la crisi ambientale in- combente proponendo per la prima volta una sintesi di architettura ed ecologia (arcology), che anticipava la rivolta ecologista consolidatasi dalla fine degli anni ‘60 in poi. Questa emergeva con la fondazione del Club di Roma (‘68), con la denun- cia di The population bomb (P. Erlich, ‘68), la proclamazione della “Prima giornata della Terra” (22 aprile ‘70), la nuova prospettiva bio-economica (N. Georgescu-Roegen, ‘71), il Rapporto del MIT su “I limiti dello sviluppo” (D. Meadows, ‘72), la “Prima Conferenza Mondiale sull’Ambiente” (Stoccolma, ‘72), che introdusse il concetto di “sostenibilità”; “la scoperta dell’ef- fetto serra” (F. Schneider, ‘75) e la “Carta del Machu Picchu” (‘77). Que- st’ultima teorizzava la città post-fun- zionalista, antimeccanicista, aperta, mutevole, polifunzionale servita, anzi- tutto, dal trasporto pubblico. Non possiamo risolvere i problemi se non abbandoniamo il modo di pen- sare che li ha creati” (A. Einstein) La crisi di megacity e degli ecosi- stemi: l’insostenibilità del para- digma meccanicista e del mito dello “sviluppo illimitato”. Dal dopoguerra la terza rivoluzione industriale fondata sull’onnipotenza della tecnoscienza, l’energia atomi- ca, l’automazione, l’informatica, ha ristrutturato l’intero ciclo produttivo in senso post-fordista, liberando l’u- manità dal lavoro manuale. Questa rivoluzione ha spinto impe- tuosamente verso la globalizzazione, la società massificata, l’economia consumista e le megalopoli determi- nando la più grande espansione demografica, economica e urbana della storia. Tale crescita esponen- ziale e resa possibile da un modello di sviluppo che considera la Natura come una riserva illimitata. Ma la travolgente transizione dall’era tardo-industriale a quella postindu- striale ha creato anche problemi ingovernabili. Essi giustificano l’in- vettiva di F. L. Wright: “la vecchia città capitalista non è più sicura. Significa assassinio di massa” in The living city (‘58), modello organico di città alternativo a quello astratto della Ville Radieuse (L.C. ‘25). Il problema di dare forma alla metro- poli nella mutazione genetica post- industriale era stato intuito dalla se- conda avanguardia post-bellica. Questa era stata innescata, alla metà degli anni ‘50, da due progetti provo- catori, complementari, che pone- Dalla crisi di megacity e degli ecosistemi verso eco-metropoli e l’era del post-consumista

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vano il problema “della grande di-mensione”: The Illinois, citta verticalealta un miglio (‘56) e la revisione, ventianni dopo, di Broadacre city, città-regione orizzontale (‘36-’56) di F. L.Wright. Essi annunciavano le nuove ricerchemegastrutturali per un habitat futuri-bile che simulavano la complessitàdelle metropoli; mentre l’avanguar-dia artistica scopriva il fascino diqueste ultime nell’esposizione This isTomorrow (R. Hamilton, ‘56).La nuova visione spaziale e artisticaliquidava nello stesso tempo: l’ango-scia paralizzante dell’informale, glistereotipi del realismo socialista, l’ac-cademia tardo-razionalista, il ritornoall’ordine neo-storicista. Inoltre essa,a differenza dello statuto funzionali-sta, avvertiva la crisi ambientale in-combente proponendo per la primavolta una sintesi di architettura edecologia (arcology), che anticipava larivolta ecologista consolidatasi dallafine degli anni ‘60 in poi.Questa emergeva con la fondazionedel Club di Roma (‘68), con la denun-cia di The population bomb (P. Erlich,‘68), la proclamazione della “Primagiornata della Terra” (22 aprile ‘70), lanuova prospettiva bio-economica (N.Georgescu-Roegen, ‘71), il Rapportodel MIT su “I limiti dello sviluppo” (D.Meadows, ‘72), la “Prima ConferenzaMondiale sull’Ambiente” (Stoccolma,‘72), che introdusse il concetto di“sostenibilità”; “la scoperta dell’ef-fetto serra” (F. Schneider, ‘75) e la“Carta del Machu Picchu” (‘77). Que-st’ultima teorizzava la città post-fun-zionalista, antimeccanicista, aperta,mutevole, polifunzionale servita, anzi-tutto, dal trasporto pubblico.

Non possiamo risolvere i problemi senon abbandoniamo il modo di pen-sare che li ha creati” (A. Einstein)

La crisi di megacity e degli ecosi-stemi: l’insostenibilità del para-digma meccanicista e del mitodello “sviluppo illimitato”.

Dal dopoguerra la terza rivoluzioneindustriale fondata sull’onnipotenzadella tecnoscienza, l’energia atomi-ca, l’automazione, l’informatica, haristrutturato l’intero ciclo produttivoin senso post-fordista, liberando l’u-manità dal lavoro manuale.Questa rivoluzione ha spinto impe-tuosamente verso la globalizzazione,la società massificata, l’economiaconsumista e le megalopoli determi-nando la più grande espansionedemografica, economica e urbanadella storia. Tale crescita esponen-ziale e resa possibile da un modellodi sviluppo che considera la Naturacome una riserva illimitata.Ma la travolgente transizione dall’eratardo-industriale a quella postindu-striale ha creato anche problemiingovernabili. Essi giustificano l’in-vettiva di F. L. Wright: “la vecchiacittà capitalista non è più sicura.Significa assassinio di massa” in Theliving city (‘58), modello organico dicittà alternativo a quello astrattodella Ville Radieuse (L.C. ‘25).

Il problema di dare forma alla metro-poli nella mutazione genetica post-industriale era stato intuito dalla se-conda avanguardia post-bellica.Questa era stata innescata, alla metàdegli anni ‘50, da due progetti provo-catori, complementari, che pone-

Dalla crisi di megacity e degli ecosistemi versoeco-metropoli e l’era del post-consumista

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Per affrontare la più grande espan-sione demografica, urbana ed eco-nomica della storia si profilavanoquattro idee prevalenti di città.Alcuni rilanciavano il modello dellacittà della Storia ma, i più, quellodella città Razionale; mentre la vi-sione organica proponeva il modellodella living city in equilibrio con laNatura e la neoavanguardia prefigu-rava le metropoli del Futuro.Il modello neostoricista, anti-indu-striale e anti-modernista, a sviluppoorizzontale, si rifugiava nel passatoche non aveva mai conosciuto glismisurati problemi delle odiernemegalopoli. Quello razionalista, industriale e mo-dernista - sebbene negli anni ‘20 a-vesse proposto i progetti avveneri-stici di metropoli a sviluppo verticalecome la Ville contemporaine pour troimilions d’habitants (‘22) e il Plan Voi-sin (‘25) di Le Corbusier o la Grosz-stadt Architektur (‘27) di L. Hilbersei-mer, indifferenti alla Storia e allaNatura - ora ripiegava, in nome delrealismo, sulle tipologie dei quartieridegli stessi anni, che si dissolvevanonelle immense periferie invertebrate.Ma neo-storicisti e neo-razionalistinon si accorgevano che “l’assenza diuna teoria della grande dimensione è

la più esasperante debolezza dell’ar-chitettura” (R. Koolhaas).Di fatto, non si potevano risolvere iproblemi drammatici delle megalo-poli, organismi di scala e comples-sità, superiore, riducendoli a quellidei quartieri razionalisti e della cittàtradizionale, organismi semplici elimitati, perche: “ad ogni livello dicomplessità, i fenomeni osservatimostrano proprietà che non esistonoa livello inferiore” (F. Capra, ‘96).Ormai una mutazione genetica delDNA separava quartieri e città daisuperorganismi metropolitani a svi-luppo verticale. Del resto, mentreemergeva la rivolta ecologista controil paradigma meccanicista, la globa-lizzazione del modello di sviluppooccidentale accelerava la sua poten-za produttiva, iperconsumista e me-galopolitana sfuggendo ad ogni con-trollo.Intanto l’omologazione delle co-scienze incalzava imponendo la dit-tatura del kitch, del banale, della co-municazione tautologica.Nella società del delirio consumisticoin cui il virtuale tende a spodestare ilreale: “ci sovrasta il pericolo di unacondizione che potremmo definire lamiseria psicologica della massa’” (S.Freud, ‘29).

Fotografia zenitale con il sito evidenziato dell’area oggetto del Concorso “Un grattacelo per Torino”. 2

Oggi l’inaudito sviluppo post-indu-striale e giunto al punto da scon-volgere i cicli bioclimatici e l’ecosi-stema planetario. Questo ha rive-lato l’insostenibilità del paradigmameccanicista su cui e fondato lostatuto funzionalista codificatodalla Carta di Atene (‘33).

Tale insostenibilità si manifestaattraverso patologie sempre piùallarmanti che non possono es-sere più rimosse, minimizzate oignorate dalle istituzioni, riassumi-bili nei seguenti fenomeni:

1. L’esplosione della bomba de-mografica.La popolazione mondiale ha impie-gato circa 2 milioni di anni per giun-gere al primo miliardo nel 1830 e solo100 anni per il secondo; quindi dal1930 si e innescata un’accelerazioneesponenziale per cui ne sono occorsi30 per il terzo miliardo, 15 per ilquarto, 13 per quinto e 11 per ilsesto, nel 1999. Gli studi di demogra-fia storica stimano che: dodicimilaanni fa, all’inzio dell’era agricola, lapopolazione mondiale giungeva a 10milioni; duemila anni fa, all’avventodell’era cristiana, a circa 250 milioni,alla fine del XVIII secolo col decollo

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La torre del ventoMichela Comba

Verso il Palazzo di Giustizia al riparo dal sole e dalla pioggia: salutando con la giuria le mentite spo-glie del committente, Renzo Piano inizia a illustrare la sua proposta. Il savoir faire metropolitanodell’architetto emerge anche da qualche piccolo espediente retorico. Sottolineando la difficotà dipensare senza un preliminare scambio con il cliente («questo, purtroppo, lo sappiamo tutti, un con-corso non lo consente») svela una diplomazia cara alla città del Lingotto. La familiarità con Torinosi manifesta nel modo propiziatorio con cui Piano pone sulla scacchiera la prima torre, tipologia dalui ampiamente praticata, affinata e qui quasi sublimata. Ma in questo incarico rivela un risvoltopedagogico che si manifesta proprio nell’esposizione del progetto. Questo disegno è quasi con-temporaneo a quelli per Londra e il «New York Times», ma proviene anche dal lavoro di RPBWden-tro le tipologie, pur volendone mutare il pubblico, come nel caso del museo. La torre di Intesa San-paolo diventa per la città e l’Italia intera un’occasione per capire cos’è un grattacielo e cosa implicaoggi, nella pratica, la sua costruzione.La resistenza al fuoco della struttura, si sa, è tema connesso all’edificio alto, storicamente ricono-sciuto come fattore di miglioramento della sicurezza dei suoi utenti: comporta fin dall’inizio l’iden-tificazione di compartimentazioni, un piano di evacuazione, «sistemi di protezione», in rapportoalla portata e al volume di riserva idrica (anche l’ingresso dell’acqua confluisce nei problemi geo-tecnici). Vigili del Fuoco, struttura e distribuzione, sono strettamente connessi fin dalle premesseprogettuali. Nel preliminare consegnato il 22 dicembre esiste un termine che annoda questi su trefili alla normativa: il «piano di riferimento». Dalle norme antincendio e possibili deroghe (ai sensi delD.P.R. 37/1998, n. 6, relativo alla molteplicità delle funzioni e alla necessità di renderle indipen-denti), l’architetto ricava la classificazione di «edificio destinato a uffici con un numero di personesuperiore a 1.000» e la sua interpretazione di «piano di riferimento» (la definizione è cambiata negliultimi vent’anni anche attraverso 3 decreti ministeriali).Nella normativa italiana, tendenzialmente piatta, Piano intravede per la sua torre non uno ma trepiani di riferimento: il piano esterno delle strade, quello del giardino interno (meno 8 m. è il livelloinferiore della lobby) e quello del primo livello di parcheggi (meno 16 m). La struttura è asciutta ecomprensibile, con un’eccezione a sud: una vela pensata per assorbire e mettere in circolo il ventodel nord. Una sovrastruttura si eleva dal nono livello in acciaio (data da solai e compartimenti reti-colari verticali collocati a nord e sud), appoggiata su una struttura di trasferimento, quella del cen-tro congressi (alta 20 m, tra i livelli 9 e 3) che scarica su una fondazione di cemento a pettine, inter-rata (barrette di 700 x 75 cm, lunghezza 20 m). I compartimenti a nord si prolungano verso il bassofino alle fondazioni, mentre a sud i carichi insistono sulla struttura di trasferimento.Il piano di riferimento sta alla struttura come il grattacielo al controllo delle persone e dei loro flussiin spazi pubblici e privati, definiti alla base dell’edificio. La sicurezza comporta il controllo di ogniparte e di ogni singolo parametro, oltre alla previsione dei movimenti di ciascun utente. Nel prefi-gurare questa sicurezza «globale» dell’ambiente, il progetto interagisce criticamente con un’orga-nizzazione verticale del lavoro. Gli uffici occupano i piani dal nono al trentacinquesimo (17.280 mq:il 75% della superficie totale), su un modulo/base largo 4 m e profondo 6. I piani superiori, dirigen-ziali, terminano con un giardino zen coperto. La struttura di trasferimento, accessibile con scalemobili, ingloba foyers, centro congressi, auditorium.La circolazione scorre su due gruppi di 5 ascensori per il low rise e l’high rise. Ma il grattacielo con-tinuerà a rappresentare l’emblema di una difesa un po’ virtuale finché le condizioni bioclimaticherimarranno fattori da cui proteggersi: inglobati nella struttura, quei fattori potrebbero rappresentaredi fatto una sicurezza ambientale. Il passaggio di scala che l’architetto compie risiede nell’idea diun «piano tipo», termine che segna, nell’accezione assegnatagli nel progetto, il transito dalla torrealla torre bioclimatica. E un piano di 40 m di lunghezza per 24 di spessore, che funziona in con-nessione con i piani superiori e inferiori (i solai svolgono anche la funzione di brise-soleil). I 24 m aquesta latitudine fanno entrare il massimo della luce dalle facciate collocate a est e a ovest: fac-ciate a doppia pelle, che consentono un risparmio energetico del 25%. I piani non comprendonocontrosoffitti e sono connessi ai due estremi da un livello all’altro, nel lato sud tramite giardini d’in-verno in «duplex». L’eliminazione dei controsoffitti dovrebbe economizzare i consumi e i giardinifavorire anche il lavoro collettivo, evitando l’isolamento di ogni livello. Qualità della luce e «con-nessione attiva tra i livelli»: il loro stretto rapporto funzionale con le condizioni ambientali in un climatemperato (dove è più lungo il periodo in cui è necessario il raffrescamento degli edifici) spiega quianche l’orientamento nord/sud della struttura, parallelo alla stazione di Porta Susa. I venti arrivanoda nord: l’edificio sarà ventilato di notte sfruttando la spinta naturale verso l’alto dell’aria concamini collocati a sud, ai lati dei giardini d’inverno. Anche nella sala conferenze la luce entra da sudverso la lobby, con un’inclinazione che in estate ne limita l’irraggiamento.La copertura inclinata del giardino zen a quota 150 m (il suo punto più alto sfiora nel progetto i 200m) conterrà cellule fotovoltaiche: in un anno dovrebbero produrre l’energia necessaria all’illumina-zione notturna dell’edificio, garantendo un recupero dell’investimento in circa 17 anni. Nel frat-tempo, diversamente da quanto è capitato per il Lingotto, RPBW riuscirà a introdurre nella cittàuno studio londinese, Expedition Engineering? E i torinesi passeggeranno finalmente in un veroparco in quell’area, affidato in questo caso da Piano al parigino Atelier Corajoud?

Schizzi di studio di Renzo Piano per il progetto

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della prima rivoluzione industriale sitoccava il miliardo di abitanti. Infine,con l’accelerazione postindustriale,tra il 1950 e il 2000, e cresciuta da 2,5a 6,1 miliardi. Intanto ogni giornoaumenta di circa 200 mila abitanti e,nel 2050, se non interverranno cor-rettivi, si prevede il raddoppio dell’at-tuale popolazione.Ma già nel 1974 L.R. Brown ammo-niva; “quello che ora dobbiamo rico-noscere e che l’aumento continuodella popolazione, anche a un ritmomoderato d’ora in avanti aggraveràsempre più in pratica tutti i principaliproblemi economici, ecologici, socialie politici, a cui l’umanità si trova difronte”. Allo stato attuale l’esplosionedemografica e incontrollabile!

2. L’espansione permanente dellemegacities e delle galassie mega-lopolitane.Alla crescita esponenziale demogra-fica corrisponde quella urbana. Talesinergia ha causato tra il 1950 e il2000 un incremento della popola-zione delle città dal 25,4 % (732 mi-lioni) al 50,0% (2,845 milioni), che nel2008 supera per la prima volta nellastoria quella rurale. In particolare, nel1950 New York, la più grande metro-poli del mondo aveva 12,3 milioni diabitanti, ma nel 1975 era superata daTokio (19,8 ml).Nel 2001 questa ha confermato il pri-mato (26,5), seguita da San Paolo eMexico city (entrambe con 18,3 ml);mentre NewYork e scesa al quartoposto (16,8).Le proiezioni al 2015 indicano ancoraTokio (27,3) come la più popolosaseguita da cinque metropoli del terzomondo (Dacca, Bombay, San Paolo,Delhi, Mexico City); mentre N.Y., purcrescendo di 5.6 ml rispetto al 1950,scenderà al settimo posto (17,9).Intanto le metropoli in espansionetendono a formare sistema con quel-le prossime configurando megalo-poli definite tali se superiori a 30milioni di abitanti; cioé grandi quantol’Europa all’epoca di Augusto. Nel

‘61 il loro primo studioso J. Got-tmann né individuava una decina: trein Europa (il sistema Londra-Liver-pool, l’asse Reno-Rodano, quellopadano prolungato nei corridoi tirre-nico e adriatico; tre in nord America(NewYork-Boston, Chicago-Toron-to, Los Angeles-San Francisco; unain sud America (San Paolo-Rio deJaneiro); e tre più estese in Asia(Snanghai-Pechino, Calcutta-Delhi eTokio-Osaka). Oggi nessuno sa a quali dimensionigiungeranno le metropoli e le galas-sie megalopolitane in espansione.

3. L’onnipotente sviluppo post-industriale, la globalizzazionemercatista e il controllo planetariodelle risorse.Dal 1820 il prodotto economico glo-bale e aumentato di 58 volte e nelsolo XX sec. di 18. “Dalla metà diquesto secolo ... e pressoché quintu-plicato; in media lo sviluppo econo-mico di ciascuno degli ultimi quattrodecenni ha superato quello regi-strato dall’inizio della civiltà al 1950”(L.R. Brown,’90). Intanto dal 1975 al 2000 la produ-zione mondiale e passata per l’ener-gia elettrica, da 1.606 milioni di kw a3.340; il ferro, da 468 milioni di tonn.a 580 ml; l’acciaio, da 651 a 722; l’al-luminio, da 12 ml a 23 ml di tonn.L’onnipotenza di tale sviluppo e pro-dotta dalla sinergia tra l’innovazionepermanente della tecnoscienza, laglobalizzazione mercatista e la per-vasività mondiale della finanza, sen-za frontiera, anonima e on-line. Essa è giunta ad un supersfrutta-mento biotech della terra al punto dadistruggere un terzo dei prodotti an-nuali e ad una sterminata produzionedi merci che invade ogni angolo delglobo. Questo implica un controlloplanetario sempre più conflittualedelle materie prime e dei mercati. Intanto: “la crescita del sistema eco-nomico così come è strutturato ogginon porrà fine alla povertà. Al contra-rio le forme attuali di crescita perpe-

Versione finale del progetto preliminare

Sopra e sotto: sezione longitudinale. Sono evidenziatil’insieme dei flussi di circolazione e quelli relativi aglispazi privati, agli spazi riunione e alla direzione.

Vedi anche le immagini a colori in terza di copertina.

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tuano la povertà e ampliano il divariotra ricchi e poveri” (D. Meadows,2004). Secondo il WHO (World Health Orga-nization): “nel mondo circa 20 milionidi persone l’anno muoiono di fame edi malattie collegate, mentre il 18%della popolazione è obesa”.

4. La mutazione genetica post-for-dista della produzione, dellasocietà, della metropoli.La rivoluzione post-fordista è fon-data sulla consapevolezza che: “ilganglio della società post-industrialeè la conoscenza”. Pertanto “l’econo-mia ha smesso di occuparsi prima-riamente della produzione di beni peroccuparsi di servizi, della ricerca,dell’educazione e dei divertimenti”(D. Bell, ‘63). Questa rivoluzione ha provocato unamutazione genetica della società: daun lato, con “la fine del lavoro” manualee del ceto medio dell’era industriale;dall’altro con “l’ascesa della networksociety” (M. Castells, ‘96),della “creati-ve class” (R. Florida, 2001) e dei “col-letti bianchi”, strutture portanti dellasocietà post-industriale della inno-vazione permanente.Negli USA, mentre gli addetti all’agri-coltura e all’industria sono scesi al 2%e al 21%, quelli dei servizi sono saliti al77%. Tale diversità tende a formare

una mass class sempre più omologata,sebbene a reddito molto differenziato. La conseguenza territoriale di talerivoluzione e: “il divorzio tra la città ela produzione industriale” (J. Got-tmann, ‘91) che ha fatto esplodere lemetropoli in “nebulose” a crescitaincontrollata. Questo produce forme diverse disistemi urbani classificati come:“global city” (S. Sassen, ‘91), “città intransizione industriale positiva onegativa”, “aree urbane in crisi strut-turale”, “città industriali tradizionali”,ecc.. Oggi questi giganteschi pro-blemi sono affrontati in modo episo-dico o sotto la spinta dell’emergenza,anche perche mancano strategie a-deguate alla loro complessità.

5. La globalizzazione di infrastrut-ture, mercati e sistemi urbani inun’unica weltstadt “infinita e sen-za forma”.L’invincibile apparato tecno-scienti-fico e finanziario si proietta a scalaplanetaria attraverso un’illimitata reteinfrastrutturale soft (internet), cre-sciuta dal 1995 del 50% all’anno, ehard (sistemi intermodali dei tra-sporti), con un incremento mondialedelle auto, tra il 1950 e il 1999, da 70milioni (50 solo in USA) a 682 milioni;cioé di circa 10 volte. Per misurare lapotenza della rete infrastrutturale

La torre del vento. Il progetto dello studio Renzo PianoBuilding Worshop.

Renzo Piano Building WorkshopI progetti di RPBW in corso oggi sono 24 (a Milano, Trento, Gros-seto, Roma, Napoli, Lisbona, Londra, Oslo, Parigi, Chicago, SanFrancisco, Los Angeles): i due grattacieli, la London Bridge Tower ela nuova sede del “New York Times” hanno avuto inizio nel 2000.Per Torino l’architetto ha firmato nel 1982 l’allestimento dellamostra retrospettiva di Alexander Calder e la ristrutturazione dell’exfabbrica Fiat Lingotto (1989-2005). RPBW ha realizzato ad oggi 57progetti in tutto il mondo. Alcuni dei più importanti: la Menil Collec-tion a Houston (1987), lo stadio San Nicola a Bari (1990), i terminal dell’aeroporto internazio-nale Kansai a Osaka (1994), la Fondazione Beyeler a Basilea (1996), l’auditorium Parco dellamusica a Roma (2002), il Nasher Scuipture Centre a Dallas (2003), il Zentrum Paul Klee a Berna(2005), l’espansione dell’High Museum of Art di Atlanta, la ristrutturazione e l’ampliamentodella Morgan Library a New York e la Cité Internationale di Lione (2006). La torre per uffici KPNTelecom a Rotterdam e l’Aurora Place a Sydney (2000), la nuova sede del “Sole 24 ore” aMilano (2004) sono solo alcune delle opere comparabili per committenza e tipologia al temadel progetto di concorso per Intesa Sanpaolo.

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superficie boschiva passerà dagliattuali 0,56 ettari a 0,38”: dal depau-peramento delle risorse idriche: “ideficit più gravi si verificano in Cina esoprattutto in India dove la popola-zione è aumentata di tre volte ri-spetto al 1950” (L.R. Brown, 2000);dal collasso degli stock ittici: “lerisorse del mare sono allo stremo; ipaesi industrializzati dominano i con-sumi globali di pesce aggiudicandosil’80% delle importazioni totali invalori” (H. French, 2000). Nella seconda metà del XX sec. ladomanda mondiale di acqua e tripli-cata e “attualmente l’agricoltura neconsuma circa il 70%, l’industria il22%, le aree urbane l’8%” (S. Postel,2004); mentre fiumi e laghi sono im-poveriti e l’accesso alle falde idrichee sempre più difficile.Intanto, la crescita urbana in Europanel decennio 1990-2000 ha distrutto2.445.000 ettari di superfice agricola,un bene unico e irriproducibile.In generale, gli studi sull’“ImprontaEcologica” dimostrano che i paesiavanzati vivono al di sopra dei loromezzi ecologici per cui occorronoalmeno tre pianeti solo per essi.

7. La distruzione progressiva delPatrimonio Storico e delle comu-nità tardo-antiche.Nelle grandi metropoli in espansione- attraverso l’urbanizzazione di im-mense aree agricole che dilatanoall’infinito le periferie e lo sprawl - icentri storici sono soffocati fino adessere distrutti per riproporzionare icentri urbani alle nuove dimensioni,con la conseguente disarticolazionedelle loro comunità. Nelle metropolicome il Cairo, Shanghai, Pechino,Calcutta, San Paolo, Rio de Janeirotale distruzione, causata dall’alto va-lore fondiario delle aree, è innescatasoprattutto dall’attraversamento digrandi fasci infrastrutturali a dislivelloche travolgono il tessuto storico con-siderato come un semplice ostacoloal progresso e non ia più tangibilememoria dell’uomo.

che avvolge il pianeta, basti osser-vare: che “tra il 1950 e il 1996 leesportazioni mondiali di merci sonoaumentate di 17 volte, da 311 miliardidi dollari a 5.400 miliardi”; che “neltrasporto aereo tra il 1950 e il 1998 ilnumero di passeggeri/km sulle rotteinternazionali e cresciuto quasi 100volte da 28 milioni a 2.600 “; che“ogni giorno circa 2 milioni di per-sone attraversano un confine inter-nazionale, mentre nel 1950 eranoappena 69 mila”; che “il numero dilinee teletoniche in tale periodo e cre-sciuto di otto volte, da 89 a 836milioni”(H. French, 2000).Questa rete planetaria in espansioneinarrestabile sfugge, ovviamente, adogni legge che non sia quella delmassimo profitto.Mentre essa alimenta i mercati mondialiin crescente concorrenzialità, integra legalassie megalopoiitane, le metropolimonocentriche, le città storiche inequilìbrio ambientale, quelle obese e lestesse bidonvilles che assediano lemetropoli marginali, in un’unica welt-stadt “infinita e senza forma”.

6. L’“Impronta ecologica” dellacittà planetaria oltre i limiti dellaNatura.L’impatto della città planetaria sullaecosfera e incontenibile e sempre piùimponente: “le città di oggi occupa-no il 2% della superficie terrestre, maconsumano il 75% delle sue risorse”(M. O’Meara ‘99). L’ipersfruttamento della Natura e lacrescente produzione di rifiuti stannoconsumando gli ecosistemi più rapi-damente di quanto essi possonoautorigenerarsi.Questo è causato dalla competizioneespansionistica mondiale dei paesipiù industrializzati e più indifferentiagli equilibri naturali.La dilagante impronta ecologica” (W.E. Rees, M. Wackernagel, ‘96) è evi-dente dalla deforestazione; in 50 anniè stato distrutto un quinto delle fore-ste tropicali, mentre “si prevede cheentro il 2050 la quota procapite di

Versione finale del progetto preliminare

Sopra e sotto: sezione longitudinale. Sono evidenziatil’insieme dei flussi di circolazione e quelli realtivi aglispazi privati, agli spazi riunione e alla direzione.

Vedi anche le immagini a colori in terza di copertina.

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Questo processo incalza nonostantele raccomandazioni dai poli opposti:della Carta di Atene: “i valori archi-tettonici devono essere salvati siache si tratti di edifici isolati che diinteri nuclei urbani. Essi dovrannoessere tutelati quando siano l’e-spressione di una cultura precedenteo rispondano ad un interesse gene-rale”; e della Carta del Machu Pic-chu: “e indispensabile che l’azionepreservatrice di restauro e riciclaggiodi ambienti storici e monumenti ar-chitettonici sia integrato nel pro-cesso vitale dello sviluppo urbano”.Queste raccomandazioni, confer-mate dalle numerose carte del re-stauro e dell’urbanistica, sono pun-tualmente disattese.

8. Il consumismo come accelera-tore esponenziale della produ-zione: la sua metamorfosi da vizioa virtù.Nella sconfinata capacità produttivadel modello di sviluppo occidentaleopera un acceleratore esponenziale:il consumismo.“La metamorfosi del consumo, da vizioa virtù, e uno dei fenomeni più impor-

tanti - eppure uno dei meno studiati -del XX secolo” (J. Rifkin ‘95).Esso fu evocato, per la prima volta inUSA negli anni ‘20: “davanti allospettro di una produzione eccessivae di una domanda insufficiente, leimprese americane iniziarono a farleva sulla risorsa della pubblicità perscuotere il pubblico”.Nella cultura della frugalità gli oggettidovevano durare a lungo, funzionarebene, rappresentare valori simbolicied estetici consolidati per essereconservati e tramandati.Viceversa, col “nuovo vangelo delconsumo”, gli oggetti debbono mu-tare con la moda, durare poco, fun-zionare meno, essere accattivanti ma“anestetici” e “asemantici” per finiresenza rimpianti in discariche semprepiù grandi con uno spreco delittuosodi materie prime e energie,Ammonisce G. Anders: “l’umanitàche tratta il mondo come un mondoda buttare via, tratta se stessa comeun’umanità da buttare via” (‘80). Indue secoli, il “cittadino” libero dellarivoluzione francese è stato ridottoad un “consumatore” eterodiretto!

9. L’apogeo e il tramonto dell’era deicombustibili fossili: il conflitto per ildominio mondiale delle energie.A partire dal 1700, in Inghilterra l’e-nergia non rinnovabile del carbon-coke ha sostituito quella rinnovabiledel legno, annunciando l’era dellamacchina a vapore e della rivolu-zione industriale.Oggi i combustibili fossili (carbone,petrolio e gas naturali) forniscono il90% dell’energia dei paesi indu-strializzati e il 75% dell’energia mon-diale consolidando uno stile di vitaindifferente allo spreco energetico.L’escalation dei consumi e inconteni-bile: se nel 1950 si bruciavano 463milioni di tonn. di petrolio, nel 1998 sie giunti a 3,4 miliardi; mentre tra il1975 e il 2000 il consumo e passatoda 20.512 milioni di barili annui a27,635; quello del gas da 44,4 trilionidi piedi cubici all’anno a 94,5; quellodel carbone da 3.300 ml di tonn.annui a 5.100. Nel 2000 i maggioriconsumatori mondiali di petroliorisultavano; gli USA con 2.325 mil. ditonn.; la Cina 1.609; la Russia 641;mentre l’Italia ne bruciava 184 mil.tonn.Un solo grattacielo di Chicago, ilSears Building, consuma elettricitàpari ad una città di 150 mila abitanti,mentre “in termini di consumi ener-getici, i 295 milioni di americanirichiedono un apporto energeticoequivalente a quello di 22 miliardi diesseri umani!” (J. Rifkin, ‘80),Ma l’era dei combustibili fossili e altramonto, l’International Energy A-gency prevede il peak della produ-zione mondiale di petrolio a meta del2020/30, a cui seguirà un declinosecondo una curva a campana; in-tanto e in atto una impennata deiprezzi oggi inarrestabile.Nessuno sa quale sarà il futuro ener-getico della citta planetaria, ma tuttiprevedono una crescente conflittua-lità per il dominio mondiale di talerisorsa.

Un’immagine dello stand dedicato al Concorso, costruire un simbolo urbano sostenibile: “Un grattacielo per Torino”.

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10. La crescita vertiginosa di rifiuti,inquinamento ed effetto serra: l’e-cocidio planetario.L’esplosione incontenibile della po-polazione e della weltstadt, la perva-sività del modello di sviluppo consu-mista, lo spreco scandaloso di ri-sorse ambientali ed energetiche, sitraducono fatalmente in un incontrol-labile inquinamento globale e cam-biamento climatico.In merito a quest’ultimo la previsione al2100 per l’Europa indica un aumentoda 2° a 6° rispetto al 1980. Intanto laConvezione Quadro delle NazioniUnite sul cambiamento climatico (‘92)fissava l’obiettivo della riduzione entroil 2000 di anidride carbonica ai livellidel 1990; mentre il protocollo di Kyoto(‘97) imponeva una riduzione del 6-8%entro il 2008-2012. Ma i risultati sonostati marginali. Di fatto: “quanto piùun’economia produce, tanto piùinquina” (J. E. Stiglitz, 2006). Ogni 24ore immettiamo nell’atmosfera circa70 ml di tonn. di C02. Se nel 1950 se nescaricavano 1,6 miliardi di tonn. di car-bonio, nel 1998 tale micidiale quantitàe salita a 6,4 miliardi. Mentre la produ-zione di rifiuti urbani cresce in propor-

zione all’economia consumista, sirecupera solo una minima parte dellematerie prime utilizzate.In Europa su 340 milioni di tonn./annodi rifiuti il 14% e riciclato, il 10% e tra-sformato in compost, il 54% finisce indiscarica e il 22% in inceneritori.Intanto le aree megalopolitane semprepiù massificate, congestionate e avve-lenate, formano isole di calore invivibiliche diventano praticabili al costo dismisurate reti impiantistiche e un con-sumo crescente di combustibili fossiliche, a sua volta, incrementa l’inquina-mento in un circuito perverso. Lemetropoli sono la prima causadell’“effetto serra” responsabile del-l’impatto devastante su geosfera,atmosfera, idrosfera e biosfera, cau-sando: mutazioni climatiche, estre-mizzazioni metereologiche, buchi nel-l’ozono, piogge acide, deforestazioni,desertificazioni, penuria di acquadolce, scioglimento dei ghiacciai,estinzioni di specie viventi, ecc..

11. L’autoreferenzialità dell archi-tettura nella società consumi-stico-spettacolare.Lo straordinario sviluppo economico

prodotto dalla rivoluzione industrialenegli ultimi 250 anni ha inciso profon-damente sul modo di concepire l’ar-chitettura.Questa si è polarizzata sempre piùintorno alle quattro tendenze sud-dette configurando coppie antinomi-che orientate: verso il Passato o ilFuturo e verso la Ragione o la Natura,che assumono responsabilità di-verse rispetto alla crisi ambientale inatto. In sintesi, le poetiche neostori-ciste, chiuse nell’autonomia discipli-nare, esorcizzano tale crisi rievo-cando un passato evidentementeimmune da essa; all’opposto, quelleproiettate verso il Futuro, aperte aduna visione interdisciplinare, l’affron-tano anche al limite dell’utopia; in-tanto le correnti razionaliste espres-sione dello statuto funzionalista con-tinuano ad ignorare la sua insosteni-bilità; mentre solo quelle di ascen-denza organica si orientano versoun’architettura che nasce e vive inequilibrio con la Natura. Dunque nella società consumistico-spettacolare la maggioranza di talitendenze ritiene l’architettura un lin-guaggio prevalentemente autorefe-renziale, cioé indifferente alla crisiambientale incombente.

Queste patologie sono giunte a unlivello di pericolosità tale da minac-ciare la sopravvivenza del pianeta!Ormai le “cose” si ribellano alle“parole”, i problemi sfuggono alletesi elaborate per governarle.Intanto la sinergia tra tecnocrazia,economicismo e mercatismo hacontinuato a ignorare l’ecocidio pla-netario in atto svelato e denunciato,dagli anni ‘70 in poi, dalla nuovavisione sistemica del mondo.

Essa ha evidenziato che il pianeta,in quanto ecosistema “vivente” inequilibrio autoregolato, non può piùessere governato da tali principi edalla politica del laisser-faire lais-ser-passer sempre più indifferentialla gravità della crisi ambientale,

Veduta d’insieme del plastico per il Concorso, costruire un simbolo urbano sostenibile: “Un grattacielo per Torino”.

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energetica e metropolitana, perve-nuta ad un punto di rottura.Oggi l’UlA, nel 60° anno dalla fonda-zione - in continuità con la Carta diMachu Picchu (‘77) “revisione antil-luministica della Carta di Atene” (B.Zevi) e con le Dichiarazioni del Mes-sico (‘78), Varsavia (‘81), Chicago(‘93), assume le sue responsabilitàdi fronte a tali sfide, contribuendo aelaborare strategie alternative, adampliare le competenze interdisci-plinari, a formare su tali tesi gliarchitetti del futuro.

Questo, nella consapevolezzache: “non è perché le cose sonodifficili che noi non osiamo, è per-ché non osiamo che sono difficili”(L. A. Seneca).

***Non bisogna far violenza alla Natura,bisogna persuaderla (Epicuro)

Verso ecometropolis e l’era post-consumista: la riscoperta del pa-radigma ecologico e della realtàdei “limiti dello sviluppo”.I 250 anni della rivoluzione industrialesono stati dominati per i quattroquinti dal paradigma meccanicista(analitico-riduttivo) e dal mito dello“sviluppo illimitato” che hanno pro-dotto insieme all’affluent society, lepatologie oggi incontrollabili.

Ma nell’ultima fase post-industriale, siè aperta una nuova prospettiva, seb-bene anticipata da profetiche intui-zioni: - il paradigma ecologico (sinte-tico-organico) consapevole, vice-versa, della realtà dei “limiti dello svi-luppo” è orientato verso un’era post-consumista, una nuova frontiera eco-metropolitana e un’architettura cheviva in simbiosi con la Natura!

Questo mutamento è in sintonia conle scienze che dal dopoguerra vannooltre il paradigma meccanicista: laCibernetica, la Teoria dei sistemi,della Gestalt, l’Ecologia, i Sistemi

voli che: “non bisogna far violenza allaNatura, ma persuaderla” (Epicuro);che “le cose fuori dal loro stato natu-rale, ne vi si adeguano, ne vi durano”(Giovanbattista Vico); che “nella Na-tura tutto e legato; uno stato tende adun altro e lo prepara” (J. G. Herder);che esiste un “ordine mobile” nellaNatura vista come “un Grande Tuttoarmonioso” (W. Goethe).Nell’architettura questa visione oli-stica si esprime nell’altro polo dellamodernità: nelle poetiche della conti-nuità plastico-spaziale; Cioé, nell’e-spressionismo, organicismo, futuri-smo, informale, de-costruttivismo.Queste - basate sull’impulso all’em-patia tendente a un dinamismo sinte-tico, antigeometrico, antimeccanico,antiseriale, morfogenetico - si pro-pongono come trasfigurazione idea-le delle energie che animano la Na-tura, ricerca di nuovi significati e sim-boli. Dunque, come superamentodell’asemanticità meccanicista, maanche dell’ecclettismo storicismo.Per Wright l’architettura organica “si-gnifica né più né meno, una societàorganica” incarnazione della demo-crazia e, in quanto tale “rifiuterà leimposizioni alla vita che sono indisaccordo con la Natura e il carat-tere dell’uomo”, testimoniando cosil’indipendenza dal classicismo nuo-vo e vecchio, da ogni estetismo ac-cademico” (‘39) e la convinzione che“l’essenza di una casa non consistenelle quattro pareti, ma nello spazioin cui si vive” (Lao Tze). Nella “grande dimensione” l’anti-riduzionismo oppone alla città dellaStoria e alla “ville-radieuse” dellaRagione, la “living city” integratanella Natura e proiettata verso ilFuturo.Questo in analogia alla concezioneorientale, che considera: “il cosmocome... un’unica realtà indivisibile, ineterno movimento, animata, orga-nica: materiale e spirituale nello stes-so tempo” (F. Capra, ‘75). In tale pro-spettiva si apre una possibilità ine-dita per affrontare la crisi ambientale

dinamici complessi, la Biologia oli-stica, la Scienza del Caos. Essosegna la transizione paradigmaticadal “diritto alla città’ (H. Lefebvre, ‘68)al “diritto alla Natura”.

Ovviamente tale transizione e tutt’al-tro che semplice da realizzare. Que-sto perché il paradigma meccanici-sta si e consolidato in oltre due secolidi rivoluzione industriale, dopo unalunga gestazione in seno alla culturaoccidentale, divenendo il “modo dipensare” indiscusso sotteso a tuttele culture. Scrive J. Rifkin: “già dalla metà delXVII secolo tutti gli elementi chiavedel paradigma meccanicista eranostati accuratamente connessi in unoschema unitario” (‘80).Bacone, Cartesio e Newton, con lariduzione del mondo a “quantità”misurabili e della “qualità” a illusione,avevano annunciato l’universo dellaprecisione e delle macchine.Nell’architettura moderna, scaturitadalla rivoluzione industriale, tale vi-sione riduzionistica si esprime nellepoetiche della stilizzazione riduttiva egeometrizzante; anzitutto, nell’“ar-chitettura degli ingegneri” ottocente-sca, quindi nel funzionalismo, razio-nalismo, costruttivismo, codificatinella Carta di Atene (‘33); infine nell’o-dierna high tech. Queste poetiche -basate sull’impulso all’astrazione ten-dente all’ordine analitico, geometrico,meccanico, seriale, schizomorfo -operano come teoria della distruzionepermanente del Significato, nega-zione della Storia e della Natura. Per-tanto, si calano perfettamente nel pro-cesso industriale taylorista.

Contro tale strapotere sono insorti;da un lato, i difensori della Storia che,sconvolti dall’asemanticità dello sta-tuto funzionalista, rievocano formedel passato adattandole ai problemiodierni; dall’altro, i difensori dellaNatura, che rifiutano il ritorno allaStoria, ma anche il riduzionismo car-tesiano. Questi ultimi sono consape-

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tutto in sito perché di importanzastrategica per la loro evoluzioneeconomica e sociale;

- azzerare il loro enorme debitopubblico;

- far decollare un vasto programmadi “microfinanza” sul modello pro-posto dal Premio Nobel Muham-mad Yunus, già sperimentato.

Queste scelte formano la precondi-zione per l’emancipazione di tali po-poli dal dominio esterno, per “affer-mare il diritto di controllare il propriodestino” (N. Mandela).

1.2 Un habitat entropico: da gar-den-city, living-city, arcology,verso la nuova frontiera eco-metropolitanaL’esplosiva crescita demografica eurbana, sinergica alla rivoluzione indu-striale, ha stimolato studiosi e architettia dare forme nuove alle città, organismi“viventi” sui generis perché cresconoin modo illimitato. Questo, a differenzadegli organismi animali programmatidalla Natura che, nell’attuale era biocli-matica, non possono superare la di-mensione delle balene. Più di unsecolo fa E. Howard, per correggere lepatologie dei due tipi di habitat prodottidalla rivoluzione protoindustriale, lagroszstadt e coketown, propose ilmodello della garden-city (1898-1902). In essa: “tutti i vantaggi della vita cit-tadina... e tutte le gioie e le bellezzedella campagna si trovavano in per-fetta combinazione”.Questa sintesi di natura e città eccel-leva nella “living city” di Wright ed erastata rilanciata dall’arcology di Soleri.Oggi, nell’era in cui la città ha mutato ilDNA divenendo metropoli ed il giar-dino ha assunto la grande scala del-l’ecologia, occorre immaginare eco-metropolis, un habitat “a rete”, coe-rente con l’era entropica, qualepotente accumulatore-elaboratore-scambiatore di cultura immateriale emateriale, ma non imploso bensì ineguilibrio dinamico con la Natura.Ma la “grande dimensione” e com-plessità dei problemi eco-metropoli-

in atto: una sintesi organica del vitali-smo delle metropoli e del rispetto inde-rogabile dell’ecologia. Questo a condi-zione di neutralizzare due miti consoli-dati: da un lato, quello “conservatore”del ritorno a un passato refrattario allamodernità, ma ritenuto depositario divalori simbolici; dall’altro, quello “pro-gressista” della potenza tecnocraticamodernista, sebbene indifferente allaStoria e alla Natura. Dunque, una sintesi non facile darealizzare che impone una pregiudi-ziale: “non scambiare come ‘valoridella modernità’ quelli che invecesono solo i suoi disastrosi inconve-nienti” (U. Galimberti, 2003).

Il paradigma ecologico, a rete, sco-prendo le leggi che regolano il dive-nire dei fenomeni fisici e la crescitadegli organismi viventi, si incarnanella visione olistica che consente la“pacificazione tra tecnosfera ed eco-sfera” (B. Commoner) indispensabileper la sopravvivenza del pianeta.

***Pertanto, se si vuole liberare la

modernità dai “suoi disastrosi incon-venienti” provocati dallo statutomeccanicista ormai insostenibile,occorre con urgenza una strategiaalternativa capace di perseguire:

1.1. Il disinnesco della bombademografica.Tale politica, annunciata già dal 1969all’ONU e riconfermata dal ‘74 nelledecennali conferenze mondiali sullapopolazione, e perseguibile contra-stando la “biopatologia della civiltà dimassa” sia nei paesi industrializzatiche in quelli in via di sviluppo.I primi già tendono a stabilizzarsi inragione dell’elevato livello economico,mentre nei secondi l’incontenibile cre-scita demografica è ancora dettatadall’alto rischio di mortalità per care-stie, epidemie, catastrofi naturali, po-vertà endemica, guerre, etc..Ma e noto che nei paesi in via di svi-luppo, soprattutto elevando il lorotenore di vita, si ottiene un naturalecontrollo demografico.A tal fine occorre: - non sottrarre ad essi le risorse

naturali che vanno utilizzate anzi-

Uno spazio dei tanti stand dedicati ai temi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio. Nell’immagine il plastico peril progetto architettonico dell’Atelier Jean Nouvel per la Marina di Rimini. Project financing Coopsette - Consorzio di coo-perative di produzione e lavoro

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Rimini marinaCome trasformare una città dalla vibrante tradizionepopolare in una moderna città di alto profilo culturale?Come relazionarsi con la presenza di un idolo e la culturaitaliana e l’impronta che ha avuto su quella mondiale.Come modificare l’immaginario dipinto di momenti sto-rici come quelli di Amarcord, 8 e 1/2, i vitelloni e la cittàdelle donne?Abbiamo considerato il progetto come una sequenzaurbana, una sequenza lineare di fotogrammi raccordatiin una passeggiata di attività interne ed esterne. Il segno,in pianta, segue il leggendario motivo del lungomare diCopacabana, ma lo reinterpreta tridimensionalmente;un motivo potente e riconoscibile, che evoca le incre-spature della sabbia e le onde del mare ed ha la incredi-bile capacità di permettere, ad un tempo, connessionilongitudianali e trasversali, esattamente in risposta alleesigenze del progetto: facilità l’insinuarsi dei passanti apasseggio per il lungo mare ed integra le direttrici stra-dali provenineti dalla città.

La “Marina di Rimini”, il pannello del progetto architettonico dell’Atelier Jean Nouvel, Project financing Coopsette - Consorzio di cooperative di produzione e lavoro

tani esige piani-progetti strategicicapaci di integrare le scale architet-tonica, urbana, paesaggistica, am-bientale, geotettonica, idrografica,ecc., spesso frantumate in compe-tenze settoriali incomunicabili.Pertanto appare sempre più evidenteil ritardo delle istituzioni nell’affron-tare i problemi della “grande dimen-sione” eco-metropolitana.

1.3. La rifondazione del modello disviluppo come sintesi di economiae ecologia.“La scienza economica corrente... ha

completamente ignorato la specialefunzione delle risorse naturali esauri-bili, nella modalità di comportamentidegli esseri umani “ (N. Georgescu-Roegen, ‘80). Di fatto “economici-smo”, “mercatismo” e PIL, espres-sioni del paradigma meccanicista edella dittatura tecnocratica, nondicono nulla della qualità della vita esono indifferenti alla crisi ambientaleche minaccia il pianeta.Questa e direttamente proporzionalealla crescita esponenziale della glo-balizzazione che negli ultimi ventianni e dilagata: dopo la caduta del

A - LungomareB - Aree di interventoC - Il traffico urbano divide la città dal mareD - ParcheggiE - ProgrammaF - Gli stabilimenti balneari bloccano la vista sul mareG - Fermate navettaH - ProgettoI - Connessioni create dal progettoL - Hotel

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muro di Berlino (‘89) nel blocco so-vietico: con l’accordo WTO sul mer-cato unico (Marrakech, ‘94) nel restodel mondo, escluso la Cina: infine inguest’ultima, dopo il suo ingresso nelWTO (2001).Per scongiurare il collasso planetariooccorre una svolta radicale: un rimo-dellamento dell’economia conven-zionale che neutralizzi le distorsionidella globalizzazione mercatista ri-spondendo alle esigenze odiernedell’uomo, ma salvaguardando an-che guelle delle generazioni future.Dunque, un nuovo ordine economico-ecologico, cioe bio-economico, chenon comprometta i cicli vitali del pia-neta. Questo nella consapevolezza,come scrive il premio Nobel per l’Eco-nomia Amartya Sen, che oggi “lediverse parti del mondo sono legatel’una all’altra più strettamente diquanto lo fossero mai state” (‘99).

1.4. Il riequilibrio eco-metropoli-tano dell’armatura urbana disim-pegnata dai grandi corridoi tran-snazionali.L’incontenibile crescita demografica,urbana ed economica post-bellica, hafatto esplodere le metropoli sul territo-rio, imponendo ai paesi che aspiranoal ruolo di leader una ristrutturazione

Veduta aerea del litorale di Rimini con l’intervento proposto.

radicale dell’armatura urbana. Essapuò essere governata attraverso trepolitiche complementari. Anzitutto,delocalizzare dalle città congestio-nate le grandi attività secondarie indistretti industriali situati sui nodiinfrastrutturali primari o addirittura inaltri paesi; quelle terziarie in “super-luoghi” extraurbani destinati a ma-croservizi, attrezzature, grande distri-buzione, piattaforme logistiche, inter-porti; nonché creare eco-towns qualiunità urbane ad autosufficienza pro-duttiva, funzionale, energetica, a svi-luppo controllalo. Inoltre, riconvertirele aree urbane dismesse e i centri sto-rici ad attività quaternarie quali; cen-tres de decision, conception, servicesrares e loisir, grandi parchi urbani,favorendo la civiltà della produzionedella conoscenza; e rinaturalizzandole aree decementificate. Infine, potenziare le infrastruttureintercity per formare costellazionipolicentriche a funzioni complemen-tari; cioé: “strutture a mosaico” (J.Gottmann) eco-metropolitane.In tali reti occorrerà individuare quelledirettrici capaci di assumere il ruolodi “assi di riequilibrio economico-ter-ritoriali”, quali attrattori di funzioni dilivello superiore, agganciati ai grandicorridoi transnazionali.

1.5. L’integrazione delle reti hard esoft in un cyberspace aperto, inte-rattivo ma in simbiosi con la bio-sfera.L’era post-industriale spinge inces-santemente: da un lato, verso spe-cializzazioni sempre più diversificate;dall’altro, verso una reintegrazioneinterdisciplinare sempre più inclu-siva. Questo doppio movimento de-termina una moltiplicazione continuadelle reti per lo scambio e la distribu-zione dei flussi di informazioni, mercie persone, garantendo una connes-sione sempre più estesa e articolatadella città planetaria.Oggi la potenza del sistema integratodelle reti hard e soft, scheletro por-tante della weltstadt, e tale da for-mare megalopoli anche transoceani-che, come nel caso di Ny-Lon, cioéNew York-Londra che, sebbene di-stanti circa seimila km, sono legateda pendolarità. Questo processo diglobalizzazione è irreversibile e ten-de a creare un cyberspace aperto,sempre più dinamico, complesso,interattivo che tuttavia, fatalmentesfugge ad ogni controllo. Pertanto lasua pervasività deve essere gover-nata attraverso strategie a scala geo-grafica-subcontinentale, elaborate econdivise dalle comunità nazionali e

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internazionali. Ma, soprattutto, talecyberspace deve identificarsi con lastrategia di riequilibrio della welt-stadt da rimodulare sulle leggi dellabiosfera.

1.6. Una “Nuova alleanza” con laNatura: oltre il riduzionismo dellostatuto funzionalista.“Secondo il Living Planet Index, pre-disposto daI WWF per misurare illivello di salute della Natura, questodal 1970 al 2000 è calato del 35%”(E. Gardner, 2004), mentre il PIL mon-diale lordo è salito dall’1,0 al 2,6.Questo paradosso spiega l’incomuni-cabilità tra scienze ambientali e eco-nomia convenzionale. Quaranta annifa R. Kennedy denunciò: “Il PIL misuratutto ad eccezione di quello che rendela vita degna di essere vissuta” (‘68).Dunque, è urgente una “Nuovaalleanza” (I. Prigogine, ‘79) con laNatura al fine di arginare la dilapida-zione delle risorse non rinnovabili e lepatologie che minacciano il pianeta.In tale contesto occorrerà coniugare:“i processi ciclici, conservatori e per-fettamente coerenti dell’ecosfera, equelli lineari innovativi, ma ecologica-mente disarmonici, della tecnosfera”(B. Commoner, ‘75).Solo realizzando questa conver-genza sarà possibile contenerel’“Impronta Ecologica” della cittàplanetaria e reinserirla nell’ordineautoregolato della Natura. Tale stra-tegia e tanto irrinunciabile quanto dif-ficile da perseguire. In primo luogo, perché impone ilmutamento del paradigma meccani-cista e dello statuto funzionalistaancora dominanti. In secondo luogo,perché la riduzione dell’“lmprontaEcologica” incontrerà le resistenzepiù ostinate nei paesi immersi nellacompulsione consumista.Poiché la drammaticità delle patolo-gie planetarie sfugge sempre più airimedi proposti, è evidente che oc-corrono nuove risposte radicali eimpegnative.Se l’architettura vuole contribuire alla

Dominique Perrault, Ewha Women’s University, Seul, South Corea 2004-2008

Perché la storia non è più un punto di riferimento per gli architetti contemporanei? Quelli dellamia generazione, e ancor di più le generazioni successive, concordano sul fatto che, rispettoall’architettura, la geografia ha ampiamente soppiantato la storia. Tale evoluzione di approcciteorici e sensibilità sta gettando le basi per l’architettura del domani, che si concentrerà innan-zitutto su luoghi, strategie, sistemi e vuoti, in breve sulla neutralizzazione della forma.Un tempo la disciplina propria del costruire muri, inserire porte, disegnare finestre e tettibastava al ruolo dell’architetto. Oggi, con la pressione di un altro parametro essenziale - l’ìn-cessante trasformazione dei territori - è diventata obsoleta. I territori sono sempre più com-plessi, diversi, frammentati, densi e inquinati. Un’architettura figurativa che si limiti all’uso diparole come «muri», «porte», «facciate» e «tetto» non può soddisfare adeguatamente i lorobisogni.Ora occorre pensare all’architettura in termini di paesaggi, essere quindi consapevoli del fattoche stiamo creando paesaggi artificiali, che la natura in cui viviamo è sempre più artificiale. Tuttii nostri sfrorzi tendono a modificare il tessuto urbano o, più esattamente, quella che potremmodefinire la sostanza urbana, una sfida tanto entusiasmante quanto allarmante perché gli archi-tetti non possono più disegnare la città. Devono accettare di non poterla più considerare uninsieme. Devono rinunciare alla ricerca dell’ideale utopico di determinarne la configurazione.Eppure, continuiamo a costruire edifici, infrastrutture e città. Prima di diventare «rapace» comelo è oggi, la città era essenzialmente un luogo protettivo, un luogo di nascita, sviluppo e radi-camento. Ha sempre portato dentro di sé la sua memoria e l’abbozzo del suo futuro prossimo. Macome si può riconciliare la città con l’idea di civiltà, della quale è un fondamento? Parte della rispo-sta risiede nei rapporti che instauriamo tra il luogo, da un lato, e l’edificio, dall’altro. Il concetto diinvolucro sta all’incrocio di queste due considerazioni perché le unisce. Tale interfaccia può essereincorporata in uno strato, in uno spessore o in uno spazio che s’infila tra l’edificio e il suo contesto,tra l’artificiale e il naturale. Lo scopo di questa procedura è ottenere la trasformazione della parte(architettura) nel tutto (paesaggio). Più che una semplice percezione indistinta, l’involucro causauna sorta di effetto scomparsa dell’edificio fino alla sua graduale sparizione. A prescindere dalleragioni che ne giustificano la costruzione, cioè delimitare, proteggere o isolare, il muro crea sepa-razione: il proibito. Una volta che si è pienamente consapevoli di questo limite, la sfida consiste neltrasfigurare l’oggetto che separa per sostituirlo con qualcosa che unisca, leghi e crei interrelazionee scambio: bisogna immaginare muri che siano più di semplici muri, cioè realizzare luoghi di tran-sizione tra l’esterno e l’interno, tra il pubblico e il privato, tra il magma urbano e la sfera intima; sosti-tuire il muro con un «in mezzo», un tipo nuovo di spazio che susciti la curiosità degli utenti, ne col-pisca l’emotività e, aggirando il filtro dell’intelletto, arrivi dritto al cervello.

(Cfr. Il Giornale dell’Architettura/UIA 2008, special daily edition, 1 July 2008, Umberto Allemandi & C. Editore, Torino).

Ewha Women’s UniversityDominique Perrault

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costruzione della ineludibile prospet-tiva di “far pace col pianeta” (B. Com-moner) ha l’elementare dovere diporre in discussione le sue certezzetecnocratiche e mercatiste, ormaiinsostenibili, e tendere alla rifonda-zione del suo statuto sulla base di una“Nuova Alleanza” con la Natura.

1.7. La tutela del Patrimonio sto-rico e degli abitanti, dei siti antro-pizzati e delle comunità tardo-antiche.La tutela del Patrimonio storico del-l’umanità in quanto bene unico e irri-producibile come quello della Na-tura, è di capitale importanza per lasopravvivenza dell’uomo e della suamemoria. Nei paesi industrializzati,dove si riscontra una crescita demo-grafica zero e una eccedenza di vanirispetto agli abitanti, è possibileattuare la difesa integrale della cittàstorica perché rappresenta ormaiuna parte ridotta rispetto alla massic-cia edificazione dal dopoguerra.

Nei paesi in via di sviluppo, taletutela è più difficile perché la cittàstorica rischia di essere travoltadalla pressione demografica eurbana incontrollabile.Ma tale crescita potrà essere soddi-sfatta realizzando fuori dai centri sto-rici unità abitative bioclimatiche, contecnologie radicate nel genius loci.Intanto la salvaguardia delle preesi-stenze storiche deve essere accom-pagnata da quella delle comunitàche le abitano, cosi come vanno pro-tetti i siti antropizzati e le comunitàtardo-antiche sopravvissute, garan-tendo il loro libero diritto alla biodi-versità antropologica e culturale.Soprattutto nella convinzione che:“... al passato non si può ritornare,ma proprio per questo la memoria ele vestigia del passato devonoessere salvaguardate nel modo piùradicale” (E. Severino, 2003)

1.8. Dall’economia dello sprecoalla sobrietà post-consumista: la

…. gli spiriti abitano gli alberi, le rocce e i fiumi. Sul Monte Moriya, gli dei della montagna sonooggetto di particolare venerazione. Sono stato allevato ai piedi della montagna in un contestoprofondamente animista. Nel momento in cui ho iniziato a lavorare al progetto, mi sono subito tro-vato in difficoltà, per iI fatto che l’architettura contemporanea non è in sintonia con la fede scintoistae con il paesaggio naturale. L’architettura del XX secolo si reggeva sulla scienza e sulla tecnologia,e nutriva scarso interesse per la natura.Ho rivisto il mio approccio, cercando di creare un progetto ispirato alle abitazioni e ai templi tradi-zionali della zona, ma è stata un’esperienza strana, in qualche modo. In quanto storico dell’archi-tettura, l’ho trovato spiazzante. Lo stile tradizionale delle case e dei templi risale all’epoca in cui inGiappone iniziò a diffondersi l’agricoltura, ma non è appropriato per questa fede, ereditata da un’erain cui i giapponesi erano semplici cacciatori-raccoglitori, molti secoli fa. Dovevo progettare qual-cosa di adeguato a questa fede, le cui origini sono ancora più lontane.Il mio metodo esplora il rapporto tra architettura e natura. Alla base vi sono due problemi. Il primo èche terra, pietra, bambù, stoppie, corteccia e legno carbonizzato sono tutti materiali naturali che tro-vano impiego nell’architettura, ma che non reggono il confronto con quelli industriali, rispetto ai qualisono meno affidabili e resistenti. Ecco perché uso materiali di fabbricazione industriale per la strut-tura degli edifici e materiali naturali per le rifiniture. In questo modo l’aspetto dell’edificio è in armo-nia con la cornice naturale in cui è immerso, mentre la tecnologia impiegata nella struttura com-pensa la debolezza del materiali naturali.Questo approccio si è rivelato vincente e ha dato vita a uno stile senza precedenti, non necessaria-mente ancorato a un’epoca o a un luogo specifici.L’altra questione ha a che vedere con l’ìntroduzione delle piante, elemento essenziale della natura,nei miei progetti architettonici. Il problema dei tetti-giardino proposti da Le Corbusier risiedeva nelfatto che non riuscivano a conciliare la bellezza della vitalità della pianta con l’estetica dell’impiantoarchitettonico. Ho pensato allora a un nuovo modo di integrare le piante negli edifici, un’alternativaal tetto-giardino: piantare file di denti di leone lungo le pareti e sul tetto di una casa, coprirne la som-mità con erba cipollina, camelie o pini. Mi piacerebbe condividere con il mondo questo insolito con-nubio fra vegetazione e architettura. In seguito ho dovuto fronteggiare un ulteriore problema, quellodel «minimo sufficiente»: come fare per ridurre al minimo le dimensioni di un edificio preservando lesue caratteristiche essenziali? In uno spazio molto piccolo, ad esempio, introduco il fuoco per indi-care che si tratta di una dimora umana. Partendo dalla Takasugi-an la «Casa da tè troppo alta»,posta a un’altezza di oltre 6 metri, propongo sei opere che prendono nettamente le distanze daglistandard dell’architettura novecentesca.

(cfr. Il Giornale dell’Architettura/UIA 2008, special daily edition, 2 July 2008, Umberto Allemandi & C. Editore, Torino).

Terunobu Fuijmori Tea houses by: Chashitsu Tetsu, Hokuto (Yamanashi), 2005; Takasugi-An, Chino (Nagano), 2004.

Tea housesTerunobu Fuijmori

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liberazione della coscienza omo-logata dell’uomo-massa.Nel 1923 la incalzante richiesta dimodernizzazione della civiltà di mas-sa emergente in un’Europa non an-cora consumista era tale da legitti-mare il dilemma lecorbuseriano: ar-chitettura o rivoluzione! Oggi la gravità delle patologie am-bientali derivate dallo spreco imponeun diverso e più grave dilemma: eco-nomia della sobrietà o collasso del-l’ecosistema planetario!La saggezza suggerisce di realizzareun’indifferibile rivoluzione dello stiledi vita in senso post-consumista.Essa deve contrastare il principiodistruttivo che domina nel ciclo pro-duzione-consumo imponendo l’im-pero nichilista dell’effimero.Infatti: “si producono merci per sod-disfare bisogni, ma si producono bi-sogni per garantire la continuità dellaproduzione delle merci” scrive U.Galimberti (2003); il quale ricorda cheil consumismo è un “vizio nuovosconosciuto alle generazioni che cihanno preceduto”; e che “ogni pub-blicità è un appello alla distruzione”.Dunque, nella società low cost “usa egetta” occorre liberare la coscienzaomologata dell’uomo-massa resti-tuendogli la responsabilità indivi-duale per distinguere sempre più il“diritto alla democrazia” dalla “tiran-nia della maggioranza” (A. de Toc-queville).

1.9. La città dell’era solare (Eliopolis)e delle energie rinnovabili: la ricon-versione dell’habitat planetario.Nel 1957 il fisico americano Conantdenunciava: “ad ogni minuto giungesulla terra una quantità di energia paria quella generata dalla combustionedi 100 milioni di tonn. di lignite”; econcludeva: “non la fissione atomicabensì il sole costituirà la nostra futurafonte energetica”. Oggi i progressi nelsolare termico e fotovoltaico confer-mano tale giudizio, ribadito da CarloRubbia: “nè petrolio, nè carbone, sol-tanto il solare può darci energia”

sola soluzione possibile consiste nel-l’eliminare la causa”, afferma J. Ri-fkin, che aggiunge: “l’alternativa allospreco generalizzato di ogni energiadisponibile e al riscaldamento delpianeta è una diffusione internazio-nale dei valori e delle regole del para-digma entropico”.Pertanto, la nuova civiltà post-con-sumista si dovrà orientare su quattropunti cardinali: - attivare una duplice strategia di

riduzione degli sprechi delle ma-terie prime all’inizio del ciclo pro-duttivo e di riciclaggio delle stessedopo il loro uso;

- ridurre drasticamente le emissionidi gas-serra (la Direttiva Europeadel 23 gennaio 2008 prevedeentro il 2020 la riduzione del 20%di C02, CFC, protossido di azoto,metano rispetto al 1990) e accele-rare il passaggio dall’era dei com-bustibili fossili all’era dell’energiarinnovabile;

- rifondare il modello di sviluppooccidentale e la città planetaria insenso postconsumista, eco-me-tropolitano, rimettendoli in equili-brio con la Natura;

- intraprendere una lungimirantepolitica non solo di difesa delleforeste attuali, ma di riforestazio-ne del pianeta (che ancora 500anni fa ne era estesamente co-perto) facendola penetrare sem-pre più all’interno delle metropoli.Questa strategia ha il compitostorico di opporsi alla “posizionedella civiltà moderna che dice:“aumenta i tuoi bisogni” (M.Gandhi, ‘47)

In altri termini: “possiamo risolvere iproblemi (che minacciano il pianeta)se abbandoniamo il modo di pensare(meccanicista) che li ha creati”.

1.11. Un’architettura digitale come“protesi della Natura”, diritto allabiodiversità estetica, etica e poli-tica.Se l’architettura dell’era elettronica,digitale, vuole contribuire a neutraliz-

(2008). Nel 2000 i consumi energeticimondiali relativi alle diverse fontirisultano: per combustibili fossili, il77%; nucleare, 6%; idroelettrico ebiomasse tradizionale, 15%; nuoveenergie rinnovabili, appena il 2%.Quest’anno una Direttiva Europeaprescrive l’aumento delle energie rin-novabili entro il 2020 dall’odierno8,5% al 20%. Intanto il tramonto del-l’era dei combustibili fossili costitui-sce uno spartiacque energetico epo-cale che “richiederà una riconfigura-zione completa dei settori dei tra-sporti, delle costruzioni e dell’elettri-cità” (J. Rifkin, 2007); in sintesi, unarifondazione dell’habitat planetarioazionato dai cicli della biosfera. Intale contesto l’architettura sarà “in-telligente” non se sarà sovraccaricadi impianti tecnici ma, al contrario, seli ridurrà riconvertendo quelli indi-spensabili, anzitutto ai “sistemi pas-sivi”, quindi alle energie rinnovabili:solare, eolico, geotermico, idrogeno,biomasse, biocarburi, ecc..La nuova architettura dell’era solarepotrà immaginare Eliopolis, unastruttura spaziale alimentata soprat-tutto dal sole che farà apparire l’ar-chitettura odierna, sempre più obe-rata da reti impiantistiche centraliz-zate: arcaica, costosa, invivibile.Questo potrà accelerare la rottama-zione delle periferie dormitorio dasostituire con eco-city a sviluppoverticale ed autosufficienza energe-tica.

1.10. La nuova civiltà entropica delriciclaggio, del controllo dell’m-quinamento e dell’effetto serra.La gravita e l’estensione dell’inquina-mento planetario risulta evidentedalle visioni satellitari che mostranola sua perfetta coincidenza con learee megalopolitane.Esso incalza nonostante l’adozionefino al 2000 di circa 230 trattati inter-nazionali di interesse ambientale. Lasituazione e ormai allarmante per-ché; “non esiste un rimedio tecnolo-gico al fenomeno dell’effetto serra, la

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zare le patologie degli ecosistemi edelle grandi aree urbane, deve an-dare oltre i linguaggi autoreferenzialiche le ignorano, siano essi accade-mici (neostoricistici, anti-post-mo-dernisti, neo-tardo-razionalisti) osperimentali (high tech o decostrutti-visti), ormai in fase involutiva.Essa si dovrà orientare verso unanuova frontiera eco-metropolitana,postconsumista, per cui non potràche ripartire dalla profezia della“living city”, quale organismo “vi-vente” in simbiosi con la Natura.Pertanto, dovrà essere capace diconciliare ie opportunità offerte dallametropoli con le ragioni ineludibilidell’ecologia, al di là della resa alladittatura tecnocratica o alle consola-torie nostalgie antiurbane. In sintesi,l’architettura tenderà a configurarsisempre più come una “protesi dellaNatura”, andando oltre il formalismo.Essa si preciserà come un dinami-smo plastico-spaziale imprevedibile,perché: bioclimatico, legato al ge-nius loci, partecipato, espressionelibertaria del vissuto esistenziale,dell’immaginario collettivo e del di-ritto alla biodiversità estetica, etica epolitica.

A chi obietterà che tale strategia eopinabile o utopica, si può repli-care che, viceversa, essa è obbli-gata e realistica!Questo per tre ragioni capitali:

l’imminente fine dell’era dei com-bustibili fossili, che indurrà lariconversione ad altre energie delciclo produttivo e della città plane-taria; la minaccia dell’effetto serraalla sopravvivenza del pianeta, cheesige una svolta strategica versola “pacificazione tra tecnosfera eecosfera”; il fallimento etico delconsumismo nichilista responsa-bile, in nome del superfluo, delladistruzione della Natura.

Ma tali smisurati problemi sonoirrisolvibili senza la rivoluzionariatransizione culturale dal para-digma meccanicista a quello bio-ecologico capace di rimodellare lamodernità sui cicli della Natura.

Questo nella convinzione che:“l’essenza della civiltà non consi-ste nella moltiplicazione dei desi-deri, ma nella deliberata e volonta-ria rinuncia ad essi”.(M. Gandhi)

Intanto, i tempi per una svolta radi-cale si riducono sempre più e nonla si può delegare a nessuno. Infatti: “di tutti gli organismi viventisulla terra, solo noi esseri umaniabbiamo la capacità di mutareconsapevolmente il nostro agire.Se si deve fare pace col Pianeta,siamo noi a doverla fare”.(B. Gommoner)

Queste le parole di Muhammad Yunus,specchiatevici dentro: “Nel 1971 il Ban-gladesh ottenne l'indipendenza e lagente moriva nel modo più lento, di fame.lo insegnavo all'università brillanti teorieeconomiche, ma quando uscivo non misentivo credibile. Mi bastò una settimananei villaggi per capire che se il problemaera difficile, la soluzione era facile”.Attenzione, perché il segreto dell'idea-tore del microcredito (1976), vincitore delNobel per la pace (2006) e dell'Aga KhanAward for Architecture (1989), è di unasemplicità disarmante: «Quando mi chie-dono come ho fatto rispondo: ho stu-diato bene le mosse del nemico, la bancatradizionale, e ho fatto l'esatto opposto.La gente allora si mette a ridere. Invecefunziona davvero". Ora che l’UIA volge altermine, architetti e non, abbiamo capitomeglio chi è il nostro nemico?

(Cfr. Il Giornale dell’Architettura/UIA 2008 specialdaily edition, 3 July 2008, Umberto Allemandi & C.Editore, Torino).

How to beatthe systemDaniela Ciaffi