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[email protected] facebook.com/mario.pireddu friendfeed.com/mariopireddu twitter.com/logudoro mariopireddu.net [testo per il volume Le filosofie di Avatar(a cura di Antonio Caronia), Mimesis, 2010] अवतार - Avatāra’s blue view Mario Pireddu Octave è un ragazzo che sta per lasciarsi morire dopo aver scoperto che la donna di cui si è innamorato, una contessa bellissima, è in realtà già sposata. Con l’aiuto di un mago, però, attraverso un rito indù chiamato Avatar, Octave riesce a trasferire la propria anima nel corpo del marito della contessa. È la trama di Avatar, racconto del 1857 di Théophile Gautier 1 , da cui il regista italiano Carmine Gallone ha tratto nel 1916 il film Avatar. Lo scambio delle anime. Nel film Avatar del 2004, girato a Singapore dal regista Jian Hong Kuo, la cacciatrice di taglie Dash MacKenzie si muove in un futuro prossimo in cui le persone sono identificate attraverso microchip impiantati all’interno del corpo e connessi a una rete globale. Nella sua ricerca per catturare uno dei criminali responsabili della diffusione di falsi chip noti come SIMs (Simulated Identity iMplants), la protagonista scopre che a cospirare e a gestire i destini di milioni di persone nel mondo sono le cinque più grandi corporations del pianeta. Il film di Jian Hong Kuo è stato distribuito anche con i titoli Avatar Exile, Cyber Wars, Matrix Hunter. Si potrebbe dire che l’Avatar di James Cameron, oggetto dei saggi di questo volume, riunisca in sé gli elementi degli altri due film dallo stesso nome, seppur così diversi e lontani tra loro. Cameron mette in scena infatti l’evocazione di una spiritualità esotica e potente in grado di rendere possibile l’impossibile (uno scambio di anime), così come l’interconnessione in quanto condizione inevitabile e problematica allo stesso tempo. Più nel dettaglio, va detto che non c’è vero ‘scambio di anime’ nel film di Cameron – giacché l’avatar usato da Jake Sully è un corpo morto, vivo unicamente se connesso a un controllore umano – ma piuttosto mind uploading, un riversamento di coscienza (mente, psiche, anima, spirito?) all’interno di un contenitore originariamente vuoto. Ancora, nel film di Cameron la “connettività” realmente pervasiva non è quella tecnologica dell’interfacciamento uomo-dispositivo-avatar, ma quella pre-tecnologica o organica del mondo di Pandora e dei suoi abitanti (Na’vi, animali, vegetali). Avatar, come tutti i prodotti di successo dell’industria culturale di massa, rielabora in sé precedenti narrazioni, riferimenti, immaginari e archetipi. Umberto Eco spiegava con queste parole il grande successo di Casablanca: «si è tentati di leggere Casablanca come Eliot aveva riletto Amleto. Il cui fascino egli attribuiva non al fatto che fosse un'opera riuscita, ché anzi la giudicava tra le meno felici di Shakespeare, ma proprio alla ragione opposta: Amleto sarebbe l'effetto di una fusione non riuscita tra vari Amleti precedenti, uno in cui il tema era la vendetta (con la follia come puro stratagemma), e l'altro il cui tema era la crisi dovuta alla col-pa della madre, con la conseguente disproporzione tra la tensione di Amleto e la imprecisione e inconsistenza del delitto materno. Così che la critica e il pubblico lo trovano bello perché interessante, credendolo interessante perché bello. A Casablanca, in proporzione minore, è successo lo stesso: […] gli autori ci hanno messo dentro tutto. E per mettere tutto sceglievano nel repertorio 1 http://books.google.it/books?id=TLntAAAAMAAJ&q=theophile+gautier+avatar&dq=theophile+gautier+avatar&cd=1

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Testo per il libro "Le filosofie di Avatar" (a cura di Antonio Caronia), Mimesis, 2010.

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[testo per il volume “Le filosofie di Avatar” (a cura di Antonio Caronia), Mimesis, 2010] अवतार - Avatāra’s blue view Mario Pireddu Octave è un ragazzo che sta per lasciarsi morire dopo aver scoperto che la donna di cui si è innamorato, una contessa bellissima, è in realtà già sposata. Con l’aiuto di un mago, però, attraverso un rito indù chiamato Avatar, Octave riesce a trasferire la propria anima nel corpo del marito della contessa. È la trama di Avatar, racconto del 1857 di Théophile Gautier1, da cui il regista italiano Carmine Gallone ha tratto nel 1916 il film Avatar. Lo scambio delle anime. Nel film Avatar del 2004, girato a Singapore dal regista Jian Hong Kuo, la cacciatrice di taglie Dash MacKenzie si muove in un futuro prossimo in cui le persone sono identificate attraverso microchip impiantati all’interno del corpo e connessi a una rete globale. Nella sua ricerca per catturare uno dei criminali responsabili della diffusione di falsi chip noti come SIMs (Simulated Identity iMplants), la protagonista scopre che a cospirare e a gestire i destini di milioni di persone nel mondo sono le cinque più grandi corporations del pianeta. Il film di Jian Hong Kuo è stato distribuito anche con i titoli Avatar Exile, Cyber Wars, Matrix Hunter. Si potrebbe dire che l’Avatar di James Cameron, oggetto dei saggi di questo volume, riunisca in sé gli elementi degli altri due film dallo stesso nome, seppur così diversi e lontani tra loro. Cameron mette in scena infatti l’evocazione di una spiritualità esotica e potente in grado di rendere possibile l’impossibile (uno scambio di anime), così come l’interconnessione in quanto condizione inevitabile e problematica allo stesso tempo. Più nel dettaglio, va detto che non c’è vero ‘scambio di anime’ nel film di Cameron – giacché l’avatar usato da Jake Sully è un corpo morto, vivo unicamente se connesso a un controllore umano – ma piuttosto mind uploading, un riversamento di coscienza (mente, psiche, anima, spirito?) all’interno di un contenitore originariamente vuoto. Ancora, nel film di Cameron la “connettività” realmente pervasiva non è quella tecnologica dell’interfacciamento uomo-dispositivo-avatar, ma quella pre-tecnologica o organica del mondo di Pandora e dei suoi abitanti (Na’vi, animali, vegetali). Avatar, come tutti i prodotti di successo dell’industria culturale di massa, rielabora in sé precedenti narrazioni, riferimenti, immaginari e archetipi. Umberto Eco spiegava con queste parole il grande successo di Casablanca: «si è tentati di leggere Casablanca come Eliot aveva riletto Amleto. Il cui fascino egli attribuiva non al fatto che fosse un'opera riuscita, ché anzi la giudicava tra le meno felici di Shakespeare, ma proprio alla ragione opposta: Amleto sarebbe l'effetto di una fusione non riuscita tra vari Amleti precedenti, uno in cui il tema era la vendetta (con la follia come puro stratagemma), e l'altro il cui tema era la crisi dovuta alla col-pa della madre, con la conseguente disproporzione tra la tensione di Amleto e la imprecisione e inconsistenza del delitto materno. Così che la critica e il pubblico lo trovano bello perché interessante, credendolo interessante perché bello. A Casablanca, in proporzione minore, è successo lo stesso: […] gli autori ci hanno messo dentro tutto. E per mettere tutto sceglievano nel repertorio

1 http://books.google.it/books?id=TLntAAAAMAAJ&q=theophile+gautier+avatar&dq=theophile+gautier+avatar&cd=1

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del già collaudato. Quando la scelta del già collaudato è limitata, si ha il film di maniera, di serie, o addirittura il Kitsch. Ma quando del già collaudato si mette proprio tutto, si ha una architettura come la Sagrada Familia di Gaudì. Si ha la vertigine, si sfiora la genialità»2. Eco continuava parlando di “intrico di Archetipi Eterni”, ovvero “situazioni che hanno presieduto alle storie di tutti i tempi”: «di solito per fare una buona storia basta una sola situazione archetipa. E avanza. Per esempio, l'Amore Infelice. Oppure la Fuga. Casablanca non si accontenta: le mette tutte. La città è il luogo di un Passaggio, il passaggio verso la Terra Promessa […] Per passare però ci si deve sottomettere a una prova, l'Attesa […] Per passare dal vestibolo dell'attesa alla terra promessa ci vuole una Chiave Magica: è il visto. Intorno alla Conquista di questa chiave si scatenano le passioni. La mediazione alla chiave sembra data dal Denaro […] ma alla fine si scoprirà che la Chiave può essere data solo attraverso un Dono (che è dono del visto, ma è anche il dono che Rick fa del suo Desiderio, sacrificandosi). Perché questa è anche la storia: di una ridda di Desideri di cui solo due vengono soddisfatti […] Tutti coloro che hanno passioni impure, falliscono. E quindi, altro archetipo, trionfa la Purezza. Gli impuri non raggiungono la terra promessa, scompaiono prima; però realizzano la Purezza attraverso il Sacrificio: ecco la Redenzione». La vicenda che in Avatar richiama “situazioni che hanno presieduto alle storie di tutti i tempi” è quella dello Straniero Giusto che lotta e si sacrifica per i Buoni (nativi in armonia con la Natura) contri i Cattivi (umani capitalisti e predatori), e che trova l’Amore con un membro importante della comunità che lo ospita. La guerriera Neytiri, infatti, del clan degli Omaticaya, è la figlia di Eytucan e di Mo’at (rispettivamente olo’eyktan e tsahik del clan), e dunque predestinata ad essere la prossima tsahik e promessa sposa di Tsu’Tey, il guerriero a sua volta destinato a divenire capoclan dopo Eytucan. La guerra non paritaria (e dunque ‘impossibile’) di un popolo contro gli aggressori si configura quindi, per rimanere al linguaggio di Eco, come un Archetipo Eterno tra i più riconoscibili. Archetipo potente in quanto universale, e proprio per questo fonte di innumerevoli rivendicazioni identitarie. Il popolo che abita Pandora difende il proprio territorio contro la violenza distruttrice degli umani alla ricerca delle risorse naturali utili alla produzione di energia. Da una parte creature autoctone in armonia con gli altri esseri viventi e animate da un forte attaccamento verso la loro terra, dall’altra ‘alieni’ umani forti della propria superiorità tecnologica, disposti a tutto pur di ottenere quel che vogliono. L’Archetipo traduce conflitti reali o immaginari che l’uomo conosce da sempre: indigeni contro colonizzatori, indios contro governi e multinazionali, indiani contro cowboys, oppure ancora afgani e iracheni contro americani e europei, tibetani contro cinesi. È nota la vicenda della parziale sostituzione nelle sale della versione in 3D di Avatar con un film su Confucio da parte delle autorità cinesi3, da molti letta come tentativo di arginare possibili rivendicazioni ‘separatiste’. Lo stesso Cameron avrebbe più volte sottolineato il messaggio ‘politico’ del film: “we went down a path that cost several hundreds of thousands of Iraqi lives. I don’t think the American people even know why it was done. So it’s all about opening your eyes”4. Alla sorte dei Na’vi hanno fatto esplicito riferimento alcuni dimostranti palestinesi durante il mese di gennaio 2010, in una manifestazione alla quale hanno partecipato dipingendosi il volto di blu e indossando i costumi dei nativi di Pandora, per suggerire il parallelo tra la violenza degli umani su Pandora e le politiche del governo israeliano in Palestina. Ai Na’vi hanno fatto riferimento anche alcuni militanti della Lega Nord, sostenendo che la “Padania” sarebbe come Pandora, invasa e occupata da stranieri animati da cattive intenzioni (immigrati, clandestini, musulmani, etc.). La Lega Nord è lo stesso partito politico che, con un abile capovolgimento semantico, utilizza da anni nei propri manifesti l’effigie di un nativo americano con le scritte “Loro hanno subito l’immigrazione. Ora vivono nelle riserve! Pensaci”, “Gli indiani non sono riusciti a fermare l’invasione. Credi di essere forte come gli indiani e sopravvivere nelle riserve?”. Un 2 “Amleto all’assedio di Casablanca”, pubblicato nel 1975 su L'Espresso e riproposto nella raccolta antologica Letteratura e cinema, a cura di Gian Piero Brunetta (Zanichelli, 1976). 3 http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/01/19/news/avatar_cina-2001788/ 4 http://blogs.telegraph.co.uk/news/nilegardiner/100019656/is-avatar-an-attack-on-the-iraq-war/

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capovolgimento semantico decisamente più riuscito, e certamente più amaro, circola d’altronde da tempo negli ambienti culturali dei nativi americani: l’immagine di un gruppo di ‘American Indians’ con i fucili in mano, e la scritta “Homeland Security: Fighting terrorism since 1492”, con un esplicito riferimento alla “War on Terror” portata avanti con particolare determinazione dal governo degli Stati Uniti negli anni dell’amministrazione Bush. I movimenti politici che si definiscono esplicitamente contrari agli scambi culturali, quando non apertamente xenofobi o razzisti (che in Europa registrano progressivi aumenti di consensi), prosperano da sempre sulla paura di “divenire minoranza”: si pensi a titolo di esempio alle reazioni della estrema destra statunitense dopo l’elezione alla presidenza di Obama, o di fronte alle alterazioni nelle percentuali di ‘bianchi’, ‘neri’, ‘ispanici’ e ‘asiatici’ sul totale degli abitanti degli Stati Uniti, che sembrano indicare una diminuzione costante del gruppo ‘wasp’5. La vicenda dei nativi americani, per tornare al film, è stata da più parti giustamente rievocata, dato che la trama di Avatar si inscrive dichiaratamente nella corrente culturale del going native, ricalcando profondamente vicende narrate in altri film. Il film di Cameron è stato tacciato da esponenti conservatori, come già altre opere in passato, di “anti-americanismo”. In particolare, la vicenda umana di Jake Sully ricorda da vicino quella del tenente John Dunbar, protagonista del celebre Dances with Wolves di Kevin Costner, il quale arriva a rinnegare il proprio passato di soldato e di “uomo bianco” in seguito all’integrazione in una tribù Sioux durante la Guerra di Secessione americana. E la lotta dei Na’vi contro gli umani non può non ricordare la lotta disperata che le tribù Sioux dovettero sostenere contro i colonizzatori bianchi nel XIX secolo, quando questi ultimi scoprirono che le Black Hills – montagne sacre per i Lakota e riconosciute di loro proprietà da un accordo firmato con il governo di Washington6 – erano ricche di minerali preziosi. Come già centinaia di miti e racconti, Avatar mette in scena un duplice senso di colpa: ricorrendo al patrimonio storico di narrazioni ormai millenarie, rappresenta il senso di colpa per le conseguenze del colonialismo europeo e occidentale nel resto del mondo, e facendo appello al crescente discorso ambientalista intende far riflettere su quel che l’umanità sta facendo al pianeta che la ospita7. Funzionale a questa narrazione è la rappresentazione del nativo come buon selvaggio, capace di vivere in perfetta sintonia con l’ecosistema della Natura e con il suo Spirito Vitale (Eiwa), tanto da regolare in modo meticoloso l’uccisione di altri esseri viventi unicamente in funzione della sopravvivenza. L’uccisione di animali per puro piacere e divertimento è una attività degli esseri umani, evidentemente abituati alla creazione di dolore e sofferenza inutili. In questa raffigurazione gioca un ruolo centrale la sfera del Sacro: seguendo il discorso di Eco, si possono individuare Luoghi Magici, Sacrificio, Redenzione. In Avatar, proprio come in migliaia di altre narrazioni, archetipi appartenenti al regime discorsivo del Sacro come la Redenzione e il Sacrificio attraversano tutto il film: il sacrificio di Grace Augustine, la scienziata che dirige il progetto di avvicinamento ai nativi, che muore dopo il non riuscito rito sacro officiato da Mo’at, matriarca dei Na’vi; il sacrificio dell’elicotterista Trudy, che riconosce di non essersi arruolata per distruggere intere popolazioni al fine di controllare materiale prezioso per le multinazionali. Così come le Black Hills erano sacre ai Sioux e furono violate dagli invasori bianchi, anche i luoghi distrutti dagli umani nella lotta contro i Na’vi vengono simbolicamente scelti tra i luoghi più sacri ai nativi. Gli HomeTree – dal termine Na’vi Kerutel, Alberocasa –, alberi giganteschi alti centinaia di metri dotati di

5 http://www.repubblica.it/esteri/2010/03/13/news/america-bianca-2632836/ 6 Si tratta della catena montuosa che si estende dal Dakota del Sud fino al Wyoming, alla quale appartiene il celebre Monte Rushmore, sul quale sono stati scolpiti i ritratti dei presidenti degli Stati Uniti George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln. Al presidente Lincoln spetta il primato della più ampia esecuzione di massa nella storia giudiziaria degli Stati Uniti: 38 indiani Santee uccisi mediante impiccagione nel dicembre del 1862. 7 In Avatar la Terra è un pianeta morente (“dying world”), con le parole dello stesso Cameron: “it will be a dying world if we don't make some fundamental changes about how we view ourselves and how we view wealth. I consider the wealth of this nation its natural resources, not the things that we're brought up to think of as wealth. We're going to have to live with less”. http://www.chicagotribune.com/entertainment/sc-ent-0217-cameron-cause-20100218,0,5345175.story

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molteplici cavità naturali all’interno delle quali vivono interi clan di Na’vi (l’Alberocasa del clan degli Omaticaya è sito sul più grande giacimento del prezioso unobtanium raggiungibile dagli umani); il Vitraya Ramunong – Albero delle Anime –, il più raro e sacro degli alberi di Pandora, ai piedi del quale crescono come fossero erba le terminazioni nervose poste alla fine della treccia dei Na’Vi (è qui che il clan Omaticaya si rifugia dopo la distruzione del Kerutel); l’Utraya Mokri – Albero delle Voci –, un albero simile a un grande salice dalle foglie rosa, attraverso il quale e mediante connessione nervosa è possibile sentire le voci degli antenati dei Na’vi. La connessione – o meglio l’interconnessione – è una costante in Avatar: gli umani si connettono agli avatar da loro creati (corpi ottenuti miscelando DNA umano e N’avi) attraverso una interfaccia mentale; i Na’vi si connettono alle altre specie viventi di Pandora (animali e vegetali) mediante le terminazioni nervose presenti nelle loro trecce; l’intero ecosistema di Pandora risulta saldamente fondato sull’interconnessione, tanto che la dottoressa Grace arriva a scoprire per via scientifica i legami biochimici che regolano l’interconnessione a livello globale della flora di Pandora. I Na’vi usano il sistema neurale che consente il legame con le altre specie (definito tsahaylu), anche per legarsi per la vita a un partner durante l’accoppiamento, con un legame che non potrà essere spezzato per tutta la vita. Ciò è reso possibile dal fatto che ogni cosa su Pandora è perennemente connessa alle altre tramite Eywa, una divinità panteistica la cui esistenza verrebbe provata nel film da una serie di accadimenti. Durante i loro rituali più sacri i Na’vi si connettono in massa alle radici dell’Albero delle Anime così da potersi mettere in contatto diretto con Eywa. Eywa è per i Na’vi la Grande Madre fatta di tutte le cose viventi, protettrice dell’equilibrio naturale di Pandora ma anche insieme di tutte le creature del satellite, le quali agirebbero più o meno come cellule di un unico organismo vivente, il cui sistema nervoso è formato dagli alberi e dal resto della vegetazione. Nel film, Eywa manifesta la propria attraverso eventi leggibili come epifanie della propria volontà: quando Neytiri sta per colpire Jake, un atokirina – seme di Vitraya Ramunong, l’Albero delle Anime – si posa sulla punta della sua freccia, facendola desistere dal proprio proposito. Per i Na’vi gli atokirina sono spiriti puri e in diretto collegamento con Eywa, e ricoprono un ruolo molto importante nella loro cultura (la loro apparizione è appunto considerata un segno di Eywa, da interpretare a seconda delle diverse azioni dei semi, e durante i funerali i Na’vi seppelliscono insieme al defunto un atokirina). In un’altra scena Jake viene ricoperto da numerosi atokirina, cosa che induce Neytiri a condurlo, nonostante la diffidenza, all’Alberocasa degli Omaticaya. Manifestazione della volontà di Eywa sarebbe anche l’attacco in massa della fauna di Pandora contro gli umani e le loro tecnologie nella battaglia per l’Albero delle Anime. A riprova dell’esistenza di Eywa sono anche le parole della scienziata Grace, la quale dichiara in punto di morte di averla vista. Nell’analizzare Casablanca, Eco riscontrava la presenza e l’amalgama di “miti eterni” e “miti storici”. In Avatar, a questo proposito, i riferimenti sono molteplici: se si cerca il termine ‘avatar’ nella più grande enciclopedia online del pianeta, Wikipedia (vero e proprio riferimento indispensabile soprattutto per la cultura pop), si ottiene una lista piuttosto lunga di riferimenti8, divisa in categorie che hanno a che fare con la cultura informatica, la produzione cinematografica e televisiva, i videogames, l’industria musicale. Per quel che riguarda la rappresentazione del Nativo e del Sacro, Avatar attinge come si è visto a narrazioni archetipiche ben radicate nell’immaginario. Per quanto riguarda l’interconnessione, oltre naturalmente alla cultura cyberpunk, con le centinaia di opere di letteratura e di film che hanno rappresentato l’ibridazione uomo-macchina in modo più o meno apocalittico o entusiastico, i riferimenti sono rintracciabili nella sterminata produzione fantascientifica degli ultimi decenni (da cui lo stesso Cameron non è affatto distante), e in una certa produzione accademica e intellettuale sul ruolo di Internet nella società9. In Project 880, prima stesura di Avatar, Pandora viene raffigurato come un pianeta dotato in qualche modo di una propria volontà e

8 http://en.wikipedia.org/wiki/Avatar_(disambiguation) 9 Si pensi a titolo di esempio al concetto di “intelligenza collettiva” proposto da Pierre Lévy («un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale»), con la descrizione del ruolo salvifico della tecnologia e del “messaggio irenico disseminato in ogni chip” (L’intelligenza collettiva. Per una antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996).

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intelligenza (come già in Solaris di Andrej Tarkovskij, tratto dal romanzo di Stanislaw Lem), che considera gli umani alla stregua di virus (si ricorderà il discorso dell’agente Smith a Morpheus in Matrix10), e quindi nemici del pianeta stesso. In Avatar vediamo storie già viste, riconoscendone solo una minima parte. Scriveva Eco di Casablanca: «proprio perché gli archetipi ci sono tutti, proprio perché Casablanca è la citazione di mille altri film, ed ogni attore vi rifà una parte eseguita altre volte, gioca sullo spettatore la risonanza dell’intertestualità. Casablanca porta con sé, come in una scia di profumo, altre situazioni che lo spettatore vi immette direttamente prendendole senza accorgersene da altri film». Da altri film, da altri romanzi, da altri miti, da altre rappresentazioni della religiosità, da altre grandi narrazioni. Quando nei primi anni Sessanta del secolo scorso Edgar Morin scrisse Lo Spirito del tempo (Meltemi, Roma, 2002), si interrogò sulla possibilità di una organizzazione burocratico-industriale della cultura. Per lo studioso francese questa possibilità risiede nella struttura stessa dell’immaginario, giacché questo si struttura secondo archetipi che si conciliano pienamente con la norma industriale. “Anche il cuore può essere messo in scatola”, scriveva Morin descrivendo la contraddizione invenzione-standardizzazione come contraddizione dinamica della cultura di massa. I grandi temi dell’immaginario (all’epoca romanzi e film, oggi anche videogames, realtà online, etc.) sono in un certo senso “archetipi e stereotipi costituiti in standard”, ed è per questo motivo che leggere Avatar esclusivamente con la lente dell’estetica o della critica colta non consente di cogliere la portata dell’evento e della sua circolazione planetaria. Ancora Eco: «Casablanca non è un film, è tanti film, è una antologia. Fatto quasi per caso, probabilmente si è fatto da sé, se non contro almeno al di là della volontà dei suoi autori, e dei suoi attori. E per questo funziona, a dispetto delle teorie estetiche e delle teorie filmografiche. Perché in esso si dispiegano per forza quasi tellurica le Potenze della Narrativa allo stato brado, senza che l’Arte intervenga a disciplinarle». Avatar nasce dunque da una rielaborazione culturale imponente, lavorando – come molti prodotti dell’industria culturale di massa – sui processi elementari della volgarizzazione, e in particolare su semplificazione e manicheismo. La complessità delle descrizioni antropologiche di culture altre viene resa con la stereotipizzazione dei Na’vi e della loro religiosità (un panteismo ecologista), così come del loro carattere, delle loro credenze e dei loro riti, mentre la polarizzazione dell’antagonismo tra bene e male è marcata in modo tale da non presentare ambiguità. Con le parole di Morin: “i tratti di simpatia e antipatia sono più accentuati al fine di accrescere la partecipazione affettiva dello spettatore, sia nel suo attaccamento per gli eroi che nella sua repulsione per i malvagi”. E lo stesso Morin segnalava come la cultura di massa, non fabbricando affatto i propri prodotti ex nihilo, sia tutt’altro che distante dall’arcaismo. È infatti il neoarcaismo a informare molti prodotti dell’industria culturale, come dimostra anche Avatar: “cercando il pubblico universale, la cultura di massa si rivolge anche all’anthropos comune, al fondo mentale universale che è in parte l’uomo arcaico che ciascuno porta dentro di sé”. La stessa lingua Na’vi creata appositamente per Avatar, secondo il linguista Paul Frommer, chiamato a collaborare alla creazione dallo stesso Cameron, aveva inizialmente un “sapore polinesiano”, quindi esotico e arcaico. Nel cinema di fantascienza l’arcaismo è spesso una costante: si pensi solo alla razza aliena degli Yautja della serie di film di successo Predator, razza guerriera rappresentata come organizzata su modelli tribali, con tanto di riti di passaggio, dimostrazioni di abilità, rituali sacri, etc. 10 L’agente Smith dice a Morpheus, intontito dalle droghe e legato sulla sedia: “Desidero condividere con te una geniale intuizione che ho avuto, durante la mia missione qui. Mi è capitato mentre cercavo di classificare la vostra specie. Improvvisamente ho capito che voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. E l’unico modo in cui sapete sopravvivere è quello di spostarvi in un’altra zona ricca. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un’infezione estesa, un cancro per questo pianeta: siete una piaga. E noi siamo la cura”.

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Neoarcaismo, tecnomagia, risacralizzazione e reincanto del mondo: i “ritmi e le presenze” della cultura arcaica continuano a essere rievocati potentemente anche nel film che più ha investito nella ricerca tecnologica di nuove soluzioni cinematografiche. E qui – oltre naturalmente alla scontata critica sull’ecologismo new age accompagnato da esasperato merchandising e da milioni di gadget pronti per essere usati e trasformati in rifiuti quasi subito – risiede forse il più grande paradosso di Avatar: mentre dimostra la pervasività della cultura dell’interfaccia e della interconnessione11 e mentre cerca di definire un nuovo standard per l’evoluzione tecnologica del cinema, il film disegna una visione sostanzialmente strumentale della tecnologia. L’ibridazione e l’interfacciamento veri (verrebbe da dire più “puri”, vista la religiosità magica di cui è permeata l’opera) sono in Avatar quelli naturali, quelli organici e non mediati da tecnologie in tutto artificiali. Il ‘sarcofago’ attraverso il quale Jake controlla il proprio Avatar viene distrutto, e tutta la tecnologia rappresentata nel film viene dipinta come funzionale al raggiungimento di determinati obiettivi (il più delle volte negativi): mai dunque come estensione, protesi, o parte integrante dell’essere vivente uomo. La hybris dei Greci, la norma da non oltrepassare per non andare contro l’ordine naturale delle cose, continua in Avatar ad avere un ruolo centrale, a dispetto di tutte le riflessioni degli ultimi decenni sui limiti dell’umanesimo e sulla necessità di un pensiero che lavori sul superamento delle visioni strumentali dell’ibridazione con l’alterità tecnologica12. L’unica ibridazione che nel film viene rappresentata positivamente è quella biochimica degli esseri viventi di Pandora, in qualche modo predeterminata naturalmente. L’interconnessione per via tecnologica è in Avatar un surrogato dell’interconnessione biologica. Lo stesso Jake sceglie di non vivere più come ibrido tra uomo, macchina e avatar Na’vi, per morire e rinascere come Na’vi a tutti gli effetti, con evidenti riferimenti a migliaia di miti, di narrazioni religiose e mistiche diffuse nelle varie culture. Il senso del termine avatāra viene qui reinterpretato ad uso e consumo della storia narrata: quel che Jake sceglie di affrontare è quel che in altri contesti, come si è detto all’inizio, viene definito “mind upload”. La mente del protagonista passa dal corpo umano del protagonista a quello dell’involucro inanimato, che diventa la dimora definitiva della sua mente. Ma potremmo dire, non senza qualche ragione, della sua psiche, della sua anima, del suo spirito. Se nell’Induismo avatāra significa “disceso”, per indicare gli dei che si manifestano al fine di ristabilire l’equilibrio sulla terra durante un periodo di grande caos o per svolgere altri compiti, qui avatāra non è discesa ma è inizialmente controllo, e quindi mind upload. Si è detto che il film di Cameron vive della pervasività della cultura dell’interfaccia e della interconnessione nella nostra vita quotidiana, nella quale l’avatar è l’immagine che ci rappresenta nei forum online, nei social network o nei mondi tridimensionali online, e inizialmente l’avatar controllato da Jake si comporta allo stesso modo. L’avatar di Jake è infatti privo di vita quando non è mosso dal proprietario (e così sarà fino al ‘travaso’ finale), proprio come le nostre identità online in forum e social network. D’altra parte, per entrare in sintonia profonda con la natura di Pandora, Jake dovrà scegliere di abbandonare la sua carne umana per diventare parte integrante della “rete vitale” di Eywa. Un po’ come se noi scegliessimo di entrare tanto a fondo nella rete fino a fonderci con essa, come in tanta letteratura cyberpunk. Si può osservare come il film sia animato da una sorta di spiritualismo transumanista, oltre che da un platonismo di fondo. Non a caso il corpo di Jake è debole, difettoso, mutilato: in questo modo la scelta della morte e resurrezione come essere superiore (i Na’vi, oltre a essere ‘puri’ e buoni, sono fisicamente superiori agli umani), del mind upload e dell’abbandono del corpo fragile viene percepita come naturale. Il tema della caducità del corpo umano è da sempre al centro dei discorsi dei transumanisti, impegnati a disegnare un futuro in cui l’uomo riuscirà a liberarsi definitivamente dalla prigione del corpo, dell’invecchiamento e della progressiva decadenza fisica e mentale. Se si dovessero rivolgere ad Avatar le stesse obiezioni che è lecito muovere al pensiero transumanista, sarebbero quelle di sempre: dove finiscono l’autopoiesi della coscienza e la necessaria unione di struttura e funzione che presiede allo sviluppo della capacità simbolica umana? In 11 Cfr. S Johnson, Interface Culture: How new technology transforms the way we create and communicate, Harper Edge, San Francisco 1997; L. Manovich, Il lInguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano, 2001; S. Johnson, 12 Cfr. N.K. Hayles, How we became posthuman. Virtual bodies in cybernetics, literature and informatics, University of Chicago Press, Chicago-London, 1999.; R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.

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altri termini, se l’uomo vive, pensa e prova emozioni per via e in virtù della propria conformazione biologica, l’idea di un travaso mentale che consenta di essere se stessi in un altro corpo rimane appunto appannaggio del discorso dell’immaginario13. In fin dei conti Avatar – insieme a tutto il resto – contiene una certa dose di antropocentrismo, anche se a un primo sguardo può sembrare il contrario. Senza l’umano venuto da lontano i Na’vi non hanno scampo; senza la sua volontà e la sua determinazione umane, per Pandora c’è solo la distruzione. Ogni passaggio importante è scandito da eventi sacri, come se non si riuscisse a dipingere una specie aliena se non come “gli umani non corrotti dalla società tecnologica dei consumi”: da qui il carattere “primitivo” e “tribale” dei Na’vi, il loro essere guerrieri, le loro armi, gli aspetti matriarcali della loro organizzazione sociale. E in ultima analisi, tra semplificazione, manicheismo, rielaborazione, religiosità, magia e antropocentrismo, Avatar riafferma la centralità della cultura di massa anche nella nostra epoca di nicchie, di segmentazione e di frammentazione sociale. La cultura di massa conferma la propria tendenza all’universalità lavorando sui fondamenti antropologici dell’immaginario, creando nuova universalità a partire da elementi tipici della contemporaneità. È quel che Morin descriveva come sincretismo, una tendenza capace di omogeneizzare sotto un comune denominatore la diversità dei contenuti privilegiando quel che, nella vita reale, somiglia al sogno: “l’immaginario mima il reale, e il reale assume i colori dell’immaginario”. Scriveva Eco in conclusione del suo saggio su Casablanca: «quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere. Cento cliché commuovono. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra loro e celebrano una festa di ritrovamento. Come il colmo del dolore incontra la voluttà e il colmo della perversione rasenta l’energia mistica, il colmo della banalità lascia intravvedere un sospetto di sublime. Qualcosa ha parlato al posto del regista. Il fenomeno è degno se non altro di venerazione».

13 Si ricorderà The Dixie Flatline, leggendario cowboy del cyberspazio la cui coscienza rinchiusa in una memoria ROM è utilizzata dal protagonista del romanzo Neuromancer di William Gibson: la coscienza del cowboy, una volta spenta e riavviata, non riconosce più il suo utilizzatore.