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CONFERENZA CONCORRENZA, MERCATO E CRESCITA IN ITALIA: IL LUNGO PERIODO Concorrenza e mercato nella cultura italiana: idee, norme, rappresentazioni di Alfredo Gigliobianco (Banca d’Italia) e Cristina Giorgiantonio (Banca d’Italia) con la collaborazione di Ivan Triglia (versione provvisoria) Banca d’Italia Roma, 29 e 30 ottobre 2014 1

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CONFERENZA

CONCORRENZA, MERCATO E CRESCITA IN ITALIA: IL LUNGO PERIODO

Concorrenza e mercato nella cultura italiana: idee, norme, rappresentazioni

di Alfredo Gigliobianco (Banca d’Italia) e Cristina Giorgiantonio (Banca d’Italia)

con la collaborazione di Ivan Triglia

(versione provvisoria)

Banca d’Italia Roma, 29 e 30 ottobre 2014

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1. Introduzione. Rilevanza del tema. Ambito. Un ampio segmento della cultura italiana (composto in primo luogo da

economisti, ma esteso a molti altri soggetti, fra i quali politici e giornalisti) ritiene che l’Italia sia un paese troppo poco concorrenziale: immobile, insabbiato, nel quale chi è innovatore e realizzatore si trova a essere generalmente non ascoltato, emarginato, impedito. I caratteri salienti dell’insabbiamento sarebbero i seguenti. Accesso in molti settori riservato a parenti (farmacie, taxi) o ad amici (appalti pubblici, RAI) o a chi paga (concorsi truccati, ancora appalti). Ampia presenza di associazioni che ottengono protezione dai pubblici poteri (le famose corporazioni, che possono essere di natura giuridica varia, inclusi i sindacati, le associazioni professionali e imprenditoriali). Tendenza di coloro che sono già nel mercato ad accordarsi e a tenere i nuovi entranti fuori dal gioco, piuttosto che a emularsi e sopravanzarsi. Poca reattività dell’opinione pubblica di fronte a fatti di questo genere. Mancanza di una stampa indipendente e agguerrita, perché essa stessa comandata da grandi poteri economici che applicano quei sistemi.

Una valutazione scientifica della fondatezza di queste credenze non è fra gli obiettivi di questo lavoro. Possiamo dire, al fine di non ingannare il lettore, che gli autori di queste pagine sono propensi a credere che gran parte di queste affermazioni siano abbastanza fondate. In ogni caso, le correnti di pensiero e le credenze popolari in questa materia hanno sicuramente una base culturale. Scopo di questa ricerca, che ha carattere eminentemente storico-comparativo, è dare un contributo a conoscere i mutamenti della cultura in relazione al fenomeno concorrenza/monopolio: valutare i cambiamenti di opinione sul ruolo della concorrenza e del mercato, osservare i canali attraverso i quali i giudizi si affermano nella cultura, raffrontare il quadro italiano con gli sviluppi di altri paesi, specialmente Inghilterra e Stati Uniti. Non è questo un testo di storia del pensiero economico o di storia del diritto, ma un tentativo di ricostruire un quadro complessivo della cultura, alla cui formazione l’economia e il diritto concorrono insieme con la politica, la filosofia e molto altro. Proveremo inoltre, attraverso l’analisi dei giornali quotidiani, a cogliere credenze e convinzioni diffuse in materia di concorrenza, che possono essere, ma anche (e questo sembra il caso più frequente) non essere, sostenute da un’analisi scientifica.

Il diritto, al pari della scienza economica, è parte della cultura di una comunità. Noi non ci soffermeremo sugli aspetti tecnici delle leggi e delle dottrine, né sul concreto funzionamento delle norme adottate, ma piuttosto esporremo quelle tendenze generali di sviluppo che riflettono (o innescano) mutamenti culturali. Un esempio può servire a chiarire le idee. Il fatto che una legge per la tutela della concorrenza sia stata varata in Italia nel 1990

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non significa, di per sé, che il complesso legislativo, amministrativo e giudiziario si sia mosso coerentemente, dopo l’entrata in vigore della legge, per garantire un certo livello di concorrenza. Un modo di affrontare la questione potrebbe essere quello di valutare la performance dell’autorità antitrust. Questo però non ci avrebbe permesso di guardare al di là della cerchia di coloro che sono investiti della responsabilità primaria del compito di tutela della concorrenza. Abbiamo preferito guardare all’attività di un soggetto in qualche misura terzo, come la Corte Costituzionale, i cui orientamenti interpretativi incidono su tutto il sistema giuridico e anche sulla formazione delle leggi. Il fatto, ad esempio, che la Corte abbia deciso dopo il 2001, come vedremo, di annoverare la tutela della concorrenza tra le cosiddette “materie trasversali”, in grado quindi di intersecare un’ampia serie di competenze legislative, è indice di un mutamento culturale: viene riconosciuto nella concorrenza un valore da salvaguardare ben oltre i limiti della disciplina antitrust. La Corte sembra essersi fatta interprete della cultura della società nel suo complesso, che andava mutando in senso pro-concorrenziale, e ha contribuito (e continua a contribuire) allo stesso tempo a formare quella cultura, attraverso una serie di decisioni che rispecchiano tale evoluzione. Per esprimere questo concetto, che ritornerà più volte nel nostro lavoro, usiamo l’espressione “capacità espansiva” di una norma o di un concetto giuridico. Mentre nella common law inglese il disfavore, espresso fin dal XVI secolo, verso le restrizioni poste al commercio (restraint of trade) ha avuto un ampio riverbero sul modo di giudicare le controversie fra imprese ed è infine entrato, come elemento vitale e costitutivo, nello Sherman Act del 1890, in Italia le norme del codice civile relative al “patto di non concorrenza”, introdotte nel 1942, non hanno avuto una simile capacità espansiva: sono rimaste confinate in un angolo del nostro diritto, senza suscitare un movimento capace di approdare a una più ampia considerazione del fenomeno della concorrenza e del monopolio.

È opinione diffusa, anche fra gli specialisti, che la legislazione antitrust sia invenzione moderna, e che essa debba la sua esistenza all’azione illuminante degli economisti, paladini universali dei princìpi della libera concorrenza. Entrambe queste proposizioni sono errate. Dopo aver accennato brevemente, nel capitolo due, agli elementi comunistici, solidaristici e implicitamente anticoncorrenziali che hanno caratterizzato gran parte della cultura, specialmente italiana, fino a tempi assai recenti, nel capitolo tre mostreremo quanto poco gli economisti abbiano contribuito alla formulazione della prima legislazione antitrust moderna (lo Sherman Act americano), che fu invece dovuta all’azione di giornalisti, attivisti di base, esponenti politici, che seppero aggiornare e valorizzare antiche istanze antimonopolistiche. Solo negli ultimi quarant’anni gli economisti hanno svolto un ruolo importante per l’approvazione di norme antitrust: per esempio in Italia. Il capitolo quattro sarà dedicato a un’analisi degli

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elementi profondi della cultura della concorrenza, spesso ignoti anche agli specialisti: analisi che utilizza come pietra di paragone il mondo anglosassone. Accanto ad alcuni elementi del diritto romano, rivitalizzati nello ius commune europeo, descriveremo quei caratteri della storia costituzionale inglese – specialmente il conflitto fra sovrano e Parlamento sui temi fiscali, culminato nel XVII secolo – che hanno costituito l’humus culturale dell’antimonopolismo moderno. Nel capitolo cinque ci soffermeremo sull’evoluzione della legislazione italiana in materia di concorrenza, dalle sporadiche e incerte affermazioni del codice civile all’ampio rilievo degli anni più recenti. Nel capitolo sei analizzeremo le pronunzie della Corte Costituzionale: mentre inizialmente la Corte accettava che il legislatore desse confini amplissimi a quell’“utilità sociale” in nome della quale era consentito comprimere la libertà di iniziativa economica privata sancita dall’art. 41 della Costituzione, negli sviluppi successivi essa ne ha gradualmente circoscritto i confini, innalzando, recentemente, la tutela della concorrenza a principio cardine della nostra stessa Costituzione materiale. Segue, nell’ultimo capitolo, una breve descrizione dell’uso della parola concorrenza negli articoli di giornale e nei titoli dei libri editi in Italia.

2. Un breve sguardo d’insieme alla cultura italiana

Non manca, nell’antichità classica, qualche apprezzamento dell’effetto positivo che può avere una certa dose di conflitto fra gli appartenenti al corpo sociale. Esiodo è forse l’esempio più illustre: nelle Opere e i Giorni si afferma l’esistenza di “due contese”: una distruttiva della società (il conflitto che porta alla guerra civile), una invece benefica, quella che, prendendo le mosse dall’invidia per chi ha di più, induce il povero a moltiplicare gli sforzi per raggiungere lo status e il benessere del vicino ricco: “chi è pigro risveglia al lavoro”. In tempi a noi più vicini, Machiavelli valorizza, nei Discorsi, il conflitto sociale come fattore di progresso, di rafforzamento degli ordinamenti politici dello Stato, sebbene anche lui faccia distinzione fra conflitti costruttivi e conflitti distruttivi.

Ma si tratta di voci rarissime. Il blocco quasi compatto della cultura alta – a partire da Platone e Aristotele, passando per Virgilio e Dante – è per l’armonia; per una società che si ispiri al modello dell’alveare, in cui ogni individuo conosce e accetta il proprio posto all’interno del disegno complessivo. Donne e uomini, genitori e figli, artigiani e agricoltori, schiavi e padroni si sottopongono a un ordine che trae legittimità da un disegno superiore, che può avere ma anche non avere carattere religioso. Conflitto e lotta sono distruttivi: l’unico conflitto ammesso è quello volto a ripristinare l’ordine. Essendo quell’ordine giusto per definizione (in quanto dà “a ciascuno il suo”), la giustizia consiste nell’aderirvi, o nel ripristinarlo. Una versione moderna di questo tema, più problematica – perché il genere

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umano vi deve costruire da solo il proprio modello di convivenza, in opposizione al mondo – ma sempre anelante all’armonia, è quella di Giacomo Leopardi, il quale auspica che gli uomini dismettano “odii e ire” per federarsi insieme contro la “matrigna”. “Nobil natura”, dice Leopardi nella Ginestra, è

Quella che grande e forte Mostra se nel soffrir, né gli odii e l'ire Fraterne, ancor più gravi D'ogni altro danno, accresce Alle miserie sue, l'uomo incolpando Del suo dolor, ma dà la colpa a quella Che veramente è rea, che de' mortali Madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa Congiunta esser pensando, Siccome è il vero, ed ordinata in pria L'umana compagnia, Tutti fra se confederati estima Gli uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle angosce Della guerra comune.

Nel campo dell’economia, questa visione sociale organicista –

normalmente statica – è rafforzata da un generale disprezzo per ogni attività che abbia come proprio fine il lucro. Il lucro, lamenta Platone, sposta gli equilibri, rende possibile la messa in discussione dell’ordine sociale e infine porta alla frantumazione delle gerarchie (Schumpeter 1990, 69). Il lavoro umano è però escluso da questo biasimo, perché fine del lavoro non è il lucro, ma la vita. Il lavoro è anzi generalmente onorato (le Georgiche sono un inno al lavoro), e tanto più lodato quanto più è vicino ai bisogni primari, ai bisogni di un’umanità semplice e incorrotta. L’agricoltore è superiore all’artigiano, e questi al commerciante, e questi all’usuraio, che, posto all’ultimo gradino, riscuote il generale biasimo. Perché la sua attività è volta non a un fine naturale, bensì al lucro in se stesso. Il fatto che tale attività sia a volte necessaria, come quella delle prostitute, non la riscatta. Essa è proprio il segno rivelatore della distanza che separa il tempo presente dalla mitica età dell’oro (o paradiso terrestre), nella quale non esisteva il bisogno, non esisteva la proprietà privata e non esisteva il mercato (Georgiche).

Se ora volgiamo l’attenzione più specialmente al tema della concorrenza in campo economico, osserviamo che essa soffre di un duplice stigma: in primo luogo contrasta il paradigma collaborativo e organicista, in secondo luogo si svolge su un terreno, quello del lucro, che è esso stesso ignobile, perfino immondo. L’avidità, il bisogno di accumulare beni (e

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potere) è per Dante Alighieri l’estremo, il più feroce dei mali. Delle tre male bestie che nell’incipit della Commedia lo spingono verso il basso, la lupa, cioè l’avidità, è la più pericolosa.

Questa visione “colta” della concorrenza è sostanzialmente comune a due delle grandi famiglie ideal-politiche della tradizione occidentale: il cristianesimo e il comunismo. Solo il liberalismo – che con Mandeville (prima di Smith) mette in dubbio il mito dell’alveare virtuoso e armonioso – la respinge. Nel liberalismo entrambi i motivi di biasimo che avevano colpito mercato e concorrenza cadono: il fine di lucro è nobilitato, per esempio con l’instaurare un legame fra proprietà e libertà, fra proprietà e progresso (ci piace citare uno dei più eloquenti autori moderni: Luigi Einaudi (1964), In lode del profitto); e, d’altra parte, l’organicismo sociale è rifiutato, a vantaggio di una concezione dinamica e conflittuale che non è confinata a un certo tempo (nel marxismo, infatti, la lotta di classe si estingue con l’avvento del comunismo), ma che caratterizza la società in modo permanente (ancora Einaudi: La bellezza della lotta).

In Italia, essendo la famiglia liberale assai poco numerosa, prevale il sentimento “cooperativo”, che respinge la concorrenza, oppure – quando ne riconosce in astratto la ratio economica – è pronto a circoscriverne e ridurne il campo di applicazione. Nel romanzo italiano moderno il lucro, spesso denominato “speculazione”, è distruttivo di valori, di comunità, di personalità. Due soli esempi, per tirannia di spazio (ma ne avremmo a decine): è la speculazione sui lupini a segnare la rovina dei Malavoglia nel romanzo verghiano; ed è la “speculazione edilizia” a provocare lo sviamento e la crisi dell’intellettuale calviniano di ritorno nella sua città natale. Solo nei Promessi Sposi, come vedremo, si tende a considerare la realtà economica anche dal punto di vista degli economisti.

Certo, l’innalzamento dei valori comunitari e il disprezzo per il lucro non implicano necessariamente la tendenza a difendere interessi settoriali. È, però, vero che tendono ad offuscare l’esame critico di quelle politiche che vengono invocate a tutela di interessi che i proponenti definiscono generali e ampi, ma che sono in realtà particolari e ristretti, o ristrettissimi. Vedremo più avanti, nel capitolo sei, esempi di come nelle leggi italiane sia stato spesso messo in vetrina il concetto di utilità sociale, o interesse pubblico, per favorire interessi settoriali.

3. Economisti e giornalisti tra fine Ottocento e inizi del Novecento

Conviene iniziare con un breve cenno agli Stati Uniti, per poi tornare in Italia. Le ricostruzioni storiche sulla nascita dell’antitrust americano nel 1890 (Peritz 1996) non lasciano dubbi su un fatto: gli economisti furono sostanzialmente estranei al processo ideale e pratico che portò a quella legge, nonché al movimento, immediatamente successivo, che spinse verso una sua più energica applicazione. Assai più influenti, e infine decisive,

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furono le istanze dei piccoli agricoltori e imprenditori organizzati, che già nel 1887 avevano conseguito un importante successo con l’Interstate Commerce Act. La combinazione dei loro interessi e di efficaci campagne giornalistiche, centrate sul tema Davide contro Golia, cambiarono completamente lo scenario politico. Dopo l’approvazione dello Sherman Act, una combattiva giornalista, Ida Tarbell, figlia di un piccolo imprenditore schiacciato da Standard Oil, condusse un’aspra lotta contro John Rockefeller (Weinberg 2008), e infine, sostenuta da un vasto movimento di opinione, vinse: nel 1911 la Corte Suprema decretò il famoso break-up del colosso petrolifero.

Gli economisti, dal canto loro, erano largamente concordi nel ritenere che qualsiasi monopolio formatosi sul mercato non fosse permanente, essendo sempre possibile l’entrata di nuovi concorrenti. L’intervento dello Stato era guardato con diffidenza estrema: non si era forse, la scienza economica, accreditata di recente presso i sapienti e il pubblico colto come rivelatrice di un ordine spontaneo? Mancavano ancora, del resto, strumenti analitici adeguati a sostenere un intervento pubblico di correzione del mercato. Non essendoci spazio, in questa sede, per un esame del pensiero economico complessivo, limitiamo la nostra attenzione agli economisti italiani.

Per quanto riguarda il commercio internazionale, non è il caso di ripetere qui l’arcinota storia della battaglia antiprotezionista condotta dalla pattuglia degli economisti liberali negli ultimi tre decenni dell’Ottocento, in polemica sia con il governo, sia con gli esponenti della scuola lombardo-veneta, che invece abbracciavano, almeno in parte, le tesi di List sulla necessità di proteggere l’industria nascente. Se ne trova una buona esposizione in Cardini (1981). È necessaria però una puntualizzazione a proposito del nesso fra concorrenza internazionale e concorrenza interna. Non di rado si afferma che sarebbe contraddittorio l’atteggiamento di quei policy-makers che accettano la concorrenza interna e osteggiano, per mezzo di dazi o altro, quella internazionale (ne discute Zingales 2012, p. 80, con riferimento alle misure protezioniste approvate negli Stati Uniti subito dopo il varo dello Sherman Act). Ma si tratta di una contraddizione solo apparente: è perfettamente logico, se si vuole favorire lo sviluppo e la competitività delle industrie nazionali in fase nascente, adottare una politica protezionista, e anche, contemporaneamente, che si vieti a queste industrie di assumere comportamenti collusivi, i quali consentirebbero di trasformare il vantaggio ottenuto sui concorrenti esteri in un mero aumento di profitti. Anzi, nel quadro di una politica di sviluppo industriale, concorrenza interna e protezione estera sarebbero complementari: la prima servirebbe a selezionare i migliori, la seconda ad evitare che questi migliori siano spazzati via dai più forti concorrenti esteri prima di aver avuto il tempo di consolidarsi. È questa la tesi che esprime, per esempio, Bonaldo

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Stringher, con riferimento al dibattito che avrebbe portato alla famigerata tariffa protezionista del 1887: il protezionismo industriale è, a suo avviso, auspicabile, anche perché i consumatori sono tutelati dalla concorrenza interna (ma non vi è cenno a politiche pro-concorrenziali), mentre quello agricolo sarebbe dannoso, perché i prezzi non sono moderati dalla concorrenza interna, ma determinati interamente dai costi di produzione sulle terre meno fertili. Perciò la protezione si risolverebbe in una “odiosa capitazione prelevata sulle classi nullatenenti a favore della proprietà fondiaria” (Stringher 1886). Proprio a questo invece si giunse, perché gli interessi agrari vendettero a caro prezzo il loro assenso alla politica filo-industriale, come giustamente Gramsci osservò.

Un po’ meno nota è la storia del dibattito sulla concorrenza interna presa di per sé, e quindi anche sui cartelli. Cominciamo con un lungo e impegnativo articolo di Maffeo Pantaleoni (1909) sui sindacati, cioè sui cartelli. Sono ottanta pagine, tutte tese a dimostrare che la formazione dei cartelli è in massima parte una conseguenza normale dell’evoluzione dell’economia: una ricerca della dimensione ottima da parte delle imprese, che tendono a formare quelli che lui chiama “complessi economici”. Il ragionamento è simile a quello che farà Ronald Coase, una trentina d’anni dopo, a proposito dell’impresa. Il fenomeno dei cartelli è visto essenzialmente come una forma di integrazione verticale, mentre un magro accenno è riservato ai cartelli fra imprese concorrenti, o potenzialmente concorrenti; cartelli che, in ogni caso, non sarebbero capaci di influire sul prezzo, perché sempre soggetti alla minaccia di nuovi entranti. Gli effetti sono dunque normalmente positivi per l’efficienza economica e per il consumatore. Sembra di sentire un Aaron Director, un Robert Bork ante litteram! Ed è logico che Franco Romani (1996), il maggiore esponente della scuola di Chicago in Italia, giudichi Pantaleoni, proprio con riferimento a questo saggio, “un genio”. Nove anni dopo, Pantaleoni (1918) tornerà sull’argomento a proposito di un caso specifico, il cartello bancario nato proprio allora. L’economista interviene per rassicurare i cittadini, argomentando in primo luogo che si tratta di un fenomeno circoscritto, limitato a quattro banche, in secondo luogo che i tassi di remunerazione dei depositi che erano oggetto dell’accordo di cartello non erano quelli corrisposti ai comuni depositanti, bensì quelli corrisposti alle aziende che tenevano nelle banche i propri fondi liquidi1.

Einaudi è molto meno amico dei cartelli rispetto a Pantaleoni. La sua argomentazione ci riporta al nesso fra concorrenza interna e internazionale. Ammettiamo pure di voler proteggere l’industria nascente, ragiona Einaudi (1914): ma a patto che non si sopprima anche, con i cartelli, la concorrenza

1 “se la convenzione riescirà a evitare la continua e dannosa fluttuazione di questi depositi da un Istituto all’altro e il loro ritorno, in ragione di pochi centesimi di vantaggio, essa sarà stata utile.” P. 119.

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interna! È ben viva, nel suo pensiero, la preoccupazione per gli effetti negativi che i cartelli possono avere sui consumatori. Einaudi è ancor più attivo sull’altro fronte dell’antimonopolismo, quello che fronteggia il monopolio legale, concesso e garantito dallo Stato. Nel capitolo quarto vedremo il ruolo centrale che la battaglia contro il monopolio legale ha svolto in Inghilterra, fin dal XVII secolo, ai fini della formazione di una cultura di mercato. L’interprete più coerente di questa visione in Italia fu Einaudi: il monopolio che nasce nel mercato, per quanto possa essere pernicioso, è superabile, è spesso superato dalle forze stesse del mercato; mentre l’altro, quello che poggia sulla forza dello Stato, non può essere scalfito, e porta con sé inevitabilmente, oltre al danno per i consumatori, il fango della corruzione politica. Perciò Einaudi fu molto cauto riguardo all’idea di una legislazione antitrust contro i monopoli “spontanei”, ma a contrasto del monopolio legale propose addirittura una norma da inserire nella Costituzione (sarebbe dovuta entrare nell’articolo 39, l’attuale articolo 41, ma non fu approvata): “La legge non è strumento di formazione di monopoli economici; dove questi esistono li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta” (Romani 1996). Il pensiero di Einaudi, così esposto, sarebbe monco se non ricordassimo un ultimo elemento, e cioè l’idea che ogni cosa buona, anche la concorrenza, può essere eccessiva. Non tutti i partecipanti al gioco economico, secondo Einaudi, sono fatti per reggere la pressione competitiva del mercato in ogni momento, senza tregua. Troppa concorrenza aprirebbe la strada a regimi autoritari che promettono di proteggere i deboli e di governare l’incertezza: “Il principio si salva solo riconoscendo la verità del suo opposto, solo ristringendo l’operare del mercato di concorrenza e creando territori nei quali esso non è chiamato ad agire, perché la sua azione, estesa al di là di un certo punto, diventa dannosa alla struttura sociale.” (Einaudi 1942). Da cui si vede come le politiche di welfare siano strettamente complementari a quelle di promozione della concorrenza.

Ma seguendo Einaudi ci siamo spinti troppo in là: è necessario tornare indietro di un ventennio. Nel periodo compreso fra le due guerre, l’apprezzamento per la concorrenza precipita nel pensiero economico italiano. Un primo fattore di questo cambiamento è la crisi mondiale, che favorisce ovunque tendenze cartellistiche. Un secondo fattore è proprio dell’Italia, e consiste nell’ideologia corporativa del fascismo. Questa non solo accoglie lo stigma che aveva colpito la concorrenza un po’ in tutto il mondo, ma dà a quello stigma una base politica, perché le corporazioni (alle quali dovrebbero essere demandate le politiche di settore) divengono organi dello Stato. In questo contesto si inserisce l’interesse per la cooperazione fra imprese (gli “aggruppamenti di imprese”), che viene manifestato da un gruppo di economisti cattolici, nel quale la figura di maggiore spicco è Francesco Vito. Vito argomenta che la nuova situazione

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economica determinata dalla preponderanza del capitale fisso sul capitale variabile rende particolarmente funeste le crisi cicliche. In tali condizioni, la concorrenza diviene “rovinosa” (Vito 1939, 67). È necessario per le imprese, come strategia di sopravvivenza, stringere accordi a livello di settore, per governare i prezzi e mettere in comune risorse. È il “tramonto del capitalismo di concorrenza” (Vito 1939, 64). L’economia corporativa attua “la disciplina unitaria, organica e totalitaria della produzione e del mercato” (p. V). Molto parchi i riferimenti di Vito ai due famosi libri del 1933: sulla concorrenza imperfetta di Joan Robinson e sulla concorrenza monopolistica di Edward Chamberlin. Il quale sarà invece molto valorizzato da Vito dopo la guerra (Vito 1967). Notoriamente, le vicende della dottrina economica subiscono interferenze politiche. A mente fredda, possiamo osservare oggi che corporativismo e cattolicesimo avevano ampie aree di convergenza “anticoncorrenziale”, e che perfino Einaudi fece qualche concessione in questa direzione.

Dopo la guerra, molte istituzioni, leggi, modi di pensare e di agire in campo economico continuarono un cammino pressoché lineare. La concorrenza continuò ad avere pochi sostenitori. Durante i lavori della Costituente, gran parte degli economisti si mostrarono freddi riguardo a una legge antitrust. La vecchia scuola risentiva delle elaborazioni prima neoclassiche, poi panteleoniane e poi corporative, e non mancava di attrarre l’attenzione sul fatto che il monopolio era ben radicato nell’economia italiana soprattutto per effetto delle leggi dello Stato: una normativa antitrust non sarebbe stata seria se non si fosse toccato questo punto (si veda per esempio la testimonianza di Giuseppe Ugo Papi di fronte alla Commissione Economica). I più giovani, di orientamento politico spesso comunista o socialista, erano attratti non tanto dalla concorrenza, quanto dalla lotta al monopolio. Il fine di tale lotta era la nazionalizzazione. Non si deve dimenticare che la scuola marxista vedeva nel monopolio l’inevitabile destino della concorrenza. Tornare quindi dal monopolio alla concorrenza sarebbe stato un passo indietro invece che un passo avanti. La nazionalizzazione, invece, era un passo verso l’economia socialista.

4. Pensiero e legge, dall’antichità al Novecento, in tema di monopolio e concorrenza. Crimen monopolii. Forestalling. Restraint of trade. Lo Statute of Monopolies. La dialettica fra sovrano e Parlamento in Inghilterra. Lo Sherman Act negli Stati Uniti. Analogie e differenze rispetto all’Italia.

L’attenzione del diritto per comportamenti collusivi, predatori, monopolistici che possono influire sul prezzo e sulla disponibilità di beni inizia nell’antichità. A questi comportamenti considerati delittuosi si dà, da Aristotele in poi, il nome di “monopolio”. Contro di esso è il diritto penale ad attivarsi, e il crimen monopolii percorre tutta la storia europea, dal

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diritto romano classico fino al XIX secolo2. Con esso si intende perseguire non solo l’incetta di merci, ma in generale qualsiasi artificio che consenta di alzare i prezzi al di sopra di un livello “naturale”, o “giusto”, la cui definizione peraltro, per quanto gli studiosi vi si siano affaticati, rimane piuttosto dubbia (Piotrowsky 1933).

La Lex Julia de annona, per esempio, prevedeva pesanti multe per chiunque provocasse, con qualsiasi mezzo, un rialzo del prezzo del grano. In questo ambito, un caso speciale era costituito dall’intercettare le navi cariche di grano prima che potessero giungere al mercato di destinazione (Wilberforce 1966, 20). Molto citata (Wilberforce 1966, Libertini 2010b, Giuliani 1997) una costituzione di Zenone riportata nel Corpus giustinianeo (del 483 d.C., Cod. 4.59, qui in Appendice 1). Essa prevedeva il divieto assoluto di monopolio e la pena dell’esilio e della confisca dei beni per chi lo esercitasse, anche se munito di formale autorizzazione (si trattava quindi di una disposizione con la quale l’imperatore cercava di vincolare anche se stesso e i suoi successori a non concedere privilegi monopolistici). Anche gli accordi sul prezzo erano vietati: in questo caso la pena era solo pecuniaria, ma di enorme entità.

L’elaborazione giuridica del Medioevo e dell’Età moderna testimonia la perdurante vigenza del crimen monopolii. A differenza che in epoca romana, però, il monopolio sancito dal sovrano viene generalmente ammesso. I giuristi sui quali possiamo concentrare l’attenzione (in un panorama vasto e complesso) sono, nel XVI secolo, Tiberio Deciani (sul quale si veda Giuliani 1997, nonché il profilo dedicatogli dal Dizionario biografico degli Italiani) e, nel XVIII secolo, Marc’Antonio Savelli3. Savelli ribadisce il divieto di monopolio privato, ammettendolo solo in talune specifiche circostanze (ad esempio, per contrastare un altro monopolio)4.

L’elaborazione sottostante alle norme più antiche ci sfugge, come pure il loro grado effettivo di applicazione, complice il poco interesse che gli

2 Cfr. Libertini (2010b), Wilberforce (1966) e Giuliani (1997). 3 Giurista originario di Modigliana (Forlì), magistrato a Firenze, autore d'una Pratica universale (soprattutto di diritto penale toscano) e d'una Summa diversorum tractatuum, repertorî dottrinali che ebbero all’epoca ampia risonanza. 4 Cfr. Sabellus (Savelli), Summa diversorum tractatuum . . ., praxis criminalis, Venetiis, 1748, Vol. III, § XXXII, “Monpolium”. In particolare, pp. 236 e ss.: “Quod poena extraordinaria iudicis arbitrio puniantur, qui monopolium ineunt, ut charius vendatur annona, vel quid simile, maxime ad sustentationem vitae humanae necessarium, . . . ubi quod poena est exilii, et confiscatoinis bonorum.” .“. . . Quod sit monopolium contra iustitiam, quando mercatores inter se conveniunt, et conspirant ut nullus eorum vendat, nisi pretio supremo, vel medio. . . . Monopolium dicitur, ubi prohibetur negotiatio de jure permissa ad hoc, ut unus solus illam exerceat. Et solus Princeps supremus hoc potest concedere. “. . . Monopolium fieri dicitur per pactum de non introducendis aliis mercibus praeter venditas. “Monopolium committere dicunt Artifices qui inter se conveniunt in taxando pretio rerum”. “Quod Dardanaria, seu Monopolium sit de inure prohibitum”. “. . . liceat monopolium monopolio dissolvere.” In proposito si rinvia a Piotrowsky (1933).

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autori romani prestavano alle questioni economiche. Le norme, pur nude, testimoniano comunque interesse per il meccanismo di formazione del prezzo di mercato, e una viva percezione del pericolo che alcuni operatori potessero alterarlo a proprio esclusivo favore, col risultato di compromettere il benessere dei cittadini e, in alcuni casi, l’ordine pubblico e la sicurezza.

Ben documentato è il percorso, nell’Inghilterra medievale e moderna, di leggi che definiscono tre reati finalizzati ad aumentare il prezzo dei beni: forestalling, regrating, engrossing. Tutti riguardano beni di prima necessità. Il forestalling consiste nell’intercettare i beni prima che arrivino su un certo mercato, per poi venderli (dopo essersi assicurati un monopolio locale) a prezzi maggiorati. Il regrating è l’acquisto e la successiva rivendita di beni sullo stesso mercato, a prezzo aumentato. L’engrossing è l’acquisto in grandi quantità di un bene e la sua conservazione, con il fine di rivendere successivamente (Wilberforce 1966).

Analogamente a quanto avveniva e avviene in altri ambiti, non è detto che tali leggi fossero appropriate per ottenere l’obiettivo desiderato, cioè il contenimento dei prezzi. Già dalla fine del Settecento gli economisti misero in luce l’inefficacia e anzi l’effetto contrario allo scopo di molte di queste leggi. Le loro tesi si possono rintracciare anche in alcuni famosi romanzi. Nei Promessi sposi, per esempio, si mostra il carattere irrazionale e velleitario delle misure contro gli incettatori, le quali, addebitando il rincaro della farina a malvagità e avidità di mercanti, hanno l’effetto di oscurare la ragione vera del rincaro, e cioè la carestia, e di ritardare i provvedimenti necessari a mitigare il danno. Ma ciò non dimostra, naturalmente, che tutte le leggi volte a tutelare il mercato o a influire sulla formazione del prezzo fossero mal concepite. E, soprattutto, non dimostra che quei legislatori non avessero fra i loro obiettivi quello della concorrenza. Il fatto che usassero (a volte) strumenti sbagliati non sminuisce affatto il loro impegno.

In sintesi si può dire, per evitare l’uso di terminologia anacronistica (concorrenza), che dall’antichità al Settecento i legislatori e i giudici hanno osservato e sanzionato i comportamenti, individuali o collusivi, di operatori economici finalizzati (o ritenuti finalizzati) a incrementare il prezzo dei beni, in particolar modo dei beni di prima necessità. Questo non è, ovviamente, il moderno antitrust, ma implica l’idea che esista un modo fair e un modo unfair di operare sul mercato, e che il modo unfair abbia l’effetto di trasferire ingiustamente risorse dalla generalità del pubblico a pochi operatori. E questo è uno dei mattoni della cultura della concorrenza. Potremmo dire che questa è la parte statica della concorrenza, mentre la parte dinamica – ovvero il nesso fra concorrenza e invenzione di nuovi

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prodotti o miglioramento dei vecchi – verrà alla ribalta in tempi assai più recenti.

Il fatto, poi, che queste leggi abbiano convissuto in un rapporto dialettico con le regole corporative, che andavano almeno in parte in direzione opposta5, nulla toglie all’affermazione che l’attenzione del diritto al fenomeno della collusione e del monopolio fosse ben viva.

Chiamiamo queste leggi il primo pilastro sul quale si fonda (ma che al tempo stesso esprime) un’embrionale cultura della concorrenza europea. A questo primo pilastro se ne affiancano idealmente altri due, che, come vedremo, in Inghilterra hanno avuto una costruzione abbastanza solida.

Il secondo pilastro è la dottrina del restraint of trade, che si sviluppa nella common law, con ampia casistica, fin dal XVI secolo (Wilberforce 1966). Essa trae origine da controversie in merito a contratti fra privati, tipicamente l’acquisto di un’impresa, nei quali una delle parti promette di limitare la propria attività di concorrenza nei confronti dell’altra. Se in seguito il “beneficiario” della promessa ritiene che l’impegno non sia stato rispettato, può citare in giudizio colui che si è reso inadempiente. Il giudice non si limita a verificare se l’impegno è stato rispettato, ma giudica anche la ragionevolezza (reasonableness) dell’impegno stesso. Nel caso in cui esso venga giudicato troppo ampio rispetto all’interesse che l’attore voleva tutelare, il giudice lo annulla oppure lo circoscrive nel tempo e nello spazio. Si deve, infatti, evitare un unreasonable restraint of trade, cioè un restraint non giustificato dagli interessi delle parti e che si risolve in un danno sociale, perché limita l’attività produttiva, e quindi il contributo di lavoro offerto alla società da una delle parti. L’ampia casistica su questo tema, che si estende per quattro secoli e diviene via via più complessa e varia, consente ai giudici di affinare il concetto di restraint e di precisare i limiti della sua ammissibilità. Al tempo steso, essa testimonia la vivacità del mercato sul quale si vendono e si acquistano le imprese. Nel corso del tempo il concetto di restraint of trade si amplia, passando da una nozione meramente soggettiva (il soggetto si impegna a limitare la propria attività) a una oggettiva (atti e fatti che limitano l’attività di altri). Il passo finale di questa transizione è compiuto proprio dallo Sherman Act del 1890, che utilizza il termine restraint of trade in senso oggettivo, come è spiegato chiaramente nella decisione della Corte Suprema sul caso Standard Oil (parere scritto dal Chief Justice White).

Volgiamoci ora all’Italia. Il panorama è qui molto più povero. Si giunse alla formulazione di una norma su questo argomento soltanto nel 1942, con il codice civile. L’art. 2596 (limiti contrattuali alla concorrenza)

5 Ma si veda il saggio di Elio Cerrito (presentato in questo stesso convegno) a proposito del carattere non monopolistico, o scarsamente monopolistico, delle corporazioni medievali.

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è parallelo alla dottrina del restraint of trade, nel senso che pone limiti all’autonomia dei privati di accordarsi per limitare la propria attività. Secondo il codice, le limitazioni convenzionali devono essere circoscritte a zone e attività determinate e non possono eccedere i cinque anni. In primo luogo, come rilevato da alcuni interpreti6, si tratta di un passo indietro rispetto a un’interpretazione giurisprudenziale anteriore al codice, in base alla quale l’ammissibilità dei patti di non concorrenza veniva valutata in termini più restrittivi. Inoltre, l’obiettivo, chiarito nella Relazione al codice civile (n. 1045), è la tutela della personalità contro anomale compressioni della libertà individuale nell’esercizio di un’attività economica. Il che è precisamente ciò che si voleva ottenere da parte delle corti inglesi: sennonché in quel caso si era approdati a quel risultato tre secoli prima, e il principio colloquiava fruttuosamente con la costruzione dei concetti di interesse pubblico e di mercato, per sfociare, come si è visto, nella legislazione antimonopolista di fine Ottocento. In Italia l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale non è stata paragonabile a quella che ha avuto luogo in Inghilterra: tutto è rimasto confinato in un piccolo spazio, senza apprezzabile effetto sulla cultura giuridica ed economica.

Il terzo pilastro della cultura della concorrenza è il disfavore verso i monopoli concessi dal sovrano (e poi dallo Stato). Quasi quattro secoli fa, nel 1624, questo disfavore si cristallizzò in una legge del Parlamento inglese, lo Statute of Monopolies.

La nascita di questa legge si deve inquadrare nel conflitto fra sovrano e Parlamento che caratterizza la storia inglese all’epoca dei primi Stuart. I sovrani vogliono procedere speditamente nella costruzione dello Stato affermando il proprio potere direttivo, mentre il Parlamento – che in quel torno di tempo diviene consapevole di essere voce e specchio della nazione – vuole, da parte sua, un ruolo da protagonista nel processo. I due principali nodi del contendere sono la libertà personale e le imposte. Le imposte, che tradizionalmente richiedono l’assenso del Parlamento, sono una formidabile carta di contrattazione: il Parlamento concede il meno possibile, in modo che il sovrano sia costretto a ricorrere di frequente ai rappresentanti del popolo (Hill 1980; Sacks 1994).

Inizialmente in Inghilterra (come altrove) la concessione di monopoli, licenze, brevetti, si giustifica all’interno di politiche industriali mercantilistiche: a fronte della concessione di un privilegio, il beneficiario dello stesso si impegna a compiere un investimento rischioso, per esempio a portare all’interno dello Stato una nuova attività, una nuova tecnica e simili. Già alla fine del Cinquecento i sovrani cominciano a scoprire le potenzialità fiscali insite nella concessione di monopoli. Ben presto la ratio

6 Cfr. Ghidini (1981).

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attinente al progresso tecnico o economico si perde, e la concessione di monopoli si sposta anche su prodotti che non comportano alcuna ricerca o investimento (piume, cera, mattoni e molto altro). La pervasività del fenomeno dei monopoli è ben messa in luce da Hill (1980). La concessione ha il semplice effetto di garantire un’entrata allo Stato, essendo il privilegio venduto dal sovrano a un prezzo commisurato agli extraprofitti che è capace di generare. I giudici, chiamati a decidere alcuni casi in cui il monopolista lamenta la violazione della privativa (Darcy v. Allein, 1599, il famoso Case of Monopolies: qui in Appendice 3), cominciano a contestare la validità delle concessioni e a metterne a nudo le conseguenze: prezzi alti, bassa qualità delle merci, ingiusta proibizione di esercitare il proprio mestiere per coloro che si trovano ad operare nei settori monopolizzati. Il Parlamento, escluso con l’escamotage dei monopoli dal processo decisionale sulle imposte, protesta a sua volta contro l’abuso, e giunge infine, sfidando il re, allo Statute.

In sintesi, lo Statute (v. Appendice 2) stabilisce che nessuno (re, amministrazione, Parlamento) può concedere monopoli di alcun tipo (acquisto, vendita, fabbricazione); che i vecchi monopoli sono annullati (con due eccezioni, come vedremo); che se anche qualcuno fosse concesso ex novo, i diritti a esso conseguenti siano unenforceable (colui che resiste in giudizio a chi vuole far valere un monopolio, ha diritto a ricevere come compenso due volte i beni perduti e tre volte il danno subito). Si fa eccezione per i privilegi concessi in passato (e quindi non per il futuro) da un atto del Parlamento, e per quelli concernenti invenzioni (“working or making of new manufactures”); ma questi ultimi valgono solo 14 anni dalla data della concessione7.

Nonostante la legge, i sovrani – con vari sistemi elusivi – continuarono a concedere monopoli, provocando la reazione del popolo e del Parlamento: la questione rimase in primo piano nell’agenda politica, e si continuò a ragionare sui danni del monopolio. Stephen Dowell (1884, p. 244) cita l’eloquente discorso pronunciato da John Colepeper of Bedgebery al Lungo Parlamento il 9 novembre 1640: “These men [i monopolisti], like the frogs of Egypt, have gotten possession of our dwellings, and we have scarce a room free from them: they sup in our cup, they dip in our dish, they sit by our fire.”

La cultura inglese, che fu la prima ad approdare al divieto di monopolio legale, si preparò così anche a reagire al fenomeno del monopolio nascente nel mercato. Infatti, il movimento intellettuale e politico che conduce all’approvazione dello Statute of Monopolies chiarisce anche i mali del monopolio in sé (rialzo dei prezzi, abbassamento

7 Questa legge è ancora in vigore in alcuni paesi del Commonwealth, per esempio in Australia, dove costituisce la base del diritto brevettuale.

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della qualità, disoccupazione), indipendentemente dal fatto che derivi o no da una concessione sovrana. E questo introduce nella cultura inglese un seme – l’antimonopolismo – che darà altri frutti quando, con la rivoluzione industriale, le circostanze economiche muteranno (per le enormi possibilità delle economie di scala) e diverrà concreto il pericolo dei monopoli che non traggono più origine dalla concessione del sovrano, ma che si formano sul mercato. Gli strumenti dialettici e analitici formati nel Seicento sarebbero serviti, due secoli e mezzo dopo e in un altro continente, per combattere la battaglia dell’antitrust.

L’obiezione più ovvia al ragionamento svolto fin qui è questa: come mai allora proprio in Inghilterra si afferma uno dei monopoli più famosi di tutta la storia economica, cioè quello della East India Company relativo al commercio con l’India? Cominciamo con l’osservare che la differenza fra commercio interno e commercio internazionale è cruciale. Da un punto di vista logico, si deve ammettere che quando i mari non sono sicuri, perché non c’è polizia, ha senso economico concedere un monopolio a una compagnia che sostenga anche i costi della polizia (si veda su questo il paper di K. O’Rourke). Senza questo monopolio, il commercio semplicemente non si svilupperebbe (fallimento del mercato). Da un punto di vista storico, il monopolio della East India fu giustificato (per esempio in tribunale, quando alcuni potenziali concorrenti sfidarono la legittimità della concessione) sulla base del fatto che l’autorizzazione a commerciare con gli infedeli era una prerogativa regia, un affare di Stato. Il che, tutto sommato, va abbastanza d’accordo con il senso logico dell’operazione. Diverso è il caso dei Navigation Acts promulgati dal 1651. Questi non concedevano un monopolio a una impresa o a una corporazione, ma all’intera marineria inglese, limitatamente al traffico dell’Inghilterra con le colonie. Si tratta di un classico intervento mercantilistico, dello stesso tenore di molti altri (dazi, restrizioni al commercio internazionale…) adottati in quel periodo. La protezione esterna, come abbiamo argomentato sopra, è perfettamente compatibile – logicamente e nei fatti – con la concorrenza interna, e non mina affatto la tesi della formazione precoce di una cultura della concorrenza in Inghilterra.

Le radici dell’antimonopolismo inglese sono quindi assai profonde; esse meritano ancora un cenno comparativo. Ricordiamo che all’inizio del Seicento ovunque in Europa – soprattutto per effetto della Guerra dei Trent’anni – esplodeva il prelievo fiscale (Hoffman 1994). Mentre il Parlamento inglese ingaggia la sua lotta con il sovrano, altrove i parlamenti decadono, emarginati o cancellati dall’assolutismo regio. L’ultima riunione degli Stati generali di Francia è del 1614; quarant’anni prima Emanuele Filiberto aveva smesso di convocare gli stati del Piemonte e della Savoia; l’ultima riunione del Parlamento di Napoli ha luogo nel 1642. Quale sorpresa che la Fronda, la quale pure aveva avuto forti motivi fiscali alla

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sua origine, sia sconfitta dal potere regio, il quale riesce a separare agevolmente nobili e borghesi?

Ben diversa fama acquistano i monopoli al di qua della Manica. Proprio ai monopoli, o alle grandi organizzazioni pubbliche, viene spesso affidata in Francia e in Italia, a partire dal XVII secolo, la funzione dello sviluppo (nei settori più disparati, dal vetro alle armi alle ferrovie). Colbert è il grande sacerdote della dottrina dell’intervento pubblico. Un intervento che per lui ha pur sempre come fine la potenza del sovrano, mentre lo sviluppo industriale è solo un mezzo. Ma con l’affacciarsi della rivoluzione industriale diverrà esso il fine, e i mezzi saranno il monopolio, il campione nazionale, l’industria sussidiata (emblematico, in Italia, il caso della Terni).

Abbiamo visto che le diversità dei cammini nazionali verso la costruzione dello Stato (rapporti fra sovrano, Parlamento e popolo) creano diversità culturali che influenzano le politiche economiche. Ma, in senso inverso, le politiche economiche, quando diventano tradizionali (così potremmo dire del colbertismo in Francia) contribuiscono a fissare diversità di cultura. In tutti i paesi però, intorno alle linee di fondo “culturali” si possono registrare ampie oscillazioni. L’Inghilterra, pur maggior fonte del pensiero concorrenziale, nella fase socialista seguita alla seconda guerra mondiale mette da parte lo spirito dello Statute of Monopolies e partorisce il National Coal Board, un’azienda pubblica monopolista che impiega, alla fine degli anni Quaranta del Novecento, 800 mila lavoratori, il triplo della forza lavoro impiegata dal nostro Iri al momento del suo massimo splendore.

Ciò detto, chiediamoci se esista in Italia una norma che si possa accostare, come ispirazione, allo Statute of Monopolies. Non un divieto, come nel caso inglese, ma qualcosa che – pur accogliendo il monopolio legale nell’ordinamento – ne temperi le conseguenze negative sui consumatori. In effetti un embrione esiste: è l’articolo 2597 del Codice civile, introdotto nel 1942, che impone al monopolista legale “l’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa, osservando la parità di trattamento”. Si legge in queste righe un richiamo alla teoria economica, secondo la quale il monopolista non vincolato ha interesse a operare discriminazioni. Questa norma ha avuto una sua forza espansiva? Intorno ad essa si è creata cioè una cultura? A questa domanda non possiamo che rispondere in modo negativo, nonostante la stessa Relazione al codice (n. 1046) qualifichi la norma come un “principio che si impone a difesa del consumatore come necessario temperamento della soppressione della concorrenza”. La storia dell’interpretazione riduttiva data da dottrina e giurisprudenza a questo articolo è oggi guardata con un certo stupore da Osti (2004 e 2009).

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Naturalmente, i tre pilastri che abbiamo descritto non lavorano isolati: nel sistema giuridico, e oltre il sistema giuridico, essi interagiscono. Questa interazione dà al concetto di concorrenza quella che si potrebbe chiamare una forza espansiva, che trasforma la tutela della concorrenza in principio generale e sociale.

Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento inizia quella che si potrebbe definire la prima ondata di deregulation, in nome della libertà di commercio. Di questa ondata gli economisti (e in particolare Adam Smith, il quale nella Ricchezza delle Nazioni fa un famoso paragone fra la criminalizzazione del forestalling e la caccia alle streghe) sono indiscussi protagonisti. In tutta Europa le leggi su forestalling, regrating, engrossing e simili sono abrogate, salvo alcune. In Inghilterra, per esempio, resiste quella concernente la diffusione di notizie false atte a modificare il prezzo, l’analogo del nostro aggiotaggio; in alcuni stati americani sopravvive il divieto del price gouging, cioè il rialzo dei prezzi praticato dopo un disastro naturale8.

Nondimeno, la presenza degli altri due pilastri garantisce che il tema concorrenza rimanga ben vivo nella cultura inglese. Lo stesso avviene negli Stati Uniti, i quali ereditano il sistema legale inglese. Lì l’attenzione per il tema si amplifica per la diffusione e la forza che assume il fenomeno dei trusts, e per la reazione che esso suscita, soprattutto da parte degli agricoltori (in tema soprattutto di tariffe ferroviarie). Lo Sherman Act del 1890, come abbiamo visto, non fa che riprendere e trasformare in legge federale un principio che era esistente e ben vivo nella cultura del Paese, come mostra chiaramente la sentenza della Corte Suprema del 1911 sul caso Standard Oil. La terminologia usata dalla legge è la stessa della common law: restraint of trade. Ciò che cambia, e cambia radicalmente, con lo Sherman Act, sono i soggetti che possono invocare le tutele previste contro i comportamenti anticoncorrenziali. Mentre in precedenza il focus era esclusivamente sul rapporto fra venditore e acquirente di un’impresa, e pertanto il giudice poteva intervenire – ed eventualmente far valere l’interesse pubblico – soltanto su sollecitazione della parte lesa (cioè in pratica dell’acquirente), ora altri due attori entrano in scena, e sono legittimati a invocare direttamente la tutela della legge: le imprese concorrenti, più o meno forti, ma sempre ben motivate dal loro interesse a

8 In Italia il crimen monopolii fu abolito con il Codice Zanardelli del 1889. Si segnala, tuttavia, come esso sia stato parzialmente reintrodotto nel 1976 (in tempi di inflazione a due cifre), con l’introduzione dell’art. 501-bis del codice penale, rubricato come “Manovre speculative sulle merci” e volto a punire chiunque “compie manovre speculative ovvero occulta, accaparra o incetta materie prime, generi alimentari di largo consumo o prodotti di prima necessità, in modo atto a determinare la rarefazione o il rincaro sul mercato interno”. Sul punto si rinvia a Libertini (2010), che rileva come la giurisprudenza abbia fatto applicazione della disposizione solo sporadicamente, agli inizi degli anni ’80, per colpire una pratica concordata fra panificatori, che non offrivano sul mercato pane di qualità-base (allora soggetto a prezzo amministrato) per offrire invece solo pane “speciale”, a prezzo libero (ovviamente più elevato).

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stare sul mercato, e lo Stato stesso, attraverso il Justice Department, più o meno motivato (a seconda delle tendenze politiche del momento), ma sempre dotato di ragguardevoli mezzi.

Non così in Italia, dove gli altri due pilastri della cultura della concorrenza (restraint of trade e rifiuto del monopolio legale) non erano mai stati costruiti (abbiamo visto che solo molti anni dopo, con il codice civile del 1942, avrebbero avuto una magra esistenza). Da noi i pochi residui della cultura antica che erano sopravvissuti alla deregulation illuminista, e così pure le aggiunte sparse del codice, rimangono fenomeni isolati, privi di forza espansiva nel complesso del diritto. La reazione popolare e politica al fenomeno monopolistico (lotta ai monopoli) si incanala nella richiesta di creare monopoli pubblici e prezzi amministrati, che sostituiscano i monopoli privati o che rimedino a squilibri di vario genere (energia elettrica, trasporti, latte). La nazionalizzazione dell’energia elettrica, fatta nel 1962, fu probabilmente una decisione sensata dal punto di vista economico – eravamo sul terreno del monopolio naturale – ma merita una riflessione il fatto che l’opinione pubblica antimonopolista dell’epoca si sia ritenuta paga di quel risultato: da allora la “lotta ai monopoli” declina rapidamente e se ne perdono le tracce.

Dobbiamo tuttavia chiederci se l’istituto della concorrenza sleale, che ha avuto un maggiore sviluppo in Italia (rispetto al Regno Unito) dalla fine dell’Ottocento, possa aver costituito, esso, un nucleo di cultura della concorrenza, un pilastro alternativo ai tre che abbiamo descritto. Anche qui, la risposta deve essere negativa. La concorrenza sleale è essenzialmente una dottrina che mira a smussare certe punte della concorrenza, che potrebbero ledere i diritti di proprietà intellettuale, o produrre comunque un danno ingiusto a imprese impegnate nel gioco concorrenziale (sviamento di clientela). Qualora il dibattito sulla concorrenza sleale fosse entrato in dialogo proficuo con l’altro grande tema della tutela del consumatore, allora ne sarebbero potuti nascere interessanti sviluppi riguardanti l’assetto del mercato, per esempio in tema informazione dei consumatori, o della loro possibilità di scelta (come in effetti avvenne negli Stati Uniti negli anni Quaranta del Novecento, con il dibattito innescato dal giudice Learned Hand: cfr. Bone 2012). Ciò non è avvenuto in maniera apprezzabile in Italia, dove la concorrenza sleale è sempre stata intesa come tema riguardante i soli rapporti tra imprese9. Il carattere “verticale” dell’impianto normativo appare legato a un complesso di precetti che rimontano, per origine, respiro e logica applicativa, a una matrice di categoria, catturata dal concetto di correttezza professionale. Il tema dei diritti dei consumatori

9 Si ha un atto di concorrenza sleale, qualora soggetto attivo e passivo siano entrambi imprenditori e si trovino tra di loro in rapporto di concorrenza economica.

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ha preso consistenza in Italia solo negli anni Ottanta, quando ormai i tempi per una legge specifica sulla concorrenza erano maturi.

L’ultimo punto di questo paragrafo lo dedichiamo a un elemento della cultura della concorrenza che è proprio degli Stati Uniti, e che si trova in Europa in scala assai minore. Si tratta della diffidenza nei confronti delle grandi concentrazioni di potere economico, indipendentemente dal fatto che esse operino in regime di concorrenza oppure no. La matrice di questa tendenza è jacksoniana. Fu Andrew Jackson, nel 1832 a negare il rinnovo della licenza alla Second Bank of the United States, non sulla base della teoria economica, ma per combattere una concentrazione di potere che avrebbe, a suo giudizio, inquinato la vita politica del Paese. Nella seconda metà dell’Ottocento il principale portavoce politico di questa tendenza fu il Granger Movement. Una grande vittoria fu l’Interstate Commerce Act del 1887, che imponeva alle compagnie ferroviarie – i giganti dell’epoca – trasparenza delle tariffe e divieto di disparità di trattamento dei clienti. Un ambito di applicazione più generale, e un più preciso richiamo alla concorrenza, li troviamo nello Sherman Act, promulgato tre anni dopo (abbiamo detto come gli economisti fossero sostanzialmente estranei alla sua approvazione, di matrice tutta politica). Sebbene queste istanze siano poi state giudicate demagogiche e irrazionali dalla scuola di Chicago, esse costituiscono ancora oggi un elemento vitale della cultura americana10. In Italia, un intellettuale e uomo politico che, almeno in parte, ha espresso questi orientamenti, è Ernesto Rossi. Rossi e i suoi amici del Mondo furono una delle anime più vivaci del movimento che portò alla nazionalizzazione dell’industria elettrica, come reazione allo strapotere politico delle “baronie elettriche”.

5. L’evoluzione della legislazione sulla concorrenza in Italia

Lo sviluppo della legislazione italiana in materia di concorrenza è un indicatore della penetrazione – e della portata – del concetto di concorrenza nel nostro paese. Esso, in estrema sintesi, evolve da una nozione, riferita esclusivamente alla libertà individuale di commercio, della quale era necessario prevenire possibili “eccessi” e, quindi, le conseguenze antisociali a essi connesse, a una concezione nella quale la concorrenza ha finalità di carattere generale e rappresenta un processo atto a sostenere lo sviluppo economico e il benessere collettivo.

Tale evoluzione, largamente dovuta all’influenza (esterna) dell’ordinamento comunitario, volta a promuovere livelli di tutela della concorrenza sempre più elevati, appare anche influenzata dall’emergere di nuove istanze imprenditoriali. In estrema sintesi, se in passato (a partire

10 Si veda, per esempio, Zingales (2012).

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dall’’800) gli imprenditori avevano avvertito la (sola) necessità di difendersi dai comportamenti scorretti dei concorrenti, a garanzia del leale svolgimento della competizione tra imprese, negli anni ’70 comincia a diffondersi l’idea che l’introduzione di una disciplina generale sulla tutela della concorrenza non rappresenti soltanto una limitazione del potere di mercato privato (aspetto che ne ha per più versi ostacolato l’adozione), ma anche un modo per impedire che vi fossero imprese (pubbliche) beneficiarie di un trattamento preferenziale rispetto alle altre11.

La concezione iniziale della concorrenza si esprime in tre orientamenti di fondo12:

i) la regolazione amministrativa dei mercati è generalmente ammessa, tutte le volte in cui la pura e semplice libertà d’impresa non sembra garantire “l’ordinato sviluppo del mercato” (da qui la legittimazione di poteri amministrativi discrezionali di autorizzazione all’esercizio di numerose attività, come l’ampio uso di prezzi amministrati, ecc.)13. Certamente la libertà di commercio rimane il principio, ma ovunque si ravvisi (a discrezione dell’autorità politica) un “problema da risolvere”, la risposta necessaria è vista nella regolazione amministrativa, considerata garante della protezione dell’interesse della generalità dei cittadini;

ii) i cartelli fra imprese vengono valutati come strumenti di autoregolazione dei mercati, atti a garantire stabilità ed efficienza a interi settori economici. Si riconosce, tuttavia, che – in certi casi – i cartelli possono essere utilizzati anche a fini antisociali, vale a dire per estrarre dai mercati ingiustificati profitti monopolistici, e – pertanto – si introducono forme di vigilanza amministrativa. Si tratta, in buona sostanza, del modello di disciplina dei consorzi14, che di fatto rappresentano cartelli e sono riconosciuti come leciti in linea di principio (e anzi spesso opportuni: sì che lo Stato può anche imporne la costituzione in forma di “consorzi obbligatori”). Essi sono, tuttavia, soggetti a limiti temporali (termine decennale) e a un generale potere di vigilanza ministeriale (artt. 2618-2620 del codice civile)15;

11 Cfr. Pera (2010). 12 Cfr. Libertini (2010). 13 Cfr. Libertini (1979), che offre una disamina della serie di misure, piuttosto pervasive, di regolazione dei mercati, stratificatesi nell’ordinamento italiano, alla vigilia delle liberalizzazioni imposte dalla Comunità Europea. 14 Vale a dire dei contratti tra “imprenditori esercenti una medesima attività economica o attività economiche connesse”, disciplinati a livello generale dal codice civile del 1942, con salvezza delle leggi speciali di riferimento (in particolare, la l. 16 giugno 1932, n. 834 sulla costituzione e funzionamento dei consorzi tra esercenti uno stesso ramo di attività economica). 15 L’abolizione dell’ordinamento corporativo, subito dopo l’entrata in vigore del codice civile, ha comportato che tali disposizioni sulla vigilanza amministrativa sui cartelli non siano state mai concretamente applicate. Cfr. Libertini (2000), secondo il quale tale vigilanza poteva rappresentare una

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iii) si introduce una disciplina della concorrenza sleale16 (artt. da 2598 a 2601 del codice civile), limitata ai soli rapporti tra imprese (cfr. paragrafo precedente), che per lungo tempo rimane prevalentemente ispirata a concezioni che sono state chiamate “garantiste” (o “protezionistiche” o “corporative”), in quanto volte a frenare le pratiche più aggressive17: sono così vietati i fenomeni di confusione e di parassitismo, ma è vietata anche – in termini generali – la critica fra concorrenti (“denigrazione commerciale”), la pubblicità comparativa, ecc. In sostanza, la disciplina della concorrenza sleale è vista soprattutto come uno strumento atto a garantire all’imprenditore il legittimo godimento dei frutti del proprio lavoro, contro le aggressioni ingiustificate altrui.

L’orientamento interpretativo dominante, e perfettamente in linea con le principali istanze sia imprenditoriali, sia politiche dell’epoca, confina la concorrenza nell’ambito della tutela degli interessi dati e degli imprenditori già operanti e addirittura organizzati. Essa non è considerata né come fattore di sviluppo dell’economia, e quindi del benessere collettivo, né tanto meno come strumento di tutela dei consumatori. Anzi, con la previsione della possibilità di stabilire limiti contrattuali alla concorrenza il codice (art. 2596 – Limiti contrattuali alla concorrenza: cfr. paragrafo precedente), lungi dal prevedere la concorrenza come principio generale dell’ordinamento, la qualifica come strumento che realizza un interesse individuale e quindi un diritto del quale il soggetto titolare può disporre.

Tale orientamento è avvalorato da un’altra disposizione di carattere generale contenuta nel codice (l’art. 2595), che fissa i limiti legali ai quali la concorrenza deve soggiacere. Essa, dunque, assume una portata ben

forma embrionale di controllo antitrust, la cui valenza sistematica è stata sottovalutata dalla dottrina e dalla giurisprudenza che, fino all’entrata in vigore della legislazione antitrust nazionale, hanno interpretato le norme del codice in materia di accordi restrittivi della concorrenza come legittimanti qualsiasi tipo di accordo. 16 Già presente nell’elaborazione giurisprudenziale della seconda metà del 1800, che configurava quali illeciti extra contrattuali (art. 1151 del codice civile del 1865) gli atti di concorrenza sleale, giungendosi a tipizzare altresì taluni comportamenti (imitazione di prodotti o segni distintivi altrui idonei a creare confusione, denigrazione commerciale, appropriazione di pregi). Altro passo verso l’adozione di una normativa specifica è rappresentato dalla Convenzione per la protezione della proprietà industriale, stipulata a Parigi il 20 marzo 1883, nella quale venne inserito – con l’atto addizionale del 14 dicembre 1900 – l’art. 10-bis, con cui si accorda tutela, in ciascuno stato contraente, contro la concorrenza sleale. Tale disposizione diviene più stringente con la revisione di Washington 1911 e poi con quella dell’Aja del 1925, con le quali l’assicurazione di una protezione effettiva contro la concorrenza sleale rappresenta un obbligo per tutti gli Stati contraenti anche al loro interno (si stabilisce che tutti i benefici accordati da convenzioni o trattati internazionali agli stranieri nelle materie contemplate dalla convenzione erano estesi anche ai cittadini italiani). Questa disposizione costituisce la sola disciplina della concorrenza sleale in Italia fino all’entrata in vigore del codice civile del 1942, che si occupa della materia con norme sostanzialmente ispirate a quelle della Convenzione. 17 Cfr. Ghidini (1976); Libertini (2010), che segnala come tale interpretazione si sia affermata nonostante le disposizioni del codice civile avesse sostituito il riferimento agli “usi onesti del commercio” (presente nella Convenzione per la protezione della proprietà industriale) con quello alla “correttezza professionale”, in ciò caratterizzandosi per una certa modernità.

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circoscritta, in quanto deve rispettare i limiti stabiliti dalla legge (e dalle norme corporative) e soprattutto “non ledere gli interessi dell’economia nazionale”: nel che è implicito la presenza di una sua “pericolosità”, che dovrebbe essere governata da un livello superiore di controllo capace di esprimere l’interesse nazionale.

Ciò ha portato gli interpreti, seppure con alcune eccezioni18, a trascurare la valenza sistematica di altre disposizioni pure presenti nel codice civile (si pensi all’obbligo di contrarre e di parità di trattamento imposto al monopolista legale dall’art. 259719 o ai divieti di concorrenza dell’alienante di azienda di cui all’art. 255720, del lavoratore dipendente di cui all’art. 210521 e dell’amministratore di società di capitali di cui all’art. 239022), che potevano rappresentare indizi di un livello di tutela della concorrenza più generale, aprendo la strada – come, peraltro, avvenuto nel mondo anglosassone con la dottrina del restraint of trade – a un diritto della concorrenza anche prima dell’introduzione della disciplina antitrust23.

Tale assetto ha importanti ricadute dal punto di vista pratico. Ne deriva, ad esempio, che un atto pregiudizievole direttamente per gli interessi della collettività non è, ai sensi del codice civile punibile in sé se non lesivo di diritti o aspettative di imprese concorrenti: il danno preso in considerazione dalla normativa del codice civile è, quindi, esclusivamente quello nei riguardi dell’altrui azienda, non anche quello nei confronti dei (soli) consumatori.

Tale quadro non muta con la Costituzione del 1948, anche se l’art. 41 stabilisce che “l’iniziativa economica privata è libera”. La norma, infatti, dopo aver enunciato tale principio, ne precisa i contenuti stabilendo innanzitutto dei limiti “passivi”: l’iniziativa privata non può svolgersi in

18 Cfr. Ascarelli (1952). 19 Sul tema si rinvia al paragrafo precedente e a Osti (2004) e (2009). Più in generale, v. anche Berruti (2002), che arriva a teorizzare la coerenza delle norme codicistiche con la legislazione antimonopolistica, interna ed europea. 20 A mente del quale, “Chi aliena l’azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta. Il patto di astenersi dalla concorrenza in limiti più ampi […] è valido, purché non impedisca ogni attività professionale dell’alienante. Esso non può eccedere la durata di cinque anni dal trasferimento. Se nel patto è indicata una durata maggiore o la durata non è stabilita, il divieto di concorrenza vale per il periodo di cinque anni dal trasferimento. [….]”. 21 In base al quale “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare a essa pregiudizio”. 22 A mente del quale “gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un’attività concorrente per conto proprio o di terzi, salvo autorizzazione dell’assemblea. Per l’inosservanza di tale divieto l’amministratore può essere revocato dall’ufficio e risponde dei danni” (testo originario). 23 Cfr. Libertini (2006).

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contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Inoltre, sono individuati anche dei limiti attivi, disponendosi che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Ciò ha consentito di sostenere – almeno nell’interpretazione allora dominante24, come si vedrà poi ribaltata dalla legge antitrust del 1990 – che, pur qualificando l’economia di mercato come interesse costituzionalmente rilevante attraverso il riconoscimento della libertà di iniziativa del singolo, l’art. 41 non ha inteso affermare un principio di libera concorrenza, come disciplina del mercato in quanto tale, in contrapposizione a forme monopolistiche od oligopolistiche.

Anzi, a dimostrazione di questa interpretazione, proprio gli ultimi due commi dell’art. 41 e l’art. 43 successivo della Carta costituzionale hanno costituito nel corso degli anni seguenti la base giuridica per un massiccio intervento dello Stato nell’economia. Esso ha comportato il mantenimento di regimi economici monopolistici od oligopolistici in settori dichiarati di interesse nazionale o comunque strategici, in una visione volta: i) al rafforzamento della struttura produttiva nazionale, tale da renderla competitiva anche sui mercati internazionali; ii) all’industrializzazione di aree depresse e iii) al mantenimento di livelli occupazionali che, almeno nelle dichiarazioni dei proponenti, favorissero un aumento del benessere generale.

Tuttavia, proprio l’espansione dell’industria pubblica fece vedere l’introduzione di una disciplina generale sulla tutela della concorrenza25 non più come volta solo a limitare il potere di mercato privato, ma anche a impedire che vi fossero imprese (pubbliche) beneficiarie di un trattamento preferenziale rispetto alle altre26. A ciò si aggiungeva l’influenza sempre maggiore dell’ordinamento comunitario, che riteneva la politica della concorrenza essenziale alla realizzazione del mercato interno, perché avrebbe permesso alle imprese di competere a parità di condizioni sui mercati di tutti gli Stati membri, con effetto di promozione dell’efficienza e dello sviluppo economico27.

24 Benché non siano mancate anche tesi contrarie, rimaste minoritarie: per una ricostruzione del dibattito dottrinario si rinvia a Buffoni (2003). V., anche, Amato (1997). 25 Dopo il naufragio dei disegni di legge presentati nel corso degli anni ‘50: cfr. Pera (2010). 26 Cfr. Pera (2010); Grillo (2014), che però rileva lo scetticismo della parte conservatrice del mondo confindustriale sui benefici di una normativa antitrust, in quanto temeva – tra le altre cose – che all’impresa pubblica sarebbe stato consentito di eluderla, allargando così, e non restringendo, lo iato tra imprenditoria privata e pubblica in Italia. 27 L’obiettivo fondamentale delle disposizioni comunitarie in materia di concorrenza, prima con la previsione di disposizioni nell’ambito del Trattato che istituiva la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio nel 1951 dove era previsto un divieto per le intese restrittive della concorrenza, la discriminazione dei prezzi e una prima forma di controllo delle concentrazioni e poi con le norme specifiche del Trattato CEE del 1957, era pertanto quello di fissare “un regime inteso a garantire che la

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Lo stimolo che dà nuovo vigore all’iter legislativo viene, infatti, proprio dalla Comunità Europea, che in vista dell’adozione e della successiva entrata in vigore dell’Atto Unico del 1986, presenta il Libro Bianco della Commissione CEE sul completamento del Mercato Interno nel 1985, dando un forte impulso a dotarsi di politiche atte a favorire il funzionamento dei mercati coerenti con quelle comunitarie28.

A valle della presentazione da parte della Commissione del Libro Bianco, in Italia si susseguono varie iniziative, che però non approdano a risultati tangibili29. Fino a quando nel primo semestre del 1988 vengono presentati due disegni di legge: uno intitolato “Norme per la tutela del mercato”, presentato dal senatore Guido Rossi30; l’altro, intitolato “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato” di iniziativa governativa, presentato dal Ministro dell’Industria Adolfo Battaglia. Dalla fusione di queste due proposte è scaturita la legge 287, approvata il 27 settembre del 1990 dal Senato, e che attualmente reca la disciplina della concorrenza in Italia, in rapporto alla normativa europea31.

Sin dall’art. 1 la legge 287 si pone come attuazione dell’art. 41 della Costituzione, legittimando in tal modo la configurazione del diritto a un mercato concorrenziale come diritto costituzionalmente protetto. Necessaria conseguenza di questa impostazione è la connotazione pubblicistica della concorrenza intesa per la prima volta in senso oggettivo, come interesse generale, con un netto ribaltamento rispetto alle norme del codice civile, dove le disposizioni in materia di concorrenza sono dettate a tutela degli interessi patrimoniali dei singoli imprenditori eventualmente lesi dai concorrenti32. Tant’è che la disciplina adottata si basa su divieti di

concorrenza non sia falsata nel mercato interno” (art. 3g del Trattato) quale condizione di realizzazione del mercato interno. 28 C’è da aggiungere che proprio in quegli anni avviene a livello comunitario l’avvio della politica dei consumatori, che ha la sua origine con il primo programma d’azione relativo alla protezione dei consumatori del 25 aprile 1975 e si sostanzia con l’approvazione dell’Atto unico, entrato in vigore il 1° luglio 1987, che ha permesso di introdurre nel Trattato la nozione di consumatore. L’articolo 100 A autorizza, infatti, la Commissione a proporre misure per proteggere i consumatori basandosi su “un livello di protezione elevato”. Tale nozione, pur se non è stata oggetto di una definizione precisa, ha avuto il merito di gettare le basi per un riconoscimento giuridico della politica dei consumatori, che non ha mancato di estendersi nel diritto dei singoli Stati membri. 29 Per una disamina delle quali si rinvia a Pera (2010). 30 Eletto da indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano. 31 Cfr. Osti (2007); Amato (1997). Si segnala come una prima disciplina antitrust, limitatamente al settore dell’informazione massmediale, fosse intervenuta già con la l. 5 agosto 1981, n. 416 che, nell’istituire il “Garante per l’editoria”, gli aveva attribuito compiti di vigilanza sulle concentrazioni d’impresa nel settore al fine di evitare l’emersione di soggetti in posizione dominante, definendo in maniera analitica i limiti di mercato non valicabili, a pena di nullità, da singole imprese editoriali. 32 La tutela della concorrenza (e del mercato inteso come un unicum), definita per dettare regole alle imprese nel mercato di riferimento (geografico o sostanziale) influisce in modo determinante sui comportamenti e sulle scelte dei fruitori dei beni o dei servizi prodotti dalle imprese. In tal senso, il legislatore nazionale, oltre a prevedere specificamente gli effetti rispetto ai consumatori in termini sia

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carattere generale di intese e di abusi di posizione dominante, con alcune limitate eccezioni. Avendo in mente questa concezione della concorrenza, il ritardo tradizionalmente attribuito al legislatore italiano nell’introdurre una disciplina antitrust rispetto al resto dell’Europa sembrerebbe minore di quanto non si creda: cfr. tavola seguente.

quantitativi sia qualitativi (prezzi, prestazioni gravose, benefici) nelle ipotesi che configurano le fattispecie di intese (o determinano ipotesi di ammissione delle stesse) e comportamenti abusivi di posizione dominante, prevede espressamente il diritto delle associazioni dei consumatori di portare a conoscenza dell’Antitrust gli elementi per consentire l’avvio dell’istruttoria in materia di intese e di abuso di posizione dominante. Così i consumatori, quali rappresentanti la domanda di beni e servizi, quindi come secondo termine del mercato e attori di esso, beneficiano di disposizioni che regolano la condotta delle imprese in termini di aumento della produzione, della differenziazione dei beni, di possibilità di scelta e di prezzi più vantaggiosi.

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Tav. 1 – Leggi antitrust in Europa Paese Legge antitrust: anno di

adozione Tipologia di «approccio legislativo»

Italia 1990 Divieti generali di accordi e pratiche anticoncorrenziali, con limitate eccezioni.

Svezia 1925 Accordi e pratiche anticoncorrenziali sono sanzionati solo ove non rispondenti all’interesse generale (solo nel 1993 passaggio a divieti generali, con limitate eccezioni).

Francia 1945 Approccio settoriale e incompleto (solo nel 1986 viene approvata una normativa generale).

Regno Unito 1948 Accordi e pratiche anticoncorrenziali sono sanzionati solo ove non rispondenti all’interesse generale (dagli anni ’70 il controllo sulla rispondenza all’interesse pubblico comincia gradualmente a inasprirsi, ma solo dopo il 1998 si passa a divieti generali con limitate eccezioni, con adeguamento effettivo alla disciplina europea).

Irlanda 1953 Accordi e pratiche anticoncorrenziali sono sanzionati solo ove non rispondenti all’interesse generale (solo nel 1991 passaggio a divieti generali, con limitate eccezioni).

Danimarca 1955 Accordi e pratiche anticoncorrenziali sono sanzionati solo ove non rispondenti all’interesse generale (solo nel 1997 passaggio a divieti generali, con limitate eccezioni).

Olanda 1956 Accordi e pratiche anticoncorrenziali sono sanzionati solo ove non rispondenti all’interesse generale (solo nel 1998 passaggio a divieti generali, con limitate eccezioni).

Germania 1957 Divieti generali di accordi e pratiche anticoncorrenziali, con limitate eccezioni.

Spagna 1963 Accordi e pratiche anticoncorrenziali sono sanzionati solo ove non rispondenti all’interesse generale (solo nel 1985 e nel 1989 passaggio a divieti generali, con limitate eccezioni, e adeguamento effettivo alla disciplina europea).

Polonia 1990 Divieti generali di accordi e pratiche anticoncorrenziali, con alcune eccezioni (circoscritte a partire dal 1995).

Russia 1991 Divieti generali di accordi e pratiche anticoncorrenziali (ma con ampi spazi di deroga, circoscritti solo a partire dal 2006).

Portogallo 1993 Divieti generali di accordi e pratiche anticoncorrenziali, con limitate eccezioni.

Svizzera 1995 Divieti generali di accordi e pratiche anticoncorrenziali solo se non giustificati da motivi di efficienza economica.

Romania 1996 Divieti generali di accordi e pratiche anticoncorrenziali (ma con numerose esenzioni).

Europa Comunitaria

1957 Divieti generali di accordi e pratiche anticoncorrenziali, con limitate eccezioni (nel 1989 adozione del regolamento sulle concentrazioni)

28

A partire da quel momento, vi è stata una progressiva espansione della tutela della concorrenza a livello legislativo, spesso (ma non sempre) in ossequio a obblighi scaturenti dal diritto europeo, che ha condotto a un progressivo rafforzamento del ruolo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) e all’adozione di importanti leggi speciali.

La disciplina in materia di pubblicità ingannevole e comparativa segue di poco l’emanazione della l. 287, e i compiti in materia vengono affidati alla stessa Autorità33. Ciò ha, tra l’altro, comportato che gli strumenti di tutela nei confronti delle ipotesi di pubblicità comparativa, da sempre fatta rientrare in una delle ipotesi specifiche di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 del codice civile, valessero non solo nei confronti dei concorrenti, ma altresì nei confronti dei consumatori in maniera diretta e non più mediata. La direttiva 2005/29/CE (recepita con i d.lgs. 2 agosto 2007, nn. 145 e 146), diversificando i regimi per imprese e consumatori, ha esteso la sfera di tutela di questi ultimi all’intero ambito delle pratiche commerciali scorrette34.

Sono state, poi, attribuite – tra le altre cose – all’AGCM: i) le competenze sui conflitti di interessi (l. 20 luglio 2004, n. 215); ii) quelle sul rating di legalità delle imprese (l. 18 maggio 2012, n. 62); iii) compiti di “sostegno” al Governo nella predisposizione della legge annuale per il mercato e la concorrenza (l. 23 luglio 2009, n. 99)35. Ma soprattutto è stato accresciuto il ruolo di regolamentatore delegato, giustificato in un’ottica di protezione diretta del consumatore e delle piccole e medie imprese (PMI) in quanto “contraenti deboli”36.

33 Cfr. il d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, di recepimento della direttiva CEE 84/450: la pubblicità ingannevole rileva ai fini della tutela dell’interesse sia del potenziale acquirente, sia del concorrente. 34 Oggi solo alcune categorie residuali di atti concorrenziali rimangono governate esclusivamente dall’art. 2598 del codice civile: ad esempio, i) la denigrazione non attuata in forma pubblicitaria; ii) i comportamenti “parassitari” non confusori; iii) gli atti persecutori di un’impresa contro un’altra (storno di dipendenti e simili). 35 Più in dettaglio, l’art. 47 di tale legge prevede che, entro sessanta giorni dalla data di trasmissione al Governo della relazione annuale dell’AGCM, il Governo, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, sentita la Conferenza unificata Stato – Città e autonomie locali, tenendo conto anche delle segnalazioni eventualmente trasmesse dell’AGCM, presenta alle Camere il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza. Tale legge annuale ha l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, all’apertura dei mercati, di promuovere lo sviluppo della concorrenza e di garantire la tutela dei consumatori. 36 Si pensi all’abuso di dipendenza economica (l. 5 marzo 2001, n. 57); alle pratiche commerciali scorrette (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) e all’inibizione delle clausole vessatorie nei rapporti contrattuali tra imprese e consumatori (d. lgs. 2 agosto 2007, n. 145); alla commercializzazione dei diritti sportivi (d.lgs. 9 gennaio 2008, n. 9); al ritardo nei pagamenti della Pubblica Amministrazione alle PMI (l. 11 novembre 2011, n. 180); ai rapporti contrattuali nella filiera agro-alimentare (d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito nella l. 24 marzo 2012, n. 27).

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Un ampliamento delle prerogative dell’Autorità si è avuto anche sul piano giudiziario, essendole stata attribuita la legittimazione ad agire in giudizio, di fronte al giudice amministrativo, contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato37.

Tuttavia, pur a fronte di una tale proliferazione normativa, non sembra esservi sempre stata altrettanta attenzione sul piano dell’attuazione delle numerose misure e del concreto recepimento delle varie sollecitazioni provenienti dall’AGCM.

Ad esempio, la legge annuale per il mercato e la concorrenza non è mai stata adottata, nonostante in questi anni l’Autorità abbia inviato quattro segnalazioni sul tema, secondo le previsioni di legge38. Più in generale, emergono forti limiti nell’efficacia dell’attività di advocacy svolta dall’AGCM e tesa alla “promozione” della concorrenza: essa è stata, infatti, sistematicamente condizionata alla circostanza di essere svolta nell’ambito del recepimento interno degli indirizzi di politica della concorrenza e di liberalizzazione dei mercati fissati dalla normativa europea e, nella maggior parte dei casi, senza trascenderne il perimetro39.

6. La giurisprudenza della Corte Costituzionale

Come già segnalato (cfr. il precedente paragrafo), il testo originario della nostra Carta Costituzionale non contemplava esplicitamente la “tutela della concorrenza”: solo con la riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione, realizzata nel 2001, essa è stata espressamente menzionata, non però con rilievo autonomo, ma solo come materia da attribuire alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. e))40. Tuttavia, pur non investendo direttamente il già evidenziato dibattito sul ruolo che il principio della libertà di concorrenza ha assunto nella nostra “Costituzione

37 Cfr. l’art. 35 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella l. 22 dicembre 2011, n. 214, che ha inserito l’art. 21-bis nella l. 10 ottobre 1990, n. 287. Inoltre, sono state adottate numerose leggi speciali che hanno disciplinato ulteriori fattispecie a tutela della concorrenza: si pensi, ad esempio, alla l. 18 giugno 1998, n. 192 sulla subfornitura per quanto riguarda l’abuso di dipendenza economica o a tutta la normativa a tutela del consumatore, attualmente confluita nel d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo). 38 Cfr., rispettivamente, le segnalazioni: i) AS659 del 9 febbraio 2010; ii) AS901 del 5 gennaio 2012; iii) AS988 del 2 ottobre 2012; iv) AS1137 del 4 luglio 2014. 39 Per maggiori dettagli si rinvia a Grillo (2014). 40 Tale esplicita menzione avviene, dunque, sul terreno del Titolo V, che era e rimane quello dell’organizzazione dei pubblici poteri e delle pubbliche funzioni in una rinnovata logica di actio finium regundorum tra Stato e autonomie territoriali. Cfr. Buffoni (2003).

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economica”41, prevalentemente per il tramite dell’art. 41 Cost., l’esplicita menzione della “tutela della concorrenza” rappresenta un indice significativo della penetrazione del concetto di concorrenza nella nostra cultura e nel nostro ordinamento, peraltro al più alto livello delle fonti del diritto.

Al fine di valutare la recettività e il ruolo svolto dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale rispetto a tale dibattito, è stata svolta un’analisi delle decisioni rese dalla Corte di carattere sia quantitativo (sulla ricorrenza della parola “concorrenza”)42, sia qualitativo (relativamente all’interpretazione del concetto di concorrenza e al suo fondamento costituzionale).

Quanto agli aspetti quantitativi, sono state esaminate tutte le decisioni rese dalla Corte nel periodo che va dal 1956 (anno nel quale essa ha cominciato pienamente a operare) al 201343. L’analisi ha mostrato un trend crescente per quanto riguarda sia il numero di decisioni nelle quali ricorre la parola concorrenza (si passa da una decisione nel 1956 a 63 decisioni nel 2013: cfr. tavola 2); sia la frequenza con la quale ricorre la parola “concorrenza” in tali decisioni (si passa da una sola menzione nel 1956 a 443 nel 2013, con un picco di 560 nel 2010: cfr. tavola 3).

Con riguardo al numero di decisioni che contemplano la parola concorrenza, un primo aumento si registra alla fine degli anni ‘80, in concomitanza con i lavori e poi con l’introduzione della legge antitrust; il trend si fa più marcato con l’entrata in vigore della riforma del Titolo V (cfr. tavola 2). Diversamente, la frequenza della parola “concorrenza” nelle decisioni rimane pressoché stabile, seppure con alcuni picchi, fino all’adozione di tale riforma: momento a partire dal quale vi è una forte crescita (cfr. tavola 3).

41 Si precisa che nel presente lavoro la formula “Costituzione economica” viene utilizzata in senso neutro-descrittivo, per indicare le norme ed i principi costituzionali governanti “il modo di realizzazione di tutti i rapporti economici”: così Amato (1997). 42 Escludendo accezioni estranee (ad esempio, concorrenza di competenze). 43 Il campione ha ad oggetto 498 decisioni.

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Tav. 2 – Decisioni della Corte Costituzionale nelle quali è presente la parola “concorrenza” (in numero: periodo 1956-2013)

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20

30

40

50

60

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1956 1958 1960 1962 1964 1966 1968 1970 1972 1974 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012

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Tav. 3 – Frequenza della parola “concorrenza” nelle decisioni della Corte Costituzionale (periodo 1956-2013)

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200

300

400

500

600

Per quel che concerne gli aspetti qualitativi, abbiamo in primo luogo esaminato alcune delle principali decisioni nelle quali la Corte si è soffermata sul principio di libertà di concorrenza e sul suo fondamento costituzionale. Sebbene in modo non esplicito e spesso a livello di obiter dicta, la Corte pare avere rintracciato – fin dalla metà degli anni ‘60 – il fondamento della tutela della concorrenza nell’art. 41 della Costituzione, lasciando però uno spazio estremamente ampio alle finalità di utilità sociale con le quali l’attività economica non può svolgersi in contrasto (comma 2 del medesimo articolo)44: in linea, quindi, con l’interpretazione dominante (cfr. il paragrafo precedente). Così si è affermato che “nella disciplina legislativa dei rapporti economici costituiscono fini di utilità sociale sia gli interessi della produzione che la protezione del contraente più debole”45.

In seguito (1982), è stata offerta una nozione più ampia della garanzia della libertà di concorrenza, osservandosi che essa ha “una duplice finalità: da un lato, integra la libertà di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori e, dall’altro, è diretta alla protezione della collettività, in quanto l’esistenza di una pluralità di imprenditori, in concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualità dei prodotti e a contenerne i prezzi”46. La concorrenza comincia a essere vista come un valore in sé.

Successivamente (1990), la Corte – nell’invocare un intervento legislativo in materia antitrust – ne individua una duplice ratio: i) la tutela della libertà di concorrenza (“valore basilare della libertà di iniziativa economica” e “funzionale alla protezione degli interessi della collettività dei consumatori”) e ii) la difesa delle “esigenze dei contraenti più deboli”, fra i quali dobbiamo logicamente annoverare anche le imprese concorrenti. In linea, peraltro, con quel “programma di eliminazione delle disuguaglianze di fatto additato dall’art. 3, comma 2, Cost., che va attuato anche nei confronti dei poteri privati e richiede tra l’altro controlli sull’autonomia privata finalizzati a evitare discriminazioni arbitrarie”47.

A partire dalla seconda metà degli anni ‘90, dopo l’entrata in vigore della legge 27 settembre 1990, n. 287, la Corte è parsa più esplicitamente collegare la tutela della concorrenza al “fine di utilità sociale cui deve essere finalizzata l’attività imprenditoriale”. Più in dettaglio, la Corte sembra rinvenire l’utilità sociale proprio nelle regole economiche della concorrenza, che varrebbero da sole “ad orientare l’imprenditore verso l’impiego di mezzi tecnici e di personale più confacente alla propria

44 Cfr. C. Cost. 9 aprile 1963, n 46 e 10 giugno 1969, n. 97. 45 Cfr. C. Cost. 10 giugno 1966, n. 65. 46 Cfr. C. Cost. 16 dicembre 1982, n. 223. 47 Cfr. C. Cost. 15 maggio 1990, n. 241.

33

posizione di mercato e alle aspettative dei consumatori”48. Muove, ad esempio, in questa direzione il revirement della Corte sulla legittimità costituzionale della disciplina che vietava la produzione di paste alimentari di grano tenero, in precedenza difesa (1980) ritenendo conforme all’utilità sociale la salvaguardia di un alto livello qualitativo della produzione nazionale, sì da differenziarla da quella estera, pur vendibile in Italia49. Sebbene la motivazione dell’incostituzionalità della normativa restrittiva risieda essenzialmente nella discriminazione dei produttori nazionali rispetto a quelli stranieri (in violazione dell’art. 3 Cost.), il riferimento anche alla libertà di iniziativa economica (di cui all’art. 41 Cost.) sembra indicare l’incompatibilità con tale valore di discipline che vietino la produzione di merci di qualità non elevata, quando tale produzione non sia lesiva della salute, né di altri valori costituzionalmente garantiti, e quando il consumatore possa essere adeguatamente informato della diversa qualità dei vari tipi di prodotto.

I citati approdi interpretativi sono stati ulteriormente approfonditi dalle sentenze successive, affermandosi che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica devono trovare puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale. Tali limiti devono essere “non incongrui e non irragionevoli”50, occorrendo verificare se la soluzione realizzata “resiste al necessario test di proporzionalità al quale va sottoposta”51.

Il percorso fin qui delineato non è certo perfettamente lineare, registrandosi (anche di recente) pronunzie che raggiungono esiti in parte difformi. È questo, ad esempio, il caso di due sentenze del 2003, nelle quali la Corte non sembra minimamente mettere in discussione l’efficacia e la proporzionalità della scelta del legislatore di tutelare la salute pubblica limitando la concorrenza tra farmacie (in punto di vincoli sugli orari di apertura e di incompatibilità tra attività di distribuzione all’ingrosso e al dettaglio dei farmaci)52. Come anche del ben noto episodio di deroga alla

48 Cfr. C. Cost. 6 novembre 1998, n. 362. In passato, v. C. Cost. 9 dicembre 1991, n. 439, che – pur affermando tale principio – ha precisato che quelle scelte di politica socio-economica sono da ricondurre non solo agli interessi della produzione, ma anche alla tutela dei lavoratori e in genere dei contraenti più deboli. 49 Cfr. C. Cost. 30 dicembre 1997, n. 443, con la quale la Corte – modificando il proprio precedente orientamento (maturato a partire dalla sentenza 15 febbraio 1980, n. 20) – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della tradizionale disciplina che vietava la produzione di paste alimentari di grano tenero (cfr. l. 4 luglio 1967, n. 580). 50 Cfr. C. Cost. 19 dicembre 2008, n. 428. 51 Cfr. C. Cost. 22 maggio 2013, n. 94. 52 Cfr. C. Cost. 4 febbraio 2003, n. 27, relativa alla legge della Regione Lombardia 3 aprile 2000, n. 21, che “giustifica” i vincoli sugli orari per lo stesso motivo per il quale le farmacie sono contingentate nel numero, vale a dire una migliore realizzazione del servizio pubblico; 24 luglio 2003, n. 275, nella quale la Corte, invocata in merito al regime dell’incompatibilità tra attività all’ingrosso e al dettaglio per le farmacie private (per le quali sussisteva) e pubbliche (per le quali non era prevista), si limita a rimuovere

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disciplina ordinaria delle concentrazioni, giustificato dalla straordinarietà della crisi economica, di cui ha beneficiato l’Alitalia, che è stato giudicato legittimo nel 2010 dalla Corte53 proprio sulla base di un’interpretazione piuttosto elastica della clausola dell’“utilità sociale”, che – come è stato rilevato – segna l’affermazione, da parte del Giudice delle leggi, della “consapevolezza della necessità che si lasci la possibilità alla politica di guidare i processi economici”54.

Dopo la riforma del Titolo V del 2001, il concetto di “tutela della concorrenza” è stato esplorato anche sotto l’ulteriore profilo del riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni55. In particolare, la “tutela della concorrenza” è stata ricondotta nel novero delle c.d. “materie trasversali”56: si tratta di ambiti di competenza esclusiva dello Stato, che non rappresentano materie in senso stretto, ma criteri finalistici di identificazione di una serie di norme di legge statale, le quali si pongono come limiti per la legislazione regionale, a prescindere dalla materia, sia essa di competenza legislativa concorrente o residuale57.

la disparità di trattamento, senza alcuna considerazione sulla ratio economica dell’incompatibilità. Sul punto è interessante notare come, successivamente, l’AGCM (v. l’atto di segnalazione AS del 10 febbraio 2006), mettendo in discussione la ratio dell’incompatibilità, abbia osservato che “dall’integrazione derivano – quali effetti tipici – la riduzione del costo della distribuzione […], nonché ulteriori benefici in termini di logistica e di gestione degli stock. Inoltre, le dimensioni medio-grandi delle società di distribuzione verticalmente integrate e, dunque, il know-how, le capacità tecniche e professionali, nonché le economie di scala e di gamma di cui queste dispongono, consentono di assicurare un miglioramento complessivo del servizio farmaceutico”. Successivamente è intervenuta la l. 4 luglio 2006, n. 248, che ha rimosso ogni incompatibilità. 53 Cfr. C. Cost. 22 luglio 2010, n. 270. In estrema sintesi, la Corte afferma la legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4-quinquies, del d.l. 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, dalla l. 18 febbraio 2004, n. 39, introdotto dall’art. 1, comma 10, del d.l. 28 agosto 2008, n. 134 (Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, dalla l. 27 ottobre 2008, n. 166, che ha previsto che per le operazioni di concentrazione effettuate entro il 30 giugno 2009 da grandi imprese operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali, sottoposte ad amministrazione straordinaria, è esclusa la necessità di autorizzazione da parte dell’AGCM, sulla base del quale nel 2008 è stata realizzata l’integrazione dei due principali operatori del mercato domestico italiano (Alitalia e AirOne) nella nuova compagnia aerea CAI. 54 Cfr. Angelini (2012). 55 Le più recenti decisioni della Corte, dopo la modifica dell’art. 117 Cost. ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) e la previsione della “tutela della concorrenza” come materia attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, hanno posto in luce che la nozione interna di concorrenza riflette “quella posta dall’ordinamento comunitario” (cfr. le sentenze 12 febbraio 2010, n. 45; 14 dicembre 2007, n. 430; 13 gennaio 2004, n. 12). 56 Che includono anche la tutela dell’ambiente, quella della concorrenza, la determinazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, l’ordinamento civile, i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale. La categoria delle materie trasversali è stata enucleata dalla Corte Costituzionale a partire dalla sentenza 26 luglio 2002, n. 407. 57 Cfr. Lanza (2011).

35

La Corte Costituzionale ha fatto in più occasioni richiamo alle materie trasversali (invocandone, spesso, anche più di una nell’ambito della stessa decisione) per dichiarare la legittimità della normativa statale impugnata e cassare le leggi regionali eventualmente con essa in contrasto: l’analisi condotta sulle motivazioni delle decisioni su ricorso principale58 nel periodo 2009-2013 mostra come ciò sia avvenuto in circa il 26 per cento del totale dei casi esaminati (35 per cento nei soli casi conclusi con una decisione nel merito)59. Particolarmente frequente e significativo è stato il richiamo alla “tutela della concorrenza” (35 per cento dei casi nei quali si è fatto richiamo alle materie trasversali), invocando la quale sono stati ricondotti alla competenza esclusiva dello Stato interi ambiti non menzionati in Costituzione, come – ad esempio – i lavori pubblici e, più in generale, l’aggiudicazione dei contratti pubblici60. La declinazione offerta dalla Corte dei profili di rilevanza della materia61 appare, dunque, ampia e include anche interventi statali di sviluppo complessivo del mercato e di promozione della competitività.

A fronte di ciò, merita – tuttavia – sottolineare come l’ampia casistica in materia sia sintomatica della presenza e della perdurante introduzione da parte dei legislatori regionali di un numero cospicuo di disposizioni non aventi un orientamento proconcorrenziale62, che testimonia le difficoltà tuttora esistenti nella penetrazione delle finalità di promozione e tutela della concorrenza nella normativa adottata a livello locale.

Conclusivamente, è interessante osservare che, se negli ultimi anni è divenuto più severo e attento rispetto al passato il controllo del giudice delle leggi sulla legislazione restrittiva della libertà di concorrenza, per converso le relative pronunce della Corte sono divenute più laconiche circa

58 Vale a dire sulle impugnazioni da parte dello Stato di leggi regionali e da parte delle Regioni di leggi statali. 59 Vale a dire, le sole decisioni che contengono almeno un dispositivo di illegittimità costituzionale o di non fondatezza della questione (457 in tutto). Cfr. Giorgiantonio (2014). 60 Cfr., in particolare, la sentenza 23 novembre 2007, n. 401, che ha stabilito la sostanziale legittimità costituzionale del c.d. Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163). Per maggiori dettagli si rinvia a Decarolis e Giorgiantonio (2014). 61 Ad essa sono riconducibili, in particolare: i) le misure legislative di tutela in senso proprio “che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati” (misure antitrust); ii) le misure legislative promozionali, “che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese” (per lo più dirette a consentire la concorrenza “nel” mercato); iii) le misure legislative che perseguono il fine di strutturare procedure concorsuali di garanzia per realizzare “la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici” (dirette a tutelare la concorrenza “per” il mercato). Cfr. C. Cost. 14 dicembre 2007, n. 430; 23 novembre 2007, n. 401; C. Cost. 3 marzo 2006, n. 80; 24 giugno 2005, n. 242; 4 maggio 2005, n. 175; 27 luglio 2004, n. 272. Sul punto si rinvia ad ACGM (2011). 62 Cfr. Decarolis e Giorgiantonio (2012) per una casistica in materia di contratti pubblici; Viviano e altri (2012) per il settore del commercio al dettaglio.

36

l’individuazione del corretto fondamento costituzionale del principio concorrenziale. Tali pronunce, infatti, si sono per lo più risolte in meri obiter dicta, in semplici richiami al principio della libera concorrenza e in generici ancoraggi della medesima all’art. 41 Cost. nel suo complesso63.

Tale prassi invalsa nella recente giurisprudenza costituzionale pare in piena sintonia con la sempre più profonda integrazione del nostro ordinamento nell’ambito dell’Unione europea, in cui il principio dell’economia di mercato e in libera concorrenza svolge un ruolo assolutamente primario: tale integrazione sembra, infatti, aver fatto assurgere la libertà di concorrenza a principio cardine della nostra stessa Costituzione materiale, con un’evidenza tale da rendere apparentemente superflua ogni ulteriore indagine sul fondamento della tutela della concorrenza nella nostra Costituzione.

7. I libri: frequenza dell’uso della parola concorrenza nei titoli dei libri. I giornali: frequenza e uso della parola in due quotidiani.

La percezione della concorrenza è cambiata in Italia. Per quanto riguarda i libri, osserviamo negli ultimi due decenni un

forte aumento, relativo, oltre che assoluto, della presenza della parola concorrenza nei titoli dei libri (l’indicatore riportato in figura è in realtà di un rapporto: al numeratore sta il numero di occorrenze della parola concorrenza nei titoli dei libri, dal catalogo SBN; al denominatore il numero di occorrenze della parola economia).

Per quanto riguarda la stampa quotidiana. Se riteniamo significative le conclusioni basate su un giornale quotidiano di grande diffusione come La Stampa (abbiamo usato il suo archivio online; l’unico altro giornale che offre un simile strumento è l’Unità, sul cui archivio l’analisi è ancora in corso), possiamo affermare quanto segue (non abbiamo considerato gli ultimi anni di crisi): a. la frequenza con la quale la parola concorrenza appare sulla prima pagina crolla negli anni di guerra; durante il dopoguerra si osserva un trend decrescente, che si inverte alla fine degli anni novanta del Novecento; b. dal punto di vista qualitativo: alla minaccia della concorrenza internazionale si sostituisce sempre più il ragionamento sul tenore concorrenziale interno dell’economia; c. il campo di osservazione si sposta dai mercati dei beni a quelli dei servizi; d. l’accezione della parola concorrenza, che in precedenza era negativa (minaccia, rovina), si modifica gradualmente, e a partire dagli anni novanta diviene positiva (stimolo, innovazione).

63 Cfr., ad esempio, C. Cost. 4 luglio 1996, n. 236; 22 luglio 1996, n. 288; 5 novembre 1996, n. 386; 8 aprile 1997, n. 90; 30 aprile 1997, n. 147; 3 giugno 1998, n. 196; 13 ottobre 2000, n. 419; 31 luglio 2002, n. 413; 4 febbraio 2003, n. 27.

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Rapporto tra numero di titoli delle monografie contenenti la parola “concorrenza”

e numero di titoli contenenti la parola “economia”

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La frequenza della parola concorrenza

nei titoli delle monografie (SBN)

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Rapporto tra numero di titoli delle monografie contenenti le parole “monopoli/monopolio” e

numero di titoli contenenti la parola “economia”

La frequenza della parola monopolio/monopoli

nei titoli delle monografie (SBN)

nei titoli delle monografie

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41

LA STAMPA – la parola “concorrenza”

Numero di occorrenze annuali sulla prima pagina – media mobile 3 anni

0,0

10,0

20,0

30,0

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80,0

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1874

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1982

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2003

1990

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LA STAMPA – la parola “concorrenza”

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1870-1879 1880-1889 1900-1909 1910-1919 1920-1929 1930-1939 1940-1949 1950-1959 1960-1969 1970-1979 1980-1989 1990-1999 2000-2005

Interna - Estera(1=interna, -1=estera, 0=altro)

INT

ER

NA

E

STE

RN

A

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LA STAMPA – la parola “concorrenza”

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Beni-Servizi(1=beni, -1= servizi, 0=altro, )

BE

NI

SER

VIZ

I

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LA STAMPA – la parola “concorrenza”

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1

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1870-1879 1880-1889 1900-1909 1910-1919 1920-1929 1930-1939 1940-1949 1950-1959 1960-1969 1970-1979 1980-1989 1990-1999 2000-2005

Accezione(2=fortemente positiva, 1=positiva,

0=neutra, -1=negativa, -2=fortemente negativa)

POSI

TIV

A

NE

GA

TIV

A

8. Conclusione La cultura della concorrenza, non diversamente da altre branche della

cultura, si compone di varie parti. L’interazione reciproca delle parti riveste un ruolo fondamentale nella fase formativa della cultura, perché ciascun elemento si appoggia, per così dire, agli altri, e offre agli altri un appoggio. Inoltre, l’edificio culturale risulta più equilibrato quando la presenza e l’interazione fra componenti di diversa origine crea una rete che abbraccia più attori e più istanze sociali.

L’esperienza inglese, per la sua varietà e ricchezza, ci offre una pietra di paragone. Gli elementi cruciali sono, in quella esperienza storica: il desiderio di giustizia (che è comune a tutta Europa e che porta a criminalizzare il monopolio); la peculiare dinamica costituzionale (lotta fra sovrano e Parlamento e precoce costituzionalizzazione della materia fiscale); la vivacità del mercato sul quale si vendono e si comprano le imprese (sul quale si generano le controversie che formano la base della dottrina del restraint of trade). L’apporto degli economisti è successivo alla formazione di questi elementi, ed è di natura essenzialmente tecnica.

A confronto con questa esperienza (che pure, come abbiamo notato, è tutt’altro che monolitica), il caso italiano mostra la debolezza degli elementi culturali pro-concorrenziali e il loro isolamento nel sistema giuridico. I germi concorrenziali, pur presenti, mancano di forza espansiva.

La percezione della concorrenza è cambiata in Italia. Se riteniamo significative le conclusioni basate su un giornale quotidiano di grande diffusione come La Stampa, possiamo affermare quanto segue (non abbiamo considerato gli ultimi anni di crisi): a. alla minaccia della concorrenza internazionale si sostituisce sempre più il ragionamento sul tenore concorrenziale interno dell’economia; b. il campo di osservazione si sposta dai mercati dei beni a quelli dei servizi; c. l’accezione della parola concorrenza, che in precedenza era negativa (minaccia, rovina), si modifica gradualmente; a partire dagli anni novanta diviene positiva (stimolo, innovazione).

L’economia non è una scienza come la fisica. Il fatto che in economia una dottrina sia ritenuta corretta o erronea non dipende soltanto dalla sua coerenza logica e dalla sua verifica sperimentale, ma anche da ciò che si sceglie di escludere dal campo di osservazione, o di ritenere marginale, ininfluente ecc. Gli elementi che erano ritenuti cruciali negli anni trenta del Novecento – e che facevano assegnare un valore negativo alla concorrenza (in primo luogo la distruzione di capitale durante le fasi cicliche negative) – sono considerati molto meno importanti oggi. Al contrario, gli economisti corporativisti e nemici della concorrenza generalmente non prendevano in considerazione molti fattori, per esempio i vantaggi derivanti dall’eliminare dal mercato le imprese meno efficienti.

44

Mutamenti radicali hanno interessato anche il dibattito giuridico. L’evoluzione sia della legislazione sulla concorrenza, sia della giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia mostrano indubbi e consistenti progressi nella penetrazione e nella portata del concetto di concorrenza nella cultura giuridica italiana. Superata ormai una nozione riferita esclusivamente alla libertà individuale di commercio, è acquisito che essa abbia finalità di carattere generale e rappresenti uno strumento atto a sostenere lo sviluppo economico e il benessere collettivo, costituendo un principio che permea di sé la nostra Costituzione materiale.

Tuttavia, a tale elaborazione dal punto di vista sistematico non sempre è stato dato adeguato seguito sul piano concreto e più operativo (esito in parte imputabile alla valorizzazione recente della concorrenza nel nostro ordinamento). La progressiva espansione della tutela della concorrenza a livello legislativo a volte non è stata accompagnata da analoga attenzione sul piano dell’attuazione delle misure e del concreto recepimento delle sollecitazioni provenienti dall’AGCM. L’ampia casistica di fronte alla Corte Costituzionale, sebbene consenta al Giudice delle leggi di approfondire l’elaborazione del concetto di concorrenza, è però anche sintomatica della frequente presenza di orientamenti anticoncorrenziali nella normativa adottata a livello regionale.

45

Appendice 1

Costituzione di Zenone

(http://droitromain.upmf-grenoble.fr/Corpus/CJ4.htm, tratto dall’edizione Paul Krueger):

4.59.0. De monopoliis et de conventu negotiatorum illicito vel artificum ergolaborumque nec non balneatorum prohibitis illicitisque pactionibus.

4.59.2

Imperator Zeno. Iubemus, ne quis cuiuscumque vestis aut piscis vel pectinum forte aut echini vel cuiuslibet alterius ad uictum vel ad quemcumque usum pertinentis speciei vel cuiuslibet materiae pro sua auctoritate, vel sacro iam elicito aut in posterum eliciendo rescripto aut pragmatica sanctione vel sacra nostrae pietatis adnotatione, monopolium audeat exercere, neve quis illicitis habitis conventionibus coniuraret aut pacisceretur, ut species diversorum corporum negotiationis non minoris, quam inter se statuerint, venumdentur.

1 . Aedificiorum quoque artifices vel ergolabi aliorumque diversorum operum professores et balneatores penitus arceantur pacta inter se componere, ut ne quis quod alteri commissum sit opus impleat aut iniunctam alteri sollicitudinem alter intercapiat : data licentia unicuique ab altero inchoatum et derelictum opus per alterum sine aliquo timore dispendii implere omnique huiusmodi facinora denuntiandi sine ulla formidine et sine iudiciariis sumptibus.

2 . Si quis autem monopolium ausus fuerit exercere, bonis propriis spoliatus perpetuitate damnetur exilii.

3 . Ceterarum praeterea professionum primates si in posterum aut super taxandis rerum pretiis aut super quibuslibet illicitis placitis ausi fuerint convenientes huiusmodi sese pactis constringere, quinquaginta librarum auri solutione percelli decernimus : officio tuae sedis quadraginta librarum auri condemnatione multando, si in prohibitis monopoliis et interdictis corporum pactionibus commissas forte, si hoc evenerit, saluberrimae nostrae dispositionis condemnationes venalitate interdum aut dissimulatione vel quolibet vitio minus fuerit exsecutum.

* ZENO A. CONSTANTINO PU. *<A 483 D. XVII K. IAN. POST CONSULATUM TROCONDAE.>

Appendice 2

Statute of Monopolies

Testo dello Statute (attualmente ancora in vigore, in alcune parti, in UK e in Australia). La formulazione testuale è quella originale, ma mancano tutte le parti (cioè gran parte) abrogate da

leggi successive

Statute of Monopolies 1623

1623 CHAPTER 3 21 Ja 1

An Act concerning Monopolies and Dispensations with penall Lawes and the Forfeyture thereof.

46

The King’s Declaration against Monopolies and Grants of Penalties and Dispensations;

For as much as your most excellent Majestie in your Royall Judgment and of your blessed Disposicion to the Weale and Quiet of your Subjects, did, in the yeare of our Lord God One thousand six hundred and ten, publish in Print to the whole Realme and to all Posteritie, that all Graunts of Monapolyes [some words have been repealed], are contrary to your Majesties Lawes, which your Majesties Declaracion is truly consonant and agreeable to the auncient and fundamentall Lawes of this your Realme: And whereas your Majestie was further graciously pleased expressely to command that noe Suter should presume to move your Majestie for matters of that Nature; yet nevertheles uppon Misinformacions and untrue pretences of publique good, many such Graunts have bene undulie obteyned and unlawfullie putt in execucion, to the greate Greevance and Inconvenience of your Majesties Subjects, contrary to the Lawes of this your Realme, and contrary to your Majesties royall and blessed Intencion soe published as aforesaid: For avoyding whereof and preventing of the like in tyme to come.

I All Monopolies, and Grants, &c. thereof, or of Dispensations, and Penalties, declared void.

All Monapolies and all Commissions Graunts Licences Charters and tres patents heretofore made or graunted, or hereafter to be made or graunted to any person or persons Bodies Politique or Corporate whatsoever of or for the sole buyinge sellinge makinge workinge or usinge of any thinge within this Realme or the Dominion of Wales, or of any other Monopolies, or of Power Liberty or Facultie to dispence with any others, [words repealed], are altogether contrary to the Lawes of this Realme, and so are and shalbe utterlie void and of none effecte, and in noe wise to be putt in ure or execucion.

VI Proviso for future Patents for 14 Years or less, for new Inventions.Provided alsoe That any Declaracion before mencioned shall not extend to any tres Patents and Graunt of Privilege for the tearme of fowerteene yeares or under, hereafter to be made of the sole working or makinge of any manner of new Manufactures within this Realme, to the true and first Inventor and Inventors of such Manufactures, which others at the tyme of makinge such tres Patents and Graunts shall not use, soe as alsoe they be not contrary to the Lawe nor mischievous to the State, by raisinge prices of Commodities at home, or hurt of Trade, or generallie inconvenient; the said fourteene yeares to be accomplished from the date of the first tres Patents or Grant of such priviledge hereafter to be made, but that the same shall be of such force as they should be if this Act had never byn made, and of none other.

VII Proviso for existing Grants by Act of Parliament.Provided alsoe, That this Act or any thing therein conteyned shall not in any wise extend or be prejudicial to any Graunt or Priviledge Power or Authoritie whatsoever heretofore made graunted allowed or confirmed by any Act of Parliament now in force, so long as the same shall so continue in force.

IX Proviso for Charters of London and other Corporations.Provided alsoe, That this Act or any thing therein contayned shall not in any wise extend or be prejudicial unto the City of London, or to any Cittie Borough or Towne Corporate within this Realme, for or concerning any Graunts Charters or tres Patents to them or any of them made or granted, or for or concerning any Custome or Customes used by or within them or any of them, or unto any Corporacions Companies or Fellowshipps of any Art Trade Occupacion or Mistery, or to any Companies or Societies of Merchants within this Realme, erected for the mayntenance enlargement or ordering of any Trade of Merchandize, but that the same Charters Customes Corporacions Companies Fellowshipps and Societies, and their Liberties Priviledges Power and Immunities, shalbe and continue of such force and effect as they were before the making of this Act, and of none other; Any thing before in this Act contayned to the contrary in any wise notwithstanding.

47

Testo originale dello Statute (qui l’inglese è un po’ modernizzato, però è completo nei paragrafi da 1 a 9, oltre al preambolo, ma mancano i paragrafi da 10 a 14, che non so dove si possano trovare (anch’essi sono stati abrogati da leggi successive).

English Statute of Monopolies of 1623, 21 Jac. 1, c. 3, The Original Source of the Anglo-American Patent Law

8 English Statute of Monopolies of 1623, 21 Jac. 1, c. 3, The Original Source of the Anglo-American Patent Law

An Act concerning Monopolies and Dispensations with Penal Laws, and the Forfeitures thereof (z ). _________________[A.D. 1623

''Forasmuch as your most excellent majesty in your royal judgment, and of your blessed disposition to the weal and quiet of your subjects, did in the year of our Lord God 1610 publish in print to the whole realm, and to all posterity, that all grants of monopolies, and of the benefit of any penal laws, or of power to dispense with the law, or to compound for the forfeiture, are contrary to your majesty's laws, which your majesty's declaration is truly consonant, and agreeable to the ancient and fundamental laws of this your realm: and whereas your majesty was further graciously pleased expressly to command that no suitor should presume to move your majesty for matters of that nature; yet, nevertheless, upon misinformations and untrue pretences of public good many such grants have been unduly obtained and unlawfully put in execution, to the great grievance and inconvenience of your majesty's subjects, contrary to the laws of this your realm, and contrary to your majesty's royal and blessed intention, so published as aforesaid:'' for avoiding whereof and preventing of the like in time to come, BE IT ENACTED, that all monopolies and all commissions, grants, licenses, charters, and letters patents heretofore made or granted, or hereafter to be made or granted to any person or persons, bodies politic or corporate whatsoever, of or for the sole buying, selling, making, working, or using of anything within this realm or the dominion of Wales, or of any other monopolies, or of power, liberty, or faculty, to dispense with any others, or to give licence or toleration to do, use, or exercise anything against the tenor or purport of any law or statute; or to give or make any warrant for any such dispensation, licence, or toleration to be had or made; or to agree or compound with any others for any penalty or forfeitures limited by any statute; or of any grant or promise of the benefit, profit, or commodity of any forfeiture, penalty, or sum of money that is or shall be due by any statute before judgment thereupon had; and all proclamations, inhibitions, restraints, warrants of assistance, and all other matters and things whatsoever, any way tending to the instituting, erecting, strengthening, furthering, or countenancing of the same, or any of them, are altogether contrary to the laws of this realm, and so are and shall be utterly void and of none effect, and in no wise to be put in ure or execution.

2. And all monopolies, and all such commissions, grants, licences, charters, letters patents, proclamations, inhibitions, restraints, warrants of assistance, and all other matters and things tending as aforesaid, and the force and validity of them, and every of them, ought to be, and shall be for ever hereafter examined, heard, tried, and determined, by and according to the common laws of this realm, and not otherwise.

3. And all person and persons, bodies politic and corporate whatsoever, which now are or hereafter shall be, shall stand and be disabled, and uncapable to have, use, exercise, or put in ure any monopoly, or any such commission, grant, license, charter, letters patents, proclamation, inhibition, restraint, warrant of assistance, or other matter or thing tending as aforesaid, or any liberty, power, or faculty grounded or pretended to be grounded upon them, or any of them.

4. And if any person or persons at any time after the end of forty days next after the end of this present session of parliament shall be hindered, grieved, disturbed, or disquieted, or his or their goods or chattels any way seized, attached, distrained, taken, carried away, or detained by occasion

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or pretext of any monopoly, or of any such commission, grant, license, power, liberty, faculty, letters patents, proclamation, inhibition, restraint, warrant of assistance, or other matter or thing tending as aforesaid, and will sue to be relieved in or for any of the premises, that then and in every such case the same person and persons shall and may have his and their remedy for the same at the common law by any action or actions to be grounded upon this statute; the same action and actions to be heard and determined in the courts of king's bench, common pleas, and exchequer, or in any of them, against him or them by whom he or they shall be so hindered, grieved, disturbed, or disquieted, or against him or them by whom his or their goods or chat- tels shall be so seized, attached, distrained, taken, carried away, or detained; wherein all and every such person and persons which shall be so hindered, grieved, disturbed, or disquieted, or whose goods or chattels shall be so seized, attached, distrained, taken, or carried away, or detained, shall recover three times so much as the damages which he or they sustained by means or occasion of being so hindered, grieved, disturbed, or disquieted, or by means of having his or their goods or chattels seized, attached, distrained, taken, carried away, or detained, and double costs: and in such suits or for the staying or delaying thereof, no essoign, protection, wager of law, aid, prayer, privilege, injunction, or order of restraint, shall be in any wise prayed, granted, admitted, or allowed, nor any more than one imparlance: and if any person or persons shall after notice given that the action depending is grounded upon this statute, cause or procure any action at the common law grounded upon this statute to be stayed or delayed before judgment by colour or means of any order, warrant, power, or authority, save only of the court wherein such action as aforesaid shall be brought and depending, or after judgment had upon such action shall cause or procure the execution of or upon any such judgment to be stayed or delayed by colour or means of any order, warrant, power, or authority, save only by writ of error or attaint, then the said person and persons so offending shall incur and sustain the pains, penalties, and forfeitures ordained and provided by the statute of provision and praemunire made in the sixteenth year of the reign of king Richard the second.

6 (a ). Provided also, that any declaration before mentioned shall not extend to any letters patents (b ) and grants of privilege for the term of fourteen years or under, hereafter to be made, of the sole working or making of any manner of new manufactures within this realm (c ) to the true and first inventor (d ) and inventors of such manufactures, which others at the time of making such letters patents and grants shall not use (e ), so as also they be not contrary to the law nor mischievous to the state by raising prices of commodities at home, or hurt of trade, or generally inconvenient (f ): the same fourteen years to be acccounted from the date of the first letters patents or grant of such privilege hereafter to be made, but that the same shall be of such force as they should be if this act had never been made, and of none other (g ). 7. Provided also, that this act or anything therein contained shall not in any wise extend or be prejudicial to any grant or privilege, power, or authority whatsoever heretofore made, granted, allowed, or confirmed by any act of parliament now in force, so long as the same shall so continue in force.

8. Provided also, that this act shall not extend to any warrant or privy seal made or directed, or to be made or directed by his majesty, his heirs or successors, to the justices of the courts of the king's bench or common pleas, and barons of the exchequor, justices of assize, justices of oyer and terminer and gaol delivery, justices of the peace, and other justices for the time being, having power to hear and determine offences done against any penal statute, to compound for the forfeitures of any penal statute depending in suit and question before them, or any of them respectively, after plea pleaded by the party defendant.

9. Provided also, that this act or anything therein contained shall not in any wise extend or be prejudicial unto the city of London, or to any city, borough, or town corporate within this realm, for or concerning any grants, charters, or letters patent to them, or any of them made or granted, or for or concerning any custom or customs used by or within them or any of them; or unto any

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corporations, companies, or fellowships of any art, trade, occupation, or mystery, or to any companies, or societies of merchants within this realm erected for the maintenance, enlargement, or ordering of any trade or merchandise; but that the same charters, customs, corporations, companies, fellowships, and societies, and their liberties, privileges, powers, and immunities, shall be and continue of such force and effect as they were before the making of this act, and of none other; anything before in this act not contained to the contrary in any wise notwithstanding.

Appendice 3

The Case of Monopolies

(non ho capito fino in fondo, ma pare che all’epoca non ci fossero opinion scritte, e che Coke le abbia in qualche modo trovate e scritte nel suo libro). info generali e edizione di Coke qui:

http://oll.libertyfund.org/titles/911/106358

Il Case of Monopolies (Edward Coke, Rep. volume 11, page 84b)

Sir Edward Coke, The Selected Writings and Speeches of Sir Edward Coke, ed. Steve Sheppard (Indianapolis: Liberty Fund, 2003). Vol. 1. http://oll.libertyfund.org/titles/911#Coke_0462-01_941

The Case of Monopolies. (1602) Trinity Term, 44 Elizabeth I In the Court of King’s Bench.

First Published in the Reports, volume 11, page 84b.

Ed.: Early in Elizabeth I’s reign, a Statute was passed forbidding the importation of playing cards. Later, a monopoly was granted to Ralph Bowes [395] to manufacture and sell playing cards, or to license others to sell them, in England, for twelve years. At the end of Bowes’ monopoly, the queen gave it, and the right to stamp his cards as legal, to Edward Darcy then for twenty-one years, in return for an annual payment of 100 marks. T. Allein, a London haberdasher, sold 180 gross ofplaying cards, without paying Darcy for the privilege or for the use of his stamp. Darcy sued Allein. Darcy was represented by Dodderidge, Fuller, Fleming, and Coke, as Attorney General, which he was expected to do to defend the queen’s privilege in granting monopolies (and in reaping their revenues). Crook, Altham and Tanfield, represented Allien. The King’s Bench ruled that the grant was void, because monopolies are against the Common Law, which protects the freedom of trade and liberty of the subject, and against the statutes of Parliament.

This is an unusual report: Coke, at least formally, lost the Case, although his heart was probably not in it. Notice his contrast between the public and private good and the description toward the end of the report of the “odious monopoly” and his contrast of the stated and real purposes of it. For cases on restraint from the professions, see also Dr. Bonham’s Case, p. 264, Case of the Tailors of Ipswich, p. 390.

Edward Darcy, Esquire, a Groom of the Chamber to Queen Elizabeth, brought an Action on the Case against Thomas Allein, Haberdasher of London, and declared, That Queen Eliz., 13 Junii,

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anno 30, intending that her subjects being able men to exercise Husbandry, should apply themselves there-unto, and that they should not imploy themselves to the making of playing Cards, which had not been any antient manual Occupation within this Realm; and that the making of such a multitude of cards, Card playing was become very frequent, and chiefly amongst servants and apprentices and poor Artificers; and to the end her subjects might apply themselves to more faithful and necessary Trades, by her Letters Patents under the Great Seal of the same did grant unto Ralph Bowes, Esqire, full power, license and authority by himself, his servants, factors and deputies, to provide and buy in any parts beyond the Sea, all such playing Cards as he thought good, and to bring them within this Realm; and to sell and utter them within the same, and that he, his servants, factors and deputies should have and enjoy the whole Trade, Traffic and Merchandize of all playing Cards: And by the said Letters Patents further |[85 a] granted to the said Ralph Bowes, That the said Ralph Bowes his servants, factors, and deputies, and no other should have the making of playing Cards within the [396] Realm, to have and to hold for twelve years; and by the said Letters Patents the Queene charged and commanded, That no person or persons besides the said Ralph &c. should bring any Cards within the Realm during those twelve years; Nor should buy, sell, or offer to be sold within the said Realm, within the said term any playing Cards, nor should make, or cause to be made any playing Cards within the said Realm, upon pain of the Queens gracious displeasure, and of such fine and punishment as Offenders in the Case of voluntary contempt deserve. And afterwards the Queen, 11 Aug. anno 40 Eliz. by her Letters Patents reciting the former grants made to Ralph Bowes, granted the Plaintiff, his Executors, Administrators, and their deputies, the same priviledges, authorities, and other the said premisses for one and twenty years after the end of the former time, rendring to the Queen hundred marks per annum; And further granted to him a Seal for to mark the Cards. And further declared, That after the end of the said term of twelve yeers, scil. 30 Junii, an. 42 Eliz. the Plaintiff caused to be made four hundred grosses of Cards for the necessary uses of the subjects, to be sold within this Realm, and had spent in the working of them 5000 l. and that the Defendant knowing the said grant and prohibition in the Plaintiff’s Letters Patents, and other the premisses, 15 Martii, 44 Eliz. without the Queens License or the Plaintiffs, &c. at Westminster did cause eightie grosses of playing Cards to be made and as well those, as 100 other grosses of playing Cards, of which many were made within the Realm, or brought within the Realm by the Plaintiff, or his servants, factors or deputies, &c. nor marked with his Seal; he had imported within the Realm, and had sold and uttered them to sundry persons unknown, and shewed some in certain, for which the Plaintiff could not utter his playing Cards, &c. Contra formam praedict’ literar’ patentium, et in contemptum dictae Dominae Reginae,1 whereby the Plaintiff was disabled to pay his farm rent, to the Plaintiffs damages.

The Defendant, besides to one half grosse pleaded, Not Guilty; and as to that he pleaded, that the City of London is an antient city, and within the same, time out of mind there hath been a Society of Haberdashers; and that within the said City there was a Custom, Quod quaelibet persona de societate illa, usus fuit et consuevit emere |[85 b] vendere, et libere merchandizare omnem rem [397] et omnes res merchandizabiles infra hoc regnum Angliae de quocunque, vel quibuscunque personis, &c.2 And pleaded, That he was civis et liber homo de civitate et societate illa,3 and sold the said half gross of playing Cards, being made within the Realm, &c. as it was lawful from him to do; upon which the Plaintiffe did demurre in Law.

And this Case was argued at the Bar by Dodderidg, Fuller, Fleming Solicitor, and Coke Attorney-General, for the Plaintiff. And by George Crook, Altham, and Tanfield for the Defendant. And in this Case two general questions were moved and argued at the Bar, arising upon the two distinct grants in the said Letters Patents, viz.

1. If the said Grant to the Plaintiff of the sole making of Cards within the Realm were good or not?

2. If the Licence or dispensation to have the sole importation of Foreign Cards granted to the Plaintiffe, were available or not in Law. To the bar, no regard was had, because it was no more then

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the Common Law would have said, and then no such particular Custome ought to have been alleged, for in his quae de jure communi omnibus conceduntur, consuetudo alicujus patriae vel loci non est alleganda,4 and therewith agreeth 8 Edw. 4. 5a. &c. And although the bar was holden superfluous, yet it shall not turn the Defendant to any prejudice, that he may well take advantage of the insufficiency of the Court.

As to the first question it was argued on the Plaintiffs side, That the said Grant of the sole making of playing Cards within the Realme, was good for three causes:

1. Because the said playing Cards were not any merchandize, or thing concerning Trade of any necessary use, but things of vanity, and the occasion of expence of time, wasting of patrimonies, and of the livings of many, the loss of the service and work of servants, causes of want, which is the mother of wo and perdition, and therefore it belongeth to the Queen (who is Parens patriae, & paterfamilias totius regni,5 and as it is said in 20 Hen. 7. fol. 4. [398] Capitalis Justiciarius Angliae)6 to take away the great abuse, and to take order for the moderate and convenient use of them.

2. In matters of recreation and pleasure the Queen hath a Prerogative given her by the Law to take such order for such moderate use of them as shall seem good to her.

3. The Queen in regard of the great abuse of them, and of the deceit of the subjects by reason of them might utterly suppress them, and by |[86 a] consequence without injury to any one, she might moderate and suffer them at her pleasure. And the reason of the Law which giveth the King these Prerogatives in matters of recreation and pleasure was, because the greatest part of men are ready to exceed in them. And upon these grounds divers Cases were put; scil. That no subject can make a Park, Chase, or Warren within his own Land, for his recreation or pleasure without the Kings grant or license; and if he do it of his own head in a Quo warranto,7 they shall be seised into the King’s hands, as it is holden in 3 Edw. 2. Action sur le Statute Br. 48. and 30 Edw. 3. Rot. Pat. The King granted to another all the wild Swans betwixt London Bridg and Oxford.

As the second, It was argued, and strongly urged, That the Queen by her prerogative may dispense with a penal Law, when the forfeiture is popular, or given to the King, And the forfeiture given by the Statute of 3 Edw. 4. cap. 5. in case of bringing of Cards is popular, 2 Hen. 7. 6 b. 11 Hen. 7. 11 b. 13 Hen. 7. 8b. 2 R. 3. 12a. Plow. Com, Greindon’s Case, 502a, b. 6 Eliz. Dyer. 225. 13 El. 393. 18 Eliz. 352. 33 Hen. 8. Dyer 52. 11 Hen. 4. 76. 13 Edw. 3. Release 36. 43 Ass. pl. 19. 5 Edw. 3. 29. 2 Edw. 3. 6. & 7. F. N. B. 211b.

As to the first it was argued by the Defendants Counsel, and resolved by Popham Chief Justice, et per totam Curiam,8 That the said Grant to the Plaintiff of the sole making of Cards within the Realm was void; and that for two reasons.

1. The same is a Monopoly, and against the Common Law.

2. That it is against divers Acts of Parliament.

Against the Common Law, for four causes

1. All Trades, as well Mechanical, as others, which avoid idleness (the bane [399] of the Commonwealth) and exercise men and youths in labor for the maintenance of them and their Families, and for the increase of their livings, to serve the Queen if need be were profitable for the Commonwealth; and therefore the grant to the Plaintiff to have the sole making of them is against the Common Law, and the benefit and liberty of the subject; andtherewithagreeth Fortescue in laudibus Legum Angliae, cap. 26.

And a Case was adjudged in this Court in an Action of Trespass between Davenant & Hurdis Trin. 41 Eliz. Rot. 92. where the Case was, That the Company of Merchant Taylors in London having power by charter to make Ordinances for the better rule and government of the Company, [so that they are consonant to Law and reason,] made an Ordinance, That every Brother of the same

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Society, who should put any cloath to be dressed by any Clothworker not being a Brother |[86 b] of the same Society, shall expose one half of his cloathes to any Brother of the same Societie, who exercised the Art of a Cloathworker, upon pain of forfeiting ten shillings, &c. and to distrein for it, &c. and it was adjudged, That the Ordinance, although it had the countenance of a Charter, was against the Common Law, because it was against the liberty of the subject; for every subject by the Law hath freedom and liberty to put his cloaths to be dressed by what Clothworker he pleaseth, and cannot be restrained to certain persons, for that in effect shall be a Monopoly; and therefore such Ordinance by color of a charter, or any grant by charter to such effect shall be void.

2. The sole Trade of any Mechanical Artifice, or any other Monopoly is not only a damage and prejudice to those who exercise the same Trade, but also to all other subjects, for the end of all these Monopolies is for the private gain of the Patentees; and although provisions and cautions be added to moderate them; yet res profecto stulta est nequitiae modus;9 it is meer folly to think that there is any measure in mischief or wickedness. And therefore there are three inseparable incidents to every Monopoly against the Commonwealth.

1. That the price of the said commodity shall be raised, for he who hath the sole selling of any commodity, may make the price as he pleaseth. And this word, Monopoly, is said, Cum unus solus aliquod genus mercaturae universum emit, pretium ad suum libitum statuens.10 And the Poet saith,

[400]

Omnia Castor emit, sic fit ut omnia vendat.11

And it appeareth by the Writ of Ad quod damnum,12 F. N. B. 222a. That every gift or grant from the King hath this Condition, either expressly or tacitely annexed to it, Illa quod patria per donationem illam magis solito non oneretur seu gravetur.13 And therefore every grant made in grievance and prejudice of the subject is void; and 13 Hen. 4. 14 b. the Kings grant which tendeth to the charge and prejudice of the subject is void.

The second incident to a Monopoly is, That after a Monopoly granted, the Commodity is not so good and merchantable as it was before; for the patentee having the sole trade, regardeth only his private, and not the publicke weale.

3. This same leadeth to the impoverishing of divers Artificers and others, who before by labor of their hands in their Art or Trade had kept themselves and their families, who now of necessity shall be constrained to live in idlenesse and beggary; vide Fortescue ubi supra.14 And the Common Law in this point agreeth with the equity of the Law of God, as appeareth in Deut. cap. xxiv. ver. 6. Non accipies loco |[87 a] pignoris inferiorem et superiorem molam, quia animam suam apposuit tibi;15 You shall not take in pledg the neathet and upper milstone, for the same is his life; by which it appeareth, That every mans Trade doth maintains his life, and therefore he ought not to be deprived or dispossessed of it, no more than of his life. And the same also agreeth with the Civil Law; Apud Justinianum monopolia non esse intromittenda, quoniam non ad commodum reipublicae sed ad labem detrimentaque pertinent. Monopolia interdixerunt leges civiles, cap. De Monopoliis lege unica. Zeno imperator statuit, ut exercentes monopolia bonis omnibus spoliarentur. Adjecit Zeno, ipsa rescripta imperialia non esse audienda, si cuiquam monopolia concedant.16

[401]

3. The Queen was deceived in her grant, for the Queen as by the preamble appears, intended the same to be for the weal publick, and it shall be imployed for the private good of the Patentee; [and for the prejudice ofthewealpublic];17 Also the Queen meant that the abuse should be taken away, which shall never be by this Patent, but rather the abuse will be encreased fort the private benefit of the Patentee, and therefore, as it is said in 21 Ed. 3. 46. in the Earl of Kent’s Case, this grant is void jure Regio.18

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4. This grant is of this first impression, for no such was ever seen to pass [by letters patent]19 under the great Seal of England before this time, and therefore it is a dangerous innovation as well withoutanyorexampleaswithout authority of Law, or reason. And it was observed that this grant to the Plaintiff was made for twenty-one years, so that his Executors, Administrators, Wife, or Children, or others inexpert in the Art and Trade shall have this Monopoly. And it cannot be intended, That Edward Darcy Esquire, and Groom of the Queen’s Privy Chamber hath any skill in this Mechanical trade in making of Cards, and then it was said, That the Patent made to him was void, for to forbid others to make Cards who have the art and skill, and to give him the onely making of them who hath no skill to make them, shall make the Patent utterly void, Vide 9 Ed. 4. 5 b. And although the grant doth extend to his Deputies, and it may be said, he may appoint Deputies who shall be expert; yet if the Grantee himself be unexpert, and the grant be void as to him, he cannot make any Deputy to supply his room, quia quod per me non possum, nec per alium.20 And as to what hath been said, That Playing Cards is a vanity, It is true, if it be abused, but the making of them is no pleasure, but labour and pains. |[87 b] And it is true that none can make a Park, Chase, or Warren without the Kings licence, for that were quodam modo21 to appropriate those which are ferae naturae, et nullius in bonis22 to himself, and to restrain them of their natural liberty, which he cannot do without the Kings licence: but forhawking, hunting, &c. which are matters of pastime, pleasure, and recreation, there needeth no licence, but every one may in his own land use them at his pleasure [402] without any restraint to be made, if not by Parliament, as appeareth by the Statutes of 11 Hen. 7. c. 17. 23 Eliz. c. 10. 3 Jac. Regis, c. 13. And it is evident by the preamble of the said Act of 3 Edw. 4. c. 4. That the bringing in of forreign Cards was forbidden at the grievous complaint of the poor Artificers Cardmakers, who were not able to live of their trades, if forreign Cards should be brought in; as appeareth by the preamble: By which it appeareth, That the said Act provides remedie for the maintenance of the trade of making Cards, for as much as the same maintain divers families by their labour and industry. And the like Act is made in 1 Hen. 3. cap. 12. And therefore it was resolved, That the Queen could not suppress the making of Cards within the Realm, no more than the making of Dice, Bowls, Balls, Hawks-hoods, Bells, Lewers, Dog-couples, and other like, which are works of labour and art, although they shall be for pleasure, recreation and pastime, and they cannot be suppressed if not by Parliament, nor a man restrained to use any trade but by Parliament. 37 Edw. 3. cap. 16. 5 Eliz. cap. 4. And the playing at Dice and Cards is not forbidden by the Common Law, as appeareth M. 8 & 9 El. Dyer 154 (If not that some be deceived by false Dice or Cards, and there he who is deceived, shall have an Action upon this Case to the deceit) and playing at Cards, Dice, &c. is not malum in se,23 for then the Queen should not suffer, nor license the same to be done. And where King Edward the third in the 39 year of his reign commandeth the exercise of shooting and artillery, and forbiddeth the exercise of casting of stones and barres, and the hand and foot-balles, cock-fighting, & alios ludos vanos,24 as appeareth in dors’ claus’ de an. 39 Edw. 3. nu. 23. yet no effect thereof followed, till divers of them were forbidden upon a penalty by divers Acts of Parliament, viz. 12 Ric. 2. cap. 6. 11 Hen. 4. cap. 4. 17 Edw. 4. cap. 3. 33 Hen. 8. cap. 9.

Also such charter of a Monopolie, against the freedom of Trade and Traffick, is against divers Acts of Parliament, scil. 9 Ed.3. c.1&2. Which for the advancement of the freedom of |[88 a] Trade and Traffick extendeth to all vendible things, notwithstanding any charter of franchise granted to the contrary, or usage, or custom, or judgment given thereupon; which charters are adjudged by the same Parliament to be of no force, or effect, and made at the request of Prelates, Barons, and Grandees of the Realm, to the oppression of the [403] Commons. And by the Statute of 25 Ed. 3. cap. 2. It is Enacted, that the Act of 9 E. 3. shall be kept, Holden, and maintained in all points. And it is further thereby enacted, That if any Statute, Charter, Letters Pattents, Proclamation, Command, Usage, Allowance, or judgment be made to the contrary, that the same be utterly void, vide Magna Charta cap. 18. 27 Edw. 3. cap. 11, &c.

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As to the second question, It was resolved, That the dispensation or licence to have the sole importation and merchandizing of goods (without any limitation or stint) nothstanding the said Act of 3 Edw. 4. is utterly against Law: For it is true, That for as much as an Act of Parliament which generally forbiddeth a thing upon penalty which is popular, or onely given to the King, may be inconvenient to divers particular persons, in respect of person, place, time, &c. And for this cause the Law hath given power to the King, to dispense with particular persons; Dispensatio mali prohibiti est de jure Domino Regi concessa, propter impossibilitat’ praeviden’ de omnibus particular’, et dispensatio est mali prohib’ provida relaxatio, utilitate seu necessitate pensata.25 But when the wisdom of the Parliament hath made an Act to restrain pro bono publico26 the bringing in of many foreign manufactures, to the intent that the subjects of the Realm might apply themselves to the making of the said manufactures, &c. And thereby maintain themselves and their family with their handy labor. Now for a private gain to grant the sole importation of them to one, or divers (without any limitation) notwithstanding the said Act is a Monopoly against the common law, and against the end and scope of the same Act; for the same is not to maintain and encrease the labors of the poor Cardmakers within the realm, at whose petition the Act was made, but utterly to take away and overthrow their trade and labours, and that without any reason of necessity, or inconveniency in respect, place or time, and so much the rather because it was granted in reversion for years, as hath been said, but onely for the benefit of a private man, his Executors and Administrators for his particular commodity, and in prejudice of the Commonwealth. And King Edward the third by his Letters Patents, granted to one John Peche the sole importation of Sweet-wine into London, |[88 b] and at a Parliament holden 50 Edw. 3. this grant [404] was adjudged void, as appeareth in Rot. Parl. an. 50 Edw. 3. Mich. 33. Also admit that such grant or dispensation were good, yet the plaintiff cannot maintain an Action upon the Case against those who bring in any forreign Cards, but the remedie which the Act of 3 Edw. 4. in such Case giveth ought to be pursued. And judgment was given and entered, quod querens nihil caperet per billam.27

And note, Reader, and well observe the glorious preamble and pretence of this odious monopoly. And it is true quod privilegia quae re vera sunt in praejudicium reipublicae, magis tamen speciosa habent frontispicia, et boni publici praetextum, quam bonae et legales concessiones, sed praetextu liciti non debet admitti illicitum.28 And our lord the King that now is in a Book which he in zeal to the Law and Justice commanded to be printed Anno 1610. intituled A Declaration of his Majesties pleasure, &c. p. 13. hath published, That Monopolies are things against the Lawes of this Realm, and therefore expressly commands that No Suitor presume to move him to grant any of them.

1. [Ed.: Against the form of the aforesaid letters patent and in contempt of the said lady queen,] 2. [Ed.: That every person of that society has been used and accustomed to buy, sell, and trade freely all merchantable property within this realm of England from whatsoever person or persons, etc.] 3. [Ed.: a citizen and free man of the city and of that society.] 4. [Ed.: in those things that are granted by the Common Law to everyone, the custom of any region or place is not to be alleged.] 5. [Ed.: Parent of the country, and the family head of the whole realm,] 6. [Ed.: Chief Justice of England.] 7. [Ed.: Writ to enforce limits on a Royal charter.] 8. [Ed.: and by the whole court,] 9. [Ed.: it is indeed a useless thing to moderate wickedness;]

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10. [Ed.: [Monopoly is said], when one single person buys the whole of any kind of merchandise and sets the price at his pleasure.] 11. [Ed.: Castor buys everything, so that he may sell everything.] 12. [Ed.: Writ directing the sheriff to determine what damage there would be if a Royal charter such as for a fair is granted.] 13. [Ed.: that the country should not be more burdened or vexed by that donation than is usual.] 14. [Ed.: in the above passage.] 15. [Ed.: Do not take the lower and the upper millstone as a pledge, because that would take his life; [Deut., xxiv. 6].] 16. [Ed.: For we read in Justinian that monopolies are not to be meddled with, because they do not conduce to the benefit of the common weal but to its ruin and damage. The civil Laws forbid monopolies: in the chapter of monopolies, one and the same Law. The Emperor Zeno ordained that those practising monopolies should be deprived of all their goods. Zeno added that even imperial rescripts were not to be accepted if they granted monopolies to anyone.] 17. [Ed.: Bracketted text omitted in the 1658 edition.] 18. [Ed.: by royal right.] 19. [Ed.: Bracketted text omitted in the 1658 edition.] 20. [Ed.: because what I cannot do by myself I cannot do through someone else.] 21. [Ed.: in a certain manner.] 22. [Ed.: of a wild nature, and no one’s property.] 23. [Ed.: wrong in itself,] 24. [Ed.: and other useless games,] 25. [Ed.: Dispensing with things that are wrong by prohibition (i.e. legislation) is rightfully granted to the king, on account of the impossibility of providing for every particular Case; and a dispensation is a release of the prohibited wrong, or a measure of necessity.] 26. [Ed.: for the public good.] 27. [Ed.: that the plaintiff take nothing by his bill.] 28. [Ed.: that privileges which in truth are to the prejudice of the common weal nevertheless have more specious frontispieces and pretext of public good than good and lawful grants; but an unlawful thing ought not to be admitted under the pretext of being lawful.]

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Bibliografia

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