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Cristina Bellon Prefazione di Giovanni F. Bignami [ L ORA BREVE ] ROMANZO

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Cristina Bellon

Prefazione di Giovanni F. Bignami

[ L’ORA BREVE ]

9788895650463

9 788895 650463

RO M A N Z O

In copertina: un illustrazione artistica che descrive un fenomeno occorso il 27 dicembre 2004, quando

un lampo di raggi gamma emesso dalla magnetar SGR 1806-20 ha attraversato il Sistema Solare.

Questo lampo ha prodotto degli effetti nell’atmosfera terrestre, nonostante provenisse da una sorgente

situata nella costellazione del Sagittario a una distanza di oltre 50 mila anni luce (NASA).

I fatti narrati in questo libro sono di pura fantasia, frutto dell’immaginazione e della libera

espressione artistica dell’autrice. Ogni riferimento a eventi realmente accaduti, a persone

realmente esistite o esistenti e a luoghi reali è puramente casuale. Eventuali somiglianze con

fatti o avvenimenti reali o con persone, associazioni, organizzazioni, movimenti o partiti

realmente esistenti sono puramente casuali e non intenzionali.

Questo libro è dedicato ai molti

che investono tempo e talento

nella ricerca scientifica.

E ai miei figli,

perché imparino ad amare il cielo.

Cristina Bellon

Prefazione di

Giovanni F. Bignami

[ L’ORA BREVE ]RO M A N Z O

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[ Prefazione ]

Viviamo in un Universo bellissimo e accogliente, ma potenzial-

mente letale. Dei tantissimi Multiversi, esterni e inaccessibili,

che certo esistono, questo nostro particolare Universo è quello

giusto, fatto a misura d’uomo. Sembrerebbe una pacchia: le

leggi della fisica, almeno quelle che valgono qui da noi, paio-

no proprio essere fatte per permettere la nostra esistenza.

Se cambiassimo anche di pochissimo il rapporto tra la forza di

attrazione elettrostatica e quella gravitazionale, le conseguenze

porterebbero subito alla impossibilità di nascita e sviluppo di

vita più o meno intelligente su di un pianeta qualunque, che

giri intorno a una stella qualunque. Lo stesso per le forze nu-

cleari, o per le masse e le cariche delle particelle elementari,

o per moltissimo altro: anche una piccola variazione porte-

rebbe, per esempio, alla non-nascita dei pianeti o del Sole, o

alla sua vita troppo breve, o addirittura alla non-formazione

dell’Universo che vediamo. Ci crogioliamo quindi, tutti con-

tenti, in questa nostra bellissima tana Universale, accogliente

al punto giusto, pensando a quei poveri sfigati là fuori, al buio,

in posti irti di pericoli...

Invece no, non è proprio così. Perché anche qui da noi ci sono

in agguato eventi che, pur normali anche per il nostro Uni-

verso, sono potenzialmente letali per questo mucchietto di

molecole organiche ben organizzate che chiamiamo vita. Per

esempio, un fiotto di energia esterno e sufficientemente inten-

so che dal cielo colpisse la nostra Terra potrebbe facilmente

vaporizzarla o anche solo disorganizzare i nostri mucchietti di

molecole… Loro, forse, o i nuclei degli atomi che le compon-

gono, sopravvivrebbero e sarebbero buone per qualcos’altro,

magari per una nuova forma di vita. Ma “noi”, con la nostra

P

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coscienza e la nostra memoria, insomma la nostra vita, non ci

saremmo più. Per noi, la fine del mondo.

Per il nostro vicinato galattico, si tratterebbe di un evento

normalissimo. Affrontiamo il caso di una magnetar. Da poco

abbiamo scoperto che queste stelle un po’ strane, resto della

vita di una stella normale finita in un nucleo densissimo e con

il campo magnetico più alto dell’Universo, esistono, e possono

fare brutti scherzi: possono emettere proprio quel fiotto esplo-

sivo di radiazione, compresi i letali raggi gamma, a causa di

qualche loro instabilità interna (o forse solo perché gli va di

farlo). E se fossero abbastanza vicine, appunto se abitassero

nel nostro stesso quartiere galattico, l’evento avrebbe conse-

guenze disastrose per quelli che passeggiano ignari sulla super-

ficie di un pianeta come la Terra.

La crudeltà dello scherzetto sta però nel fatto che sia possibile

prevederlo, ammesso che sul pianeta in questione siano in

azione astrofisici abbastanza svegli. Esiste cioè la concreta

possibilità che, a furia di osservazioni con telescopi spaziali,

radiotelescopi, rivelatori di neutrini, e con un po’ di sana teo-

ria, si possa arrivare a dire: “Ebbene sì, tra pochi mesi, di sicu-

ro, ci sarà la fine del mondo: quella magnetar farà un ruttino

sufficiente a spazzarci via tutti”, o qualcosa del genere.

Dalla astrofisica si passa alla politica e alla fantasia. Perché

quando si tratta di decidere che cosa fare per rispondere a

una minaccia mortale, sicura negli effetti e anche nella data

(più o meno), cominciano le difficoltà. A risolvere il proble-

ma ci sono gli astrofisici, almeno nel romanzo (nella realtà,

che potrebbe succedere davvero domani, ahimè, penso che

sarebbe tutto molto più confuso e approssimativo...). Ma la

storia, il romanzo, insomma, a questo punto prende il volo.

Per fortuna che c’è la fiction. Nello stesso senso del deus ex

machina della tragedia classica, o del topos della Atena

mentore nell’Odissea, o anche della peste dei Promessi Sposi,

anche nel nostro romanzo possiamo risolvere tutto perché l’a-

strofisico-eroe ha un’idea intelligente, risolutiva: la time cage,

la “trappola del tempo”. Non sveleremo che cosa sia (non ne

saremmo capaci), ma dovrebbe salvare il mondo.

Solo che, molto realisticamente, il mondo non è che sia unani-

me nel volersi far salvare. Ci sono sempre quelli che pensano

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di avere da godere, o da lucrare, per le disgrazie altrui, o ad-

dirittura pensano all’occasione di instaurare un mondo nuo-

vo, più alla Orwell che alla Huxley. Se la gabbia del tempo

fallisse la sua missione, pensano i cattivi, la magnetar sareb-

be proprio come la peste “gran scopa” manzoniana. Sarebbe

un’occasione unica per portare a compimento un progetto

planetario di ricostruzione genetica della razza umana. Una

scuola perversa di genetica è arrivata alla conclusione che

l’Homo Sapiens Sapiens abbia ormai passato l’apice del suo

processo evolutivo ed abbia iniziato un percorso inarrestabile

di involuzione. Il lampo gamma provocato dal magnetar arri-

verebbe, quindi, al momento giusto: farebbe piazza pulita di

una umanità ormai senza più futuro evolutivo, a tutto vantag-

gio dei privilegiati che saranno stati capaci di sopravvivere.

Ad oggi, alla domanda, un po’ semplicistica: “qual è, se c’è,

il futuro della evoluzione di Homo Sapiens Sapiens?” non sap-

piamo dare una risposta univoca. Non dobbiamo certo più

difenderci da competitori diretti per la nostra nicchia ecolo-

gica (tipo i cari vecchi Neanderthal), perché li abbiamo fatti

fuori tutti.

Dobbiamo però rispondere alla pressione dell’ambiente su

di noi, a causa, soprattutto, dei guai che noi stessi abbiamo

provocato e continuiamo a provocare, come il cambiamento

climatico e le sue conseguenze. Homo ecologicus? Forse sì,

chissà.

Soprattutto, dovremo rispondere alla pressione creata da noi

su noi stessi, per esempio, con la tecnologia: sopravvivran-

no meglio quelli capaci di costruirsi una interfaccia diretta

cervello-computer? Homo softwarensis? Perché no.

O magari, finalmente, capiremo che la Terra è stata sì la culla

dell’uomo, ma che l’uomo non può vivere sempre nella culla,

come diceva alla fine dell’Ottocento il padre riconosciuto del-

la astronautica mondiale, Konstantin Tsiolkovskii. E quindi ci

sposteremo in giro per il nostro vicinato galattico, atterrando

su altri mondi. Homo sidereus? Molto probabile.

In tutti casi, non ha senso parlare di “involuzione”, putativa

o meno, dell’uomo: la freccia del tempo ha un unico senso,

per definizione, e l’uomo, come tutto il resto, è legato a quella

freccia. Dunque, i cattivi che sembrano considerare il lampo

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gamma dal magnetar come una specie di provvidenziale pu-

lizia etnica a livello planetario hanno senz’altro torto, possia-

mo dirlo subito.

Ma finisce male o finisce bene? Non lo diciamo, naturalmente.

O meglio, forse finisce un po’ tutt’e due: come la bellezza di

una statua o di una donna in carne e ossa, il finale di questa

fiction, e la sua morale, sono solo nell’occhio del lettore.

Vorremmo però portare un contributo illustrativo sulle conse-

guenze della soggettività del tempo, ovvero un caso molto

particolare, ma vero, di time cage. Poche decine di anni fa,

da un ghiacciaio alpino in Tirolo emerse il corpo, perfettamen-

te conservato, di un giovane soldato morto nella prima guer-

ra mondiale e conservato perfettamente, al freddo, per oltre

mezzo secolo.

Fu identificato immediatamente, grazie a documenti ancora

leggibili, e il suo nome fu comunicato al villaggio alpino di pro-

venienza, non molto lontano dal luogo del ritrovamento. Ma

i parenti del ragazzo erano, ovviamente, tutti morti o dispersi.

Ancora viva, però, quella che era stata la sua promessa spo-

sa, ovviamente sua coetanea quando il giovane era, ahimè,

partito soldato per non tornare mai più, almeno in vita. Ma la

vecchietta, ultraottantenne, che non si era mai sposata e che

amava ancora il ricordo del ragazzo, volle avere la possibilità

di vederne il corpo riemerso intatto dal ghiaccio. Seguì la sce-

na straziante e un po’ surreale di lei, per la quale il tempo era

passato inesorabile e si vedeva, che abbracciava il cadavere

di un ragazzo imberbe di vent’anni. Il tempo come soggettivi-

tà, come estensione della nostra mente? Forse, aveva ragione

Sant’Agostino: è solo una extensio animi.

Giovanni F. Bignami

Presidente dell’Istituto Nazionale di AstroFisica

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F

[ I fatti del 15 agosto 2013… ]

Nature

“A variable absorption feature in the X-ray spectrum of a magnetar”

La Stampa

“Il faro d’agosto che spazza via la Via Lattea”

Corriere della Sera

“Scoperta la calamita più potente dell’universo”

Il Messaggero

“Le stelle ai raggi X: scoperto il campo magnetico più potente dell’universo”

La Repubblica

“La magnetar più potente dell’universo: la scoperta italiana”

Rainews24

“Italiani scoprono il campo magnetico più intenso dell’Universo”

Il Mattino

“È nella Via Lattea: scoperto da italiani”

La Gazzetta del Mezzogiorno

“Trovato il campo magnetico più potente dell’universo”

La Prealpina

“La magnetar più grande dell’Universo”

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O

[ Oltre i fatti... ]

Caro lettore,impiegherai trenta secondi per leggere questa pagina.

Trenta secondi ti separano dalla realtà, da quel confine di mondi che le mie parole hanno creato.Qual è la definizione di reale?

Mancano venti secondi per addentrarti nei miei pensieri e perderti nei sentieri tortuosi della mia storia che diventerà la tua storia.Sei pronto a farti sedurre dalle mie parole?

Dieci secondi prima di sapere come sarà il futuro e cosa ti hanno nascosto sino a oggi.Potrai perdonare?

Puoi scegliere di chiudere questo libro e vivere ignaro di segreti e di abissi che ti circondano, ma se decidi di proseguire ti sarà svelato ogni dettaglio.Cosa farai?

La tua ansia mi avverte che i trenta secondi sono finiti.

Tempo scaduto.

Ora, volta la pagina.

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[ Magnetar ]

CAPITOLO 1

«Provatene una». Il giovane rimane in silenzio il tempo necessario perché il messag-gio sia percepito con assoluta chiarezza da tutti. Ma i presenti lo guardano perplessi. «Non abbiate timore» aggiunge. «La paura è nemica. E noi abbia-mo bisogno di alleati, non di nemici». La sua voce è ferma e con-vincente. Guarda l’uomo seduto alla sua destra.«L’onore all’ultimo arrivato» dice, indicando la ciotola davanti a sé. L’uomo, un italiano sulla quarantina, fa scivolare la mano sul tavo-lo. Poi la ritrae a pochi centimetri dalla ciotola. È frenato da qual-cosa: al centro del tavolo, l’immagine di un serpente che si morde la coda. L’uomo arriva a toccare le squame dell’uroboro, che sono scolpite nel legno. Sono ruvide, sembrano vere, e lui pare turbato. Tuttavia, non può permettersi, adesso, di indugiare. La decisione è stata presa, ne è convinto. Ha messo in gioco la sua carriera, e tutto quello che ha, per essere lì, insieme a loro, al centosessantesimo piano del grattacielo arabo. Gli occhi a fessura, semichiusi sotto le folte sopracciglia castane, il mento proteso in avanti, cerca di prendere le distanze dai suoi pensieri. Prova ancora, ma la sua statura lo ostacola: non riesce a raggiungere la testa del serpente, dove si trova la ciotola. Allora, si alza in piedi, si toglie la giacca, che appoggia sulla spalliera della poltrona, e allenta il nodo della cravatta. Dopo un sospiro, si piega leggermente e stende un braccio affon-dando la mano nella ciotola dalla quale estrae una delle cinque pillole depositate sul fondo. La guarda. È una normale capsula solubile, in cheratina. L’appoggia sulla lingua, e la deglutisce aiu-

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tandosi con un bicchiere d’acqua. Poi si siede, braccia incrociate, occhi chiusi, e aspetta. Gli altri quattro lo fissano qualche istante, ma sanno che per ve-dere gli effetti bisogna attendere. L’adrenalina sale. Uno dopo l’al-tro, partendo dall’americano, poi l’inglese e il cinese, lo imitano. Non vogliono tirarsi indietro. Tutti assumono il farmaco, tranne il giovane che ha parlato e il russo che si alza, appoggia le mani sul tavolo e si spinge all’indietro.«Io non ci sto». Ed è silenzio. Nessuno dei convenuti osa fiatare, sono troppo im-pegnati a fantasticare sugli effetti del farmaco.Il giovane è impassibile. Le parole sono scivolate nella sua testa senza scalfire il disegno, uno dei più grandi che una mente uma-na abbia mai partorito. Troppo grande per essere danneggiato dal rifiuto di un invitato, ma troppo potente per essere gestito da un solo uomo. I suoi occhi neri sono immobili e senza espressione, come l’acqua di uno stagno profondo.«Io non ci sto» ripete il russo. «Vi ho aiutato fino a ora. Ma questo mi sembra troppo. Domani avrete le mie coordinate bancarie. At-tendo la restituzione dell’ingente somma che ho pagato.»Il giovane annuisce e allarga le braccia.«Essere qui è una scelta, non un obbligo. Ti è stata data un’oppor-tunità unica nella vita.»«Io scelgo di andarmene. Non credo in questo progetto.»«Perché sei venuto, dunque?».«Curiosità».«Chi tradisce una volta tradisce per sempre. È una droga.» «Non ho tradito. L’idea non mi convince» ribatte il russo. «Buona fortuna e addio.» «E così sia. Addio» risponde il giovane.Mentre il russo si affretta a varcare la soglia della sala, guardandosi alle spalle, il giovane si alza. Fissa l’orologio al polso. Gli effetti del farmaco tra poco si faranno sentire. Mancano cinque minuti per l’italiano e sei per gli altri. I minuti sono preziosi, come quelli che separano il cielo dalla terra. Il giovane sa che in quel momento il russo sta prendendo l’ascensore, quaranta chilometri all’ora, un viaggio di pochi secondi che lo allontanerà dal centosessantesimo piano, dal cielo che lui gli aveva offerto, per scendere in basso, e mettere piede sulla terra, dove si confonderà con gente comune.

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Gente che ogni giorno compie le stesse azioni con la forza dell’a-bitudine, e subisce le informazioni e le regole di una società di consumi.Il giovane si avvicina alla finestra e guarda giù, ma è impossibile vedere i pedoni: a cinquecento metri di altezza è come essere su una montagna. Ora non pensa più al russo che ha tradito. L’ha dimenticato. Lo sconnette dalla sua mente. Fissa i contorni dell’o-rizzonte. Vede che non sono più gialli e arsi. Nella stagione inver-nale ci sono alberi e macchie di verde tra la sabbia del deserto e il cemento dei fabbricati. I grattacieli irrompono nell’atmosfera come siluri, ogni giorno se ne costruiscono di nuovi e si organizza-no feste per le inaugurazioni. La gente è attratta dalle emozioni, intense e brevi: fuochi di artifi-cio, luci, mega schermi, i fantasiosi disegni delle isole artificiali che chiazzano il mare, i giochi d’acqua nei grandi bacini desalinizzati nei quali molti grattacieli si specchiano.Le immagini si susseguono nella mente del giovane nel tempo dei quattro minuti che ora mancano all’italiano.Ma è convinto che Dubai non sia solo emozioni passeggere. Si spe-rimenta continuamente; nelle riunioni di lavoro, nei caffè, nei ne-gozi, si avverte un entusiasmo diffuso, un senso di ritrovata fiducia nei confronti del futuro, un orgoglio di essere lì e di partecipare. Perché Dubai è diventata una sfida alla natura. E il giovane ama le sfide. Ciò che gli interessa non si può esplorare con lo sguardo. Si trova al di là del deserto e del mare di Dubai, ma non è una terra, è qualcosa di più grande. È una visione. La visione.Un altro minuto è passato.Gli altri ti affondano le unghie nella carne, pensa il giovane, pren-dono pezzi di te, le tue idee, godono delle tue invenzioni e tu dai più di quello che sei. Perché lo fai, si chiede. Non si dà risposta, ma sente un vuoto dentro di sé. Il vuoto di chi è certo di essere im-mensamente superiore agli altri. Pure, tutti dovrebbero adorarmi per quello che sono, per quello che valgo, pensa. Sono passati altri due minuti.Il giovane s’infila le mani in tasca, e spazia nei meandri del suo cervello. Poi vede la sua immagine riflessa nel vetro e rabbrividisce. La vita gli sta passando velocemente davanti, come quel minuto che manca all’italiano. Un minuto.

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Sente che non può più aspettare, la sua visione è diventata un’os-sessione, come una morsa di fame: preme alla bocca dello stomaco, è intollerabile, non si può più attenuare. E aumenta sempre di più. Deve essere soddisfatta. Ha voglia di uscire. Di esplodere. Ora.Guarda l’orologio. Si gira. Anche loro proveranno, pensa, e non potranno più farne a meno. Osserva l’italiano che inizia ad avere spasmi muscolari, ciclici, ogni dieci secondi. Subito dopo, anche negli altri compaiono i primi sintomi. È l’inizio: sono i nervi a ordinare ai muscoli di contrarsi, vibrano sotto gli impulsi che il cervello scarica.Il giovane sa che questa fase dura qualche minuto, poi si entrerà nella successiva, la più critica: i muscoli si paralizzano, le articolazio-ni paiono saldarsi, il corpo si irrigidisce. È una sensazione terribile: si ha l’impressione che i muscoli si siano fusi, che il corpo si riduca a un blocco unico, una massa contratta dalla testa ai piedi. Poi ini-ziano i crampi, dolorosi, contro i quali non si può fare nulla.Ma tutto si assesterà nella fase successiva, quando i nanovettori contenuti nel farmaco ingerito riusciranno a trasmettere le prime immagini. Allora, sarà come un viaggio in un mondo sconosciuto. Molti potrebbero confondere la pillola con un allucinogeno. No, è molto di più.È la visione.Gli spasmi si sono attenuati, gli uomini sono incoscienti, irrigiditi come tubi di ferro, e ora inizia il dolore lancinante dei crampi. L’inglese emette continui lamenti. Il cinese, con un riflesso incon-scio, stringe la gamba con le mani, l’americano si ribalta a terra. L’italiano cade con la testa sul tavolo e trema. Paura, sfinimento? Nessuno può saperlo, solo lui, ma quando si sveglierà dimenticherà ogni dolore, perché quelle sofferenze sono come quelle del parto, si dimenticano in fretta. E sarà pronto a farlo di nuovo, il viaggio.Il giovane rimane impassibile. Tutto come previsto, dice tra sé. Osserva che il viso dei convenuti si fa sereno, il corpo si rilassa. Ecco che inizia il viaggio, l’occhio si muove, da destra a sinistra, e di nuovo, da sinistra a destra. Il bulbo oculare pulsa, la palpebra vibra.Pochi secondi e tutto si spegne. Ogni parte del corpo riprende a funzionare. È il campo visivo, il primo a riattivarsi.Come topi nel buio, a coppia, si accendono gli occhi dei presenti. Spalancati sul mondo, increduli e meravigliati. E appena la parola torna, esce dalle loro labbra come un fiume in piena, carica di

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domande e di esclamazioni. Voci confuse echeggiano in quella che sembra una torre di Babele. Ognuno parla nella propria lingua, senza tradurre le parole nell’inglese convenzionale nel quale si era-no espressi poco prima.«Stupefacente!» esclama il cinese. «Nanotecnologia per trasmissio-ne neuronale!»«Fantastico... incredibile» mormora l’americano.«Devo dire che l’affare mi entusiasma molto» dichiara l’italiano.E l’inglese fa domande, senza aspettare la risposta, e anche il cinese, e si aggiunge l’americano, a raffica. L’italiano si asciuga il sudore dalla fronte e parla superando le altre voci. È il caos, è l’adrenalina nel sangue.Il giovane è sempre impassibile. Non è contagiato dal loro entusia-smo, si limita a sorridere brevemente.«Calmatevi ora... Risponderò a ogni vostra domanda. Quello che avete provato non è droga. In meno di dieci minuti, dei nano-vettori hanno introdotto nel vostro cervello più informazioni di un’intera biblioteca.»«Quello che abbiamo visto è il progetto?» lo interroga l’inglese.«Sì, è la visione. Ho trasferito in ciascuno di voi i dettagli dell’o-perazione».«Perché hai scelto noi?» chiede l’italiano.«Perché siete gli scienziati migliori. Io ho bisogno di voi, e voi, che ora sapete e avete visto il futuro, avete bisogno di me.»«Cosa ci offri?». È l’americano questa volta a parlare.«Quello che avete visto» la voce del giovane è sempre pacata. «Guar-date il simbolo su questo tavolo… vi è rappresentato un uroboro, un serpente che si morde la coda. È il simbolo dell’infinito, della rinascita. E io vi offro una fetta d’infinito.»«Quando agiremo?» domanda il cinese.«Presto, molto presto. La situazione che si sta verificando e di cui abbiamo avuto notizia faciliterà il nostro piano».

CAPITOLO 2

«Buongiorno professore» la voce artificiale e metallica squilla rom-pendo il silenzio. «Sono le sei e trenta di lunedì dieci febbraio. La temperatura esterna è di zero gradi. Il cielo è sereno. Le ricordo gli impegni della giornata...»

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Milano. Sesto piano. Gli oscuranti dell’attico si alzano grazie all’impianto di domotica che governa l’abitazione. È ancora buio. Le luci artificiali rimangono accese.«Grazie Galilea» risponde Alessandro Lamberti «ma risparmiami, te ne prego!»La voce del suo automa personale tace.Alessandro Lamberti giace nel letto tra lenzuola di lino e fogli di carta fitti d’annotazioni di cosmologia. Solo qualche ora prima, lo scienziato era alle prese con il discorso sui gamma ray bursts da esporre al convegno di Parigi che si terrà nel pomeriggio.Le palpebre non si sollevano ancora. Sente, come un suono lonta-no, i primi rumori della metropoli che si sta svegliando dal breve letargo notturno; il vento soffia forte, e alcuni spifferi entrano dal lucernario. Lamberti si mette supino, apre gli occhi e fissa la vetrata sopra di sé. Le stelle brillano ancora, e lui interroga l’universo: quel novan-tasei per cento che ancora non conosce. Infatti, anche un astrofi-sico di fama mondiale come lui, dell’universo conosce solo una piccola parte. E Lamberti è uno dei pochi che hanno il coraggio di ammetterlo, e di proclamarlo pubblicamente.È tardi. Si decide infine ad alzarsi dal letto. Il suo sguardo, ancora un po’ sfocato, contempla le geometrie perfettamente disordinate della sua casa e se ne compiace. Vede armonia nel caos.Poi, facendo spazio tra gli indumenti sparsi sul pavimento, inizia le sue cento flessioni quotidiane seguite da cinque preziosi minuti dedicati agli addominali. Ancora qualche esercizio di stretching ed eccolo in piedi, pieno di vita, giovane nonostante i capelli grigi: l’età che dimostra è infatti ben diversa da quella anagrafica.Prende gli occhiali appoggiati sul comodino e li infila. Percorre il corridoio, un sentiero di carta che porta alla foresta di libri del suo studio, dove ogni sera raccoglie frantumi di idee da ricomporre. Sulle pareti i suoi articoli ritagliati da riviste scientifiche: spazio libero non ce n’è più. Lui solo riesce a destreggiarsi nel labirinto costruito da cataste di dispense, fotocopie di tesi universitarie infilate in scatoloni multi-colori e vecchi libri allineati sui ripiani della libreria che odora di antico. In enormi scaffali di palissandro giacciono testi di scienze, di medicina, di archeologia, di filosofia, di letteratura, scritti in tutte le lingue. Perché Lamberti è padrone di tutte le materie, nes-

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suna conoscenza è priva di interesse per lui; e, pur vivendo nell’era digitale degli e-book e dei navigatori satellitari, ha ancora bisogno della carta, vuole sentirla tra le mani. Ha raggiunto ormai l’apice della carriera scoprendo e analizzando le stelle di neutroni, sorgenti di raggi gamma. È presidente dell’A-genzia Spaziale Italiana, carica ambita da molti scienziati, che con-ferisce grande potere, un potere che Lamberti ha sempre messo al servizio della collettività. Non per nulla, da quando lui è presiden-te, la comunità scientifica italiana non deve più sentirsi inferiore al grande colosso della Nasa. Dalla cucina gli giunge l’aroma del caffè preparato da Galilea, un prototipo di robot programmato per svolgere le attività di un’im-peccabile governante, unica “presenza femminile” nella sua casa, luogo solitario dove le donne rimangono soltanto il tempo neces-sario per donare piacere. La sua vita è interamente occupata dalla professione che svolge: lo studio del cosmo. Là, nella materia inter-stellare, si consuma il suo unico, perenne matrimonio.Si siede, sorseggia il caffè caldo, mentre comincia a leggere il quo-tidiano, che porta con sé quando si trasferisce sul divano del sa-lotto. Sfogliando il giornale, viene colpito da una notizia nella pagina degli esteri. Conosce personalmente lo scienziato di cui si parla, un russo, biologo di punta, famoso a livello internazionale. Il giornale riferisce che è morto. Assassinato in modo orribile. A Dubai.Un assassinio fuori dal comune, consumato con cattiveria disu-mana. Gli hanno versato in gola acido fluoridrico – e Lamberti, sconvolto, immagina lo sciogliersi della lingua, della gola, del collo sotto l’effetto dell’acido – poi lo hanno gettato nel bacino di acqua desalinizzata del Burj Khalifa di Dubai. Quale può essere il movente di un simile atto di barbarie? In che cosa può essere coinvolto uno scienziato come lui? Profondamente turbato dalla notizia, Lamberti sente il bisogno di farsi una doccia, quasi per togliersi di dosso tutte le domande che gli riempiono la testa e non trovano risposta.Ma ha appena avuto il tempo di sentirsi rivivere sotto il getto forte dell’acqua, quando sente il suono del cellulare. Alle sette e venti del mattino, un’ora strana per una telefonata.Uscendo dalla doccia, in piedi in una pozza d’acqua, prende il cellulare.

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Per un momento gli sembra estranea la voce che chiede:«Alessandro?»«Sì, sono io» risponde «Chi è?»«Non mi riconosci più?»Lamberti fa una pausa.«Mario?... Mario Cerutti?» « Naturalmente.»Cerutti è stato un suo discepolo, e gli deve la brillante carriera che ha fatto: entrato nel Consiglio di Amministrazione dell’Agenzia Spaziale Italiana, ha ottenuto una “tenure track” alla Columbia University di New York per un’importante ricerca sulle irregolarità della ionosfera. Da Lamberti lo separano però venti centimetri di altezza e un quarto di secolo di esperienza. Non perché Lamberti sia altissimo. È Cerutti a essere molto basso: ha l’altezza di un tredicenne e vede il mondo a bassa quota. Da quando lavora a New York, i due si vedono saltuariamente per le convocazioni del Consiglio di Am-ministrazione. «Scusami» dice Lamberti. «Ero sotto la doccia, ho sentito il cellula-re, sono corso... Come stai? Sei in Italia?»«Sì, devo parlarti.» risponde Cerutti.Quel “devo parlarti” detto così, a bruciapelo, inquieta Lamberti. «Ti ascolto.»«Avrei bisogno con la massima urgenza del tuo parere... Dobbiamo vederci di persona.» Sapersi riconosciuto a livello internazionale stimola la vanità di Lamberti.«Stamattina devo passare in Istituto per una ricerca» dice «che sto mettendo a punto con un mio allievo. Poi, a mezzogiorno, ho un volo per Parigi. Devo tenere una conferenza sulle sorgenti gamma. Potremmo vederci mercoledì quando rientro.»«No.» La risposta è decisa. «Ci vedremo oggi. Non ci sarà alcuna conferenza a Parigi».Lamberti non è abituato a ricevere ordini, ma sente l’urgenza sot-tesa a quelle parole.«Che cosa è successo?»Cerutti non risponde alla domanda, limitandosi a dire in un tono che sembra non ammettere repliche: «Osservatorio astronomico Schiaparelli di Varese. Ti aspetto tra qualche ora».

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«Varese?» Lamberti si chiede quale mistero tanto importante da riuscire ad annullare una conferenza a Parigi possa nascondere quella cittadina dell’Italia settentrionale.«Sì, Varese. Capirai più tardi.»

CAPITOLO 3

Lamberti si sente inquieto. Si muove in fretta, come per avvicinare il momento in cui infine saprà. Si veste, afferra il computer e il cellulare e li infila nella cartella di cuoio che contiene tutta la sua vita. Scende rapidamente le scale – detesta gli ascensori, anche quando deve raggiungere i piani più alti – sale sulla vecchia Fiat bianca, e in meno di un’ora è a Varese.Ci sono numerosi posti di blocco: polizia ovunque, armata fino ai denti. La sua inquietudine aumenta, si fa assillante. Vorrebbe accelerare, ma deve fermarsi per un ulteriore controllo. Mostra la patente, il libretto. Riparte.Percorre i tornanti panoramici del Campo dei Fiori, un massiccio montuoso che si erge per milleduecento metri ai piedi delle Alpi. La strada, che s’insinua a tratti nel verde della natura, sembra pla-care un poco la sua ansia, come la musica che viene dall’impianto stereo: la sesta sinfonia di Anton Brückner. In lontananza, ecco infine l’Osservatorio Astronomico Schiapa-relli, collocato in una struttura in disuso, il vecchio Grand Hôtel Campo dei Fiori, conosciuto un tempo per le sue duecento came-re che hanno ospitato le più importanti famiglie aristocratiche del milanese e la ricca borghesia lombarda. Ora è diventato uno dei più attrezzati osservatori d’Italia, sebbene non lo si possa certo dire il centro decisionale della ricerca scienti-fica, perché le questioni più importanti vengono sempre discusse a Roma, dove, accanto alle vetture obsolete degli scienziati, sfrec-ciano le auto blu dei ministri. La strada è bloccata. Due gazzelle dei carabinieri presidiano il tratto. Lamberti rallenta, e sente il rumore di un elicottero che scende come un falco dal cielo, posandosi sulla banchina della provinciale. Un carabiniere si precipita ad accogliere il passeggero fin sotto le eliche ancora in movimento. Lo sportello si apre e scende un uomo, di pelle nera, che cerca di trattenere la cravatta imbizzarrita.

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Lamberti riconosce Paul D. Jackson, un noto scienziato della Nasa: la questione deve essere di importanza internazionale.Le gazzelle si spostano sul bordo della strada e Lamberti prosegue sino all’ingresso dell’Osservatorio. Nota che gli spazi del parcheg-gio sono occupati dai mezzi della polizia e dell’aeronautica. Esibi-sce i documenti al personale di sicurezza.«Benvenuto professor Lamberti» lo saluta un ufficiale di polizia «la stavamo aspettando.»Lamberti non risponde.«Venga, le spiegherò strada facendo.»Il poliziotto lo precede di qualche passo, facendogli strada all’inter-no dell’Osservatorio.«Abbiamo messo in piedi questa unità di crisi» spiega «alla velocità della luce. Sono tutti riuniti nella sala Andromeda.»«Ma perché? Che cosa è successo?»La risposta è evasiva.«Questioni di sicurezza internazionale.»Lamberti non rivolge altre domande, ma la sua ansia cresce, e lo sguardo dei grandi occhi verde scuro, penetranti come quelli della lince, si fa sempre più inquieto. Percorrono un lungo corridoio. In fondo, Lamberti vede un giova-ne sui trent’anni che cammina nervoso avanti e indietro. Indossa un buffo cappellino di tela, jeans, scarpe da tennis e un paio di maglioni infilati uno sopra l’altro. Nelle mani stringe degli appun-ti che continua a rileggere. «Siamo arrivati. La sala Andromeda è qui a sinistra» dice il poliziot-to, congedandosi.Lamberti si avvicina al giovane in jeans. Il ragazzo lo saluta con deferenza:«Buongiorno prof, si ricorda di me?»Lamberti accenna un sorriso per prendere tempo, cercando di ri-trovare quel viso nella sua memoria. «Tesi in cosmologia e gravitazione» continua il ragazzo. «Sono Pa-olo Cavalese. Ci siamo conosciuti qualche anno fa, in occasione della mia laurea. Lei era il presidente della commissione.»Ora Lamberti ricorda, e il suo sorriso si fa più aperto.«E adesso» gli chiede «di cosa ti occupi? Ma soprattutto dimmi che cosa sta succedendo. Mi sembri molto nervoso.»«Sono stato qualche anno all’estero con il professor Jackson» risponde

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Cavalese. «Quanto al resto, si tratta di una situazione molto grave, ma è inutile che sia io a parlargliene. Tra qualche minuto saprà tutto.»La porta, che apre con una certa emozione, è sorvegliata da una squadra di marines dell’ambasciata americana. Molti visi nella sala congressi gli sono noti. Ha un attimo di turbamento quando vede il generale Tenti, Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, il sottosegretario alla Protezione civile, il generale Puricelli dell’In-telligence italiana, qualche membro della CIA e della National Security Agency, NSA. In mezzo a loro, c’è Cerutti che lo saluta con un breve cenno della mano.Si siede negli ultimi posti. Gli sembra di poter così controllare meglio la situazione.È il generale Tenti a rompere il silenzio, dopo essersi diretto alla lavagna luminosa in fondo alla sala.«Signori» inizia «siete stati convocati con la massima urgenza per-ché foste messi a conoscenza di una scoperta allarmante che mi-naccia il mondo. Questo spiega le unità di crisi organizzate in tutti i Paesi e gestite direttamente dal Pentagono. La notizia che stiamo per annunciarvi è un segreto di Stato, e cercheremo di tutelarlo con ogni mezzo. Quanti si offriranno spontaneamente di aiutare il nostro Paese, saranno trasferiti in centri di massima sicurezza. Avviseremo le loro famiglie tranquillizzandole con una copertura adeguata. Ora cedo la parola al professor Cerutti che vi spiegherà la situazione.»Perché Cerutti? Si chiede Lamberti insofferente. Perché è un suo subalterno a parlare? Perché non è stato avvisato prima? Cerca però di mantenere la calma, in attesa di comprendere che cosa stia accadendo.Cerutti si alza in piedi e cammina rigido verso il tavolo dei relatori. Si schiarisce la voce, guarda davanti a sé, poi comincia a parlare. «Cari colleghi, molti di voi sanno che da tempo mi sto occupando di eruzioni solari. Ebbene, effettuando rilevazioni sul sole, io e alcuni colleghi americani abbiamo concluso che tra breve assiste-remo a un picco di reazioni cento volte più intense della norma e molto più prolungate.»Cerutti si ferma come se non osasse proseguire. I suoi occhi si po-sano sulle carte che tiene davanti a sé, le mani premono sul tavolo. Una voce si alza fra i presenti. «Parli più chiaro, professore. Sia

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esplicito». È la voce di una donna dai capelli rossi. Lamberti la conosce e, proprio perché la conosce, si chiede il motivo della pre-senza di una genetista di quel calibro.Cerutti alza lo sguardo dal tavolo, e trova la forza per continuare. «Il sole sta per espellere milioni di tonnellate di gas ionizzato e lo farà a una velocità impressionante. Dobbiamo aspettarci un’onda d’urto di estrema violenza che impatterà sulla Terra tra otto mesi.»«Non è la prima volta che una tempesta ci colpisce» replica un vecchio scienziato in prima fila «e non è mai accaduto niente di terrificante. Deve esserci dell’altro.»«Infatti» annuisce Cerutti «la tempesta magnetica dipende da un evento cosmico di natura eccezionale. Ma per questo argomento, passo la parola al professor Jackson».Lamberti è rigido sulla sedia, braccia conserte, gambe accavallate. Ma i suoi pensieri non sono orientati verso l’evento cosmico di natura eccezionale, sono molto più personali. Cerutti e Jackson stanno parlando di una grave calamità, e lui, il presidente dell’A-genzia Spaziale Italiana, non ne sa niente. È un autentico affronto. Tuttavia, si impone ancora una volta di dominare il suo carattere intollerante, in attesa di un quadro completo della situazione. Il professor Jackson prende la parola con decisione. La voce bassa, potente, risuona nella sala come un avvertimento.«La tempesta solare sarà causata dall’impatto sulla superficie del sole di una potentissima onda elettromagnetica proveniente dallo spazio profondo. La causa di questa tragica situazione è una magnetar.»Tra la folla degli ascoltatori si scatena un tumulto di voci, di re-azioni diverse. C’è chi si volta interpellando i colleghi, altri si al-zano come per avvisare qualcuno, dimenticando che la riunione è riservata, i più rimangono immobili, lo sguardo grave fisso sul professor Jackson. A poco a poco, le voci si spengono e il silenzio cala di nuovo sulla sala, interrotto soltanto da rari colpi di tosse. Questa volta, però, è un silenzio carico di angoscia.Una magnetar! Una stella compatta con un campo magnetico ele-vatissimo. Una palla di materia superdensa, non più grande di una città terrestre, ma più massiccia del sole.Una voce sembra riportare un certo senso di sicurezza. È quella del fisico Mauro Turri, responsabile del Laboratorio Nazionale del Gran Sasso.«Professor Jackson» osserva «dai dati in nostro possesso sappiamo