de prada - il fondatore dell'opus dei - vol i
DESCRIPTION
De Prada - Il Fondatore Dell'Opus Dei - Vol ITRANSCRIPT
Andrés Vàzquez de Prada
IL FONDATORE DELL’OPUS DEI
Vita di San Josemarfa Escrivà (voi. I) “Signore, fa’ che io veda!”
Edizione italiana a cura di Aldo Capucci Traduzione di Agostino Donà
L E O N A R D O I N T E R N A T I O N A L
ISBN 88-88828-06-0
Traduzione di Agostino Donà L'edizione italiana dei 3 volumi dell'opera è a cura di Aldo Capucci
Opera pubblicata su licenza di Fundación StudiumIl Fondatore dell’Opus Dei, © 2002 by Fundación Studium© 2003 Leonardo International srlseconda edizione maggio 2003Ristampa seconda edizione novembre 2005
Ufficio Informazioni della Prelatura delPOpus Deiper l’Italia in InternetMilanoe-mail: [email protected] http://www.opusdei.it
PRESENTAZIONE
Che cos’è una biografia? Biografia, in senso stretto, è la narrazione della vita di una persona fuori del comune; come genere scientifico, essa ricade a buon diritto nell’ambito della Storia. Però una vita non è qualcosa a sé, come un isolotto sperduto nell’oceano, ma si svolge e si sviluppa in mezzo a una comunità. Il singolo individuo è legato a un luogo, è partecipe di una certa cultura e appartiene a una patria. Inoltre, in qualsiasi epoca e Paese égli viva, gli avvenimenti contribuiscono a segnarne l’esistenza. Perciò la messa a fuoco biografica, necessariamente, non si potrà limitare a ciò che riguarda esclusivamente la persona in questione. Il ricercatore, e poi il lettore, devono tenere presenti molte altre circostanze culturali e sociali, allo scopo di puntualizzare i fatti e collocare al posto giusto la verità storica.
Metodo di ricerca. In genere, il biografo adotta un sistema di esposizione cronologica, analizzando fino in fondo la realtà storica, per proseguire poi nella descrizione del corso degli eventi che riguardano il protagonista, dalla culla alla sepoltura. E presumibile che l’autore cominci con il descrivere la famiglia e il clima domestico, l’educazione ricevuta e gli episodi della prima infanzia, che consentono di intravederne l’incipiente personalità. Ma deve anche evitare finzioni e fantasie, la
5
vorando in stretta aderenza a un rigoroso metodo di ricerca e ai procedimenti scientifici che concernono in particolare le fonti. In tal modo, ogni biografia che possa vantarsi di obiettività scientifica rappresenta una vera sfida, perché il biografo è costretto a intraprendere il compito preliminare di reperire documenti e testimonianze per sottoporli poi al vaglio critico, se necessario. (Il ricercatore, per quanto affidabili possano essere le fonti di cui dispone, non è mai esentato dal faticoso lavoro preliminare che consiste nel selezionare le testimonianze, nel valutarne l’importanza e nell’inserirle nel quadro storico).
Abbondanza delle fonti. Quando, tempo addietro, credendo di aver adempiuto il gravoso impegno di raccolta delle testimonianze e di altre fonti storiche, mi accingevo a tracciare le linee conduttrici del presente libro, la mia sorpresa fu grande. Il materiale indispensabile, dal quale non era possibile né giusto prescindere, era così abbondante da eccedere il più ambizioso programma biografico. Era necessario ridurlo e concentrarsi sulla figura del Fondatore, senza disperdere l’attenzione su fatti secondari. Solo grazie a questa scelta le vicende dell’Opus Dei intimamente legate alla sua missione personale possono venire esposte con completezza. Invece altri temi di per sé importanti, quali la genesi dello spirito dell’Opus Dei, l’espansione del suo messaggio nei cinque continenti, la descrizione del panorama culturale e sociale in cui si muove il Fondatore, e quant’altro ancora, vengono trattati in modo succinto, in quanto tutto questo sarà senza dubbio materia di futuri studi. Tenendo presente tutto ciò, mi sono attenuto strettamente all’intenzione biografica, in modo che la narrazione non esca dal seminato. Allo stesso tempo, come dimostrano le note, mi sono attenuto al rigore documentale e alle altre esigenze critiche che sono la base della veracità storica.
La visione oggettiva della realtà storica. A proposito
6
del lavoro di ricerca da me svolto, sono stato molto aiutato da una qualità presente nella persona e negli scritti del Fondatore, per la quale gli sono molto grato. Mi riferisco alla visione oggettiva del fatti. Don Josemarfa possedeva in grado molto elevato la dote intellettuale di valutare in modo giusto e con retto criterio la realtà storica. Stava sempre nell’atteggiamento vigile di considerare le cose e le situazioni alla luce dei disegni divini, prescindendo da gusti, preferenze personali e interessi egoistici. Essendo egli sempre rivolto a Dio, la scia lasciata dalla sua vita è lineare, semplice e profonda. La si può riassumere dicendo che si dedicò corpo e anima a compiere i piani divini sull’Opus Dei. Il 2 ottobre 1928, dopo dieci anni di attesa nel presentimento di qualcosa che sarebbe accaduto, fu preso per mano da Dio, che lo introdusse nella Storia. Quel giovane sacerdote ricevette assieme la missione di fare l’Opus Dei e il relativo carisma. A partire da quella data, Dio e Josemarfa - Josemarfa condotto per mano da Dio - avrebbero vissuto insieme una lunga e meravigliosa avventura.
Le due facce della biografia. Ecco quindi il tema fondamentale della presente biografia: seguire passo passo la gestazione dell’Opus Dei, finché l’uomo scelto per realizzare questa colossale impresa mette il punto finale al proprio compito. In questo don Josemarfa impiegò tutta la sua esistenza. Il che equivale ad affermare che il carisma ricevuto operò per tutti quegli anni nella sua anima, identificando la sua persona con l’Opus Dei. Facendosi egli stesso Opus Dei. Questa è l’altra faccia della biografia.
Logica divina e logica umana. Dio, come fa un Padre con suo figlio, insegnò a Josemarfa la “logica divina” , a volte sconcertante e molto lontana dalla “ logica umana” , che giudica e agisce secondo criteri terreni. Invece i giudizi di Dio poggiano amorevolmente sul senso della filiazione divina; sulla Croce, segno gioioso
7
della vittoria di Cristo; sul potere illimitato della preghiera; sulla misteriosa fecondità delle contrarietà... La visione oggettiva della realtà storica che possedeva il Fondatore, sopra ricordata, è qualcosa di più che una mera perspicacia chiaroveggente; è il dono di penetrare l’essenza della storia, saggiamente governata dalla Provvidenza. Alle realtà religiose, ai fatti soprannaturali, egli applicò categorie proprie della logica divina, in sintonia con la propria missione, divina e universale, alPinterno della Chiesa.
La statura del Fondatore. Per apprezzare dovutamente la grandezza della sua persona, è necessario seguirlo nella sua progressiva maturazione spirituale. Questo itinerario di crescita interiore è allo stesso tempo fonte di amore e via crucis di sofferenza, per una progressiva identificazione con Cristo. Non sono necessari, quindi, elogi agiografici, perché la sua santità è evidente e si erge in modo impressionante davanti ai nostri occhi.'
Poco dopo aver ricevuto la sua missione divina, don Josemaria si paragonava a un povero uccellino che svolazza qua e là. Ma un’aquila lo afferra e “fra i suoi artigli poderosi l’uccellino sale, sale molto in alto, oltre le montagne della terra e le vette innevate, oltre le nubi bianche e azzurre e rosa, ancora più su, fino a guardare in faccia il sole ... E allora l’aquila, liberando l’uccellino, gli dice: Forza, vola!...” 1.
Nelle pagine di questo libro intendiamo anche proiettare la visione dell’itinerario mistico di un’anima.
Padre di una grande famiglia. In questi nostri tempi, Dio ha suscitato un uomo per il bene della Chiesa e delle anime. Dono divino per il quale dobbiamo essere riconoscenti: a Dio in primo luogo, e in parte a don Jo- semarìa, che ha preso docilmente su di sé l’onere di assecondare i disegni divini. Egli non voltò le spalle al mondo; si interessò al suo cammino e al suo progresso. Mise audacia e ottimismo nelle proprie aspirazioni apostoliche. Proclamò che la santità non è fatta solo per al
cuni privilegiati. Aprì insomma, con il suo messaggio, i cammini divini della terra. Strade di santificazione per tutti coloro che, nel bel mezzo del mondo, si identificano con Cristo, lavorando per amore di Dio e degli altri uomini.
Alla missione del Fondatore appartiene anche il carisma della sua paternità: Padre e Pastore di una porzione del popolo di Dio. Già in vita ebbe, come gli antichi patriarchi, un’ampia discendenza spirituale. Il 17 maggio 1992, giorno in cui la Chiesa gli tributò ufficialmente l’onore degli altari, un’immensa folla di figli del suo spirito - persone di tutte le razze e di ogni condizione di vita - affollava piazza S. Pietro a Roma.
Sono grato del valido aiuto ricevuto da monsignor Alvaro del Portillo, allora Vescovo Prelato dell’Opus Dei; dal suo successore Monsignor Javier Echevarria, Vescovo Prelato attuale; e da coloro che si sono assunti l’onere di accertare l’esattezza di alcuni dati di questo libro.
Andrés Yàzquez de Prada
1 Appunti, n. 244.
9
PRINCIPALI ABBREVIAZIONI USATE NEL TESTO
AGPAppuntiAVFLettera
EF
DIZL
POI, P02, ecc.PMPRRHFSum.
T
Archivio Generale della PrelaturaAppunti intimiAutografi vari del FondatoreLe Lettere a tutti i membri dell5Opera, autentici scritti fondazionali, vengono citate con la data e con la numerazione a margine che compare nel testo della Lettera stessa; per es.: Lettera 24-12-1951, n. 7.NclV Epistolario del Fondatore è raccolta la corrispondenza personale; le lettere sono citate con la sigla EF e la data.Documento.Sezione dell’Archivio Generale della Prelatura relativo al Servo di Dio Isidoro Zorzano Ledesma.Raccolte di documenti a stampa (Sezioni dell’AGP).Processo Madrileno, seguito dal numero del foglio.Processo Romano, seguito dal numero della pagina.Registro Storico del Fondatore (Sezione dell5AGP).Summarium della Causa di beatificazione e canonizzazione. Positio super vita et virtutibus, Roma, 1988. Viene citato il testimone e il numero corrispondente del Summarium.Testimonianza.
10
Capitolo I
L’EPOCA DI BARBASTRO (1902-1915)
1. L’ascendenza familiare
Josemaria Escrivà de Balaguer nacque a Barbastro (nella regione spagnola dell’Aragona) il 9 gennaio 1902 e morì a Roma il 26 giugno 1975.
Poche settimane prima della sua morte, mentre cercava di rileggere nella giusta luce la propria esistenza, manifestava un profondo senso della Provvidenza divina dicendo: “Il Signore mi ha fatto vedere come mi ha condotto per mano” 1. Fra gli anni che vanno dal 1902 al 1975 ci fu per lui una data di eccezionale importanza: il 2 ottobre 1928, giorno della fondazione dell’Opus Dei. Questo fatto soprannaturale ha segnato la sua vita in modo tale che in ogni riferimento autobiografico si rispecchia l’incancellabile consapevolezza di una missione personale. Come quando descrisse la propria venuta al mondo:
“Dio nostro Signore fece in modo che la mia vita fosse normale e comune, senza nulla di straordinario.Mi fece nascere in un focolare cristiano, come sono di solito quelli della mia terra, da genitori esemplari che praticavano e vivevano la propria fede”2.
11
Josemarìa nacque alla fine di un giorno d’inverno, verso le dieci di sera. Per questo motivo, con senso umoristico, definiva i suoi primi momenti come passi da “nottambulo” , in quanto aveva cominciato a vivere con una notte intera davanti a sé. Anche se con questa espressione alludeva velatamente alla lunga notte di oscurità che, per anni, avvolse la sua missione spirituale3.
Il giorno successivo, 10 gennaio, fu iscritto all’Anagrafe, dove si legge, fra altri dati:
«Che questo bimbo nacque alle ventidue di ieri nel domicilio dei suoi genitori, calle Mayor, n. 26.Che è figlio legittimo di Don José Escrivà, commerciante, di 33 anni, e di Donna Dolores Albàs, di 23 anni, originari rispettivamente di Fonz e di Barbastro.Che è nipote in linea paterna di Don José Escrivà, defunto, e di Constancia Cerzàn (sic), originari rispettivamente di Peralta de la Sai e di Fonz.E in linea materna di Don Pascual Albàs, defunto, e di Donna Florencia Blanc, originari di Barbastro.E che il succitato bimbo deve essere iscritto con i nomi di José Maria, Juliàn, Mariano»4.
Alcuni giorni dopo, il 13 gennaio, festa liturgica dell’ottava dell’Epifania, nella quale si commemorava il Battesimo del Signore, il Règgente del Vicariato della cattedrale di Barbastro impose al bambino, al fonte battesimale, i nomi che già apparivano nel registro dello Stato Civile: José, nome del padre e del nonno; Maria, per devozione alla Santissima Vergine; Juliàn, quello del santo del giorno; Mariano, per riguardo al padrino di battesimo5.
Con il passare degli anni, Josemarìa dimostrò una profonda riconoscenza al sacerdote che gli aveva amministrato questo sacramento. Il reggente si chiamava Àn- gel Malo - nome difficile da dimenticare - e la memoria di lui sarebbe stata presente quotidianamente nel me
l i
mento delle Messe che don Josemaria avrebbe celebrato per mezzo secolo6. Identici sentimenti di gratitudine serbò per i padrini di battesimo.
Quanto al fonte battesimale della cattedrale di Barbastro, di bella e accurata fattura, esso è uno degli oggetti artistici descritti nel Liber de Gestis del Capitolo, all’anno 16357. Ben poco gli valsero, tuttavia, antichità e bellezza. Nel 1936, quando passò anche da lì la furia iconoclasta, fu frantumato e i pezzi gettati nel fiume. À quel fonte avevano ricevuto le acque del battesimo migliaia di cristiani, tra i quali la madre di Josemaria. A quel fonte battesimale, da bambino egli vide battezzare le sue sorelline più piccole. I suoi resti erano dunque degni di rispettosa considerazione. Fu così che, quando nel 1957 il Vescovo e il Capitolo della cattedrale gli regalarono i frammenti salvati dalla distruzione, chiese che gli fossero inviati a Roma per ricomporli e dar loro onorevole sistemazione:
“Sono appena giunti a Roma” - scriverà nel 1959 - “i resti del fonte battesimale della Cattedrale di Barbastro, che Sua Eccellenza e l’eccellentissimo Capitolo hanno voluto regalare all’Opus Dei, e non posso fare a meno di ringraziare il Signor Vescovo - come farò direttamente anche con il Capitolo - per questa delicatezza, che tanto mi ha commosso.Quelle venerabili pietre della nostra santa chiesa Cattedrale, una volta restaurate qui in Italia dai miei figli, occuperanno un posto d’onore nella Casa Generalizia.Grazie di nuovo, Eccellenza, per questa cortesia, che ricorderemo sempre con profonda riconoscenza”8.
Non fu il fonte battesimale l’unica vittima della barbarie marxista. Maggiori danni ha subito lo Stato Civile di Barbastro. In quella stessa epoca furono ridotti in cenere archivio e documenti. L’atto di nascita oggi esistente non è quindi l’originale del 1902, ma una copia autenticata del 19129. Per inciso, diremo che la copia
13
contiene alcuni lievi errori di nomi e di luoghi. Poco importava questo al padre di Josemarfa, fatta eccezione per una inesattezza ortografica che toccava nella sostanza la sua parentela. José, uomo quanto mai pacifico, non era disposto a subire passivamente alterazioni del proprio cognome.
Il fatto è che in alcuni documenti il cognome “Escrivà” appare alterato in “Escribà” 10. Questa innocente svista ortografica non stupiva più di tanto, dato che in spagnolo non esiste differenza fonetica fra la “b” e la “v” . Il guaio era che, pronunciando il nome con una trasposizione dell’accento sulla penultima sillaba, si richiamava qualcosa di ben diverso: il niente affatto onorevole binomio evangelico degli “ scribi e farisei” .
Non era che una lieve burla lo scherzo dei compagni di scuola, che facevano arrossire Josemarfa con la faccenda degli “ scribi e farisei” 11 e non lasciavano in pace neppure sua sorella Carmen. Finché un giorno il padre, indignato, prese le difese del cognome, esigendo da Josemarfa che non tollerasse oltre battute di quel genere. Avvertimento che rimase ben impresso nel figlio, il quale avrebbe dovuto ingaggiare una vera battaglia contro la “b” . In una nota sulla sua vita interiore, del maggio o giugno 1935, così scriveva, riferendosi alla voluta particolarità della propria firma:
“Ho incominciato intorno al 1928 ad esagerare la V del mio cognome, solo perché non scrivessero Escrivà con la b”. E in una nota posteriore ricordava: “È stato mio padre (che sta in Cielo) a ordinarmi che non tollerassi la b nel cognome: mi disse qualcosa sulla nostra ascendenza... Ott. 1939” 12.
Da tali errori ortografici non andava esente il Reggente che lo battezzò in cattedrale. L’equivoco nella registrazione del suo battesimo egli non lo scoprì che nel 1960, a quanto si legge nella lettera di risposta a una
14
persona che gli aveva inviato la fotocopia del suo atto di battesimo:
“Mi ha fatto piacere la fotocopia dell’atto di battesimo, ma mi ha rivelato che il buon don Àngel Malo sbagliò il cognome Escrivà scrivendolo con la b. Non sarebbe possibile - se c’è spazio! - inserire una nota a margine con la rettifica?”13.
Simili lamentele fanno capire che la difesa del cognome è stata una campagna di lunga durata; e questo spaccato di lealtà familiare rivela, del resto, una profonda sintonia tra padre e figlio.
Ma chi erano gli Escrivà e da dove proveniva la loro ascendenza? Originari di Narbona, i loro antenati avevano attraversato i Pirenei, già avanzato il XII secolo, per stabilirsi nella regione catalana di Balaguer, nel distretto di Lerida confinante con l’Alta Aragona. Il ramo degli Escrivà rimasto nella regione aggiunse al proprio cognome il toponimico “de Balaguer” , mentre un altro ramo andò a stabilirsi a Valencia, dopo che Giacomo I il Conquistatore ebbe espugnato la città, nel 123814. Josemarìa Escrivà, discendente dal ramo catalano, nel 1940 chiese e ottenne di avere come primo cognome la forma, “Escrivà de Balaguer” , per distinguerlo da quello degli altri rami familiari15. À Balaguer era nato, nel 1796, il suo bisnonno José Maria Escrivà Manonelles, che studiò medicina e si stabilì a Perarrua, sposandosi con Vic- toriana Zaydìn y Sarrado. Ebbero sei figli. Uno di essi fu ordinato sacerdote; il secondo, José Escrivà Zaydìn, sposò nel 1857 Constancia Corzàn Manzana, originaria di Fonz, unendo nomi illustri delle casate del Ribagorza con quelli dell’Alta Aragona. Pure sei furono i figli di questa coppia; il minore, José, fu il padre del nostro Josemarìa16.
José Escrivà Zaydìn, che non arrivò a conoscere suo nipote poiché morì nel 1894, ricoprì a intervalli cariche
15
pubbliche locali e dovette fronteggiare gli eventi e gli infortuni del secolo: aspre lotte ideologiche e di partito, diverse guerre carliste e, in più occasioni, aperte persecuzioni contro la Chiesa. Se si dà credito ai racconti che ci sono giunti sul suo conto, dovette essere un uomo estremamente conservatore nelle usanze e fortemente radicato nel paese dove si era stabilito, perché a Fonz, località avita della madre, rimase tutta la famiglia. Tutti ad eccezione del figlio minore, il padre di Josemaria17.
Forse la crisi che colpì l’agricoltura dell’Alta Aragona intorno al 1887 lo costrinse a guadagnarsi la vita fuori da Fonz. Le persistenti siccità, le crude gelate e, per colmo di sventura, la fillossera nei vigneti, spinsero molti ad abbandonare i campi. Risulta che già prima del 1892 il giovane José si era stabilito a Barbastro, a poca distanza da Fonz18. Abitava in una strada chiamata via Rio Ancho, in una casa di proprietà di Cirilo Latorre, dove a pianterreno si trovava il negozio di tessuti “ Cirilo Latorre” , più noto alla gente come “ Casa Servando” . Poco dopo la morte del padre, il giovane José si associò a Jerónimo Mur e a Juan Juncosa, creando una società denominata “Sucesores de Cirilo Latorre” . Successivamente, quando nel 1902 il signor Mur si ritirò, gli altri due soci costituirono la nuova società “Juncosa y Escrivà” 19.
ir ir
Dolores Albàs y Blanc, madre di Josemaria, apparteneva a una famiglia originaria di Ainsa, capoluogo del So- brarbe, a metà strada fra Barbastro è le vette dei Pirenei. Nel XVIII secolo gli Albàs erano assurti al rango della nobiltà contadina del luogo. Ma non si stabilirono a Barbastro fino al XIX secolo, quando nel 1830 un certo Manuel Albàs Linés si sposò con Simona Navarro y Santias20. Da essi nacquero quattro figli. I due maggiori, Pascual e Juan, contrassero matrimonio nello stesso giorno con due sorelle, Florencia e Dolores Blanc. Le
16
due coppie andavano perfettamente d’accordo e andarono ad abitare in due appartamenti della stessa casa (al numero 20 di Via Romero), casa che ben presto, a motivo della numerosa prole che la popolava, fu chiamata “la casa dei bambini”21.
Pascual e Florencia avevano già dodici figli (dei quali solo nove sopravvissero) quando nel 1877 Florencia diede alla luce due gemelle. Le bambine furono battezzate con i nomi di Dolores e Maria de la Concepción. Quest’ultima morì due giorni .dopo la nascita. L’altra divenne a suo tempo la madre di Josemarfa. E quando questi, già sacerdote, ebbe occasione di affermare pubblicamente quale grande beneficio spirituale rappresenti una pronta iniziazione alla vita cristiana in virtù del sacramento del battesimo, citava il caso dei suoi genitori: “che furono battezzati lo stesso giorno in cui nacquero, pur essendo nati sani”22. Questo viene confermato dai certificati di battesimo. In quello della madre si dice: «Ho battezzato solennemente una bimba nata alle due del pomeriggio dello stesso giorno (23 marzo 1877)»; e in quello del padre si legge: «Ho battezzato solennemente un bimbo nato alle ore dodici dello stesso giorno (15 ottobre 1867)»23.
Come si vede, la famiglia era numerosa e le usanze cristiane. Per cui non sorprende il fatto che, al momento di essere ricevuto in seno alla Santa Madre Chiesa, il piccolo Josemarfa avesse tre zii sacerdoti: don Teodoro, fratello del padre José, don Vicente e don Carlos, fratelli della madre, Dolores. Aveva inoltre, da parte di madre, due zie religiose: Cruz e Pascuala. Tutto questo senza estendere la ricerca alla parentela più lontana24.
Quando il Fondatore stava a Burgos, durante la guerra civile spagnola, il 10 gennaio 1938 gli presentarono un sacerdote che era parroco a Madrid, il quale immediatamente si affrettò con gioia a informare don Josemarfa che era amico di Carlitos, Alfredo e José, tre sacerdoti parenti della madre25. Notizia che commentò
17
con un obiter dictum\ “ si vede che la famiglia di mia madre è conosciuta perfino in Siberia”26. È un modo di dire, un riferimento agli abbondanti parenti della madre. Don Carlos, don Alfredo e don José erano tre sacerdoti imparentati con le due coppie di fratelli che si erano sposate lo stesso giorno.
Il 19 settembre 1898 José Escrivà - «celibe, originario di Fonz, abitante a Barbastro, commerciante» - si sposò con Dolores Albàs - «nubile, originaria di Barbastro e qui abitante» -. Gli sposi avevano trenta e ventun anni di età, rispettivamente. Il matrimonio fu celebrato nella cappella del Santo Cristo dei Miracoli, in cattedrale, e officiato da don Alfredo Sevil, zio della sposa, Vicario Generale dell’Arcivescovo di Valladolid, uno di quelli “conosciuti perfino in Siberia”27.
Il Santo Cristo dei Miracoli era una bella scultura lignea medievale, che si trovava in una cappella addossata alle mura che cingevano la cattedrale, e che era stata costruita nel 1714 su uno dei torrioni dell’antica cerchia difensiva. Questo fondersi della cattedrale con le mura, frequente in molte altre città-fortezza del Medioevo, era un simbolo consono con la storia dei loro abitanti.
L’epopea di Barbastro cominciò con la sollevazione degli indigeni contro i dominatori romani, alla morte di Giulio Cesare. A questo episodio fece seguito l’assalto alla cittadina da parte della legione di Sesto Pompeo. Si susseguirono poi inarrestabili e ripetute ondate di invasori: visigoti, franchi e musulmani. Barbastro crebbe e nell’XI secolo diventò una piazzaforte importante e ben munita del regno arabo di Saragozza. “ Cittadella della regione” la definisce uno storico arabo. Città ricca e popolosa, con buoni orti e migliori mura. Nel 1064 i cristiani assediarono la fortezza, cuneo che espandeva il potere moresco fino alle valli dei Pirenei. Il Papa Alessandro II proclamò la crociata, alla quale parteciparono truppe provenienti dall’Italia e dalla Borgogna. Ad esse si unirono, presso Barbastro, i guerrieri normanni agli
18
ordini del duca di Aquitania, le masnade del Vescovo di Vich e truppe della Catalogna capitanate dal conte di Urgel28. Nel mese di agosto di quell’anno le forze cristiane irruppero nella piazzaforte, da dove furono sloggiate l’anno successivo, dopo un breve assedio, da Moctàdir, re arabo di Saragozza. Dall’effimera vittoria dei cristiani trasse ispirazione la leggenda per intonare, ben lungi dalla verità storica, un’eroica “canzone di gesta” : Le siège de Barbastre29.
La città fu definitivamente riconquistata nel 1100 da Pietro I di Aragona, che le concesse uno statuto giuridico privilegiato. La moschea principale fu trasformata in cattedrale, e vi fu trasferita la vecchia sede episcopale di Roda. Nella cattedrale di Barbastro fu sancita l’unione dell’Aragona con la Catalogna mediante il matrimonio di Petronilla, figlia del re Ramiro “il Monaco” , con Raimondo Berengario IV di Catalogna. Barbastro ebbe il rango di città nobile e fu sede delle Cortes convocate nel 1196. La sua gloria durò poco. Le città del- l’Alta Aragona divennero ombre di un glorioso passato quando i confini militari e commerciali si spostarono verso il sud. Zurita, lo storico aragonese, riferisce che, a partire dalla presa di Barbastro, i rudi montanari del nord «facevano guerra ai mori, non come prima, quando si seguivano certe regole, ma con una furia e una veemenza incredibili»30.
Passò il tempo. Le mura e i torrioni che prima cingevano i due vecchi castelli di Barbastro furono abbattuti nel 1719 dal duca della Atalaya. E, come si è detto, su uno di essi fu costruita la cappella nella quale si sarebbero sposati i genitori di Josemaria. Fu riempito il fossato, favorendo l’espansione urbanistica, e furono livellati i baluardi. I cittadini vissero secoli di pace, turbati solo di quando in quando; ma confitta nel cuore di Barbastro vi fu sempre una spina di irrequietezze storiche.
Quando il re Pietro I, dopo la presa di Barbastro, vi creò una sede episcopale, rivale della vicina Huesca,
19
nacquero interminabili conflitti ecclesiastici. Nel 1500, gli abitanti, per riaffermare la propria indipendenza dalla diocesi di Huesca, costruirono una nuova cattedrale, insistendo con ostinazione nelle loro pretese, ottenendo infine che, su istanza e pressione del re Filippo II, il Papa Pio V erigesse, con una bolla del 1571, la sede episcopale di Barbastro. Ma quando la diocesi «si cullava tranquilla all’ombra di gloriosi ricordi e tradizioni» - lamenta uno storico del secolo scorso - in virtù del Concordato del 1851 fra la Spagna e la Santa Sede, fu unita nuovamente a quella di Huesca, e la cattedrale miseramente ridotta al rango di collegiata31.
Tutta la città si dolse del fatto come di un affronto, il che contribuì a creare una certa intesa fra l’autorità ecclesiastica e la popolazione di Barbastro. Grazie alla tenacia di quanti gestirono la questione, fu tenuta in sospeso l’applicazione del provvedimento concordatario. Più tardi, d’accordo con la Santa Sede, fu istituita per la diocesi, con Regio Decreto del 1896, un’Amministrazione Apostolica32.
* * *
Appena sposati José e Dolores andarono a vivere in una casa della calle Mayor, di fronte al nobile edificio degli Argensola. Il loro appartamento era piuttosto grande. Alcuni balconi davano sull’angolo della piazza contigua, nel centro stesso della città, non lontano da via Ri- cardos, nella quale aveva il proprio negozio la ditta “Successori di Cirilo Latorre” .
Per la festa della Madonna del Carmine - 16 luglio 1899 - alla giovane coppia nacque una figlia. Le misero i nomi di Maria del Carmen, Constancia, Florencia. I due ultimi sono quelli delle nonne. Sull’atto di battesimo della figlia i genitori vengono indicati come «abitanti e commercianti» di Barbastro33. Termine, quello di commerciante, che non disdice alla loro buona condizione sociale, osserva con un certo puntiglio la barones
20
sa di Valdeolivos, perché «a quel tempo a Barbastro i commercianti costituivano l’aristocrazia della popolazione». Per quanto si riferisce agli sposi, essa aggiunge che la loro situazione economica era «buona e agiata» e che erano «molto stimati da tutti»34.
José, che aveva un certo spirito imprenditoriale ed era molto metodico, dopo pochi anni vissuti a Barbastro aveva una rete di relazioni commerciali estesa a tutta la regione, anche se il suo centro operativo continuò a essere in via Ricardos. Barbastro era capoluogo di circo- scrizione, centro commerciale di molti paesi all’intorno, e contava più di settemila abitanti. Per la sua buona ubicazione geografica, fra Huesca e Lerida, capoluoghi di provincia, e il suo collegamento ferroviario con la linea Barcellona-Saragozza, era un centro obbligato per gli acquisti e le trattative commerciali di tutta la regione. Le sue fiere periodiche di bestiame e prodotti agricoli mantenevano attivo il commercio.
Dopo otto anni di presenza in città, la figura di José Escrivà si era già fusa con l’ambiente sociale di Barbastro. Era conosciuto in chiesa, per strada e al circolo. Si faceva notare se non altro per il suo aspetto elegante. Fin da lontano si notava la sua eleganza nel vestire, discreta e senza esagerazioni. Portava la bombetta e aveva una piccola collezione di bastoni da passeggio. Era un uomo cortese, piacevole e mite, anche se non troppo espansivo e piuttosto parco di parole. Dimostrò sempre rettitudine verso i dipendenti, generosità verso i bisognosi e devozione verso Dio. Il suo tempo era diviso fra gli affari e la famiglia35.
Affari e famiglia prosperavano. All’inizio del 1902 ebbero un altro figlio. Al bambino, nato il 9 gennaio, fu posto il nome di suo padre. (Più avanti negli anni avrebbe unito i suoi due primi nomi di battesimo per formare quello di Josemarìa, per la sua devozione congiunta per S. Giuseppe e la Santissima Vergine)36.
Con un nuovo bambino in casa, Dolores (“Lola” per
21
la famiglia) vide aumentare il proprio lavoro, come pure la bambinaia. La padrona di casa, più giovane di suo marito di quasi dieci anni, era di media statura, di modi gentili e di serena bellezza. Era adorna di una naturale signorilità e si dimostrava disinvolta e semplice nella conversazione. A detta di quanti la conobbero, si distingueva per «la pazienza e il buon carattere»37, forse ereditati dalla madre Florencia, che seppe educare quella numerosa prole della quale Lola fu il penultimo anello.
Dopo l’ostinato tira e molla fra le sedi episcopali, ristabilita la pace per Decreto Reale nel 1898 - anno in cui si sposarono i genitori di Josemarfa - si fece carico della diocesi don Juan Antonio Ruano y Martin, primo Vescovo Amministratore Apostolico di Barbastro. Il nuovo prelato si trovò di fronte a molte cose in sospeso, per cui, con energici interventi, si diede da fare per sistemare gli affari ecclesiastici. Con criterio ampio, seguendo una pratica tradizionale e legittima per le chiese spagnole fin dal Medioevo, il 23 aprile 1902 amministrò la Cresima a tutti i bambini della città38.1 cresimati formavano due gruppi consistenti: 130 bambini e 127 bambine. Negli atti di questa Cresima collettiva sono annotati, in ordine alfabetico, i nomi dei bambini; l’elenco occupa sei fogli. Nel gruppo dei bambini appare Josemarfa, che allora aveva tre mesi, e tra le bambine sua sorella Carmen, che aveva meno di tre anni39.
Il bambino aveva circa due anni quando i suoi genitori ritennero che fosse giunto il momento di lasciare una testimonianza storica della sua infanzia. Ma quando cercarono di fotografarlo nudo per l’album di famiglia, proruppe in un pianto tanto sfrenato e lanciò tali urla che fu necessario desistere dall’operazione. Mamma Lola con pazienza e rassegnazione gli fece indossare un vestitino e così, con l’espressione ancora a metà fra il sorriso e il pianto, gli fu fatta la famosa foto per i posteri40.
Intorno alla stessa epoca, a causa di una grave malattia, fu sul punto di morire. Forse si trattò di un’infezio
22
ne acuta. Familiari e conoscenti ricordavano per filo e per segno quanto accadde e il fatto che il bambino era stato dato per spacciato dai medici, che già «vedevano l’esito fatale, inevitabile e immediato»41. La notte prima dell’evento sorprendente, il dottor Ignacio Camps Val- dovinos, medico della famiglia, si era recato a far visita al bambino. Era un medico esperto, dotato di un buon occhio clinico, ma a quel tempo non era possibile arrestare il decorso virulento dell’infezione. Data la gravità del caso era andato a casa degli Escrivà un altro medico loro amico, Santiago Gómez Lafarga, medico omeopata. E giunse il momento in cui il dottor Camps dovette dire a José: «Guarda, Pepe: non supererà la notte!».
I genitori stavano chiedendo a Dio, con molta fede, la guarigione del figlio. Dolores cominciò, con grande fiducia, una novena alla Madonna del Sacro Cuore; ed entrambi i genitori promisero alla Vergine di condurre in pellegrinaggio il bambino, se fosse guarito, all’immagine che si venerava nella cappella di Torreciudad.
II giorno seguente, di prima mattina, il dottor Camps andò di nuovo a far visita alla famiglia per fare le condoglianze, poiché era certo che il bambino fosse morto. «A che ora è morto il bambino?», fu la sua prima domanda mentre entrava. E José, con gioia, gli rispose che non solo non era morto, ma che era completamente guarito. Il medico entrò in camera e vide il bambino nel lettino, attaccato alle sbarre, che saltellava pieno di vita.
I genitori compirono la promessa. A dorso di cavalcatura e per sentieri impervi, fecero più di venti chilometri. Dolores portava il bambino in braccio. Seduta in sella alla amazzone, passò dei brutti momenti, sospesa fra dirupi ed erte scoscese che strapiombavano sul fiume Cinca. Lassù stava la chiesetta di Torreciudad, dove, ai piedi della Santissima Vergine, offrirono il bambino in ringraziamento42.
Anni dopo, ricordando questo episodio, Dolores ripetè più di una volta al figlio: «Figlio mio, la Vergine ti
23
ha lasciato in questo mondo per fare qualcosa di grande, perché eri più morto che vivo»43. Da parte sua, Jose- marfa lasciò una testimonianza scritta, nel 1930, della propria convinzione di essere stato guarito dalla Vergine Santissima: “Signora e Madre mia! Tu mi hai dato la grazia della vocazione; mi hai salvato la vita, quand’ero bambino; mi hai ascoltato molte volte!...”44.
2. «Quei candidi giorni della mia fanciullezza»
Dalla malattia non gli rimase alcuna conseguenza. Godeva di perfetta salute. Era «l’invidia di tutte le mamme di Barbastro», abituate a vedere il bambino, seduto sul balcone e con le gambe penzoloni tra le barre della ringhiera, che dall’alto salutava gioioso i passanti45.
Forte e sveglio, il piccolo possedeva una grande capacità di osservazione, grazie alla quale trattenne nella memoria fatti accaduti in tenera età. Fra quei primi ricordi vi sono le preghiere apprese dalle labbra della madre e che, con l’aiuto del papà o della mamma, recitava quando si alzava da letto o vi si coricava. Preghiere ingenue, brevi e infantili, al Bambino Gesù, alla Santa Vergine o all’Angelo Custode:
“Angelo mio Custode, dolce compagnia,né di notte né di giorno, non andar via.Se mi lasci, che cosa sarà di me?Angelo mio Custode, prega Dio per me”46.
Alcune di esse imparate anche dalle nonne:
“Sono tuo, sono nato per te: che cosa vuoi, Gesù, dame?”47.
Più avanti, il bambino avrebbe recitato il «Benedetta sia la tua purezza» e l’offerta alla Santa Vergine:
24
“Signora mia e Madre mia, io mi dono interamente a voi, e in prova del mio affetto filiale vi consacro in questo giorno i miei occhi, le mie orecchie, la mia lingua, il mio cuore. In una parola, tutto il mio essere. E poiché sono tutto vostro, Madre di bontà, proteggetemi e difendetemi come cosa e possesso vostro”48.
Per tutta la vita fu grato ai suoi genitori per queste preghiere, che gli rimasero incise nella mente e nel cuore. Le recitò spesso e fece ricorso ad esse nei momenti di aridità spirituale49.
Non aveva ancora raggiunto il pieno uso di ragione quando incominciò a unirsi alla recita del rosario in famiglia, o a recarsi a Messa con i genitori, o ad assistere alla funzione a S. Bartolomeo, un oratorio accanto alla sua casa dove gli Escrivà si recavano tutti i sabati a recitare la Salve Regina50. I suoi ricordi erano soprattutto legati alle feste domestiche di Natale, quando insieme a Carmen aiutava il padre a montare il presepio, cantando in famiglia canti natalizi popolari. Si ricordava soprattutto di uno che diceva: «Madre, alla porta c’è un Bambino». Le parole della canzone avevano un ritornello in cui il Bambino Gesù ripeteva: «Sono venuto sulla terra per patire». Questa canzone lo accompagnò dalla culla alla sepoltura. “ Quando avevo circa tre anni” - raccontava in famiglia - “mia madre mi cantava questa canzone, mi prendeva fra le braccia e io mi addormentavo placidamente”51. Nei suoi ultimi anni, quando la sentiva cantare nel periodo natalizio, si commuoveva, raccogliendosi in preghiera.
* * *
La signora Dolores viveva dedita interamente alla propria famiglia. Insieme al marito, concentrò i suoi sforzi nell’educazione di Carmen e Josemarfa, creando un ambiente familiare al quale si aggiunsero poi i figli che più tardi il Signore inviò loro. La padrona di casa era una
25
donna di carattere e di molto buon senso. E quando il bambino, che come tutti i bambini aveva piccoli capricci e manie, s’impuntava a non voler mangiare qualcosa, senza perdere la calma gli diceva: «Non lo vuoi mangiare? Ebbene, non mangiarlo» e non gli dava nient’altro52.
Un giorno gli misero davanti un piatto che non gli piaceva ed egli, prevedendo che poi sarebbe rimasto a digiuno, lo gettò arrabbiato contro la parete tappezzata. Non fu cambiata la tappezzeria. Per diversi mesi rimase lì la macchia, perché il bambino non si scordasse troppo in fretta del suo gesto di rabbia53.
Le fini doti pedagogiche della madre a volte erano accompagnate da detti proverbiali o da frasi con la morale. Alla tendenza alla trascuratezza, al lasciare le cose buttate là o rivoltate a rovescio, opponeva un saggio avvertimento: «Gli altri non son fatti per riordinare quello che noi lasciamo in disordine». Non abusava mai del servizio domestico e non disdegnava di servire gli altri. «Non mi si sfileranno certo gli anelli!», era solita ripetere e il suo esempio era un soave e continuo invito per i suoi figli. Li preveniva anche dai giudizi temerari: «Non c’è parola mal detta, bensì mal compresa»; questo perché non si scandalizzassero per la malizia di qualcuno54.
Con il passare degli anni, nelle considerazioni di Josemaria sul comportamento umano sarebbero apparsi, qua e là, alcuni detti sapienziali uditi dalla signora Dolores.
“Da piccolo” - raccontava - “c’erano due cose che mi davano fastidio: dare un bacio alle amiche di mia madre, che venivano a farle visita; e mettermi vestiti nuovi. Quando indossavo un abito nuovo, mi nascondevo sotto il letto e mi rifiutavo di uscire in strada, cocciuto...; e mia madre, con un bastone di quelli che usava mio padre, batteva dei colpetti per terra, dolcemente, e allora uscivo: per paura del bastone, non per altro.Poi mia madre mi diceva con affetto: “Josemaria, ver-
26
gognati solo di peccare” . Molti anni dopo mi sono reso conto che in quelle parole c’era una verità molto profonda”55.
A difesa del bambino si deve dire che esistevano parecchi buoni motivi perché gli sbaciucchiamenti di quelle buone signore a volte gli divenissero insopportabili, soprattutto quelli di una lontana parente di sua nonna, persona in età alla quale spuntavano i baffi, che pungevano la faccia del bambino quando lo baciava. La madre si rendeva certamente conto del fastidio che davano a Josemarìa quando lo abbracciavano lasciandogli la faccia tutta macchiata di cipria e di belletto. Quando la avvertivano di una visita, prima di uscire in anticamera, la signora Dolores diceva al bambino, con uno sguardo d’intesa: «Questa sarà tutta stuccata e non la possiamo far ridere perché se no le cade la crosta»56.
I bambini non videro mai litigare i loro genitori. In casa c’era affetto, rispetto e un tratto cortese anche con le persone di servizio, che erano come parte della famiglia. Quando una delle ragazze di servizio si sposava, i coniugi Escrivà la provvedevano di un corredo da sposa, come se si trattasse di una figlia57.
I genitori erano molto mattinieri, nonostante si coricassero per ultimi. Al mattino il signor José usciva per recarsi al lavoro con estrema puntualità e si sapeva sempre dove stava e a che ora sarebbe ritornato. Il bambino aspettava con impazienza e vivo desiderio il ritorno del signor José. A volte gli correva incontro; alla fine della giornata andava al negozio di via Ricardos e si divertiva a contare le monete della cassa, mentre suo padre approfittava per spiegargli le nozioni elementari della somma e della sottrazione. E sulla strada del ritorno a casa, in autunno, José comperava le caldarroste e se le metteva nella tasca del cappotto. Allora Josemarìa, in punta di piedi, metteva dentro la manina alla ricerca
27
delle castagne, trovandosi la tenera stretta della mano del padre58.
La gente di Barbastro li vide per molti anni passeggiare insieme. Quella stretta relazione di fiducia e amicizia che esisteva tra padre e figlio era dovuta all’attenzione del signor José, che coltivava in Josemarfa la generosità e la sincerità. Non lo picchiò mai. Solo una volta gli sfuggì un affettuoso scappellotto di fronte alla cocciutaggine del bambino, che si voleva sedere su una sedia alta in sala da pranzo, perché voleva essere come i grandi59.
Il padre lo invitava ad aprire il cuore e a raccontargli quello che lo preoccupava, allo scopo di aiutare il bambino a vincere reazioni impulsive del suo carattere incipiente o a sacrificare gusti e capricci. Il signor José lo ascoltava senza fargli fretta e soddisfaceva le domande proprie della curiosità infantile davanti alla vita. ÀI bambino faceva piacere vedere che il padre si dimostrava disponibile a essere interrogato e che, se gli faceva una domanda, “ lo prendesse sempre sul serio”60.
I due coniugi insegnarono ai figli a praticare la carità nei fatti e senza ostentazione: a volte dando un conforto spirituale, a volte aggiungendo un’elemosina. Esisteva a quel tempo, in molti paesi e città di Spagna, l’abitudine di dare l’elemosina in un giorno fisso della settimana, nelle case delle famiglie agiate. A quanto riferisce un nipote della famiglia, gli Escrivà praticavano questa usanza: il signor José, dice Pascual Albàs, «era molto generoso nell’elemosina; tutti i sabati si formava una gran coda di poveri che andavano a chiedere l’elemosina e per tutti c’era sempre qualcosa»61. Al piccolo Josemarfa rimase indelebilmente impressa l’immagine di una zingara che non veniva di sabato, come gli altri poveri. La vedeva talvolta di sera entrare in casa con familiarità, su invito della madre. La zingara, quasi avvolta nel mistero, stava a parlare con la signora Dolores nella camera di questa, dove non le potevano interrompere, poiché
28
non vi avevano accesso neppure i parenti più prossimi. Il bambino non capì mai le ragioni di queste visite singolari. Quanto alla zingara, che si chiamava Teresa, seppe solo in modo molto vago che era una donna che si sacrificava per la sua gente e che veniva a consigliarsi per qualche segreta pena62.
Per il bambino era un momento di gioia quando distribuiva, fra i mendicanti che chiedevano l’elemosina alla porta della cattedrale, le monete che il signor José gli dava quando la famiglia assisteva alla Messa, le domeniche e i giorni di festa63. Avvicinandosi alla cattedrale, imponente nella sua austera mole di pietra, Josemaria si affrettava, pieno di compassione, a soccorrere un povero storpio appoggiato all’ingresso. Poi, una volta entrati, con la luce che filtrava dagli alti finestroni, il suo sguardo saliva lungo la schiera di snelle colonnine per perdersi nell’intreccio di nervature che corrono sulle volte. Passando davanti a una delle cappelle laterali, un’immagine della Santissima Vergine giacente tratteneva la sua curiosità; quella vista affascinava dolcemente il bambino. Per la festa dell’Assunzione l’immagine veniva esposta alla venerazione dei fedeli, poiché rappresentava la Dormizione della Vergine.
Un quarto di secolo più tardi, nel 1931, nella festa del 15 agosto, echeggeranno nel suo cuore i ricordi emozionati della fanciullezza:
“Giorno dell’Assunzione di Maria 1931: (...).Sono davvero felice, perché mi sembra di essere presente... con la Trinità beatissima, con gli Angeli che ricevono la loro Regina, con tutti i Santi, che acclamano la Madre e Signora.E ricordo quei candidi giorni della mia fanciullezza: la cattedrale, così brutta di fuori e così bella dentro... come il cuore di quella terra, buono, cristiano e leale, celato dietro le asperità del carattere contadino.In mezzo a una cappella laterale si ergeva il tumulo su
29
cui riposava l’immagine della Madonna dormiente... Il popolo passava, con rispetto, e baciava i piedi della “Vergine del Letto”...Mia mamma, mio papà, i miei fratelli e io andavamo sempre insieme a sentir Messa. Mio padre ci dava l’elemosina, che portavamo con gioia allo storpio che stava addossato al palazzo episcopale. Poi mi affrettavo a prendere l’acqua benedetta, per darla ai miei. La Santa Messa. Poi, tutte le domeniche, nella cappella del Santo Cristo dei Miracoli recitavamo un Credo. E il giorno dell’Assunzione - come ho detto - era d’obbligo “adorare” (così dicevamo) la Vergine della Cattedrale”64.
>1- i ’r
La Nella casa paterna - dice di sé don Josemarìa - “cercavano di darmi una formazione cristiana, e lì l’ho acquisita, più che a scuola, anche se dai tre anni mi hanno fatto frequentare una scuola di religiose e dai sette anni una scuola di religiosi”65.
La scuola materna delle Figlie della Carità, dove stette dal 1905 al 1908, consisteva in una sola aula ad anfiteatro. Nella parte bassa si intrattenevano i più piccoli con giochi e canzoni e si insegnava loro il sillabario. Sul fondo, invece, a diverse altezze della gradinata, le suore formavano dei gruppi a parte con i bambini più grandicelli, spiegando loro il catechismo, la storia sacra, e qualche nozione di scienze naturali, chiamate anche, con nome meno pretenzioso, “ lezioni di cose” . Josemarìa si distinse nella scuola materna, non tanto per merito suo, quanto perché i suoi genitori gli avevano fatto prima a casa lezioni di catechismo e di aritmetica e gli avevano insegnato a leggere. Ma fu una suora a iniziarlo ai primi passi della scrittura66.
Di quegli anni di scuola materna gli rimase impresso nella memoria un doloroso evento della sua prima infanzia, attorno ai tre anni. Questa memorizzazione precoce, anche se non prodigiosa, era dovuta in gran parte
30
all’impressione causata dall’intensità di sentimenti o da qualsiasi scontro troppo brusco con la realtà. Non si trattava di un’impressione alla cieca, ma la sensibilità del bambino, davvero straordinaria, risvegliava nella sua anima lo sforzo di capire il significato e le conseguenze dei fatti.
Accadde un giorno che qualcuno disse alla bambinaia, che andò a prenderlo all’uscita dell’asilo per condurlo a casa, che Josemaria aveva picchiato una bambina, cosa non vera e che peraltro gli fruttò un forte rimprovero. Quell’accusa ingiusta lo colpì profondamente nelPanima. Fu in questo modo che comprese il senso della giustizia, così che da quel momento in poi gli rimase impresso che non si deve giudicare prima di aver ascoltato l’accusato67.
Le suore avevano tale buona opinione del bambino che, nel giugno 1908, alla fine della sua permanenza nella scuola materna, lo proposero come candidato a un concorso per “Premi alla virtù” . Il concorso faceva parte di un programma di iniziative con cui l’Amministra- tore Apostolico di Barbastro, mons. Isidro Badia y Sar- radell, si proponeva di celebrare nella diocesi i 50 anni dell’ordinazione sacerdotale di Papa Pio X 68. Fu nominata una giuria per l’aggiudicazione dei premi. Il premio al quale aspiravano le scuole materne, consistente «in trenta pesetas per ciascuno», veniva promesso «al bambino di ciascuna delle scuole di istruzione primaria di questa città che sia modello agli altri per la sua applicazione e il buon comportamento».
Il 4 ottobre 1908 ebbe luogo la manifestazione lette- rario-musicale e la distribuzione da parte del Vescovo dei diplomi ai concorrenti. Nel concorso sulle virtù infantili furono premiati diversi bambini: uno della scuola materna comunale, due della scuola degli Scolopi e Josemaria come allievo della scuola delle Figlie della Carità. Al termine della manifestazione fu inviato un telegramma a Roma, rinnovando al Papa, in occasione
31
della ricorrenza, la testimonianza di amore filiale di tutta la diocesi.
Subito giunse a Barbastro la risposta:
«Roma, 6.Amministratore Apostolico.Il Santo Padre, grato filiale omaggio occasione suo Giubileo sacerdotale, benedice con affetto Signoria Vostra, autorità, clero e fedeli di Barbastro. Cardinale Merry del Val»69.
3. La prima Comunione
Nell’ottobre 1908 Josemarfa divenne alunno degli Scolo- pi. La scuola di Barbastro dei Padri Scolopi fu la prima che questi religiosi aprirono in Spagna70. Il loro fondatore, S. Giuseppe Calasanzio, era nato nello stesso paese in cui era vissuto il nonno paterno di Josemarfa, Peralta de la Sai, a 20 chilometri da Barbastro. La scuola era poco distante dalla casa degli Escrivà.
Due giorni dopo aver ricevuto il telegramma del Cardinale Merry del Val, il Vescovo di Barbastro diede inizio a una visita pastorale alla diocesi. Fin dal mese precedente veniva ricordata, nella parrocchia dell’Assunzione, nella cattedrale, l’importanza che si confessassero gli adulti e tutti i bambini preparati a farlo, per lucrare così le indulgenze della visita pastorale. Fu durante quell’anno scolastico 1908-1909, durante il quale il bambino frequentava il “giardino d’infanzia” degli Scolopi, che la signora Dolores preparò personalmente il figlio alla prima confessione. Lo condusse poi dal proprio confessore, padre Enrique Labrador71. Il bambino aveva sei o sette anni quando sua madre lo accompagnò in chiesa.
Allora gli uomini si confessavano sul davanti del confessionale e le donne alla grata laterale. Il buon Scolopio
32
accolse il bambino il quale, inginocchiandosi, scomparve del tutto dietro la porticina del confessionale; la dovette aprire perché si inginocchiasse all’interno. Il penitente incominciò a sgranare i propri peccati mentre padre Labrador lo ascoltava con un sorriso. Per un momento il bambino si scoraggiò, pensando che non lo prendesse sul serio, cosa che invece faceva il signor José. Alla fine, il confessore gli fece una breve raccomandazione e gli impose la penitenza.
Questa prima confessione gli procurò una grande pace di spirito. Ritornò a casa di corsa, per annunciare che doveva compiere la penitenza. Sua madre si offrì di aiutarlo. “N o” - rispose il bambino - “la penitenza la faccio da solo. Mi ha detto il padre di farmi dare un uovo fritto”72.
ir * *
A quel tempo aveva due sorelle minori: Maria Asun- ción, nata il 15 agosto 1905, e Maria de los Dolores, nata il 10 febbraio 1907. Una terza, Maria del Rosario, venne al mondo il 2 ottobre 190973.
Con cinque figli, la madre aveva acquisito buona esperienza per governare l’infanzia. Data la sua condizione sociale, aveva un buon servizio domestico. Oltre alla cuoca e a una ragazza per le pulizie della casa, poteva contare su una bambinaia e su di un ragazzo che, di quando in quando, dava loro una mano nei lavori meno adatti alle donne. La signora Dolores era una donna sempre in movimento e la si vedeva sempre mettere in ordine la casa, poiché aveva uno spiccato senso pratico. Per quando i bambini tornavano da scuola, a volte accompagnati dai loro amici, aveva destinato una stanza per i giochi, che chiamavano la “gabbia dei leoni”74. Nel suo modo di fare usava con discrezione la flessibilità o si dimostrava inflessibile, secondo i casi. A volte i bambini strepitavano a tavola, nei giorni di festa, quando veniva servito il pollo. Pareva che tutti si fossero
33
messi d’accordo per reclamarne una coscia. La signora Dolores, senza batter ciglio, cominciava a moltiplicare cosce di pollo: tre, quattro, sei: quante ne occorrevano. Tuttavia non tollerava capricci e neppure che i bambini andassero in cucina a mangiare fuori orario. La cucina era per i bambini una tentazione permanente. Invece la signora Dolores vi entrava solo eccezionalmente, per vedere come andavano le cose o per preparare qualche piatto fuori dal comune. E fuori dal comune erano i cre- spillos, che comparivano il giorno del suo onomastico o in limitate occasioni familiari75. Era un dolce alla portata di qualsiasi tasca e non implicava alcun segreto culinario se non quello di saperli presentare come si deve: delle foglie di spinaci passate in una pastella di farina e uova; venivano quindi fritte in padella con poco olio bollente e poi, tiepide e spolverate di zucchero, venivano servite in tavola. In casa degli Escrivà si salutava sempre con entusiasmo il giorno dei crespillos.
Vi era anche un’altra ragione, a parte i dolci o le patate fritte, per cui il bambino vagava nei pressi della cucina: le donne di servizio gli raccontavano cose divertenti e storielle. Soprattutto M aria, la cuoca, che conosceva una storia di ladri, senza tragedie né violenze. Una, una sola; ma la raccontava in modo magistrale e il bambino non si stancava mai di sentirla ripetere76. Ascoltando Maria cominciarono ad affiorare le sue doti di narratore.
Alcuni pomeriggi, quando Carmen ritornava da scuola con le sue amiche, si chiudevano a giocare nella “gabbia dei leoni” . La signora Dolores, accondiscendente con le loro preferenze, le intratteneva o dava loro vecchi capi di vestiario per giocare. «Spesso ci fermavamo a far merenda - riferisce Esperanza Corrales - e ricordo che ci davano pane con cioccolato e arance»77.
Se Josemaria non era uscito con i suoi amici, le raggiungeva per farle divertire. «Gli piaceva farci giocare - racconta la baronessa di Valdeolivos -. Molte volte an
34
davamo a casa sua e ci tirava fuori i suoi giochi: aveva molti rompicapi»78. Aveva anche soldatini di piombo, birilli e un grande cavallo di cartapesta con le ruote che faceva montare a turno dalle bambine e le portava a spasso per la stanza tirando il cavallo per la cavezza. E se le bambine litigavano, il proprietario della cavalcatura metteva pace con delle buone tirate di trecce.
«Ma ciò che più gli piaceva quando stava con noi - ricorda Adriana, sorella di Esperanza - era sedersi su una sedia a dondolo del soggiorno e raccontarci delle storie- normalmente storie paurose, per spaventarci - che inventava lui stesso. Aveva una viva immaginazione e noi- comprese Chon e Lolita, le sue sorelle, che avevano tre e cinque anni meno di Josemarfa - lo ascoltavamo attentamente e un po’ impaurite»79.
5[-
Dal 1908 al 1912, anno in cui iniziò gli studi liceali, Josemarfa frequentò la scuola elementare. Secondo la normativa allora vigente, la giornata scolastica era di sei ore di lezione, tre al mattino e tre al pomeriggio. Per il figlio degli Escrivà l’orario si prolungava: al pomeriggio faceva i compiti con la supervisione di un insegnante, perché ne potesse trarre maggior profitto. Un corso dopo l’altro gli alunni studiavano le stesse materie, ma ogni anno con maggiore ampiezza. Il programma delle materie era un combinato enciclopedico di disparati ingredienti; si andava dalle nozioni di igiene e dai rudimenti del diritto fino al canto e al disegno80.
L’insegnamento specifico e principale della scuola era la scrittura, arte in cui gli Scolopi avevano una meritata fama. Il “carattere scolopio” della scrittura era un robusto carattere spagnolo, alto, grosso e senza ornamenti o tratti stravaganti81. Diventarne abili richiedeva molta applicazione. I principianti imbrattavano fogli su fogli. Le righe assumevano curvature capricciose, come il profilo di una catena di monti. Si macchiavano le dita
35
immergendo la cannuccia della penna nel calamaio. Poi interveniva il maestro, che correggeva i bambini. Mostrava loro come impugnare la penna e, perché tracciassero le righe in orizzontale, metteva sotto alla carta una falsariga, le cui linee rettilinee e parallele trasparivano dal foglio.
Con il passare degli anni, questi ricordi avrebbero suscitato nella mente di Josemarìa delle metafore soprannaturali. Nella sua onnipotenza, Dio non ha bisogno né di falsariga né di cannuccia, perché “come noi uomini scriviamo con la penna, il Signore scrive con la gamba del tavolo, perché si veda che è Lui a scrivere” 82.
Josemarìa acquisì ben presto uno stile calligrafico che si mantenne facilmente riconoscibile per tutta la sua vita. La sua personalità traspare dai tratti energici, ampi e semplici, che rendono la scrittura inconfondibile fin dagli albori della sua vita scolastica. Nei suoi tratti si rivela un temperamento deciso, franco e generoso.
Da piccolo - raccontava sua sorella Carmen - «faceva molta attenzione a non ledere i diritti altrui: preferiva perdere piuttosto che un suo compagno fosse danneggiato»83. Qualcosa di analogo riferisce un suo compagno di scuola, dicendo che «non era litigioso, e cedeva facilmente, per non litigare»84. Il che non significa che Josemarìa avesse un carattere pusillanime, a quanto si può dedurre dal suo litigio con un altro scolaro, soprannominato “zampe sporche” . Per motivi ignoti se le diedero di santa ragione fino a restare entrambi pienamente soddisfatti. Comunque, Josemarìa imparò che la violenza è un’arma che non convince mai l’avversario, per cui da quel momento in poi rinunciò a usarla85.
La sua tendenza ad essere generoso con i suoi compagni rivela una incipiente magnanimità, che andava unita alla sua grande delicatezza nel tratto, come conferma l’eccezionaiità della sua zuffa con “zampe sporche” . Viene a proposito ricordare l’episodio di alcuni ragazzini di Barbastro che inchiodarono un pipistrello a un
muro e lo lapidarono crudelmente. A Josemaria, al quale la sensibilità della sua natura impediva di prendere parte a così crudele divertimento, rimase ben impresso il ricordo di quell’evento86. Ricordava anche che in due occasioni, mentre andava tranquillamente per la sua strada, gli si era avvicinato da dietro un cane e lo aveva morsicato, tutte e due le volte improvvisamente e senza che l’animale fosse stato provocato. Sopportò coraggiosamente il dolore e si recò a casa della zia Mercedes per farsi curare, preoccupato di non dare un dispiacere a sua madre87. Con avvenimenti di questo genere gli si andò forgiando il carattere per sopportare ben maggiori tribolazioni morali o fisiche, anche se non riuscì mai a vincere la propria naturale resistenza a sfoggiare un vestito nuovo o a farsi notare in qualsiasi altro modo. Ormai non si nascondeva più sotto il letto, come faceva da piccolo; ora adottava un’altra tattica. Se gli alunni della classe si dovevano fare una foto di gruppo, per esempio, li si avvertiva di venire tutti ben vestiti nel giorno previsto. Josemaria non ne faceva cenno in casa. Poi, quando la foto veniva mandata ai genitori, la signora Dolores veniva colta di sorpresa. Non era necessario fare delle verifiche: era evidente che tutte le madri si erano preoccupate che i loro figli fossero ben agghindati; il suo era l’unico che non portava il vestito bello.
«Josemaria - gli diceva sua madre -, vuoi forse che ti comperiamo degli abiti vecchi?»88.
In casa Escrivà, nonostante si vivesse agiatamente, si facevano economie utilizzando cose che ad altri sarebbero sembrate inservibili. Vi regnava l’ordine. Se un bambino rompeva un vaso o un altro oggetto di valore, se ne incollavano subito i pezzi o li si mandava ad aggiustare con delle graffette. In casa c’erano diversi orologi e tutti segnavano la stessa ora. Il signor José, senza essere maniaco, amava la puntualità, perché non si sa mai dove si va a finire con il disordine. Saggezza che la padrona di casa riassumeva in un detto popola
37
re quando, raccogliendo le cose del cucito, ammoniva sua figlia Carmen: «Con i fili che si buttano il demonio fa una corda»89.
Suo padre fu sempre il suo migliore amico. A lui faceva ricorso il bambino in cerca di chiarimenti a problemi o a difficoltà, sapendo in anticipo che la risposta del babbo sarebbe stata soddisfacente. Così potè capire perché lo tenessero a corto di denaro e, nello stesso tempo, in casa rispettassero le decisioni che prendeva. E non gli aprivano la corrispondenza con gli amici né lo sorvegliavano di nascosto. Questa fiducia con cui lo trattavano i genitori contribuì non poco a renderlo padrone e responsabile delle sue azioni.
Dal papà seppe della “questione sociale” : i rapporti fra operai e imprenditori, le associazioni per la difesa degli interessi comuni dei lavoratori e il tema tanto discusso della giusta retribuzione dei salariati90. Per la verità a Barbastro non esistevano conflitti sociali. Nella zona non esistevano grandi industrie né popolazione proletaria e neppure latifondi. La piccola borghesia, i piccoli proprietari che si dedicavano al lavoro dei campi e i commercianti locali condividevano pacificamente il pane e le buone usanze con dipendenti e coloni.
Benché il popolo, seguendo tradizioni plurisecolari, si conservasse praticante e devoto in tema di religione, tutta la nazione era percorsa da lotte ideologiche. Barbastro non faceva eccezione alle lacerazioni esistenti in tutta la Spagna. La diversità si rispecchiava nelle attività del tempo libero dei suoi vari circoli: “La Union" (L’Unione), “El Porvenir” (L’Avvenire), “El Siglo Nuevo" (Il Secolo Nuovo), o “La Amistad” (L’Amicizia). Di quest’ultimo era socio il signor José. La stampa regionale rifletteva le medesime differenze d’opinione delle discussioni nei caffè. I giornali più diffusi: “La Cruz del Sobrarbe” (La Croce del Sobrarbe), “La Època" (L’Epoca), “El Pah" (La Nazione), “El Eco del Vero" (L’Eco del Vero) e “El Cruzado Aragonés” (Il Crociato Aragonese)91.
38
Non sarebbe stato facile far mettere d’accordo i cattolici spagnoli per risolvere la “ questione sociale” . Papa Leone XIII, nell’enciclica Rerum Novarum (15-V-1891), aveva sancito sul piano dottrinale i princìpi etici dell’ordine economico, risvegliando la coscienza dei fedeli. È un fatto che il programma di rinnovamento sociale fu intrapreso con un certo ritardo e fu l’esempio di altri Paesi a trascinare gli spagnoli92. Nel periodo che va fra il 1902 e il 1915, gli abitanti di Barbastro, e in particolare José Escrivà, cercarono di porre rimedio alla questione. Nel 1903 fondarono il giornale “El Cruzado Aragonés” ; crearono il “Salón de Buenas Lecturas” (1907) e si fecero promotori di un “Centro Católico Barbastrense” (1909), con lo scopo di «promuovere la difesa e la realizzazione dell’ordine sociale e della civiltà cristiana, secondo gli insegnamenti della Chiesa»93. Tutti questi progetti, senza dubbio, mostravano buona volontà, ma la grande battaglia si stava combattendo negli ambienti intellettuali più elevati, cioè nelle istituzioni universitarie e di ricerca scientifica. I cattolici avrebbero subito ben presto le conseguenze di ùna inerzia intellettuale che si trascinava da secoli.
Il signor José aveva responsabilità sui dipendenti della “Juncosa y Escrivà” e quelli della fabbrica di cioccolato aggiunta al commercio di tessuti. Era un buon padrone. Retribuiva i suoi dipendenti con giustizia e si preoccupava anche delle loro esigenze spirituali. Ogni anno pagava di tasca propria delle conferenze quaresimali per i suoi dipendenti. Organizzava l’orario di lavoro in modo che tutti potessero assistervi e, per delicatezza, affinché non si sentissero obbligati ad andare per la sua presenza, si asteneva dal parteciparvi94.
>f* >1- >{•
In Spagna i bambini normalmente non facevano la prima Comunione prima dei dodici o tredici anni, secondo un’usanza seguita pure in molti altri Paesi. Fu a
39
seguito di un decreto del 1910 di S. Pio X che quell’età fu anticipata all’inizio dell’uso di ragione, cioè intorno ai sette anni95. L’epoca della disposizione coincideva con i preparativi per il Congresso Eucaristico Internazionale, previsto a M adrid per il giugno del 1911. Perciò in tutte le parrocchie della Spagna si fece un’intensa catechesi, affinché potesse accostarsi a ricevere la Sacra Eucaristia il maggior numero possibile di bambini.
Un religioso scolopio, padre Manuel Laborda de la Virgen del Carmen - “padre Manolé” , come lo chiamavano con affettuosa dimestichezza gli alunni -, si occupò della preparazione di Josemaria. E, in attesa che arrivasse il tanto atteso giorno della prima Comunione, insegnò al bambino una preghiera che ne teneva vivo il desiderio: «Vorrei, Signore, riceverti con la purezza, l’umiltà e la devozione con cui ti ricevette la tua santissima Madre; con lo spirito e il fervore dei santi»96. Preghiera che, da allora, recitò con molta frequenza.
La vigilia del giorno fatidico venne il parrucchiere a sistemargli i capelli; ma questi, mentre cercava di afferrare una ciocca di capelli con il ferro rovente per fargli un ricciolo, gli procurò una bruciatura sulla testa. Il bambino sopportò senza lamentarsi, per evitare una sgridata al parrucchiere e non causare un dispiacere. In seguito, sua madre finì per scoprire la cicatrice della bruciatura97. Fu da allora che, nei giorni di festa, il Signore avrebbe sempre annunciato a Josemaria la propria presenza con la dolce notizia di un dolore o di qualche contrarietà, “come una carezza”98.
Fece la prima Comunione il 23 aprile 1912, esattamente a dieci anni dalla cresima. Era la festa di S. Giorgio, patrono dell’Aragona e della Catalogna, giorno tradizionale per questa cerimonia, che ebbe luogo nella chiesa della scuola degli Scolopi. Al momento di ricevere la Santa Comunione pregò per i suoi genitori e per le
40
sorelle, e supplicò Gesù che gli concedesse la grazia di non perderlo mai.
Ricordò sempre con fervente candore gli anniversari di questa data, in cui il Signore, come egli soleva dire, “volle venire a impadronirsi del mio cuore”99.
4. Sventure familiari
Josemarìa si recò a Huesca, capoluogo della provincia, per fare l’esame di ammissione al ginnasio, l’i l giugno 19121°°.
Al ritorno da Huesca trovò sua sorella Lolita malata. Aveva compiuto cinque primavere. Era la più piccola in quel momento, perché l’altra sorella, Rosaria, era morta due anni prima, l’ i l luglio 1910, quando aveva solo nove mesi. Alla vigilia del secondo anniversario della morte di sua sorella, Lolita se ne andò in Cielo a farle compagnia101. In casa si creò un triste vuoto. Josemarìa si trovava tra le sue due sorelle, Carmen, la maggiore e Chon (Asunción). I genitori accettarono serenamente la disgrazia, senza ribellioni o risentimenti contro Dio. La mortalità infantile era elevata a quell’epoca, ma non per questo meno dolorosa per le famiglie.
Come facevano tutte le estati, gli Escrivà andarono in vacanza a Fonz, un paese vicino, sull’altra sponda del fiume Cinca, a circa quindici chilometri da Barbastro. Posto in cima a un valico, con la chiesa in alto e l’abitato sparso giù per il declivio, il paese aveva qualche vecchio stemma in case di antica tradizione nobiliare. Là viveva la nonna Constancia con due dei suoi figli, Jose- fa e don Teodoro. L’arrivo del terzo figlio, accompagnato dalla nuora e dai nipoti di Barbastro, era sempre motivo di gioia.
In quelle giornate estive, la curiosità infantile di Josemarìa, mai del tutto soddisfatta, si estasiava davanti alla natura. Assorbiva paesaggi e scene piene di colore e di
41
movimento, mentre immagazzinava nella memoria lo sviluppo segreto di quelle sorprese quotidiane. In seguito, passati gli anni, quando si trattava di trarne degli insegnamenti sulla vita interiore, i ricordi sarebbero fluiti caldi e nitidi.
“Nelle mie vacanze estive, quand’ero bambino, mi divertivo a veder fare il pane. Allora non pretendevo di trarne degli insegnamenti spirituali: mi interessava perché le domestiche mi facevano un gallo con la pasta del pane. Ora ricordo con gioia tutta la cerimonia: era un vero rito preparare accuratamente il lievito - una palla di pasta fermentata conservata dall’infornata precedente - che si univa all’acqua e alla farina passata al setaccio. Fatta la miscelatura e l’impasto, lo coprivano con una coperta e, così protetto, lo lasciavano riposare finché si rigonfiava a più non posso. Poi, messolo a pezzi nel forno, ne usciva quel pane buono, pieno di buchi, meraviglioso. Se il lievito era ben conservato e ben preparato, si lasciava disfare - scompariva - in quella gran quantità, in quella massa che gli era debitrice della qualità e del valore.Si riempia di gioia il nostro cuore al pensiero di essere proprio questo: lievito che fa fermentare la massa”102.
Faceva escursioni in montagna, ai monti del Bunero, sui cui contrafforti si trova Fonz; o ancora più in alto, per le valli che salivano fino ai Pirenei:
“Porto impresso nella mia mente fin da bambino il ricordo di certi segnali che, nelle montagne della mia terra, venivano piantati ai margini delle strade: si trattava di lunghi pali, generalmente dipinti di rosso, che colpivano la mia attenzione. Mi spiegarono che quando cade la neve e copre sentieri, campi e pascoli, boschi, rocce e dirupi, quelle aste emergono come un riferimento sicuro, perché tutti rintraccino il sentiero da seguire.Nella vita interiore succede qualcosa di simile. Ci sono primavere ed estati, ma arrivano anche gli inverni, i
42
giorni senza sole e le notti orfane di luna. Non possiamo permettere che l’amicizia con Cristo dipenda dal nostro umore, dai mutamenti del nostro carattere”103.
Agli eventi quotidiani, ai lavori casalinghi o campestri, alle usanze popolari, egli sarebbe poi stato in grado di aggiungere conseguenze soprannaturali. Nel suo modo di considerare poeticamente la vita di tutti i giorni rivivono dolcezze o sofferenze spirituali:
“Ricordo che nella mia terra, quand’era giunto il tempo della mietitura e ancora non esistevano le moderne macchine agricole, caricavano a fatica a dorso di mulo o di poveri asinelli i covoni della messe. E giungeva un momento nella giornata, a mezzogiorno, in cui arrivavano le mogli, le figlie, le sorelle,... con il capo coperto con grazia da un fazzoletto affinché il sole non bruciasse loro la pelle, più delicata di quella degli uomini, e portavano del vino fresco... La bevanda rifocillava gli uomini già stanchi, li rianimava, li fortificava... Così vedo te, Madre mia benedetta, mentre noi lottiamo per servire Dio, venire a rianimarci nel corso di questa nostra giornata... Attraverso le tue mani ci giungono tutte le grazie”104.
Infine, nelle sue parabole e nei suoi commenti al Vangelo si colgono immagini in cui si conservano con freschezza lontani ricordi dell’infanzia:
“Ricordo di aver visto, da bambino, i pastori avvolti nelle loro zimarre di vello di montone, nelle crude giornate degli inverni pirenaici, quando la neve tutto ricopre, scendere per i tratturi di quella mia terra, con i loro cani fedelissimi e l’asinelio caricato di tutti i loro attrezzi, con in cima a tutto alcuni paioli, nei quali preparavano i pasti per sé e i decotti che applicavano sulle ferite delle pecore.Se qualcuna di esse si feriva, se si rompeva una zampa, si riproduceva la scena disegnata nelle antiche stampe: se la portavano sulle spalle. Ho visto anche come il pastore
- gente rozza, che sembra incapace di un gesto di tenerezza - porta amorevolmente fra le braccia un agnello appena nato”105.
Dall’attenta osservazione di cose e persone ricavò ogni genere di lezioni: l’apparente stoltezza del seminare una semente che, sotterrata, scompare alla vista; il lavoro costante e insostituibile dell’asino che fa girare e girare la noria; o il debito spirituale che contrasse con sua nonna Constancia: vedendola di continuo con il rosario in mano, arrivò più facilmente a comprendere che tutti gli sforzi si devono basare sulla preghiera incessante106.
* * *
Nell’autunno del 1912 Josemarfa iniziò gli studi superiori. L’orario ufficiale delle lezioni era dalle nove alle dodici e, al pomeriggio, dalle due alle cinque. Al mattino, però, si entrava un’ora prima per assistere alla Messa nella chiesa della scuola. Gli alunni portavano un soprabito di colore blu con i bottoni di metallo e un berretto con visiera di pelle verniciata.
Il programma del primo anno della scuola media inferiore comprendeva: lingua castigliana, geografia, nozioni di aritmetica e geometria, religione. Quando giunse il momento di fare gli esami all’istituto di Lerida, ottenne dei voti eccezionali107.
Maturò il carattere del ragazzo, che diventò meno loquace e più riflessivo. Tutto sembra indicare che sia stato durante quell’anno scolastico (1912-1913), dopo aver perduto le due sorelline, che fece un gesto sorprendente. Una sera le sue sorelle Carmen e Chon stavano nella “gabbia dei leoni” e giocavano con alcune amiche. Si divertivano a fare dei castelli con le carte da gioco.
«Ne avevamo terminato uno - riferisce la baronessa di Valdeolivos - e Josemarfa lo abbattè con una manata. Ci rimanemmo male quasi fino alle lacrime.
44
“Perché fai questo, Josemarìa?”Molto serio rispose: “Questo è ciò che fa Dio con le persone: costruisci un castello e, quando è quasi terminato,Dio te lo distrugge” »108.
È probabile che pensieri repressi per lungo tempo fossero infine affiorati in modo violento. Si accese così una nuova luce nella sua mente: Dio è padrone delle anime e dispone di esse indipendentemente dai nostri progetti personali.
Alla fine dell’estate, Chon si ammalò gravemente. Aveva otto anni. Un giorno, quando sembrava ormai imminente l’epilogo della malattia, «giocando con me e con altri bambini - racconta ancora la baronessa di Val- deolivos - Josemarìa ci disse:
“Vado a vedere come sta mia sorella”.Chiese di lei, e sua madre gli rispose: “Asunción sta beneormai, si trova già in Cielo”»109.
Era il 6 ottobre 1913. I genitori non volevano che Carmen e Josemarìa entrassero nella stanza dove si vegliava la piccola Chon, ormai composta. In un momento di disattenzione il ragazzo riuscì ad entrare per pregare e accomiatarsi dalla sorellina. Era la prima volta che Josemarìa vedeva un cadavere110.
Rifletté molto su tutto questo: l’innocenza delle bambine; la loro scomparsa a scalare dalla minore fino alla maggiore; l’inquietante vicinanza delle tre morti. Rimuginò lungamente nell’immaginazione i particolari del caso. Proseguendo la successione naturale delle morti, dopo la recente dipartita di Chon, egli sarebbe stato il prossimo a morire. E non si peritava di manifestarlo apertamente: “L’anno prossimo tocca a me” , diceva111. Allora la signora Dolores, per confortarlo, gli ricordava che la Santissima Vergine lo aveva salvato da piccolo e che lo avevano portato in pellegrinaggio a Torreciudad.
45
«Non preoccuparti, perché io ti ho offerto alla Vergine ed Ella avrà cura di te», lo assicurava. Josemaria cessò di parlare della sua prossima morte, per la fiducia che gli ispiravano le parole della mamma e per la sofferenza che le procurava con così funesti presagi. L’anno scolastico 1913-1914 acquietò la sua ànima, fu una breve pausa prima delle tribolazioni che si avvicinavano. Si buttò in pieno nello studio.
Gli Scolopi erano molto pii e ben preparati. Josemaria nutrì per loro un sincero affetto. Ne ammirava la pazienza. E così come conservò il ricordo della cantilena della recita del sillabario o delle preghiere nella scuola materna delle monache, di quell’anno scolastico 1913-1914 gli rimase ben impressa l’arietta del qui, quae, quod in latino112. Tuttavia, la sua materia preferita era la matematica, in cui ottenne la lode tutti gli anni. Lo affascinavano l’esattezza, la disciplina mentale, la logica delle deduzioni, il modo di ragionare con ordine e precisione. Si trovava bene con il professore. Era il miglior alunno della classe. Ma il maestro non teneva conto della focosità di carattere del ragazzo, che esplodeva impetuoso di fronte alla minima ingiustizia. Un giorno lo chiamò alla lavagna per interrogarlo, ma la domanda che gli fece non era su cose già spiegate in classe. Il professore insisteva. L’alunno si arrabbiò e, gettando violentemente il cancellino contro la lavagna, girò su se stesso e, mentre ritornava al proprio posto, protestava ad alta voce: “ Questo non l’ha spiegato” 113.
La storia non finì qui. Perché “alcuni giorni dopo - raccontò - me ne andavo con mio padre per strada e ci venne incontro proprio quel frate. Pensai: Addio! Adesso lo racconta al babbo... Invece quegli si fermò, gli disse una cosa amabile e se ne andò senza dire altro. Gli fui così grato per il suo silenzio che tutti i giorni prego per lui” 114.
Alla fine dell’anno scolastico si trasferì a Lerida con i
4 6
suoi compagni di scuola per sostenere gli esami nella scuola statale. In quelle circostanze, lontano dalla scuola, senza vigilanza, a volte accadeva che fra i suoi compagni nascessero delle conversazioni sconvenienti. Josemarfa cercava di interromperle, o si appartava a recitare il rosario in riparazione. Più volte di notte lo colse il sonno mentre sgranava il rosario115.
Il risultato degli esami fu brillante. Il settimanale di Barbastro, “juventud” (Gioventù), si fece eco dei voti ottenuti da Josemaria116.
il- ì ' r
A uno sguardo superficiale, la rovina economica degli Escrivà appare come una nuova disgrazia nella serie ininterrotta di sventure familiari. «In pochi anni - riassume una persona che conobbe i fatti - sarebbero passati da una situazione economica agiata al fallimento dell’attività commerciale che dava loro da vivere. In quegli stessi anni erano morte una dopo l’altra le tre bambine che erano nate dopo Josemarfa»117.
In seguito, questi avrebbe scoperto la chiave soprannaturale per interpretare l’intimo significato di quegli avvenimenti che cadevano, violenti come un uragano, su tutta la famiglia:
“Ho sempre fatto soffrire molto coloro che mi stavano attorno. Non ho provocato catastrofi, ma il Signore, per colpire me che ero il chiodo - perdonami, Signore! - dava un colpo al chiodo e cento al ferro di cavallo. E vidi mio padre come la personificazione di Giobbe. Persero tre figlie, l’una dopo l’altra, in anni successivi e rimasero senza un soldo. Sentii le unghiate dei miei piccoli compagni; perché i bambini non hanno cuore o non hanno testa, o forse non hanno né testa né cuore...”118.
Carmen e suo fratello non si resero conto della crisi in cui si dibatteva l’attività del padre finché il signor José e
47
la signora Dolores non lo fecero loro capire. I due coniugi non volevano rendere partecipi i figli, sarebbe stato un colpo troppo forte, delle proprie sofferenze. Ritardarono la notizia per qualche tempo; breve, peraltro, perché fu impossibile nascondere l’imminente rovina degli affari del signor José. Tutto si svolse nel breve tempo di due autunni: quello del 1913, in cui morì Chon, e le ultime settimane del 1914, in cui avvenne il definitivo fallimento della “Juncosa y Escrivà” .
Nel corso di quell’anno sopraggiunse, in tutta la regione, una recessione economica che fu causa di cessazioni e liquidazioni di molte aziende commerciali, come accadde a Maurizio Albàs, uno dei fratelli della signora Dolores. Ma il caso del fallimento della “Juncosa y Escrivà” fu diverso115*.
Dapprima ci fu il mancato rispetto degli impegni da parte di Jerónimo Mur, ex-socio del signor José; il signor Escrivà «subì un grande rovescio economico, dovuto, a quanto ho udito dai miei genitori - spiega Martin Sambeat -, al fatto che il socio della ditta non si comportò in modo corretto». E, facendosi eco delle voci che circolavano a Barbastro, Adriana Corrales riferisce che «gli amici ritenevano che il fallimento fosse l’ultima conseguenza di un brutto tiro giocato a quella brava persona che era José Escrivà»120.
In pochi mesi le avversità finirono con lo smantellare quanto di superfluo benessere poteva esistere in casa di Josemarìa. Accadde in modo visibile e veloce. Le amiche di Carmen lo descrivono. All’inizio, dice una di esse, «dovettero distaccarsi da molte cose»121. Poco dopo la morte di Chon licenziarono la bambinaia. Poi dovettero fare a meno della cuoca e più avanti della donna di servizio. Carmen aiutava la madre nelle faccende domestiche e si adattarono alle ristrettezze senza un lamento. A paragone delle sofferenze morali e delle umiliazioni che dovettero sopportare, gli inconvenienti della povertà materiale rappresentavano ben poca cosa. I due coniugi
48
spiegarono ai figli che era necessario accettare con serenità la nuova situazione economica, permessa dal Signore. E un giorno, davanti a tutta la famiglia riunita, il signor José spiegò come si dovevano comportare di fronte alla povertà: «Dobbiamo vedere tutto con senso di responsabilità, perché non si deve fare il passo più lungo della gamba e, d’altra parte, questa povertà va vissuta con decoro, anche se è umiliante, senza che la notino gli estranei e senza farlo sapere»122.
La cosa sorprendente in tutto questo non fu la probità dimostrata dal signor José, né lo spirito di sacrificio degli Escrivà nel sopportare serenamente un rovescio di fortuna. In fin dei conti il fallimento dell’azienda era, in parte, imposto dalle circostanze e dalla crisi economica generale del Paese. Ciò che più meravigliò parenti ed estranei fu l’eroica decisione presa dal signor José, il quale, perduta la ditta, - racconta il figlio - “ avrebbe potuto mantenere una posizione brillante per quei tempi se non fosse stato un cristiano e un uomo onesto”123.
Questa cristiana onestà consistette nel fatto che perdonò, fin dal primo momento e con grande benevolenza, coloro che erano stati la causa della sua rovina. Pregò per loro ed evitò di toccare l’argomento per impedire che in famiglia nascesse del rancore contro di loro. Inoltre, quando fu decretato il fallimento con sentenza del tribunale, poiché il patrimonio sociale risultava insufficiente a pagare i creditori, chiese se esistesse l’obbligo di stretta giustizia di risarcirli con i propri beni privati. Gli risposero che non vi era moralmente obbligato124. Nonostante questo, quell’uomo onesto si attenne al proprio senso della giustizia e «liquidò tutto ciò che possedeva per pagare i creditori»125.
Quindi mise a disposizione tutti i propri beni. Vendette la casa. Soddisfece tutti i propri debiti e finì in rovina. Ma non fino all’estremo di non avere da mangiare o di non avere neppure gli occhi per piangere; sono, queste ultime, espressioni che gli amici di Josemaria
udirono in casa propria, prendendone alla lettera il significato, come indica un episodio raccontato dalla baronessa Valdeolivos: «Ricordo frasi che udivo e che mi rimanevano impresse; perciò mi meravigliai, un pomeriggio, di vedere Josemarìa che faceva merenda con pane e prosciutto. Dissi a mia madre: “Mamma, perché dicono che gli Escrivà stanno così male? Oggi Josemarìa ha fatto un’ottima merenda” . Mia madre mi spiegò che, in effetti, non stavano poi tanto male da non poter fare merenda...»126.
Nacquero subito incomprensioni e critiche da parte di alcuni parenti della signora Dolores, che considerarono una ingenuità il comportamento del marito. A che cosa serviva quel comportamento liberale e romantico di distaccarsi dai beni di cui la sua famiglia aveva bisogno?
Josemarìa, commenta Pascual Albàs, «dovette soffrire abbastanza, poiché la sua famiglia attraversò momenti difficili e dolorosi; alcuni degli zii presero le distanze, per non doverli aiutare»127. Uno di questi era Carlos Albàs, fratello della signora Dolores, che diceva in giro che la condotta di suo cognato era stata una grossa stupidaggine: «Pepe è stato uno sciocco - diceva -; avrebbe potuto conservare una buona posizione economica e invece si è ridotto in miseria»128.
Le disgrazie, tuttavia, rafforzarono l’unità della famiglia. Moglie e figli si sentivano orgogliosi della nobile decisione presa dal capofamiglia. Un modo di agire così schiettamente cristiano suscitava in Josemarìa sentimenti di ammirazione, che gli avrebbero fatto esclamare, a molti anni di distanza:
“Ho un santo orgoglio: amo mio padre con tutta la mia anima e credo che abbia un posto molto alto in Cielo, perché ha saputo sopportare tutta l’umiliazione che implica il trovarsi in mezzo a una strada in maniera così dignitosa, così meravigliosa, così cristiana”129.
50
D’altro lato, egli sentiva una forte ribellione interiore, per la durezza della prova e per le dolorose umiliazioni che ne derivavano. In seguito ne avrebbe chiesto perdono al Signore, confessando la propria resistenza ad accettare la situazione della famiglia: “mi ribellavo davanti alla situazione di allora. Mi sentivo umiliato. Chiedo perdono” 130.
Considerò e riconsiderò i disegni della Provvidenza, che rade al suolo i progetti degli uomini e che, senza tanti riguardi, invia la rovina economica e altre afflizioni ai cristiani. Solamente la fede viva ed esemplare dei genitori mantenne il figlio al di sopra delle contrarietà.
'{■ Ir
Durante il 1914, alcuni mesi prima della sentenza di fallimento, José Escrivà si preoccupò per il futuro della famiglia. La condizione economica degli Escrivà era caduta a livelli incompatibili con la precedente condizione sociale e, benché nelPintimità della casa fossero preparati a vivere nelle ristrettezze, le circostanze impedivano loro di continuare come prima. Barbastro era una cittadina in cui difficilmente si sarebbe potuto riprendere un’attività, a motivo del fallimento. Il signor José non disponeva di risparmi o di beni da offrire in garanzia. Convivere con l’incomprensione altrui o trovarsi a faccia a faccia con quanti avevano abusato della sua fiducia, portandolo alla rovina, metteva a dura prova la sua dignità di persona integerrima. Fu così che, dopo essersi consultato con la moglie, cercò di aprire nuove prospettive alla famiglia, pensando principalmente al futuro dei figli131.
Non gli fu difficile trovare lavoro in un’altra località. Aveva molti amici e conoscenti fra i commercianti del ramo tessile. Inoltre, l’onestà del signor José era di dominio pubblico e si sapeva che là perdita dei suoi beni era il risultato di un’encomiabile generosità. Per questo ben presto si accordò con il proprietario di una
51
ditta di tessuti di Logrono, Antonio Garrigosa y Bor- rell. Il posto che questi gli affidò, pur essendo di fiducia quanto alla gestione dell’azienda e ai rapporti con la clientela, era ben lontano dalla condizione di socio132. Nei primi mesi del 1915 il signor José si trasferì a lavorare a Logrono.Per la prima volta i genitori dovettero separarsi. La signora Dolores sarebbe rimasta a Barbastro con i figli fino alla fine dell’anno scolastico. La disavventura economica aveva lasciato in lei un marchio indelebile di sofferenza: «Ricordo molto bene la signora Lola negli ultimi tempi passati a Barbastro, quando, ormai senza servizio, faceva i lavori domestici - racconta Adriana Corrales -. La vedo mentre stira, seduta su una seggiolina bassa. Noi allora credevamo che stesse male di salute e che avesse mal di cuore»133.Il male di cui soffriva la signora Dolores non aveva nulla a che vedere con una malattia cardiaca.
52
NOTE CAPITOLO I
1 Parole del Fondatore riportate in: Mons. Josemarìa Escrivà de Balaguer y el Opus Dei. En el 50 aniversario de su fundación, Eunsa, Pamplona 1982, pp. 21-27. Cfr AGP, POI 1975, p. 357.2 Meditazione del 14-11-1964. Quanto all’influsso delle virtù dei genitori nella sua prima formazione, cfr Javier Echevarria, Sum. 1775 e 1798; Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, PM f. 1297; Martin Sambeat, Sum. 5678.3 Espressione che conferma quanto indicato più sopra, e cioè che in quasi tutte le descrizioni autobiografiche si trova sempre - in modo più o meno implicito - un riferimento alla sua vocazione del 2 ottobre 1928. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 3; Javier Echevarria, Sum. 1760.4 Cfr Appendice documentale, documento VI.Nel testo originale ci si riferisce ai genitori di San Josemarìa e ad altri personaggi, premettendo al nome, secondo l’uso spagnolo il “ Don” o “Dona” (Don José, Dona Dolores, ecc.); nella traduzione italiana si è preferito normalmente ometterli o sostituirli (il signor José, ecc.). Sono stati mantenuti soltanto nei documenti dell’Appendice (NdT).5 Cfr Appendice documentale, documento VII.6 Cfr Javier Echevarrfa, Sum. 1763; Joaquin Alonso, PR, p. 1649. Sulla gratitudine che egli nutrì verso i padrini di battesimo, cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 19; Angel Camo, AGP, RHF, T-02846, 1. - Per l’inciso relativo al nome del sacerdote, va tenuto presente che in spagnolo l’aggettivo “malo” significa “cattivo” (NdT).7 Cfr Liber de gestis del Capitolo, anno 1635, fol. 38v.8 C 2828, 21-IV-59. I resti del fonte battesimale furono portati a Roma nel 1959. Il Fondatore, dopo il necessario restauro, lo fece mettere all’ingresso dell’oratorio di Santa Maria della Pace - oggi chiesa prelatizia del
53
l’Opus Dei - come pila per l’acqua benedetta, con accanto una lapide commemorativa che recita:HVNC SACRVM BAPTISMATIS FONTEM SANCTAE ECCLESIAE CATHEDRALIS BARBASTRENSIS + IN QVO CONDITOR NOSTER EIVSQUE MATER ET SOROR AQVAM REGENERATIONIS ACCE- PERVNT + HISPANICO BELLO FLAGRANTE ANNO MCMXXXVI IN ODIVM RELIGIONIS DIRVPTVM + OPERI DEI AB EPISCOPO ET CAPITOLO ANNO MCMLVII DONO DATVM + CONSILIVM ATQVE ASSESORATVS CENTRALIS AD PRISTINAM FORMAM ANNO MCMLIX RESTITVERE FECERVNT.9 Cfr Appendice documentale, documento VI.10 L’errore di trascrizione del cognome fu così frequente da allarmare il signor José. In effetti, egli stesso nel proprio atto di battesimo a Fonz appare come “figlio legittimo di José Escribà y Zaydin” (cfr Appendice documentale, documento II). Successivamente, l’errore verrà ripetuto e moltiplicato negli atti di battesimo del figlio, come si vedrà in seguito, e di tre figlie. Della maggiore si dice che “Maria del Carmen Constancia Florencia Escribà” era figlia di “Don José Escribà” ; che il padre di “Maria Asun- ción Escribà” era “ Don José Escribà” e il padrino, “ Don Teodoro Escribà” ; di “Maria Dolores Escribà” , che il padre e il nonno si chiamavano “José Escribà” ; e nell’atto di morte dell’ultima riappare “Escribà” . Fanno eccezione gli atti di battesimo e di morte di Maria del Rosario Escrivà, dove non vi sono errori. (Cfr Archivio della parrocchia dell’Às- sunzione di Barbastro, Libro dei Battesimi, XLIII, fol. 22; XLIV, fol. 35, 64v; Libro dei Defunti, XLV, fol. 14v.Quanto a Josemarfa, ci si imbatte nella dizione “Escribà” in diverse occasioni: nel documento del 20-11-1925 di dispensa pontificia per difetto di età canonica ai fini dell’ordinazione sacerdotale, che inizia: “Beatissime Pater, Diac. Joseph M. Escribà... (Sacra Congregano de Sacramentis, Prot. n. 871/25; AGP, RHF, D-03263); nella lettera dell5Arcivescovo di Saragozza ad Antonio Lasierra, presidente della Provincia, del 19-XII-25 (AGP. RHF, D-05188); nel salvacondotto del Comando Militare di Fuenterrabfa, 12-XII-37 (AGP, RHF, D-15073); sulla busta di una lettera di Julio M. Cortés Zuazo, 8-X-52 (AGP, RHF, D-15282); ecc.11 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 57.12 Appunti, n. 1273. Nel 1939, quando egli rilesse quanto aveva scritto nel 1935 circa la difesa della “v” di “Escrivà” , rammentò gli anni dell’infanzia, quando suo padre, con giusto orgoglio di gentiluomo, per dimostrare al figlio che la difesa di una lettera non era un capriccio o una mania, in quanto il nome veniva forgiato dalla storia di molte generazioni, aveva parlato a Josemarfa della famiglia, della “nostra ascendenza....” . Ma i puntini sospensivi dell’appunto del 1939 nascondono un più ampio significato. Come un corso d’acqua che la terra inghiotte e che riappare più lontano: se infatti si ritorna indietro, nei suoi quaderni degli Appunti intimi, nella prima settimana del giugno 1933 (che reca un’annotazione ulteriore scritta nel dicembre 1934), si legge: “Allontana da te la sfiducia
54
che nasce dalla consapevolezza della tua miseria. È vero: per il tuo prestigio economico sei uno zero..., per il tuo prestigio sociale” (Nota successiva del Padre: “I miei genitori avevano raccontato cose che facevano intendere che non fosse così: ma così era per quanto si riferisce a me - Die. 1934” ), “un altro zero; e un altro per le tue virtù, e un altro per il tuo talento..., ma a sinistra di queste negazioni c’è Cristo... e che cifra incommensurabile ne risulta!” (Appunti, n. 1017).Fra i suoi antenati ce ne furono di famosi, come S. Giuseppe Calasanzio e Michele Serveto. Ad essi fece riferimento in pubblico Mons. Escrivà in qualche occasione:“Un mio antenato, Michele Serveto, fu bruciato dall’inquisizione protestante di Calvino, a Ginevra. Anche se un po’ alla lontana, mio fratello eio siamo gli unici parenti della famiglia” (efr AGP, P04 1972, p. 655; sul processo di Serveto: Registres de la Compagnie des Pasteurs de Genève au temps de Calvin (tomo II, R. M. Kingdon, 1553-1564; Accusation et procès de Michel Servet, 1553, E. Droz, Genève 1962).E in altra occasione:“ C’è un santo mio lontano parente che io amo molto. Non fraintendere!Io non sono affatto un santo... Un altro mio antenato è stato bruciato dal- l’Inquisizione protestante. Comunque non sono neppure un eretico... Ciascuno è quello che è, indipendentemente dai suoi antenati. Quel santo, dunque, Giuseppe Calasanzio, diceva: “Se vuoi essere santo, sii umile; se vuoi essere più santo, sii più umile; se vuoi essere molto santo, sii molto umile” ” (efr AGP, P04 1972, p. 353; sulla storia e sullo spirito di S. Giuseppe Calasanzio, si veda: Epistolario di S. Giuseppe Calasanzio, edito e commentato da Leodegario Picanyol, Roma 1950-51).13 C 3022, 26-XI-60.14 Fra i documenti della cancelleria di Giacomo I il Conquistatore, negli Archivi della Corona di Aragona, in quelli di Valencia e in quelli concernenti la ripartizione del regno, appare un Guillem Escrivà, notaio di Giacomo I (1227-1251): efr M. Batllori, El cronista Bernat Desclot i la fami- lia Escrivà, in Storiografia e Storia. Studi in onore di Eugenio Dupré The- seider, Università degli Studi di Roma, Bulzoni Editore, Roma 1974, pp. 123-150; A. Huici, Colección diplomàtica de ]aime I, el Conquistador, I, 1, Valencia 1916: L Miret i Sans, Itinerari de laume I ((el Conaueridor”, Barcellona 1918.15 II Ministero della Giustizia, attraverso la Direzione Generale dei Registri e Notariati, accordò che fosse aggiunta la dicitura “de Balaguer” a formare il nome composto “Escrivà de Balaguer” , autorizzandone l’uso da parte di Josemaria e di Carmen il 18-X-1940, e del fratello Santiago il 12-XI-1940. Il 18 ottobre 1940 il Direttore Generale comunicò al Giudice di prima istanza, n. 9 di Madrid, l’ordinanza del Ministro della Giustizia, su proposta della Direzione Generale dei Registri e Notariati.16 Sul ramo degli Escrivà, efr Famiglia Escrivà de Balaguer-Albàs (AGP,
‘RHF, D-12131) e Appendice documentale, documento I.17 Quando era in vena di confidenze, il padre raccontava a Josemaria fatti
55
e avventure della propria gioventù: una volta gli avevano regalato una bicicletta con le gomme piene, con cui circolava a gran velocità per il paese, suscitando la meraviglia dei paesani, finché, in una clamorosa caduta, si ruppe un braccio; allora suo padre, il nonno di Josemarìa, dopo aver regalato la bicicletta a qualcuno, lo ammonì severamente: “Non voglio vederti mai più su quella macchina infernale” (cfr AGP, P04 1972, p. 809).18 A Fonz risiedettero per molti anni la madre e due dei fratelli del signor José: don Teodoro e Josefa. Cfr Maria del Carmen de Otal Marti, baronessa di Valdeolivos, Sum. 5986; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T- 08203, p. 1.19 Martin Sambeat, AGP, RHF, T-03242, p. 2.Il nome di José Escrivà venne incluso all’epoca nei “Libros de matncula” della parrocchia dell’Assunzione, nei quali si raccoglievano i dati concernenti il precetto pasquale dei fedeli, in osservanza delle norme dettate dal Concilio di Trento. Alcuni volumi che raccoglievano i fogli annuali sono andati perduti. Per quanto ha attinenza con la nostra storia, nel volume del 1882 appare per la prima volta il nome di Dolores (la madre di Josemarìa), allora di quattro anni, domiciliata in casa dei suoi genitori, in via Romero 20. Nei volumi dal 1892 al 1893 è registrato il suo precetto pasquale a 15 e 16 anni, e per la prima volta quello del signor José, domiciliato in via Rio Ancho, 8. È molto probabile che il signor José risiedesse a Barbastro ancor prima del 1892; ma i volumi dal 1882 al 1892 sono andati perduti.20 Cfr AGP, RHF, D-12131 e Famiglia Escrivà de Balaguer-Albàs, Appendice documentale, documento I.21 Martin Sambeat, AGP, RHF, T-03242, p. 2; Sixta Cermeno, AGP, RHF, T-02856, p. 3; Angel Camo, AGP, RHF, T-02846, p. 1.22 Meditazione del 6-1-1970.23 Cfr Appendice documentale, documenti III e II.24 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7320. Teodoro Escrivà Corzàn fu sacerdote beneficiato di Casa Moner, una cappellania fondata a Fonz nel 1889 da Joaquin Moner y Siscar. Era obbligo del cappellano celebrare tutti i giorni la Santa Messa nell’oratorio semipubblico della casa dei Moner, in via Cerbuna, conosciuta come “ Casa Bardaxi” . Nel 1901 fu costituita, nell’antica casa dei Moner, una nuova cappellania.Vicente Albàs, ordinato nel 1892, aveva studiato nei seminari di Teruel e di Barbastro. Fu economo di Ramastué y Coscojuela del Sobrarbe e parroco di Olvena (1900-1918); poi beneficiato della Cattedrale di Burgos (1918-1925). Diventò cieco e visse a Saragozza fino alla morte, nel 1950. Carlos Albàs fu ordinato nel 1894, fu coadiutore di Laspuna e nominato familiare dal Cardinale Cascajares nel 1897. Fu poi canonico arcidiacono del Capitolo della Cattedrale di Saragozza. Cfr Carmen Lamartm, AGP, RHF, T-04813, p. 1. Morì l’ l-II-1950.Maria Cruz era Carmelitana calzata del convento dell’incarnazione di Huesca; il nome da religiosa era Maria de Jesus. Morì il 27-11-1938. Pascuala, Figlia della Carità, morì a Bilbao il 7-III-1910.
56
Cugino della signora Dolores era Mariano Albàs Blanc, padrino di battesimo di Josemarìa. Nato nel 1866, si sposò nel 1896 con Carmen Mora; rimasto vedovo nel 1899, entrò in seminario. Fu ordinato sacerdote nel 1902 e fu beneficiato a Barbastro e cappellano delle Serve di Maria. Nel 1915 viveva in via Argensola al n. 26, dove abitavano anche gli Escrivà prima di lasciare Barbastro. Fu amministratore della diocesi e morì assassinato in odio alla religione durante la guerra civile.Mons. Escrivà fu anche imparentato da parte di madre con Mons. Cruz Laplana Laguna, che fu vescovo di Cuenca dal 1921 al 1936, anno in cui morì assassinato. Cfr Appunti, nn. 598, 1146 e 1739; Lettera 15-X-1948, n. 200.25 Don Carlos è il già menzionato fratello della signora Dolores. Don Alfredo Sevil era zio della stessa; e don José Blanc Barón era fratello della nonna Florencia ed era stato vescovo di Avila (cfr Carmen Lamartfn, AGP, RHF, T-04813, p. 1).26 Appunti, n. 1476. Conferma l’affermazione il fatto che il primo episodio successivo al rientro in Spagna dopo la traversata dei Pirenei nel dicembre 1937 si riferisca alle amiche della signora Dolores.27 Cfr Appendice documentale, documento IV, atto di matrimonio. Per la cappella dove furono celebrate le nozze, cfr Appunti, n. 229, nota 248. La famiglia degli Albàs apparteneva alla parrocchia dell’Assunzione, ubicata nella cattedrale. Dalla consultazione dei libri parrocchiali si ricavano i seguenti dati: nel 1877, quando fu battezzata la signora Dolores, era parroco don Teodoro Valdovinos. Negli anni 1898 e 1899, in cui contrasse matrimonio ed ebbe la prima figlia, non c’era parroco, ma un sacerdote economo, don Màximo Lafita. Nel 1902, quando fu battezzato Josemarfa, il Reggente era don Angel Malo Arias.28 Cfr F. Fita, Cortes y Usajes de Barcelona en 1064. Textos inéditos, BAH, tomo XVII (1890), pp. 385-428; R. Menéndez Pidal, La Espaha del Cid, voi. I, Espasa-Calpe, Madrid 1969, pp. 147-151; Kitab Ar- Rawd Al- Mi’tar, Valencia 1963, pp. 86-89. Sulla storia di Barbastro: E. Bernad Royo, Aragón de 1902 a 1923, in AA. W , Aragón en su Historia, Saragozza 1980; E. Fernàndez Clemente, Aragón contemporàneo (1833- 1936), Madrid 1975; R. del Arco, Historia de Barbastro (inedita; redatta nel 1950); S. Lopez Novoa, Historia de Barbastro, 2 voli., Barcellona 1861 (riedita a Barbastro 1981); S. Lalueza, Barbastro, in AA. W , Dic- cionario de Historia Eclesiàstica de Espana, voi I, Madrid 1972, pp. 183- 187; E. Gros Bitria, Los Umites diocesanos en el Aragón orientai, Saragozza; R. Marti Ibarz, Vision retrospectiva de Barbastro en las primeras déca- das de este siglo, in Realizaciones, 26 (1981), p. 10.29 Le siège de Barbastre fu edito la prima volta da J. L. Perrier a Parigi nel 1926. Un riassunto della chanson in A. Becker, Der Siège de Barbastre, in Beitrdge zur Romaniscben Philologie, Halle a. S., Max Niemeyer, 1899, pp. 252-266.
57
30 Cfr Jerónimo Zurita, Anales de la Corona de Aragón, libro I, Rey don Sancho Ramhez.31 Cfr S. Lopez Novoa, op. cit., I, p. 233.32 Cfr S. Lalueza, Barbastro, op. cit., pp. 183-187; ed E. Coros Bitria, op. cit. Il primo Vescovo Amministratore Apostolico della diocesi fu Mons. Juan Antonio Ruano y Martin (1898-1905).33 Cfr Appendice documentale, documento V.34 Cfr Maria del Carmen de Otal Marti, Sum. 5986.35 Così lo ricordano i suoi contemporanei; Esperanza Corrales: «Il signor José era di Fonz, un paese vicino, un po’ più a nord, sulla sponda sinistra del Cinca, a pochi chilometri da Barbastro. Apparteneva a una famiglia di proprietari terrieri che proveniva da Balaguer (Lerida). Era commerciante e si era stabilito qui da quando, con altri soci, aveva avviato un commercio di tessuti, “Eredi di Cirilo Latorre” , che si sarebbe chiamato poi “Juncosa y Escrivà” . Si trovava in via Generale Ricardos, dove passa la strada che va da Tarragona a San Sebastiàn. Vi facevano anche la lavorazione del cioccolato. Era un negozio con attività differenziate, come era abituale in una città come Barbastro. Quando il signor José si sposò con la signora Lola - così chiamavamo Dolores Albàs - era molto conosciuto e aveva rapporti commerciali in tutta la zona» (AGP, RHF, T-08203, p. 1).Adriana Corrales, la sorella di Esperanza, dice che «il signor José parlava poco, ma colpiva il suo sereno e accogliente sorriso (...). Aveva anche una grande signorilità. Era un uomo dal portamento elegante (...). Aveva una solida vita di pietà, che si manifestava nella pratica delle devozioni tradizionali: il Rosario in famiglia, la Messa e la Comunione frequente, ecc.» (AGP, RHF, T-08202, p. 4). Cfr pure Martin Sambeat, AGP, RHF, T- 03242, p. 1; e Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p .l.36 Cfr Appendice documentale, documento VI e VII; Alvaro del Portillo, Sum. 7. Quando, da piccolo, gli chiedevano come si chiamasse, rispondeva: “José” , che era anche il nome di suo padre. Ma molti anni dopo commentò: “Non mi spiego come potevo essere tanto sciocco! Perché non si può separare Maria da Giuseppe, né viceversa” (cfr anche AGP, P03 1974, p. 1125).Seguendo la traccia del dialogo interiore del Fondatore con se stesso, si può rilevare che il periodo in cui effettuò il cambiamento del nome è indicato da un’annotazione della fine di giugno del 1936: “Josemaria, in Croce!” (cfr Appunti, nn. 1282 e 1371). E nella sua corrispondenza, a partire dalla lettera C 136, del 26-XI-1935, firmerà “Josemaria” .37 Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08292, p. 4; Martin Sambeat, RHF, AGP, T-03242, p. 2.38 Nell’Alto Medioevo era consuetudine amministrare la cresima subito dopo il battesimo; ma, a partire dal Concilio di Colonia (1280), nella Chiesa latina si cominciò a preferire l’età di ragione. Il Catechismo del Concilio di Trento, pur ammettendo il conferimento del sacramento della confermazione ai neonati già battezzati, raccomanda di non farlo finché
58
non abbiano raggiunto l’età della ragione. In Spagna e in Portogallo, nonché nelle nazioni evangelizzate da questi Paesi, continuò l’antica consuetudine che i Vescovi, quando facevano le visite pastorali, amministrassero la cresima a bambini di qualsiasi età; consuetudine che il Codice di Diritto Canonico del 1917 non revocò né condannò. Papa Leone XIII scriveva il 22-VI-l897 al Vescovo di Marsiglia raccomandando caldamente che venisse amministrata la cresima ai bambini prima che facessero la prima Comunione.39 L’atto originale di cresima si trova nell’archivio della parrocchia dell’As- sunzione. L’estratto dell’atto, con la correzione del cognome in “Escrivà de Balaguer” , dice:«Nei fogli 1 e 2 del libro XLIII dei Sacramenti (Cresime) consta che D. Josemarìa Escrivà de Balaguer y Albàs ha ricevuto la Confermazione, insieme ad altri bambini e bambine, nella santa chiesa cattedrale di questa cittàil ventitré aprile millenovecentodue. Il santo Sacramento della Confermazione lo amministrò l’ecc.mo e rev.mo Mons. Antonio Ruano y Martin, Vescovo di Barbastro; padrini Don Ignacio Camps e Dona Juliana Erruz».40 Cfr Maria Dolores Fisac, AGP, RHF, T-04956, p. 28.41 «Fra i miei ricordi di Josemarìa - riferisce Pascual Albàs - spicca, negli anni dell’infanzia, avendolo sentito raccontare diverse volte da mio padre,il pellegrinaggio che i genitori di Josemarìa fecero alla Madonna di Torre- ciudad, portandolo in braccio - aveva due anni - per ringraziarla della sua guarigione, avvenuta per intercessione di Maria, da una grave malattia a motivo della quale i medici avevano dato per certa la sua morte imminente» (Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 1). Ed Esperanza Corrales racconta: «Gli Escrivà, e con loro molti che li frequentavano a Barbastro, ebbero sempre la convinzione che all’intercessione della Madonna fosse dovuta la guarigione di Josemarìa dalla grave malattia che aveva contratto a due anni. I medici ne avevano già annunciato la morte inevitabile e imminente. Restava solo la preghiera della madre, unita alla promessa di fare un pellegrinaggio a Torreciudad con il bambino. E fu proprio ciò che accadde. La malattia sparì inaspettatamente e il piccolo Josemarìa si salvò nonostante le pessime previsioni dei medici. Quando si fu ristabilito, i genitori, con il bambino in braccio, adempirono la promessa di andare pellegrini a ringraziare la Madonna di Torreciudad» (AGP, RHF, T-08203, p. 5). Cfr pure Martin Sambeat, Sum. 5678 e Santiago Escrivà de Balaguer, Sum. 7320.42 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 13; Javier Echevarrìa, Sum. 1767-1768; Francisco Botella, Sum. 5608; José Luis Muzquiz, Sum. 5792.43 Mons. Alvaro del Portillo aggiunge: «Ho udito questa frase direttamente dalla madre del nostro Fondatore» (PR, p. 32). Altre varianti: «Figlio mio, tu eri più morto che vivo; se Dio ti ha tenuto sulla terra sarà per qualcosa di grande...» (AGP, POI 1977, p. 121). Cfr anche Javier Echevarrìa, Sum. 1767.44 Appunti, n. 122. Nel 1934, mentre faceva gli esercizi spirituali, scrisse
59
un lungo elenco di favori ricevuti, il primo dei quali era la propria guarigione: “Meditazione. Ciò che Dio nostro Signore ha dato a me in particolare: 1) per mezzo di sua Madre - mia Madre - quand’ero bambino, mi ha restituito la salute” (Ibidem, n. 1756). Cfr anche Silvestre Sancho, Sum. 5393.45 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 56. Circa la sua completa guarigione: Martin Sambeat, Sum. 5678; Santiago Escrivà de Balaguer, Sum. 7320; Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 1.46 Cfr «Elenco delle preghiere che il Servo di Dio apprese dai suoi genitori; udite direttamente dal Servo di Dio e fedelmente trascritte», Mons. Joa- quin Alonso, PR, p. 1651, doc. 41. Un altro esempio: “Sacro Cuore di Gesù, in Te confido. Sacro Cuore di Maria, sii la salvezza mia” . Cfr anche: Alvaro del Portillo, Sum. 22; Javier Echevarria, Sum. 1796; Javier de Ayala, Sum. 7623.47 Eccone altre di questo genere: “Son le dodici, / Gesù non viene. / C’è un fortunato / che lo trattiene?” . Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 43; Javier Echevarria, Sum. 1777; Jesus Alvarez Gazapo, PR, p. 1272.48 Cfr «Elenco delle preghiere...», già citato.49 Cfr Colloqui con Mons. Escrivà, Milano 19875, n. 103; AGP, P04 1972, p. 748; AGP, P04 1974, p. 114.50 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 45; Encarnación Ortega, PM, f.27v; Maria del Carmen de Otal Marti, Sum. 5995.51 Cfr AGP, POI XII-1957, p. 47; Alvaro del Portillo, Sum. 24.52 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 10.53 Per la macchia sulla tappezzeria: Javier Echevarria, Sum. 1794.54 Su questi episodi: cfr Lettera 29-XII-1947/14-II-1966, n. 8. Cfr anche Alvaro del Portillo, PR, p. 55.55 Le citazioni dei tre capoversi sono prese da: Lettera 24-111-1931, n. 39; Meditazione del 14-11-1964; Lettera 9-1-1932, n. 39. Cfr pure: Lettera 6- V-1945, n. 44; Alvaro del Portillo, Sum. 10; Javier Echevarria, Sum. 1793; Francisco Botella, Sum. 5608.56 Cfr AGP, P04 1974, p. 433.57 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 55. José Escrivà aveva una così alta stima delle persone di servizio che diceva al figlio: «Josemaria, alle persone che lavorano al servizio della casa si deve rispetto come a tutti e come se fossero parte della famiglia, perché lo sono» (Javier Echevarria, Sum. 1789. Cfr anche Lettera 29-VTI-1965, n. 26.58 Su questi episodi, cfr Alvaro del Portillo, Sum. 27, 28 e 29.59 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 10.60 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 27; Javier Echevarria, Sum. 1794.61 Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 2; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 2.
60
62 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1771.63 Fin dalla più tenera età, il piccolo a Natale teneva molto a recarsi alla Messa “del gallo” , quella di mezzanotte; così pure alle tre Messe del giorno dei defunti, colpito dalla solennità della liturgia. Cfr Javier Echevarria, Sum. 1770 e 1776.64 Appunti, nn. 228 e 229. Sulle immagini del Santo Cristo dei Miracoli e sulla cappella dell’Assunzione, cfr S. Lopez Novoa, op. cit., I, p. 255-260. Sulla devozione del Fondatore a questo Crocifisso: Alvaro del Portillo, Sum. 23. L’immagine, come pure quella della Madonna, fu distrutta nel 1936, all’inizio della guerra civile.65 Cfr Meditazione del 14-11-1964; Francisco Botella, Sum. 5609. Santiago Escrivà de Balaguer traccia in poche parole il percorso della formazione di suo fratello da bambino: «Le persone che hanno influito sulla formazione morale e religiosa del Servo di Dio furono, in primo luogo, i nostri genitori, specialmente nostra madre. La sua formazione intellettuale la ricevette dapprima in una scuola materna delle Figlie della Carità e, quando fu un po’ più grande, nella scuola dei Padri Scolopi di Barbastro» (cfr Santiago Escrivà de Balaguer, PM, f. 1297). La scuola delle Figlie della Carità fu la prima scuola femminile che ebbe in Spagna la Congregazione fondata nel 1633 da S. Vincenzo de’ Paoli e da Santa Luisa di Marillac.Alla fine del XVIII secolo, un canonico di Barbastro, don Antonio Jimé- nez, lasciò tutti i suoi beni alle Figlie della Carità per la fondazione di una scuola per bambine; nel 1782 i superiori in Spagna della Congregazione inviarono a Parigi sei giovani donne affinché si formassero nello spirito e nelle attività della Congregazione, per farle poi tornare in Spagna. Erano quattro catalane e due aragonesi, una delle quali era di Barbastro e si chiamava Maria Blanc, casualmente il secondo cognome della signora Dolores, madre di mons. Escrivà (cfr S. Lopez Novoa, op. cit., voi. I, p. 321). Nel 1790 tutte e sei ritornarono in Spagna e nel 1792 fu fondata la scuola di Barbastro (cfr ibidem, pp. 320-324).La Legge Sull’Educazione del 1857, nota come Legge Moyano, regolamentò l’educazione in Spagna per più di un secolo, con numerose modifiche apportate con Decreti, regolamenti, ecc.66 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 33. L’alunno serbò gratitudine alle Figlie della Carità per i loro insegnamenti e quando, diversi anni dopo, seppe che una delle suore, amica e compagna della signora Dolores, era stata assassinata durante la guerra civile, non potè trattenere le lacrime.67 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 19; Javier Echevarria, Sum. 1774.68 Cfr il Bollettino Ecclesiastico Ufficiale del Vescovado di Barbastro, anno XL, n. 18, del 24-XI-1908, che riunisce le circolari dell’anno precedente, i bandi di concorso, i risultati e i premi.69 Cfr ibidem.70 Le Scuole Pie, ufficialmente autorizzate dalla Santa Sede nel 1617, si diffusero, insieme alla Congregazione religiosa, in Europa e in America. Già nel 1677 la città di Barbastro manifestò al Superiore Generale degli
61
Scolopi la richiesta di aprirvi una scuola. La fondazione fu approvata dal Papa e dal Re Carlo II nel 1679, ma, a causa di certe difficoltà e ingiustizie, i suoi professori si ritirarono. Successivamente alcuni parenti di S. Giuseppe di Calasanzio donarono i propri beni e nel 1721 fu aperta una scuola pubblica di insegnamento delle lettere e della grammatica latina (cfr S. Lopez Novoa, op. cit., I, pp. 307-314). La scuola, che si trovava nel quartiere di Entremuro, fu ampliata con una magnifica chiesa.71 Sulla visita pastorale, cfr “ Osservazioni sulla S. Visita Pastorale” , nel Bollettino Ecclesiastico Ufficiale del Vescovado di Barbastro, anno 1908, p. 180. Sulla preparazione fatta dalla madre, cfr Florencio Sànchez Bella, Sum. 7539; Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 4. Cfr anche AGP, RHF, D-04311-7.Padre Enrique Labrador de Santa Lucia era nato a Codonera (Teruel) nel 1855. Stette a Barbastro dall’ottobre 1902 all’agosto 1909. Avrà avuto 52 anni quando il piccolo Josemarfa fece la sua prima confessione. Morì pochi anni dopo, nel 1912, a Daroca.72 Javier Echevarrfa, Sum. 1780; Alvaro del Portillo, Sum. 40.In un incontro durante il viaggio di catechesi nella penisola iberica, nel 1972, raccontò:“Ci sono molti che non amano e che disprezzano il Sacramento e dicono persino, per esempio, che confessare i bambini è una perdita di tempo e che i bambini si spaventano.Mia madre mi portò dal suo confessore quando avevo sei o sette anni e ne fui felice. Questo ricordo mi ha dato sempre molta gioia... Sapete che cosa mi diede per penitenza? Ve lo dico, così vi divertirete. Sento ancora le risate di mio padre, che era molto pio, ma non bigotto. Non venne in mente al buon prete - era un fraticello molto simpatico - altro che questo: “dirai alla mamma che ti dia un uovo fritto” . Quando lo dissi a mia madre, commentò: “ figlio mio, il padre avrebbe potuto dirti di mangiarti un dolce, ma un uovo fritto” ...Si vede che gli piacevano molto le uova fritte! Non è incantevole? Che al cuore del bambino - che ancora non sa nulla della vita - vada il confessore della madre a dirgli che gli diano un uovo fritto... È magnifico! Quell’uomo valeva un Perù!” (AGP, P04 1972, p. 312).73 Gli atti di battesimo si trovano negli archivi della parrocchia dell’Assunzione di Barbastro, Libro dei Battesimi XLIV, fol. 35, 64 e 115v, rispettivamente.74 «La mia sorella più grande, Esperanza, - racconta Adriana Corrales - diventò intima amica di Carmen, la sorella maggiore di Josemarfa, perché avevano praticamente la stessa età (...). Molte ore della mia infanzia le ho passate nella casa degli Escrivà, in via Argensola, con i balconi che davano sulla piazza (...). Alcune volte restavamo in una stanza che avevano destinata ai bambini e che chiamavamo “la gabbia dei leoni” , perché alla signora Dolores faceva piacere che giocassimo a casa sua» (Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08202, p. 1).75 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 28; Lettera 29-VII-1965, n. 49.
62
76 Javier Echevarria, PR, p. 1921; Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4464.77 «Alla signora Dolores - aggiunge - faceva piacere collaborare ai nostri giochi. Alcune volte ci lasciava delle cose vecchie - ce ne sono sempre in una casa - perché ci potessimo travestire» (cfr Esperanza Corrales, AGP, RHF, T -08203, p. 3).78 Maria del Carmen Otal Marti, AGP, RHF, T-05080, p. 1.79 Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08202, p. 8.80 Nella scuola elementare seguì i corsi delle seguenti materie: Dottrina cristiana e nozioni di Storia Sacra; Lingua castigliana, Lettura, scrittura e grammatica; Aritmetica; Geografia e Storia; Elementi di Diritto; Nozioni di Geometria; Nozioni di Scienze fisiche, chimiche e naturali; Nozioni di igiene e fisiologia umana; Disegno, Canto; Lavori manuali e Educazione Fisica.Il ciclone rivoluzionario del 1936 si portò via la maggior parte dei documenti dell’archivio della scuola dei Padri Scolopi. Restano tuttavia i Registri delle presenze e i Quaderni di Padre Manuel.I Registri delle presenze contengono i fogli per il controllo delle presenze degli alunni. Non sono in buono stato di conservazione. Vi compaiono i dati inerenti al nostro alunno nel Registro della Escuela completa de ninos0 Escuela de Escribir (1904-1912) e nel Registro della Escuela de Amplia- ción o Escuela Nueva.1 Quaderni di Padre Manuel erano i quaderni in cui Padre Manuel Labor- da segnava l’elenco degli alunni della classe. Si conservano i quaderni, cuciti fra loro senza un ordine preciso, dal 1872 al 1915, anno in cui smise di insegnare.Ci sono anche alcuni dati sul piccolo Josemarìa nel Bollettino Ufficiale del Vescovado, anno LV, n. 18, 18-24/XI/1908, p. 284, e nel settimanale “Ju- ventud” (Gioventù) del 13-111-1914 e del 12-VI-1914.Da questi documenti risulta che durante l’anno scolastico 1908-1909 egli era alunno della Escuela de parvulos e durante l’anno 1910-11 della Escuela elemental completa. Benché non ci siano elementi, si può dedurre che nell’anno 1909-10 abbia frequentato la Escuela elemental incompleta. Nell’anno 1911-12 appare iscritto alla Escuela de ampliación e l’i l giugno 1912 superò gli esami dell’insegnamento primario, entrando nel ba- chillerato (equivalente agli studi superiori in Italia) all’istituto di Huesca. Risulta pure che durante gli anni scolastici 1912-13 e 1913-14 abbia frequentato il primo e secondo anno di bachillerato; il settimanale “]uven- tud” lo citò come uno degli alunni migliori dei Padri Scolopi. Nella scuola non ci sono dati sulla sua frequenza durante l’anno 1914-15, in cui fece il terzo di bachillerato {eh il certificato redatto a Barbastro il 14-11-1984 da P. Vicente Moreno degli Scolopi, Rettore della scuola: AGP, RHF, D- 04311-8).81 Cfr J. Lecea Pellicer, Las Escuelas Pias de Aragón en el siglo XVIII, Madrid 1972, pp. 48 e ss. e 264 e ss.82 Alvaro del Portillo, Monsenor Escrivà de Balaguer; instrumento de Dios
63
(pubblicato nel libro En Memoria de Mons. Josemaria Escrivà de Balaguer, EUNSA, Pamplona 1976), p. 34. E in Josemaria Escrivà, Cammino, Milano 199734, n. 882, si legge un’altra immagine scolastica, autobiografica, riferita al divino: “Abbi compassione del tuo bambino: guarda che voglio scrivere ogni giorno una grande pagina nel libro della mia vita... Ma sono così rozzo! Se il Maestro non mi guida la mano, invece di aste dritte, dalla mia penna escono certe cose storte, certi scarabocchi che non si possono mostrare a nessuno.Gesù, d’ora in poi scriveremo sempre in due” .83 Cfr Encarnación Ortega, AGP, RHF, T-05074, p. 90. «Josemaria aveva molti amici - riferisce Esperanza Corrales, amica di Carmen - figli di famiglie conoscenti dei suoi genitori e compagni di scuola. A volte si riunivano a casa degli Esteban - il padre era notaio - proprietari dell’immobile in cui si trovava il negozio “Juncosa y Escrivà” . Abitavano al primo piano della stessa casa di via Generale Ricardos. Lì si riunivano, con Josemaria, i fratelli Esteban, i Cagigós, i Sambeat, i Lacau, i Fantoba» (Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 10).84 Martin Sambeat, Sum. 5681. E Martin Sambeat aggiunge che «era buon amico di tutti e giocava come tutti ai giochi abituali di quei tempi, quali la trottola con la frusta, le bocce, la pelota, il cerchio e i tori». Pascual Albàs, cugino di Josemaria, ricorda che «riportava dei voti splendidi; era molto intelligente. In casa ci portavano sempre ad esempio i bei voti che otteneva Josemaria. Era di ottimo umore, molto allegro e costante nell’adempiere i suoi doveri, devoto; già si notava la sua spiccata personalità» (AGP, RHF, T-02848, p. 1).85 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 88; Javier Echevarria, Sum. 1774 e 1775.86 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 62; Javier Echevarria, Sum. 1775.87 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 18; Javier Echevarria, Sum. 1774.88 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1793 .89 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 31.90 Nell’anno 1898, quando si sposavano i genitori di Josemaria, si chiudeva una tappa della storia di Spagna. Il 10 dicembre, con il Trattato di Parigi, svaniva l’impero coloniale spagnolo. La perdita di Cuba, Portorico e delle Filippine ebbe disastrosi effetti sul morale di tutta la nazione; ma produsse, allo stesso tempo, una resurrezione critica degli spiriti e delle idee di alcuni intellettuali, noti in seguito come la generazione del e98. Analogamente al resto d’Europa, venne in luce anche il problema operaio, rimasto latente nei vent’anni precedenti nei quali, con la restaurazione monarchica del 1874 e la flessibile Costituzione del 1876, si era ottenuto un lungo periodo di pace e di ordine, in cui conservatori e liberali si alternavano al potere. Tuttavia, le tensioni esistenti nella vita spagnola erano di natura più profonda: riforme sociali, esigenze economiche e rivendicazioni operaie.91 “La Cruz del Sobrarbe” , fondato intorno al 1889, era di ispirazione carlista; “La Època” era conservatore; “El Pats” , della corrente liberale di
64
Sagasta; “La Defensa” , fondato nel 1887 come indipendente, passò poi alla corrente liberale di Castelar; “El Eco del Vero” era repubblicano; “El Cruzado Aragonés” , fondato nel 1903, era cattolico; infine, “Juventud” , fondato nel 1914, era della diocesi. Su Barbastro alla fine del XIX secolo, vedi: P. Riera y Sans, Diccionario Geogràfico3 Estadtstico, Histórico... de Espana, Barcellona 1882, voi. II, pp. 48 e ss.92 Un tentativo di questo tipo fu l’impresa apostolica sociale del Cardinale Cascajares, Arcivescovo di Valladolid. Questa iniziativa politica ebbe assai poco successo; la sua breve esperienza non fu soddisfacente e produsse forti reazioni anticlericali, (cfr G. Redondo, La Iglesia en la Edad Contemporànea, in AA. W , Historia de la Iglesia, voi. Ili, Madrid 1985, p. 173). Leone XIII, con l’enciclica Graves de communi, pubblicata il 18-1-1901, rinnovò l’appello della Rerum novarum (15-V-1891) a favore dell’azione congiunta dei cattolici; e incaricò il Cardinale Primate di Toledo e i suoi successori di dirigere tale azione. Di particolare importanza fu la lettera che il Cardinale Primate inviò ai vescovi il 16-X-1909. Le sue indicazioni furono a loro volta raccolte da Mons. Isidro Badia y Sarradell, vescovo di Barbastro, per la sua diocesi, nella Lettera Pastorale pubblicata il 9-II-1910.93 Cfr Bollettino Ecclesiastico Ufficiale del Vescovado di Barbastro, anno LVII, n. 5 (22-111-1910), pp. 96-105. Lo statuto del Centro Católico Bar- bastrense fu presentato al Vescovo A.A. di Barbastro, che lo approvò con decreto 8-XII-1908. Alcuni giorni dopo, il 16-XII-1908, fu presentato anche al Governo Civile di Huesca. Ne firmavano la presentazione 14 persone, fra le quali figura al sesto posto José Escrivà, padre di Jose- maria. Erano pure fondatori del Centro Juan Juncosa, socio in affari del padre di Josemaria nell’azienda “Juncosa y Escrivà” , e il cognato di questi, Mauricio Albàs.Il Centro Católico Barbastrense ebbe, fin dalla fondazione, un carattere marcatamente sociale. Un anno dopo la sua costituzione, in adempimento di quanto prescritto dall’art. 7, fu creata la Mutualidad Católica, che comprendeva una Cassa di Mutuo Soccorso, una Cassa di Risparmio e un Monte di Pietà (cfr Bollettino Ufficiale della Diocesi, LVII, n. 6 (1-IV- 1910), pp. 107-130, in cui è pubblicato il regolamento della Mutualidad Católica, con l’approvazione del Vescovo A.A. e del Governo Civile).Nel 1910 il Vescovo costituì il Consiglio Diocesano delle Associazioni Cattolico-Operaie per coordinare tutte le iniziative sociali della diocesi e vi nominò esattamente le stesse persone che facevano parte della Giunta del Centro Católico Barbastrense.94 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1761; Joaqum Alonso, PR, p. 1648; José Ramon Madurga, PM, f. 269.95 “Aetas discretionis tum ad Confessionem tum ad S. Communionem ea est, in qua puer incipit ratiocinari, hoc est circa septimum annum...” (in A.A.S., II, n. 1 5 ,15-VIII-1910, p. 582).96 Alvaro del Portillo, Sum. 42. Cfr Javier Echevarria, Sum. 1778, che aggiunge: «Serbò sempre un ricordo molto affettuoso dell’anziano Scolopio
65
che gli insegnò la comunione spirituale. Da quando, bambino, si preparava a ricevere la prima Comunione, non cessò di ripeterne la formula. L’ho udito predicare molte meditazioni servendosi di questa preghiera, ripetendola parola per parola. Diceva che riempie l’anima di pace e di serenità, anche nei momenti di aridità o di scrupoli, quando l’anima si vede così povera e così carica di miserie di fronte alla meraviglia di Dio che ci si dona senza riserve». Cfr anche Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4278.Su P. Manuel Laborda, cfr AGP, RHF, D-04311-7. P. Manuel Laborda de la Virgen del Carmen era nato a Borja (Saragozza) nel 1848 e aveva allora64 anni. Era professore di Religione, Storia, Latino e Calligrafia. Morì a Barbastro nel 1929.97 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 18; Javier Echevarria, Sum. 1781; Encar- nación Ortega, AGP, RHF, T-05074, pp. 45 e 140.98 II 28 marzo 1950, anniversario delle nozze d’argento sacerdotali, diceva ad alcune figlie sue: “È stato un giorno pienamente felice, fatto non comune alle date importanti della mia vita, nelle quali il Signore ha sempre voluto mandarmi qualche contrarietà” . E raccontò: “Persino il giorno della mia prima Comunione, quando stavano vestendomi e pettinandomi, vollero farmi i riccioli e mi fecero una bruciatura con il ferro rovente. Non era una cosa grave, ma per un bambino di quell’età poteva bastare” . Cfr En- carnación Ortega, AGP, RHF, T-05074, pp. 45 e 140.99 Alvaro del Portillo, Sum. 42; cfr anche AGP, POI 1969, p. 116. Ecco alcune annotazioni dai suoi Appunti:“23 aprile 1931: S. Giorgio. Sono diciannove anni da quando ho fatto la mia prima Comunione” (n. 194).“ Giorno di S. Giorgio, 1932. Oggi sono vent’anni da quando ho ricevuto per la prima volta la santa Comunione. S. Giorgio, prega per me” (n. 707).“Vigilia di S. Marco, 1933. Ieri ventidue anni dalla mia prima Comunione. Dio mio!” (n. 989).“23 aprile: S. Giorgio! Non dimentico che oggi è l’anniversario della mia prima Comunione. Quante cose tralascio di annotare!” (n. 1180).“ 30 aprile 1936. (...) A Valencia, il giorno di S. Giorgio, anniversario della mia prima Comunione, mi sono comportato come un fannullone, o meglio, come un perfetto asinelio: ragliare, e poi... Posso dire che non so recitare bene neppure un’avemaria. Madre, mamma del cielo!” (n. 1332).Cfr anche C 209, 29-IV-1937.100 Cfr Appendice documentale, documento Vili. Nonostante l’affermazione sulla libertà d’insegnamento della Legge del 1857, lo Stato in Spagna si riservò sempre il diritto di esaminare e di conferire qualsiasi titolo. Riconosceva la libertà di istituire centri privati di insegnamento secondario, ma questi dovevano non solo attenersi ai programmi e ai testi ufficiali, ma anche spedire gli alunni a fare gli esami nei centri pubblici abilitati a conferire i titoli. Quando le scuole venivano riconosciute, acquisivano solo il diritto che l’insegnamento ai propri alunni fosse riconosciuto: benché questi alunni non fossero “ufficiali” , godevano comunque migliore
66
considerazione dei “ liberi” . Questa era la condizione della scuola dei Padri Scolopi di Barbastro.101 Gli atti di morte di Maria del Rosario e di Maria de los Dolores si trovano nell’archivio della parrocchia dell’Assunzione di Barbastro, nel Libro dei Defunti, XLTV, rispettivamente nel foglio 14 e nel foglio 72.102 Lettera 24-111-1930, n. 5.103 B. Josemarìa Escrivà, Amici di Dio, Milano 19965, n. 151.104 Meditazione dell’8-VI-1964.105 Lettera 29-IX-l957, n. 22.106 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 43; Javier Echevarria, Sum. 1777; Jesus Alvarez Gazapo, PR, p. 1272.107 Ebbe il massimo in tutte le materie e la Lode (Premio) in Aritmetica e Geometria. Cfr Appendice documentale, documento Vili.108 Maria del Carmen Otal Marti, AGP, RHF, T-05080, p. 2; cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 67.109 Maria del Carmen Otal Marti, Sum. 5988. L’atto di morte di Maria Asunción si trova nell’archivio della parrocchia dell’Assunzione di Barbastro, nel Libro dei Defunti, XLV, foglio 31v.110 Alvaro del Portillo, PR, p. 78; Javier Echevarria, PR, p. 52; Maria del Carmen Otal Marti, Sum. 5986.111 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 78; Javier Echevarria, aggiunge: «Più di una volta commentò a sua madre: “ Ora tocca a me” ; oppure: “ l’anno prossimo tocca a me” » (Sum. 1785). Cfr anche Francisco Botella, Sum. 5609: «Disse in uno di quei momenti: “La prossima volta tocca a me” ; al che sua madre replicò: “No, tu sei consacrato alla Madonna” »; ed Encar- nación Ortega, PM. f. 28, che aggiunge: «Pensava che poi sarebbe toccato a lui, perché erano morte dalla più piccola alla più grande. So che il Servo di Dio soffrì molto e che per non far soffrire sua madre non tornò a ripetere che il prossimo a morire sarebbe stato lui».112 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1791; Joaquin Alonso, PR, p. 1659.113 Alvaro del Portillo, Sum. 19.114 AGP, POI 1978, p. 390.115 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 36; Javier Echevarria, Sum. 1800; Encar- nación Ortega, PM, f. 28v; José Ramon Madurga, PM, f. 270.116 Cfr “Juventud”, Barbastro 13-111-1914 e 12-VI-1914; anche Appendice documentale, documento Vili.117 Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08202, p. 9.118 Meditazione del 14-11-1964. Cfr Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 6; Alvaro del Portillo, Sum. 47; Javier Echevarria, Sum. 1788; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 6.119 La baronessa di Valdeolivos dice che alla rovina lo portò un socio della sua azienda (cfr Maria del Carmen Otal Marti, Sum. 5988).
67
120 Martin Sambeat, Sum. 5680; Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08202, p. 11.121 Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 3.122 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 49.123 Meditazione del 14-11-1964; cfr anche Martin Sambeat, AGP, RHF, T~ 03242, p. 3.124 Circa il suo comportamento con quanti avevano causato la rovina, cfr Alvaro del Portillo, Sum. 50; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T- 08203, p. 5. Alvaro del Portillo precisa di aver udito dalle labbra del Fondatore che suo padre chiese consiglio, consultandosi con un claretiano della comunità che reggeva la chiesa del Cuore Immacolato di Maria, a Barbastro. Questi gli confermò quello che già gli avevano detto anche altri: che non era obbligato a garantire con il suo patrimonio personale (cfr Sum. 48).125 Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 2.126 Maria del Carmen Otal Marti, AGP, RHF, T-05080, p. 3; cfr anche Maria del Carmen Otal, Sum. 5988.127 Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 2.128 Riferito da Mons. Escrivà e da sua sorella Carmen ad Alvaro del Portillo: PR, p. 79. “Pepe” è il diminutivo di “José” .129 AGP, POI 1970, p. 1071. Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 50. Cfr anche Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 2; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 5; e Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08202, p. 11.130 Meditazione del 14-11-1964; AGP, POI 1975, p. 219; cfr anche Encar- nación Ortega, PM, f.28.131 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 69 e 70; Javier Echevarria, Sum. 1802; Francisco Botella, Sum. 5610; Esperanza Corrales, AGP. RHF, T-08203, p. 3.132 Cfr Martin Sambeat, Sum. 5681; Encarnación Ortega, PM, f. 28v; José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 3.133 Adriana Corrales, AGP, RHF, T-08202, p. 11; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 6.
68
Capitolo II
L’EPOCA DI LOGRONO (1915-1920)
1. “La Gran Città di Londra”
Durante gli ultimi mesi di permanenza a Barbastro, Jo- semarfa si applicò intensamente allo studio. «Lasciò un buon ricordo fra i suoi compagni e professori. E a tutti è dispiaciuta la loro partenza», afferma uno dei suoi ex compagni di scuola1.
Nel giugno del 1915 andò a fare gli esami alla scuola statale di Lerida. Ebbe dei buoni voti in francese e in storia di Spagna e il massimo dei voti in geometria. In latino invece ebbe solo la sufficienza, poiché si emozionò e non riuscì ad esprimersi con scioltezza, nonostante le speranze che avevano riposto in lui i suoi professori2.
Nei primi giorni di luglio, come d’abitudine, la famiglia si recò a Fonz per passarvi l’estate. Mancandogli la compagnia di suo padre, che si trovava lontano, a Logrono, Josemaria si dedicò interamente alla lettura, per distrarsi dalle recenti preoccupazioni. La predisposizione a leggere l’aveva fin da piccolo, quando il babbo gli acquistava molte fiabe e lo aveva abbonato a una rivista per bambini: “ Chiquitm” . Anche suo padre leggeva molto, poiché gli piaceva stare al corrente di quanto accadeva nel mondo, in particolare degli avvenimenti poli
69
tici e religiosi, economici e culturali. Il suo quotidiano preferito era “La Vanguardia” (L’Avanguardia) e, tra le riviste, “La Ilustración Espanola” (L’Illustrazione Spagnola) e “Bianco y Negro” (Bianco e Nero)3.
Avendo parecchio tempo libero davanti a sé, il ragazzo si immerse nei racconti di Giulio Verne. Quelle avventure fantastiche, con un continuo palcoscenico di terre e usanze esotiche, di favolose invenzioni e di pericoli inimmaginabili, lo assorbivano completamente. Ma quando l’autore si impelagava in fastidiose descrizioni scientifiche, Josemarìa passava rapidamente le pagine per ritrovare il filo dell’azione romanzesca4.
Da Fonz ritornarono a Barbastro all’inizio di settembre, non appena ebbero notizia che il signor José aveva approntato un appartamento a Logrono. Subito liberarono da mobili e masserizie la casa della calle Mayor, dov’erano nati tutti i figli dei coniugi Escrivà e che da alcuni mesi non era più di loro proprietà5.
Fra il 4 e l’8 del mese, Barbastro celebrava la festa della Natività della Madonna, proprio mentre gli Escrivà stavano preparandosi a partire. Si ebbero i commiati, probabilmente penosi. In quegli ultimi giorni, la norma di condotta della signora Dolores era di comportarsi come se nulla fosse accaduto. Era nemica di addii e malinconici rimpianti. E una mattina attorno alla metà di settembre, molto presto, gli Escrivà presero la diligenza che portava a Huesca. A quanto pare, nessun parente uscì a salutarli.
«Ricordo il commiato una mattina presto - riferisce Esperanza Corrales -. Era già cominciato l’anno scolastico, perché di là ci recammo a scuola. La signora Lola non voleva addii e, per questo, c’eravamo solo noi, le amiche di Carmen»6.
* * ir
Il ragazzo lasciava a Barbastro parenti e amici; e i ricordi dell’infanzia; e la tomba di tre sorelle nel cimitero.
70
Tutto ciò lo legava in modo indimenticabile alla sua terra natale, nella quale non tornò più a risiedere, anche se continuò a seguire passo passo gli avvenimenti della sua storia. Il più triste di tutti ebbe luogo ventun anni dopo che gli Escrivà se n’erano andati, nell’estate del 1936. Con la dominazione marxista, la diocesi di Barbastro piombò nel lutto, pagando un forte tributo di sangue. Dei 140 sacerdoti appartenenti al clero secolare, 123 subirono il martirio, compreso il Vescovo Amministratore Apostolico. Analoga sorte subirono i religiosi. Furono assassinati 9 padri scolopi, 51 tra religiosi e novizi clare- tiani e 20 benedettini del monastero di Pueyo. La famiglia Escrivà dovette piangere la morte di alcuni parenti7.
In seguito la diocesi di Barbastro, che per nove secoli era passata attraverso incertezze, contese e violenze, dovette affrontare nuovi problemi. Le numerose sedi vescovili che erano rimaste vacanti, per il martirio dei vescovi e le distruzioni di ogni genere avvenute durante la guerra civile, suggerivano di provvedere a una riorganizzazione ecclesiastica. Fra i progetti di riforma c’era la soppressione della diocesi di Barbastro, ragion per cui già nel 1945 i barbastrini chiesero l’intercessione di Monsignor Escrivà presso il Nunzio di Sua Santità in Spagna. Don Josemaria non aveva mai accondisceso a fare raccomandazioni, neppure a favore dei propri familiari. Ma quel caso fu un’eccezione di rilievo8. La diocesi riuscì a superare le difficoltà, ma di nuovo si presentò il pericolo vent’anni più tardi. Correvano insistenti e fondate voci circa la soppressione della sede vescovile. La gente di Barbastro dovette ricorrere ancora una volta al suo illustre concittadino, che intercedette per iscritto presso Paolo VI, esponendo le ragioni storiche, sociali e pastorali che ne consigliavano la conservazione, per il bene della Chiesa e delle anime. Come si dice alla fine di un Appunto rivolto al Santo Padre: “Vorrei infine insistere di nuovo sul fatto che è solo l’amore per la Chiesa e per le anime che mi muove a scrivere queste righe, e a
supplicare umilmente il Santo Padre perché non si sopprima la diocesi di Barbastro”9.
Con il passare del tempo, si fece ancor più palese il suo amore per il suo paese natio: “ Ogni giorno che passa” - scrisse - “mi sento sempre più unito alla mia amatissima città di Barbastro e a tutti i barbastrini: il mio ricordo e il mio affetto sono molto profondi” 10. Non era un semplice sentimento di nostalgia posto in essere dagli anni. I ricordi affondavano le radici nelle dure circostanze che obbligarono la famiglia a lasciare quella terra. E l’affetto che sentiva Josemaria era tanto più vivo in quanto l’evocazione di Barbastro gli richiamava ricordi di suo padre:
“Sono molto barbastrino e cerco di essere un buon figlio dei miei genitori” - scriveva da Roma al sindaco di Barbastro, il 28 marzo 1971 “Lascia che ti dica che mia madre e mio padre, anche se dovettero andarsene dà quella terra, ci inculcarono, con la fede e la pietà, un grande affetto per le rive del Vero e del Cinca. In particolare, ricordo di mio padre cose che mi inorgogliscono e che non si sono cancellate dalla mia memoria, nonostante che me ne sia andato di lì a tredici anni: gesti di carità generosa e nascosta, fede coraggiosa senza ostentazioni, grande fortezza nel momento della prova, molto unito a mia madre e ai suoi figli. Così il Signore ha preparato la mia anima, con questi esempi pregni di dignità cristiana e di eroismo nascosto, sempre sottolineato da un sorriso, affinché più tardi io diventassi suo povero strumento - con la grazia di Dio - nel compimento di una sua Provvidenza che non mi allontana dal mio amatissimo paese. Perdonami questo sfogo. Non ti posso nascondere che questi ricordi mi riempiono di gioia”11.
* * *
Logrono festeggiava il suo Patrono, S. Matteo, dal 20 al27 settembre. Pochi giorni prima, gli Escrivà si stabilirono nell’appartamento preso in affitto dal signor José, al numero 18 di via Sagasta, diventato successivamente il
72
12. Si trovava al quarto piano. Al di sopra aveva soffitte e lucernari, per cui prometteva freddo e caldo. Il signor Garrigosa, proprietario della ditta dove lavorava il signor José, diede loro una mano per le prime difficoltà, poiché, a quanto riferisce Paula Royo, figlia di uno degli impiegati, «si rivolse a mio padre chiedendogli che, insieme alla sua famiglia, offrisse amicizia al signor José Escrivà e alla signora Dolores Albàs, che venivano da Barbastro, dove avevano avuto un rovescio di fortuna»12.
Gli affari del signor Antonio Garrigosa y Borrell godevano di buona prosperità. La ditta si chiamava “Grandes Almacenes de Tejidos” (Grandi magazzini di tessuti) e aveva due attività commerciali a Logrono. Una in via della Stazione, con “vendite all’ingrosso e consegne anche in provincia” . L’altra stava in via dei Portici, al numero 28, all’angolo con via S. Biagio; in quest’ultimo negozio, che si chiamava “La Gran Ciudad de Londres” (La gran città di Londra), si offrivano alla clientela di Logrono le “ultime novità” della moda dell’epoca. Il signor Garrigosa era un commerciante imprenditore, in sintonia con il nome un po’ altisonante del suo negozio e dei suoi magazzini. La ditta andò avanti molti anni e prosegue ancor oggi, anche se il nome si è ridotto a un più modesto “La Ciudad de Londres”13.
Logrono, capoluogo della provincia che porta lo stesso nome (oggi “Comunidad Autònoma de la Rioja” ), attraversava un periodo fiorente. La sua popolazione era considerevolmente aumentata. Nel 1915 aveva circa 25.000 abitanti. Lo sviluppo demografico, dovuto in gran parte all’immigrazione, camminava di pari passo con una crescente attività economica. La zona, che si estendeva sulla riva destra dell’Alto Ebro, doveva a questo fiume e ai suoi affluenti la fertilità delle sue terre. La ricchezza agricola consisteva principalmente in estesi vigneti e in uliveti, nella coltura di cereali e frutta, e di ortaggi in terreni irrigui. Durante la Prima Guerra Mondiale, nella quale tutta l’Europa era coinvolta, in Spagna
73
ci si trovava in piena espansione economica, a motivo delle materie prime e dei manufatti che dalla Spagna, Paese neutrale, si inviavano ad altri Paesi belligeranti, specialmente la Francia. Logrono trasse beneficio dalle proprie notevoli esportazioni, perché alla produzione agricola affiancava industrie di trasformazione, con produzione vinicola, di farine, di conserve di frutta e di ortaggi, di olio, di insaccati e lavorazione di tabacchi.
La popolazione di Logrono era provinciale e riservata, senza pericolo di grandi tensioni sociali o di zuffe politiche. L’ordine e la dignità erano imposti dalle tradizioni e dal lavoro. Esisteva un certo equilibrio sociale, con predominio politico dei liberali, il cui strumento di espressione era il quotidiano “La Rioja” , mentre il suo antagonista, il “Diario de la Rioja” , si proclamava “cattolico indipendente” e conservatore.
A suo agio nell’ambiente provinciale, José Escrivà si abituò alle passeggiate domenicali con la famiglia. Elegantemente vestito, con la bombetta e il bastone, andava a passeggiare in riva all’Ebro, come attesta Paula Royo: «Le due famiglie uscivano insieme quasi tutte le domeniche al pomeriggio, intorno alle quattro, a prendere il sole. Di solito li andavamo a prendere noi in via Sagasta, dove abitavano; passavamo il ponte di ferro sull’Ebro e proseguivamo per la strada di Laguardia o quella di Navarra, facendo una passeggiata (...). Al ritorno dalla passeggiata ci riunivamo in casa, dove trascorrevamo il resto del pomeriggio facendo merenda o giocando»14.
La via Sagasta, dove vivevano gli Escrivà, incrociava via del Mercato, che attraversava Logrono da est a ovest. La parte più centrale, con case dagli ampi porticati in successione, era una zona di negozi e di attività commerciali. Lì stava “La Gran Ciudad de Londres” , al n. 28 di via del Mercato, più comunemente nota come via dei Portici. La distanza dall’appartamento degli Escrivà fino al fabbricato in cui lavorava il signor José non era
74
molta, anche perché a Logrono non esistevano grandi distanze. Essendo un uomo puntuale, metodico e preciso - lo fu fino all’ultimo giorno di vita -, aveva delle abitudini fisse. Quasi tutti i giorni usciva alle sette meno pochi minuti, per assistere alla Messa nella parrocchia di S. Giacomo, che si trovava vicino15. Ritornava poi per fare colazione, e riusciva verso le nove meno un quarto, diretto al negozio.
Presso “La Gran Ciudad de Londres” lavorava come dipendente, incaricato delle vendite al pubblico16. Questo era per lui un perpetuo e nostalgico richiamo del tempo in cui, a Barbastro, conduceva da proprietario un’azienda identica. A motivo delle sue conoscenze e della sua distinzione sociale, dell’età e dell’esperienza, gli venne assegnato un posto al di sopra degli altri impiegati del negozio. Lo stipendio, tuttavia, era modesto. E in mille modi traspariva dalla vita degli Escrivà che non avevano denaro da buttare.
La signora Dolores si dedicava alle faccende domestiche e fu «in quei difficili momenti di crisi economica, nei quali avrebbero potuto trovarsi un po’ sbilanciati a Logrono, un buon appoggio per suo marito e per i figli»17. Della padrona di casa, un compagno di Jose- maria che la conobbe a Logrono ci testimonia che «era una donna che manteneva sempre un clima signorile, consono con quello della famiglia dalla quale proveniva e nella quale era stata educata»18. Evidentemente la signora faceva dei lavori di casa cui precedentemente provvedeva il servizio domestico, ma si dedicò di buon grado ai compiti familiari che le erano cari.
Secondo i ricordi di Josemaria, furono “tempi molto duri” 19, specialmente per suo padre, che spese la vita fronteggiando fatiche e ostacoli, anche se «era molto allegro e sopportava con grande dignità il cambiamento di posizione»20. Pertanto il clima familiare che attorniava Josemaria, per quanto duro riuscisse al ragazzo, non era amareggiato dalla tristezza dell’avversità né indurito
75
da una stoica rassegnazione di fronte alla disgrazia. Viceversa, in casa Escrivà si respirava un’umile serenità, fatta di modi cortesi e discreti silenzi. Il capofamiglia, del quale viene riferito che «era veramente un santo»21, era per tutti il modello. È probabile che dicessero proprio questo quanti avevano conosciuto il suo passato a Barbastro e il suo presente a Logrono, in quanto egli «aveva una grande pazienza e si adattava a tutto, lo si vedeva sempre allegro ed era spontaneo e semplice nel tratto. Viveva tutta la sua vita con una fiduciosa e gioiosa rassegnazione, nonostante il rovescio di fortuna che aveva subito. Non parlava mai delle sue preoccupazioni né si lamentava della propria situazione»22.
2. L’Istituto di Logrono
Era necessario, a tutti i costi, dare una buona educazione ai figli: questa decisione era presente nell’animo dei coniugi Escrivà prima di partire da Barbastro. Essendo capoluogo di provincia, Logrono aveva istituzioni e servizi amministrativi adeguati. Per quanto si riferisce al sistema educativo - “Instrucción Publica” , come si chiamava allora - esso si articolava in un centro ufficiale di insegnamento secondario - detto “ Istituto Generale e Tecnico” -, due “Scuole Normali” , una per maestri e l’altra per maestre, e una “Scuola Industriale e di Arti e Mestieri” .
A Josemarìa mancavano allora tre anni per terminare il liceo. Quindi trasferì la propria documentazione scolastica dall’istituto di Lerida a quello di Logrono e si iscrisse come alunno non ufficiale per l’anno scolastico 1915-191623. Il passaggio da una scuola di religiosi, come era quella degli Scolopi, a una scuola pubblica avrebbe forse potuto rappresentare un cambiamento troppo brusco per Josemarìa, e molto probabilmente questo era il pensiero del signor José. La maggior parte
76
degli alunni che frequentavano le lezioni all’istituto si recavano al pomeriggio presso una scuola privata per ripassare le materie. Due erano le scuole private che si disputavano il prestigio di un buon livello di insegnamento: quella di S. Giuseppe, tenuta dai Fratelli Maristi, e quella di S. Antonio che non essendo retta da religiosi si considerava laica, nonostante si fregiasse del nome di un santo.
Fra queste due scuole c’era una certa competizione, che si manifestava in modo palese negli annunci pubblicitari e negli articoli pubblicati dalla stampa24. La scuola di S. Giuseppe si vantava di possedere «un’aula-mu- seo di fisica, chimica e storia naturale; una spaziosa cappella per le funzioni del culto; un dormitorio per gli alunni interni, grande, comodo e ben ventilato; e un grande cortile per la ricreazione, con un magnifico sferisterio da poco restaurato». Sfida pubblicitaria alla quale rispondeva la scuola di S. Antonio mettendo in mostra il proprio potenziale accademico, in quanto, oltre alle materie del liceo, poteva offrire «lezioni speciali di calligrafia, disegno, francese, inglese, tedesco e arabo volgare». (E non dovevano essere trascurabili gli effetti degli annunci, per la spettacolarità dell’elenco delle lingue straniere e dell’esplicito riferimento ai Paesi allora in guerra). La rivalità fra le due scuole si rispecchiava, in definitiva, nel risultato degli esami, vale a dire, in mera statistica. Se ci si attiene esclusivamente ai risultati scolastici, sembra che la scuola di S. Antonio fosse in vantaggio su quella di S. Giuseppe25.
Tuttavia, la circostanza che aveva maggior peso nell’animo dei coniugi, e per la quale si decisero a iscrivere Josemaria nella scuola di S. Antonio, non aveva nulla a che vedere con le precedenti considerazioni. Cercavano, semplicemente, di evitare che sorgessero imprevedibili rivalità tra il loro figlio e un altro scolaro loro parente. «I suoi genitori scartarono l’ipotesi che frequentasse la scuola dei Fratelli Maristi di Logrono - ci viene riferito
77
- perché in essa studiava un parente e volevano impedire che potesse nascere fra i due ragazzi una situazione di tensione o di pericolosa emulazione»26.
Josemaria frequentava al mattino le lezioni all’istituto e studiava le materie nell’altra scuola al pomeriggio. Sua sorella Carmen, nel frattempo, faceva i suoi studi alla Scuola Normale per maestre di Logrono27.
iS* * *
L’Istituto di Logrono era di recente costruzione ed era stato edificato su un’area dove anticamente esisteva un convento di carmelitane28. Aveva delle belle aule e ottimi laboratori di chimica e fisica, nonché un’aula di storia naturale. La sua facciata principale dava su via Muro de Cervantes, che era il prolungamento di via del Mercato. Sul davanti c’era uno spazio attrezzato a giardino. In quell’ampio edificio si trovavano anche la biblioteca provinciale, il museo delle riproduzioni artistiche, la scuola normale e quella di arti e mestieri.
Durante i tre anni di permanenza nell’istituto di Logrono, l’alunno fece fruttare al massimo le proprie doti di intelligenza e di applicazione. Il corpo docente era, nel suo insieme, di elevato livello professionale e umano. Josemaria imparò non solamente dalle spiegazioni che venivano impartite a lezione, ma anche dall’esempio e dalla moralità dei propri maestri. Negli esami di fine anno ebbe ottimi voti. Basta scorrere le pagelle29. Quelle del quinto corso (1916-1917), che sono le più basse del suo curriculum di Logrono, registrano tre Ottimo e due Notevole; sono basse relativamente, cioè in rapporto al suo brillante curriculum30.
I due Notevole di cui parliamo devono anche essere valutati nel contesto storico. Uno di essi era stato preso nella materia “Psicologia e Logica” , il cui insegnamento era affidato a don Calixto Terés y Garrido, sacerdote diocesano e docente di filosofia dal 1912. Quel sacerdote aveva un’aureola di prestigio, poiché di lui si diceva
78
che avesse vinto il concorso a cattedra davanti a un collegio giudicante che non vedeva di buon occhio i preti. Era cappellano delle Sorelle dei Poveri e viveva con la madre in una modesta casetta con un piccolo orto. Semplice, buono, lavoratore, non gli mancavano buone disposizioni nei confronti degli alunni; ma si dimostrava più che rigoroso se si trattava di dare un voto mediamente alto, fosse pure un semplice Notevole. E davvero dunque un fatto straordinario che l’anno successivo don Calixto, quando fece a Josemarìa l’esame di etica e diritto, materia del sesto corso, gli abbia conferito il massimo dei voti e la lode.
Delle eccellenti doti pedagogiche del sacerdote l’alunno ricordava l’approfondita esposizione che fece loro del marxismo durante una lezione del corso 1917-1918, sapendo mettere l’argomento e le sue implicazioni alla portata dell’uditorio.
Professore e alunno nutrivano un affetto reciproco. Nonostante la barriera rappresentata dalla differenza di età, ben presto si trattarono da amici. E quando Josemarìa divenne sacerdote, si scambiavano consigli nelle difficoltà. Poi passarono molti anni senza che si vedessero, finché in una delle sue visite a Logrono, l’antico alunno fece visita a don Calixto. L’anziano docente, indicando il banco su cui si sedeva Josemarìa, gli diceva con malcelata emozione: «Lì ti sedevi tu, ragazzo mio, lì ti sedevi tu»31.
Il secondo Notevole era stato preso in fisica, materia insegnata dal professor Rafael Escriche, proveniente dall’istituto di Mahón. Allora era a Logrono da non più di due anni. Anche lui era uomo molto tirato nei voti. Delle sue prove di laboratorio - era incaricato di chimica - i suoi alunni ricordavano, con gustosa malizia, l’aspettativa che aleggiava al momento degli esperimenti: si sarebbero formati dei precipitati dai liquidi? le sostanze avrebbero cambiato colore?; sarebbe ingiusto at
79
tribuire la colpa a qualcuno, ma certo è che i pronostici della scienza non sempre si avveravano32.
Il professor Escriche, uomo metodico e di gran buon senso, all’inizio dell’anno scolastico, nell’autunno del 1917, trovò il laboratorio in uno stato di incredibile disordine e sporcizia. Non per nulla erano trascorsi diversi mesi di vacanza. Tutta la strumentazione era sparpagliata e gli armadi erano sporchi e pieni di polvere. Per non perdere giornate di lezione, propose agli alunni di lavare solamente le provette o gli oggetti di cui avevano bisogno e che, una volta finito, li lasciassero ben puliti al loro posto. In questo modo, dopo poche lezioni riuscirono ad avere tutto il materiale lucido e in ordine sulle scaffalature. Josemaria, che possedeva il dono di saper ricordare ciò che di utile racchiudeva l’episodico, non dimenticò mai l’insegnamento di quelle lezioni di chimica. Quando nel corso della sua esistenza si imbatteva in analoghe situazioni di fretta e di disordine, applicava il procedimento del professore33.
* * *
Il trasferimento da Barbastro, che implicò un penoso sradicamento per tutta la famiglia, riuscì particolarmente pesante a Josemaria, nel quale cominciavano a forgiarsi i tratti del carattere. Con il duro impegno di adattarsi a un altro ambiente sociale e a un nuovo stile di vita si scontrarono in primo luogo i genitori, che con il loro esempio prepararono la strada a Carmen e a Josemaria.
La famiglia non aveva parenti prossimi a Logrono, salvo quel ragazzo che studiava dai Maristi. José Escrivà si fece allora delle amicizie attraverso le occasioni che gli offriva il lavoro. Grazie anche alla sua educazione e alla distinzione della persona, ampliò ben presto la cerchia delle conoscenze, ma certo senza darsi alla vita di società. A Logrono esistevano diversi centri ricreativi - l’ ”Ateneo Riojano” , il “ Circulo de la Amistad” (Circolo dell’Amicizia), il “ Circulo Católico” - che il
80
capofamiglia, per ragioni di economia familiare, non frequentava. Fin dal primo momento, trovandosi in una città ad essi estranea, genitori e figli, per un istintivo moto di affetto e di difesa, vivevano concentrati intorno al focolare domestico. Così Josemaria comprese «l’importanza di affrontare le difficoltà ben uniti»34. Altra lezione che apprese da suo padre.
Al tempo in cui si iscrisse alla scuola S. Antonio, secondo un lontano ricordo di Paula Royo, amica di famiglia, «Josemaria era molto alto per la sua età - quattordici anni - ed era piuttosto robusto. Portava ancora i pantaloni corti: lo ricordo con un abito grigio scuro, con calze nere fino alle ginocchia e un piccolo berretto. Era molto bello: mi sembra di rivederlo in questo momento. Era sempre allegro e aveva una risata contagiosa»35. I professori ebbero presto per lui una grande stima; e il ragazzo si andò conquistando amici fra i compagni, per la sua naturale capacità di adattamento e «per la lealtà verso i compagni»36.
Queste qualità - generosità, lealtà e spirito di servizio- le portava alle estreme conseguenze, distaccandosi da tutto pur di favorire gli altri, senza mezze misure o titubanze. Per questo, la signora Dolores, che lo conosceva meglio di chiunque altro, si vide costretta ad avvertirlo che, se si dava in tal modo agli altri, avrebbe sofferto molto in questa vita37.
Con il passare del tempo, si ritrovò qualche volta con i compagni di allora. Quando lo riconoscevano, lo abbracciavano con effusione, ricordando i giorni di scuola; come accadde una volta con uno, al quale Josemaria era solito spiegare pazientemente gli argomenti della lezione che l’altro non aveva capito38.
A lungo andare si compirono le previsioni della madre. La vita portò al ragazzo innumerevoli delusioni e dispiaceri, benché Josemaria non si sia mai pentito del proprio modo di essere e non abbia mai tentato di porre un freno al proprio cuore generoso. Nel 1971, avendo
81
ancora in bocca il sapore amaro di una delusione arrecatagli da un “amico” , scrisse: “Perché mai deve accadere che, nonostante le mie miserie, io debba sempre essere più amico dei miei amici di quanto non lo siano di me questi “amici” ? Sicuramente è perché questo distacco, se lo accetto - fiat! - mi fa molto bene”39.
Il fondo della sua natura non cambiò di molto con il passare degli anni. Con lealtà e generosità illimitate, si donava senza riserve, con traboccante cordialità. Alcune amicizie intavolate allora con i suoi compagni di scuola si saldarono in legami più stretti e di profondo contenuto spirituale, come fu il caso di Isidoro Zorzano40. Per farla breve, quando nel 1918 il Vescovo di Calahorra e La Calzada chiederà informazioni sugli studi di Josemarìa, la risposta - pur nella sua laconicità formale - è esaltante per il ragazzo: «L’interessato - scrive il Rettore del Seminario di Logrono - ha risieduto a Logrono e ha studiato in questo Istituto; è stato di modello agli altri studenti per la sua applicazione e la sua condotta»41.
3. Maturità di un adolescente
Agli scossoni subiti dalla famiglia fece seguito una lunga serie di sofferenze morali e di privazioni fisiche, che segnarono profondamente il suo trapasso dall’infanzia all’adolescenza. Forse è questo uno dei periodi più nebulosi della sua vita. Probabilmente la crisi si prolungò per alcuni mesi, durante i quali ingaggiò con se stesso una battaglia tenace e dolorosa. Velatamente, nelle sue confidenze dell’età adulta, lasciò intravedere che per qualche tempo gli mancarono le chiacchierate amichevoli con il padre, nelle quali il figlio gli apriva il cuore chiedendogli consiglio.
Dopo la morte di sua sorella Chon rimuginava un’idea, pungente come una spina. Era un pensiero che lo
82
i
perseguitava con insistenza nel vedere la sventura accanirsi con gli innocenti. Perché, Signore, perché? Jose- maria, ancora bambino e dotato di un profondo senso della giustizia, si perdeva in penose meditazioni, cercando un raggio di luce che gli chiarisse ciò che gli appariva incomprensibile. Invano. L’esasperazione dei sentimenti gli impediva di vedere con chiarezza le ragioni:
“Fin da bambino ho pensato tante volte al fatto che ci sono molte anime buone alle quali tocca soffrire molto sulla terra; pene di ogni genere: rovesci di fortuna, naufragio della famiglia; e che si vedono calpestare ogni legittimo orgoglio... Allo stesso tempo, vedevo altre persone, che non sembravano buone - non dico che non lo fossero, perché non abbiamo il diritto di giudicare nessuno - alle quali ogni cosa andava a meraviglia. Finché un certo giorno feci la considerazione che anche i cattivi fanno cose buone, anche se non le compiono per un motivo soprannaturale; e compresi che Dio li doveva in qualche modo premiare sulla terra, dato che poi non avrebbe potuto premiarli nelPeternità. Mi ricordai allora della frase: “Si ingrassa anche il bue che andrà al macello”42.
A Logrono ebbero inizio il disagio e la resistenza di Josemaria ad accettare la nuova situazione. La sua generosità, quell’impulso a darsi senza riserve e senza misura agli altri, mal si adattava alla mediocrità e alle ristrettezze economiche della famiglia. Il ragazzo si rendeva conto con difficoltà che la ricchezza morale si trova molto al di sopra dei beni materiali.
Sua madre, aiutata da Carmen, si affannava nelle mille incombenze della casa: cucinare, lavare, comprare al mercato tirando sui prezzi. Del padre conosciamo particolari più intimi, probabilmente noti al figlio: a metà pomeriggio, per evitare di consumare qualcosa al caffè, il signor José prendeva una caramella per ingannare lo stomaco. Benché non avesse smesso di fumare, si era imposta una razione giornaliera di sei sigarette che egli
83
stesso si arrotolava, riponendole accuratamente in un portasigarette d’argento, ricordo di tempi migliori43. L’economia della casa era improntata al risparmio e le spese venivano sottoposte a prudente vigilanza, secondo il detto della signora Dolores: «M ai fare il passo più lungo della gamba»44. Agli occhi di Josemaria, tutto in casa portava il segno di una sofferta povertà, che riusciva intollerabile al suo carattere focoso. Sentiva impulsi di ribellione, che solo a fatica riusciva a reprimere. Magnanimo e disposto al sacrificio, lo addolorava profondamente la silenziosa sofferenza dei suoi genitori.
Quando si acquietò la burrasca, quando poco dopo comprese con chiarezza le ragioni cristiane di quella povertà, si sentì orgoglioso proprio di ciò che, nell’infanzia, aveva giudicato una vergogna della famiglia; e lo proclamava pieno di gioia ai propri figli spirituali:
“Se mi rinfacciano la povertà dei miei genitori, rallegratevi e dite che il Signore ha voluto così perché la nostra Opera, la sua Opera, si facesse senza mezzi umani: non ho dubbi che sia così. Del resto i miei genitori, l’uno e l’altra silenziosamente eroici, sono il mio grande orgoglio”45.
Ma allora non lo vedeva. La povertà, indubbiamente, comportava umiliazioni d’ogni genere. Per l’ampio parentado della signora Dolores, Logrono era l’esilio degli Escrivà; e, secondo alcuni di essi, un esilio meritato.
La prova più dura attraverso la quale passò Josemaria, più dolorosa delle privazioni, fu la silenziosa sofferenza dei suoi genitori, il sorriso e la serenità dei quali facevano capire la forza d’animo con cui accettavano le avversità. Ma quella mite cappa di gentilezza lasciava comunque trasparire le molte rinunzie che cercava di nascondere. Questo, invece di calmare il ragazzo, lo faceva soffrire e le ondate irrompevano dolorosamente nella sua anima. Non osava parlarne con il babbo; per il momento erano interrotte le conversazioni a cuore aperto che prima ave
84
i
vano luogo durante le passeggiate della domenica; parlavano invece di altri argomenti, poiché a Josemarìa sembrava ingiusto e poco nobile fare «commenti che potessero ferire la sensibilità dei suoi genitori»46.
Dei giorni felici dell’infanzia era rimasta in mente a Josemarìa una stampa che, per motivi circostanziali, andò a far parte del suo approvvigionamento spirituale. Comprendeva due disegni giapponesi; in uno si leggeva:
“ “L’uomo presuntuoso” , e rappresentava una famiglia riunita intorno a un tavolo che aveva al di sopra, in cima a un palo, una grande luce. Da lontano la luce attraeva, attirava l’attenzione. Ma se uno si avvicinava, vedeva che la famiglia era fredda, senza la luce e il calore di un vero focolare domestico. L’altro disegno era intitolato: “L’uomo prudente” . Era un’altra famiglia, con una luce molto in basso, collocata sul tavolo, al centro di tutti i volti. Non attirava l’attenzione, non vi era nulla di appariscente. Ma chi vi si avvicinava trovava il calore di una famiglia vera”47.
Dio volle che l’aiuto salvifico gli venisse attraverso la sua famiglia. Josemarìa trovò fra i suoi il calore dell’affetto. Il tempo agì come sedativo di inquietudini e impulsi e più tardi sarebbe arrivato a scoprire il profondo significato di quegli avvenimenti. Non solo nella sua mente si invertirono i termini e ciò che gli era stato causa di vergogna e umiliazione gli apparve con lo splendore della virtù; ma vide anche l’ordine provvidenziale e la logica divina racchiusi nella sequenza degli avvenimenti:
“Dio mi ha fatto passare attraverso tutte le umiliazioni, attraverso ciò che mi sembrava una vergogna e che ora vedo come manifestazione delle tante virtù dei miei genitori. Lo dico con gioia. Il Signore doveva prepararmi; e poiché le persone intorno a me rappresentavano ciò su cui ero più sensibile, colpiva proprio lì. Umiliazioni d’o- gni genere, ma sopportate con signorilità cristiana: lo
85
vedo ora e con sempre maggior chiarezza, con sempre maggior gratitudine per il Signore, per i miei genitori, per mia sorella Carmen...”48.
In seguito, con lo sviluppo positivo della personalità, il ragazzo andò acquisendo una maturità non comune per la sua età. Davanti ai suoi amici appariva serio e riflessivo, qualità non incompatibili con l’allegria e con un vivace senso dell’umorismo. La signora Dolores, in modo molto espressivo, affermava che Josemaria «era sempre stato un bambino più maturo della sua età»49. Nuotando egli controcorrente, senza lasciarsi travolgere dalle sventure, si placò la crisi della sua adolescenza. E alla fine il suo spirito si aprì prematuramente agli ideali della gioventù. Perciò, rivedendo questo remoto periodo della propria vita, avrebbe avuto in seguito parole di perdono e di riconoscenza per tutti: “Il Signore” - diceva - “andava preparando le cose e mi dava una grazia dopo l’altra, passando sopra ai miei difetti, ai miei errori di bambino e ai miei errori di adolescente”50.
Considerati in se stessi, i dati raccolti nell’incartamento scolastico di Josemaria ci danno pochi lumi sulla persona e servono solamente da indice di valutazione delle sue attitudini intellettuali, anche se forniscono indirettamente alcune informazioni di non poco interesse sul carattere e i gusti del ragazzo51.
Negli esami del quarto anno di liceo (1915-1916) gli fu assegnato Ottimo con lode in Precettiva letteraria e Composizione. La lode non aveva solo valore onorifico, ma esentava dal pagamento delle tasse scolastiche relative a una materia dell’anno scolastico successivo; l’alunno poteva scegliere a suo piacimento la materia alla quale applicare l’esenzione. Esercitando questo diritto, in data 1° settembre 1916 Josemaria rivolse istanza al direttore dell’istituto perché venisse applicata alla Storia
generale della letteratura la lode che gli era stata concessa in Precettiva letteraria52.
Docente di letteratura era il prof. Luis Arnaiz, uomo di squisita sensibilità letteraria e incline all’emozione estetica53. A quanto diceva Josemaria, si emozionava quando leggeva ad alta voce Cervantes, il che suscitava nel ragazzo altri ricordi lontani; infatti, fra i libri che gli Escrivà avevano portato con sé da Barbastro, per la maggior parte classici, c’era una bella e antica edizione del Don Chisciotte in sei volumi, che da bambino spesso egli riprendeva per leggere e per rivederne le figure.
Nelle lezioni di letteratura, Josemaria potè assaporare a suo piacimento tutti i classici, dagli scrittori medioevali a quelli del Secolo d’Oro della letteratura spagnola54. Passati gli anni, gli aneddoti letterari e storici, in prosa o in versi, sarebbero sgorgati freschi e spontanei, all’unisono con la dottrina cristiana.
Un giovedì santo, facendo ad alta voce la sua orazione personale, ricordava cose della propria giovinezza:
“Fin da ragazzo, Signore, fin dalla prima volta che ho potuto leggere la poesia galiziana di Alfonso il Saggio, mi sono commosso al ricordo di alcune sue strofe.Mi colpivano i suoi poemi, come quello del monaco che nella sua semplicità aveva chiesto alla Madonna di contemplare il cielo. Andò in cielo mentre pregava - questolo comprendiamo tutti noi, lo comprendono tutti i miei figli, tutti, perché siamo anime contemplative - e quando rientrò in sé dalla sua orazione non riconosceva più alcun monaco del monastero. Erano passati tre secoli! Elo comprendo con maggior profondità, quando considero che Tu sei rimasto nel Tabernacolo per duemila anni perché io ti possa adorare e amare e possedere; perché possa mangiarti e alimentarmi di te, sedermi alla tua tavola, divinizzarmi! Che cosa sono tre secoli per un’anima che ama? Che cosa sono tre secoli di dolore, tre secoli di amore, per un’anima innamorata? Un istante!”55.
87
Le letture giovanili fecero presa in fondo alla sua anima, impregnandola di bellezza. In numerose occasioni si servirà di ricordi letterari, come mezzo per esporre progetti o idee; lo si vede, per esempio, nella lettera scritta a Roma il 7 giugno 1965, mezzo secolo dopo il suo passaggio dall’istituto di Logrono:
“Ora rinverdisco le mie passioni giovanili leggendo l’antica letteratura castigliana, della quale pure si serve il Signore per confermarmi nella sua pace. Mi spiegherò con un esempio: tu sai quante volte, tutte quelle in cui a me, che sono un peccatore, vengono attribuite con troppa frequenza rivelazioni e profezie (nientemeno), ho dovuto dire che non è vero niente. Tutt’al più, di fronte alla fede della gente, concedo - perché mi sembra un dovere di giustizia - che, se per caso ciò che dicono fosse vero, sarà frutto della bontà di Dio, che premia la fede e le altre virtù degli interessati. Ma “io non c’entro per niente”. Ebbene, leggendo Gonzalo de Berceo nella sua “Vita di S. Domenico di Silos” - a proposito, sottoscrivo volentieri ciò che lui stesso ne dice: “Avrà almeno la virtù, credo, di un buon bicchiere di vino” - e tenendo presente il divario che separa il ‘200 dal ‘900 e, a maggior ragione, un santo da un peccatore, mi ha consolato, come una grande luce di Dio, leggervi: “Profetava ciò che accader doveva,/ profetava e lui stesso non capiva”. Non è una benedizione del Cielo che persino dai passatempi possiamo ricavare la sapienza divina, offerta da un buon chierico vissuto più di settecento anni fa?E, per continuare a divertirti, ti racconto un altro aneddoto - per così dire - letterario: dovrei dire della mia confusione letteraria.In parecchie occasioni mi piaceva ricordare - parlando di cose spirituali - un verso che attribuivo al “Cantar del mìo Cid” : “e la preghiera saliva cavalcando in cielo”. Non mi dirai che non sia espressivo. Rileggo in questi giorni quell’antico componimento e ho dovuto riconoscere che la mia memoria di vecchio ha commesso in buona fede un errore, quasi imperdonabile. Perché l’ori
88
ginale, a pensarci bene, è più realistico e più aderente alla “nostra teologia”. Dice così: “la preghiera detta, poi cavalcava”. Prima, pregare; poi, cavalcare: che significa lavorare, lottare - disporsi a lottare e lavorare e lottare, per un cristiano, è pregare: mi rendo conto che questo verso della Canzone di gesta si adatta molto bene al nostro modo di agire di cristiani comuni e contemplativi. Meglio di quell’altro che usciva - tra la nebbia - dalla ferita rimasta aperta nella mia fantasia di adolescente”56.
* *
Carmen riteneva il fratello «un ragazzo normale, di carattere aperto»57; quando però era il momento di divertirsi, se erano presenti delle ragazze, Josemaria non si sentiva del tutto a suo agio. Non partecipava a balli, fra l’altro perché non si era mai proposto d’imparare a ballare. Suo padre invece sì, era stato un eccellente ballerino. «Tuo padre - gli raccontava la mamma - era capace di ballare sulla punta di una spada»58. Comunque sua madre non voleva arrivare in ritardo rispetto a ciò che sarebbe prima o poi accaduto: che il figlio si innamorasse di una ragazza. Quindi non esitò a dargli subito un sano consiglio, espresso in un detto popolare: «Se ti devi sposare, cercati moglie: non tanto bella da incantare, né tanto brutta da spaventare»59.
La sua prima adolescenza gli tolse molte ritrosie e malinconie, mettendo allo scoperto una certa veemenza giovanile. Estremamente ordinato e puntuale, Josemaria non sopportava il disordine, dando segni di impazienza, di nervosismo o di asprezza60. Questa insofferenza impaziente per i piccoli disguidi in fatto di ordine poteva avere nascosti punti di contatto con il suo gusto per la geometria e la matematica; ma è chiaro che le scienze esatte non erano responsabili del suo carattere forte.
Per tutta la vita Josemaria ha dovuto lottare contro il naturale impeto del proprio temperamento, per sottomettere quel torrente di sana energia trasformandolo
89
in forza regolata e in fortezza d’animo per superare ostacoli61.
Vi era anche un altro aspetto del suo carattere che denunciava, anche se in modo diverso, la focosità giovanile: era il suo romantico idealismo. Estro vaporoso al quale dava sfogo sia in espressione poetica sia in fervore patriottico; oppure si traduceva in esaltanti sentimenti di libertà e di giustizia, come gli accadde nel caso dell’indipendenza dell’Irlanda62. La sua famiglia riceveva ogni settimana la rivista “Bianco y Negro” , illustrata da ampi servizi fotografici sulle vicissitudini della prima guerra mondiale. Tutta la Spagna, pur mantenendosi neutrale, era divisa nelle simpatie per gli uni o per gli altri contendenti. Il signor José aveva marcate simpatie filotedesche, forse per i sentimenti antifrancesi, durati circa un secolo nell’Alta Aragona, per l’invasione e gli eccessi delle truppe napoleoniche.
Ma ciò che causò l’ansia di Josemaria nei confronti della situazione irlandese fu il motivo della libertà religiosa: “All’epoca avevo quindici anni” - raccontava - “e leggevo con avidità sui giornali gli avvenimenti della Prima Guerra... Ma soprattutto pregavo molto per l’Ir- landa. Non andavo contro l’Inghilterra, ma a favore della libertà religiosa”63.
>1- >!*
Durante le lunghe passeggiate estive dell’estate 1917, padre e figlio conversavano sulle aspirazioni professionali di Josemaria. Nel successivo anno scolastico avrebbe terminato il liceo ed era necessario decidere in anticipo verso quali studi si sarebbe orientato. Il ragazzo non aveva dubbi: aveva già deciso. Pensava di diventare architetto, poiché era dotato di eccellenti attitudini per la matematica e il disegno. Il babbo cercò discretamente di indirizzarlo alla giurisprudenza, perché notava in lui facilità di parola, passione per la storia e la letteratura e la capacità di stare con gli altri.
90
Josemarìa non si lasciò convincere. Nella definizione che diede il padre della scelta del figlio, intenzionato secondo lui a diventare «un muratore raffinato», c’era qualcosa di più di un’affettuosa punta di ironia64. La scelta del ragazzo di voler affrontare gli stùdi di architettura, dispendiosi e lunghi, implicava per la famiglia un pesante sacrificio economico, del quale forse egli allora non si rendeva conto, mentre molti anni dopo lo avrebbe riconosciuto: “In casa proseguirono la mia educazione avviandomi agli studi universitari, nonostante la rovina familiare, mentre avrebbero potuto, secondo giustizia, farmi fare un lavoro qualsiasi”65.
Mancavano ancora alcuni mesi di attesa. Una tregua che aumentava l’apprensione del signor José, man mano che passava il tempo. Il futuro era nelle mani del Signore. E Dio ebbe infatti l’ultima parola, confermando ancora una volta che le sue vie sono imperscrutabili.
Nel 1934, dalla prospettiva della propria vocazione sacerdotale, Josemarìa meditava sulle probabili conseguenze dei suoi sogni professionali del 1917:
“La vocazione sacerdotale! Dove starei ora se tu non mi avessi chiamato? Sarei probabilmente un avvocato presuntuoso, un letteratucolo vanitoso o un architetto compiaciuto dei suoi progetti (a tutto questo si era pensato intorno agli anni 1917 o 1918)”66.
4. Orme sulla neve
L’intervento divino nella sua esistenza era stato fino a quel momento silenzioso; le dure lezioni ricevute erano derivate dai dolorosi eventi familiari. E ora Dio, come per gioco e senza manifestarsi apertamente, gli andava incontro con eventi minuti, che sarebbero apparsi mere banalità a una persona meno sensibile. Invece, per un’anima semplice e ricettiva ai tocchi della grazia, diventa
91
vano segni tangibili dell’amore divino. Ecco come il Signore mantenne desta l’anima del ragazzo:
“Il Signore mi preparò a mia insaputa con cose apparentemente insignificanti, delle quali si serviva per seminare nella mia anima una divina inquietudine. Mi riesce perciò facile comprendere appieno l’amore così umano e così divino di Teresa del Bambino Gesù, che si commuove quando dalle pagine di un libro spunta un’immagi- netta con la mano ferita del Redentore. Anche a me sono accadute cose di questo genere, che mi commossero e mi portarono alla comunione quotidiana, alla purificazione, alla confessione... e alla penitenza”67.
In casa degli Escrivà si recitava il rosario tutti i giorni e si perpetuavano le tradizionali devozioni dei tempi di Barbastro. Essi frequentavano la parrocchia di Santiago el Reai, il cui parroco, don Hilario Loza, conosceva bene tutta la famiglia. Là andava il ragazzo a confessarsi e a comunicarsi, anche se durante l’anno scolastico le domeniche e i giorni festivi ascoltava la messa nella scuola di S. Antonio. Il signor José continuava ad aiutare i poveri con le sue elemosine, soprattutto attraverso la comunità delle Figlie della Carità, che di quando in quando lasciavano a casa sua un’immagine della Madonna della Medaglia Miracolosa, racchiusa in un’urna68. La statuetta veniva affidata a turno alla devozione delle varie famiglie.
Un’altra chiesa che gli Escrivà erano soliti visitare era quella di Santa Maria della Rotonda. Uscendo dalla loro casa e svoltando a sinistra all’incrocio con via del Mercato, si finiva in piazza della Costituzione dove sorgeva la chiesa, il monumento più insigne della città. La facciata formava una grande nicchia, chiusa a semicupola fra due torri. La nicchia, quasi una gigantesca conchiglia lavorata in splendido barocco, fungeva da baldacchino all’entrata del tempio.
92
Il parroco era don Antolìn Oriate, molto amico del signor José e massima autorità ecclesiastica della città, poiché era abate della Collegiata di Santa Maria della Rotonda e arciprete delle tre parrocchie di Logrono69.
Logrono apparteneva all’antica diocesi di Calahorra e la Calzada, poiché non era stata portata a termine la ristrutturazione dei territori ecclesiastici prevista nel Concordato del 1851 tra il governo spagnolo e la Santa Sede. In virtù del Concordato Logrono sarebbe dovuta diventare capoluogo della diocesi. Le autorità ecclesiastiche fecero opposizione e a sua volta il governo non cedette: ci fu così un lungo periodo di sede episcopale vacante (dal 1892 al 1927). La Santa Sede dovette nominare degli Amministratori Apostolici, con residenza a Calahorra. Dal 1911 al 1921 la diocesi fu retta da don Juan Plaza Garcia, Vescovo titolare di Hippo70. Il clero di Logrono, oltre a quanti stavano nelle parrocchie, era composto dai canonici e beneficiati della Rotonda, dai cappellani dell’ospedale e dell’asilo, dai professori del seminario e dai cappellani militari71. Fra le comunità religiose vi erano i Fratelli Maristi, che reggevano il collegio di S. Giuseppe; i Gesuiti, ai quali era affidata la chiesa di S. Bartolomeo; e diverse comunità femminili: Carmelitane Scalze, Agostiniane, Religiose della Madre di Dio, Figlie della Carità, Adoratrici, Serve di Gesù...
Era questa la situazione nell’autunno del 1917, quando le Carmelitane Scalze approvarono, con atto capitolare del 23 ottobre, la venuta di due Padri Carmelitani che dovevano prendersi cura del convento72. Il primo di essi, padre Juan Vicente de Jesus Maria, giunse a Logrono l’i l dicembre; pochi giorni dopo arrivò padre José Miguel de la Virgen del Carmen; i due, insieme a un fratello converso, Pantaleón, costituirono la comunità cui venne affidata la chiesa del convento. L’atto inaugurale dei loro servizi pastorali e liturgici fu celebrato il 19 dicembre con una solenne funzione. Il tempo non contribuì affatto a dare splendore alla cerimonia. Fin dal
93
principio del mese le nubi scaricavano su Logrono pioggia e neve. Ma benché il martedì, 18 dicembre, la neve si fosse in gran parte sciolta, il freddo della notte congelò le acque del disgelo. I fedeli che assistettero alla solenne inaugurazione della nuova sede dei Carmelitani dovettero rischiare scivoloni e cadute. Predicò padre Juan Vi- cente, il quale «salutò emozionato la città ed offrì i servizi spirituali della nuova comunità carmelitana»73.
Seguirono giornate molto crude, con il cielo sconvolto e un freddo molto intenso in tutta la Rioja. Da venerdì28 nevicò senza interruzione; per due giorni caddero fiocchi piccoli e compatti. L’Anno Nuovo irruppe con temperature glaciali: il termometro scese a quindici gradi sotto zero. Comunicazioni interrotte, mercati chiusi. Molte persone morirono di freddo.
A partire dal 3 gennaio gli spazzini municipali, con il rinforzo di un centinaio di giornalieri assunti dalla Giunta municipale, furono impegnati per diversi giorni a togliere la neve da strade e marciapiedi. Mercoledì 9 gennaio, compleanno di Josemarìa, avevano terminato il loro lavoro, grazie anche alla pioggia del giorno precedente. Ma tornò il freddo e la tempesta di neve si prolungò per un’altra settimana74.
Nel frattempo, il Signore aveva preceduto il compleanno di Josemarìa con una sorpresa che cambiò il corso della sua vita. Durante quei giorni di vacanze natalizie, una mattina presto, vide per strada le orme lasciate nella neve da due piedi scalzi. Si fermò a guardare con curiosità l’impronta lasciata dai piedi nudi di un frate e, commosso nel più profondo dell’anima, si domandò: Se altri fanno tanti sacrifici per Dio e per il prossimo, io non sarò capace di offrirgli nulla?75.
Le orme nella neve erano di padre José Miguel. Seguendo quella candida traccia il ragazzo si recò dal carmelitano alla ricerca di direzione spirituale. Portava già dentro di sé “ una divina inquietudine” , che lo trasformò nel profondo, portandolo a una vita di pietà più
94
intensa, alla pratica dell’orazione, della mortificazione e della comunione quotidiana76. “Ero solo un adolescente” - dirà poi - “quando il Signore gettò nel mio cuore una semente infuocata d’amore”77.
Un cambiamento così radicale non fu che il preludio a più pressanti richieste del Signore:
“ (...) ho incominciato a presagire l’Amore, a rendermi conto che il cuore mi chiedeva qualcosa di grande e che fosse amore (...). Non sapevo che cosa Dio volesse da me, ma si trattava evidentemente di una chiamata. A che cosa, sarebbe stato chiaro in seguito... Nel frattempo mi rendevo conto della mia inutilità e ripetevo quella litania che non è frutto di falsa umiltà, ma di conoscenza di me stesso: non valgo nulla, non ho nulla, non posso nulla, non sono nulla, non so nulla...”78.
La semente infuocata gettata nel suo cuore lo bruciava di dentro e al tempo stessalo lasciava nell’oscurità. Con la luce della grazia il Signore faceva sì che si rendesse conto della chiamata, ma non con chiarezza abbagliante, bensì nella penombra, quasi nelle tenebre.
Passarono circa tre mesi. Padre José Miguel, colpito dalle sue buone disposizioni, gli suggerì di entrare nel- l’Ordine dei Carmelitani79. Il ragazzo portò la proposta all’orazione e chiese al Cielo luci per scoprire che cosa si nascondeva dietro la misteriosa chiamata che gli risuonava nel cuore.
Gettando uno sguardo all’indietro, comprese che, fin dalla mattina in cui aveva visto le orme sulla neve, qualcuno lo conduceva direttamente verso l’Amore80. Il Signore lo aveva preparato e gli aveva fatto nascere nell’anima una “ divina inquietudine” . Tanto che, nello scoprire le orme lasciate nel biancore della neve e nel rendersi conto che erano di un religioso, vi aveva visto le orme di Cristo e l’invito a seguirlo. In un gesto silenzioso, impresso sul bianco, seppe vedere una chiamata.
95
E immediatamente, con lo spirito di generosità che portava dentro di sé, si sentì spinto a decidere sul momento, senza alcun rinvio, l’offerta di se stesso.
Nelle settimane seguenti e fino al giorno in cui il Carmelitano lo invitò a entrare nel suo Ordine, Josemaria aveva fatto una decisa virata interiore. Come è possibile che un fatto tanto trascurabile lo spingesse a impegnare tutta la propria volontà nel fermo desiderio di offrire le proprie facoltà al Signore, senza sapere i contenuti di ciò cui si stava impegnando? La sproporzione fra quel tenue evento, «apparentemente insignificante», e la pronta e forte reazione del ragazzo rispecchia la tempra del carattere, veemente e nobile, e la sua grande capacità di amore. Il tappeto di neve ben presto divenne terreno melmoso. Ma Josemaria manteneva ferma la propria determinazione, senza tirarsi indietro e, senza mutare la risposta, con perseveranza. In quelle brevi settimane la disponibilità ad accogliere la grazia ingrandì la ferita d’amore dell’adolescente.
Era ormai primavera. Entro un paio di mesi, terminate le lezioni, ci sarebbero stati gli esami finali. Fu dunque costretto a decidersi. Pensò alle difficoltà che uno specifico vincolo di natura religiosa avrebbe comportato in vista della realizzazione dei piani divini di cui aveva il presentimento. Se avesse rinunciato a una professione civile e fosse diventato un religioso, gli sarebbe stato possibile aiutare economicamente i suoi genitori? La vita conventuale non lo attraeva e l’idea di farsi religioso non calmava la sua segreta inquietudine. Inoltre, il giorno in cui avesse udito la risposta su quel che Dio gli chiedeva e che ribolliva nella sua anima, non sarebbe stato meglio trovarsi libero e senza legami?81. Prese una rapida decisione: diventare sacerdote ed essere così disponibile a tutto. Poi comunicò la decisione a padre José Miguel e lasciò la direzione spirituale del Carmelitano82.
Chi avrebbe mai detto che tutto avrebbe avuto inizio dall’incontro fortuito con le orme di un frate scalzo?
96
No, quell’incontro non aveva nulla di casuale, ben lo sapeva Josemarìa. Era un favore divino. Per questo, la risposta del ragazzo era stata di totale distacco, senza pretendere in anticipo prove o segni straordinari. E subito cominciò a ricevere una copiosa pioggia di grazie che, in breve tempo, misero la sua anima in condizione di palese maturità, a giudicare dalla proposta che gli fece il suo direttore spirituale.
Non era tuttavia il cammino dei religiosi ciò che Dio gli chiedeva. Lo vide ben presto e con chiarezza e lo disse al Carmelitano. Poi, con una generosità incredibile e con una fede gigantesca, non a rimorchio della grazia bensì, per così dire, quasi precedendo il Signore, decise di farsi sacerdote. Era un passo eroico, una risposta estrema, che nessuno gli aveva chiesto esplicitamente di dare. E non si trincerò dietro la certezza di non essere chiamato a una vita conventuale. Scelse il sacerdozio come base per raggiungere un ideale; come il mezzo più appropriato, nelle proprie circostanze personali, per identificarsi con Cristo, in attesa di una risposta che presagiva, ma non vedeva. Al Signore toccava ora il nuovo invito, che il futuro sacerdote non poteva indovinare. A partire da allora, nell’oscurità della sua fede, Josemarìa avrebbe gridato al Signore come il cieco di Gerico, con il vivo desiderio che gli manifestasse la sua Volontà. Aveva il fermo presentimento che avrebbe scoperto l’avventura della propria esistenza.
“Per anni, a partire dai primi momenti della mia vocazione a Logrono” - scriveva nel 1931 - “ebbi sempre sulle labbra una giaculatoria: “Domine, ut videam!” Senza sapere per che cosa, ero persuaso che Dio “mi voleva per qualcosa”. Sono sicuro di averlo scritto una o più volte a mia zia Cruz (Suor Maria de Jesus Crucifica- do) nelle lettere che le mandavo al convento di Huesca.La prima volta che ho meditato il passo di S. Marco del cieco al quale Gesù diede la vista, quando quegli rispose al “che cosa vuoi che ti faccia” di Cristo, “Rabbonì, ut
97
videam”, questa frase mi rimase fortemente impressa. E nonostante molti (come accadde al cieco) mi dicessero di tacere (...), io dicevo e scrivevo, senza sapere perché: “Ut videam!, Domine, ut videam!”. E altre volte: “Ut sit!” Signore, che veda. Che sia”83.
Confermatosi nella decisione di abbracciare il sacerdozio, lo comunicò a suo padre. Egli stesso ce ne racconta la reazione:
“E mio padre mi rispose”:- Figlio mio, ti rendi conto che non avrai un amore sulla terra, un amore umano?“Mio padre si sbagliava. Se ne rese conto dopo”.- Non avrai una casa - “si sbagliava!” - Io però non mi opporrò.“E gli spuntarono le lacrime; è l’unica volta che ho visto piangere mio padre” .- Non mi opporrò; anzi, ti presenterò a una persona che ti potrà orientare84.
In quel momento un pensiero gli passò per la testa: e gli obblighi di giustizia nei confronti dei suoi genitori? Essendo l’unico figlio maschio della famiglia spettava a lui portarla avanti in un futuro neppure troppo lontano, visto che l’età dei genitori, per di più messi a dura prova dalla vita, era piuttosto avanzata; e la signora Dolores non aveva più avuto figli da dieci anni. In quel momento, senza soffermarsi su altre considerazioni, con la fiducia che proviene da una grande fede e dalla coscienza di aver dato tutto ciò che il Signore gli domandava, gli chiese che i suoi genitori potessero avere un figlio maschio che lo potesse sostituire. Sicuro che sarebbe accaduto, non si preoccupò più di questa richiesta85.
Era già maggio. La notizia che si sarebbe fatto sacerdote correva tra amici e conoscenti. Don Antolin Onate, l’ar
98
ciprete, la accolse con gioia. Su richiesta del padre, ebbe un colloquio con il ragazzo e potè confermare al signor José la vocazione del figlio86. La stessa cosa gli disse don Albino Pajares, un altro sacerdote con il quale Josemaria aveva parlato su suggerimento di suo padre87. Tutti i conoscenti della famiglia furono colti di sorpresa dalla notizia: «I suoi genitori - riferisce Paula Royo - ne parlarono preoccupati ai miei, ma non gli fecero mai alcuna difficoltà. Non ce l’aspettavamo che volesse diventare sacerdote»88.
Josemaria prese a frequentare la chiesa di Santa Maria della Rotonda, dove si recava a sentir messa. Si tratteneva a lungo in orazione e si confessava con don Ciriaco Garrido, canonico penitenziere della Collegiata. Don Ciriaco era un sacerdote dal corpo minuto ma dalle grandi virtù. Don “ Ciriaquito” , come lo chiamavano affettuosamente per la bassa statura, fu uno dei primi che “ diedero calore alla mia incipiente vocazione” , scrisse poi Josemaria89.
Il 28 maggio terminò gli esami e ottenne il titolo finale. Sgombrato il temuto problema dell’iscrizione ad Architettura, il padre consigliò di nuovo al ragazzo di iscriversi a Legge, facoltà compatibile con gli studi ecclesiastici, benché la prima cosa fosse capire come entrare in seminario90.
5. Nel Seminario di Logrono
Don Antolin, uomo ben informato su tutto quanto avesse a che fare da vicino o da lontano con l’andamento della diocesi, mise al corrente il signor José sulla prassi per entrare in seminario. Bisognava subito chiedere al Vescovo la convalida delle materie studiate al liceo e, senza perdere tempo, era opportuno far preparare il candidato in Latino e Filosofia perché, prima di accedere agli studi teologici, avrebbe dovuto sostenere un esame nelle due
99
materie. José Escrivà pregò l’arciprete e don Albino di cercare i professori per il figlio; peraltro, naturalmente, il pagamento dei compensi uscì dalle sue tasche91.
I mesi estivi del 1918 furono di grande siccità. Ci furono preghiere pubbliche e il Vescovo dispose che nelle Messe si recitasse la preghiera “ad petendam pluviam” , «allo scopo di ottenere dall’Onnipotente il rimedio alla persistente siccità che inaridisce i campi e minaccia di distruggere gran parte dei prodotti agricoli, che costituiscono la principale ricchezza della nostra amata diocesi»92. Alcuni giorni prima, il 29 agosto, il Prelato aveva fissato per il primo ottobre l’inaugurazione ufficiale dell’anno scolastico 1918-1919, sia per il Seminario Conciliare di Logrono, sia per quello di Calahorra93. Essendo la storia della diocesi piuttosto tormentata, come già abbiamo detto, non deve destare meraviglia che vi esistessero due seminari. Basti sapere che, a partire dal 1917, le funzioni docenti erano suddivise fra i due centri: nel seminario di Logrono veniva svolto il piano di studi ecclesiastici solo fino al terzo anno di Teologia94.
Sul Bollettino Ecclesiastico della diocesi furono pubblicate prima dell’inizio dell’anno scolastico le modalità per l’iscrizione al seminario. Quanti avevano conseguito il titolo finale degli studi superiori dovevano prima superare un esame di Latino, Logica, Metafisica ed Etica, come aveva correttamente anticipato don Antolìn. Frattanto, il cielo si presentava senza nubi e la preghiera ad petendam pluviam si prolungava oltre ogni aspettativa. Le lezioni non poterono avere inizio il primo ottobre com’era previsto; non a causa della siccità, bensì per una forte epidemia influenzale. Passarono i giorni e il 6 novembre Josemarìa rivolse un’istanza al Vescovo, nella quale scriveva: “ sentendo la vocazione ecclesiastica, dopo aver frequentato e concluso gli anni di liceo, prego laS.V. si degni concedermi di effettuare l’esame di Latino, Logica, Metafisica ed Etica, per poi frequentare il primo anno di Sacra Teologia”95.
100
A motivo dell’epidemia, estesasi a tutta la regione, i seminari rimasero chiusi fino al 29 novembre; scomparsa che fu “ la funesta epidemia influenzale” , il Prelato ordinò che in tutte le parrocchie si cantasse un Te Deum e si recitasse un Pater noster «per le vittime, e special- mente per i sacerdoti del clero che erano morti come eroi della carità, non risparmiandosi nel compimento del proprio ministero»96.
Mentre l’influenza faceva le sue vittime e Josemaria superava gli esami, fu necessario osservare un’altra condizione per entrare in seminario, che riguardava gli alunni provenienti da altra diocesi: dovevano ottenere il consenso dei rispettivi Vescovi. Josemaria inviò un’istanza al Vescovo di Barbastro, il quale rispose a quello di Calahorra il 12 novembre:
«José Maria Escrivà Albàs, di diciassette anni d’età, nativo di questa città, residente a Logrono da tre anni con la sua famiglia e, a quanto manifesta, con vocazione allo stato ecclesiastico, Ci ha richiesto Vexeat per la Diocesi di Calahorra. Con la presente, prendendo in considerazione le ragioni esposte da detto giovane e previa accettazione di quella diocesi, lo escardiniamo da questa di Barbastro e trasferiamo tutta la giurisdizione che sullo stesso ci compete ratione originis all’ecc.mo Sig. Vescovo di Calahorra, che potrà conferirgli tutti gli Ordini minori e maggiori se lo ritiene opportuno»97.
* *
Il “Vecchio Seminario” di Logrono doveva il suo nome sia all’antica datazione dei servizi prestati come centro di insegnamento ecclesiastico, sia al merito della sua vetustà, che non era poca. Il fatiscente edificio era datato 1559, anno in cui i Gesuiti avevano aperto una scuola a Logrono che, dopo la loro espulsione, sarebbe poi passata in proprietà della diocesi. Nel 1776 s’incominciò a utilizzarlo come seminario, ma la sua vita accademica
101
subì notevoli interruzioni per lunghi periodi. Dal 1808 al 1815 divenne caserma per le truppe napoleoniche; in seguito fu anche ospedale militare e carcere dei prigionieri carlisti.
Il decrepito edificio non conobbe la luce elettrica fino al 1910. Era una smisurata costruzione rettangolare con cortile interno e si elevava per cinque piani. Camere e aule, ampie e più che sufficienti, erano in un pietoso stato di abbandono. Per completare il quadro, nel 1917 il piano terra era stato occupato da un plotone di Artiglieria, con la relativa dotazione di uomini e cavalli98.
Il regime di vita in tanto venerabile dimora era regolato dalle norme scritte e promulgate il primo gennaio 1909 da Gregorio Aguirre, Cardinale Arcivescovo di Burgos e Amministratore Apostolico di Calahorra e La Calzada. Disciplina interna che devono osservare i signori collegiali che appartengono al predetto, era questo il titolo del testo ufficiale che regolava la vita del seminario. Vi erano specificati l’orario, i “principali doveri” e le “proibizioni speciali” . Tra queste ultime veniva esplicitamente «proibita ogni comunicazione con gli alunni esterni» da parte degli alunni interni99.
Interni ed esterni formavano due gruppi separati e indipendenti, per ragioni disciplinari, allo scopo di evitare che gli esterni fossero lo strumento per burlare le severe regole dell’internato, facendo acquisti o eseguendo incarichi dietro le spalle delle autorità. Gli alunni esterni dèi seminario erano, solitamente, coloro che avevano la famiglia a Logrono. Questi alunni mangiavano e dormivano nelle loro case, mentre per il resto il regime di insegnamento e di vita di pietà era lo stesso degli altri, senza eccezioni di sorta.
Josemaria entrava in seminario alle sei e mezza di mattina. Facevano orazione e poi assistevano alla messa; qualche volta veniva un padre gesuita a predicare. Poi gli esterni andavano a casa propria a fare colazione e ritornavano (almeno quelli che studiavano teologia)
102
prima delle dieci. Alle dodici e trenta terminavano le lezioni. Pranzavano con la propria famiglia e alle tre del pomeriggio ritornavano in seminario, dove assistevano ad altre lezioni e avevano poi tempo libero fino alla recita del rosario, seguita da una predica o dalla lettura spirituale100.
Josemaria non abusò mai della libertà che gli offriva la propria condizione di alunno esterno. Un condiscepolo, Màximo Rubio, anch’egli residente a Logrono con la propria famiglia, dice di lui che «era puntualissimo ed esemplare. Da quanto si poteva vedere, aveva un vero desiderio di perfezione»101. Gli interni avevano anche alcuni obblighi particolari; fra questi, quello di occuparsi della catechesi alla domenica. Non così gli esterni. A uno dei seminaristi interni, Amadeo Bianco, rimase ben impressa nella memoria la figura di Josemaria, perché era l’unico alunno esterno che andava volontariamente a dare una mano nella catechesi domenicale102.
Il seminario si trovava in fondo a via Sagasta, non lontano dal domicilio degli Escrivà. Successivamente, nel 1918, la famiglia lasciò il vecchio appartamento per trasferirsi in un nuovo edificio di via Canalejas. Si trattava anche qui di un quarto piano, meno centrale del precedente103.
In quei giorni, Josemaria ebbe una sorpresa. La mamma chiamò in disparte lui e Carmen, per annunciare loro che era in attesa di un bambino. Benché fosse evidente il suo stato di gravidanza, i figli non l’avevano neppure sospettato. A Josemaria venne allora in mente la supplica fatta a Dio alcuni mesi prima ed ebbe la certezza che sarebbe nato un maschio104.
Quelle settimane d’inverno furono contrassegnate da una raccolta intimità familiare. Il 28 febbraio 1919 la signora Dolores diede alla luce un bambino e ciò fu per Josemaria una palese conferma della propria chiamata. Come avrebbe scritto in seguito, era una chiara risposta alla sua petizione:
103
“A seguito di una mia supplica, nonostante che già da diversi anni i miei genitori non avessero figli e non fossero più giovani, a seguito di una mia supplica - ripeto - Dio nostro Signore (dopo nove o dieci mesi da quando gliel’ho chiesto) fece sì che nascesse mio fratello (...). Un fratello maschio, così come avevo chiesto”105.
Due giorni dopo, don Hilario Loza battezzò il bambino nella parrocchia di Santiago el Reai e gli pose il nome di Santiago Justo. Fecero da padrini Carmen e Josemarìa106.
Durante i due anni di studio nel seminario di Logrono (1918-1920), Josemarìa studiò molto a fondo le materie del primo anno di Teologia, riportando la votazione eccezionale di Meritissimus107. Ne lasciò solamente una - Luoghi Teologici, chiamata anche Teologia Fondamentale - per l’anno 1919-1920. In questo secondo anno accademico potè quindi disporre di un certo tempo libero108. Approfittò di quei mesi per approfondire i temi filosofici e il latino.
6. Sacerdozio e carriera ecclesiastica
Le testimonianze su Josemarìa dei compagni di seminario sono precise e concise e fra loro concordi. Dice di lui Amadeo Bianco: «Era molto accurato nel portamento esteriore: portava una giacca blu, il colletto alto e chiudeva la camicia con un laccio». E Luis Alonso riferisce: «Vestiva sempre con molta eleganza, in abito completo e scuro, di buon taglio»109.
Quanto al carattere, come ricorda Pedro B. Larios, si dimostrava «molto aperto e comunicativo, simpatico, divertente, allegro e gradevole». «Quello che attirava maggiormente l’attenzione - osserva Amadeo Bianco - era il suo sorriso aperto e amabile: era un riflesso della sua letizia interiore»110. Toccando un altro aspetto del
104
la sua personalità, Màximo Rubio riferisce che «era un uomo di carattere, di forte temperamento» e che «ebbe un grande influsso sulla pietà e la spiritualità dei seminaristi»111.
Questi ricordi acquistano maggior rilievo se messi a confronto con l’opinione che avevano dell’alunno e del suo comportamento i Superiori del seminario. Ecco quella laconica, riportata in una breve nota informativa, del Rettore don Valeriano Cruz-Ordónez: «Il richiedente ha fatto il liceo nell’istituto e si è diplomato in Arti; è un giovane di assai buone disposizioni e di ottimo spirito»112. Josemaria si confessava probabilmente con il Direttore della Disciplina, don Gregorio Fernàndez An- guiano, che egli ricorderà sempre come “ quel santo sacerdote” 113. Oltre ad essere uomo di grande pietà, don Gregorio era dotato di sorprendenti doti di comando. Nel 1921 fu nominato Vicerettore del seminario e in breve tempo, con mano ferma, si mise a coltivare le anime dei seminaristi, che da lungo tempo erano ridotte a un campo incolto per quanto si riferisce alla direzione spirituale.
All’interno del seminario la disciplina era rigida. Gli esterni, invece, conducevano una vita un po’ diversa: nei fine settimana avevano del tempo libero da dedicare agli amici e ad altri interessi.
Josemaria conduceva un’intensa vita di pietà. Qualche compagno ricorda di «averlo visto durante le passeggiate con il rosario tra le mani»114. Accadeva anche spesso che alla sera, uscendo dal seminario, si recasse alla Rotonda per trattenersi davanti al Santissimo115. La sua vita di pietà non era frutto di sentimentalismo, ma della divina inquietudine che lo consumava, spingendolo a trascinare con senso apostolico i propri compagni. In modo tale che «il suo modo di pensare e di agire ebbe peso anche sugli stessi seminaristi», grazie alla forza dell’esempio116.
Nei giorni lavorativi si dedicava allo studio. Le dome
105
niche le riempiva con la catechesi ai bambini di mattina e le passeggiate con la famiglia il pomeriggio, evitando qualsiasi occasione di stare assieme o di conversare da solo con le amiche di Carmen. «Nonostante ci conoscessimo - dice Paula Royo, i cui genitori uscivano a passeggio con gli Escrivà - non arrivai ad avere amicizia con Josemaria»117. Màximo Rubio, condiscepolo di Josemaria, riferendosi in particolare agli anni di seminario, fa capire la delicata cura con cui proteggeva la purezza dei propri sentimenti: «Tutti, e naturalmente anch’io, avevano di lui un alto concetto per quanto si riferisce alla purezza»118. Ma la sua accurata delicatezza non andava contro il buon senso, come dimostra un suo commento aneddotico che non ha nulla di bigotto.
A Logrono, le istituzioni militari abbondavano quanto quelle ecclesiastiche. Conventi e caserme davano una nota severa di ordine alla città, che ospitava due reggimenti di Fanteria: il 24° “Bailén” e il 39° “ Cantabria” ; il 13° reggimento di Artiglieria a cavallo; l’Ospedale militare e la Sussistenza militare. Accanto a queste comunità della patria e della Chiesa, a un isolato da “La Gran Ciudad de Londres” , in via del Mercato, si trovava la Manifattura Tabacchi, nella quale lavorava una variopinta schiera di sigaraie.
Nella Rotonda o nella chiesa di Santiago el Reai, Josemaria vedeva tra i fedeli devoti fisionomie note, sigaraie della fabbrica di tabacchi o militari dei diversi reggimenti. Gli ufficiali ormai canuti e le sigaraie che avevano ormai perduta l’avvenenza della gioventù trasportavano l’immaginazione del giovane all’altro versante della vita. Vedeva militari e sigaraie, ormai sul pendio della caducità, che cancellavano con il pentimento antiche frivolezze e qualche sproposito. E chissà se è da queste riflessioni che ebbe inizio la devozione che egli ebbe sempre per Maria Maddalena, la santa penitente, esempio dell’amore contrito:
106
“Quando sentivo i presagi dell’Opera, ma ancora non sapevo con chiarezza che cosa mai il Signore volesse da me, cominciai ad assistere ogni giorno alla santa Messa. Ben presto mi resi conto che nella chiesa che frequentavo si recavano diverse sigaraie ormai avanti negli anni e militari con i baffi bianchi. Si poteva arguire che gli uni e le altre stessero riparando i peccati di gioventù. Quelle sigaraie e quei colonnelli pentiti mi ricordavano Maria Maddalena”119.
Lo stile di Josemaria e le sue qualità - educazione, allegria e intelligenza - gli davano un indiscutibile prestigio davanti ai seminaristi. Fuori del seminario, invece, accadeva l’inverso. Nel suo andare e venire, il giovane seminarista incontrava spesso gli ex compagni di studio. A volte scambiavano un saluto, un gesto gioviale; ma altre volte incrociava sguardi provocatori di ironia o disprezzo, che gli rimanevano dolorosamente impressi nell’anima:
“Ricordo con che espressione di compassione - quasi guardandomi dall’alto in basso - mi fissavano i compagni dell’istituto quando, finita la scuola, iniziai la carriera ecclesiastica”120.
Questa semplice osservazione - dolorosa per il seminarista - rispecchia la situazione sociale dello stato ecclesiastico, e indirettamente della Chiesa, nella Spagna degli inizi del XX secolo. Gli sguardi ironici degli ex compagni di scuola non erano evidentemente frutto di inimicizia personale. Esprimevano piuttosto, insieme a un lieve tocco di anticlericalismo, il disprezzo della borghesia liberale per il “seminarista” . Era raro all’epoca trovare, nei seminari, degli studenti in possesso del diploma liceale. Ancora più raro era trovare dei sacerdoti con una laurea civile.I giovani dotati di prestigio intellettuale, sociale o economico, quando sentivano una chiamata vocazionale preferivano entrare in qualche Ordine religioso o in qualche
107
Istituto di maggior lustro121. In questo contesto si spiega come gran parte del clero secolare avvertisse una latente e ingiusta umiliazione da parte di certi strati della società che esibivano, insieme alla miscredenza religiosa, il fatuo prestigio delle scienze civili. Per molti l’entrata in seminario equivaleva, umanamente parlando, a sacrificare posizioni di futuro benessere materiale. Potevano diventare preti di paese, parroci in città, cappellani di conventi o militari. Al massimo sarebbero riusciti a ottenere un canonicato, una cattedra o altre prebende, per la loro maggiore capacità intellettuale o per altre doti personali. Nel caso di Josemarìa, l’entrata in seminario implicava la rinuncia a una carriera di maggior rilievo sociale ed economico, come avrebbero consentito gli studi di Architettura e di Diritto. Ai suoi occhi era ben palese la prospettiva ecclesiastica quando, una volta ordinato, si sarebbe inserito nelPingranaggio della vita:
“Ne uscivano per proseguire la carriera... Si comportavano bene e cercavano di andare da una parrocchia a un’altra migliore. Chi era meglio preparato concorreva a un canonicato. Con il passare del tempo, li mettevano nel Capitolo, dal quale uscivano le persone necessarie per collaborare nel governo della diocesi, per la formazione del clero in seminario...”122.
Per alcuni chierici, infine, essere sacerdote significava quasi un’occupazione amministrativa. Idea che Josemarìa non condivideva nel modo più assoluto. Il giovane seminarista non si sentiva chiamato a una carriera siffatta:
“Non era quello che il Signore mi chiedeva e me ne rendevo conto: non volevo essere sacerdote per essere sacerdote, “el cura”, come dicono in Spagna. Veneravo il sacerdote, ma non volevo per me un sacerdozio così”123.
Se Josemarìa decise di farsi sacerdote fu perché riteneva che, in quel modo, avrebbe avuto maggior facilità
108
per compiere l’occulto disegno di Dio, convinto che fosse il cammino adeguato per conoscerne la Volontà124.
Non fu l’esempio della famiglia - sia da parte del signor José che da parte della signora Dolores egli aveva vari zii ecclesiastici - a condurlo al sacerdozio. Egli lo disse con chiarezza:
“Non avevo mai pensato di farmi sacerdote né di dedicarmi a Dio. Non mi ero posto questo problema perché credevo che non mi riguardasse. Anzi: mi dava fastidio il pensiero che potessi approdare un giorno al sacerdozio, tanto che mi sentivo anticlericale. Amavo molto i sacerdoti, perché la formazione che ricevetti in casa mia era profondamente religiosa; mi avevano insegnato a rispettare, a venerare il sacerdozio. Ma non come cosa per me: per altri”125.
Dalla “divina inquietudine” , dal disagio interiore, Josemaria era passato alla certezza che il Signore “lo voleva per qualcosa” . Presagiva l’Amore; e, adeguandosi all’amore, si donava, sacrificando tutte le aspirazioni umane racchiuse nel suo cuore. Per il suo modo di reagire, per la prontezza e la gioia con cui decise di farsi sacerdote, probabilmente non considerò quel tributo un sacrificio, bensì una gioiosa donazione di tutto il proprio essere.
Il suo “ut videaml” era supplica di innamorato impaziente, un volerne sapere di più per dare tutto ciò che gli fosse richiesto, una petizione di luce per incamminarsi verso il compimento della Volontà di Dio. Intendeva la propria vocazione al sacerdozio come parte integrante di un’altra chiamata, al di fuori per il momento dalla portata del suo sguardo. Si trovava quindi non al traguardo, alla meta, bensì all’inizio di un cammino per il quale presentiva la Volontà di Dio. Si aprì allora nella sua vita la tappa dei “presagi” o “presentimenti” , come egli stesso raccontava: “Fin dagli inizi del 1918 ebbi dei presentimenti. In seguito continuavo a “vedere” , ma
109
senza che fosse chiaro ciò che il Signore voleva da me: e però “vedevo” che il Signore voleva qualcosa. Chiedevo e continuavo a chiedere” 126.
Josemaria, nemico di ogni mediocrità, aveva preparato l’intera sua anima a ricevere la pienezza specifica della vocazione al sacerdozio, che concepiva come un ideale d’amore. E non ci dobbiamo stupire se, così come alcuni suoi ex compagni non avevano capito la sua entrata in seminario, in seguito alcuni seminaristi si meravigliarono della sua indifferenza per tutto ciò che significava “far carriera” . La sua alta stima per il sacerdozio non venne mai meno, come evidenzia un episodio del 1930:
“Pochi giorni fa” - scrisse - “una persona, con poco tatto, mi chiese, senza che le fosse stato dato pretesto per farlo, se noi che seguiamo la carriera sacerdotale abbiamo una pensione per quando saremo vecchi... Mi indignai. Poiché non gli rispondevo, l’importuno insisteva. Allora mi venne la risposta che, a mio avviso, non ammette replica: “Il sacerdozio - gli dissi - non è una carriera: è un apostolato!”. Questa è la mia convinzione. E ho voluto scriverlo in queste note perché, con l’aiuto del Signore, non mi dimentichi mai della differenza”127.
Facendo alcuni passi indietro nella nostra storia, si comprende meglio la reazione del signor José, il quale, conoscendo bene il ragazzo e i suoi ardori giovanili, gli consigliava prudenza e riflessione: “Figlio mio, pensaci bene” - gli diceva -. “E molto duro non avere casa, non avere famiglia, non avere un amore sulla terra. Pensaci
9 * ^ * v 33 1 9 &ancora un po ; io pero non mi opporro .La notizia che gli era stata data così all’improvviso,
con i cambiamenti e riassestamenti familiari che ne sarebbero derivati e, soprattutto, la percezione dell’ideale abbagliante del quale sembrava pervaso il figlio, strapparono al padre due lacrime di commozione. Anch’egli dovette vincersi interiormente e prendere una decisione:
110
“Non mi opporrò” . Forse pensava agli eroici sacrifici che la perseveranza su quella strada di santità avrebbe richiesto al figlio. Egli tuttavia non sarebbe vissuto fino ad assistere alPordinazione sacerdotale di Josemarìa.
Passarono gli anni e il 23 gennaio 1929, a Madrid, accanto al letto di una moribonda santamente vissuta Josemarìa le affidava questo incarico: “Se non riesco a essere un sacerdote, non solo buono, ma santo, allora chiedi a Gesù che mi porti via quanto prima!” 129.
* * *
Tutto sembrava indicare che il luogo più appropriato per studiare Legge, come aveva suggerito il signor José, fosse Saragozza. A Saragozza vivevano anche alcuni fratelli della signora Dolores: Mauricio, sposato con zia Mercedes; Carlos, canonico arcidiacono della cattedrale; e con lui Candelaria, ormai vedova, con la figlia Manolita Lafuente. A Saragozza esistevano una Università Pontificia e una Università Civile. Anche la poca distanza e le buone comunicazioni con Logrono sembravano indicare Saragozza come il luogo più indicato per fare degli studi ecclesiastici e civili.
La possibilità e le condizioni del trasferimento da Logrono al seminario di Saragozza erano maturate duranteil 1919, a quanto racconta la baronessa di Valdeolivos. Il suo racconto ha per scenario il periodo estivo degli Escrivà, che si erano recati, come gli altri anni, a Fonz: «Qualche estate dopo, probabilmente nell’estate del 1919, il signor José, padre di Josemarìa, venne a Fonz a vedere i suoi fratelli. Aveva le fotografie dei suoi figli: di Santiago, che era nato da poco, di Carmen e di Josemarìa. Ce le mostrava molto orgoglioso dei suoi figli (...). Poi, indicando Josemarìa, disse pensoso: “ Questo mi ha detto che vuol essere sacerdote, ma allo stesso tempo vuole studiare Legge. Ci costerà un certo sacrificio...” »130. Indubbiamente, mantenerlo agli studi fuori di Logrono comportava un sacrificio economico per tutta la
111
famiglia. Comunque, era evidente che il precedente orientamento di Josemaria di diventare architetto, a Barcellona o a Madrid, avrebbe comportato un onere maggiore.
Josemaria manifestò le proprie intenzioni al Rettore del seminario ad anno scolastico già avanzato. Il Rettore, conoscendo le doti intellettuali dell’alunno e le buone disposizioni vocazionali, gli prestò il proprio appoggio. Poi, nella prima metà del giugno 1920, e probabilmente con la mediazione dello zio Carlos al quale la madre avrà chiesto di interessarsi a favore del nipote, ottenne dal Cardinale Arcivescovo di Saragozza l’incardinamento nella sua arcidiocesi.
Il passo successivo fu quello di richiedere Vexeat per trasferirsi da Logrono a Saragozza, per continuarvi gli studi ecclesiastici. Fece quindi istanza al Vescovo di Calahorra e La Calzada allo scopo di ottenere l’escardinazione131. La richiesta fu accolta, previa informazione favorevole del Rettore del seminario di Logrono nei termini, come già detto, di «giovane di assai buone disposizioni e di ottimo spirito»132. Josemaria passò quindi a dipendere dal Cardinale Arcivescovo di Saragozza, come consta nel “Libro dei Decreti Arcivescovili” in cui, in data 19-VII-1920, viene registrato il seguente titolo: «Dn. José Maria Escrivà Albàs - Lettere di incardi- nazione in questa Arcidiocesi, a suo favore»133.
In data 28 settembre 1920 si trova un’altra concisa scrittura mediante la quale il Cardinale Arcivescovo dàil permesso all’alunno di entrare nel seminario di S. Francesco di Paola134. Inizia così una nuova tappa nella vita del seminarista.
112
NOTE CAPITOLO II
1 Martin Sambeat, Sum. 5679. Josemaria a tredici anni era «un ragazzo piuttosto alto, forte, portava calze lunghe fino al ginocchio e pantaloni corti, come tutti quelli della sua età a quel tempo (...); sereno, amabile, intelligente» (cfr Maria del Carmen Otal, AGP, RHF, T-05080, p. 1).
! 2 Nel sistema di insegnamento non statale, come si è detto, si potevano fare gli studi fuori degli Istituti ufficiali dello Stato e gli alunni privati si recavano, alla fine dell’anno scolastico, a farsi esaminare negli Istituti statali. Era d’uso presentare un elenco degli alunni con un giudizio indicativo dei voti che ciascuno meritava secondo i suoi professori. Nell’elenco presenta-
! to dagli Scolopi, Josemaria figurava come il migliore del suo corso. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 37; e Appendice documentale, documento Vili.3 Cfr Francisco Botella, Sum. 5608; Pedro Casciaro, Sum. 6331; Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, PM, f. 1297.
i 4 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 64.5 «La famiglia rimase molto a mal partito e mia nonna - riferisce la baronessa di Valdeolivos - fece in modo di aiutarli e acquistò la loro casa, ma la famiglia continuò ad abitarvi finché si trasferì a Logrono» (Maria del Carmen Otal Marti, Sum. 5988).6 Esperanza Corrales, AGP, RHF, T-08203, p. 6; e Alvaro del Portillo, Sum. 69.7 Cfr S. Lalueza: Martirio de la Iglesia en Barbastro, ed. Obispado de Barbastro, Barbastro 1989, pp. 172; G. Campo Villegas, C.M.F.: Està es nue-
\ stra sangre (51 Claretianos martires, Barbastro 1936), Pubblic. claretiane,Madrid 1990, pp. 380; Vicente Càrcel Orti: La persecución religiosa en Espana durante la segunda repùblica (1931- 1939), Rialp, Madrid 1990; A. Montero: Historia de la persecución religiosa en Espana, 1936-1939, Madrid 1961, pp. 209-223 e763 e ss.; A A .W : Diccionario de Historia
i Eclesiàstica de Espana, op. cit., voi I, p. 185.
113
8 Nell’art. 5 del Concordato del 1851, come già detto, era stabilita la soppressione della diocesi di Barbastro e il suo accorpamento a quella di Huesca. Tuttavia, il percorso storico del Concordato del 1851 della Spagna con la Santa Sede fu molto accidentato e gran parte degli articoli concordatari non arrivò ad avere applicazione. Per lunghi periodi il Concordato rimase lettera morta. Lo Stato ruppe le relazioni con la Santa Sede durante la prima Repubblica spagnola (1873-1874) e distrusse i fondamenti giuridici del Concordato (peraltro mai formalmente disdetto) durante la seconda Repubblica (1931-1936). Con gli Accordi del 1946 lo Stato spagnolo cercò di aggiornare alcune delle sue disposizioni, finché, nel 1953, il Concordato fu rinegoziato. Cfr S. Lopez Novoa, op. cit., voi I, pp. 233 e ss.; AA. W ., Diccionario de Historia..., op. cit., voi. I, pp. 581-595.Martin Sambeat attesta: «Le relazioni del Fondatore e dell’Opus Dei con il Nunzio in Spagna credo fossero molto buone poiché, quando si cercò di sopprimere la diocesi di Barbastro, ci siamo documentati su chi potesse avere qualche influenza sulla Nunziatura, affinché si interessasse per evitare il colpo di mano della soppressione, e si convenne che Mons. Escrivà fosse una di queste persone» (Sum. 5682; cfr anche Florencio Sànchez Bella, Sum. 7495).Il Fondatore aveva l’abitudine di non fare raccomandazioni, tranne quando era in gioco il bene dei suoi concittadini; quando si parlò di sopprimere la diocesi di Barbastro, egli ricorse al Nunzio nel 1945 e poi alla Santa Sede, e persino al Santo Padre Paolo VI (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 1448). In una lettera del novembre 1970 il Fondatore scrisse al Sindaco di Barbastro: “Per la carica esclusivamente spirituale che il Signore mi ha affidato, la mia regola di condotta è stata sempre di non fare mai alcuna raccomandazione, eccetto quando si tratta di una questione che riguarda la mia amatissima città di Barbastro o la sua terra. Sono convinto che, agendo in questo modo, compio il mio dovere di sacerdote e di barbastrino” (cfr C 4721, 13-XI-70).Sulla documentazione storica che si riferisce a questa questione e sui passi ufficali presso la Santa Sede il biografo non ha fatto ricerche, ritenendolo un argomento estraneo a questa storia. Sull’argomento, cfr Manuel Garri- do, Barbastro y el Beato Josemana Escrivà. Consiglio Comunale di Barbastro 1995, pp. 111-123.9 C 5793, 29-1-1966 (Appunto II, pp. 305-306).10 C 4882, 28-VI-1971; cfr pure C 4721, 13-X-I-70.11 C4826, 28-111-1971.12 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 1; e Sum. 6296.13 Cfr Annuario della Vita Ufficiale, del Commercio e Industria, della Provincia di Logrono - 1915, edito da Hijos de Alesón, Logrono 1915. Per tutti i dati su quell’epoca (1915-1920) a Logrono, cfr la tesi di laurea di Jaime Toldrà, Fuentes para una biografia del Beato Josemarìa Escrivà, Fundador del Opus Dei, Università di Navarra, Pamplona 1994.14 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 1.
114
15 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 2; e Sum. 6298. Per alcuni anni dopo la guerra civile via Portales divenne via Generale Mola, e così compare in diversi documenti.16 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, PM, f 1297v, par. 9; e José Romeo, Sum. 7847.17 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 2; e Sum. 6298.18 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 9.19 C 2806, 14-1-1959.20 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 2.21 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T- 02865, p. 9.22 Ibidem.23 Cfr Appendice documentale, documento VIII.24 Cfr i resoconti in “La Rioja Ilustrada33 del 12-VIII-1907 e anche gli annunci in Annuario... della Provincia di Logrono, cit.25 I professori del S. Antonio erano “ laureati in Scienze o Lettere” , mentre sembra che non lo fossero quelli del S. Giuseppe. Nel 1917 era direttore del S. Antonio Bernabé Lopez Merino, docente dell’istituto.Quanto ai risultati scolastici, il signor José potè certamente notare sulla stampa locale dell’estate 1915, a grandi titoli, i risultati degli esami di fine anno: «Istituto di S. Antonio: Matriculas de Honor (Ottimo con Lode), 61; Sobresalientes (Ottimo), 128; Notables (Notevole), 123. Scuola di S. Giuseppe: Matriculas de Honor, 37; Sobresalientes, 98; Notables, 88; Aproba- dos (Sufficiente), 136; Suspensos (Bocciati), 2» (cfr quotidiano “La Rioja” , del 3, 6 e 8 luglio 1915).Per quanto si riferisce al carattere “ laico” , il S. Antonio, a giudicare dai resoconti giornalistici, aveva un cappellano fisso, che «in un bellissimo oratorio celebrava quotidianamente il Santo Sacrificio della Messa» (cfr il servizio Scuola di Studi inferiori e superiori di S. Antonio a Logrono, in “Rioja Ilustrada” , Logrono 12-VIII-1907). Ma forse la scuola cambiò conil passare degli anni, perché don Josemaria, in una annotazione privata del 17-XI-1930, scriveva: “Ricordo che sono andato per un certo tempo a una scuola diretta da laici, che si chiamava di Sant’A.; e di Sant’A. si ricordavano solamente una volta all’anno - nel giorno della sua festa - per fare una cerimonia religiosa, che serviva come pubblicità o propaganda della scuola” (Appunti, n. 105).26 Javier Echevarria, Sum. 1804.27 Paula Royo, Sum. 6298.28 Un noto storiografo carmelitano, riferendosi all’antico convento di Logrono, dice: «Quella casa fu una di quelle che maggiormente soffrirono dall’espulsione, poiché fu demolita per costruire un Istituto di scuola secondaria e il resto dell’antica proprietà fu trasformato in un giardino pubblico» (P. Silverio de Santa Teresa, Historia del Carmen Descalzo, tomo XIII, Burgos 1946, p. 832).
115
29 Cfr Appendice documentale, documento Vili. Nel giugno 1916 Josemaria fece gli esami del quarto anno, unico alunno libero a ottenere voti così alti.Le materie e i voti di quell’anno furono:- Precettistica Letteraria e Composizione: Ottimo con lode- Francese (secondo corso): Ottimo- Storia Universale: Notevole- Algebra e Trigonometria: Ottimo- Disegno (primo corso): Ottimo30 Le materie e i voti dell’anno scolastico 1916-1917 sono:- Psicologia e Logica: Notevole- Storia della Letteratura: Ottimo- Fisica: Notevole- Fisiologia e Igiene: Ottimo- Disegno (secondo corso): OttimoCfr pure Alvaro del Portillo, PR, p. 147.Come Direttore dell’istituto di Logrono, in data 26 settembre 1941 Don Calixto firmò una Certificazione Accademica Personale di don Josemaria (cfr Archivio dell’istituto “Pràxedes Mateo Sagasta” ).31 Javier Echevarria, Sum. 1819; cfr anche Francisco Botella, Sum. 5612. Mons. Alvaro del Portillo riferisce di aver avuto una volta una lunga conversazione privata con don Calixto, durante la quale questi fece tali elogi delle virtù umane e cristiane del suo ex alunno, da indicarlo come caso esemplare per tutto l’istituto (cfr PR, p. 147).32 Cfr le Memorie Annuali dell’istituto, poi stampate e conservate nell’ufficio del Direttore dell’istituto “Pràxedes Mateo Sagasta” di Logrono; e Alvaro del Portillo, Sum. 99.33 Alvaro del Portillo, PR, p. 149. Cfr Javier Echevarria, Sum. 1822.34 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 74.35 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 2.36 Encarnación Ortega, PM, f. 29v.37 Alvaro del Portillo, Sum. 96; cfr anche Javier Echevarria, Sum. 1795.38 Cfr Javier Echevarria, PR, p. 79.39 C 4 8 8 9 ,19-VIII-1971.40 Cfr Francisco Botella, Sum. 5611; Juan Jiménez Vargas, PM, f. 909v.41 Cfr Archivio della diocesi di Calahorra: risposta alla richiesta di informazioni da parte dell’Amministratore Apostolico, Vescovo di Hippo (Calahorra, 8-XI-1918).42 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 67; Meditazione del 4-II-1962. Jo semaria non era ancora giunto a scoprire il profondo significato di ciò che scrisse in Cammino, cit., n. 699: “ Croce, travagli, tribolazioni: ne avrai finché vivrai. Per questa via è passato Cristo, e il discepolo non è più del Maestro” .
116
43 Cfr La Gazeta del Norte, Logrono, 28-VI-l975, p. 3 (intervista con Manuel Ceniceros).44 Cfr AGP, PO6, V, p. 267.45 C 4919, 14-X-1971.46 Commento udito da Mons. Javier Echevarria direttamente dalle labbra del Fondatore (cfr Sum. 1814).47 Lettera 24-X-1965, n. 29. In precedenza, in data 2-IX-1931, annotava negli Appunti (n. 259): “Tutto questo mi ricorda una certa caricatura giapponese: l’uomo pratico (apostolico, diremmo noi) mette il suo unico fanale a poca altezza, per illuminare di notte la sua famiglia, che s’intrattiene a chiacchierare illuminata dall’umile fiamma; l’uomo presuntuoso (lo pseudoapostolo) mette la sua lampada in cima a un palo di venti metri, perché da lontano si possa pensare: che bella luce hanno lassù! Ma essa non illumina gli estranei né riscalda la casa dei suoi, che per giunta restano al buio” .48 AGP, POI 1975, pp. 357-358.49 Cfr Francisco Botella, Sum. 5612.50 Meditazione del 14-11-1964. Al cambiamento e alla maturazione del suo carattere contribuirono in modo speciale i suoi genitori. Egli non dimenticò mai l’esempio dei suoi e il debito contratto con loro. Ecco una lettera del 1949: “Ho avuto molto vicino al mio cuore dei buoni modelli, che inquadravano con una nobile allegria le disavventure, che non esageravano il peso della Santa Croce e non trascuravano gli obblighi del proprio stato” [Lettera 8-XII- 1949, n. 202).In Messico, il 27 maggio 1970, durante un incontro con professionisti, Mons. Escrivà riassunse la storia con queste parole: “A mio padre non andò affatto bene negli affari. E ne ringrazio Dio, perché così io so che co- s’è la povertà; altrimenti, non lo avrei saputo. Vedete quanto bene ne è venuto? Ora amo di più mio padre... Era così meraviglioso che seppe serbare una serenità immensa e sopportare le difficoltà con pace e nobiltà cristiane” (AGP, POI 1970, p. 943).51 Cfr Appendice documentale, documento Vili.52 Lo scritto recita così: “ ... espone rispettosamente alla S.V. quanto segue: avendo ottenuto negli esami sostenuti nello scorso mese di giugno la votazione di Ottimo con lode nella materia “Precettiva letteraria e Composizione” e avendo diritto ad applicare una Lode in conformità con quanto previsto nella normativa vigente, rivolge istanza alla S.V. affinché voglia concedergli di applicare detta Lode alla materia “Storia Generale della Letteratura” . Nella certezza di ottenere quanto dovutogli dal retto criterio della S.V., prego Dio che ce la conservi per molti anni. Logrono, 1 settembre 1916” (documentazione scolastica dell’istituto Pràxedes Mateo Saga- sta, protocollo 265/6935).- Si è tradotta l’espressione spagnola Matncula de Honor; con il concetto della Lode, ben noto nel curriculum studiorum italiano (NdT).
117
53 Sul collegio dei docenti: cfr archivio dell’istituto “Pràxedes Mateo Saga- sta” di Logrono: «Personale facoltativo di questo Istituto durante l’anno scolastico 1916-1917, con indicazione della data in cui sono entrati a far parte del collegio docente i titolari di cattedra di ruolo e il numero da essi occupato nella graduatoria del 1° gennaio 1915, approvata con Ordinanza Reale del 9 febbraio 1916».54 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 64 e 65; Pedro Casciaro, Sum. 6331; Javier Echevarrfa, Sum. 1812.55 AGP, POI 1970, pp. 487-488; AGP, P06, V, p. 275; citato da Alvaro del Portillo, Sum. 65.Ecco il testo originale del Canto n. 3: «Como Santa Maria feze estar o monge trezentos anos ao canto de passarya...»:...«fez-lo entrar en hua orta / en que muitas vezes ja entrara; mais aquel dia / fez que hua font’achou mui crara e mui fremosa / e cab’ela s’assentou....A tan gran sabor avia / daquel cant’e daquel lais, que grandes trezentos anos / esteveo assi, ou mays...»(Cantigas de Santa Maria, edito da Walter Mettmann; Acta Universitatis Conimbrigensis, voi. II, 1961, pp. 6-7; Coimbra 1954-1972, 4 volumi).56 C 3647, 7-VI-1965. Quanto alle citazioni letterarie, cfr Gonzalo de Ber- ceo, Vida de Santo Domingo de Silos, strofa 757 (in Poetas Castellanos an- teriores al siglo XV, BAE, voi. 57, Madrid 1952, p. 63); e Menéndez Pidal, Cantar del Mio Cid, 3 volumi, Madrid 1908-1911, pp. 518, 910 e 1027 (per quanto si riferisce ai w. 54-55).- La frase “Io non c’entro per niente” è in italiano nel testo (NdT).I versi del poema citati descrivono la partenza del Cid per l’esilio, la sua entrata a Burgos, la sua preghiera nella cattedrale e l’uscita dalle mura, per poi attraversare il fiume Arlanzón:«La oración fecha, / luego cavalgava; saliò por la puerta / e Arlangon passava».Josemaria ne serbò in mente l’aroma poetico spirituale, al di fuori delle circostanze storiche, cosicché nel suo ricordo gli sfoghi appassionati si univano alla pia esaltazione. Il fatto è che la lettura del poema suscita nei giovani lettori una corrente impetuosa di prospettive ideali di fronte all’onestà, alla nobiltà, alla lealtà e cortesia dell’eroe. La riflessione su questi temi lasciò, senza alcun dubbio, un’orma profonda nei sentimenti del giovane Josemaria.«Il Cid - dice lo storiografo dell’eroe - risveglia sempre un grande e palpitante interesse con la sua grande opera contrastata e disapprovata (...) e sarà sempre un potente incitamento per la gioventù» (cfr Menéndez Pidal, La Espana del Cid, ed. Espasa-Calpe S.A., Madrid 1947, voi. I, prologo alla I edizione).57 Alvaro del Portillo, Sum. 75.58 Alvaro del Portillo, Sum. 87.59 Alvaro del Portillo, Sum. 87.
118
60 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 96.61 II Fondatore ammetteva di avere un carattere forte - un “caratteraccio” , diceva in italiano - commentando che «il Signore, con la sua grazia, aveva voluto servirsi anche di quel difetto per insegnargli a non cedere quando la difesa dei diritti di Dio esige di non cedere; a dire il vero, a noi non sembrava un difetto, bensì una parte dei doni che, anche dal punto di vista umano, Dio aveva concesso al nostro Fondatore e che egli ha messo sempre più al servizio della virtù soprannaturale della fortezza» (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 96).62 Dal tempo della distribuzione delle terre ai protestanti sotto ElisabettaI e della terribile repressione di Cromwell (1649), esisteva una ingiusta soggezione dei cattolici irlandesi ai nuovi padroni protestanti. Durante il XVIII e il XIX secolo fu lentamente corretta una legislazione civile e penale in base alla quale i cattolici erano discriminati nella vita politica e sociale.Continuava, nonostante tutto, la discriminazione per motivi religiosi; e quando, all’inizio del XX secolo, apparvero forti movimenti autonomistici, il motto dei protestanti dell’Ulster ha ancora il sapore dell’antico antipapismo: Home Rule is Rome Rule.Durante la prima Guerra Mondiale, quando l’Inghilterra era già belligerante, gli indipendentisti tentarono la sollevazione armata con l’aiuto della Germania. Le armi, inviate per mezzo di un sottomarino, furono catturate dagli Inglesi; ma la sollevazione, fissata per il 23 aprile 1916, scoppiò nella Settimana di Pasqua. Fu repressa dalle truppe inglesi e il 3 maggio ebbero inizio le esecuzioni capitali di alcuni ribelli, o patrioti. L’indipendenza irlandese non sarebbe stata riconosciuta che nel 1921.Gli avvenimenti furono riferiti dalla stampa spagnola. Comunque erano di dominio pubblico. Cfr The Times - History of thè War, voi. Vili, Londra 1916, pp. 414 e ss.63 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 76; cfr anche Javier Echevarria, Sum. 1816.64 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1825; Alvaro del Portillo, Sum. 101; Paula Royo, Sum. 6300.Lo ricordava negli ultimi anni della sua vita. Durante la permanenza in Brasile, nel 1974, il Fondatore dovette consacrare alcuni altari e, maneggiando con energia la cazzuola per collocare al suo posto la pietra sacra e sigillarla, diceva a un professionista che gli stava accanto: “Non ne sono proprio capace! Non è vero, figlio mio? E io che volevo diventare architetto... Tu non mi assumeresti neppure se fossi rimasto l’ultimo muratore disponibile” (AGP, P04 1974,1, p. 42).65 Appunti, n. 1688.66 Appunti, n. 1748.67 Meditazione del 14-11-1964.68 Alvaro del Portillo, Sum. 73, 79 e 81; Paula Royo, AGP, RHF, T- 05379, p .2 .
119
69 L’autorità dell’abate sugli altri parroci di Logrono è dimostrata dal fatto che i Superiori del Seminario di Saragozza chiesero le informazioni ufficiali sulla condotta del seminarista Josemarìa, nell’estate del 1921, proprio a don Antolfn, benché la famiglia fosse nella giurisdizione della parrocchia di Santiago el Reai (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 79).70 L’antichissima diocesi di Calahorra, il cui territorio ai tempi dei romani faceva parte della provincia Tarraconense, ebbe varie vicissitudini nel corso della storia. Quando, nel X secolo, Nàjera fu riconquistata ai musulmani, vi fu trasferita l’antica diocesi di Calahorra; e a Nàjera i vescovi risiedettero per più di un secolo, nonostante Calahorra fosse territorio cristiano fin dal 1046. Queste terre di frontiera fra la Castiglia e la Navar- ra subirono le tensioni politiche create dalle lotte fra regni cristiani, i cui re stabilirono la sede episcopale ora a Calahorra, ora a Santo Domingo de la Calzada. Durante il basso Medioevo, tuttavia, i vescovi risiedettero a Logrono, benché la diocesi portasse il nome di Calahorra e La Calzada. Nel XVII e nel XVIII secolo la diocesi andò perdendo importanza; e nel Concordato del 1851, nell’intento di ristrutturare le circoscrizioni ecclesiastiche, era prevista la costituzione, a spese dei territori di Calahorra e La Calzada, di una nuova diocesi, quella di Vitoria. Nel 1962 fu portato a termine lo smembramento dei territori e la creazione di un’altra diocesi. In questo modo si adempiva solamente in parte a quanto previsto dal Concordato, poiché la sede episcopale di Calahorra non fu trasferita a Logrono (cfr F. de Coello y P. Madoz, Mapa de Logrono con Umites de obi- spados, Madrid 1851; F. Bujanda, La diócesis de Calahorra y La Calzada, Logrono 1944; E. Hinojosa, Calahorra and La Calzada in AA. W , The Catholic Encyclopedia, III, New York 1908; AA. W , Diccionario de Hi- storia Eclesiàstica de Espana, op. cit., voi I, pp. 305 e ss.).Per tutti i dati su ecclesiastici, cariche e statistiche della diocesi, cfr YAnnuario Ecclesiastico, edito annualmente da E. Subirana a Barcellona (cfr la voce Diocesi di Calahorra e Santo Domingo de La Calzada).71 Durante gli anni che Josemarìa trascorse a Logrono, furono canonici della cattedrale, fra gli altri, don Valeriano Cruz-Ordónez, Rettore del seminario; don Francisco Xavier de Lauzurica, in seguito intimo amico del Fondatore quando fu Vescovo ausiliare di Valencia e poi Amministratore Apostolico di Vitoria e Arcivescovo di Oviedo; don Ciriaco Garrido Làza- ro, che fu per qualche tempo confessore di Josemarìa (cfr Annuario Ecclesiastico, cit., anni dal 1915 al 1920).72 Accanto alla chiesa delle Carmelitane c’era una foresteria. Il Vescovo di Calahorra, don Juan Plaza y Garcia, vide con soddisfazione l’arrivo dei Carmelitani a Logrono. Nella sua licenza c’era una clausola: «Per ora, due dei Padri carmelitani che devono formare la nuova Comunità potranno essere ospitati nella Foresteria di detto convento delle Madri carmelitane, pagando loro a questo titolo quanto sia giusto, e cercando quanto prima possibile di stabilirsi in una casa separata dal convento». Il 23 ottobre 1917 le monache di Logrono diedero il loro assenso (cfr P. Silverio de Santa Teresa, Historia del Carmen Descalzo, tomo XIII, Burgos 1946, p. 832).
120
73 Ibidem, p. 833.74 Secondo il Servizio Metereologico Nazionale nel dicembre 1917 a Logrono nevicò per 9 giorni e poi per 3 giorni nel gennaio 1918. Per la stampa locale (“La Rioja” ), le gelate e la neve si misuravano dalle conseguenze; per questo si dedicò a descrivere per filo e per segno la vita cittadina. Per esempio: fu ordinato di buttare paglia sulle strade per evitare le cadute dei passanti (29-XII-1917); freddo a -8 gradi il 30 dicembre, ma la temperatura discese fino a -16 gradi di minima il giorno successivo; i negozi di carne e di pesce dovettero chiudere per congelamento della merce; l’ultimo giorno dell’anno morirono, a causa del freddo, tre persone; il 2 gennaio 1918 nevicò abbondantemente per diverse ore e le tubazioni dell’acqua scoppiarono; il giorno successivo il vino gelò nelle borracce delle guardie notturne, una delle quali affermò di aver visto un lupo vicino alla caserma di artiglieria (cfr le sezioni: 25 anni fa e, 50 anni fa nelle date corrispondenti de “La Nueva Rioja” ).Il Fondatore non indicò una data precisa per il suo repentino cambiamento di vita e per il segno esterno che lo aveva causato, che viene ora descritto nel testo. Le espressioni che usò nelle sue conversazioni o nei suoi scritti sono sempre state vaghe: “Avevo quattordici o quindici anni...” {Meditazione del 19-III-1975); “ ... a partire dai quindici anni” (Lettera 29-XII- 1947 / 14-11-1966, n. 19); “Dai quindici o i sedici anni...” (Ibidem, n. 16); “Da quando avevo quindici anni...” (Lettera 25-V-1962, n. 41); “fino a sedici anni compiuti” (Appunti, 1637).Proprio questa imprecisione dubbiosa (14 o 15 anni; 15 o 16 anni) sembra indicare il riferimento mentale a un cambio di data annuale, o in relazione al Capodanno o al giorno del suo compleanno (9 gennaio), o forse a entrambi. Pertanto, valutando i dati sopra riferiti (la forte nevicata che chiuse l’anno 1917 e il fatto che furono spazzate a fondo le strade prima del 9 gennaio) non è azzardato supporre che la data sia da collocarsi fra la vigilia di Capodanno e il compleanno di Josemaria.75 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 77.Anche in altre testimonianze viene riferito il pensiero del Fondatore sull’origine della propria vocazione:«Nel 1964, parlandomi della sua vocazione al sacerdozio, Mons. Escrivà mi disse, facendo una domanda a se stesso: “ Quale è stata l’origine della mia vocazione sacerdotale? Una cosa apparentemente futile: l’orma dei piedi scalzi di un Carmelitano sopra la neve” ; e mi spiegò che, pensando al sacrificio di quel religioso per amore di Dio, chiese a se stesso che cosa stesse facendo per il Signore. Pensò allora che forse Dio lo chiamava in quel momento, lì sulla strada, e che, se così fosse stato, per il suo amore al- l’Eucaristia si sarebbe chiamato fra’ Amatore di Gesù Sacramentato» (Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4279).«Il Fondatore raccontava che gli aveva fatto una grande impressione vedere sulla neve le orme di un Carmelitano scalzo; pensò allora che lui faceva poco per Dio. E scoprì che il Signore si aspettava qualcosa di concreto da lui» (Encarnación Ortega, PM, f. 30).«Il Padre, a quanto mi disse, cominciò a sentire il desiderio di una vita cri
121
stiana più perfetta e impegnata quando, durante l’inverno 1917-18, osservò sulla neve le impronte dei piedi di un religioso Carmelitano (...). A quanto disse, sentì la chiamata al sacerdozio dopo aver visto quelle orme sulla neve» (José Luis Muzquiz, PM, f. 350v).Sull’episodio delle orme sulla neve, fra gli altri, cfr pure Francisco Botella, Sum. 5610; Pedro Casciaro, Sum. 6337.76 Meditazione del 14-11-1964.«Si è trattato di un cambiamento - afferma Mons. Alvaro del Portillo - dettato dalla sua disponibilità a fare qualcosa di grande, di eroico se fosse stato necessario, per il Signore; è la disponibilità che cerca attivamente di seguire la Volontà divina» (Sum. 80; cfr pure Sum. 94).«Fu nel dicembre 1917 o nel gennaio 1918 che si rese conto per la prima volta che il Signore lo chiamava al suo servizio, ma senza sapere in che cosa né in che modo. Da allora incominciò a cercare in tutti i modi di raggiungere una sempre più intensa intimità con Dio, e si dedicò all’orazione e alla vita di pietà e di penitenza con vera generosità» (Javier Echevarrfa, Sum. 1831). Cfr anche José Luis Muzquiz, PM, f. 349v.77 Lettera 25-1-1961, n. 3.78 Meditazione del 19-111-1975. Cfr Appunti, n. 179, nota 193.79 I testimoni usano espressioni diverse, ma che coincidono nella sostanza: «Gli suggerì di farsi Carmelitano scalzo» (Alvaro del Portillo, Sum. 84); «Gli propose di farsi Carmelitano» (Javier Echevarrfa, Sum. 1808; «Questo padre cercò di verificare se in lui ci fosse un germe di vocazione carmelitana» (José Ramon Madurga, PM, f. 270v).80 “Fu mia Madre del Carmelo a spingermi al sacerdozio. Io, Madre mia, fino a sedici anni compiuti avrei riso di chi avesse detto che avrei indossato una tonaca. Fu all’improvviso, alla vista di alcuni religiosi Carmelitani, scalzi sulla neve... Così sei obbligata, dolce Vergine dei Baci, a condurmi per mano come un tuo bimbo piccolo!” (Appunti, n. 1637). (La “Vergine dei Baci” , come si dirà più avanti, era una statuetta della Madonna di sua proprietà).81 Scrisse negli Appunti, n. 290: “Senza dubbio Gesù voleva che io gridassi dalle mie tenebre, come il cieco del Vangelo. E gridai per anni, senza sapere che cosa chiedevo. E ho gridato molte volte la preghiera “ut siti” , che sembra chiedere un nuovo essere” .82 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 84; Javier Echevarrfa, Sum. 1808 e PR, p. 131; Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4280; Pedro Casciaro, Sum. 6337.Lo stato ecclesiastico, come sacerdote secolare, gli lasciava una libertà di scelta e di movimento che gli consentiva di badare alle necessità della famiglia, cosa che considerava un dovere di giustizia; di svolgere una professione civile compatibile con il sacerdozio, come facevano alcuni docenti dell’istituto; e di avere maggiore disponibilità di fronte alle richieste del Signore, dato che non sarebbe stato vincolato dal voto di obbedienza.Mons. Escrivà conservò per tutta la vita un grato ricordo di questo religioso. Nel 1938 si rividero a Burgos (cfr Appunti, n. 1484). Padre José Miguel
122
morì il 23 settembre 1942 (cfr le rassegne biografiche in occasione della sua morte in “Ecos del Carmelo y Fraga” , Burgos 15-XII-1942, pp. 212- 214, e in “El Monte Carmelo” , 44 (Burgos 1943), p. 58).83 Appunti, n. 289. Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 159; Pedro Casciaro, Sum. 6337; José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 2.Quando stava al seminario di Logrono scrisse qualche volta alla zia Carmelitana. Lettere che furono distrutte, secondo l’uso delle Carmelitane, dopo esserse state lette. In Appunti, n. 98, esiste un altro riferimento a questo convento di Carmelitane: “Forse sarebbe opportuno trovare persone che, in modo specialissimo, si preoccupassero di pregare e di soffrire per coloro che lavorano. Le monachelle del Convento di S. Michele di Huesca (le prediligo) e i lebbrosi di Fontilles lo faranno molto bene. Inviare loro un’elemosina mensile, chiedendo preghiere e sofferenze. Per quanto possiamo dare loro, ne ricaveremo un guadagno ben maggiore” .84 AGP, P04 1974, II, p. 398 (il testo citato si trova anche in Alvaro del Portillo, Sum. 105).“Si sbagliava!” , nel senso che non poteva immaginarsi la vita del Fondatore dell’Opus Dei, attorniato dall’affetto umano e soprannaturale dei suoi figli spirituali; e anche nel senso che un sacerdote innamorato di Dio non sente mai la solitudine, poiché è sempre in compagnia del suo Amore, come ripeteva Mons. Escrivà.85 «L’ho sentito raccontare più volte - riferisce Mons. Alvaro del Portillo- che, dopo avere rivolto al Signore questa richiesta, piuttosto precisa, con la supplica esplicita che fosse un maschio, non se ne preoccupò più» (Sum. 111).Cfr pure Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4281; José Romeo, AGP, RHF, T- 03809, p. 3; Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 4.Una nota di coscienza scritta durante il ritiro spirituale a Segovia, nel 1932, riporta quali fossero allora le sue disposizioni interiori e come fosse disposto ad adempiere ai suoi obblighi filiali verso la famiglia, prima di decidersi a essere sacerdote: “ Se fossi rimasto laico - mi conosco perfettamente per dirlo - o non mi sarei sposato o lo avrei fatto quando fossi stato in grado di mantenere decorosamente due case: quella di mia madre e la mia” (Appunti, n. 1688).86 Don Antolin Onate Onate fu Abate della Collegiata dal febbraio 1905 fino al gennaio 1943, in cui morì. L’Abate era anche parroco, perché alla Collegiata era assegnata una circoscrizione parrocchiale. Alcuni anni dopo fu lui a informare l’arcivescovado di Saragozza affinché Josemaria potesse ricevere gli ordini minori. Attualmente non esiste a Logrono la carica di Abate, bensì quella di Decano con il relativo Capitolo, dato che la Collegiata è diventata Con-cattedrale della diocesi, che ora si chiama di “ Calahorra, La Calzada y Logrono” (cfr Annuario Ecclesiastico, cit.; e Diccio- nario de Historia Eclesiàstica de Espana, op. cit., voi I, pp. 305 e ss.).87 Don Albino Pajares era cappellano militare. Nel maggio 1913 vinse il concorso per entrare nel Corpo Ecclesiastico delVEsercito. Fu destinato a
123
Logrono, al Reggimento di Fanteria “ Cantabria” , n. 39, dal febbraio 1917 al maggio 1920.Josemaria fu riconoscente per tutta la vita a questi sacerdoti che lo aiutarono agli inizi della sua vocazione sacerdotale (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 110; e Javier Echevarria, Sum. 1809).88 Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 2. Una cognata della signora Dolores ricorda una visita fatta a Logrono: «Andammo anche noi a Logrono, in casa di José e Lola: era un appartamento simpatico, sistemato con gusto. Ci parlarono della decisione di Josemaria di farsi sacerdote. Non posso precisare i particolari, ma ricordo che Josemaria era in contatto con un carmelitano e che anzi, in un primo momento, aveva pensato di farsi carmelitano, ma subito vide che non era questa la sua strada, bensì quella di sacerdote secolare» (Carmen Lamartin, AGP, RHF, T-04813, p. 2). Gli altri testimoni dicono invece che non pensò di farsi carmelitano.Cfr anche Javier Echevarria, Sum. 1829; Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, PM, f. 1298.89 Cfr Appunti, n. 959, in cui ricorda don “ Ciriaquito” fra i propri confessori. Don Ciriaco Garrido Làzaro fu nominato coadiutore di Santa Maria della Rotonda nel 1899; nell’ottobre del 1916 fu nominato canonico qua- si-penitenziere. La sua principale attività pastorale fu il confessionale. Morì a Logrono nel 1949 (cfr breve ricordo biografico nella pubblicazione di F. Abad, Las Adoratrices de Logrono. Un siglo al servicio de la Rioja, Logrono 1984, pp. 40-42).Sulle visite di don Josemaria alla Rotonda, cfr Javier Echevarria, Sum. 1810, 1846 e 2798.90 Cfr Appendice documentale, documento Vili. Aveva terminato gli studi e un certificato scolastico era sufficiente per provarlo. A certi effetti amministrativi la legge esigeva che si ottenesse il Diploma, per cui nella sua pratica personale universitaria risulta che «gli fu rilasciato il diploma di “Ba- chiller Superior” dal Rettore dell’Università di Saragozza (6-Vili-1923)». Circa il consiglio di suo padre di fare gli studi di Legge, cfr Javier Echevarria, Sum. 1829; Alvaro del Portillo, Sum. 102; e Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4280. Quest’ultimo testimone aggiunge che «fu un consiglio prudente» perché, come avrebbe commentato in seguito il Fondatore, il Signore se ne era servito per fargli acquisire una mentalità giuridica, che gli sarebbe stata poi molto utile.91 Don Albino Pajares gli diede lezioni private di latino durante l’estate: cfr Joaqum Alonso, PR, p. 1696; e Alvaro del Portillo, PR, p. 162.92 Vescovado di Calahorra e La Calzada, Bollettino Ecclesiastico, anno 59, n. 15, 4-IX-1918, p. 300.93 Ibidem, p. 294.94 Cfr F. Bujanda, Historia del viejo Seminario de Logrono, Instituto de Estudios Riojanos, Logrono 1948.Il Vescovo Juan Plaza y Garcia il 30 settembre 1914 riformò il piano di studi del Seminario (cfr ibidem, p. 179; e Bollettino Ecclesiastico, cit., an
124
no 55, n. 25, 29-X-1914, pp. 382-387, con il nuovo piano in cui sono elencate lezioni, professori e libri di testo per le Facoltà di Filosofia e Teologia).95 Cfr certificato: AGP, RHF, D-03385; l’originale è nell’archivio della diocesi di Calahorra.96 Bollettino Ecclesiastico, cit., anno 59, n. 20 (20-XI-1918), p. 368; e anche ibidem, n. 21 (5-XII-1918), p. 382.97 Cfr il certificato: AGP, RHF, D-03385. L’originale si trova nell’archivio del Seminario della diocesi di Calahorra, La Calzada e Logrono, protocollo n. 1136. L’istanza del richiedente (Logrono, 6-XI-1918) è accompagnata da un certificato di Battesimo (Barbastro, 29-VI-1918) e da quello di Cresima (Barbastro, ll-XI-1918).98 Cfr Statistica del Vescovado di Calahorra e La Calzada (nel XXV Anniversario della Consacrazione Episcopale delVEcc.mo e Rev.mo Vescovo Mons. Fidel Garda Martmez, 1921-1946), Logrono 1946, pp. 36-38.Cfr F. Bujanda, Historia del viejo Seminario de Logrono, op. cit., pp. 160- 161; e “ L<z Gazeta del Norte” (edizione di Rioja), Bilbao 30-IV-1978. Mons. Fidel Garcia Martmez iniziò i lavori del seminario che doveva riunire quello di Logrono e quello di Calahorra e che fu inaugurato nel 1929. Il vecchio seminario fu demolito nel 1934.99 Cfr Seminario Conciliare del Vescovado di Calahorra e La Calzada, stabilito in Logrono. Disciplina interna che devono osservare i Signori collegiali che vi appartengono, Logrono 1909. È diviso in: “Distribuzione del tempo”; “Modo di impiegare il tempo”; “Principali doveri” e “Proibizioni speciali” . Alcuni particolari elencati fanno sospettare quale fosse uno dei principali problemi della convivenza nel seminario: «Osservare con attenzione le regole di buona educazione in refettorio, nella ricreazione e con particolare cura quando si deve trattare con estranei».100 «Tutti i seminaristi che ho conosciuto e che avevano la famiglia a Logrono erano alunni esterni del seminario», dice Paula Royo (Sum. 6301). Era il Vescovo che dispensava dall’obbligo dell’internato (cfr Regola n. 16: Bollettino Ecclesiastico, cit., 4-IX-1918, p. 298). Nei seminari spagnoli, gli esterni erano più del venti per cento (cfr E. Subirana, ed., Annuario Ecclesiastico, Anno 1925, Barcellona 1925; e Alvaro del Portillo, Sum. 116. Cfr anche Javier Echevarria, Sum. 1835).101 Màximo Rubio, Sum. 6283; e Javier Echevarria, Sum. 1840.102 Cfr intervista a Amadeo Bianco (AGP, RHF, D-05390); e Bollettino Ecclesiastico (29-X-1914), p. 387, dove le lezioni di catechismo sono previste alle dieci del mattino. Cfr anche Alvaro del Portillo, PR, p. 179; Javier Echevarria, Sum. 1844; José Ramon Madurga, PM, f. 272v.103 II cambio di domicilio risulta, fra altri documenti, dalle registrazioni della parrocchia di Santiago el Reai, nella cui circoscrizione si trovava anche via Canalejas, in cui le case non avevano numero, bensì delle lettere; l’indirizzo degli Escrivà era: via Canalejas L.
125
104 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. I l i ; anche Encarnación Ortega, PM, f. 32; José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 3.105 Appunti intimi, n. 1688. Uno dei testimoni riporta un commento del Fondatore sulla nascita di suo fratello: “Santiago nacque a seguito di una mia preghiera al Signore; è chiaro, perché è nato dieci mesi dopo (il 28 febbraio 1919). Mia madre da dieci anni non aveva più avuto figli. I miei genitori erano fisicamente sfiniti dalle molte contrarietà e avanzati negli anni” (Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4281).Il ginecologo che assistè la signora Dolores fu il Dottor Suils; uno dei suoi figli era compagno di Josemarfa nellTstituto e lo aiutò a Madrid durante la persecuzione religiosa (cfr Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T- 04152/1, p. 100).106 L’originale dell’atto di battesimo si trova nell’archivio della parrocchia di Santiago el Reai, Libro dei Battesimi XXV, foglio 370, n. 579, e dice quanto segue: «Santiago Justo Escrivà Albàs. Nella città di Logrono, capoluogo della provincia omonima, Diocesi di Calahorra e La Calzada, il due marzo millenovecentodiciannove, io don Hilario Loza, sacerdote della parrocchia di Santiago El Reai di detta diocesi, ho battezzato solennemente un bambino al quale ho posto i nomi di Santiago Justo, dandogli come avvocato S. Giuseppe. È nato, a quanto dichiarato, il 28 febbraio scorso alle ore otto, in via Canale) as L; è figlio legittimo di José Escrivà, nativo di Fonz (Huesca) e di Maria Dolores Albàs, nativa di Barbastro; suoi nonni paterni sono José Escrivà e Constancia Corzàn, nativi di Fonz; nonni materni, Pa- scual Albàs e Florencia Blanc, nativi di Barbastro; suoi padrini sono stati José Maria Escrivà e Carmen Escrivà, nativi di Logrono, che ho avvertito della parentela spirituale e degli obblighi contratti; testimoni Marco Lopez e José Ruiz, qui residenti. In attestazione di quanto sopra firmo nella stessa data. Hilario Loza. Nota a margine: Per disposizione dell’Illmo. Signor Giudice Diocesano si attesta che il primo cognome “Escrivà” di Santiago viene modificato nel senso di chiamarsi “Escrivà de Balaguer” . Il parroco: J. Santamaria».Ci sono alcuni piccoli errori nell’atto, come il fatto che il nonno appaia come nativo di Fonz, e Josemarfa e Carmen di Logrono.107 Sui piani di studio e i libri di testo della materia, cfr Bollettino Ecclesiastico, cit., n. 25, 29-X-1914, p. 382.I voti ottenuti da Josemarfa negli anni scolastici 1918-19 e 1919-20 sono riportati in diversi luoghi: Bollettino Ecclesiastico, cit., anno 60, n. 14, 14- VII-1919, p. 230; ibidem, anno 61, n. 12, 10-VII-1920, p. 190; AGP, RHF, D-15020. Nel Libro dei Certificati di Studio, voi. I - che inizia nel 1912 - foglio 348, n. 693, della Segreteria del Seminario Metropolitano di Saragozza, gli atti relativi ai due anni di Logrono appaiono fusi in uno solo: 1919-1920. Cfr Appendice documentale, documento IX.108 Nelle istruzioni date per lo svolgimento dell’anno scolastico 1918-19 (.Bollettino Ecclesiastico, cit., n. 15, 4-IX-1918, p. 294) all’art. 3 si diceva: «Non sarà ammesso a iscriversi al primo anno di Teologia (corso abbrevia-
126
to) chi non ha compiuto i 21 anni». Tale norma non riguardava comunque Josemaria, che frequentò 5 anni di Teologia e non il corso abbreviato.109 Cfr Amadeo Bianco, AGP, RHF, D-05390; e Luis Alonso Balmaseda, AGP, RHF, D-05391.110 Cfr Pedro Baldomero Larios, AGP, RHF, D-05392; e Amadeo Bianco, AGP, RHF, D-05390.111 Màximo Rubio, Sum. 6279. José Maria Millàn fu uno degli alunni esterni con i quali fece stretta amicizia. Che fossero intimi amici è evidente da una lettera che questi scrisse al Fondatore il 6-IX-1933 per chiedergli consiglio: «Che te ne sembra? Tu mi avresti consigliato molto bene. Ho
! una grande curiosità di conoscere il tuo criterio (che sempre ho venerato)»(AGP, RHF, D-04833; cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 179); o anche da quella che il Fondatore diresse al Rev. José Maria Millàn il 25 novembre 1940: “ Carissimo Pepe, è vero che ci siamo ritrovati dopo vent’anni. Farà bene a tutt’e due (...). Quando ci vedremo, continueremo le nostre confidenze,
l Cerchiamo di farlo quanto prima” (C 903, 25-XI-40).112 L’originale si trova nell’archivio diocesano di Calahorra (non classificato). Una copia autenticata in AGP, RHF, D-09678.113 Dal 1915 al 1921 fu Rettore del seminario don Valeriano-Cruz Ordónez Bujanda; segretario, don Gregorio Lanz; e direttore di disciplina, don Gregorio Fernàndez Anguiano.Don Gregorio dava lezioni di Fisica, Chimica, Geologia, Fisiologia e Storia Naturale. Quando nel 1921 il nuovo Vescovo Amministratore Apostolico, Mons. Fidel Garcia Martinez, nominò se stesso Rettore del seminario, delegò di fatto il governo al nuovo vicerettore eletto, don Gregorio Fernàn-
1 dez Anguiano.Il Fondatore cita don Gregorio fra quelli che sostennero la sua vocazione. “Gesù, mi rendo conto con gratitudine che non ho mai potuto dire “Non habeo hominemì” ” (Appunti, n. 959). Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 118. Dopo aver lasciato la direzione spirituale con padre José Miguel, Josemaria ricorse a don Ciriaco Garrido Làzaro, canonico della Collegiata; e in seguito anche al vicerettore del seminario, D. Gregorio Fernàndez (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 85; e Javier Echevarria, Sum. 1809).114 Juan Cruz Moreno, AGP, RHF, T-07331. Questi, alunno esterno del seminario, aggiunge: «Si deve tener presente che il nostro orario prevedeva la recita del Rosario in comune, a metà pomeriggio, il che significa che egli ne recitava almeno due parti».115 Mons. J. Echevarria racconta, a questo proposito, che mentre accompagnava il Fondatore in visita alla Collegiata di Logrono nel 1972, l’affol-
i lamento di antichi ricordi gli fece sgorgare dall’anima una sincera confessione: “Ho passato qui molto tempo in adorazione di Gesù Sacramentato!” e con gioia devota ripeteva: “ quante ore ho passato qui!” (Sum. 1846 e 1810).116 Màximo Rubio, Sum. 6278.117 Paula Royo, Sum. 6297 e 6304.
127
118 Màximo Rubio, Sum. 6291.119 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 95.120 Appunti, n. 53.121 La condizione sociale del sacerdote - a parte la deferenza religiosa - dipendeva dal posto o dall’incarico che svolgeva. Nei paesi era una delle forze vive, come si diceva allora, insieme al sindaco, al medico, al farmacista e al maestro. Ma non erano molti i sacerdoti secolari che avevano accesso, per il loro prestigio personale, alle alte sfere della società. In alcuni documenti dell’epoca si intravede un sottofondo di ammirazione per il fatto che Josemarìa avesse fatto il liceo. Per esempio, quando il Rettore del seminario informa che l’interessato «proviene dal liceo dell’istituto ed è diplomato in Arti» (AGP, RHF, D-09678).In Spagna, le confische dei beni ecclesiastici e la conseguente mancanza di mezzi materiali contribuirono a rendere deficitaria la formazione del clero, poiché molte diocesi non avevano ancora dei Seminari Conciliari o mancavano di mezzi per il loro buon funzionamento. Il Concordato del 1851 cercò di porvi rimedio, in modo che le diocesi avessero «almeno un seminario sufficiente all’istruzione del clero» (art. 28).Si cercò, sempre con il Concordato, di sistemare la situazione economica fissando le dotazioni statali per il sostentamento del Culto e del Clero in ragione dei beni ecclesiastici confiscati. Ma l’instabilità dei governi, le crisi finanziarie dello Stato nel corso del XIX secolo e la disorganizzazione amministrativa ridussero il clero alla miseria. La retribuzione statale diminuì nel corso degli anni. Questa situazione, indirettamente, si rifletteva sul livello sociale delle persone che entravano nei Seminari.122 AGP, P04 1974, II, p. 398.123 Meditazione del 14-11-1964.124 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 109.125 AGP, P03 1975. p. 218. Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 104; cfr J a vier Echevarria, Sum. 1834; Encàrnación Ortega, PM, f. 30v.126 Appunti, n. 179, nota 193.117 Appunti, n. 127; cfr B. Josemarìa Escrivà, Forgia, Milano 19965, n. 582. La testimonianza di Mons. Pedro Cantero ci fa capire come Josemarìa conservava nella sua purezza la vocazione sacerdotale dodici anni dopo essere entrato in seminario: «Compresi (nel 1930) che Josemarìa era un sacerdote con un grande spirito di orazione e Amore di Dio e con una grande dedizione. Ciò che più mi edificava era, senza dubbio, questa dedizione a Dio. Pur essendo egli un uomo con doti umane eccezionali, atte a farlo eccellere in molte attività, lo vedevo distaccato da tutto: aveva lasciato tutto; anche cose legittime, come tutto ciò che riguardava il “ fare carriera ecclesiastica” , come dicevamo allora. Non aveva alcuna aspirazione a risplendere umanamente e non lo muoveva altro pensiero che la piena dedizione al servizio della Chiesa, dove e nel modo in cui Dio lo aveva chiamato» (AGP, RHF, T-04391, p. 5).
128
128 Meditazione del 14-11-1964.129 Appunti, n. 1594.130 Maria del Carmen Otal Marti, AGP, RHF, T-05080, p. 3; cfr Joaqufn Alonso, PR, p. 1690.131 AGP, RHF, D-09678. Il documento originale si trova nell5Archivio diocesano di Calahorra. Alla lettera manoscritta di istanza al Vescovo è allegata, pure manoscritta, la richiesta di informazioni dell’Ordinario al Rettore del Seminario e la risposta di questi.132 Ibidem.133 Cfr AGP, RHF, D-09678. L’annotazione originale si trova nel Libro dei Decreti Arcivescovili - che è un libro di registrazioni iniziato nel 1919 - al fol. 156, n. 1489. Questo libro era archiviato nel Notariato dell’arcivescovado, ma successivamente fu trasferito, insieme a tutti i documenti di questo ufficio, all’Archivio diocesano di Saragozza.134 Cfr AGP, RHF, D-03296-3. Don Carlos, su richiesta della sorella Dolores, favorì l’entrata di suo nipote in seminario (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 126). Prima di partire per Saragozza, Josemarìa aveva ottenuto mezza borsa di studio, che “deve aver richiesto lo zio Carlos, l’Arcidiacono” (cfr Appunti, n. 1748).
129
Capitolo III
SARAGOZZA (1920-1925)
1. Il Seminario di S. Carlo
Nel 1960, nel discorso di investitura per la laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Saragozza, don Josemaria rammentò ai presenti alcuni suoi “ricordi incancellabili di tempi ormai lontani” :
“Anni trascorsi alPombra del Seminario di S. Carlo sulla via del mio sacerdozio, dalla tonsura clericale ricevuta dalle mani del Cardinale Juan Soldevila, in un raccolto oratorio del palazzo arcivescovile, fino alla prima Messa, celebrata un mattino di buon’ora, nella Santa Cappella della Vergine”1.
Del Seminario di S. Carlo fece parte fino al giorno dell’ordinazione sacerdotale. Nella scheda personale del seminarista, il Rettore del seminario scrive di suo pugno che vi era entrato il 28 settembre 19202. Quattro anni e mezzo esatti durò la sua appartenenza al S. Carlo, poiché Josemaria ricevette l’ordinazione presbiterale il 28 marzo 1925.
Allora a Saragozza erano in funzione due seminari per la preparazione al sacerdozio: il Seminario Conciliare e quello di S. Carlo. Gli studenti dei due centri fa
131
cevano insieme gli studi ecclesiastici nell’Università Pontificia, le cui aule occupavano il piano terreno di un edificio di Piazza della Seo (la cattedrale), di fianco al palazzo arcivescovile. La storia e le caratteristiche dell’edificio del S. Carlo, dove Josemaria risiedette dal 1920 al 1925, sono analoghe a quelle del vecchio Seminario di Logrono. Dal 1558 era stato una residenza dei Gesuiti. Aveva quattro piani e uno spazioso cortile interno, con un’ampia chiesa dagli eleganti stucchi in stile barocco, addossata al retro dell’edificio3. Edificio e chiesa furono incamerati nel 1767 dopo l’espulsione dei Gesuiti e ceduti poi da Carlo III per fondare il Seminario Sacerdotale di S. Carlo Borromeo, obiettivo del quale non era educare i giovani e farne dei virtuosi seminaristi; lo scopo del Reale Seminario aveva più ardite ambizioni: il miglioramento e l’istruzione del clero, impresa in piena sintonia con il Secolo dei Lumi. I suoi membri erano tutti dotti sacerdoti secolari, dotati di prestigio e vaste cognizioni. Dipendevano direttamente dall’Arcivescovo e a loro venivano affidati compiti speciali, quali la preparazione delle visite pastorali del prelato, l’esame degli ordinandi o la collaborazione alla concessione delle facoltà ministeriali.
Un secolo dopo, spenti i lumi dell’illuminismo e prosciugati i fondi, il vecchio istituto si ridusse a una mezza dozzina di sacerdoti, che si rifugiarono al secondo piano e si occupavano del servizio liturgico della chiesa4. Così stavano le cose quando, nel 1885, il Cardinale Francisco de Paula Benavides, che reggeva l’arcidiocesi, ebbe l’idea di creare un seminario per studenti poveri. A conti fatti, il cardinale vide che poteva disporre, oltre alle risorse economiche del patrimonio del S. Carlo, di tutta una serie di locali vuoti che potevano ospitare un centinaio di ragazzi. Infatti era evidente che per il piccolo gruppo di prestigiosi chierici - noti come “i signori del S. Carlo” - era decisamente eccessivo quell’enorme insieme di locali. Con grande rapidità portò a buon fine il
132
progetto e il nuovo seminario, con cinquantadue alunni borsisti, fu inaugurato il 4 ottobre 1886. Purtroppo i calcoli del Cardinale Benavides erano eccessivamente ottimistici. Il prelato non era un amministratore capace né aveva esperienza imprenditoriale; aveva solo lodevoli intenzioni. Incominciarono subito a piovere difficoltà e imprevisti. Non essendosi preoccupato prima del corpo insegnante, fu precipitosamente ottenuto dalle autorità che i seminaristi frequentassero, a titolo provvisorio, le aule del Seminario Conciliare5. Formula transitoria che il tempo s’incaricò di rendere abituale.
Una volta ottenuto «lo scopo caritativo di accogliere i molti giovani di famiglie povere che, ispirati da Dio, bussano alla porta del Santuario, con la nobile aspirazione di venire accolti nelle file levitiche», il cardinale si rese pure conto che ai suoi protetti mancava una normativa disciplinare. A questo si poteva più facilmente rimediare: si occupò personalmente di redigere un Regolamento, che apparve nel gennaio 1887. Nel preambolo, rivolgendosi «al Rettore, ai Direttori e agli alunni del nostro Seminario per i poveri di S. Francesco di Paola», esprime il desiderio che le regole servano al buon governo di detto seminario, «che tanto rianima il nostro spirito abbattuto, grazie alle fondate speranze che ci offre»6.
Ma il “Seminario per i poveri” trascinò una vita grama. Alla morte del Cardinale Benavides, nel 1895, l’arcivescovo Alda suo successore si propose di risanare le finanze dell’istituzione. Mise fine ai concorsi per le borse di studio e incominciò ad ammettere anche seminaristi in grado di pagare. Da allora in poi il S. Francesco di Paola, o “Seminario per i poveri” , fu conosciuto con il nome generico di S. Carlo, nome che useremo qui per maggior chiarezza. In poco o nulla si differenziava ormai dal Seminario Conciliare, salvo che per il numero degli alunni, per il luogo di residenza e per l’uniforme7. Il Conciliare aveva circa centocinquanta seminaristi, fra interni ed esterni, mentre il S. Carlo non arrivava a qua
133
ranta. Gli alunni del Conciliare avevano una mantella blu con una fascia inserita. L’uniforme del S. Carlo era una mantella nera, senza maniche, con una fascia rossa che recava il loro scudo: un sole con raggiera, al centro del quale si leggeva la parola CHARITAS; e, come copricapo, una berretta nera a quattro punte, rifinita con una nappa viola al centro8.
Al terzo piano del S. Carlo abitavano gli studenti di teologia mentre sopra, al quarto, c’erano le camere dei più giovani, quelli di lettere e filosofia. Le camere erano piccole, ma non vi era necessità di maggiore spazio poiché i mobili si riducevano al letto, un tavolo con una sedia, un portacatino con la brocca per l’acqua, il comodino con una bugia e la candela e un attaccapanni. La biancheria, i libri e quant’altro erano tenuti nella valigia o nel baule che ogni seminarista aveva portato con sé.
Gli impianti igienici erano in sintonia con la vetustà dell’edificio; con molta benevolenza li si poteva definire insufficienti. I seminaristi non disponevano che di un bagno per ogni piano, con un rubinetto per riempire d’acqua le brocche del portacatino. Vi era la luce elettrica, ma con tale scarsa e misera rete di illuminazione che occorreva per forza il complemento delle candele di sego. Infatti soltanto la cappella, il refettorio, la sala di studio, i corridoi e la scalinata avevano lampadine elettriche. Non così le camere individuali, per cui ogni settimana veniva consegnata a ogni seminarista una candela9.
Si alzavano alle sei e mezzo e avevano trenta minuti per la pulizia personale. Fu dopo la prima sveglia che Josemaria ebbe la prima sgradevole sorpresa, poiché non trovò da nessuna parte tracce di una doccia o di una vasca da bagno. Alle sette tutti facevano mezz’ora di meditazione nella cappella loro riservata del terzo piano, una stanza con il soffitto a volta, dove si diceva Messa in po
134
che occasioni e dove solitamente non si conservava il Santissimo10. Poi scendevano per la Messa nella chiesa di S. Carlo, entrando dal cortile del seminario. In chiesa erano loro riservate le prime panche e di solito la Messa era celebrata dal Presidente del Seminario.
Facevano la prima colazione in silenzio, mentre veniva letta 1’“Imitazione di Cristo” o un altro libro spirituale. Subito dopo uscivano tutti in fila per recarsi all’U- niversità. Evitavano di percorrere il Corso, che era la via di maggior traffico, e sotto la vigilanza degli Ispettori si immettevano nel dedalo di strade e stradine che conducono alla cattedrale della Seo.
Università Pontificia e Seminario Conciliare stavano nello stesso edificio. Il Seminario Conciliare, intitolato a S. Valero e S. Braulio, era stato fondato nel 1788 e, dopo varie peripezie, nel 1848 ebbe una nuova sede, edificata sull’area dell’antica Deputazione del Regno, ridotta in macerie dagli eserciti di Napoleone. Nel 1897 il suo corpo docente e i suoi corsi vennero elevati al rango di Università Pontificia, titolo che mantenne fino al 193311.
Gli alunni del S. Carlo, che non ebbero mai un corpo docente indipendente, vi ascoltavano due ore di lezione al mattino, inframmezzate dallo studio e dalla ricreazione, e rientravano verso le dodici e trenta per il pranzo. In refettorio si manteneva il silenzio, mentre un alunno leggeva qualche libro del Martirologio o della Storia Sacra, finché l’ispettore che presiedeva dava il permesso di parlare12.
Dopo un momento di ricreazione, uscivano ancora per dirigersi all’Università attraverso le stesse stradine percorse al mattino. Dopo un’ora di lezione ritornavano in seminario per fare merenda e dedicarsi allo studio. La sala di studio era comune, munita di banchi, e lo studio avveniva sotto la vigilanza di un Ispettore. Le ore di studio erano interrotte dalla recita del rosario e dalla lettura spirituale13.
135
Alle nove si cenava e subito dopo, recitate le preghiere della sera e fatto l’esame di coscienza, tutti si ritiravano a dormire.
2. D libro «De vita et moribus»
All’epoca, il Presidente del Seminario Sacerdotale di S. Carlo era Monsignor Miguel de los Santos Diaz Góma- ra; Vicepresidente era don Antonio Moreno Sànchez. Fra i sacerdoti appartenenti all’illustre fondazione veniva nominato il Rettore del Seminario di S. Francesco di Paola. Nel 1920 era don José Lopez Sierra, il quale aveva alle sue dipendenze due Ispettori che lo coadiuvavano nei compiti di governo e disciplina. Gli Ispettori venivano scelti fra gli studenti degli ultimi due anni di Teologia14. Una delle loro principali incombenze era quella di inoltrare le note disciplinari e ogni altra considerazione concernente la condotta dei seminaristi in un rapporto mensile che veniva esaminato dal Rettore e poi trascritto su un libro ufficiale. I giudizi del Rettore, una volta scritti, acquistavano valore definitivo.
Detto libro era costituito da fogli stampati di formato in folio, con una sezione destinata ai dati anagrafici del seminarista e, più sotto, cinque colonne intitolate: Pietà- Applicazione - Disciplina - Carattere - Vocazione. A fianco delle colonne venivano riportati i risultati degli anni accademici, divisi per anni; sull’altro lato c’era posto per le “osservazioni generali” . Il libro recava scritto sul frontespizio: “De vita et moribus degli alunni del Seminario di S. Francesco di Paola” . Questo famoso registro, che contiene in sostanza la storia e le gesta dei seminaristi, inizia a partire dal febbraio del 191315.
Il foglio dedicato a Josemarìa porta il numero 111. In alto, accanto ai dati anagrafici, si legge: «Suo referente è Don Carlos Albàs Blanc». Suo zio Carlos, l’arcidiacono, uomo di una certa influenza nell’ambiente ecclesiastico
136
di Saragozza, fu la buona e la cattiva ombra del seminarista. Ricevette subito il seminarista a braccia aperte e, probabilmente, si dovette a lui quanto trascritto dal Rettore due righe più sotto: «Usufruisce di mezza borsa di studio». Non si può dubitare delle buone disposizioni dell’arcidiacono nei confronti della famiglia, ma si deve aggiungere, a onor del vero, che solo una mezza dozzina di seminaristi del S. Carlo erano paganti.
Nelle prime settimane Josemaria uscì spesso a pranzare con suo zio Carlos le domeniche e altri giorni festivi, giorni consentiti dal Regolamento. Accettò anche gli inviti di un altro fratello della mamma, lo zio Mauricio, che era rimasto vedovo di recente e aveva una famiglia numerosa. Ma preferì, per evitare disturbo agli zii, diradare le visite domenicali. Oltretutto non gli piaceva fare cose diverse dagli altri e fruire di un trattamento speciale, che avrebbe potuto suscitare gelosie fra i compagni16.
Dieci giorni dopo la sua entrata in seminario, Josemaria fu nominato zelatore dell’Associazione dell’Apo- stolato della Preghiera per l’anno scolastico 1920- 1921; forse perché, fin dall’inizio, era stata scoperta in lui una solida vita di pietà. «Era l’unico dei seminaristi, a quanto ne so, che scendesse in chiesa nelle ore libere», dice un suo compagno17; ciò naturalmente non comporta un giudizio negativo sulla devozione degli altri seminaristi, dato che, come si è visto dall’orario, non scarseggiavano gli atti religiosi. Con precisione, ma senza pretesa di completezza, Jesus Lopez Bello, condiscepolo di Josemaria, ne fa un elenco: «Al mattino, in comune, offerta delle azioni; meditazione e santa Messa. Prima e dopo il pranzo, visita al Santissimo. Al pomeriggio, rosario e lettura spirituale. A fine giornata, visita al Santissimo ed esame di coscienza. Di sabato, nel pomeriggio, ufficio sabatino. Durante il mese di maggio, un atto mariano, con una predica. Le sette domeniche di S. Giuseppe. La novena dell’immacolata. Il settenario dell’Addolorata. L’ottavario al Bambino Ge
137
sù, a Natale. Ogni mese avevamo un ritiro e una volta all’anno gli esercizi spirituali»18.
In quell’orario dal ritmo incalzante, disseminato di atti religiosi, la devozione personale si manifestava piuttosto, come dice Aurelio Navarro, «nell’intensità e nella partecipazione con cui ciascuno cercava di vivere gli atti comuni»19. Allineato su questa idea, Arsenio Górriz, un altro seminarista, riferisce che Josemaria «era devoto, molto devoto» e che lo si notava «più che per quello che faceva, per come lo faceva»20. In seminario proseguiva nell’abituale recita delle tre parti del rosario e il suo cuore palpitava, impaziente, nel ripetere giaculatorie: “Domine, ut videaml”, “Domine, ut siti” , che mantenevano viva la chiamata del Signore avvenuta a Logrono. E quasi a rafforzare questo stato di allerta, approfittando del tempo libero all’Università Pontificia, si recava alla vicina basilica del Pilar a chiedere le stesse cose davanti all’immagine della Madonna: “Domina, ut siti ”21.
L’arrivo delle feste interrompeva la monotona successione dei giorni nel calendario ecclesiastico. In tali occasioni i seminaristi si alzavano mezz’ora più tardi, non avevano lezioni e si godevano una passeggiata. Sulle tavole del refettorio compariva un gradito rinforzo di cibi e di vino. La diversità del pasto era la vera caratteristica delle feste, poiché veniva servito agli studenti un piatto principale, di carattere straordinario22. (Comunque, veniva sempre rispettata la scala gerarchica. I sacerdoti del S. Carlo avevano ogni giorno due piatti, uno di carne e uno di pesce. Motivo per cui la perifrasi usata dai seminaristi per indicare i prestigiosi sacerdoti della casa come “ i signori del S. Carlo” aveva un certo ironico tono di ammirazione).
X * * *
Josemaria entrò nel Seminario di S. Carlo con uno spirito di distacco. Sapeva che un nuovo genere di vita, la convivenza con altri seminaristi, avrebbe necessaria
138
mente significato un cambiamento di abitudini e la rinuncia a molte comodità domestiche. Quasi ad esprimere simbolicamente tale rinunzia, giunto in seminario regalò al portinaio il tabacco, la pipa e gli altri ammennicoli da fumatore che portava con sé. Così, con un gesto definitivo, smise di fumare23. Ma certo non poteva immaginarsi che questa tappa della sua vocazione sacerdotale sarebbe stata per lui un’autentica prova del fuoco. La diversità di cultura e di abitudini, a cui non era avvezzo, non fu tuttavia il maggiore ostacolo da superare, perché Josemaria, per adattarsi alla mentalità e alle abitudini dei seminaristi, cercava di avere buoni rapporti con tutti, dimostrandosi servizievole24.
Lo sforzo per adattarsi alle circostanze del S. Carlo iniziava di primo mattino. Josemaria, che a casa sua si lavava con acqua fredda ogni giorno dalla testa ai piedi, estate e inverno, aveva bisogno di riempire diverse brocche d’acqua tutte le mattine per non interrompere questa sana abitudine25.
Nel seminario non entravano mai donne. Alcuni servitori si dedicavano alle pulizie generali. (E non occorre insistere sul fatto che la pulizia dei vari ambienti lasciava piuttosto a desiderare). Quanto alla biancheria personale e ai cambi delle lenzuola, ciascuno si arrangiava. Josemaria ebbe la fortuna che a lavargli la biancheria provvedessero in casa dello zio Carlos26. Pensava lui a pulirsi accuratamente le scarpe e a spazzolarsi la veste talare, come ordinava il Regolamento27.
Leggendo qua e là le dichiarazioni dei compagni di Josemaria circa le caratteristiche principali della sua persona, si vede come esse siano invariabilmente orientate sulla sua affabile cortesia e proprietà nel vestire. «Josemaria era un signore dalla testa ai piedi, in tutto il suo comportamento: nel modo di salutare, nel modo di trattare le persone, nel modo di vestire, nell’educazione con cui mangiava - racconta uno dei suoi compagni senza avvedersene, rappresentava un forte contrasto
139
con ciò che allora era consueto»28. E sul suo aspetto e sul modo di presentarsi un altro seminarista racconta quanto accadde un giorno in cui quelli del S. Carlo andarono a far visita al manicomio: «Vedemmo molti pazzi, alcuni dei quali facevano veramente impressione; per esempio, uno che diceva di comandare più di ogni altro perché lui era il re in persona; e, alla fine, una vecchia pazza si mise a dire che Josemarìa era il suo fidanzato, perché lo vedeva di bella presenza e ben vestito. È proprio vero che lo si vedeva sempre molto a posto»29.
Con il passare degli anni il figlio assomigliava sempre di più a suo padre quanto a distinzione e ai modi. Ma che cos’era accaduto del bambino che a Barbastro si nascondeva sotto il letto quando aveva un vestito nuovo? E del ragazzo che si rifiutava di mettersi gli abiti migliori quando erano in programma le foto di gruppo a scuola? Da quei giorni la famiglia aveva percorso molta strada. La fortuna aveva voltato le spalle al signor Escrivà; la povertà lo obbligava ora a conservare un abito usato come se fosse nuovo.
La cura della persona e la pulizia mattutina gli valsero ben presto un soprannome:
“Quando sono entrato in seminario mantenni l’abitudine di tenere ben puliti scarpe e abiti; per questa ragione, incomprensibilmente, per alcuni che prima che entrassi in seminario mi avrebbero trattato con la massima considerazione, io divenni “il signorino” ! Un altro motivo di strana meraviglia, per quei buoni seminaristi (che erano tutti migliori di me e che poi, in gran parte, hanno esercitato il loro ministero come ottimi sacerdoti, parecchi di loro fino al martirio) veniva dal fatto che mi lavavo - cercavo di fare la doccia - tutti i giorni: anche per questo c’era l’epiteto di “signorino””30.
L’espressione “ signorino” è chiaramente un eufemismo. L’epiteto aragonese che alcuni compagni gli appic
140
cicavano, quasi un insulto, si potrebbe tradurre “damerino”31. Sapendo quanto gli dava fastidio la mancanza di igiene o di pulizia, uno degli studenti, dai modi rozzi e aggressivi e che puzzava di sporco e di sudore, gli si avvicinava per strofinarsi a lui con aria sfacciata. «Si deve avere odore d’uomo!», gli diceva. Finché un giorno, con le ascelle zuppe di sudore, gli passò la manica sulla faccia. Josemaria fu sul punto di esplodere, ma si dominò, opponendo all’affronto parole fin troppo misurate: “Non si è più uomini per il fatto di essere più sporchi”32.
La cosa non finì lì. Le burle si rivolsero ben presto alla sua vita di pietà. Le visite quotidiane alla basilica della Madonna del Pilar gli meritarono il nomignolo di “rosa mystica” , motto di pessimo gusto in bocca a un seminarista e irriverente nei confronti della Madonna33. Furono oggetto di critica anche le lunghe visite al Santissimo nella chiesa di S. Carlo e il suo zelo apostolico nelle conversazioni. “Ecco che viene il sognatore!” , dicevano tra loro ad alta voce i compagni, riecheggiando le parole dei figli di Giacobbe. Alcuni in seminario lo conoscevano come “il sognatore”34. Josemaria cercava di fare orecchio da mercante ai soprannomi, anche se gli dispiacevano perché l’insulto lo feriva in quanto voluta- mente malizioso e, ancor più, perché venivano infranti i legami di convivenza e di amicizia35.
Questo comportamento di alcuni compagni, dovuto principalmente a mancanza di educazione, invidia o ignoranza, lasciò un penoso ricordo nella sua anima. Dieci anni dopo, scrivendo degli appunti riservati, Josemaria si sfogava a tu per tu con il Signore e iniziava lamentandosi della bassa estrazione sociale delle vocazioni sacerdotali e del deficitario livello di educazione e di cultura esistente in alcuni seminari:
“Vocazioni dei seminari, ho detto: peccato che le famiglie, anche se sono devote, siano restie a inviare i propri
141
figli nei seminari! In molte regioni spagnole, nei seminari si vedono solamente, con rare eccezioni, figli di poveri braccianti” .E continua: “Dopo aver constatato che nei nostri Seminari si vedono magnifici esempi di virtù (...), mi permetto di dire, con la massima franchezza, che saranno pure santi coloro che vi abitano, ma molto male educati. Ci saranno delle eccezioni. Si soffre veramente quando si è nati e cresciuti in un altro ambiente”36.
Ricordando le difficoltà avute a Saragozza nel cammino della propria vocazione sacerdotale, così raccontava a un gruppo di persone che lo ascoltavano, il 14 febbraio 1964:
“Passò il tempo e successero molte cose dure, tremende, che non vi racconto perché a me non causano pena, ma a voi la produrrebbero certamente. Erano colpi di accetta che Dio nostro Signore dava per modellare - da questo albero - la trave che doveva servire, suo malgrado, per fare la Sua Opera. E quasi senza rendermi conto ripetevo: “Domine, ut videam! Domine, ut siti”. Non sapevo di che cosa si trattasse, ma continuavo ad andare avanti, avanti, senza essere all’altezza della bontà di Dio ma desiderando ciò che più tardi avrei ricevuto: una quantità di grazie, una dopo l’altra, che non sapevo come definire e che chiamavo operative, perché dominavano la mia volontà a tal punto che quasi non dovevo fare alcuno sforzo”37.
Le cose “ dure, tremende” , i “colpi di accetta” non sono, evidentemente, le grossolanità di alcuni seminaristi. Prova ne sia che l’eco degli avvenimenti cui si riferisce era così doloroso che, dopo quarant’anni, risuonava ancora nella sua memoria; in genere il fluire della vita lascia i ricordi studenteschi dormienti e tersi come le pietre levigate dalla corrente del fiume. (Passato il tempo, avrebbe definito “piccolezze” quelle imperti
142
nenze, ben poca cosa se paragonate al gran bene che aveva fatto alla sua anima la permanenza in seminario, del quale “non ricordavo che cose buone” )38. No; sono altri i ricordi del S. Carlo in cui bisogna individuare più amare radici.
Quel sacerdote che nel 1964 faceva resistenza a frugare nel passato mettendo in luce degli avvenimenti personali lasciò, a condizione che fossero resi di pubblica ragione solo dopo la sua morte, una piccola traccia di quei “colpi di accetta:” nel luglio 1934, mentre esaminava il percorso della propria vocazione sacerdotale, si domandava, a tu per tu con il Signore: “Dove sarei io ora, se tu non mi avessi chiamato?” . E rispondeva in coscienza:
“Forse - se tu non avessi impedito la mia uscita dal Seminario di Saragozza, quando credetti di aver sbagliato strada - mi starei agitando nei tribunali spagnoli, come fanno altri miei compagni di Università..., anziché al tuo fianco, proprio perché (...) ci fu un momento in cui mi sentii profondamente anticlericale, io che amo tanto i miei fratelli nel sacerdozio!”39.
Attraverso questa confessione si intravede la resistenza a seguire lo stile clericale imposto dall’ambiente. Nella sua anima si scatenò una terribile bufera, a motivo delle difficoltà incontrate al S. Carlo. Ma non dubitò mai del suo cammino. Alla fine, venne l’intervento di salvezza del Signore, che lo confermò nella sua vocazione.
Non deve meravigliare quindi che molti dei suoi compagni abbiano tratto delle conclusioni erronee sul futuro del seminarista di Logrono. Considerando la cultura e la buona educazione di Josemarìa, pensarono che non sarebbe arrivato a essere sacerdote, perché «aveva la possibilità di esercitare altre professioni migliori», come racconta uno dei domestici del seminario40. Questa ipotesi è tanto ingenua quanto gratuita. Rivela un comple
143
to misconoscimento dell’elevatezza delle mire di Josemaria, il quale fin dal primo momento si rese conto che non gli restava che una sola via: passare sopra alle impertinenze di qualche seminarista e insieme distaccarsi da certi gusti e inclinazioni, come si era un giorno distaccato dal tabacco e dagli strumenti del fumo. Altri furono, e ben diversi, gli ostacoli che si frapposero al suo cammino.
La vocazione di Josemaria aveva la caratteristica di non aver ancora raggiunto la sua pienezza. In virtù di questo fatto, la ragione ultima della sua presenza al S. Carlo nasceva dal desiderio di dare una risposta ai presagi d’amore che sentiva da circa tre anni. Né l’ambiente del seminario, al quale non era assuefatto, né le burleo la grossolanità di qualche compagno erano sufficienti a provocare una crisi di vocazione che mettesse alla prova la fedeltà del giovane alla chiamata divina. Subiva, invece, il turbamento emotivo di sentimenti anticlericali, che salivano, come una marea, dentro la sua anima, generando una sana ribellione contro ogni tentativo di abbassare la sua tersa concezione del sacerdozio a una lucrativa “carriera ecclesiastica” . Su questo punto era del tutto riservato, anche se in qualche modo ciò traspariva all’esterno. «Si notava che portava dentro qualcosa che faceva sì che il seminario rappresentasse una cornice troppo stretta per le sue aspirazioni», dice uno dei suoi compagni41. In fondo, era un “ sognatore” di cose divine. Per tutta la vita lo fu. E avevano in un certo senso ragione quelli che lo chiamavano con questo nome.
Ad anno scolastico già avanzato, arrivavano al Rettore, don José Lopez Sierra, confuse notizie sul seminarista di Logrono. Il comportamento indipendente del nipote dell’arcidiacono, la singolarità della sua pietà, le sue personali idee e commenti sulla carriera ecclesiastica e vaghe notizie su soprannomi, insulti e discordie, tutto contribuì a far sì che il Rettore si formasse un’opinione per nulla favorevole di Josemaria il quale, a suo modo
144
di vedere, viveva e agiva in evidente contrasto con la maggior parte dei seminaristi.
Alla fine dell’anno scolastico, nell’estate del 1921, il Rettore mise per iscritto la propria opinione sul giovane, nella pagina riservata a lui del libro De vita et mori- bus: «Pietà: bene; applicazione: regolare; disciplina: regolare; carattere: incostante e altero, ma educato e attento; vocazione: sembra averla»42.
La notazione “ regolare” con la quale ne definisce l’applicazione e la dedicazione allo studio non concorda con gli eccellenti risultati ottenuti negli esami, che in effetti vengono trascritti subito dopo, ad uno ad uno, dallo stesso Rettore. Il “regolare” in disciplina è smentito dalle note informative mensili dell’ispettore incaricato di mantenerla; Josemaria è uno dei pochi alunni ai quali non è stato imposto neppure un castigo durante l’anno. Per quanto poi si riferisce al carattere, l’apprezzamento sembra pensato ed equilibrato; tuttavia non rispecchia la testimonianza degli altri seminaristi43.
Quanto alla vocazione, non vi è motivo di dubitare dell’onestà del Rettore nel giudicare Josemaria; ma un “ sembra averla” , benché in apparenza innocente, appare un po’ diffidente e, scritto dal Rettore nel libro De vita et moribus alla fine dell’anno scolastico, rivela una certa sfiducia. D’altra parte, l’ispettore Santiago Lucus qualifica la vocazione di Josemaria con un “bene”44, il che poco si adatta al reticente giudizio del Rettore. Quali ragioni possono spiegare questo inconsapevole pregiudizio di don José Lopez Sierra? Forse lo lasciava inquieto il piccolo turbamento che il nuovo seminarista stava causando nel S. Carlo? È possibile che l’aspetto e il modo di essere di quel giovane gli facessero temere per la sua perseveranza? Un fatto è certo: il Signore permise che il Rettore travisasse i fatti che aveva sotto gli occhi. E quali dubbi poterono assalire Josemaria, per confessare poi che credeva di “aver sbagliato strada” ? Quando fu sul punto di uscire dal seminario?
145
Sembra chiaro che, in funzione della disciplina e dell’andamento generale del seminario, il Rettore avesse dubbi molto seri sull’opportunità che Josemarìa risiedesse al S. Carlo. L’interessato, da parte sua, serbò per sé questa terribile prova interiore, senza trattenersi a riferire gli ostacoli che trovò sul proprio cammino. Benché avesse una ferma certezza della propria vocazione, ancora non sapeva che cosa sarebbe venuto dopo i divini presentimenti:
“Ed io, mezzo cieco, stavo sempre aspettando il perché. Perché mi faccio sacerdote? Il Signore vuole qualcosa: ma che cosa? E in un latino decadente, afferrandomi alle parole del cieco di Gerico, ripetevo: “Domine, ut vi- deam! Ut sit! Ut siti”. Che sia ciò che tu vuoi e che io ignoro. “Domina, ut sit” ”45.
È possibile che il Rettore avesse ancora dubbi agli inizi dell’anno scolastico 1921-1922, perché il 17 ottobre scrisse al Rettore del Seminario di Logrono chiedendo informazioni su Josemarìa:
«Abbia la bontà di informarmi quanto prima, in margine a questo scritto, sulla condotta morale, religiosa e disciplinare di un ex alunno esterno del seminario da lei diretto, José Maria Escrivà Albàs, nativo di Barbastro, figlio legittimo di José Escrivà e di Dolores Albàs, residenti a Logrono, e su quant’altro lei ritenga opportuno circa la sua vocazione allo stato sacerdotale e sulle qualità personali, restituendomi questa richiesta con le informazioni richieste. Dio la conservi a lungo. Saragozza, 17 ottobre 1921. José Lopez Sierra, Rettore»46.
Ed ecco la risposta a giro di posta: «Durante la sua permanenza in questo seminario osservò una condotta morale, religiosa e disciplinare irreprensibile, dando chiare prove della sua vocazione allo stato ecclesiastico.
146
Dio la conservi a lungo. Logrono, 20 ottobre 1921. Gregorio Fernàndez, Vicerettore»47.
Passando in rassegna le persone che la Provvidenza gli aveva messo al fianco per dare calore alla sua “incipiente vocazione” , Josemaria scriverà anni dopo:
“A Logrono, quel santo sacerdote, vicerettore del seminario, don Gregorio Fernàndez. A Saragozza, don José Lopez Sierra, il povero Rettore del S. Francesco, che il Signore cambiò a tal punto che, dopo aver fatto davvero di tutto perché abbandonassi la mia vocazione (cosa che fece con la massima rettitudine di intenzione), fu il mio unico difensore contro tutti”48.
In queste brevi righe è racchiusa la chiave di quanto accadde e il ruolo assegnato al Rettore del seminario nei piani divini. Il cambiamento avvenuto nel Rettore fu davvero miracoloso. Josemaria lo vide come una risposta del Cielo alle sue preghiere e come una conferma della propria vocazione al sacerdozio. Liberato dai pregiudizi sull’"incostante e altero” seminarista, secondo la negativa nota sul famoso libro, il Rettore scriverà successivamente: «Ottimo seminarista, si distingue dagli altri del suo anno per la perfetta educazione; affabile e semplice nel tratto, di notoria modestia, rispettoso verso i superiori, compiacente e bonario con i compagni, molto stimato dai primi e ammirato dai secondi»49.
3. Studio e vacanze
Al mondo del seminario, già di per sé chiuso, lo legava e vincolava ancor più il regolamento. Per fortuna quelli del S. Carlo ne avevano addolcito il rigore con una tollerante interpretazione del testo. Così, per esempio, la tassativa proibizione di fumare veniva applicata senza
147
eccezioni ai seminaristi più giovani, cioè i “filosofi” . Ai “teologi” , invece, era permesso fumare a porte chiuse50.
Era anche proibito affacciarsi alla finestra o salire a divertirsi sulla terrazza del tetto51. Ma non vi era posto migliore per i giochi e la ricreazione della terrazza del quarto piano, ampia, protetta da un’alta recinzione e con grandi finestroni sulla piazzetta del S. Carlo. Era il luogo favorito per giocare a palla; Josemaria preferiva però passeggiare per i lunghi corridoi che si snodavano sui quattro lati del cortile. Uno di essi era quasi buio e un ispirato umorista aveva scritto su una delle pareti le parole del Salmo: Per diem sol non uret te, neque luna per noctem-. non c’è pericolo che ti scotti il sole di giorno, né la luna di notte52.
Per quanto concerne altre proibizioni, abbiamo già visto con quale scrupolo i seminaristi osservassero quella di non usare soprannomi o nomignoli53.
La vigilanza nel Seminario Conciliare era ancora più stretta che nel S. Carlo, dato che gli alunni abitavano e studiavano in un edificio dal quale uscivano solo nei giorni di passeggiata. Quelli del S. Carlo attraversavano ogni giorno le strade del vecchio centro; prendevano aria, vedevano il sole e mantenevano il contatto con la vita della città, fino a dove lo consentivano la “compostezza, ordine e simmetria” alle quali erano tenute le file dei seminaristi durante il percorso di andata e ritorno all’Università54.
L’Università Pontificia di S. Valero e S. Braulio era situata nel centro storico di Saragozza, che era stata in origine colonia romana. Prospera città della provincia romana Tarraconensis, era stata visitata dalla Madonna durante la sua vita mortale, secondo quanto racconta un’antica tradizione, per incoraggiare l’apostolo Giacomo nell’opera di evangelizzazione; e in onore della Madonna fu costruito un tempio. Durante l’occupazione musulmana non fu interrotto il culto cristiano, finché fu
148
ristabilita la gerarchia ecclesiastica dopo la riconquista della città, nel 111855.
L’arcidiocesi di Saragozza comprendeva un vasto territorio con diverse sedi suffraganee, fra le quali quella di Barbastro. Dal 1902 la reggeva il Cardinale Soldevila, uomo che aveva fatto coscienziosamente gli studi ecclesiastici e possedeva grandi doti oratorie e di governo. Eccelse per la sua attività pastorale e per le riforme che introdusse nel regime diocesano. Diede impulso ai lavori di restauro della basilica del Pilar e ne estese la devozione mariana all’America spagnola. Era stato elevato al cardinalato nel 191956.
Saragozza aveva all’epoca circa 140.000 abitanti, di cui la metà immigrati in città negli ultimi vent’anni. Lo sviluppo industriale - zuccherifici da bietole, mulini, fabbriche tessili e metallurgiche - comportò forti cambiamenti sociali e ne fecero un luogo di scontro del movimento operaio e di agitazioni anarchiche57.
I seminaristi non ricevevano né leggevano giornali. Quello che accadeva fuori del seminario o non li interessava o li coglieva di sorpresa. Solo quanti avevano la famiglia a Saragozza erano al corrente di ciò che accadeva nel mondo. Durante l’autunno del 1920 Jose- maria ebbe occasione di percorrere la città per le sue visite domenicali a casa degli zii, ma fu per poco tempo. Un’occhiata al suo curriculum, mostra l’impressionante numero di materie che dovette affrontare al suo arrivo da Logrono. Seguiva le lezioni di cinque materie del secondo anno di Teologia (De Verbo Incarnato et Grafia, De actibus et virtutibus, Oratoria sacra, Patrologia, Liturgia), alle quali dovette aggiungerne altre quattro, dato che il piano di studi di Saragozza non coincideva con quello di Logrono58. Due di esse (Greco ed Ebraico) erano del primo ciclo e le altre due (Introductio in S. Scripturam ed Exegesis Novi Testamenti) del primo anno di Teologia.
Fece i suoi studi con profondità, senza che gli occor
149
resse eccessivo impegno; ma gli succedeva lo stesso di tutti gli studenti: al momento degli esami “non mi sentivo affatto tranquillo”59. Le votazioni di quell’anno in Greco e in Ebraico (solamente un meritus) sono un’eccezione nel suo brillantissimo fascicolo accademico60. Suo zio, l’arcidiacono, gli parlava dell’importanza del greco per lo studio della Patristica; e il nipote «da parte sua, superato l’esame, dedicò molto tempo al ripasso della materia finché raggiunse un livello francamente accettabile»61.
* * *
Del corpo docente dell’Università facevano parte professori di ogni tipo: chi era saggio e chi lo era meno, chi possedeva doti pedagogiche e chi no, professori pieni d’iniziativa e altri soggetti all’abitudine. Josemaria cercava di assimilare ciò che di positivo vedeva in ciascuno di essi, cosicché i suoi ricordi vertono sempre sull’aneddotico.
Del professore di Teologia Morale, saggio e prudente, raccontava che, quando iniziava la trattazione della virtù della castità e dei vizi ad essa contrari, dava agli alunni il consiglio di S. Alfonso Maria de’ Liguori: raccomandarsi alla Santissima Vergine e studiare serenamente62.
Da don Santiago Guallart, professore di Oratoria Sacra, imparò a non fidarsi delPimprovvisazione, inficiata da vanitosa spontaneità o da pigrizia mentale. Una volta don Josemaria raccontava a un gruppo di persone: “Io non improvviso nulla e in genere nessuno improvvisa. Ricordo che ebbi un professore di oratoria, uomo molto conosciuto e molto ammirato, soprattutto per le sue improvvisazioni. Un giorno otto o dieci alunni stavano chiacchierando con lui, ed egli disse loro: “Io non ho improvvisato neppure una sola volta... Quando mi invitano in qualche posto, so che mi chiederanno di dire qualcosa e mi preparo accuratamente” ”63.
L’orizzonte intellettuale di Josemaria non era limitato
150
F
agli studi ecclesiastici. Si distingueva dagli altri compagni di seminario per la sua “ampia cultura” e in particolare per il suo interesse per gli aspetti umani degli avvenimenti, come riferisce uno di essi: «Era sommamente umano: dotato di un grande senso dell’umorismo, aveva una capacità critica che gli consentiva, sempre con garbo, di cogliere l’aspetto divertente delle cose. Ammiravo molto gli epigrammi che scriveva in un piccolo taccuino ricoperto in tela cerata che teneva in tasca e sul quale scriveva spesso. Erano frasi acute, piene di ingegnosità, con una carica festosa o satirica e con un grande senso umano. Erano epigrammi che sorprendevano perché implicavano una non comune padronanza della lingua castigliana e una grande familiarità con gli autori classici: ripensandoci in seguito, mi ricordavano un po’ lo stile di Aristofane in “Le vespe” . Erano pieni di una filosofia molto umana della vita e alla fine suggerivano una morale»64.
Per uno di quei casi fortuiti che non mancano mai nella vita, le sue doti oratorie e letterarie ebbero occasione di venire allo scoperto. Per divertimento degli studenti c’era l’abitudine di tenere delle serate informali, senza rigore accademico65. Per una di esse, organizzata in onore di don Miguel de los Santos, Presidente del S. Carlo, il Rettore si vide costretto a chiedere la collabo- razione di Josemaria. Il tipo di manifestazione e il ruolo del festeggiato richiedevano un intervento di un certo livello letterario. Don Miguel, eletto pochi mesi prima Vescovo titolare di Tagora e nominato Ausiliare di Saragozza, era stato consacrato il 19 dicembre 1920. Era un ecclesiastico di grande cultura: laureato in Teologia a Saragozza e in Diritto Canonico e Filosofia all’Univer- sità Gregoriana di Roma; quanto ai titoli civili, era laureato in Legge all’Università di Saragozza e dottore in Diritto all’Università Centrale di Madrid66.
Josemaria fece resistenza alle pressioni del Rettore, ma alla fine dovette cedere. Il tema scelto per la sua dissertazione fu il motto del nuovo Vescovo: Oboedientia
151
tutior. Quando gli toccò, lo svolse in latino, sotto forma di composizione poetica. Le considerazioni sulla particolare sicurezza che conferisce l’attenersi ai consigli dei superiori e l’eleganza dell’esposizione gli valsero l’apprezzamento del vescovo e della mezza dozzina di sacerdoti del S. Carlo presenti alla festa67.
Sul secondo anno trascorso a Saragozza ci è pervenuto un altro episodio, anch’esso concernente gli studi. Una delle materie dell’anno scolastico 1921-1922 era De Deo Creante e veniva spiegata in latino da don Manuel Pérez Aznar. Al professore piaceva fare spiegazioni dense e metodiche nella prima parte del corso. Poi, nel secondo trimestre, una volta raggiunta la vetta, incominciava la discesa con un pragmatico sistema di domande e chiarimenti. Vegliava sull’ortodossia, era dichiaratamente tomista e affrontava in modo critico errori ed eresie, non senza somministrare agli alunni “ l’antidoto al veleno” . Da lui Josemarìa imparò, a quanto egli stesso affermava, l’importanza di utilizzare gli antidoti, quando si devono maneggiare fonti bibliografiche pericolose per la conoscenza dottrinale del lettore, perché questo veléno - diceva - si trasmette “quasi per osmosi”68.
L’episodio si riferisce a una delle lezioni in cui venivano poste delle domande. Don Manuel, con un tocco di bizantinismo, chiese a Josemarìa circa la biblica co- stola del nostro progenitore: si trattava di una costola naturale o fuoriserie? (Utrum costa Adami fuerit supe- rogatoria an naturalis). Preso alla sprovvista tra l’origine di Èva e la costola di Adamo, Josemarìa cercò di divagare e prendere tempo. Parlò dapprima in latino, lungamente e con calma, su nostro padre Adamo, per proseguire poi con Èva. Ma, per quanti giri facesse, non gli veniva in mente alcuna idea per salvarsi. Si dilungava più di quanto non consentisse la pazienza del professore, il quale, interrompendo le divagazioni, lo
152
apostrofò in castigliano: «Bene, ma dove abbiamo lasciato questa benedetta costola?»69.
5[- 51-
Dei conti del seminario, estremamente semplici, si occupava il Rettore. Le spese generali della casa erano a carico del Reale Seminario di S. Carlo. E poiché quasi tutti i seminaristi fruivano di una borsa di studio o prestavano dei servizi che li esentavano dal pagamento, neppure il calcolo delle entrate era un’operazione complicata. Nell’anno scolastico 1920-1921, per esempio, le entrate consistevano nel ricavo della vendita di dodici stemmi per le mantelline dei collegiali, più l’importo di quattro pensioni e mezza. Dei cinque seminaristi che pagavano la retta al S. Carlo, la mezza pensione era quella di Josemaria, che fruiva di mezza borsa di studio.
Dobbiamo esser grati alla scrupolosa precisione del Rettore nel computo dei giorni di permanenza in seminario e degli importi da pagare. Secondo i rendiconti di quell’anno scolastico, Josemaria pagò 157 pesetas e 50 centesimi per 252 giorni di permanenza (la pensione completa era di una peseta e 25 centesimi al giorno)70.1 252 giorni sono esattamente quelli che vanno dalla sua entrata (28 settembre 1920) alla chiusura dei conti (7 giugno 1921). La permanenza ininterrotta dei seminaristi da settembre a giugno era normale e prevista dal regolamento71.
In quei lunghi mesi lontano dalla famiglia il seminarista mantenne frequenti rapporti epistolari con i familiari, ragguagliandoli sugli studi e sulle aspirazioni giovanili e cercando di incoraggiarli. Il Natale del 1920 fu il primo che passò fuori di casa; avrà ricordato con nostalgia il Natale passato a Barbastro e l’antica canzone natalizia che la madre gli cantava e che ora certamente ella utilizzava per far addormentare suo fratello Santiago (Guitìn, come lo chiamavano familiarmente):
153
«Madre, alla porta c’è un Bambino,/ più bello del solepiù bello,/ e dice di aver tanto freddo...»72.
Quando riceveva notizie da Logrono, rileggendo i piccoli eventi domestici indovinava, tra le righe, le difficoltà della famiglia e le sofferenze di suo padre73. Quando arrivavano le vacanze estive, la sua presenza in casa era un’iniezione di gioia. Faceva visita a don Hilario, il parroco di Santiago el Reai, e si metteva a sua disposizione. Cercava di distrarre il babbo e di fargli compagnia e di alleviare le fatiche di sua madre. Prendeva per mano il piccolo Guitìn e lo portava a passeggio. Nell’estate del 1922 - il fratello aveva tre anni e mezzo - si fecero una foto su una panchina del parco. Josemaria con un abito grigio scuro, cravatta nera e cappello di paglia. Guitìn con un vestito bianco, un berrettino calato fino agli occhi e un’espressione di circostanza74.
Dall’amicizia di Josemaria con un compagno seminarista, Francisco Moreno, nacque l’idea di passare alternativamente alcuni giorni di riposo, durante le vacanze, in casa delle rispettive famiglie. Fu così che Francisco passò qualche breve periodo a Logrono, invitato dagli Escrivà. I due seminaristi facevano delle gite sulle rive dell’Ebro e molto spesso arrivavano al negozio del signor José, “La Gran Ciudad de Londres” , per accompagnarlo, facendo un giro più ampio, fino a casa. «Era una passeggiata gradevole, benché mi facesse soffrire non poco il vedere quell’uomo, ancor giovane di età, così prematuramente invecchiato», riferisce Francisco Moreno, che attribuisce al signor José un maggior numero di anni rispetto ai 55 che aveva allora. Ricordava pure che «dopo aver passato lunghe ore dietro al banco del negozio aveva i piedi gonfi, a tal punto da doversi togliere le scarpe quando arrivava a casa»75.
Il cuore materno della signora Dolores si effondeva in piccole premure domestiche, per esempio nella cura affettuosa con cui preparava la prima colazione dei due
154
seminaristi: «Voleva darci cose - riferisce l’ospite - che non potevamo avere quando stavamo a Saragozza»76.
Della permanenza in casa dei Moreno ci sono notizie più ricche, poiché vi si riuniva un gruppo di amici della stessa età. Di questo gruppo facevano parte Antonio, il fratello di Francisco, che studiava medicina a Saragozza e che Josemarìa pure conosceva, e i due fratelli Antonio e Cristóbal Navarro. Su quei giorni di vacanza riferisce Francisco Moreno: «Non ricordo bene se siano state due o tre le estati in cui Josemarìa passò alcuni giorni - quindici o venti - con la mia famiglia a Villel, un paese vicino a Teruel, dove mio padre aveva esercitato come medico. Tutti in casa mia lo apprezzavano molto perché si faceva voler bene: era garbato, discreto e prudente, ma allo stesso tempo affettuoso ed espansivo. Inoltre, spuntava sempre il suo naturale e meraviglioso senso umoristico. Il suo arrivo a Villel era per quella casa una gran festa e quando se ne andava si notava che aveva lasciato un grande vuoto. Per mia madre era come uno dei figli»77.
Portava abito scuro e cravatta nera, per non nascondere la propria condizione di seminarista. Assisteva ogni giorno alla Messa e la serviva al parroco se ve n’e- ra bisogno. Il sacerdote del paese, un santo uomo che soffriva della “malattia del sonno” , faceva molta pena a Josemarìa. Il sonno lo assaliva nei momenti più inopportuni, in piena celebrazione liturgica o mentre predicava dal pulpito78.
Al mattino andavano a passeggio sulle rive del Turia, ricco dell’acqua delle vicine sorgenti. I suoi compagni facevano il bagno seminudi, ma Josemarìa non lo faceva, per pudore. Ritornavano per pranzo e, passate le ore della calura, nei lunghi pomeriggi estivi organizzavano escursioni nei paraggi: alla Pena del Cid o al Santuario de la Virgen de Fuensanta, in montagna. Se alla gita si univa qualche ragazza, il seminarista trovava sempre un pretesto per rimanere a casa a lavorare. Ma la sua as
155
senza non passava inavvertita alle ragazze. Carmen Noailles, a proposito di come egli non stesse con le amiche dei suoi compagni, assicura che «si notava chiaramente la decisione e la saldezza della sua vocazione al sacerdozio»79.
Quando il gruppo andava al circolo del paese a giocare a carte, Josemaria rimaneva in camera sua a leggere o a scrivere. Traduceva in versi giocosi gli avvenimenti della giornata e delle escursioni, e illustrava i versi con degli schizzi, in un quaderno intitolato: “Avventure di alcuni ragazzi di Villel nel loro andirivieni fra Saragozza e Teruel”80.
Nei lunghi momenti in cui rimaneva a casa, chiacchierava con la madre dei Moreno, che ancora non si era riavuta dalla recente vedovanza. Per la povera donna era consolante parlare con Josemaria; e quando, come accadeva spesso, parlava della perdita del marito, Josemaria le diceva: “Non voglio vederla triste. Non pianga, signora Moreno. Dobbiamo pregare molto per lui. Io, se me lo consente, offrirò la Messa per lui” 81.
4. “Forgiatore” di futuri sacerdoti
Insieme al buon comportamento, alla pietà e alla cultura del seminarista di Logrono, vennero a conoscenza del Presidente e degli altri sacerdoti del Reale Seminario le burle con cui alcuni si rivolgevano a Josemaria. Ciò contribuì a estendere ancor più la sua fama fuori del S. Carlo. Non ci si poteva attendere che da un male uscisse qualcosa di buono. Tuttavia si adempiva il proverbio secondo cui “non tutto il male vien per nuocere” . (Questa paradossale verità, sia detto tra parentesi, è stata sempre presente nella vita di Josemaria. In epoche diverse, tutta una serie di deplorevoli episodi - in fondo, provvidenziali - finirono per trasformarsi in gioia, per cui egli ha tradotto cristianamente le sue
156
esperienze con l’affermazione: “Dio scrive diritto anche su delle righe storte” )82.
Forse per qualche frase del Presidente o del Rettore del S. Carlo, diventato ormai strenuo difensore del seminarista, il nome di Josemaria giunse all’orecchio del cardinale, il quale dalle finestre del palazzo vedeva ogni giorno i collegiali sfilare all’entrata dell’Università. Una volta lo mandò a chiamare. Altre volte, incontrando la fila degli alunni del S. Carlo per strada o in chiesa, chiedeva al seminarista notizie della sua vita e dei suoi studi. Una volta - riferisce un compagno - ho udito che gli diceva: «Vieni a trovarmi quando hai un momento di tempo»83.
Grazie alla lunga esperienza ecclesiastica il cardinale non tardò a scoprire nel seminarista eccezionali doti di pietà, maturità di giudizio e capacità di governo. Altrimenti non si spiega il fatto che, prima delle vacanze estive del 1922, comunicasse al Rettore la propria decisione di nominare Josemaria Ispettore del S. Carlo, coprendo così un incarico che alla fine dell’anno si rendeva vacante. Fu con una punta di umorismo che comunicò anche all’interessato il proprio desiderio che accettasse l’incarico fin dal successivo anno scolastico, alludendo con discrezione a uno dei nomignoli del seminarista: «Ti darò la tonsura - gli disse - perché non voglio che i seminaristi ti vedano vestito da “ signorino” »84. (Non essendo ancora chierico poteva usare abiti civili e vestire da “ signorino” ).
Il 28 settembre ci fu l’inaugurazione dell’anno accademico 1922-1923. Quello stesso giorno fu conferita a Josemaria la tonsura, a lui solo, in una cappella del palazzo arcivescovile. Nella stessa data prese possesso dell’incarico di Ispettore del S. Carlo, che mantenne fino all’ordinazione sacerdotale, il 28 marzo 192585.
Passati gli anni, egli ricordò l’evento - “la tonsura clericale ricevuta per mano del Cardinale Juan Soldevila, in un raccolto oratorio del Palazzo Arcivescovile” 86 -
157
come una delle pietre miliari del suo cammino verso il sacerdozio.
Gli Ispettori del Seminario Conciliare erano tutti sacerdoti. Al S. Carlo gli Ispettori erano di solito un diacono e un chierico con gli ordini minori. Questi Ispettori - chiamati anche Direttori o Superiori - avevano l’incarico di vegliare sul rispetto del Regolamento, curando la disciplina; presiedevano, a nome del Rettore, gli atti comunitari o svolgevano le funzioni che il Rettore delegava loro. Gli Ispettori del S. Carlo erano due. Il Primo Ispettore comandava in assenza del Rettore. Era questo il ruolo assegnato a Josemarìa, che era coadiuvato dal Secondo Ispettore, Juan José Jimeno87.
Il fatto che un seminarista che non aveva ancora ricevuto gli ordini minori occupasse il posto di Ispettore o Direttore, senza avere al di sopra altra autorità che quella del Rettore, rende l’idea dell’audacia del cardinale. In primo luogo perché dovette anticipargli la tonsura, affinché l’incarico ricadesse su un chierico. E anche per l’illimitata fiducia riposta nel giovane, posto a guardia della disciplina tra coloro che pochi mesi prima avevano messo a dura prova la sua permanenza in seminario. Il prelato doveva sentirsi molto sicuro della sua scelta.
L’incarico di Direttore comportava dei vantaggi materiali, quali quello di disporre di un famiglio, di pasti e camera speciali, di essere esentato dal pagamento della pensione e di ricevere una gratifica di cinquanta pesetas all’anno. Inoltre le tasse per i diritti di esame all’Univer- sità erano a carico del seminario88. A tutti i sacerdoti del S. Carlo veniva assegnato un famiglio, le cui prestazioni domestiche non avevano carattere servile; erano il mezzo con cui alcuni seminaristi si pagavano gli studi e la retta. Rispettando questa usanza, l’ispettore accettò i servizi del famiglio che gli fu assegnato, benché non appena poteva ne facesse a meno, perché gli era imbarazzante avere un compagno come domestico. Il famiglio si
158
chiamava José Maria Roman Cuartero, e del comportamento del Direttore ci riferisce alcune notizie:
«Mi ha sempre impressionato la sua bontà e la pazienza nei miei confronti. Ricordo, per esempio, che, quando si rendeva conto, mentre gli rifacevo il letto, che mi arrabbiavo perché non riuscivo a stendere le lenzuola sul materasso rapidamente e di un colpo solo, allora lui mi diceva qualche frase affettuosa o scherzava. Ricordo pure che divideva il suo pasto con me, perché i direttori avevano un pasto speciale, senza dare peso alla cosa. Mi rendo conto ora che faceva queste mortificazioni senza che si notasse, con grande naturalezza»89.
Ora Josemaria aveva maggior libertà di movimento per adempiere le sue pratiche di pietà e per entrare e uscire dal seminario. La posizione di Direttore gli consentiva di frequentare i sacerdoti del S. Carlo, che risiedevano ai piani superiori. E con il Presidente, Mons. Miguel de los Santos, arrivò ad avere una confidenza tale che questo Vescovo conservò fino alla morte la corrispondenza e gli appunti sulle conversazioni che intratteneva con il suo giovane amico90.
Alcuni sabati o domeniche pomeriggio Josemaria si trovava con i suoi amici, i nipoti di don Antonio Moreno, Vicepresidente del S. Carlo, nella stanza di questo buon sacerdote. Si ritrovavano così assieme i giovani amici delle estati di Villel91.
Don Antonio si trovava al S. Carlo da molti anni. Nel manoscritto della “Storia della fondazione del Seminario per i poveri di S. Francesco di Paola” compare il suo nome come predicatore degli esercizi spirituali ai seminaristi nell’anno accademico 1892-1893, quando era ancora in vita il Cardinale Benavides92. Benché di età veneranda aveva ancora un fisico robusto, una ricca esperienza sacerdotale e alcune piccole manie. Gradiva la compagnia dell’ispettore, che ascoltava con piacere le
159
sue chiacchiere e si lasciava sconfiggere quando giocavano a domino, per non dare esca al malumore di don Antonio che era di quelli che non sanno perdere. Poi, per festeggiare, il sacerdote tirava fuori dall’armadio qualcosa da mangiare davanti al quale Josemaria, caritatevolmente, non faceva troppo lo schifiltoso.
Il Vicepresidente aveva una vita alle spalle e, come a tutti i vecchi, faceva piacere ricordarne alcuni eventi per lui memorabili. In particolare, gustosi episodi delle visite pastorali dell’Arcivescovo di Saragozza ai paesi della diocesi. Alcuni di essi erano situazioni da metter paura a un seminarista. Ma, al momento di trarne la morale, don Antonio gli diceva: “Josemaria, non ci si deve mai fidare di nulla, di nulla”93.
Josemaria assimilò ben presto alcuni accorgimenti cristiani, frutto dell’esperienza di vita. Uno di essi fu: è meglio troncare in tempo e fuggire le occasioni. Un suo compagno del S. Carlo riferisce a questo proposito che un giorno, mentre passavano per le stradine del centro della città diretti alle aule universitarie, la fila dei seminaristi incrociò due ragazze, che cercarono di attirare gli sguardi di Josemaria. Il giorno successivo stavano piantate allo stesso posto, aspettando il seminarista e provocandolo in modo procace. E al terzo, visto che non faceva loro la minima attenzione, gli rinfacciarono il proprio disappunto:
«Siamo così brutte che non ci guardi neppure?»
E Josemaria, senza neppure guardarle, replicò loro seccamente:
“Non siete altro che delle sfacciate!”94.
Sembra che l’accaduto giunse anche all’orecchio di suo padre a Logrono95.
il-
160
Il cardinale aveva conferito a Josemarìa la tonsura perché sembrava inconcepibile che qualcuno, senza essere chierico ed essendo ancora in abiti da “ signorino” , fosse Direttore del seminario. La prima occasione che si presentava al seminarista per ricevere gli Ordini Minori erano le Tempora d’Avvento, poco prima di Natale. Il 20 novembre 1922 rivolse, quindi, un’istanza al cardinale nella quale “ supplica umilmente che si degni di ammetterlo, nelle prossime Tempora di S. Tommaso Apostolo, ai Sacri Ordini Minori”96.
Furono fatte, con la dovuta riservatezza, le opportune ricerche su vari aspetti della vita, degli studi e del comportamento dei richiedenti; fra di esse, se il seminarista «ha manifestato decisa vocazione allo stato ecclesiastico».
Nella risposta del Rettore, riferita a tutti gli aspiranti agli Ordini Minori del S. Carlo, in data 23 novembre era scritto:
«I signori succitati, senza eccezione, hanno osservato buona condotta morale e religiosa (...), confermando nel loro comportamento esterno la vocazione sacerdotale e a mio giudizio non sono incorsi in alcuna nota sfavorevole in relazione a quanto mi si chiede»97.
Gli Ordini di Ostiario e Lettore furono conferiti a Josemarìa dal Cardinale Soldevila il 17 dicembre; quelli di Esorcista e di Accolito, quattro giorni dopo98.
Si: * *
La principale preoccupazione degli Ispettori, per non dire l’unica, era il mantenimento della disciplina. Nel Seminario di S. Carlo, a differenza di quello Conciliare, i Direttori erano ancora studenti. Pertanto essi erano spesso, a motivo delle loro funzioni, tra l’incudine e il martello. Il compito di Ispettore «non era affatto facile, perché era allo stesso tempo direttore e alunno, e i semi
161
naristi si comportavano secondo la loro giovane età»99. Josemaria dovette imparare a conservare il giusto equilibrio fra le esigenze del Regolamento, che lo obbligavano a reprimere le esuberanze giovanili, e l’amicizia verso i propri compagni. Coloro che gli succedettero come Ispettori nel 1925 e nel 1926, Agustìn Callejas e Jesus Val, testimoniano che il suo spirito cameratesco con tutti «era altrettanto forte quanto il suo senso di responsabilità nel compimento dell’incarico: non fece mai restar male nessun seminarista»; e «faceva uso della sua autorità in modo affabile, senza intemperanze. Non s’imponeva arbitrariamente come può accadere spesso in chi comanda»100.
Josemaria si sforzò di agire con tatto, senza far pesare le proibizioni del Regolamento in questioni di poco conto, per poter esigere invece su punti più importanti. Tollerava per esempio che i più grandi fumassero; faceva in modo che le letture in refettorio fossero brevi, consentendo di parlare; oppure, quando c’era pentimento, ben volentieri condonava il castigo.
Un giorno trovò un pezzo di cartone polveroso e abbandonato sul quale, con lettere dorate su fondo rosso, erano scritte le tre parole dell’inno di S. Paolo alla carità: Caritas omnia suffert. Probabilmente era servito da ornamento nei festeggiamenti per S. Francesco di Paola. Era anche l’emblema che i seminaristi portavano sulla divisa: un sole contornato da raggi e nel centro la parola Charitas.
“Sul mio tavolo di lavoro” - ricordava il giovane Ispettore del S. Carlo - “misi questo promemoria: “caritas omnia suffert” . Volevo imparare a fare tutto per amore e insegnarlo con l’esempio ai seminaristi”101.
Su di lui ricadeva, insieme al Rettore, il compito di formare i seminaristi sotto il profilo umano e spirituale, poiché allora al S. Carlo non c’era un direttore spiritua
162
le. Ogni settimana venivano da fuori dei confessori e, se qualcuno lo desiderava, i sacerdoti del S. Carlo erano disponibili nei confessionali della chiesa, mentre don Miguel de los Santos celebrava la Messa al mattino102.
In quanto Direttore Josemaria teneva, nella sala di studio, alcune brevi allocuzioni ai seminaristi, sulle feste liturgiche o sul modo di espletare qualche cerimonia di culto. Fu lui a dare inizio alla consuetudine di uscire tutti i sabati pomeriggio con gli studenti del S. Carlo per andare a far visita alla Madonna del Pilar103.
Il Rettore, il quale lo definisce, con frase lapidaria, «forgiatore di giovani aspiranti al sacerdozio», prosegue dicendo che «il suo motto era di conquistare tutti a Cristo, che tutti fossero una sola cosa in Cristo»104. L’Ispettore fu guidato dalla carità in tutte le sue azioni, cercando di fare dei suoi fratelli sacerdoti degli autentici “uomini di carità” :
“Questa mia preoccupazione non è recente; la predico da quando avevo 21 anni e ho cercato di viverla con tutte le mie forze. È possibile che nel Seminario di S. Carlo si conservino delle mie carte - perché sono sempre stato favorevole a mettere le cose per iscritto - di quando ero Superiore, con osservazioni piene di comprensione, in cui lodavo i cambiamenti in meglio dei seminaristi e parlavo di carità e della necessità di dare esempio di carità”105.
Gli scritti a cui si riferisce sono stati ritrovati dopo la sua morte nell’archivio del Reale Seminario di S. Carlo106. Si tratta delle note informative mensili che, come Ispettore, consegnava a don José Lopez Sierra. Coprono il periodo dall’ottobre 1922 al marzo 1925, senza soluzione di continuità, eccezion fatta per i mesi estivi. Si nota subito che non sono compilate con frasi fatte. Nella sezione del foglio mensile relativa al titolo “condotta” , che gli altri Ispettori erano soliti lasciare in
163
bianco, o al massimo riempivano un paio di volte all’anno con aggettivi incolori e poco compromettenti, poiché in quella colonna entrava anche la voce “vocazione” , si può notare invece che Josemarìa seguiva da vicino ciascun seminarista. E se gli altri, forse per non approfondire troppo, si scaricavano la coscienza con un “ bene” o un “regolare” , il nuovo Ispettore soppesava religiosamente i propri giudizi con espressioni chiare. Dietro le sue parole c’è sempre un palpito cordiale. Nei nomi dei seminaristi vedeva delle anime destinate al sacerdozio.
Sul retro dei fogli dei rapporti mensili era consuetudine annotare i “castighi imposti dall’ispettore” e i “castighi del Sig. Rettore” , registrando seccamente i fatti; per esempio: “Tizio un giorno in ginocchio in refettorio per aver fumato e mentito al Rettore” . Josemarìa era solito registrare informazioni più complete, aggiungendo antefatti, cause e circostanze. Così scriveva, per esempio:
“Il Sig. R.P., da quando è stato castigato (il giorno 12) dal Sig. Rettore sino alla fine del mese, si è comportato in modo tale da sembrare un altro: è obbediente, rispettoso e desideroso di far bene”107.
Com’era prevedibile, il primo scoglio che dovette superare fu quello di imporsi come Direttore, facendo valere il peso della sua autorità. Nacquero le resistenze: subito affiorarono, da parte di un gruppo di ribelli, scaramucce e sfide. Nel Rapporto del novembre 1922, riferendosi a quattro seminaristi intrattabili, Josemarìa scrisse:
“Tengono in ben poco conto il rispetto dovuto al Superiore e quando li si riprende, per quanto amorevole possa essere la riprensione, rispondono in malo modo e alcuni, come il Sig. C., fa delle smorfie per far ridere la Comunità”108.
164
I riottosi ci misero un po’ di tempo ad ammansire, ma alla fine si impose la pazienza del Direttore che nel febbraio 1923 compilò il seguente rapporto:
“Non posso fare a meno di rallegrarmi nel riconoscere che nei cinque mesi trascorsi dell’anno accademico i Signori A. e C., da indisciplinati che erano, sono diventati alunni docilissimi e diligenti. La stessa cosa sta accadendo con il Sig. L.”109.
Cercava generosamente scusanti per tutti. Nei rapporti si trovano considerazioni come le seguenti:
“ (...) gli fu condonato il castigo perché, piangendo, promise di correggersi; i Signori M. e L. molte volte, anzi, il più delle volte, commettono delle mancanze senza rendersi conto di commetterle”110.
Questa comprensione non impediva, soprattutto essendoci di mezzo la vocazione al sacerdozio, che i suoi giudizi fossero chiari e spassionati:
“Invece” - scrisse nello stesso rapporto di febbraio - “non so che cosa dire della vocazione di questi altri Signori: M.M., P.R. e C.M. I primi due, come si può rilevare dai rapporti dei mesi precedenti, fin dall’inizio dell’anno accademico ne hanno combinate varie. Sono sempre incline a giudicare a favore: per questo ho detto che davano segni di averla; oggi ritengo mio obbligo manifestare, spassionatamente, il mio modo di vedere. Il Sig. C.M. è andato sempre peggio, fin dall’inizio dell’anno, nel suo gran difetto di mancare di rispetto al Superiore. Si tenga presente, inoltre, che tutti questi Signori si comunicano tutti i giorni o quasi” .
Un anno dopo, nel febbraio del 1924, i seminaristi del S. Carlo erano talmente cambiati che Josemaria scrisse con soddisfazione:
165
“Desidero far presente, perché rende l’idea dello spirito attuale del Seminario, che quando ho comminato un castigo collettivo agli allievi, non solo non ci sono state proteste, ma anzi, hanno accettato di buon grado il rimprovero, giudicandolo più che giusto”111.
Don José Lopez Sierra arrivò ad avere una tale fiducia nel suo Direttore che «di fatto gli venne progressivamente delegando le proprie funzioni», fino a tal punto che «lasciò il Seminario praticamente nelle mani di Josemaria»112.
Il progresso dei seminaristi rispecchia la vita di preghiera dell’ispettore, che era centrata su di loro: “Con quale gioia annotavo i progressi di quei ragazzi! Erano l’oggetto del mio dialogo col Signore, poiché a Lui chiedevo, con sua Madre, che se ne prendesse cura” 113.
Il «forgiatore di giovani aspiranti al sacerdozio», come diceva in modo altisonante il Rettore, era già sud- diacono quando scrisse, nel novembre del 1924, il seguente commento:
“Non ho osato affermarlo l’anno scorso, nel caso che si trattasse solamente di un cambiamento passeggero; ma poiché, grazie a Dio, non è così, lo voglio segnalare. In particolare dall’immacolata del 1923, la cui devota novena è stata fatta da tutti con grande fervore, si nota un meraviglioso cambiamento in tutti gli allievi anziani; cambiamento che si ripercuote sui più giovani. Il merito è senza dubbio della Madonna, e - ripeto - dato che sicuramente è l’ultimo anno che io sto in questo amato Seminario, non posso esimermi dal fare un breve riassunto”.
Citava i nomi di alcuni seminaristi, in precedenza lontani dalla vita di pietà e ora docili e devoti: “sono enormemente cambiati, sono altre persone” , scriveva con incontenibile gioia. Forse aveva il presentimento che fosse l’ultima volta che tastava il polso al seminario e che fosse necessario fare una sintesi di commiato?
166
“In tutti - annotava - c’è molto fervore: è stata messa una corona al Crocifisso del quarto piano, che non l’aveva! le missioni; gli addobbi del nostro oratorio; i canti dei primi venerdì, del diciannove del mese, delle sabatine... Un particolare: più di una volta mi è stato chiesto il permesso di abbreviare il tempo della ricreazione per poter stare più tempo in oratorio nell’adorazione del Sacro Cuore e durante la novena dell’immacolata dell’anno scorso; è aumentata la quota mensile dell’Apostolato. Nel tratto reciproco si vede che non invano S. Francesco di Paola è il patrono della casa: carità, carità sempre: se qualcuno manca contro di essa, lo riconosce e accetta la giusta correzione; è un fatto che ora, quando vengono ripresi, non replicano e accettano persino con piacere - è la verità - la medicina del castigo. Direi altro, ma credo che questo basti. Quando se ne è andato qualche cattivo elemento, è stata opera di Maria Immacolata. Sia tutto a maggior gloria di Dio e sua. Con quanto ho scritto, non voglio dire che i nostri ragazzi siano angeli, poiché il fatto che siano “ragazzi” lo dimostrano i castighi di ogni mese: qui tutti abbiamo le nostre mancanze”114.
Il cartoncino che teneva nel suo studio di Ispettore, il caritas omnia suffert, gli serviva da promemoria nello sforzo di dare unità in Cristo a tutti i seminaristi. Durante i due anni e mezzo in cui si dedicò alla loro formazione, Josemarìa sentì su di sé, in ogni momento, l’onere gioioso di preparare futuri ministri del Signore, dedicandosi a un compito che era quasi una sfida per un giovane seminarista come lui. E non tanto per gli anni, quanto per la sua scarsa esperienza degli ambienti ecclesiastici. Ma s’impegnò a fondo nell’incarico, confermando ancora una volta l’avvertimento che gli aveva dato la madre: «Josemarìa, soffrirai molto nella vita, perché metti il cuore tutto intero in quello che fai»115.
(Così era, infatti: si metteva corpo e anima in quello che aveva tra le mani. In quest’epoca di Saragozza, si dava anche all’ispirazione poetica. “ Scrivevo dei versi
167
orribili e, mettendo nella firma tutti gli slanci della mia vita, li firmavo così: “ Il chierico Cuore” ” )116.
Con un temperamento simile non gli fu necessario tracciarsi un programma d’azione. Gli bastò seguire alla lettera le parole di S. Paolo:
“Ricordo sempre con emozione” - scriverà un giorno risvegliando i ricordi - “le parole della prima lettera di S. Paolo ai Corinzi, che ho tenuto per tanto tempo davanti agli occhi quando ero Superiore nel Seminario di S. Carlo, a Saragozza: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” ”117.
Dall’impegno di forgiare i propri fratelli del Seminario uscì egli stesso trasformato per lo sforzo costante di praticare quell’insieme di virtù umane e soprannaturali- pazienza, prudenza, cortesia, sacrificio, carità...- che aveva esercitato per più di due anni come Ispettore del S. Carlo. A sostenere le virtù dei seminaristi c’erano sempre l’esempio, le buone maniere, il consiglio, l’affetto e la vita di pietà di Josemaria. Alla fine di un processo tanto laborioso, si era arricchito di valide esperienze nel campo della direzione spirituale, nel giusto uso dell’autorità e nell’arte di governo.
Forse il titolo di Direttore o Ispettore del seminario, di cui ufficialmente si fregiava Josemaria, può suonare magniloquente o esagerato applicato a un giovane seminarista con ancora diversi anni di studio davanti a sé. Ma ci si deve attenere ai fatti. Nessuno può dare ciò che non ha, assioma di ancor più evidente validità nelle attività di formazione. Perciò, sulla scia della trasformazione operata fra i seminaristi del S. Carlo, è innegabile che la maturità raggiunta da Josemaria fosse il diretto risul
168
tato della sovrabbondanza della sua vita interiore e dell’esercizio delle virtù di governo.
5. Un evento deplorevole
Appassionato di letteratura, Josemaria impiegava nella lettura il tempo libero da lezioni o dallo studio. Annotava frasi e pensieri. Come Direttore aveva accesso alla biblioteca del seminario, nella quale era andata «a finire la famosa biblioteca che, con molta spesa e altrettanta intelligenza, l’eccellentissimo signor Manuel de Roda aveva messo insieme a Roma e poi accresciuto a Madrid, quando era Segretario di Stato di sua maestà»118. Josemaria vi stava come un topo nel formaggio e non perse l’occasione di avere tanti e così preziosi libri a portata di mano. Ciò risvegliò in lui un bellissimo desiderio di cultura, nutrito dai classici della letteratura e della spiritualità. Vi si applicava rubando ore al sonno. Di notte i seminaristi vedevano filtrare sotto la porta dell’ispettore la luce tremolante e incerta di una candela119.
Per due anni potè fruire di un fecondo periodo di letture. Più avanti, Josemaria non avrebbe più avuto tanto tempo né occasione tanto propizia per quel tipo di libri, salvo la necessità che ebbe a volte di consultare i classici. Lesse con profondità mistici e asceti, studiando le nascoste operazioni della grazia. In modo particolare gli piacevano le opere di Santa Teresa.
Nel giugno 1923 sostenne gli esami del quarto anno di Teologia con il massimo dei voti, completando così gli studi di licenza nella Facoltà Pontificia120. Era arrivato il momento di iniziare gli studi civili, come già deciso prima di lasciare il Seminario di Logrono per quello di Saragozza. Il trasferimento conteneva il permesso implicito del Vescovo di Calahorra e La Calzada di studiare Legge a Saragozza, poiché fin dal tempo di Leone XIII era di competenza dei vescovi il concedere o il negare ai
169
chierici il permesso di frequentare le università laiche. Non molto tempo prima, il 30 aprile 1918, la Sacra Congregazione Concistoriale aveva emanato delle norme per «prevenire i grandi pericoli che, come insegna una lunga e triste esperienza, minacciano la santità di vita e la purezza della dottrina dei sacerdoti che frequentano dette Università»121.
Il Cardinal Soldevila, che aveva piena fiducia nella fedeltà di Josemarìa alla vocazione sacerdotale e nella saldezza delle sue convinzioni dottrinali, gli aveva concesso il permesso necessario122. Il corpo docente di Saragozza, del resto, era ben lungi dall’essere un nido di eretici.
Ben presto, in modo inatteso e tragico, scomparve il cardinale. Il pomeriggio del 4 giugno 1923, mentre si recava in automobile a fare una visita nei dintorni del capoluogo, fu crivellato di colpi da alcuni anarchici. L’autista e il famiglio che lo accompagnava rimasero feriti. Josemarìa si recò a vegliare la salma e a pregare per lui.Il giorno dopo, la notizia riempiva le prime pagine dei giornali. Al momento non si seppero né il motivo, né l’identità degli assassini. Per quasi due anni l’arcidiocesi di Saragozza rimase sede vacante.
Nell’estate del 1923 Josemarìa stava preparando a Logrono due materie preliminari alle discipline giuridiche: “Lingua e letteratura spagnola” e “Logica fonda- mentale” . Al mattino si trovava con un altro studente, José Luis Mena, per ripassare le materie e si interrogavano l’un l’altro su temi di letteratura123. Verso la metà di settembre andarono a Saragozza per gli esami.
Don Carlos, l’arcidiacono, a quei tempi vedeva spesso suo nipote e gli piaceva parlare con lui. L’amico di Logrono ne ricorda le gentilezze; era solito invitare a casa lui e Josemarìa, per offrire loro la merenda. «Don Carlos era - a quanto racconta - un sacerdote che incuteva rispetto. Mi ricordo persino che facevamo merenda a base di cioccolato spagnolo con spumoni»124. (Per la ve
170
rità, non si vede che rapporto ci possa essere tra il severo carattere del canonico e il cioccolato con spumoni).
D’accordo con lo zio, Josemaria decise di iscriversi alla Facoltà di Diritto come alunno “non ufficiale” , pensando di poter assistere alle lezioni, ma non volendo essere obbligato a seguire rigorosamente il corso. In questo modo avrebbe potuto fare gli studi con una certa libertà, facendo gli esami in giugno o nella sessione straordinaria di settembre. Coloro che affermano che “fece simultaneamente” o che “alternò” gli studi civili con quelli ecclesiastici non si esprimono con proprietà, dato che li fece consecutivamente, cioè che iniziò i corsi universitari di Legge dopo aver terminato il quarto anno di Teologia. Perciò, mentre il suo curriculum ecclesiastico mostra ordine e continuità, l’andamento degli studi civili ha carattere discontinuo, frammentario, portato avanti in base alla necessità del momento, in circostanze difficili da prevedere.
Presentato da suo zio, andò a consultarsi circa i suoi studi con Carlos Sànchez del Rio, all’epoca Segretario Generale dell’Università, al quale fece impressione, fin dal primo momento, la “personalità distinta” del seminarista. Ancora con la mediazione dell’arcidiacono, fece visita al professore di Diritto naturale, che lo ricevette «con sorpresa e con piacere - confessa - nel vedere che un seminarista, già a buon punto con i suoi studi del seminario, volesse fare simultaneamente gli studi civili e quelli ecclesiastici, cosa certamente rara a quel tempo»125.
Fra le materie scelte per il primo anno da Josemaria c’erano Diritto naturale, di cui era professore Miguel Sancho Izquierdo; Istituzioni di diritto romano, materia insegnata da un sacerdote, don José Pou de Foxà; e Istituzioni di diritto canonico, che competeva a Juan Mo- neva y Puyol126. Questi tre professori costituivano un triumvirato di eccezionale statura intellettuale. Il loro influsso fu di grande importanza sullo sviluppo della personalità di Josemaria e sull’acquisizione di un’acuta
171
mentalità giuridica. Con loro ben presto l’allievo stabilì un’amicizia autentica e cordiale127.
Provvidenziale fu anche, per l’adempimento dei suoi futuri compiti fondazionali, il fatto che durante l’anno 1923-1924 frequentasse le lezioni di Diritto canonico contemporaneamente nell’Università civile e in quella ecclesiastica. Titolari delle due cattedre erano docenti dalla mente eccelsa, quali Juan Moneva e don Elias Ger Puyuelo. Il primo era titolare della materia nella Facoltà di Diritto; il secondo era docente del quinto corso di Sacra Teologia128.
Alle loro ammirevoli conoscenze, univano entrambi una singolare propensione all’acutezza di pensiero e ai detti proverbiali. Don Elias, per esempio, adottava un’inconfondibile pedagogia che sotto l’apparenza pittoresca delle espressioni denotava grande prudenza sacerdotale. Di lui Josemaria ricordava alcuni detti, pieni di garbo e di senso comune129.
Le trovate dell’altro non erano meno argute e azzeccate. Juan Moneva era, dentro e fuori Saragozza, sulla bocca di tutti, anche se le sue originalità rasentavano a volte la stramberia. Egli affibbiò all’allievo un appellativo affettuoso, “ il pretino” , e continuò a ricordarsi di lui fino al momento in cui si accomiatò per sempre dai suoi amici. Infatti anche Josemaria ricevette, in una busta a lui indirizzata, scritta di pugno dal vecchio professore, l’annuncio della morte di costui. Evidentemente Juan Moneva - personaggio geniale fino alla morte - aveva preparato egli stesso le buste per le partecipazioni funebri, lasciando ai familiari l’incarico di spedirle per posta130. Il suo ex alunno, in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’Università di Saragozza, gli dedicò queste commoventi parole, che hanno l’eco di un’orazione funebre:
“Oggi vorrei rievocare con affettuoso rispetto i nomi ditutti gli insigni giuristi che qui furono miei maestri; con-
172
sentitemi di fare almeno il nome di uno di essi, per esprimere a lui la grata riconoscenza che devo a tutti e a ciascuno: sto parlando del professor Juan Moneva y Puyol.Di tutti i miei professori di allora fu quello con il quale ho avuto maggiore dimestichezza e poi un’amicizia che si mantenne viva, in seguito, fino alla sua morte. Egli mi dimostrò in più occasioni un sincero affetto; da parte mia potei apprezzare sempre il tesoro di forte pietà cristiana, di convinta onestà di vita e di ammirevole quanto discreta carità, che si nascondeva in lui sotto l’apparenza, per alcuni ingannevole, dell’acuta ironia e della gioviale ricchezza del suo ingegno. Per lui e per gli altri miei maestri il mio commosso ricordo; auspico che a lui, e a quanti come lui sono ormai trapassati da questa vita, il Signore abbia conferito il premio dell’eterna beatitudine”131.
L’amicizia dell’ispettore del S. Carlo con don Elias fu breve, dato che quest’ultimo morì nel novembre del 1924. Tuttavia non dimenticò mai un apologo che nell’ottobre dell’anno precedente, all’inizio dell’anno accademico, don Elias raccontò a lezione. C’era una volta un commerciante di cannella. Acquistava il prodotto allo stato naturale e, mediante un mulino a sfere, lo riduceva in polvere finissima. Un giorno il mulino smise di funzionare. Le sfere si erano consumate ed era necessario importarne altre dalla Germania. Passò il tempo. Il ricambio non arrivava e bisognava macinare la cannella. Un amico, vedendolo triste, consigliò al commerciante di andare al torrente a cercare dei sassi della grandezza delle sfere ormai inservibili, di incassarli nel mulino e di farli girare a vuoto per diversi giorni, senza immettere la cannella.
Così fece e, in capo a quindici giorni, a furia di sfregare e rullare l’uno contro l’altro, i sassi si erano levigati fino a diventare lisci come le sfere tedesche.
A questo punto del racconto, il professore fece una breve pausa e, rivolgendosi a Josemarìa, soggiunse:
“Così Dio tratta quelli che ama. Mi capisci, Escrivà?”132.
173
Josemaria ne trasse l’insegnamento che Dio si serve degli attriti con il prossimo per levigare le asperità del nostro carattere. Negli anni successivi serbò assoluto silenzio su di un fatto spiacevole, salvo un vago riferimento a “un grosso dispiacere” , occorsogli quando era seminarista a Saragozza133. Tutto fa sospettare, se ci pensiamo un po’, che l’apologo della cannella nasconda un evento molto duro e doloroso. Uno dei suoi compagni, Jesus Lopez Bello, dice che giravano «voci di una lotta» sostenuta con un altro seminarista134. E un allievo del Seminario Conciliare, che si affretta a definire il fatto come «di scarsa importanza», racconta che «un altro seminarista, un uomo già fatto, nativo della Rioja, che aveva più di quarant’anni e che, a quanto egli stesso diceva, quando viveva in Argentina era stato segretario del Governatore di Buenos Aires, provocò Josemaria e ci fu un violento scontro»135. Francisco Ar- tal Ledesma, che riferisce quanto sopra, conosceva senza dubbio il soggetto, poiché soggiunge che «l’eco dell’accaduto fu dovuta alle caratteristiche dei due protagonisti». Il seminarista della Rioja era impertinente e «capace di far uscire dai gangheri chiunque» e Josemaria «incapace di un’azione violenta, nonostante la sua giovane età».
Il più qualificato testimone oculare fu il Rettore, che nel libro De vita et moribus, sul foglio intitolato a Josemaria, descrisse sommariamente il fatto al quale era stato presente, nonché le sue conseguenze:
«Ebbe un alterco con Julio Cortés e gli fu imposto il relativo castigo, la cui accettazione e il cui adempimento rappresenta per lui una gloria essendo stato, a mio avviso, il suo avversario che attaccò per primo e con più violenza, profferendo contro di lui parole grossolane e indegne di un chierico, e alla mia presenza lo insultò nella Cattedrale della Seo»136.
174
Il dispiacere di Josemaria lo si deve misurare in base alla sua sensibilità, tenendo oltretutto presente che era Direttore del S. Carlo ed aveva ricevuto gli Ordini Minori. L’ultima volta che era venuto alle mani era stato a Barbastro con “zampe sporche” . Gli insulti di quel tizio probabilmente lo esasperarono: reagì con le parole e l’altro venne alle mani.
Benché si fosse legittimamente difeso, Josemaria aveva perduto la compostezza, nelle parole e nei fatti. Accusò il colpo tanto profondamente da perdere la serenità di spirito; volle aprire la sua anima per lettera a don Gregorio Fernàndez, già suo direttore spirituale e vicerettore del Seminario di Logrono. In data 26 ottobre 1923 don Gregorio gli rispose:
«Mi dispiace profondamente il tuo scontro con Julio, non tanto per lui, che ha ben poco da perdere, quanto per te; mi rendo conto che fu inevitabile da parte tua, ma vorrei che non ti fossi mai trovato nella situazione di difenderti con espressioni tanto forti: conosco la nobiltà dei tuoi sentimenti e sono sicuro che oggi non alberga nel tuo cuore la minima traccia di risentimento (...). Non devi parlare dell’accaduto con altri all’infuori di Dio» 137.
Ascoltò il consiglio e seppellì la faccenda nel suo cuore. Solo dopo la sua morte, tra le sue carte ne comparve una che completa la storia:
«Fra alcune carte - racconta Monsignor Javier Eche- varria - abbiamo trovato un biglietto da visita del seminarista che aveva provocato l’incidente nella Seo, sul quale era scritto anche il luogo di lavoro: un ospedale della Croce Rossa nel sud della Spagna. Quest’uomo aveva scritto poche parole sotto il proprio nome, Julio Cortés: “Pentito, e nel modo più remissivo e incondizionato. Mea culpa”»138.
175
6. «Domina, ut sit!»
Sulle rive dell’Ebro, a Saragozza si erge la splendida basilica del Pilar sul luogo dove, in epoca musulmana, ci fu un tempio dedicato a Maria Santissima. La sua costruzione iniziò nel rinascimento, attraversò il barocco e fu terminata, in pieno XVIII secolo, con soluzioni neoclassiche. Dentro la basilica si trova la Santa Cappella della Madonna del Pilar, magnifica cornice che racchiude la colonna [el pilar) sulla quale, a quanto racconta la tradizione, la Santissima Vergine ha posato i piedi. La colonna è rivestita di bronzo e argento, e sostiene una piccola statua che rappresenta la Madonna, avvolta in un voluminoso manto e con il Bambino in braccio.
Fin dal suo arrivo a Saragozza, Josemarìa si impose la grata consuetudine di far visita al Pilar, sfruttando i ritagli di tempo libero fra le lezioni. Finché rimase a Saragozza, lo afferma lui stesso, lo fece ogni giorno:
“La devozione per la Vergine del Pilar inizia nella mia vita fin da quando, con la loro pietà di aragonesi, i miei genitori la infusero nell’anima di tutti i loro figli. Più tardi, durante i miei studi sacerdotali e anche quando ho frequentato la facoltà di Diritto all’Università di Saragozza, le mie visite al Pilar erano quotidiane”139.
Da quando era divenuto Ispettore vi conduceva i seminaristi a recitare una Salve Regina. Benché la devozione impregnasse tutta la sua vita interiore, il ricordo che gli rimase di quegli anni fu quello di uno sforzo soltanto mediocre di corrispondere alla chiamata divina, “ lavorando solo con ridotta intensità” 140. (Forse perché aveva in mente un passato ancora libero dalle terribili lotte ascetiche che seguirono). Le sue pratiche di pietà erano avallate dalla mortificazione - sgarberie, insulti, grossolanità - e non mancava la penitenza corporale, poiché usava il cilicio141. Avvolto dall’oscurità, conti
176
nuava senza posa a implorare la chiarezza sulla propria chiamata:
“Avevo il presentimento che il Signore volesse qualcosa; passarono parecchi anni senza che sapessi che cos’era, e intanto dicevo di continuo una giaculatoria, ricordandomi del cieco del Vangelo, cieco anch’io quanto al mio avvenire e al servizio che Dio desiderava da me; “Domine, ut videam! Domine, ut siti”, ho ripetuto per anni: che sia, che si faccia ciò che Tu vuoi; che io sappia, dà luce alla mia anima. Le luci non venivano, ma evidentemente pregare era la strada giusta”142.
Più di ogni altro vantaggio procuratogli dal suo incarico, all’ispettore faceva piacere la libertà di tempo e di movimenti, perché gli consentivano di conversare con PAmico. Josemaria, assiduo e appassionato lettore di Teresa d’Avila, avrà accolto con un sorriso ciò che la Santa racconta di sé: «Il Signore le aveva dato una fede così viva che, quando sentiva dire dagli altri che avrebbero desiderato vivere al tempo in cui Nostro Signore era sulla terra, rideva tra sé e sé, sembrandole che possedendo nel Santissimo Sacramento lo stesso Cristo che allora si vedeva, non vi fosse altro da bramare»143.
A Logrono Josemaria era solito rimanere a lungo in orazione, il pomeriggio, accanto al tabernacolo della Rotonda. E continuò le visite nella chiesa del S. Carlo, benché i suoi impegni come Superiore del seminario non gli lasciassero molto tempo libero. Ma era tale il suo desiderio di intrattenersi con il Signore - l’amore ha sempre nuove risorse - che ben presto scoprì un angolo particolarmente attraente vicino all’altare maggiore, dove si trovava il tabernacolo.
Non appena si spegnevano le luci nel seminario, Josemaria si recava dal secondo piano dell’edificio alla zona residenziale dei sacerdoti e, da lì, alla parte alta della chiesa del S. Carlo. Quel piano stava sopra le volte delle
177
cappelle laterali; aveva ampie tribune, situate fra i contrafforti del tempio, da dove partivano le nervature che si incrociavano al di sopra della navata. Josemaria s’inginocchiava in una di queste tribune, situata sulla destra della chiesa e dominante il presbiterio. Salutava il Signore con la fede viva di cui parla Teresa e fissava gli occhi sul tabernacolo attraverso la grata, mentre il tremolio della lampada del Santissimo accendeva in uno scintillio momentaneo l’oro della pala d’altare o faceva danzare le ombre nella profusione barocca di nicchie, statue e medaglioni144.
Con la notte davanti a sé, senza interruzioni e con la solitudine che ricolmava gli spazi del tempio, il seminarista dalla tribuna e il Signore presente nel tabernacolo intavolavano una lunga conversazione, sempre uguale e sempre diversa. Josemaria aveva coltivato intensamente l’amicizia del Signore in quegli ultimi anni. Si sapeva destreggiare con fiducia e semplicità in un lungo dialogo, senza suono di parole. Parlavano con scioltezza, con l’intimità con cui lo possono fare gli amici.
I pensieri di Josemarfa si saranno a volte affollati nella supplica e altre volte gli avranno incendiato l’anima di affetti. Della sua preghiera sappiamo con certezza che era costante e che già da diversi anni ripeteva la stessa supplica: “Domine, ut videam! Domina, ut siti” . E sappiamo che la supplica non veniva esaudita, ma non per questo egli cessava di chiedere la stessa cosa, giorno e notte. Questa coraggiosa ed eroica perseveranza non era intrisa di dubbi o di scoraggiamenti. Non si trattava neppure di una promessa, ma di presagi d’Amore. E il linguaggio e le pene degli innamorati Josemaria li comprendeva perfettamente.
In quelle veglie chiedeva forza nella lotta ascetica, luce per i suoi compiti di governo e prontezza nella risposta alla grazia. Persino i particolari delle annotazioni che faceva sui progressi dei seminaristi gli servivano - diceva - “per dialogare con il Signore” .
178
Le visite notturne alla chiesa si ripetevano spesso, si andava facendo sempre più frequente quella sua veglia d’amore per il Signore. A partire da allora, quando la sua anima, per qualunque motivo, aveva bisogno di parlare a lungo e intensamente con Gesù dopo una dura giornata di lavoro, egli sapeva quando e dove averLo a sua disposizione. Per questo, mettendo avanti il Vangelo, potrà scrivere con conoscenza di causa, come direttore spirituale, un silenzioso rimprovero:
“ “Pernoctans in oratione Dei” - passò la notte in orazione. Così riferisce S. Luca, del Signore. Tu, quante volte hai perseverato così? - Allora...”145.
* * *
Il 14 maggio 1924 rivolse un’istanza al Vicario Capitolare dell’arcidiocesi, ancora vacante dopo l’assassinio del cardinale, nella quale esponeva il suo desiderio di ricevere il suddiaconato “ sentendosi chiamato allo stato sacerdotale” 146. Il Vicario, com’era suo dovere, chiese informazioni al Rettore, il quale rispose che l’aspirante aveva osservato «buona condotta morale e religiosa, ricevendo con frequenza il sacramento della Penitenza e ogni giorno quello della Comunione»147.
Il Suddiaconato gli fu conferito da don Miguel de los Santos il 14 giugno, nella chiesa del S. Carlo148.
Poco prima aveva superato gli esami del quinto anno di Teologia, ottenendo in tutti il voto di meritissimus. Nel suo fascicolo accademico, ormai completo, compaiono venti materie: sedici con il massimo voto (meritissimus), due con benemeritus e altre due, il Greco e l’Ebraico, con meritus149.
Come suddiacono «si sentiva già ministro di Dio»150. La vicinanza al sacerdozio lo riempiva di gioia. Ma, probabilmente per questo motivo, incominciarono a deteriorarsi le relazioni del suddiacono con lo zio Carlos. All’inizio l’arcidiacono l’aveva accolto sotto la sua protezione,
179
aiutandolo a entrare nel S. Carlo con mezza borsa di studio, invitandolo spesso a casa e prestandogli altri piccoli servizi. Tuttavia, come dichiara uno degli amici intimi di Josemaria, il nipote «non potè mai avere delle relazioni molto cordiali con suo zio»151. Questi era uno dei parenti che avevano criticato il gesto eroico del signor José, quando si era distaccato cristianamente, a motivo del fallimento, dai beni della famiglia, mettendo così gli Escrivà ai confini della povertà. Con il passare degli anni, il rapporto fra l’arcidiacono e il seminarista si fece sempre più difficile, perché Josemaria non accondiscese mai ad assecondare i piani che don Carlos si era mentalmente tracciato rispetto alla futura carriera del nipote.
Sixta Cermeno, sposata con un cugino di Josemaria allora residente a Saragozza, spiega che l’arcidiacono, «consapevole dell’importanza della sua carica nell’arci- diocesi, si considerava una figura di rilievo nella famiglia e responsabile di essa»152. A questa figura di protettore e di consigliere univa una concezione della carriera ecclesiastica molto diversa dall’idea che il nipote aveva del sacerdozio. Il primo credeva di «essere arrivato al culmine»; il secondo «non aveva il minimo interesse a far carriera con il sacerdozio»153.
Durante le vacanze estive, Josemaria preparò gli esami della Facoltà di Diritto. Era un bel gruppo di materie. Il professor Sànchez del Rio riferisce i particolari:
«Era nel mese di settembre dell’anno 1923 o 1924 che feci parte delle Commissioni che lo esaminarono in Diritto canonico e in Diritto romano (gli esami degli alunni liberi avvenivano sempre davanti a una Commissione). Entrambe le Commissioni erano formate da Juan Moneva, da José Pou e da me. Ricordo che, all’inizio dell’esame di Diritto canonico, Juan Moneva, ordinario della materia, si rivolse a lui in latino chiedendogli se volesse fare l’esame in questa lingua; senza esitare egli rispose di sì e così fece; le sue risposte furono ottime, con
180
crete e concise; in un latino corretto rispondeva rapidamente, in forma breve e chiara; fu un esame brillante. L’esame di Diritto romano mise in evidenza la speciale predilezione che aveva per questa disciplina»154.
» !' 51-
Quando andava a far visita al Pilar doveva spesso fare la coda con gli altri fedeli prima di riuscire a baciare il tratto di colonna non rivestito, consunto dalle labbra di generazioni e generazioni di cristiani. Lì, nella Santa Cappella, ripeteva le sue insistenti giaculatorie: "Domine, ut sit!” , che sia ciò che Tu vuoi e che io ignoro! E così pure, rivolto alla Santissima Vergine: “Domina, ut sit!”155.
Non contento di baciare la colonna, desiderava avvicinarsi alla sacra immagine. A quanto raccontò poi, alcuni mesi prima si era avvalso di uno stratagemma per riuscirci, perché era consentito baciare il manto che rivestiva l’immagine solo ai bambini e alle autorità:
“Poiché ero buon amico di diversi sacerdoti che avevano cura della basilica, un giorno potei fermarmi in chiesa dopo la chiusura delle porte. Mi diressi verso l’immagine della Madonna, con la complicità di uno di quei buoni sacerdoti, ormai defunto, salii quei pochi gradini che così bene conoscono i bambinetti e, avvicinatomi, baciai l’immagine di nostra Madre”156.
L’Ispettore aveva in camera sua, al S. Carlo, una ri- produzione in gesso di quell’immagine. Non valeva granché. Proveniva dal famiglio del Cardinal Soldevila e ad essa ricorreva chiedendo, in maniera incessante, la sua mediazione perché si compisse quanto prima la Volontà divina:
“A una semplice immagine della Madonna del Pilar affidavo in quegli anni la mia preghiera, affinché il Signore mi concedesse di capire ciò che la mia anima già presagiva. “Domina! - le dicevo in un latino non propriamente
181
classico, ma abbellito dall’affetto - ut siti”, che sia di me quello che Dio vuole che sia”157.
La sua preghiera era così insistente che si mise a incidere la giaculatoria, con la punta di un chiodo, sulla base della statuetta che rimase a Saragozza quando Jose- maria dovette andarsene di lì. E non la rivide fino al 1960, a Roma, quando una delle sue figlie dell’Opus Dei gli mostrò una statuetta della Madonna del Pilar che era rimasta fino ad allora in casa di un suo parente;, a Saragozza. Gliela facevano avere a Roma - raccontò poi lui stesso - perché era stata sua:
“Padre, è arrivata qui una statuetta della Madonna del Pilar che lei aveva a Saragozza. Le risposi: no, non mi ricordo. E lei: sì, la guardi; c’è una cosa scritta da lei. Era una statuetta tanto brutta che mi pareva impossibile fosse stata mia. Me la mostrò e sotto la base, con un chiodo, c’era scritto sul gesso: “Domina, ut sit! ”, con un solo punto esclamativo, come sono solito fare con le giaculatorie che scrivo in latino. “Signora, che sia!” . E una data: 24-5-924.Il fatto è che molte volte, figli miei, il Signore mi umilia. Mentre a volte mi dà una straordinaria chiarezza, molte altre volte me la toglie, perché non abbia alcuna sicurezza in me stesso. Poi viene e mi concede qualche zuccherino.Vi avevo parlato molte volte dei presentimenti, anche se talvolta pensavo: Josemarìa, forse hai ingannato, hai mentito... Quella statuetta era la materializzazione della mia preghiera di molti anni e di cui vi avevo parlato tante volte”158.
7. Morte di José Escrivà
Il 27 novembre 1924, Josemarìa ricevette un telegramma di sua madre in cui gli si chiedeva di recarsi a Logrono, poiché suo padre si era gravemente ammalato.
182
Prese il treno del pomeriggio. Alla stazione di Logrono10 aspettava Manuel Ceniceros, il figlioccio del signor Garrigosa, che lavorava come impiegato al negozio “La Gran Ciudad de Londres” . Era stato Manuel a mandare11 telegramma, su richiesta della signora Dolores159; dal tono del telegramma e dall’ansia con cui il Presidente del Seminario, Monsignor Miguel de los Santos Diaz Gómara, gli aveva comunicato la notizia, Josemaria già prima di lasciare Saragozza si era reso conto che suo padre era già morto. Entrato in casa, vide la salma pietosamente composta dalla madre e dalla sorella. Riposava sul pavimento della sala, sopra una trapunta color granata. Il figlio sfogò la sua pena con molte lacrime e pregò con grande serenità cristiana.
Gli raccontarono l’accaduto. Al mattino presto, dopo colazione, il signor José si era messo a giocare con il piccolo Guitìn. Si era inginocchiato un momento davanti all’immagine pellegrina della Vergine della Medaglia Miracolosa, alla quale era molto devoto e che si trovava in quei giorni in casa degli Escrivà. Aveva poi salutato i familiari, prima di andare al lavoro, ma prima di arrivare alla porta lo aveva colto un malore. Con un grido si era appoggiato allo stipite della porta ed era poi caduto di schianto. Al rumore della caduta erano corse Carmen e la moglie. Lo avevano steso sul letto e, rendendosi conto della gravità del suo stato, avevano subito avvisato il medico e il parroco. Il medico non aveva potuto fare nulla. Due ore più tardi, dopo aver ricevuto gli ultimi sacramenti, moriva senza aver ripreso conoscenza160.
“La Gran Ciudad de Londres” aveva aperto al pubblico alle nove, come al solito. I dipendenti si erano sorpresi che non fosse ancora arrivato il signor José. Era una cosa insolita il ritardo di un uomo sempre estrema- mente puntuale. Il proprietario, colto da un presentimento, aveva mandato Manuel a casa Escrivà, in via Sagasta, per informarsi se era accaduto qualcosa. Poco dopo José Escrivà moriva161.
183
Josemaria, con il cuore spezzato dal dolore, confortò i suoi. Al piccolo Santiago, che stava per compiere sei anni, rimase molto impresso il gesto di suo fratello quando, davanti alla salma, promise di fare per loro le veci di padre. («Davanti a mia madre, a mia sorella e a me disse - sono le parole che ricorda - che non ci avrebbe mai abbandonati e avrebbe avuto cura di noi»)162.
Josemaria si occupò dei preparativi per i funerali e la sepoltura: la bara, le esequie, la tomba e il resto. La famiglia non disponeva di denaro sufficiente per le spese necessarie. In così amara circostanza, Josemaria dovette recarsi da don Daniel Alfaro, un cappellano militare amico di famiglia. Gli fu per sempre riconoscente per il suo caritatevole prestito. Ben presto gli restituì il denaro, ma non cessò mai di pregare per lui, per gratitudine, durante la Messa; per alcuni anni nel memento dei vivi e poi in quello dei defunti163.
Vegliarono la salma tutta la notte. Erano presenti gli amici di Logrono e i conoscenti del defunto. Mancavano i parenti.
Il giorno seguente ci fu la sepoltura. Prima di chiudere la cassa, Josemaria ritirò il crocifisso che il padre teneva tra le mani: una croce povera e consunta che prima era passata dalle mani della nonna Constancia164.
Il piccolo corteo attraversò il ponte, andando verso il cimitero. Josemaria andava davanti, da solo, come unico parente del defunto. La madre e la sorella erano rimaste a casa, poiché non usava che le donne della famiglia prendessero parte alla sepoltura. Accanto alla tomba si recitò il responsorio finale e subito dopo don Daniel Alfaro, su richiesta di Josemaria, ne recitò un altro.
Calarono la cassa nella fossa. Il figlio lasciò cadere il primo pugno di terra. Il becchino gli diede la chiave con la quale avevano chiuso la bara. Ritornarono in città e, sulla strada del ritorno, mentre attraversavano il ponte sul fiume Ebro, l’orfano meditava sul proprio abbandono. Mise la mano in tasca ed estrasse la chiave della ba
184
ra. Con decisione, quasi per distruggere ciò che poteva rappresentare un simbolico attaccamento contrario alla vocazione, buttò la chiave nel fiume. “A che scopo” - disse fra sé - “dovrei conservare questa chiave, che può essere per me una specie di legame?” 165.
Seguirono giorni di lutto e di intimità familiare. Il caso volle che il primo dicembre si facesse il censimento municipale della popolazione. Nessun documento avrebbe potuto indicare con maggior semplicità il cambiamento avvenuto nel domicilio degli Escrivà, del foglio di censimento firmato dal “capofamiglia” : «Dolores Albàs, Vedova Escrivà»166.
Anche se ufficialmente la vedova appariva come capofamiglia, fu il figlio maggiore a farsi carico di tutti, decidendo che dopo qualche settimana non appena fosse riuscito ad affittare un appartamento a Saragozza, li avrebbe portati a vivere con sé. All’improvviso era caduto sulle spalle del giovane seminarista il pesante onere di dover provvedere al sostentamento della famiglia. Le speranze riposte nel fratello piccolo, la cui nascita egli aveva chiesto al Signore dopo aver deciso di farsi sacerdote, per poter essere sostituito, erano state vane. Ora avrebbe dovuto fare da padre, più che da fratello maggiore, a Santiago167.
Esaminò la propria situazione. Era suddiacono e, come tale, vincolato da impegni assunti davanti alla Chiesa, fra cui quello di dedicarsi nel celibato al servizio di Dio. Nella presente situazione gli sarebbe stato possibile ottenere la dispensa dal celibato. Chi se ne sarebbe potuto meravigliare in vista dei suoi nuovi obblighi? Tuttavia, nonostante la recente disgrazia, si sentì interiormente fortificato e più che mai confermato nella vocazione. La sua illimitata fiducia nella Provvidenza aveva risolto il problema. Se la morte di suo padre fosse avvenuta prima del suddiaconato, non avrebbe forse potuto sorgere in lui il fondato dubbio se continuare o meno fino al sacerdozio168?
185
Ora, come contropartita di questa nuova disgrazia familiare, gli appariva con maggior chiarezza il significato della propria vita e la mano di Dio, che lo conduceva attraverso la sofferenza. Attraverso la via del dolore veniva spogliato degli affetti umani, delle risorse materiali e di quanto avrebbe potuto rappresentare un appoggio nel futuro. Davanti ai suoi occhi sfilavano le tre sorelline morte a Barbastro, il fallimento del commercio di suo padre, le ristrettezze economiche e la famiglia orfana a suo carico. Tutto faceva parte della storia della sua anima, che il Signore stava forgiando a colpi di sventure nella sua famiglia:
“Ho fatto sempre soffrire molto quelli che mi stavano intorno. Non ho provocato delle catastrofi ma il Signore, per colpire me che ero il chiodo - perdona, Signore - dava un colpo al chiodo e cento al ferro del cavallo. E vidi mio padre come la personificazione di Giobbe. Persero tre figlie, una dopo l’altra, in anni successivi, e sono rimasti senza un soldo”169.
José Escrivà era morto consumato dal lavoro e dalle preoccupazioni; da lui il figlio apprese una lezione che non avrebbe mai dimenticato:
“Lo vidi soffrire con serenità, senza mostrare la sofferenza. E vidi un coraggio che fu per me una scuola, perché poi ho sentito tante volte che mi veniva a mancare la terra sotto i piedi e che mi cadeva il cielo addosso, come se stessi per essere schiacciato fra due lastre di ferro.Con quelle lezioni e con la grazia del Signore, forse ho perduto in qualche occasione la serenità, ma poche volte (...).Mio padre è morto esausto. Aveva sempre il sorriso sulle labbra ed era di una simpatia particolare”170.
Riconosceva il ruolo svolto dai suoi genitori nei piani divini e l’esemplarità delle loro virtù. La figura del pa
186
dre - paziente e sereno di fronte alle avversità, dimentico di se stesso e al servizio del prossimo - crebbe santamente nella memoria del figlio, conservata con una convinzione più profonda del solo affetto filiale:
“Logrono!” - scriveva in una lettera del 9 maggio 1938 “Ricordi molto intimi: in quel camposanto stanno i resti di mio padre, che per me - per molte ragioni - sono reliquie: spero di “riscattarli”, un giorno”171.
8. La prima Messa
Due settimane prima della morte del padre, Josemaria aveva fatto istanza per ricevere il diaconato, “ sentendosi chiamato allo stato sacerdotale” 172. E poco dopo, proprio nei giorni della morte di José Escrivà, il Segretario dell’Arcivescovado preparò la rogatoria dell’ordinazione che il Vicario Capitolare inviò in data 5 dicembre alla diocesi di Calahorra e La Calzada. Sia il parroco di Logrono, don Ilario Loza, sia il cappellano militare don Daniel Alfaro e altri testimoni fecero le dovute dichiarazioni sulla condotta e la buona fama del suddiacono. Concluse le pratiche, il 20 dicembre don Miguel de los Santos conferiva a Josemaria l’Ordine Sacro del diaconato, nella chiesa del S. Carlo173.
E molto probabile che abbia trascorso alcuni giorni a Logrono prima di ritornare al S. Carlo a ricevere il diaconato, poiché Paula Royo ricorda i fatti divertenti che Josemaria le aveva raccontato circa la ricerca di un appartamento a Saragozza174. La situazione familiare consigliava, evidentemente, il trasferimento. Entro alcuni mesi sarebbe stato ordinato sacerdote e incardinato a Saragozza; economicamente gli sarebbe stato impossibile mantenere due case e, inoltre, gli sarebbe stato intollerabile stare lontano dai suoi nelle nuove circostanze.
L’appartamento che, a titolo provvisorio, Josemaria
187
prese in affitto era al terzo piano di una casa stretta e soffocata in via Urrea. Di là si trasferirono alcune settimane dopo a un modesto appartamento al n. 11 di via Rufas175.
I rapporti di Dolores Escrivà con alcuni parenti della sua famiglia, già non troppo cordiali fino a quel momento, peggiorarono a motivo della morte del marito e divennero freddi e tesi. Questo brusco cambiamento ebbe luogo quando gli Escrivà decisero di trasferirsi a Saragozza. Non deve stupire la reazione di don Carlos, autoritario e pago della propria importanza nell’ambito ecclesiastico. Non aveva neppure assistito ai funerali di suo cognato a Logrono, ma si indignò vivamente quando seppe che presto gli Escrivà sarebbero comparsi a Saragozza. A quanto dice Pascual Albàs, uno dei nipoti, i fratelli della signora Dolores avevano pensato persino di passarle un piccolo importo, a titolo di pensione, se fosse rimasta a Logrono. L’arcidiacono pensava pure che «Josemarìa doveva lasciar perdere qualunque altro studio, ricevere l’ordinazione e trovarsi un posto, per mantenere sua madre e i fratelli», come racconta Sixta Cer- meno176.
È probabile che negli zii albergasse in fondo il rifiuto, mosso dalla vanità o dalla mondana vergogna, di dover aver a che fare, nei rapporti sociali, con dei parenti impoveriti. Inoltre, una nipote che viveva con l’arcidiacono, chiamata Manolita, riuscì ad avvelenarlo al punto da inimicare definitivamente lo zio contro il nipote177. Lo si vide quando, poco dopo che gli Escrivà si erano trasferiti a Saragozza, ebbe luogo un grave incidente familiare. Josemarìa, accompagnato da Carmen, era andato con la migliore intenzione a far visita allo zio Carlos. L’arcidiacono, come primo saluto di benvenuto, pronunciò delle frasi fuori tono e piuttosto grossolane. Parole che, a buon intenditore, venivano più o meno a dire:
188
«Che diavolo siete venuti a fare a Saragozza? A esibire a tutti la vostra povertà?».
Carmen, senza degnarsi di rivolgergli la parola, disse al fratello:
«Josemaria, andiamocene di qui, ché in questa casa non siamo ben visti».
L’arcidiacono non fece marcia indietro né si scusò per quegli insulti che equivalevano a un ceffone178. Josemaria non si lagnò del trattamento ricevuto. In varie occasioni cercò di riavvicinarsi a don Carlos, ma senza risultato. Solamente i fatti luttuosi della guerra civile fecero dimenticare all’arcidiacono gli antichi pregiudizi. All’inizio degli anni quaranta, il nipote andò a trovare don Carlos a Saragozza. «Don Josemaria non voleva che pensassero - riferisce una persona che lo accompagnava - che avesse serbato qualche risentimento»179. Uscì contento dalla visita; non lui era cambiato, bensì lo zio. I sentimenti di josemaria nei confronti del fratello di sua madre furono sempre di eccezionale carità. Quando ricevette notizia della morte di don Carlos si affrettò a scrivere poche righe ai propri fratelli, Carmen e Santiago, in data 6 gennaio 1948:
“Ho saputo della morte di don Carlos: vi chiedo di offrire suffragi per la sua anima; dato che si è comportato così male con la mamma e con noi, ritengo che siamo più obbligati a pregare per lui. Se farete così, farete piacere a Dio nostro Signore, e io ve ne sarò grato”180.
(La notizia, peraltro, era sbagliata. Lo zio morì due anni dopo).
* * *
La famiglia si adattò alla nuova vita senza lamentarsi. I parenti più agiati non diedero loro alcun aiuto. Poco
189
dopo il loro trasferimento in via Rufas, un nipote della signora Dolores che lavorava in banca andò ad abitare con loro, il che comportò un certo sollievo economico, poiché pagava 150 pesetas di pensione181.
Gli impegni come Ispettore e l’assistenza come diacono alle funzioni della chiesa del S. Carlo trattenevano Josemaria fuori di casa. Dall’esercizio del diaconato gli rimasero impresse emozioni indelebili. Era tale il desiderio con cui aveva atteso quel momento, così grande era il rispetto per Gesù Sacramentato, che quando toccava le Sacre Specie gli tremavano le mani e persino tutto il corpo. La prima volta che gli capitò fu durante una Esposizione solenne, quando dovette inserire la lunetta con l’ostia nell’ostensorio. In quel momento chiese interiormente al Signore di non abituarsi mai ad averlo vicino. Fino al termine della sua vita perdurò l’impressione di quel fortunato incontro; e nel 1974 confessava che a volte gli tremavano ancora le mani, come la prima volta182. Nella chiesa del S. Carlo distribuiva la Comunione ai fedeli e tra questi a sua madre:
“In questa casa di S. Carlo ho ricevuto la formazione sacerdotale” - commenterà diversi anni dopo -. “Qui, a questo altare, mi avvicinai tremante per prendere le Sacre Specie e dare per la prima volta la Comunione a mia madre. Non potete immaginare... Passo da emozione ad emozione”183.
Sognando il proprio sacerdozio gli sembrava lunga l’attesa. Aveva solamente ventitré anni, per cui dovette richiedere la dispensa pontificia per difetto di età canonica. Il 20 febbraio 1925 gli giunse da Roma la risposta positiva184; e il 4 marzo presentò istanza al Vicario Capitolare, nella quale scriveva:
“Desiderando ricevere l’Ordine Sacro del Presbiterato alle prossime Tempora della quinta settimana di Quare
190
sima, sentendosi chiamato da Dio allo stato sacerdotale, supplica la S.V. Ill.ma che si degni di concedergli le opportune lettere dimissorie, previa verifica dei requisiti richiesti dai sacri Canoni”185.
Le pratiche furono fatte secondo la prassi canonica e con una certa urgenza, poiché il sabato delle Tempora cadeva quell’anno il 28 marzo. I documenti della pratica sono l’esame di sufficienza nel Reale Seminario di S. Carlo, la lettera rogatoria del Vicario alla diocesi di Calahorra, le pubblicazioni a Logrono e la risposta del parroco di Santiago el Reai, completata da quattro informazioni rese sotto giuramento che dichiaravano che «don José Maria Escrivà Albàs è degno di essere ammesso a quanto richiesto». Quest’ultimo documento, datato Logrono 23 marzo, fu poi spedito a Calahorra, da dove, approvato il tutto, i documenti ritornarono alla Segreteria dell’Arcivescovado di Saragozza186.
Il sabato delle Tempora, 28 marzo 1925, fu celebrata nella chiesa di S. Carlo la cerimonia dell’ordinazione sacerdotale; gli conferì il presbiterato il Vescovo Miguel de los Santos Diaz Gómara187.
L’ordinando seguì con grande concentrazione le varie cerimonie liturgiche: l’unzione delle mani, la traditio in- strumentorum, le parole della consacrazione... Emozionato e confuso davanti alla bontà del Signore, considerò un’inezia le difficoltà patite fin dal giorno della sua chiamata, e si sentì inondato di gratitudine come un innamorato felice188.
Fece i preparativi per la sua prima Messa. Non la si poteva chiamare solenne; sarebbe stata una Messa recitata, il lunedì della Settimana di Passione, con i paramenti viola e offerta in suffragio di suo padre. Il novello sacerdote inviò l’immagine ricordo a poche persone, a causa del lutto. Avrebbero celebrato l’evento nell’intimità. Fece stampare, sul verso di alcune immaginette della Madonna, l’invito a ricordo della circostanza:
191
«Il PresbiteroJosé Maria Escrivà y Albàscelebrerà la sua prima Messa nella Santa e Angelica Cappella del Pilar di Saragozza, il 30 marzo 1925, alle dieci e mezza del mattino, in suffragio dell’anima di suo padre D. José Escrivà Corzàn, che si è addormentato nel Signore il 27 novembre 1924.A.M.D.G.Invito e ricordo»189.
Non gli era stato facile ottenere la Santa Cappella; ma era suo vivo desiderio celebrare proprio lì, nel luogo in cui si recava tutti i giorni e dove gridava il suo “Domina, ut sit!” Del resto, la Messa fu più dolorosa di quanto il celebrante potesse prevedere, anche se poi nascose la memoria e le circostanze dell’evento in una frase essenziale: “nella Santa Cappella, davanti a pochissime persone, ho celebrato senza chiasso la mia prima Messa” 190.
Il fratello Santiago, che aveva sei anni, ricorda la semplicità della cerimonia e l’esiguità delle presenze: «Fu una Messa recitata, alla quale abbiamo assistito mia madre, mia sorella Carmen, io e pochi altri». Sua cugina, Sixta Cermeno, ne fa una relazione più esauriente:
«Mio marito e io eravamo gli unici della famiglia Albàs che, insieme a sua madre, abbiamo assistito a quella prima Messa (...).C’eravamo la madre di Josemaria (la zia Lola), sua sorella, il bambino (che aveva allora sei anni), mio marito e io, due ragazze di Barbastro che si chiamano de Cortés ed erano intime amiche di Carmen (avevano la stessa età) e qualcun altro che non conoscevo: mi pare di ricordare due o tre sacerdoti e probabilmente erano presenti alcuni amici delPUniversità o del seminario. E difficile dirlo perché, come è noto, la Cappella del Pilar è sempre piena di gente»191.
192
L’assenza dei sacerdoti della famiglia della signora Dolores e l’esiguo numero dei presenti davano un’impressione di solitudine. «I suoi zii Carlos, Vicente e Mariano Albàs - riferisce Amparo Castillón - non furono presenti, nel 1925, alla sua prima Messa, alla quale io ho assistito, e mi resi conto che era molto solo»192.
Il Rettore, don José Lopez Sierra, aggiunge che i sacerdoti amici della famiglia fecero da padrini d’altare e, in vena patetica, descrive la scena nella Santa Cappella: la madre «era sciolta in un mare di lacrime e a momenti sembrava sul punto di svenire», mentre noi in ginocchio, «senza neppure muovere le ciglia, immobili per tutta la Messa, contemplavamo i movimenti sacri di quell’angelo in terra » 193.
L’emozione della signora Dolores, che quella mattina si era alzata benché ammalata, si alimentava al ricordo dei grandi sacrifici che lei e il marito avevano sopportato per potere un giorno assistere a quella cerimonia. Questo pensiero dovette attraversare anche la mente di sua nipote, Sixta Cermeno, la quale dice di ricordare che «accanto all’intimità del momento si notava una nota triste» e che la madre piangeva «probabilmente perché pensava alla recente perdita di suo marito»194.
Il novello sacerdote desiderava che sua madre fosse la prima persona a ricevere dalle sue mani una delle parti- cole da lui consacrate. Ma non ebbe questa gioia poiché una brava donna si fece avanti e s’inginocchiò quando stava per distribuire la comunione, per cui Josemaria si vide obbligato a darla a lei per prima, per non apparire sgarbato195. Terminata la Messa, in sacrestia ebbe luogo, come consuetudine, il baciamani; poi i saluti augurali e il commiato del piccolo gruppo di presenti. Di quella prima Messa Josemarfa serbò un sapore di sacrificio. Se la ricordava come “una raffigurazione del dolore, con mia madre vestita a lutto” 196.
All’altare, mentre celebra la santa Messa, il sacerdote esercita il suo ministero liturgico nel modo più eccelso.
193
Lì si immola quella stessa Vittima che si è offerta sulla Croce per redimere tutta l’umanità. Josemaria, identificato personalmente e definitivamente con Cristo in virtù del sacramento dell’Ordine, fece del Sacrificio Eucaristico il centro della propria vita interiore. E, come alla vigilia della sua prima Comunione aveva ricevuto in ricordo la dolorosa carezza di una bruciatura per una distrazione del parrucchiere, così anche ora gli rimase impresso nella memoria il sacrificio di un devoto desiderio: dare la Comunione a sua madre prima che a chiunque altro nella sua prima Messa. Il Signore, evidentemente, lo attirava sempre più verso la Croce con queste piccole dimostrazioni di predilezione.
Nell’appartamento di via Rufas erano invitati a pranzo i nipoti della signora Dolores, le due amiche di Carmen venute da Barbastro e poche altre persone amiche. Il modesto ricevimento abbinava la povertà al buon gusto. La padrona di casa aveva preparato un eccellente piatto di riso197.
Quando ebbero finito di mangiare, il sacerdote si ritirò in camera sua. Gli avevano appena notificato la sua prima nomina nella carriera ecclesiastica. Andò con il pensiero agli avvenimenti degli ultimi mesi e ai recenti fatti della giornata. Aveva qualche motivo di pensare che il Signore continuasse il ben noto martellamento: “un colpo al chiodo e cento al ferro del cavallo” . Sconsolato, protestava filialmente e fra i singhiozzi con il Signore: “ Come mi tratti, come mi tratti!” 198.
194
NOTE CAPITOLO III
1 Cfr J. Escrivà de Balaguer, Huellas de Aragón en la Iglesia Universal, in “Universidad” , Saragozza 1960, n. 3-4, p. 6.2 Cfr Appendice documentale, documento X.3 Se leggiamo i commenti del famoso autore del Viaje de Espana capiremo quanto sia mutevole il gusto artistico: «La chiesa che fu dei Gesuiti e oggi del Reale Seminario di S. Carlo - scriveva Antonio Ponz verso la fine del XVIII secolo - assomiglia al negozio di un venditore di specchi, special- mente la cappella della Comunione. Tutto questo fa contrasto con ottimi stucchi che, imitando il marmo, fanno da fregio o da balza a tutta la chiesa e alle cappelle. Il meglio che vi ho trovato è stato l’altare di S. Lupercio (...). Il cattivo gusto di questa chiesa supera quanto ho riferito di essa, e non so a che cosa pensasse padre Norberto Caimo o Vago Italiano quando, in una lettera del 7 luglio 1755, scrisse di questa chiesa che era “la più vaga” , vale a dire la più graziosa di Saragozza, come pure la più ricca di oro e di oggetti preziosi;vsenza dubbio dovettero ingannarlo le dorature, e gli stucchi che egli prese per marmi» (A. Ponz, Viaje de Espana, tomo XV, lettera II, 33, Madrid 1788; riedito da M. Aguilar, Madrid 1947, p. 1318). E ben noto comunque il sistematico disprezzo di Ponz per l’arte barocca.4 Cfr E. Subirana, Annuario Ecclesiastico, cit., (Arcidiocesi di Saragozza), in cui sono elencati, anno per anno, i sacerdoti membri del Reale Seminario di S. Carlo.5 In data 6 settembre 1886 apparve nel Bollettino Ufficiale della Diocesi il bando di concorso per 50 borse di studio.Nell’archivio dei libri appartenenti al Seminario esisteva un fascicolo fatto di fogli bianchi rilegati, 83 dei quali manoscritti. Si tratta della Storia della fondazione del Seminario dei poveri di S. Francesco di Paola, in cui si parla degli inizi, nell’anno 1886, e sono riferiti alcuni avvenimenti e usanze del seminario fino all’anno scolastico 1905-1906.Nell’anno 1897-98 si verificarono due fatti importanti: uno nel Seminario
195
Conciliare, che passò al rango di Università Pontificia, con tre Facoltà: Filosofia, Teologia e Diritto Canonico; l’altro nel Seminario di S. Francesco, dove si cominciò ad ammettere seminaristi paganti (pp. 77-79).6 Regolamento per il regime e il buon governo del Seminario dei Poveri di S. Francesco di Paola della Città di Saragozza, disposto dall'Eminentissimo e Reverendissimo Mons. Francisco de Paula Cardinal Benavides, Arcivescovo di Saragozza, etc., Saragozza 1887. Salvo che per l’orario e qualche altro punto, il Regolamento restò in vigore anche durante gli anni che Josemaria passò nel seminario.7 Durante l’anno 1920-21 c’erano in totale 37 alunni, 23 dei quali studiavano latino, 11 filosofia e 23 teologia (cfr Fogli di iscrizione e Verbali degli esami). «I due seminari erano equiparati - racconta Hugo Cuberò, un condiscepolo di Josemarfa - e l’uno serviva semplicemente di ampliamento all’altro: non esistevano privilegi né differenze nell’appartenere a uno dei due» (Hugo Cuberò Berne, AGP, RHF, T-02859, p. 1).Nell’anno 1897-98, quando l’Arcivescovo decise l’ammissione di seminaristi paganti, la retta fu fissata a 1,25 pesetas al giorno; importo che non cambiò per più di 25 anni: cfr Historia de la Fondación, op. cit., pp. 78-79; e Rendiconti economici dei corsi 1920-1925 del Seminario di S. Francesco di Paola, visti ed esaminati dalla Giunta Economica del Reale Seminario Sacerdotale di S. Carlo (questi manoscritti, insieme a tutta la documentazione del Seminario di S. Francesco di Paola, sono stati recentemente trasferiti all’Archivio Diocesano di Saragozza).Per quanto concerne gli allievi interni del Seminario Conciliare, il Regolamento stabiliva, per la «retta degli alunni diocesani ed extradiocesani», quanto segue: «Gli alunni diocesani pagheranno in ragione di 1,50 pesetas al giorno; gli extradiocesani 2,50 pesetas»; e inoltre che, «oltre alla pensione stabilita all’articolo precedente, saranno dovute per ogni posto 20 pesetas per l’uso del letto di ferro con materasso, tavolo, tavolino da notte, portacatino, brocca per l’acqua, attaccapanni, sedia e bugia, ecc.» (cfr Regolamento disciplinare del Seminario Generale Pontificio di S. Valero e S. Braulio di Saragozza, anno 1925, articoli 222 e 223).Come si deduce dalla pensione degli alunni extradiocesani, i due seminari erano sovvenzionati.8 Poco dopo l’inaugurazione del seminario fu deciso che i seminaristi usassero questa uniforme, che fu loro imposta in una solenne cerimonia dallo stesso cardinale il 5 dicembre 1886 (cfr Historia de la fundación, op. cit., anno 1886-1887).9 Sembra che verso la fine degli anni venti tutte le camere avessero già la luce elettrica. Sui seminari di Saragozza, cfr F. Torralba, Reai Seminario de San Carlos Borromeo de Zaragoza, Saragozza 1974; e J. Cruz,, El Seminario de Zaragoza. Notas históricas, Saragozza 1945.10 La meditazione veniva fatta leggendo ad alta voce alcuni punti dell’opera di P. Francisco Garzón, Meditaciones espirituales, sacadas en parte de las del V. P. Luis de la Puente, Madrid 1900.
196
11 Per concessione di Carlo III fu destinato a seminario dapprima il Collegio dell’Eterno Padre, che era stato dei Gesuiti. Durante il primo assedio di Saragozza da parte delle truppe napoleoniche il Collegio fu utilizzato come polveriera e distrutto da un’esplosione nel 1808. Dieci anni dopo furono destinati a seminario i piani alti del S. Carlo, finché, nel 1848, lo si trasferì nell’edificio di piazza della Seo.Sulla riorganizzazione degli studi ecclesiastici e la creazione di nuove Università Pontificie in Spagna, cfr Diccionario de Historia Eclesiàstica de Espana, op. cit., voi. IV, pp. 2427-2428.Nel Regolamento disciplinare del Seminario Pontificio si diceva: «Gli alunni del Seminario si classificano in interni, del Conciliare o del S. Francesco, ed esterni» (cit., art. 49); e più oltre: «I collegiali del Seminario di S. Francesco si uniformano in tutto al piano di studi del Pontificio, ore di lezione e materie dei corsi, e si devono sottomettere, durante la loro permanenza in questo Seminario, alla disciplina dello stesso» (art. 51).12 Uno dei libri di lettura usati in refettorio era quello di Juan Maria Solà S.J., La profeda de Daniel, Barcellona 1919. Lo si rileva dal Rendiconto economico dell’anno 1921-1922: «Profecia de Daniel, Ley de expiación del P. Solà per la lettura in refettorio: ricevuta n. 4, 16,50 pts.».13 Per la lettura spirituale si utilizzava Ejercicio de Perfección di P. Alonso Rodrìguez S.J.14 Dal 1920 al 1922 gli ispettori furono i chierici Santiago Lucus e Luis Torrijo; il primo, suddiacono; il secondo aveva ricevuto gli ordini minori. Cfr Bollettino Ufficiale della Diocesi, Saragozza 1922, pp. 5- 15.15 Cfr Appendice documentale, documento X.16 Altri due suoi zii, Florencio e Carmen, andavano con una certa frequenza a trovare Josemaria in seminario. «Eravamo soliti andare la domenica pomeriggio e parlavamo passeggiando per quei grandi corridoi» (Carmen Lamartm, AGP, RHF, T-04813, p. 3).Cfr anche Javier Echevarria, Sum. 1895; Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 6.17 Cfr Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 5. Cfr anche il Libro delle Riunioni dell3Associazione dell3Apostolato della Preghiera del Sacro Cuore di Gesù del Seminario di S. Francesco di Paola (1902-1934); i dati relativi agli anni 1920-1925 si trovano nelle pagine manoscritte 92- 103. L’associazione a volte viene chiamata semplicemente Apostolato della Preghiera (cfr AGP, RHF, D-03454). Il Direttore e i Vicedirettori della Giunta erano i Superiori del Seminario (Rettore e Ispettori).Su questa associazione cfr pure E. Subirana, op. cit., 1924, p. 45, dove ne vengono specificati gli scopi e gli esercizi ed altri atti di pietà cui può prendere parte “ogni genere di fedeli” .18 Jesus Lopez Bello, Sum. 6005.19 Aurelio Navarro, AGP, RHF, T-02863, p. 2.20 Arsenio Górriz, AGP, RHF, T-02867, p. 2.
21 Meditazione del 14-11-1964. Un’altra pia pratica personale era quella della Via Crucis, che solitamente si faceva in Quaresima: Josemarìa «l’aveva talmente inserita nella sua vita che spesso ripeteva questa pratica di pietà, anche fuori dal tempo di Quaresima» (Javier Echevarria, Sum. 1861); era anche nota la sua «devozione per la Passione del Signore, che alimentava fra i seminaristi» (Jesus Lopez Bello, Sum. 6011).22 Era una portata di secondo, che veniva chiamato “entrada” . Il Regolamento del Seminario Conciliare fornisce i dati sull’alimentazione degli alunni: «Al mattino caffelatte; a mezzogiorno, minestra, lesso di carne con verdure e lardo, frutta o dolce; per merenda, pane e frutta di stagione; a cena, insalata, verdura e un secondo. In entrambi i pasti verrà data una razione di vino. Le domeniche e nelle feste di seconda classe si aggiungerà al pasto una portata; nelle feste di prima classe il pasto consisterà nella pael- la, due portate, pane biscottato, dolce e vino dolce; nelle feste dei Patroni (Immacolata, S. Valero e S. Braulio) verranno serviti minestra, tre portate, una razione e mezza di vino rosso, pane biscottato, riso al latte, caffè e un bicchierino di liquore» (cit., art. 227).23 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 145; e Pedro Casciaro, Sum. 6319.24 Cfr Agustm Callejas, AGP, RHF, T-02861, 3.25 «Nel Seminario non c’era riscaldamento in nessun locale, nonostante la durezza dell’inverno a Saragozza» (Jesus Lopez Bello, Sum. 6015).Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 138; Javier Echevarria, Sum. 1857.26 Sixta Cermeno, sposata a José Maria Albàs, anch’egli nipote del Canonico Arcidiacono, parla delle buone disposizioni di don Carlos nei confronti di Josemarìa: «L’attenzione dello zio Carlos andava da particolari materiali - per esempio, era in casa sua che si lavava e sistemava la biancheria di Josemarìa: lavora per me la nipote della donna che tutti i sabati ritirava in Seminario la biancheria di Josemarìa per tenergliela in ordine - fino a interessarsi con i superiori o i professori del Seminario su come procedeva, perché era una persona dalle molteplici relazioni, a motivo del suo rango nella diocesi come canonico e del suo carattere» (AGP, RHF, T- 02856, p. 1).27 L’art. 51 diceva: «Tutti i giorni, quando si alzano al mattino, rifaranno il letto con cura e attenzione, provvederanno a lavarsi e pettinarsi e a spazzolarsi i vestiti, senza alcuna scusa».28 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 4.29 José Maria Romàn, AGP, RHF, T-02864.30 Lettera 14-IX-1951, n. 75.31 “Nelle camere non c’era lavabo” - raccontava don Josemarìa - “e per lavarmi da capo a piedi dovevo procurarmi tre o quattro brocche d’acqua; forse era questo che scandalizzava qualcuno” (AGP, P03 1976, p. 180). «Il fatto è - racconta Mons. Alvaro del Portillo - che per questo motivo incominciarono a chiamarlo pijaito, un termine aragonese che significa “signorino” in senso spregiativo» (Sum. 138); e Mons. Javier Echevarria testimo
198
nia: «Si lavava dalla testa ai piedi tutti i giorni, con acqua fredda. Il suo comportamento sorprese alcuni compagni, che cominciarono ad applicargli il soprannome di pijaito, parola che in Aragona significa “il signorino” , persona di eccessiva ricercatezza» (Sum. 1857).«A quei tempi i seminaristi di Saragozza - racconta Francisco Artal, alunno del Seminario Conciliare - provenivano per la maggior parte da ambienti rurali e avevano il livello culturale delle famiglie contadine dei paesi dell’Aragona (...). Ricordo che a Belchite, dove facevamo gli studi umanistici, ci davano lezioni di buone maniere e che un professore ci diceva che dovevamo essere ben educati e per questo dovevamo imparare le buone maniere, senza dimenticare che chi cerca di essere santo acquisisce anche la buona educazione: “Cercate di essere santi - diceva - perché così la buona educazione vi sarà data in aggiunta” » (Francisco Artal, AGP, RHF, T- 02858, p. 1).32 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 222; Javier Echevarria, Sum. 1865; e Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 5, il quale dice di averlo sentito commentare quella volta: “Non credo che la sporcizia sia una virtù” .33 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 139; Javier Echevarria, Sum. 1858.34 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 139; Encarnación Ortega riferisce che «ebbe, fin dalla prima giovinezza, uno zelo ardente per la salvezza delle anime e ricordo di aver sentito raccontare da sua sorella Carmen che, per questo zelo, in seminario lo chiamavano “sognatore” » (Sum. 5366).35 Cfr Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 2.36 Appunti, nn. 53-54.37 Cfr Meditazione del 14-11-1964.38 II Fondatore sapeva vedere il lato positivo delle piccole contrarietà materiali del S. Carlo, che definiva “piccolezze” (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 158). Anche sua sorella Carmen diceva di avergli spesso sentito dire che «del seminario non ricordava che cose buone» (cfr Encarnación Ortega, PM, f. 31; e anche Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 2).39 Appunti, n. 1748. E una delle annotazioni scritte durante gli esercizi spirituali che fece nel luglio 1934.40 José Maria Romàn, AGP, RHF, T-02864.41 Agustin Callejas, AGP, RHF, T-02861, p. 5.42 Cfr Appendice documentale, documento X.43 Ecco, ad esempio, la testimonianza di un compagno, Aurelio Navarro, che dice di Josemaria: «Quando era in seminario era molto semplice, per nulla altezzoso» (AGP, RHF, T-02863, p. 3).Sullo stesso fòglio del libro De vita et moribus, materialmente attaccati ai voti, il Rettore scriveva i risultati degli esami, anno per anno.44 Cfr AGP, RHF, D-07056. I moduli che gli Ispettori dovevano riempire e consegnare ogni mese erano stampati con la dicitura Rapporto sulla con
199
dotta dei seminaristi del S. Francesco di Paola. Vi erano segnati tutti i nomi degli alunni e le colonne in cui si scriveva la valutazione (bene, regolare, poca o male) nei singoli aspetti. Sul retro dei moduli erano indicati i castighi imposti dagli Ispettori e dal Rettore.Eccezionalmente, nell’ottobre del 1920, a fianco della colonna Condotta, l’ispettore Lucus inserì una colonna Vocazione, nella quale assegnò 26 Bene e 9 Regolare.45 AGP, P04 1974, II, pp. 398-399.46 AGP, RHF, D-15016. Il Rettore del Seminario de S. Francesco di Paola si rivolse al Rettore del Seminario Conciliare di Logrono; ma fu il Vicerettore, D. Gregorio Fernàndez Anguiano, che era stato Prefetto di Disciplina di Josemaria, che gli rispose; abbiamo già visto infatti che il nuovo Vescovo della diocesi, Mons. Fidel Garda Martmez, aveva avocato a sé la carica di Rettore e governava il seminario con l’aiuto dei Vicerettori (cfr E. Subira- na, op. cit., 1922).47 Ibidem (Archivio diocesano. Documenti del Reale Seminario Sacerdotale di S. Carlo, cartella n. 7. Documentazione dei seminaristi, 1921-1925).48 Appunti, n. 959.49 Appendice documentale, documento X b).50 Cfr Regolamento per il regime..., cit., art. 60: «È proibito fumare, come pure mangiare e bere fuori dal refettorio». Cfr il retro dei moduli informativi degli Ispettori, sui quali, come già detto, venivano indicati i motivi del castigo e le circostanze (AGP, RHF, D-15022).51 Cfr Regolamento per il regime..., cit., art. 56.52 Sai CXX, 6 (versione della Vulgata). Non dimenticò l’episodio; nel 1930 scrisse: “Antichi edifici senza luce (“per diem sol non uret te, neque luna per noctem33, ho letto nella stanza di un seminarista, scritto sulla finestra)” (Appunti, n. 55); e dieci anni dopo tornò a scrivere: “Vi scrivo dal seminario, che è un casermone vecchio, brutto e antipatico e sporco. Non mi meraviglierei che qualche seminarista avesse messo sulla propria finestra questa iscrizione: per diem sol non uret te, neque luna per noctem” (C 869, 4-VII-1940).53 Cfr Regolamento per il regime..., cit., art. 63, che iniziava: «Si daranno sempre del lei, e in assenza di qualcuno si dirà “il signor tale” , con il cognome: non si consentirà l’uso di soprannomi o nomignoli di alcun genere».54 Cfr Regolamento per il regime..., cit., art. 49.55 Con i veterani delle legioni che avevano combattuto contro le tribù di montagna del nord della Spagna durante le cosiddette guerre cantabriche, Augusto fondò una colonia, chiamata Caesaraugusta (Saragozza), che si trovava nella provincia Tarraconense, una delle tre in cui i Romani divisero la Penisola Iberica.Il re Alfonso I “el Batallador”, dopo aver riconquistato Saragozza agli arabi, restaurò la gerarchia ecclesiastica e nominò vescovo Pedro de Liébana,
200
che dapprima stabilì la propria sede nel tempio del Pilar, che era stato chiesa cristiana per secoli, e successivamente in quella che era stata la grande moschea di Saragozza (poi distrutta da un incendio e trasformata nella cattedrale della Seo). I canonici dell’una e dell’altra sede episcopale (El Pilar e La Seo) andarono in causa sul primato delle rispettive cattedrali finché, con una Bolla del 1675, Papa Clemente X mise pace fra i due capitoli, unificandoli, con residenza annuale alternata fra le due cattedrali.Sulla storia ecclesiastica di Saragozza, cfr Diccionario de Historia Eclesià- stica de Espana, op. cit., voi. IV, pp. 2806 e ss.; cfr anche E. Subirana, op. cit., 1925, p. 314.56 Juan Soldevila y Romero era nato a Fuentelapena (Zamora), nel 1843; aveva studiato a Valladolid ed era stato ordinato nel 1867. Nel 1875 era canonico di Orense e segretario del Vescovo. Alla morte della regina Mercedes pronunciò un’orazione funebre che gli valse, da parte del re Alfonso XII, la nomina a predicatore reale (1878). Dal 1880 resse la diocesi di Ta- razona e Tudela, fino al 16-XII-1901, quando fu nominato alla sede di Saragozza. Si preoccupò dell’andamento della sua diocesi (basilica del Pilar, situazione materiale del clero, delle scuole elementari e della beneficenza sociale) e di progetti sociali in Aragona. Come Senatore del Regno difese, con la parola e gli scritti, gli interessi della Chiesa (cfr Diccionario de Historia Eclesiàstica de Espana, op. cit., voi. IV, p. 2499).57 Agli inizi del secolo, in conseguenza della perdita delle due colonie di Cuba e Portorico da dove proveniva lo zucchero di canna, prese piede a Saragozza l’industria saccarifera da bietole e con essa la fabbricazione di alcool, la distillazione della melassa e l’essiccazione delle polpe zuccherine. Aumentò considerevolmente la popolazione operaia socialmente sradicata, e quindi l’incremento dei movimenti socialisti e le agitazioni di massa. Ma le tensioni nacquero con la comparsa degli anarcosindacalisti della Confederazione Nazionale dei Lavoratori (CNT), per la maggior parte dipendenti dai sindacati di Saragozza e di Barcellona.Fra il 1917 e il 1923 ci furono a Saragozza 23 morti per colpi d’arma da fuoco.58 Nell’archivio della segreteria del Seminario Metropolitano di Saragozza si trovano i seguenti libri, in cui sono conservati i voti scolastici degli alunni.Nel Libro delle immatricolazioni quelli che si riferiscono a Josemarìa si trovano nei fogli 89, 96, 104 e 113. I voti degli esami venivano ricopiati sul Libro dei voti degli esami; quelli relativi a Josemarìa si trovano nei fogli 129, 139, 151 e 164. Infine, nel Libro dei certificati degli studi, dove si annotavano in sintesi le votazioni di ciascun alunno, si trovano nel I volume (iniziato nel 1912), foglio 348, n. 693. Le annotazioni sul libro De vita et moribus del Rettore del S. Francesco di Paola sono incomplete. Cfr AGP, RHF, D-15020.Per quanto si riferisce al Piano di Studi dell’Università Pontificia di Saragozza, cfr Statuti dell’Università, nn. 33-36 e 39; e il Regolamento accademico..., cit., art. 31 e 33.
201
59 “Ero invece molto sereno, perché avevo rettificato l’intenzione” , soggiungeva (citato da Javier Echevarria, Sum. 1881).60 Cfr Appendice documentale, documento IX.61 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 4.62 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 163. L’elenco dei professori di don Josemaria all’Università Pontificia di Saragozza è riferito da Joaqufn Alonso, Sum. 4595.63 Citato da Alvaro del Portillo, PR, p. 250; cfr pure Javier Echevarria, Sum. 1880.64 Agustin Callejas, AGP, RHF, T-02861, p. 2.65 Cfr Regolamento accademico..., cit., art. 67-74, nei quali si parla di Accademie e di altri atti letterari. Le Accademie avevano carattere pubblico, più o meno solenne, e per gli alunni la presenza era obbligatoria: c’era il sostenitore di una tesi, che la esponeva per venti o trenta minuti, in latino o in spagnolo; poi due alunni argomentavano contro la tesi. Per le circostanze dell’insieme, l’atto al quale si fa riferimento doveva essere piuttosto una “veglia letteraria” .66 D. Miguel de los Santos Diaz Gómara era nato a Fitero (Navarra) il 5- VII-1885. Fece gli studi nei seminari di Pamplona e di Saragozza. Fu ordinato presbitero nel 1909 e nel 1912 divenne canonico per concorso della Chiesa Metropolitana di Saragozza. L’8-VII-1920 fu nominato Vescovo Ausiliare di Saragozza e poi consacrato nel tempio del Pilar (cfr E. Subira- na, op. cit., 1925). Vescovo di Osma-Soria nel 1924; di Cartagena-Murcia nel 1935; Amministratore Apostolico di Barcellona nel 1939. Morì nella sede diocesana di Cartagena-Murcia nel 1949. È possibile quindi che la festa di cui si parla abbia avuto luogo in occasione della sua consacrazione.67 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 131; Javier Echevarria, Sum. 1853.68 Alvaro del Portillo, Sum. 167.69 Francisco Artal, AGP, RHF, T-02858, p. 3.70 Cfr Rendiconti economici..., cit. Quelli del corso 1920-21 andavano dal5 giugno 1920 al 7 giugno 1921. Il totale delle entrate ammontava a 2474 pts. e 60 cent.; quello delle spese a 619 pts. e 60 cent.Il Cardinale, dopo che ebbe visto e approvato i rendiconti, scrisse sull’ultimo foglio dell’anno 1920-21 che, delle 1855 pts. di avanzo (la differenza fra dare e avere), «mille pesetas siano introitate nei fondi del Seminario Sacerdotale di S. Carlo, e le rimanenti 855 pts. siano segnate come prima partita in “dare” dei conti successivi».71 «Quanto al tempo di permanenza degli alunni nel seminario, sarà norma generale e ordinaria che la loro entrata avvenga alla vigilia dell’apertura del corso e non escano fino a dopo aver terminati gli esami» (Regolamento disciplinare..., cit., art. 168). Nel corso 1921-22, Josemaria pagò la mezza pensione di 261 giorni e dai conti si vede che, analogamente all’anno precedente, non si allontanò da Saragozza per tutto il corso.
202
72 Alvaro del Portillo, Sum. 24.73 «Vedendolo serio - riferisce un amico - gli chiesi che cosa gli accadesse e mi disse qualcosa come: “Ho ricevuto una lettera da mio padre e mi racconta... Il poverino non se lo merita!” » (Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 3).74 Circa i rapporti con il suo parroco a Logrono, cfr Alvaro del Portillo, Sum. 180. Don Hilario Loza, parroco di Santiago el Reai, quando gli fu chiesto un certificato di buona condotta del suo ex parrocchiano con riferimento ai periodi di vacanza trascorsi da Josemaria a Logrono, scrisse: «Nei periodi che ha trascorso in casa dei suoi genitori ha osservato una condotta irreprensibile (...) quale compete a un giovane che aspira allo stato sacerdotale, ricevendo con frequenza i santi Sacramenti di Penitenza e Comunione, e assistendo alle feste religiose. Logrono, 6 marzo 1924» (Pratica per il Suddiaconato, ora nell’Archivio diocesano di Saragozza).75 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 10.76 Ibidem, p. 9.77 Ibidem, p. 7.78 Ibidem, p. 8; cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 149; Javier Echevarrfa, Sum. 1867.79 Carmen Noailles, AGP, RHF, T-02855, p. 2.80 Antonio Navarro, AGP, RHF, T-05369, p. 2. Il quaderno è andato perduto durante la guerra civile.81 Ibidem.82 Cfr Alvaro del Portillo, Monsenor Escrivà de Balaguer; instrumento de Dios, op. cit., p. 29.- Si è preferito nel testo mettere la classica espressione proverbiale in italiano, anche se l’originale spagnolo “No hay mal que por bien no venga” (letteralmente “Non c’è male che non venga per il bene” ) richiama da vicino l’espressione paolina (Rm 8, 28) “ Omnia in bonum - Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio” , che il Santo utilizzò per tutta la vita come regola per affrontare le difficoltà (NdC).83 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 6; Javier Echevarrfa, Sum. 1852.84 Alvaro del Portillo, Sum. 151. Il Rettore dice che fu «in seguito Direttore dei seminaristi, distinzione che gli conferì l’Em.mo Signor Cardinale ancor prima che ricevesse i Sacri Ordini, a motivo della sua esemplare condotta, non meno che della sua applicazione» (Appendice documentale, documento X b).Circa l’anticipazione della tonsura, cfr Francisco Botella, PM, f 209v; José Luis Muzquiz, PM, f 351.85 Nel foglio che lo riguarda del libro De vita et moribus, nella sezione Osservazioni generali, si dice testualmente: «E nominato Ispettore nel settem
203
bre 1922 e ha ricevuto la tonsura il 28 dello stesso mese» (foglio 111; cfr AGP, RHF, D-03235). Cfr Appendice documentale, documento X a). Nell’art. 1 si parla del «Rettore» e del «Direttore»; l’art. 27 li chiama «Superiori» (cfr Regolamento per il regime..., cit.). L’uso di chiamare «Ispettori» i Direttori fu introdotto nell’anno 1889-90 (cfr Historia de la funda- ción del Seminario de Pobres..., op. cit., pp. 31-38).Nella documentazione personale di Mons. Escrivà nell’Archivio della Segreteria Generale dell’Arcidiocesi di Madrid esiste una scheda da lui stesso manoscritta alla fine della guerra civile, fra i cui dati figura il seguente: “Direttore del Seminario di S. Francesco di Saragozza (settembre 1922 - marzo 1925)” (AGP, RHF, D-08074/5). Cfr Javier Echevarria, Sum. 1868. La data della sua cessazione appare, come è ovvio, nei rendiconti economici del Seminario, anno 1924-25, accanto a un’uscita per gratifica: «Ispettore Escrivà, che cessa dall’incarico il 28 marzo».86 J. Escrivà de Balaguer, Huellas de Aragón en la Iglesia Universale in “ Universidad” 3-4 (1960) pp. 3-4. Cfr anche Libro degli Ordini Sacri del- l’Arcivescovado di Saragozza (dal 27-V-1889 al 1947), foglio 327, n. 4410. Vi è indicato il luogo in cui gli fu conferita la Prima Clericalis Tonsura: «in hujus nostr. archiep. sacell. particulares».Mons. Alvaro del Portillo riferisce che per due volte lo accompagnò a Saragozza con lo scopo di far visita all’Arcivescovo, la prima volta a Mons. Mordilo e la seconda a Mons. Cantero. Ogni volta volle recarsi nella cappella dove aveva ricevuto la tonsura, nel palazzo arcivescovile. Si inginocchiò e pianse emozionato, recitando l’orazione della cerimonia di tonsura: Dominus pars haereditatis meae, et calicis mei, tu es qui restitues haeredi- tatem meam mihi (Sai 15,5). Cfr Sum. 189.87 Successivamente a loro furono nominati un Diacono e un ordinato in Ordini Minori. Il Rettore del Seminario Conciliare governava coadiuvato da Prefetti e Aiutanti di Disciplina (questi ultimi «scelti tra gli alunni più meritevoli»: Regolamento disciplinare..., cit., art. 23). Jesus Val, AGP, RHF, T-06889, 1.88 Se si esaminano con attenzione i rendiconti economici del seminario, si vedrà che tutti gli anni compare in Avere una scrittura per una gratifica agli Ispettori di 100 pts; e un’altra, variabile, per diritti di esame. Nell’anno 1922-23, per esempio, si trova registrato: «Diritti di esame dei signori Ispettori D. José Maria Escrivà e D. Juan José Jimeno; ricevute n. 2 e 3, ...20 pts». E più oltre: «Gratifica ai signori Ispettori Escrivà e Jimeno...100 pts» (cfr Rendiconti economici, cit.).89 José Maria Roman, AGP, RHF, T-02864. Sulla sintonia esistente fra l’ispettore e il famiglio, cfr Jesus Lopez Bello, Sum. 6000; Javier Echevarria, Sum. 1873.90 A questo proposito dichiara Mons. Javier Echevarria: «Arrivò ad avere grande confidenza con Mons. Miguel de los Santos Diaz Gómara. Questo Vescovo ebbe una così profonda stima per il suo sottoposto, il seminarista Josemarìa Escrivà, che - con il passar del tempo - si considerò molto amico suo e conservò per moltissimo tempo lettere e appunti di conversazioni
204
che aveva avuto con Josemaria, quando questi era seminarista e quando iniziò a lavorare come sacerdote. Purtroppo questo archivio è andato perduto, perché la persona che ne aveva cura, adempiendo un mandato del buon Vescovo, dopo la sua morte distrusse tutto il materiale» (Sum. 1853).91 Antonio Navarro, AGP, RHF, T-05369, p. 2.92 Cfr Historia de la fundación del Seminario de Pobres..., op. cit., pp. 52- 59; Alvaro del Portillo, Sum. 132; Javier Echevarria, Sum. 1853.93 Cfr Alvaro del Portillo, PR, pp. 244-245. Don Antonio Moreno morì il 14-1-1925 e gli succedette, come vicepresidente del S. Carlo, don Luis Latte Jorro (cfr E. Subirana, op. cit., 1925, p. 314 e 1926, p. 395).94 Hugo Cuberò Berne, AGP, RHF, T-02859, p. 2.95 II signor José si trovava dal barbiere a Logrono, quando sentì dire che certe donne insidiavano suo figlio a Saragozza. Non appena potè parlare con Josemaria, gli disse che era preferibile essere un buon padre di famiglia che un cattivo sacerdote. Con la massima tranquillità di coscienza, il figlio gli spiegò l’accaduto: alcune donne, in effetti, avevano cercato di provocarlo, ma egli era andato subito a parlarne al Rettore, esponendogli la propria disposizione d’animo di anteporre il sacerdozio alla vita stessa. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 162; e Javier Echevarria, Sum. 1877.96 Istanza che compare nella “Pratica delle Ordinazioni delle Tempora di Avvento del 1922” , nell’Archivio diocesano di Saragozza.I poteri del sacerdozio cattolico - potere di offrire il Sacrificio eucaristico, di amministrare i sacramenti e di predicare la parola di Dio - furono concessi in pienezza alla Chiesa da Nostro Signore. La Chiesa li può comunicare, più o meno completamente, ai soggetti che li ricevono. Questo implica diversi gradi, che costituiscono i singoli Ordini. Di istituzione divina sono solo il sacerdozio ministeriale propriamente detto (nei suoi gradi: episcopato e presbiterato) e il diaconato.Nel corso dei secoli, gli Ordini vennero distinti in Ordini Maggiori: episcopato, presbiterato, diaconato e suddiaconato (quest’ultimo non è di istituzione divina); e Minori: ostiariato, lettorato, esorcistato e accolitato (tutti di istituzione o di diritto ecclesiastico).97 Ibidem.98 Ibidem. Cfr Appendice documentale, documento XI.99 Jesus Lopez Bello, AGP, RHF, T-02862, p. 3.100 Jesus Val, AGP, RHF, T-06889, p. 2.101 Citato da Javier Echevarria, Sum. 1871.102 Jesus Val, AGP, RHF, T-06889, p. 3.103 Jesus Lopez Bello, Sum. 6010.104 Appendice documentale, documento X b).105 Alvaro del Portillo, Sum. 153.106 Anche questi manoscritti furono trasferiti all’Archivio diocesano di Saragozza. Cfr AGP, RHF, D-15022.
205
107 La frase sta nel Rapporto del mese di marzo 1923; si trova scritta sul retro, accanto alla lista dei Castighi dell'ispettore (cfr il Rapporto originale nell’Archivio diocesano di Saragozza).108 Rapporto del mese di novembre 1922 (ibidem, p. 573v).109 Rapporto del febbraio 1923 (cfr ibidem, p. 573v).110 Rapporto dell’aprile 1923 (cfr ibidem).111 Rapporto del febbraio 1924 (cfr ibidem).112 Jesus Val, AGP, RHF, T-06889, p. 5.113 Citato da Javier Echevarrfa, Sum. 1874.114 Rapporto del mese di novembre 1924.115 Javier Echevarrfa, Sum. 1795.116 C 653, 4-IX-1938.117 Lettera 7-X-1950, n. 34.118 A. Ponz, Viaje de Espana, op. cit., p. 1318. Di Manuel de Roda, ministro di Carlo III, che, con i suoi consigli, provocò l’espulsione dei Gesuiti dalla Spagna, si dice che - cocciuto come ogni aragonese - abbia lasciato la propria biblioteca al Reale Seminario di S. Carlo per dimostrare che non era né antiecclesiastico né antireligioso; che fosse antigesuita era noto a tutti.119 Cfr Agustfn Callejas, AGP, RHF, T-02861, p. 4; Aurelio Navarro, AGP, RHF, T-02863, p. 1; Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, 3.120 Cfr Appendice documentale, documento IX; Libro dei risultati degli esami, cit., foglio 151; Libro dei certificati degli studi, voi. I, foglio 348, n. 693.Per ottenere la licenza nelle diverse Facoltà dell’Università Pontificia bisognava aver superato: tre corsi per la Filosofia, due per il Diritto Canonico e quattro per la Teologia (cfr Statuti dell3Università, nn. 39-42; Regolamento accademico..., cit, art. 37). Esisteva anche la cosiddetta carriera abbreviata, seguita da alcuni seminaristi, che comprendeva solo due corsi di Teologia.121 Bollettino Ecclesiastico Ufficiale dell3Arcivescovado di Saragozza, anno LIX, n. 5 (11-111-1920), pp. 134-135.Cfr anche l’istruzione “Perspectum est Romanos Pontifices33 di Leone XIII (21-VII-1896) e il Motu proprio “Sacrorum Antistitum33 di Pio X (1-IX- 1910).122 Mons. Peralta, Vescovo di Vitoria, riferisce: «A quel tempo si riteneva già un fatto singolare alternare gli studi ecclesiastici con quelli della Facoltà di Diritto all’Università di Saragozza; non era frequente e solo eccezionalmente lo si consentiva a qualcuno. Mons. Escrivà aveva ottenuto il permesso dal Cardinale Soldevila» (Francisco Peralta, AGP, RHF, T- 06887, p. 2).Cfr anche Mons. José Lopez Ortiz, Sum. 5264; Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 3, che aggiunge: «Una volta l’ho sentito dire che era molto
206
grato al Cardinale Soldevila per avergli accordato il permesso di effettuare simultaneamente gli studi di diritto e quelli di teologia».123 AGP, RHF, D-05194, p. 1.124 Ibidem, p. 2.125 Carlos Sànchez del Rio, AGP, RHF, T-02853, p. 1; Miguel Sancho Iz- quierdo, PM, f. 141.126 Luis Palos, AGP, RHF, T-07063, p. 2.Le altre tre materie alle quali si era iscritto nall’anno 1923-24 erano: Economia politica, Storia Generale del Diritto spagnolo e Diritto Civile spagnolo (I corso): cfr Appendice documentale, documento XII.127 Alvaro del Portillo, Sum. 173; Javier Echevarria, Sum. 1884.128 Joaqum Alonso, Sum. 4598.129 Cfr José Luis Soria Saiz, AGP, RHF, T-07920, allegato II; e AGP, RHF, D-15249.130 José Lopez Ortiz, Sum. 5303; Alvaro del Portillo, Sum. 176; Javier Echevarria, Sum. 1885 e 1886.131 Cfr J. Escrivà de Balaguer, Huellas de Aragón en la Iglesia Universale in “ Universidad” 3-4 (1960) pp. 3-4.132 Citato da Alvaro del Portillo, PR, p. 221; cfr pure Javier Echevarria, PR, p. 176.133 II riferimento è piuttosto indefinito, ma chiarisce le circostanze: “Quando ero molto giovane” - raccontava don Josemarìa - “e stavo nel Seminario di Saragozza, una volta ho avuto un grande dispiacere. In quei giorni il professore di Diritto canonico cominciò a raccontarci questa storia: c’era una volta un commerciante che comperava cannella allo stato naturale... Le sue parole mi fecero molto bene. Effettivamente nessuno di noi si santifica grazie a chissà chi, ma confrontandoci con le persone che abbiamo al nostro fianco” (cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 221; e Javier Echevarria, PR, p. 176).134 Cfr Jesus Lopez Bello, Sum. 6013.135 Francisco Artal, AGP, RHF, T-02858, p. 4.136 Annotazione manoscritta del Rettore, il Rev. don José Lopez Sierra. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 147.Julio Cortés Zuazo aveva 43 anni ed era allievo del Seminario Conciliare; aveva fatto la cosiddetta carriera abbreviata (scelta da chi entrava in seminario in età matura o aveva difficoltà nello studio). Don José Lopez Sierra- con don Miguel Carnicer, don Luis Latre e don Blas Navascués - fece parte del tribunale, presieduto dal Vescovo Ausiliare e incaricato dal Cardinale Soldevila di esaminare «della sufficienza della dottrina, secondo l’Ordine al quale aspirano,i seguenti signori...». Nell’elenco degli Ordini Minori si citava Josemarìa come promosso e in quella del Suddiaconato si citava D. Julio Cortés Zuazo come respinto, con la firma dei membri del
207
tribunale e la data del 29-XI-1922 (cfr Pratica delle Ordinazioni delle Tempora di Avvento del 1922, in Archivio diocesano di Saragozza).137 Lettera del rev. Gregorio Fernàndez Anguiano, 26-X-1923, in AGP, RHF, D-15449.138 Javier Echevarria, Sum. 1865. Sul biglietto da visita era stampato: «Ju-lio Ma. Cortés - Cappellano del Sanatorio Antitubercolosi - “El Neveral”- Jaén», con la data manoscritta: «8-X-1952» (cfr originale in AGP, RHF, D-15282).139 La Virgen del Pilar, articolo pubblicato in AA. W ., Libro de Aragón, Saragozza 1976, pp. 97 e ss. Ci sono riferimenti anche in altri scritti; per esempio: “Durante il tempo che ho trascorso a Saragozza facendo i miei studi sacerdotali (...) le mie visite al Pilar erano per lo meno quotidiane” (Recuerdos del Pilar, articolo pubblicato in “El Noticiero”, quotidiano di Saragozza, ll-X-1970). Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 142.La storia architettonica del tempio del Pilar è molto complessa per le vicissitudini dei progetti, dell’esecuzione dei lavori, degli ampliamenti e restauri, che non hanno avuto sosta fino al secolo attuale. Su questo ed altri aspetti storici, cfr R. del Arco, El tempio de Nuestra Senora del Pilar en la Edad Media, in AA. VV., Estudios de la Edad Media de la Corona de Aragón, voi. I, Saragozza 1945; F. Fita, El tempio del Pilar y San Braulio de Zaragoza. Documentos anteriores al siglo XVI, in Bollettino della Reale Accademia di Storia, 44 (1904).140 Cfr Meditazione del 14-11-1964.141 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 144; Javier Echevarria, Sum. 1862. Il Regolamento per il regime..., cit., art. 52, dice: «Non entreranno per nessun motivo nella camera di un altro in nessuna occasione». Tuttavia, un testimone oculare afferma: «I seminaristi commentavano le mortificazioni che faceva. Ricordo che un giorno uno mi disse di essere stato nella sua camera e di avervi trovato un cilicio. Io con poca discrezione lo raccontai subito a Josemaria ed egli, con un’espressione molto seria, mi disse deciso: “Parlare di questo è di cattivo gusto: sono cose che non si devono commentare” . In un’altra occasione ricordo che mi disse: “Paco, la carne è debole. Per questo ci sono i cilici” » (Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 6).142 Lettera 25-V-1962, n. 41.143 Santa Teresa-d’Avila, Cammino di perfezione, 34, 6.144 Cfr A. Ansón y B. Boloqui, Zaragoza barroca, in AA. W ., Guia históri- co-artistica de Zaragoza, Saragozza 1983, pp. 248-255.In un viaggio che fece a Saragozza nell’ottobre 1960, il Fondatore visitò la chiesa di S. Carlo. Uno dei presenti ricorda che, dirigendosi verso l’altare maggiore e «indicando una tribuna riparata da una grata, che si trova nella parte superiore destra del presbiterio, disse: “ Qui ho passato molte ore in preghiera, di notte” » (Florencio Sànchez Bella, AGP, RHF, T-08250, p. 2).145 Cammino, n. 104.
208
146 Pratica per il Suddiaconato, compresa in Pratica per le Ordinazioni delle Tempora di Pentecoste del 1924, Archivio diocesano di Saragozza.Nella stessa data venne fatta un’altra istanza al Vicario Capitolare, in cui Josemaria “Supplica V. S. Ill.ma che si degni di concedergli di potersi ordinare a titolo di servizio della diocesi” (ibidem).Pure con la stessa data figura nella pratica per il Suddiaconato una sua dichiarazione che dice: “Certifica di essere esente da obblighi militari. Lo attesta agli effetti conseguenti, in Saragozza, 14 maggio 1924. José Maria Escrivà y Albàs” (ibidem).Alcuni giorni dopo, nel Rapporto che il Rettore del Seminario di S. Francesco di Paola inviò alla Segreteria dell’Arcivescovado in data 18 maggio, si fece notare che il signor Escrivà è stato dichiarato «totalmente» esentato dal servizio militare «per difetto fisico della vista» (ibidem).147 Pratica per le Ordinazioni delle Tempora di Pentecoste del 1924, Archivio diocesano di Saragozza.148 Cfr Appendice documentale, documento XI.149 Cfr Appendice documentale, documento IX.150 «Ci commentava con gioia e con precisione quali erano le funzioni del suddiacono nelle cerimonie liturgiche; le conosceva perfettamente per averle vissute con una partecipazione molto immediata e per averle svolte» (Javier Echevarrfa, Sum. 1899).151 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 2.152 Sixta Cermeno, AGP, RHF, T-02856, p. 1.153 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 3.154 Carlos Sànchez del Rio, AGP, RHF, T-02853, p. 1; cfr anche Javier Echevarrfa, Sum. 1886.155 Lettera 29-XII-1947 /14-11-1966, n. 19.I seminaristi del S. Francesco di Paola editarono nel 1924 un numero della rivista La Verdad (La Verità), con la collaborazione dell’ispettore, da quanto riferisce Agustfn Callejas: «Ci mettemmo molto impegno per far uscire una rivista del seminario perché si notasse la nostra presenza nel Conciliare. Ci costò molto lavoro, ma alla fine vide la luce il primo numero, che poi fu anche l’ultimo perché non ci permisero di farne uscire altri.Si chiamava “La Verdad33 (Ta Verità). Josemarfa scrisse un articolo su cultura e letteratura e io un altro su alcuni aspetti della vita pubblica spagnola in quel momento» (Agustfn Callejas, AGP, RHF, T- 02861, p. 5).Dalla descrizione non è facile capire a quale articolo si riferisca, dato che le firme sono pseudonime. Ma è interessante rilevare che vi si trova una lunga poesia su “La venuta della Madonna del Pilar33, firmata II Trovatore, e che nella presentazione redazionale della rivista si legge: «Santissima Vergine del Pilar (...) benedici la nostra umile rivista e sii Tu, Te ne preghiamo, la Direttrice, non solo onoraria, ma effettiva, de La Verdad» (cfr copia de La Verdad in AGP, RHF, D-15488).
209
156 Recuerdos del Pilar (in “El Noticiero” , Saragozza ll-X-1970); cfr anche AGP, RHF, P03 1978, pp. 21-22.157 J. Escrivà de Balaguer, La Virgen del Pilar, nel Libro de Aragón, op. cit., p. 97.158 AGP, P03 1975, pp. 222-223; cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 141; Javier Echevarria, Sum. 2556; Jesus Alvarez Gazapo,Sum. 4281.Il cugino, Pascual Albàs Llanas, attesta: «L’immagine proveniva dalla casa di D. Carlos Albàs e Manolita, sua nipote, la diede a mia moglie» (Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, 2).Fra gli altri resoconti del fatto cfr, ad esempio, quello di Encarnación Or- tega:«Approfittando di un viaggio da Roma in Spagna (...), Mercedes Morado, all’epoca Segretaria dell’Assessorato Centrale dell’Opera, prese a Saragozza - le era stata consegnata da alcuni parenti di nostro Padre - una statuetta di gesso della Madonna del Pilar, che era appartenuta al nostro Fondatore. Non appena arrivò a Roma, la consegnammo al Padre. “Padre, gli dicemmo, è arrivata qui un’immagine della Madonna del Pilar che lei aveva a Saragozza” . Nostro Padre rispose di non ricordarsene ma io insistetti: “Sì, la guardi, c’è una cosa scritta da lei” . Gli mostrai la base della statuetta, su cui si poteva leggere una giaculatoria incisa con un chiodo: “Domina, ut siti” , seguita da una data: “24-5-1924” . Le parole latine erano seguite da un punto esclamativo, come faceva nostro Padre tutte le volte che scriveva una giaculatoria in latino.Il Padre allora riconobbe la statuetta e la propria scrittura e si emozionò molto» (Encarnación Ortega, AGP, RHF, T-05074, p. 169). La data scritta sulla base non è dunque il 24 settembre, come erroneamente è stato talvolta riportato, bensì il 24 maggio.159 Da un’intervista pubblicata da “La Gaceta del Norte”, Logrono 28-VI- 1975, p. 3.160 Sulle circostanze della morte del signor José Escrivà, cfr Alvaro del Portillo, Sum. 182; Javier Echevarria, Sum. 1891; Paula Royo, AGP, RHF, T- 05379, p. 3. L’atto di morte si trova nei registri dello Stato civile di Logrono, sezione 3a, p. 586.161 Manuel Ceniceros riferisce, parlando del signor José: «Quel giorno tardava a venire e il padrone mi disse di andare a casa sua, che era allora al n.18 di via Sagasta (oggi n. 12), all’angolo con la Via Vecchia, e lo trovai che stava molto male; morì poco dopo» (cfr l’intervista citata, che contiene alcuni errori). Quindi gli Escrivà avevano lasciato la casa di via Canalejas ed erano tornati in via Sagasta, al secondo piano anziché al quarto.162 Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7321.163 Su questo fatto e sul suo profondo senso della giustizia: Ernesto Julià, Sum. 4206. Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 183; Francisco Botella, Sum. 5616.164 Cfr Appunti, n. 583.165 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 183; Javier Echevarria, Sum. 1893.
210
166 Cfr Comune di Logrono, censimento municipale dell’ l dicembre 1924 (in base alla delibera municipale dell’8 marzo 1924), foglio d’iscrizione n. 1579.167 La differenza di età fra i due fratelli - diciassette anni - obbligò don Josemaria ad occuparsi del sostentamento e dell’educazione di Santiago, della sua formazione umana e spirituale e, per molti anni, a svolgere funzioni di consiglio verso i membri della sua famiglia. Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 22.168 «Sopportò con grande fiducia nel Signore e grande fortezza d’animo la morte di suo padre e non per questo modificò la propria decisione di farsi sacerdote», dice uno dei testimoni (cfr Francisco Botella, Sum. 5616); «La morte di suo padre lo riconfermò nella sua vocazione» (cfr Encarnación Ortega, PM, f. 32); spiegando i fatti e le circostanze, Mons. Javier Eche- varria commenta: «Anzi, intese come una chiara manifestazione della Provvidenza divina il fatto di aver già ricevuto il Suddiaconato; considerò l’impegno assunto di dedicare al Signore tutta la vita nel celibato come un obbligo dal quale non poteva tirarsi indietro in quel momento straordinario, anche se sapeva bene che avrebbe potuto ottenere una dispensa con relativa facilità, viste le urgenti ragioni che l’avrebbero motivata» (PR, p. 216).169 Meditazione del 14-11-1964. Cfr Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, 6; Alvaro del Portillo, Sum. 47 e 506; Esperanza Corrales, AGP, RHF, T- 08203, p. 6.Il significato dell’espressione popolare spagnola usata dal Fondatore, già apparsa altre volte nel testo, è che per ogni colpo di martello che il Signore dava a lui per forgiarlo spiritualmente, coloro che stavano intorno a lui, soprattutto i familiari, ne ricevevano molti di più. Era un modo indiretto e doloroso di formarlo.A quanto riferisce Mons. Javier Echevarria, «quando toccava questi argomenti e altre vicissitudini che dovette affrontare, il Servo di Dio - pieno di gratitudine verso il Signore - si esprimeva dicendo che “erano come colpi d’ascia che Dio Nostro Padre doveva dare al tronco della mia vita per farmi sempre più simile all’immagine di Cristo che voleva che fossi” ; o commentava che il Signore, per prepararlo, dava “un colpo al chiodo e cento al ferro del cavallo, perché così mi faceva soffrire di più” . Qualsiasi paragone usasse, concludeva dicendo: “ Grazie, Signore, per avermi trattato così; e perdona la mia durezza nel non saper seguire con la dovuta delicatezza le chiamate che allora mi facevi” » (PR, p. 1316).170 Meditazione del 14-11-1964. Il 28 settembre 1932 scriveva:“Da ieri porto con me un piccolo crocifisso, con l’immagine sciupatissima, che mio padre (riposi in pace) portava sempre con sé e che a lui fu consegnato alla morte di sua madre che lo usava abitualmente. Poiché è povera cosa ed è molto sciupato, non mi azzarderò a darlo a nessuno, e in questo modo la santa memoria di mia nonna (grande devota della Santissima Vergine) e di mio padre aumenterà il mio amore alla Croce” (Appunti:, n. 829).
211
E due mesi dopo, il 27 novembre 1932, annotava:“Oggi sono otto anni che morì mio padre! Otto anni che sono stati, nonostante i miei peccati, una continua, paterna provvidenza di Dio verso di noi. Così, giorno per giorno, sempre in povertà, senza che io guadagnassi a sufficienza per mantenerci. Fiat, adimpleatur; laudetur et in aeternum su- perexaltetur iustissima atque amabilissima Voluntas Dei super omnia. Amen. Amen” (Appunti, n. 880).171 C 572 , 9-V-1938.172 L’istanza di Josemaria al Vicario Capitolare di Saragozza dice: “Desiderando ricevere nelle prossime Tempora il Sacro Ordine del Diaconato, avendone gli opportuni requisiti e sentendosi chiamato allo stato sacerdotale, supplica la S. V. Ill.ma che si degni di concedergli le opportune lettere dimissorie (...). Saragozza, 11 novembre 1924” (nella Pratica per le Ordinazioni delle Tempora di Avvento del 1924, nell’Archivio diocesano di Saragozza).Vi si trova allegato, anch’esso in data 11-XI-1924, un certificato firmato dal Rettore del seminario, don José Lopez Sierra: «Certifico che il suddiacono José Maria Escrivà y Albàs ha esercitato varie volte l’Ordine del sud- diaconato nella chiesa del Seminario Sacerdotale di S. Carlo» (ibidem). Fra le dichiarazioni dei testimoni sulla condotta dell’ordinando si trova quella di «don Daniel Alfaro, presbitero, il quale, dopo aver affermato di dire il vero sotto giuramento», fu interrogato e disse che «conosce perfettamente don José Maria Escrivà Albàs per averlo frequentato a Logrono durante le vacanze che ha passato in casa dei suoi genitori» (ibidem).173 Cfr Appendice documentale, documento XI.174 Dice che probabilmente lasciarono l’appartamento «all’inizio del 1925», dato che le sembra che passarono ancora il Natale del 1924 a Logrono (Paula Royo, AGP, RHF, T-05379, p. 3).175 José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 3; Sixta Cermeno, AGP, RHF, T- 02856, p. 2.176 Sixta Cermeno, AGP, RHF, T-02856, p. 1.Un primo cugino del Fondatore scrive: «Mio zio morì senza lasciare praticamente nulla, dato che viveva del suo impiego da Garrigosa, un negozio di Logrono. Ho sentito dire che i miei zii Carlos - canonico di Saragozza -, Mariano - anch’egli sacerdote, fucilato poi a Barbastro durante la guerra -, Vicente - che fruiva di un beneficio ecclesiastico a Burgos - e Fiorendo Albàs avevano pensato di passare loro una somma se fossero rimasti a Logrono; non so perché (...) gli zii furono molto contrariati della decisione della famiglia di venire a Saragozza accanto a Josemaria e non li aiutarono per niente» (Angel Camo, AGP, RHF, T-02846, p. 3); «Alcuni degli zii presero le distanze per non doverli aiutare», spiega un altro cugino di Josemaria (cfr Pascual Albàs, AGP, RHF, T-02848, p. 2).Josemarfa «ebbe sempre per lo zio don Carlos Albàs sentimenti di comprensione e di carità cristiana» (Francisco Botella, Sum. 5617).Mons. Javier Echevarrfa ci spiega che «Don Carlos, che era un uomo auto
212
ritario, pretese, senza riuscirci, che suo nipote facesse le cose che lui stesso aveva deciso» (Sum. 1897).177 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7322.Francisco Moreno riferisce di Josemarìa che «in casa di suo zio trovò un atteggiamento di forte disistima e freddezza nei confronti suoi e della sua famiglia, da parte in modo particolare della nipote, sua cugina» (Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, p. 6).Forse la cugina Manolita temeva di perdere la propria influenza sullo zio. Ma si tratta probabilmente di semplici pettegolezzi (Alvaro del Portillo, Sum. 188).178 Alvaro del Portillo, Sum. 187; Javier Echevarria, Sum. 1897.179 Cfr Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 4. Quando si profilò il pericolo che lo Stato sopprimesse i contributi per il culto e il clero, don Jose- marìa annotò, in data 17 ottobre 1931: “Ho detto alla mamma e ai miei fratelli che, se tolgono lo stipendio al canonico arcidiacono di Saragozza e a suo fratello, scriverò loro in modo affettuoso offrendo loro il mio aiuto. Bisogna ricambiare il male con il bene” (Appunti, n. 336; cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 188; e Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7322).180 C 1325, 6-1-1948; cfr Alvaro del Portillo, Sum. 188. Don Carlos Albàs morì il 1° febbraio 1950 (cfr AGP, RHF, D-15243).181 Angel Camo, AGP, RHF, T-02846, p. 2.182 Nel novembre 1970 il Fondatore raccontava che un giorno, durante il lavabo della Messa, gli tremavano le mani al pensiero che tra poco avrebbe toccato l’Ostia Consacrata. Si ricordò di quando per la prima volta aveva toccato il Signore in una Esposizione eucaristica e gli sgorgarono dal cuore parole da innamorato: “Signore, fa’ che non mi abitui a stare vicino a Te; che Ti ami come quella volta, quando Ti toccai tremando di fede e d’amore” (cfr Articoli del Postulatore, n. 355; Umberto Farri, Sum. 3337). Cfr anche Ernesto Julià, Sum. 4184; Joaquìn Alonso, Sum. 4597.183 Florencio Sànchez Bella, AGP, RHF, T-08250, p. 2.184 Cfr Documento della Sacra Congregano De Sacramentis del 20 febbraio 1925, prot. n. 871 (incluso nella Pratica per il Presbiterato: cfr AGP, RHF, D-03263).La dispensa richiesta era di dieci mesi. Nella risposta della Sacra Congregazione ne veniva lasciata la concessione alla discrezione dell’Ordinario ut prò suo arbitrio et conscientia dispensationem largiatur (cfr ibidem).185 Cfr Pratica per il Presbiterato3 Tempora di Quaresima 1925. Archivio diocesano di Saragozza.Le “lettere dimissorie” furono richieste al Vicario Capitolare perché l’Arci- diocesi era ancora nella condizione di sede vacante.Nella pratica, con data 4-III-1925, si trova un certificato a firma del Rettore, don José Lopez Sierra, in cui si dichiara che «il Diacono don José Maria Escrivà y Albàs ha esercitato solennemente il suo ministero nella chiesa di S. Carlo» e un altro, firmato dall’ordinando, in cui certifica che
213
“da quando ha ricevuto l’Ordine Sacro del Diaconato, il giorno 20 dicembre 1924, è risieduto esclusivamente nel Seminario di S. Francesco di Paola di Saragozza” .In data 5 marzo venne aggiunto alla pratica un altro certificato, manoscritto dall’ordinando, ma firmato da don José Lopez Sierra, in cui si espone che l’ispettore «dall’ultima ordinazione ha ricevuto i Santi Sacramenti con la dovuta frequenza e la Santa Comunione quotidianamente, come è proprio di un aspirante al sacerdozio».186 Cfr ibidem.187 Cfr Appendice documentale, documento XI.188 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1903; Francisco Botella, PM, f. 211; José Luis Muquiz, PM, f. 35lv.Per tutta la vita pregò per i diaconi che con lui avevano ricevuto il presbiterato (cfr Javier Echevarria, Sum. 1904); un altro teste dichiara: «Aveva un particolare affetto per i condiscepoli del seminario di S. Francesco di Paola. Nell’anno 1975 la sua leva sacerdotale celebrò le Nozze d’Oro e tutti lo ricordarono con vero affetto; il Servo di Dio mi incaricò di partecipare a suo nome alla cerimonia e di essere affettuoso con loro» Florencio Sànchez Bella, Sum. 7480).Una volta gli fu chiesto quali fossero i suoi ricordi di quel giorno ed egli così rispose: “ Guarda, figlio mio: non ricordo nulla che vi possa raccontare ora. Ma mancherei alla verità se non dicessi che di quei momenti ricordo molto; tutto, penso” » (citato da Alvaro del Portillo, PR, p. 283).189 Per l’immaginetta ricordo: cfr AGP, RHF, D-15285.Circa il carattere familiare della festa: José Lopez Sierra, AGP, RHF, D- 03306; Martin Sambeat, AGP, RHF, T-03242, p. 3.190 Recuerdos del Pilar, op. cit., p. 67.191 Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7322; Sixta Cermeno, Agp, RHF, T-02856, p. 1; era presente anche la famiglia del professor Moneva (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 194).192 Amparo Castillón, AGP, RHF, D-15285, p. 1.193 José Lopez Sierra, Appendice documentale, documento X b).194 Sixta Cermeno, AGP, RHF, T-02856, p. 2.195 Alvaro del Portillo, Sum. 194; Javier Echevarria, Sum. 1905; Umberto Farri, PR, p. 29.196 Encarnación Ortega, PM, f. 32v.197 Sixta Cermeno, AGP, RHF, T-02856, p. 2.198 Manuel Botas Cuervo, AGP, RHF, T-08253, 59.
214
Capitolo IV
GIOVANE SACERDOTE (1925-1927)
1. La parrocchia di Perdiguera
Perdiguera, della cui parrocchia don Josemaria era stato nominato Reggente Ausiliare, era un paese a ventio venticinque chilometri da Saragozza1. Il parroco, unico sacerdote del paese, era da tempo assente perché gravemente malato. Per il novello sacerdote, che non si aspettava una destinazione lontano dalla propria famiglia e neppure una nomina così improvvisa, fu un duro colpo. In curia si sapeva benissimo che i neo ordinati venivano destinati a parrocchie dove potessero acquisire, sotto la guida di altri sacerdoti, le prime esperienze pastorali. Oltretutto, a Saragozza non c’era scarsità di clero2. Se si riflette un po’ sulla faccenda nasce inevitabilmente il sospetto, nella gestione della cosa, di un intervento premeditato e urgente di una mano non amichevole. Senza attardarsi a fare ricerche sul tema, senza protestare davanti alla durezza di una disposizione che10 allontanava dalla propria famiglia, don Josemarfa obbedì con prontezza. Il giorno seguente, martedì 31 marzo, partì per la sua nuova destinazione su un carretto trainato da muli.
L’abitato di Perdiguera aveva circa ottocento abitanti.11 paese, situato su un rilievo appena accennato in una
215
pianura posta a sud della zona dei Monegros, si trovava in mezzo a terreni aridi. Al di sopra dei tetti si ergeva, pesante e massiccia, la mole della chiesa. In fondo, all’orizzonte, si stagliava la Sierra de Alcubierre. Benché non fosse molto distante dal capoluogo, il paese si trovava fuori mano ed era mal comunicato.
Il sacrestano della parrocchia, Urbano Murillo, era a letto ammalato da alcuni giorni per cui toccò al figlio Teodoro, un ragazzo sveglio, accompagnare don Josemaria alla casa dove avrebbe alloggiato3.
Il Reggente ispezionò subito la chiesa, che era dedicata a Maria Santissima Assunta. Era tuttora ben conservata, nonostante i secoli di vita e la struttura ne confermava la solidità dell’aspetto che presentava una singolare mescolanza di elementi gotici con decorazioni geometriche aggettanti in stile mudejar, tutto in cotto. Aveva una sola navata e sulla pala d’altare rinascimentale, di non cattiva fattura, troneggiava una statua della Santissima Vergine. Ma la trascuratezza e la sporcizia dell’interno lo colpirono al cuore, non appena arrivato, soprattutto per il deplorevole stato in cui si trovavano il tabernacolo e l’altare. Bisognava spazzare e pulire la chiesa per poter celebrare la Messa il giorno successivo.
La casa in cui era ospitato era di una onesta famiglia di contadini. Molto modesta, per non dire molto povera. Come la maggior parte delle abitazioni del paese, consisteva di un piano terra dove stava la cucina e sul retro una porta che dava su di un cortiletto. Al piano superiore stavano le camere. La famiglia era composta da Saturnino Arruga, sua moglie Prudencia Escanero e un ragazzo di dieci o dodici anni4.
Don Josemaria vide con sorpresa che quella buona gente gli aveva preparato un letto formidabile. Sopra un ampio letto, con testiera e base di metallo dorato, erano stati messi un paio di soffici materassi e un piumino variopinto. Il suo scherzoso commento secondo cui, per arrivare sul letto, avrebbe dovuto prendere la
216
rincorsa e saltare, aveva lo scopo di mascherare con buon umore la penitenza di dormire sul pavimento, che era esattamente la posizione dalla quale vedeva innalzarsi il letto come un’imponente costruzione. Quel catafalco oscillava e scricchiolava al minimo movimento, con una “sagra notturna di rumori” adatta a interrompere il sonno più profondo. A giudicare dalle facezie con cui descriveva l’impalcatura del letto, deve averci dormito ben poche volte5.
Il giorno successivo al suo arrivo a Perdiguera riservò il Santissimo nel tabernacolo e si occupò di organizzare le attività della giornata. Mancavano solo pochi giorni alla Settimana Santa e il suo desiderio era che tutti i parrocchiani si accostassero al sacramento della Penitenza per adempiere poi il precetto della Comunione pasquale. Aiutato dal sacrestano e da suo figlio mise in pratica il proposito di conoscere quanto prima le famiglie della parrocchia. Come assicura Teodoro, il chierichetto, benché vi fossero circa duecento case «fece visita a tutte le famiglie del paese in poco tempo»6. Man mano che andava conoscendo i parrocchiani, si rese conto della scarsa dottrina degli adulti e dell’assoluta ignoranza del catechismo da parte dei loro figli. Subito il Reggente si propose nuove mete: organizzare delle catechesi per gli adulti e per i bambini e preparare questi ultimi alla prima Comunione.
Passata la Settimana Santa e i lunghi riti liturgici don Josemarìa, accompagnato dal chierichetto, fece visita e confessò tutti i malati costretti a letto, mettendosi a disposizione per portare loro la santa Comunione, se lo desideravano. Il giovane sacerdote ambiva di dare solennità alla Messa visto che, fosse o no festa, celebrava la Messa cantata tutti i giorni, senza badare se Paffluenza di fedeli era scarsa7. La maggior parte della gente si alzava all’alba per recarsi al lavoro nei campi. Perdiguera viveva del frutto delle terre coltivate, dei vigneti e degli uliveti. I campi della zona erano duri, ma
217
esistevano anche alcuni pascoli dei quali fruivano le greggi di pecore e di capre degli abitanti.
Quando aveva qualche momento libero don Josemaria si dedicava alla lettura o allo studio. A mezzogiorno sedeva alla tavola dei contadini e prendeva, di buona voglia e con appetito, quanto preparato da Pru- dencia. Non erano certamente piatti raffinati, però abbondanti e sostanziosi: del buon pane, legumi, maiale o montone, il tutto con molto olio e molti condimenti piccanti. Dopo mangiato, quando la gente faceva la siesta, se ne andava con il chierichetto a fare un giro nei dintorni. Oltre a fare esercizio fisico, don Josemaria ne approfittava per illuminare cristianamente il suo giovane accompagnatore. Prendevano per il cosiddetto “Passeggio dei preti” , che mai mancava nei paesi e nemmeno a Perdiguera, e facevano ritorno dalla contrada Uliveto. Teodoro ha ora dimenticato il tema delle chiacchierate, ma non un certo comportamento del Reggente: «Durante le passeggiate si chiacchierava e ricordo solo che raccoglieva dei sassolini che si metteva in tasca; non ho mai osato chiedergli perché lo facesse»8, confessa con rispettosa sincerità. (Oltre a essere gente discreta, i Murillo di Perdiguera furono fedeli alla tradizione parrocchiale, a quanto racconta Teodoro mentre dà la stura ai ricordi: «Mio padre, Urbano Murillo, morto anni fa, era il sacrestano della parrocchia del- l’Assunzione di Perdiguera, in provincia di Saragozza. Già prima di lui, mio nonno era stato sacrestano. Io allora ero il chierichetto; con il tempo sono diventato sacrestano e spero di continuare questo lavoro finché il Signore mi darà vita»)9.
Se il chierichetto fosse stato meno riguardoso e avesse chiesto al sacerdote la ragione di così strano procedimento, forse lo avrebbe messo in imbarazzo. Perché ciò che tanto incuriosiva il ragazzo non era una mania da collezionista, bensì un rudimentale metodo ascetico per tenere conto delle preghiere o delle mortificazioni fatte. Il peri
218
colo stava nel sistema, in quanto la conta poteva indurre a una soddisfatta vanità. L’esperienza e il tempo tuttavia insegnarono ben presto al giovane sacerdote a lasciare che il conteggio lo tenesse il suo angelo custode10.
Don Josemaria trascorreva il pomeriggio in chiesa. Esponeva il Santissimo, recitava il rosario e, al giovedì, teneva l’Ora Santa. Prima e dopo si chiudeva nel confessionale, aspettando con pazienza che vi si recassero i penitenti, in genere bambini o vecchie. Talvolta veniva anche qualche giovane o un uomo maturo. Il Reggente era contento di vedere che aumentava il numero di quanti si accostavano alla confessione. Ma un giorno, mentre usciva di chiesa, colse al volo, nell’atrio della chiesa, una battuta di un ragazzo ai suoi amici: «Accidenti al prete! Se non stavo attento, quasi riesce a tirarmi fuori tutto»11. Solamente l’ignoranza, il non sapere che nel tribunale della Penitenza il confessore è, oltre che giudice, strumento di misericordia, potè indurre quel giovane a commettere un tal sacrilegio. Il dolore che provocò nel confessore questa mancanza di sincerità nella confessione lo spinse a offrire, per alcuni anni, preghiere e mortificazioni in riparazione. Era la seconda volta che la sua fine sensibilità sacerdotale pativa un serio dispiacere in pochi giorni. La prima volta glielo aveva procurato la trascuratezza e l’abbandono in cui aveva trovato il tabernacolo. Da allora in poi, quando scorgeva da lontano una chiesa, in città o in campagna, ripagava con un atto d’amore la presenza eucaristica del Signore in quel tempio.
Erano passate solo tre settimane dal suo arrivo e la parrocchia funzionava già con regolarità, quando ebbe una visita inattesa. Il padre del parroco malato si presentò all’improvviso, reclamando, a nome del figlio, i diritti di altare e stola per le Messe che aveva celebrato il Reggente, le Ore Sante più recenti e gli altri diritti parrocchiali. Don Josemaria scrisse a suo zio Carlos, chiedendogli parere e consiglio su quella che considera
219
1
va una pretesa ingiusta e sfacciata. Avrebbe potuto, è vero, rivolgersi direttamente alla Curia, ma volle approfittare della circostanza come pretesto per gettare, con delicatezza, un ponte che servisse a ristabilire buoni rapporti con l’arcidiacono.
Non tardò ad arrivare la risposta ufficiale dell’Arci- vescovado, in data 24 aprile, il che lascia sospettare un certo disinteresse dell’arcidiacono per il nipote:
«Segreteria dell’Arcivescovado di Saragozza.Don José Maria Escrivà. - Perdiguera.Mio caro amico, tuo zio Carlos, che parte oggi per Bur- gos, mi ha lasciato la lettera che gli hai scritto e alla quale rispondo:1 - Puoi e devi firmare i certificati dei sacramenti.2 - Essendo tu il responsabile di quanto accade durante l’assenza del Parroco (che se n’è andato senza alcun permesso) non puoi consentire che il padre né alcun altro della famiglia riscuota il denaro che i fedeli danno per i defunti.3-1 diritti parrocchiali sono di tua esclusiva competenza. Per carità e per un breve periodo, quale quello che si può supporre egli impieghi per tornare, puoi dargli la metà dei diritti, ma facendo notare che sono tuoi.4 - Mostra questa lettera al padre del sacerdote, se lo ritieni opportuno, affinché sappia che si deve assoluta- mente astenere da qualsiasi intervento in parrocchia. Di conseguenza che non succeda più che riscuota Ore Sante e Messe che celebri tu.5 - Di tutto ciò di anormale che tu abbia osservato nella parrocchia sei obbligato a render conto al Signor Vicario e non a tuo zio, anche se il Signor Arcidiacono è molto ascoltato nel Vicariato.Sono il tuo affezionatissimo Juan Carceller 24 aprile 1925»12.
I documenti della Segreteria arcivescovile non contengono il seguito della storia. Don Josemarìa aveva il
220
cuore tenero, ma aveva anche una famiglia alla quale provvedere. La cosa più probabile è che, attenendosi al suggerimento del Segretario, abbia condiviso i diritti parrocchiali con la famiglia dell’altro sacerdote.
Con una delicatezza quasi scrupolosa, per non confondere le cure spirituali con i doni materiali dei fedeli, il Reggente rifiutava tutto ciò che potesse significare, anche lontanamente, una ricompensa ai suoi servizi ministeriali. I contadini, vedendo che il sacerdote non accettava regali, avrebbero voluto almeno portare qualcosa alla sua famiglia a Saragozza, quando andavano nel capoluogo a vendere i prodotti della loro terra o dell’ovile. Ma il Reggente tagliò di netto anche questa possibilità. Non riuscirono mai a sapere l’indirizzo della signora Dolores per portarle formaggio, frutta o pollame. Il figlio si rifiutò di dare loro l’indirizzo, anche se, come dice suo fratello Santiago, qualche regalo commestibile sarebbe stato assai opportuno per gli abitanti di via Rufas13.
Saturnino e Prudencia, in casa dei quali il sacerdote era ospitato, avevano parecchie occasioni di parlare con lui. Don Josemaria avrebbe voluto contraccambiare in qualche modo i favori di quella famiglia. Gli dispiaceva che il loro figlio non potesse partecipare alle lezioni con le quali preparava un gruppo di bambini alla prima Comunione. Il ragazzo usciva di casa al mattino presto con le sue capre e non ritornava fino al tramonto. Il Reggente finì con lo spiegargli il catechismo la sera. Dopo un po’ di tempo, per vedere se fosse preparato, gli chiese:
“Se fossi ricco, molto ricco, che cosa ti piacerebbe fare?”Il ragazzino si mise prudentemente sulla difensiva, prima di avventurarsi a rispondere:“Che cos’è essere ricco?”Il sacerdote gli spiegò alla meglio che essere ricco voleva dire avere molto denaro, molti vestiti, molta terra, vacche molto grasse e splendide capre:
221
“Che cosa faresti se fossi ricco?” , insisteva don Josemaria. Il ragazzo ebbe un’improvvisa ispirazione, s’illuminò in viso ed esclamò: “Mi mangerei certi piatti di zuppa col vino !...” .
Il Reggente, udita la risposta, divenne molto serio pensando dentro di sé: “Josemaria, sta parlando lo Spirito Santo” 14. Perché tutte le ambizioni di questo mondo, per quanto grandi possano essere, non sono altro che un prosaico piatto di zuppa, nulla che valga veramente la pena.
Pensò di raccogliere per iscritto questo ed altri episodi analoghi, verificatisi nelle brevi settimane passate nel paese, sotto il titolo di “Storia di un pretino di paese” 15, allo scopo di aprire gli occhi a qualche prete novello e aiutarlo nella sua vita di pietà. Trent’anni dopo abbozzava in una meditazione un avvenimento che, senza dubbio, faceva parte delle peripezie del suo passaggio per Perdiguera. Certamente sarebbe entrato a buon diritto nella citata “Storia” se il Reggente avesse deciso di scriverla. I tratti sono autobiografici.
Un certo pretino ordinato da poco arrivò in un paese della provincia, con poche case e pochissimi abitanti. Incamminatosi verso la chiesa, si imbattè in alcuni chierici che giocavano a carte. A quanto pare, quei suoi colleghi non avevano molto da fare.
Il pretino passò loro innanzi e quelli lo invitarono a fare una partita. Ma il giovane chierico si scusò molto cortesemente. Disse di non saper giocare e se la svignò. Andò in chiesa a fare una visita, stando un po’ in compagnia del Santissimo, com’era sua abitudine fare ogni pomeriggio e com’era solito fare anche tutte le mattine.I giocatori non se ne scandalizzarono; perché avrebbero dovuto? Ma, naturalmente, sorrisero per il candore del pretino, che avrebbe ben potuto fare un pisolino pomeridiano e uscire poi, come ogni prete rispettabile, a fare
222
una passeggiata per luoghi solatii nei mesi invernali o per siti freschi e ombreggiati d’estate.
Quando il pretino uscì di chiesa quelli che giocavano a carte gli vociarono da lontano: “Rosa mystical, Rosa mystical”16. Era il motto che alcuni gli avevano affibbiato nel seminario di Saragozza. Presto corse per i paesi vicini la storia e pure il soprannome “il mistico” con il quale qualcuno incominciò a riferirsi al Reggente.
A don Josemarìa serviva di consolazione l’essere al servizio delle anime. Grande fu perciò la sua gioia quando vari bambini furono pronti per la prima Comunione. Ma questo, come molti altri dati pastorali, non si trova nei libri della parrocchia. Se dovessimo giudicare solo in base a ciò che lasciò annotato sui fogli dell’archivio parrocchiale, il suo lavoro apparirebbe molto ridotto. Durante la sua permanenza a Perdiguera ci fu una sola morte. Un po’ più numerosi furono i battesimi, che riguardarono quattro bambini ai quali furono imposti i nomi di Isidoro, Pascual, Mariano e Carme- Io17. La scarsa popolazione della parrocchia e la breve permanenza del Reggente non consentono di tirare conclusioni statistiche valide, che comunque non sarebbero sufficienti a definire in che cosa consiste il lavoro in una parrocchia rurale. Don Josemarìa cessò dal suo incarico il 18 maggio 1925, il giorno successivo all’entrata nell’arcidiocesi di Monsignor Rigoberto Doménech, successore del Cardinal Soldevila18.
L’epitaffio del Reggente di Perdiguera lo traccia Teodoro Murillo, sacrestano della parrocchia, quando nel 1975 rende la seguente testimonianza:
«Dei sacerdoti che si sono succeduti nel paese è don Jose- marìa quello che ha lasciato in me, e non saprei dire esattamente perché, un ricordo incancellabile. Era molto allegro, di umore eccellente, molto educato, semplice e affettuoso. Nel poco tempo che si fermò gli ho voluto molto bene e ho sofferto veramente per la sua partenza»19.
223
2. Gli studi di Legge
L’attività svolta a Perdiguera, primizia del suo ministero sacerdotale, era stata assorbente. Don Josemaria non potè avere un momento di riposo. Tuttavia, essendo giovane e resistente, né le fatiche e le penitenze, né le veglie e le notti sul pavimento lasciarono traccia di stanchezza. Di ritorno a casa si trovò di fronte al saluto spontaneo di sua sorella: «Come sei ingrassato!»20. La cucina di Prudencia e il desiderio del chierico di non respingere ciò che compariva su quella umile tavola avevano molto a che vedere col suo buon aspetto: soprattutto il pane, i legumi, le patate e i grassi.
Josemarfa, fine osservatore, non ebbe bisogno di molto tempo per rendersi conto della condizione di sua madre e dei fratelli. Da anni vivevano nelle ristrettezze, ma dalla morte del capofamiglia rasentavano la miseria. Sixta Cermeno, che continuava a far visita con una certa frequenza all’appartamento di via Rufas, racconta che sua zia Dolores «in quel periodo soffriva molto, anche se non lo faceva vedere». Anche senza mettersi d’accordo essi facevano in modo, con ogni mezzo, che non fossero visibili ai visitatori le difficoltà economiche della casa. «Ricordo per esempio - continua Sixta - che una domenica pomeriggio stavamo insieme e la zia disse che avrebbe preparato una cioccolata facendo il gesto di volermi offrire qualcosa, ma ora ho la sicurezza che quella fosse tutta la loro cena»21.
Avendo davanti agli occhi uno stato di necessità tanto pressante, il giovane sacerdote non si poteva permettere ambiziosi progetti a lungo termine. In primo luogo doveva risolvere la sua relazione ecclesiastica con la Curia; questione sospesa dalla sua ordinazione e che, per i precedenti di Perdiguera, non sembrava promettere una felice soluzione. Era anche più o meno chiaro che la lettera inviatagli a Perdiguera dal Cancelliere Segretario dell’Arcivescovado racchiudeva, fra le righe, un avverti
224
mento piuttosto chiaro: lasciare in pace suo zio Carlos. A che prò insistere?
Don Josemaria si trovava, alla fin dei conti, a dover fronteggiare, e non su un piano di teorico idealismo, i problemi reali e imperiosi della “carriera ecclesiastica” . Non sapeva esattamente che strada seguire. Da un latolo attraeva l’esercizio del suo ministero; si sentiva fuori posto lontano dall’altare ed era disposto a qualsiasi sacrificio. Ma dall’altro doveva considerare le proprie circostanze personali e in particolare gli obblighi verso la propria famiglia. Tutto ciò, indubbiamente, restringeva molto la lista di possibili posti ecclesiastici da richiedere. A maggior ragione tenendo presente che non prendeva alcuna decisione senza averla prima considerata alla luce dei “presagi dell’Amore divino”22.
Dopo molte ricerche, non trovò nulla di consistente e utile per coprire le sue urgenti necessità economiche di capofamiglia. Finché, alla fine e dopo qualche insuccesso, ottenne un posto con cui soddisfare il suo zelo di sacerdote. In un modo o nell’altro, non si sa come, finì nella chiesa di S. Pietro Nolasco, più conosciuta con il nome di chiesa del Sacro Cuore, retta dai Padri Gesuiti. Lì cominciò provvisoriamente a lavorare nel mese di maggio, poco dopo essere rientrato da Perdiguera. Gli stipendi, come ci si può immaginare, erano insufficienti per sopperire alle spese familiari.
Considerando le cose da vicino, la preoccupazione che aveva la signora Dolores era un’altra. Temeva che suo figlio fosse destinato di nuovo fuori città. E con il coraggio proprio di una madre, benché sapesse che non era il momento adatto, si decise a chiedere una raccomandazione a suo fratello, il canonico. Al piccolo Santiago rimase impressa la dolorosa scena accaduta quando sua madre si presentò, ancora in lutto e portando lui per mano, a casa dello zio Carlos, per supplicarlo che si prendesse cura di Josemaria: «Mia madre desiderava - egli racconta - che, una volta ordinato sacerdote, si fer
225
masse a Saragozza con noi. Andò a chiederlo a suo fratello don Carlos, che aveva molta influenza in Curia. Io accompagnai mia madre ma suo fratello don Carlos, lo ricordo come se fosse ora, la ricevette di mala grazia e a spintoni ci buttò fuori di casa»23.
Un altro problema che doveva risolvere il novello sacerdote era quello degli studi civili. Alcuni mesi prima aveva iniziato gli studi giuridici. Ora, dopo appena un anno, le circostanze e la situazione degli Escrivà erano talmente cambiate che si vedeva costretto a terminare quanto prima gli studi di Legge. Il giovane sacerdote prevedeva che l’unica possibilità compatibile con la propria condizione sacerdotale era di dedicarsi all’insegnamento, se voleva provvedere alla famiglia.
In data 29 aprile, mentre era ancora a Perdiguera, aveva inviato un’istanza al Decano della Facoltà di Diritto in cui chiedeva, avendo fatto privatamente gli studi delle materie di Diritto politico e Diritto civile, di presentarsi agli esami del successivo mese di giugno24. Durante l’anno accademico 1924-1925 gli eventi si erano succeduti in modo così coinvolgente per don Josemaria - la morte del padre, il diaconato, il trasferimento della famiglia, l’ordinazione sacerdotale, la destinazione a Perdiguera e infine il ministero in S. Pietro Nolasco - che aveva potuto dedicarsi ben poco allo studio. Quando si accinse a preparare, con entusiasmo e tenacia, le materie di Diritto politico e civile, ben presto si rese conto che pretendeva di mettere troppa carne al fuoco. Si presentò solamente all’esame di Diritto civile, che superò comodamente25.
Controllando il proprio curriculum accademico si rese conto che, grazie allo sforzo dell’anno precedente in cui nella sola sessione del settembre 1924 era riuscito a superare sei materie, si trovava già a metà strada26. Pieno di ottimismo, tracciò un nuovo piano di battaglia, cercando di preparare altri due esami durante l’estate del 1925. Si trattava di Diritto penale e Diritto
226
amministrativo. Arrivato però il mese di settembre, lo studente non si presentò agli esami27. Forse gli fu impossibile prepararsi a causa dei nuovi impegni liturgici e pastorali in S. Pietro Nolasco; o forse il senso di responsabilità gli impediva di tentare la sorte se non padroneggiava la materia.
Tuttavia, né lo studio né la prudenza gli evitarono una bocciatura in Storia di Spagna, materia in cui Josemarìa pensava di essere ben preparato, per la sua passione e per le letture fatte28. Il docente di storia era conosciuto fra gli studenti per la sua suscettibilità, alla quale univa la gravità della figura e il tono magistrale delle lezioni. Essendo “ allievo libero” , Josemarìa non era obbligato ad assistere alle lezioni. Ma il professore prese a male le assenze dell’allievo, quasi questi disprezzasse lezioni di tale livello. Arrivati gli esami fece dire a Josemarìa che non si presentasse, perché lo avrebbe bocciato; e così accadde. L’allievo, dispiaciuto per la palese ingiustizia dal momento che aveva dato prova della propria preparazione, per evitare un ulteriore arbitrio fece avere al docente un messaggio in cui, esponendo le proprie ragioni, chiedeva che, prima di presentarsi di nuovo all’esame, gli fossero date garanzie sulla possibilità di superarlo. Il professore riconobbe il proprio ingiusto modo di procedere e lo assicurò che sarebbe stata sufficiente la sua presenza all’esame, avendo già dato dimostrazione di conoscere bene la materia29.
A quel punto, gli studi di Legge stavano risultando per Josemarìa una faticosa gara a ostacoli; tutto lasciava prevedere che il terminarli gli sarebbe costato molto sacrificio. L’impegno assunto quando era ancora in vita suo padre, del quale venerava la memoria, gli dava forza per continuare a combattere. Nello stesso tempo, per gratitudine e lealtà, si sentiva impegnato con Dio, la cui chiamata non era ancora stata esplicitata nei particolari.
Questo spiega in parte la sua sicurezza interiore e il
227
ftraboccante ottimismo. Con questo spirito iniziò l’anno accademico 1925-1926. Aveva il fermo proposito di terminare, in questa seconda tappa del suo passaggio per la Facoltà di Diritto, le materie che gli mancavano per prendere la licenza. Contava, naturalmente, sulle sessioni di giugno e di settembre.
Un compagno di Josemaria che conosceva l’Univer- sità ecclesiastica e che, come lui, studiò poi Diritto dichiara, piuttosto sorpreso, che anche se in quelle istituzioni di insegnamento regnavano valori sociali completamente diversi, Josemaria, che nel Seminario eccelleva per le sue «aspirazioni culturali», non ebbe alcun problema di adattamento. Anzi, tali caratteristiche gli giovarono enormemente all’Università civile, nel cui ambiente «si inserì perfettamente»30.
Forse la veste talare contribuiva a dargli un tocco di prestigio in quanto era una novità fra gli allievi. E un fatto che la veste clericale, indossata con naturalezza ed eleganza, non rappresentò mai una barriera fra Josemaria e i suoi compagni. Alcuni studenti amici, come Juan Antonio Iranzo, consideravano la tonaca «uno specchio del concetto che egli aveva della dignità del sacerdozio e del proprio desiderio di apostolato»31.
Fin dal primo momento si sentì nell’Università come un pesce nell’acqua. Don José Lopez Ortiz racconta che nel giugno 1924, poco dopo essere stato ordinato presbitero, andò a Saragozza per sostenere degli esami e fece amicizia con l’allora Ispettore del S. Carlo, che lo aiutò a orientarsi nella Facoltà: «Josemaria era molto ben preparato e conosceva quell’ambiente che a me era sconosciuto; generosamente, come fosse la cosa più naturale, mi forniva validi orientamenti sui diversi argomenti che si riferivano agli studi»32. In quel periodo, l’uno portava l’abito degli Agostiniani e l’altro portava la veste talare e non era ancora stato ordinato suddiacono. L’Agostiniano, che si trovava in un ambiente per lui estraneo, fu sorpreso dalla scioltezza con cui si de
228
streggiava Josemaria. «In Facoltà - dice - osservavo che tutti lo conoscevano e che, per il suo carattere comunicativo e allegro, lo apprezzavano molto. Poiché era l’unico seminarista, alcuni amici lo chiamavano affettuosamente “ il pretino” , con il soprannome che gli aveva affibbiato il professore di Diritto canonico, Moneva Puyol, che stimava moltissimo Josemaria»33.
Il giovane sacerdote non stava mai da solo. L’attrattiva della sua conversazione e della sua persona riuniva intorno a lui gli studenti, che si avvicinavano al crocchio «per sentirlo chiacchierare», poiché «si sentivano attratti dalla sua personalità». Luis Palos, che ce lo racconta, conservava una nostalgica immagine del “pretino” , ancora vivida nella sua vecchiaia: «Mi pare ancora di vederlo, nei chiostri dell’antico edificio dell’università o in piazza della Maddalena, mentre passeggiava con altri; oppure nella Biblioteca della Cerbuna, ora soppressa. È evidente che su di noi aveva molta attrattiva. Era di mentalità aperta, di spirito universale»34. Quest’ampiezza di vedute e di sentimenti era, in buona parte, frutto della sua condizione sacerdotale.
Il sacerdozio era la vocazione a partire dalla quale il Signore lo avrebbe chiamato a compiere un disegno divino di ampia portata facendogli conoscere, a suo tempo, ciò che non gli aveva ancora rivelato. Josemaria era stato prelevato tra gli uomini, in quanto sacerdote, per partecipare dell’eterno sacerdozio di Cristo a beneficio degli altri uomini suoi fratelli. Con la consacrazione mediante il sacramento dell’Ordine, gli era stato conferito un segno indelebile, che lo vincolava alla missione della Chiesa, rendendolo un altro Cristo e amministratore dei suoi sacramenti.
Di questa tremenda dignità aveva un così alto concetto che, a quanto testimoniano i suoi amici, esso traspariva nei suoi modi e nell’aspetto esterno, come espressione della coscienza della sua nuova personalità. Il giovane sacerdote era straordinariamente delicato in tutto
ciò che implicava presa in giro o burla allo stato clericale, specialmente quando stava in compagnia di universitari. Uno di essi racconta che Josemarìa «sopportava con semplicità le intemperanze dei colleghi - parole sconvenienti, barzellette un po’ al limite - e sapeva uscire con disinvoltura da situazioni che per un altro sarebbero state pericolose»35. Ma se la conversazione scivolava in modo sconveniente, non appena si sfioravano materie scabrose o una mancanza di rispetto verso il sacerdote, il giovane chierico tagliava corto in modo tassativo, senza perdere il decoro e la calma e senza poter evitare, a volte, di arrossire in viso.
Il rispetto dovuto al sacerdozio lo viveva egli stesso in modo esemplare, facendo in modo, per quanto possibile, che la sua compostezza e gravità non fossero menomate a contatto con il mondo studentesco. Era compreso così profondamente della necessità di essere misurato nel comportamento che questa preoccupazione appare e riappare nelle sue note scritte. E infine resterà fissata, con uno sfondo autobiografico, nel criterio d’azione che consigliava a ogni cristiano:
“Non mettere il Sacerdote nel pericolo di perdere la gravità. È una virtù che, senza sussiego, egli deve possedere sempre.Come la chiedeva - Signore, dammi... ottant’anni di gravità! - quel giovane sacerdote, nostro amico!Chiedila anche tu, per tutti i Sacerdoti, e avrai fatto una buona cosa”36.
Il giovane cappellano raddoppiava le sue attenzioni pernon dare motivo a possibili pettegolezzi, andando oltre aquanto richiesto da una discreta prudenza. Faceva attenzione a non uscire in strada in compagnia di sua madre odi sua sorella, perché questo non potesse causare scandaloin chi non era al corrente della loro parentela. Con le ragazze che seguivano studi universitari nella Facoltà di Di
230
ritto, poche invero in quegli anni, si comportava con cauta amabilità, senza eccedere in dimostrazioni di cortesia37.
La veste talare - ripetiamo - non fu mai di impedimento per don Josemarfa il quale, per strada o all’Università o nelle funzioni di cappellano in S. Pietro Nolasco, sapeva muoversi con naturalezza, consapevole del valore dell’abito. Anzi, come racconta un suo compagno di studi, «non cessava di far notare la propria condizione sacerdotale»38. Il novello sacerdote era nobilmente orgoglioso di possedere tale tesoro e dignità. Un motivo che lo induceva ad amare con tutto il cuore i propri fratelli nel sacerdozio, a difendere con le unghie e con i denti l’onore dei ministri dell’altare e a cercare di ricostituirlo quando veniva macchiato.
Don Josemarfa fu testimone di qualche triste evento di questo tipo, come ciò che accadde a un caro amico del seminario, che ben presto abbandonò il ministero sacerdotale. La conversione di quell’anima richiese un lungo cammino di preghiera e di veglie. Intorno al 1930 - riferisce uno studente - «don Josemarfa mi chiedeva di pregare per costui e, in confidenza, mi raccontò qualcosa della sua preghiera e mortificazione per questa intenzione»39. Un’altra persona testimonia diversi anni dopo che don Josemarfa «lo ricordava molto, lo raccomandava nell’orazione e cercava di non perdere il contatto con questa persona, pensando sempre che potesse essere recuperabile»40. «Lo ammonì a parole e per iscritto per tirarlo fuori da una pessima situazione», insiste un terzo. Finché, alla fine della sua vita, quel peccatore, ormai riconciliato con Dio, si rese conto che Josemarfa «era stato l’amico più fedele e lo strumento di cui Dio si era valso per farlo ritornare alla Chiesa»41.
Altre volte si trattava di persone di maggiore età alle quali il giovane sacerdote, dopo essersi mortificato e avere a lungo pregato, si avvicinava armato di carità e di simpatia42.
«- «-
231
Il 25 aprile 1926, con il nobile intento di fare un buon passo avanti negli studi civili, ma con eccesso di ottimismo, rivolse al decano della Facoltà di Diritto un’istanza nella quale rispettosamente dichiarava:
“Desiderando essere ammesso, nella prossima sessione, agli esami delle seguenti materie: Diritto Politico, Diritto Penale, Diritto Amministrativo, Diritto Pubblico Internazionale, Diritto Mercantile e Procedure giudiziarie”,... ecc.43.
Era deciso a portare avanti tutte queste materie, benché sapesse che lo zelo apostolico che portava dentro di sé, sommato agli obblighi come cappellano di S. Pietro Nolasco, non gli avrebbe lasciato molto tempo libero.
Al momento degli esami, vedendo prossimo il pericolo, fece i suoi calcoli e lasciò per la sessione di settembre il Diritto penale e le Procedure giudiziarie. Delle altre materie fece gli esami nel mese di giugno, prendendo un Ottimo con Lode, due Notevole e un Approvato. Delle altre due materie, oltre che di Elementi di Amministrazione pubblica e Diritto privato internazionale, fece gli esami dopo l’estate. Gli mancava dunque una sola materia per terminare44.
3. La cappellania di S. Pietro Nolasco
L’ideale che perseguiva don Josemaria nelle sue attività sacerdotali, mentre era in attesa di una decisione dall’alto, gli costava molte privazioni. I presagi di una chiamata nascosta perduravano. Dopo avere risposto con prontezza alla chiamata divina, a Logrono all’inizio del 1918, quel ragazzo, ora sacerdote, continuava nel 1925 a interrogarsi sulla propria misteriosa vocazione. L’attesa di qualcosa di sublime lo aiutava a superare la cruda realtà quotidiana, della quale una delle ineludibili esi
232
genze era quella del pane quotidiano per il sostentamento della propria famiglia.
Se la Provvidenza avesse disposto le cose in altro modo, don Josemarìa, con l’aiuto del Cardinal Soldevila o di qualcuno dei propri parenti, avrebbe già usufruito di un beneficio ecclesiastico o di un posto ben rimunerato. Ma a nulla serviva lamentarsi. Il Cardinale era morto e i suoi zii - canonici e beneficiari di prebende- sembravano averlo rinnegato. Per quanto concerne le facoltà ministeriali, la prima volta gli erano state concesse per sei mesi da don José Pellicer, Vicario di Saragozza45. Le successive proroghe e rinnovi delle facoltà “per celebrare e assolvere” gli furono concesse da Monsignor Rigoberto Doménech46.
Il nuovo prelato era stato consacrato vescovo nel 1916 e aveva svolto il suo lavoro pastorale per otto anni a Maiorca. Nel 1926, da poco stabilitosi a Saragozza, si dedicò alla riforma del seminario e al cambio degli incarichi nella curia diocesana. Anche le nomine ecclesiastiche erano soggette alle umane vicissitudini della storia. Forse fu in occasione di queste rimozioni che un ecclesiastico pieno di esperienza con la massima rettitudine d’intenzione consigliò don Josemarìa di evitare ogni eccesso nel lavoro e, soprattutto, di non scrivere su argomenti che potessero metterlo in contrasto con opinioni altrui, perché gli sarebbe stato molto difficile fare marcia indietro47.
Le vicissitudini alle quali lo sottopose la vita avrebbero consentito a don Josemarìa di accertare quanto di vero ci fosse in quel consiglio. Poiché è noto che chi lavora per rinnovare la società suscita, presto o tardi, inimicizie e ostacoli che finiranno per frapporsi sul suo cammino. Per il momento, la sorte del giovane sacerdote non era oggetto di invidia da parte di nessuno; semmai, di commiserazione.
Come già si è detto, ritornato da Perdiguera non trovò altro lavoro sacerdotale che la cappellania della
233
chiesa di S. Pietro Nolasco. Secondo quanto certificherà più avanti padre Celestino Moner S.J., egli svolse il suo incarico con piena soddisfazione di tutti:
«Certifico che il Presbitero don José Maria Escrivà, dall’aprile o maggio 1925 fino al marzo 1927, ha prestato il proprio servizio come Cappellano aggiunto, per celebrare la santa Messa, amministrare la santa Comunione, esporre e conservare il Santissimo Sacramento; e sempre con edificazione di tutti e senza dare motivo alcuno di lagnanza nello svolgimento del suo incarico»48.
Era tale il suo zelo spirituale per celebrare il Santo Sacrificio, che riteneva ben impiegata tutta una vita di dedizione e di lavoro, se fosse stato necessario, per ordinarsi sacerdote e dire Messa. Le sue buone disposizioni pastorali e la diligenza che vi esplicò furono valutate in modo positivo dal Rettore della chiesa. Nel mese di settembre gli offrì un contratto in termini provvisori, e dunque l’accordo non stabiliva un impegno duraturo e non risolveva interamente le necessità economiche del cappellano. Don Josemaria accettò, perché non aveva altro appiglio al quale afferrarsi se voleva svolgere una funzione sacerdotale retribuita. Ecco quanto stipulato:
«Obblighi e diritti del Sig. Cappellano che sta al servizio della chiesa di San Pietro Nolasco.Nei giorni festivi, nei primi venerdì del mese e negli altri giorni solenni, starà al servizio della chiesa dalle sei del mattino fino alle 10.30.Negli altri giorni dalle 7 alle 9.30 o 10 del mattino. Quando ci fosse Messa cantata o nella Settimana Santa sarà presente per rivestirsi se occorresse.Nei primi venerdì del mese, durante le Quarant’Ore, nel mese di giugno e ogni volta che ci siano funzioni al pomeriggio con esposizione del SS., sarà puntuale all’ora della funzione per esporre e aiutare in ciò che sia opportuno.
234
p
i Quando fosse necessario, laverà i purificatoi.Celebrerà la santa Messa all’ora che gli verrà indicata. Avrà una elemosina fissa per la Messa, che sarà di 3 pesetas.Per i servizi di cui sopra riceverà 2 pesetas al giorno.Nei giorni di festa farà la prima colazione in sacrestia.Nel giorno che per qualsiasi ragione non svolgesse gli incarichi, non gli saranno devolute entrambe le elemosine, se non invia un sostituto che lo supplisca in tutto.
1 II Padre Superiore della chiesa potrà, se lo giudica opportuno, scegliere un altro cappellano, avvisando 8 giorni prima l’interessato che deve cessare.D’accordo sulle condizioni, le accetto in Saragozza il 10
| settembre 1925.José Maria Escrivà, Sacerdote»49.
(Se si ha la curiosità di sapere a quanto ammontava- i no gli stipendi mensili del cappellano, si conserva un
foglietto relativo a Messe ed altri servizi del mese di ottobre, per un totale di 155 pesetas)50.
La chiesa era situata in un vecchio quartiere di Sara-l gozza, non lontano dal S. Carlo. Sotto il profilo archi-
tettonico non aveva nulla di particolare. Peraltro era una chiesa molto frequentata, per cui i Gesuiti richiedevano l’aiuto di alcuni sacerdoti secolari. Le attività
i erano numerose e varie: sabatine ed esercizi mensilidelle Figlie di Maria; Messa delle Madri Cristiane la terza domenica del mese; esercizi mensili dell’Associa- zione della Buona Morte il terzo venerdì del mese;
j Istruzione Dogmatica tutte le domeniche alla Messadelle nove; Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli per signore; Prime Domeniche per uomini; Messa domenicale dei Congregati dell’Annunciazione e di S. Luigi Gon-
! zaga; festa mensile dei Congregati di S. Stanislao;Messa le prime domeniche del mese per le domestiche della Congregazione delle Figlie di Maria e di Santa
j Zita e al pomeriggio rosario e predica. Infine, per com-! pletare il quadro dei servizi di S. Pietro Nolasco, si ag-
235
giungano gli esercizi spirituali per operai, per uomini, per i membri delle Conferenze di S. Vincenzo, per le maestre associate...51.
Da tutta questa fervente attività apostolica derivavano molti altri servizi non specificati nel contratto di cappellania e che il sacerdote si caricava con gioia sulle spalle: catechesi, assistenza spirituale ai malati, sostituzioni impreviste, nonché l’ampio capitolo delle confessioni. Come a Perdiguera, don Josemarìa stava seduto ore e ore nel confessionale se non lo chiamavano per altre incombenze52. Già prima di essere ordinato sentiva una profonda venerazione per il sacramento della Penitenza:
“Quando ero studente all’Università di Saragozza” - raccontava - “avevo un amico che conduceva una vita sregolata e con altri siamo riusciti a ottenere che andasse a confessarsi.Sono passati tanti anni che ne posso parlare con libertà, perché è impossibile localizzare il sacerdote che oltretutto sarà stato una buona persona. Questo amico, dunque, andò al Pilar, si confessò e ritornò molto contento.Il suo commento fu:- Quel sacerdote dev’essere stato cantoniere.- Perché?, gli chiedemmo.- Mi ha dato come penitenza di fare sette stazioni per sette giorni”53.
Si dovette chiarire allo studente in che cosa consistevano le “ stazioni” ; e don Josemarìa imparò a imporredelle penitenze facili, che egli completava poi con orazioni e mortificazioni personali54.
La sua prudenza nel rapporto con le donne non gliimpediva di conoscere a fondo la psicologia femminileattraverso le sue penitenti. Dal confessionale diresse molte coscienze. Sembra che per qualche tempo in quel periodo abbia confessato delle suore, a quanto dice un amico55.
236
!
A parte le attività liturgiche ed altre proprie del suo ministero, trovava sempre il tempo per conoscere coloro che aveva intorno a sé e diventare molto amico loro. La cerchia universitaria in cui si muoveva il giovane sacerdote era molto ampia, dato che offriva la propria amicizia a braccia aperte senza fermarsi di fronte a diversità di carattere o a divergenze ideologiche. «Ricordo anche i nomi di alcuni che, come me, a quell’epoca gli stavamo attorno e gli eravamo amici - riferisce Luis Palos -. Per esempio, Pascual Galbe Loshuertos, che aveva fama di miscredente; Juan Antonio Iranzo, benché fosse più giovane; i fratelli Jiménez Arnau: José Antonio, che fu poi ambasciatore, scrittore e direttore della Scuola Diplomatica, e suo fratello Enrique, oggi notaio a Madrid...»56.
Alla sua simpatia e al suo modo di essere accondiscendente e comunicativo si aggiungevano altre qualità, molto apprezzate dagli studenti. «Ricordo la sua costante allegria: sorrideva sempre. Aveva un ottimo umore ed era molto generoso con gli amici», dichiara Domingo Fumanal57. Era sempre disposto a fare favori. Nel primo periodo della sua frequenza nelle aule della Facoltà, un gruppo di allievi di Juan Moneva, docente di Diritto canonico, gli chiese di dare loro lezioni di latino. Desideravano sapere quanto bastava per tradurre i canoni. Don Josemaria dava loro lezione tre giorni alla settimana. Gliene furono grati anche perché le lezioni furono gratuite58.
Il “pretino” utilizzava la sua innata attrattiva personale per fare apostolato. Dice David Mainar: «Prendeva parte alle nostre riunioni forse perché aveva già qualche progetto, un suo progetto»59. Ma le sue intenzioni, che erano solo di avvicinare anime a Cristo, erano manifeste quanto la veste che portava, la cui presenza fisica e rappresentatività è rilevata da un altro collega: «Nelle conversazioni fra noi Josemaria non stonava e rispettava il nostro modo di essere»60, anche se dovette imparare a
237
osservare la compostezza dovuta alla veste clericale e a capire fin dove poteva arrivare una conversazione. Il che non impediva che all’uscita dalle lezioni andasse con gli amici al bar Abdón, in corso dell’indipendenza, poiché lo invitavano a prendere qualcosa. E al bancone del bar o per strada continuavano a parlare di cose divine e umane61.
Quando, durante l’anno accademico 1925-1926, in piazza della Maddalena don Josemarìa si presentò già ordinato sacerdote, quelle amicizie acquistarono un tono spirituale più elevato. Senza urtare, come se fosse la cosa più naturale del mondo, avvalendosi del proprio prestigio e dell’amicizia, riuscì man mano a far vivere ai suoi compagni alcune devozioni, come la visita quotidiana alla Madonna del Pilar. E per alcuni di essi, oltre che amico e confidente, divenne anche confessore e direttore spirituale62. In quel sacerdote, pieno di ottimismo e di zelo, gli universitari vedevano, dice Domingo Fumanal, «un “romantico” di Cristo: un innamorato di Cristo; un uomo di fede totale nel Vangelo»63. Perché il suo ideale di gioventù continuava a essere vivo, intenso e rafforzato. Era fatto di amore, di sostanza di amore, che si propagava e si estendeva a quanti gli stavano vicino. L’esistenza di don Josemarìa, più che devota, era donazione radicale imbevuta d’amore.
Come dice una delle persone a lui più vicine, Francisco Moreno, l’amico di Teruel, Josemarìa «si mise in relazione con professori di grande statura intellettuale, con i quali mantenne una sincera amicizia per tutta la vita»64. Peraltro, il fatto davvero straordinario delle relazioni che il giovane sacerdote mantenne con professori del prestigio di Juan Moneva, José Pou de Foxà o Miguel Sancho Izquierdo fu che la loro reciproca amicizia giunse fino a un piano di eguaglianza. Il geniale Juan Moneva professava verso il suo allievo un affetto in pari tempo amichevole e paterno65. Il professore di Diritto naturale, Miguel Sancho Izquierdo, sentiva per lui «una
238
grande venerazione, nonostante la differenza di età»; e lasciò una calda testimonianza della personalità dell’allievo66. All’elenco si deve aggiungere il nome di altri maestri: il professore di Diritto penale, Inocencio Jimé- nez Vicente, e l’ordinario di Storia del Diritto, Salvador Minguijón67. E in modo del tutto particolare divenne intimo amico di Josemaria don José Pou de Foxà, “amico leale e nobile e buono”68: così lo definì con piena coscienza don Josemaria, poiché egli fu, nel corso degli anni, consigliere e appoggio morale del giovane allievo in diverse occasioni.
Per legge di vita, quelle leve di studenti di Saragozza finirono per disperdersi. Alcuni si sposarono. Altri andarono a stare in province lontane; occuparono i più svariati posti di lavoro o scomparirono durante la guerra civile. Nei crocevia della storia il giovane sacerdote si imbattè di nuovo in alcuni di essi: fra’ José Lopez Ortiz, Juan Antonio Iranzo, Luis Palos, i fratelli Arnau... E poi, in circostanze altamente rischiose, nell’autunno del 1937 a Barcellona, mentre si stava preparando a passare clandestinamente i Pirenei durante la guerra civile, si incontrò di nuovo con uno dei suoi professori e con uno dei suoi compagni. In effetti, in piena persecuzione religiosa si mise a cercare nella città catalana, con grave rischio, il sacerdote don José Pou de Foxà per parlare con il vecchio amico e ricevere la grazia del sacramento della Penitenza69.
In quegli stessi giorni ebbe luogo anche il suo incontro con un altro amico di vecchia data, al quale i compagni di Università avevano affibbiato la fama di ateo perché non praticava la propria fede. Ebbe un colloquio con lui e cercò di ravvivare una fede mezzo spenta, facendo leva sul reciproco affetto che esisteva dai tempi di Saragozza fra sacerdote e incredulo. Finita la guerra, don Josemaria si trovava a Madrid; l’altro era emigrato in Francia, spinto fino alla malinconia dalla propria situazione e infine precipitato nella disperazione e nel sui
239
cidio. I giudizi di Dio sono imperscrutabili. Il sacerdote esercitò con il suo ex compagno la carità della preghiera e poi, dopo la sua fine, l’unico atto di amicizia possibile: «pregava per lui, pensando alla misericordia di Dio»70.
ì 'r 5J-
Ricordando forse le catechesi di Logrono e di Perdigue- ra, don Josemaria faceva apostolato con la gente umile. Il giovane cappellano riuscì a mettere insieme un piccolo gruppo di ragazzi che nelle ore libere della domenica andava a insegnare la dottrina cristiana ai bambini poveri del quartiere di Casablanca, all’uscita di Saragozza per la vecchia strada di Teruel. Coloro che lo accompagnavano erano per la maggior parte giovani universitari delle Congregazioni Mariane o studenti che frequentavano la chiesa di S. Pietro Nolasco71.
4. Ingiustizie provvidenziali
La traumatica frattura che la repentina morte del signor José aveva prodotto nella vita familiare segnò senza rimedio l’avvenire degli Escrivà. Tuttavia questa perdita, da una parte, riaffermò la vocazione del figlio e, dall’altra, lo costrinse a riadattare la propria esistenza al servizio della madre e dei fratelli. Gli studi di Diritto - che aveva intrapreso con calma e che finì in gran fretta - invece di essere una liberazione diventarono il suo giogo. A partire dal 1926 e soprattutto da quando ebbe terminato gli studi alla Facoltà di Diritto, si dedicò con continuità all’insegnamento. Non per vocazione professionale, ma come inevitabile mezzo per guadagnare il pane per i suoi, cosa che lo fece sentire come un forzato ai remi. “Sono un galeotto dell’insegnamento”72, esclamerà aprendo la propria anima.
Gli Escrivà a Saragozza vivevano poveramente e senza un barlume di speranza di miglioramento. Così
240
Istando le cose, non immaginavano che la situazione sarebbe addirittura peggiorata con il tempo. A un punto tale che più avanti, quando don Josemarìa analizzò i propri mezzi di sussistenza, scrisse: “Non so come potremo vivere... Per la verità - lo racconterò a suo tempo- viviamo così da quando io avevo quattordici anni, anche se la situazione si è acutizzata a motivo della morte di papà”73.
Dentro casa la famiglia sopportava le ristrettezze con dignità, salvando ad ogni costo le antiche tradizioni familiari e le abitudini del tempo del signor José. Di Guitìn, il piccolo Santiago, si racconta un episodio che manifesta, per inciso, l’orma che lasciò fra i suoi il capo- famiglia, uomo “molto generoso nelle elemosine” . L’elemosina degli Escrivà ora usciva dalla loro stessa povertà; accadde che si presentò in casa della signora Dolores una suora accompagnata da una bambina dell’ospizio, a chiedere l’elemosina: “arrivò una santa suorina, che conduceva per mano una creatura educata nell’ospizio tenuto da quella venerabile comunità e, quando chiese l’elemosina, il piccolo le consegnò la modesta somma che sua madre gli dava ogni mese e, con ingenuità priva di qualsiasi malizia, disse alla suorina che rideva divertita: sorella, per tutt’e due”74.
In circostanze così avverse, rubando ore al giorno e ore al sonno, riuscì a terminare gli studi. Continuava a non arretrare di un passo dall’ideale con cui vedeva il sacerdozio. Andando a cercare spiegazioni alla scarsa fortuna dell’ex Ispettore del S. Carlo, nei primi tempi della sua vita di sacerdote compare un fatto strano per non dire anomalo. Eccolo: il fatto che a due giorni dalla sua ordinazione gli fosse conferito un incarico in maniera fulminea e che, successivamente e per due lunghi anni, risiedesse a Saragozza senza riuscire a risolvere la sua situazione di sacerdote incardinato nella diocesi, ma sprovvisto di sostentamento economico75.
E vero comunque che don Josemarìa non incrociò le
241
!
braccia. Per conto suo, muovendo influenze ed amicizie, aveva cercato dei posti dove esercitare il proprio ministero. Tentativi che lo avevano portato ad accettare la cappellania, aggiunta e provvisoria, di S. Pietro Nolasco. Non sappiamo nulla di concreto su tali tentativi; esiste però una curiosa traccia documentaria di successivi tentativi falliti.
C’è infatti una lettera, datata 19 dicembre 1925, con cui l’Arcivescovo di Saragozza risponde così al Presidente della Provincia:
«Egregio e distinto amico; rispondo alla sua gentile lettera in cui mi raccomanda D. José Escribà (sic) per la cappellania delle Madri Riparatrici, per informarla con grande mio rammarico che da otto giorni è stata concessa a D. Manuel de Pablo, dal quale è stata accettata.Avrò molto piacere di poterLa servire in altra occasione, poiché lei sa di poter disporre con assoluta libertà del suo aff.mo amico e Prelato che la benedice. - L’Arcivescovo»76.
L’altra occasione di “poterLa servire” si presentò, bella e pronta, alla fine di marzo; e questa è la risposta che, in data 3 aprile 1926, l’Arcivescovo diede al Presidente della Provincia:
«Egregio e distinto amico, quando ho ricevuto la sua gentile lettera in cui mi raccomandava D. José Escrivà, Presbitero, per la cappellania delle monache dell’incarnazione, era già stata fatta e firmata la nomina a favore di altra persona. Mi dispiace veramente di non poterla compiacere, ma comprenderà che non è per mancanza di volontà»77.
Queste lettere danno l’impressione che le cappellanie gli siano state negate a causa dell’eccessivo numero di candidati o per m aggiori meriti da parte dei pretendenti78. Esaminando però freddamente il com
242
portamento della curia si è costretti ad accettare l’opinione meglio informata di chi conosceva le segrete cose della vita ecclesiastica di Saragozza. Ciò che accadeva induce a pensare che qualcuno, avvalendosi della propria influenza, facesse il possibile per cacciarlo dalla diocesi, con le buone o a bastonate79.
Questo giudizio concorda con i fatti e non ha nulla di avventato, visto che anche don José Pou de Foxà, con la sicurezza che gli davano i suoi molti contatti con le autorità diocesane e con l’angusto mondo clericale, non aveva dubbi in merito. Al corrente dell’isolamento che circondava il giovane sacerdote e del fatto che questi «non aveva spazio» a Saragozza, gli consigliò di andare a Madrid80.
Esiste anche un’annotazione del 1931 nella quale don Josemaria fa un cenno dell’ostilità tenuta dalla curia, quando afferma: “Sarebbe molto interessante che raccontassi qui quanto è accaduto con le mie lettere testimoniali a Saragozza, ma non lo racconto” 81. Il suo unico e caritatevole commento su tutto questo fu che il Signore permise che venissero fatte “ delle ingiustizie provvidenziali”82. Provvidenziali perché, aprendogli alcune porte e chiudendone altre, Dio lo avviava, passo passo, al luogo e al momento che aveva scelto per rispondere al suo grido: “Domine, ut videamì” Il sacerdote, come un povero cieco, continuava a fare dei tentativi senza sapere dove sarebbe andato a finire.
Anche se non se ne conosce la data, fu probabilmente nel settembre del 1926, quando ancora gli mancava di superare l’esame di Pratica forense, che fece un viaggio a Madrid. Scopo del viaggio era di assumere informazioni circa gli studi di dottorato nell’Università Centrale83. Il grado accademico di “ dottore” , un primo passo verso la docenza, era anche il pieno compimento dei desideri di suo padre defunto. In quei giorni gli si presentò anche la possibilità di fare lezioni in un nuovo centro scolastico di Saragozza, il che era
243
sempre meglio che farle a domicilio. Il centro si chiamava “Istituto Amado” .
Santiago Amado Lóriga, capitano di Fanteria e laureato in Scienze, stava cullando da tempo il progetto di aprire a Saragozza una scuola di preparazione ai concorsi dei più diversi ambiti professionali e specialmente quelli per accedere alle Accademie Militari. L’istituto che portava il suo nome cominciò a funzionare nell’ottobre del 1926. Nei pieghevoli pubblicitari, in cui si davano ragguagli sul corpo insegnante, compare nell’elenco «D. José Maria Escrivà, Presbitero»84. Nella Sezione Giuridica dell’istituto i laureati in Diritto venivano preparati per i concorsi e gli studenti universitari venivano assistiti nel ripasso delle materie. A giudicare dalla lettera che gli invia uno dei suoi alunni il 26 maggio 1927, don Josemarìa si occupava di preparare un piccolo gruppo di studenti.
La lettera è di Nicolàs Tena che in tono gioviale e familiare gli racconta del proprio esame di Diritto canonico; nel commiato si ha la prova della semplicità e dello zelo apostolico con cui il sacerdote trattava con i suoi alunni: «Padre, mi sono confessato e comunicato, e su questo le dovrò scrivere una lunga lettera»85.
Avvalendosi di una Ordinanza Reale del 1926, don Josemarìa si presentò all’esame nella sessione straordinaria del gennaio 1927; fece l’esame di Pratica forense e terminò così gli studi di licenza86. Nel numero 2 di “Alfa-Beta” , rivista dell’istituto Amado, del febbraio 1927, ne compare la notizia in un trafiletto ben in evidenza, non privo di ampollosità: «Ha terminato brillantemente gli studi di Diritto il nostro amato presbitero e collega nel corpo docente, don José Maria Escrivà. Poiché la sua modestia non ci consente di congratularci con lui, ci complimentiamo con noi stessi, sicuri che la sua cultura e il suo talento saranno sempre per il nostro istituto base per le più solide promesse di trionfo»87.
Nel numero 3, del marzo 1927, di “Alfa-Beta” , il di
244
rettore della rivista si lamentava che in quel numero, dedicato «alla raccolta di scritti dei nostri professori di Diritto», non potesse figurare la collaborazione del professor Luis Sancho Seral, che era assente e aveva appena vinto a Madrid la cattedra di Diritto civile dell’U- niversità di Saragozza. (È ovvio che Santiago Amado non perdeva occasione di accrescere il prestigio del suo istituto esaltandone il corpo docente). Fra le collaborazioni alla rivista da parte dei professori si trova: «La forma del matrimonio nell’attuale legislazione spagnola», di José Maria Escrivà y Albàs, Presbitero e avvocato, Professore dei corsi di Diritto canonico e romano all’istituto Amado»88.
Il mese successivo non compare più il nome di don Josemarfa nell’elenco dei professori.
5. Da Saragozza a Madrid
Se non fosse per l’encomiabile cura - un autentico sesto senso storico - con cui don Josemarfa conservò carte e documenti fin dai primi momenti, spinto dai presagi sul futuro, al biografo mancherebbero i necessari riferimenti materiali per analizzare importanti avvenimenti della sua vita. Viceversa, molte delle persone con cui egli fu in contatto non ebbero la medesima preoccupazione. Cosicché spesso è necessario ricostruire i fatti attraverso la corrispondenza che don Josemaria conservava, cioè con le lettere che gli giungevano in risposta alle sue.
Di questa corrispondenza indirizzata a don Josemarfa fanno parte diverse lettere di febbraio e marzo 1927, che mettono un poco più allo scoperto le «ingiustizie provvidenziali» di Saragozza. La prima di esse, datata Segovia, 7 febbraio 1927, comincia così:
«Mio caro amico, con il piacere di sempre ho ricevuto eho letto la gradita tua del giorno 4, che mi informa della
245
tua situazione (...). Ricordo perfettamente ciò di cui parlavamo a Saragozza, le ore tanto piacevoli passate in tua compagnia, e perciò, quando sono arrivato a Madrid, ho parlato di te con uno dei nostri Padri per vedere se potessi ottenere che intercedesse per te davanti al Prelato di Madrid, il quale, sicuramente, gli deve non piccoli favori. Non l’ho trovato molto disposto a fare la raccomandazione in quanto sa come sia assediato da petizioni di chierici che si vorrebbero intrufolare a corte»89.
L’autore della lettera, padre Prudencio Cancer, clare- tiano, era da tempo amico degli Escrivà, forse perché proveniva da Fonz o da Barbastro, oppure perché aveva esercitato il ministero in quest’ultima città90.
Nel viaggio che don Josemaria aveva fatto a Madrid alla fine di settembre per informarsi sul dottorato in Diritto, si era reso conto di dover collegare molti altri fili prima di stabilirsi nella capitale con il proposito di trasferirvi la famiglia. Senza alcun dubbio, il claretiano conosceva la situazione economica in cui si trovava la famiglia degli Escrivà, poiché espresse al giovane sacerdote il desiderio che «la tua povera madre e i tuoi buoni fratelli» possano «trascorrere questa vita senza le ansietà e preoccupazioni in cui devono vivere in mezzo alle ristrettezze, alle quali ha voluto assoggettarli la sapiente Provvidenza di Dio»91.
La seguente lettera di padre Cancer è datata Segovia, 28 febbraio 1927:
«Mio stimato amico, a Madrid ho ricevuto la tua prima lettera con la certificazione dei tuoi esami e a Segovia quella successiva. A Madrid ti ho molto raccomandato a due Padri con una nota sui tuoi intenti e desideri. Entrambi hanno potuto parlare con diversi Prelati e uno di essi mi ha nominato una o due persone molto in vista di Saragozza con le quali tentare ciò che prima mi sembrava più facile ottenere: cioè un collocamento a Saragozza da parte del tuo Vescovo. I due o tre Padri ai quali ho
246
parlato della tua situazione si sono molto stupiti che, avendo tu doti e meriti di tanto rilievo quali io dicevo loro, il Prelato non ti dia una sistemazione e ti lasci partire dalla sua diocesi. Sembra incredibile che C. A. abbia una tale influenza su un Prelato di così elevate qualità e nuovo, da non osare darti un posto per riguardo a lui. La soluzione di rimanere a Saragozza sembrava loro la più facile. Il fatto di venire a Madrid comporterà sicuramente serie difficoltà»92 ecc. ecc.
La risposta del claretiano dimostra a chiare lettere che le nuove informazioni ricevute sulla posizione di Josemarìa nell’ambiente ecclesiastico di Saragozza gli avevano aperto gli occhi. E capì, alla fine, le difficoltà nelle quali si imbatteva il giovane sacerdote per ottenere un posto nella diocesi, cosa che «prima mi sembrava più facile da ottenere», scriveva il religioso. Da ultimo, la misteriosa riservatezza con cui si riferiva all’arcidiacono, don Carlos Albàs (“ C. A.” ), che, superando l’autorità del Prelato, aveva dichiarato suo nipote persona non gradita nella diocesi, riconduce alle “ ingiustizie provvidenziali” . E molto probabile che sia stato don José Pou de Foxà ad aprire gli occhi a padre Cancer, poiché nel commiato di una lettera così privata gli mandava i suoi saluti, come se si trattasse di un membro della famiglia: «Salutami il Sig. Dr. Pou, tua madre e i fratelli. Tuo aff.mo amico P. Cancer»93.
Avvezzo all’abile gestione di amicizie e influenze, padre Cancer non si scoraggiava davanti ai possibili inconvenienti al trasferimento del suo amico a Madrid. Ma il suo ottimismo cadeva nel prendere in considerazione il più grave degli ostacoli. A tal punto che - come diceva a don Josemarìa nella lettera del 28 febbraio - «credo che sarebbe più facile trovarti un impiego in qualche diocesi dove i Prelati siano nuovi o siano amici dei Padri ai quali sopra accennavo». Qual era l’ostacolo tanto temuto?
* * *
247
La forte centralizzazione amministrativa, la crescita della popolazione e altre circostanze storiche avevano fatto della capitale spagnola il punto di riferimento di tutto il Paese. A Madrid, oltre a tanta brava gente, accorrevano avventurieri e parassiti. Alcuni cercavano pane e lavoro. Altri, potere, fama o ricchezza. Alla capitale emigravano anche sacerdoti di altre diocesi. L’afflusso di chierici nella città sede della Corte aveva assunto tale entità che la Santa Sede fu costretta a intervenire. Tramite la Nunziatura Apostolica fu inviata una circolare a tutti i vescovi spagnoli nei seguenti termini:
«I gravi danni che sta subendo la capitale di questa Monarchia, a motivo del fatto che vi si riuniscono Sacerdoti dalla condotta poco regolare e disordinata dalle diverse Diocesi della Spagna, hanno posto la Santa Sede nella necessità di proibire, come effettivamente proibisce, a tutti gli Ordinari di questo Regno di accordare d’ora in poi lettere dimissorie ai Sacerdoti della propria giurisdizione per recarsi in questa Città e Corte di Madrid e sua Diocesi, a meno che esistano ragioni particolari per farlo e vengano presi preventivi accordi con l’Ordinario di detta Diocesi»94.
Queste misure di divieto, che avevano lo scopo di limitare la presenza di sacerdoti extradiocesani a Madrid, sono del 1887. Negli anni successivi dovette essere nuovamente ricordata ai Prelati spagnoli perché, come diceva un’altra circolare del 1898, «non sono cessati i gravi inconvenienti che avevano suggerito la citata disposizione»95. Nel 1909 il Sinodo Diocesano di Madrid elevò la disposizione al rango di legge. I successivi prelati dovettero ripetutamente ricordare che il sacerdote che avesse avuto necessità di trasferirsi nella diocesi della Corte per risiedervi, avrebbe dovuto presentare il permesso del proprio Ordinario e ottenere, inoltre, il beneplacito del Vescovo di Madrid96.
Nel bel mezzo di questa problematica situazione, don
248
Josemaria ricevette una lettera di padre Cancer - datata Segovia, 9 marzo 1927 - in cui questi gli scriveva in tono di giubilo:
«Caro amico, possiamo già cantare un Te Detoni Credo di sì. Per spiegarmi ti dirò che ho saputo casualmente che nella chiesa di S. Michele a Madrid, vicina alla calle Mayor, sotto la giurisdizione dell’Ecc.mo Signor Nunzio e retta dai Padri Redentoristi che vi hanno una casa, c’è una Messa fissa quotidiana con uno stipendio di 5,50 pesetas e che per ottenerla è necessario solo il consenso del Sig. Nunzio. Ho visto spalancarsi il cielo, quando l’ho saputo; poiché la grande difficoltà per andare a Madrid, anche se in possesso di buone referenze, era il permesso del Prelato di quella città, come mi pare di averti detto. Quindi, guarda come il Signore appiana la strada»97.
Veramente piovuta dal cielo si presentava la soluzione al suo problema, perché la Chiesa Pontificia diS. Michele non dipendeva dal Vescovo di Madrid ma ricadeva sotto la giurisdizione del Nunzio. Perché, come si vedrà, il Prelato di Madrid-Alcalà era estrema- mente severo nella concessione di un permesso agli extradiocesani.
Allegato alla lettera di padre Prudencio Cancer c’era uno scritto del Rettore di S. Michele al claretiano, che chiariva alcuni punti:
«Naturalmente il Sacerdote da Lei raccomandato può ottenere licenza dal Sig. Nunzio Apostolico per celebrare in questa chiesa (...). Non è una cappellania, ma esistono garanzie sufficienti che non gli vengano a mancare celebrazione e stipendio finché rimarrà a Madrid.Per ottenere le licenze dal Sig. Nunzio deve portare regolari facoltà ministeriali del suo Prelato. E inoltre un documento in cui lo autorizzi a vivere a Madrid con il suo beneplacito. Sua Eccellenza desidera pure che il Prelato nello stesso documento dica almeno una parola che indi
249
chi il buon comportamento del sacerdote. È quello che si esige sempre e con questo può venire con la massima tranquillità»98.
Don Josemarìa dovette prendere una decisione a tamburo battente, tanto più se si tiene presente ciò che, alla fine del suo scritto, aggiungeva il Rettore di S. Michele: «Se può venga presto: lo riceveremmo fin da ora». Dopo aver parlato della faccenda in famiglia, decisero che, mentre Josemarìa si sarebbe trasferito a Madrid e avrebbe cercato casa per loro, sua madre e i fratelli sarebbero andati a Fonz a vivere con lo zio Teodoro99.
Il primo passo da fare era ottenere il permesso del- l’Arcivescovo per andare a Madrid a fare gli studi per il dottorato, oltre a procurarsi qualche lettera di presentazione. Don Josemarìa espose con franchezza al Prelato il desiderio di conseguire il dottorato in Diritto, e la sua ferma determinazione, al di sopra di tutto, di adempiere gli obblighi propri del suo ministero. Il 17 marzo gli venne accordato per due anni il permesso per studiare alPUniversità di Madrid; e cinque giorni dopo ottenne le relative lettere di presentazione100.
Una volta ottenute le autorizzazioni, passò a occuparsi delle pratiche universitarie. Previo pagamento delle relative tasse, ritirò il proprio titolo di Licenziato in Diritto e chiese il trasferimento del proprio incartamento personale alPUniversità di Madrid101. Le tasse ammontavano a 37,50 pesetas, somma equivalente a una settimana di spese minime familiari. (A Madrid la vita era ancor più cara. Lo stipendio per la Messa da celebrare a S. Michele era insufficiente a mantenere una persona. Di questo si preoccupava il claretiano, che era convinto che «con 5,50 pesetas non può vivere una famiglia»).
In quei giorni don Josemarìa s’imbatté in un ex compagno e parlarono della sua andata a Madrid.
250
- «Che cosa farai a Madrid?», gli chiese l’amico.- “Mi troverò un posto di precettore o lavorerò dando lezioni”, rispose il sacerdote102.
Don Josemaria aveva già pensato al modo di ottenereil necessario complemento economico. Tuttavia, l’amico si credette obbligato a consigliarlo su questo punto, ricordandogli che l’insegnamento esige, oltre ad un bagaglio di conoscenze e ad un metodo pedagogico, simpatia di modi e attrattiva personale. Non che don Josemaria mancasse di tali doti, ma il fatto è che aveva fama di non abdicare ai suoi princìpi morali di fronte ai convenzionalismi della vita sociale, specialmente perché, essendo sacerdote, non doveva dare la benché minima occasione di scandalo.
Intorno al 20 marzo le cose si complicarono. La curia diocesana gli notificò, all’improvviso, la destinazione alla parrocchia di Fombuena per la Settimana di Passione e la Settimana Santa, cioè dal 2 al 18 aprile103.
D ’altro lato e nella stessa data, il Rettore di S. Michele reclamava urgentemente la sua presenza: «Se potesse venire subito - gli diceva in una lettera - le sarei grato, essendo questo il periodo nel quale abbiamo più bisogno di sacerdoti»104.
Tutto stava andando troppo perfettamente bene perché il diavolo non ci mettesse la coda. Un’occasione così favorevole, avendo praticamente già il permesso di risiedere nella capitale, non si sarebbe più ripresentata. Avrebbe dovuto presentarsi in Curia a rifiutare l’incarico di Fombuena? Grazie a Dio si consultò con sua madre e, seguendone il consiglio, accettò la destinazione temporanea:
“Poche volte la mamma è entrata nelle mie cose, ma quando lo ha fatto (nella mia prima Messa, nella mia andata a Fombuena) i suoi sembrano suggerimenti di Dio. Ha sempre indovinato”105.
251
In seguito, nessuno avrebbe avuto il pretesto per accusarlo di mancanza di interesse nell’esercizio del suo ministero o di mancanza di lealtà verso la diocesi. Quanto alla buona occasione, se era Dio a offrirgli quel posto a Madrid, non sarebbe stato capace di conservarglielo per due o tre settimane? Scrisse quindi al parroco di Badules, dal quale dipendeva Fombuena, e al Rettore di S. Michele, dal quale dipendeva la sua futura sistemazione.
La lettera di risposta ricevuta da Madrid non porta la data. In essa il Rettore si scusava di non essersi affrettato a rispondere e insisteva sull’urgenza del caso e sull’impazienza con cui lo si attendeva:
«Le sarei molto grato se non ritardasse la sua venuta oltre il tempo che mi indica, poiché abbiamo bisogno della sua messa. L’attendiamo quindi nei primi giorni della settimana di Pasqua»106.
La risposta del parroco era molto più circostanziata e alla buona, anche se nel suo lungo periodare dimostrava una singolare disinvoltura nell’uso delle virgole e della punteggiatura in genere:
«Badules, 26 marzo 1927.Sig. don José Maria Escrivà - Saragozza.Egregio e carissimo confratello, ricevo la sua nella quale mi dice che viene a servire la parrocchia di Fombuena, dal giorno 1 fino a Pasqua e in risposta alla sua le devo dire che le ho già trovato ospitalità la migliore di quello che vi si può trovare e quella che dà maggiori garanzie poiché nella stessa casa viene ospitata la Signora Maestra che è nipote di un parroco e di tutta fiducia la casa è quella del signor Giudice di quel paese persona semplice come pure tutta la sua famiglia. Il viaggio si fa dalla stazione di Carinena dove si chiede il biglietto per Daroca che è in combinazione con un autobus che attende a Carinena l’arrivo dei viaggiatori e lì si sale con
252
servando il biglietto del treno che viene solo mostrato all’uscita dalla stazione e poi lo richiedono sull’autobus, e anche se il biglietto è fino a Daroca, arrivati a Mainar si scende e lì c’è il “pedone” (postino) che viene qui e poi a Fombuena il quale si trova già in vista quando Lei scenderà e potrà venire trasportato poiché ha un cavallo e potrà portarle le cose se lei le ha come valigia, borsa, ecc. In quei giorni non ci sarà molto da fare qualche predica la Domenica e il Venerdì dei Dolori e la Settimana di Passione e nella Settimana Santa il Venerdì Santo la dottrina per bambini e bambine dalle 11 alle12 celebrare al mattino la Messa e qualche confessione non più di dieci o dodici ogni giorno e al pomeriggio novena, rosario e nient’altro comunque quando verrà le darò più ragguagli, il paese è piccolo e brutto ma 15 giorni ci starà bene, più a lungo no.E quanto le può dire questo suo affezionatissimo confratello che la saluta e avrà molto piacere di conoscerla. Leandro Bertràn Parroco».
L’informazione era completata dalle indicazioni del poscritto:
«Poiché il viaggio è lungo in quanto si parte alle 9 del mattino e si arriva qui alle tre del pomeriggio cerchi di portarsi qualcosa da mangiare in viaggio (...).Può venire il sabato giorno 2 per celebrare lì la Domenica di Passione»107.
Sabato 2 aprile 1927 la famiglia Escrivà partì per Fonz e il giovane sacerdote per Fombuena. Per due settimane intere, fino alla Pasqua di Risurrezione, fece le veci del parroco in quel paese di 250 anime, lontano da Saragozza e a sette chilometri da Badules, paese dove normalmente risiedeva il parroco. La chiesa di Fombuena, come quella di Perdiguera, era dedicata alla Vergine Assunta.
Non si conserva alcuna relazione sulle attività pastorali di quel prete arrivato da Saragozza. Si può tuttavia supporre che lo zelo sacerdotale dimostrato in S. Pietro Nolasco fosse sufficiente a fargli organizzare, come a Perdiguera, visite alle famiglie del paesino, servizi liturgici, catechesi e lunghe ore di confessionale. Non esiste traccia della sua permanenza neppure nei libri dei Sacramenti della parrocchia. Non se ne può attribuire la colpa al nuovo parroco in carica. Si deve supporre semplicemente che durante quel breve periodo le donne del paese non abbiano dato alla luce bambini da battezzare e che i parrocchiani di quel piccolo gregge non abbiano dovuto piangere defunti.
Del suo passaggio a Fombuena conosciamo peraltro un particolare, a prima vista insignificante: che il sacerdote, lì come altrove, portava sempre con sé, come reliquia di famiglia, il crocifisso che era stato tra le mani di suo padre prima della sepoltura108.
Il ricordo di quei lontani giorni del suo ministero a Perdiguera e a Fombuena riempiva di gioia l’anima di Josemarìa:
“Sono stato due volte in parrocchie rurali. Che gioia, quando me ne ricordo! Mi inviarono là per arrecarmi fastidio, ma mi fecero un gran bene. Anche allora alcuni cercavano di dar fastidio. Mi fecero un bene colossale, colossale, colossale! Con che piacere me ne ricordo!”109.
Man mano che passavano gli anni vide con maggior chiarezza l’intimo significato di quelle nomine e come Dio permetteva che lo conducessero da un posto all’altro come un asinelio:
“Ho sempre cercato di compiere la Volontà di Dio. Mi hanno condotto da un posto all’altro come si conduce un asino tirandolo per la cavezza, e molte volte a bastonate”110.
254
Il lunedì di Pasqua, 18 aprile, ritornò a Saragozza. Quella notte dormì all’Hotel Barrio, del quale conservò accuratamente il conto, come cippo storico del cammino che intraprendeva verso la capitale111.
Jf- >!*
Quando don Josemaria, quasi guardasse dal di fuori, ripercorreva nell’orazione la propria esistenza, gli si apriva la visuale di un ampio paesaggio che fluiva con il passar del tempo. All’interno della visione, gli avvenimenti salienti della sua vita si incastravano l’un l’altro in modo provvidenziale, con contrasti di luci e ombre forti, ma non stridenti, secondo una logica divina che incanalava le cose, ordinatamente, verso il futuro.
Che cosa aveva capito di questa logica quando da bambino a Barbastro, aveva abbattuto un castello di carte con una manata? È questo che Dio faceva con le persone? Lasciava forse costruire per poi buttare a terra l’edificio appena terminato?
E quali laceranti pensieri saranno passati per la testa di quel ragazzo che andava cercando spiegazione ai rovesci di fortuna, di famiglia e di nobili ambizioni, che tante anime buone pativano? Quale segreta giustizia muoveva la mano di Dio nel colmare di successo e di beni gente che calpestava i suoi comandamenti? Perché, Signore, perché?
Dal momento in cui egli era stato battezzato, Dio stava conducendo nell’anima di Josemaria un’opera stupenda e silenziosa. Più avanti, quando fece la prima Comunione, quel bambino nominò Gesù padrone del proprio cuore, supplicandolo di concedergli la grazia di non perderlo mai. E il Signore, che già gli aveva dato dei genitori esemplari, gli diede una pioggia di favori, confermando tutta la famiglia sulla via della Croce, via che Josemaria da piccolo non capiva. Perché la chiamata alla Croce è sempre per via del dolore e del sacrificio. Poi le disgrazie familiari di Barbastro e le ristrettez
2 55
ze e le umiliazioni di Logrono portarono il ragazzo sull’orlo della ribellione. Ma le ispirazioni della grazia temprarono la sua anima, maturandola. E ben presto si dischiuse in essa, fin da un’età molto precoce, una divina inquietudine.
Il giorno in cui Josemaria vide le orme sulla neve si gettò, senza vacillare, nelle braccia di Dio. Da quel momento il suo desiderio fu soltanto di compiere la Volontà divina. Poi comprese definitivamente che il distacco e la generosità sono propri dell’amore. Comprese dove conduceva la logica divina secondo cui il Signore priva coloro che ama di beni materiali, di persone amate e di comodità. In tal modo Josemaria volontariamente e gioiosamente divenne lui stesso distacco. Si abbandonò totalmente, con tutto il proprio essere, con tutte le proprie aspirazioni, al desiderio di identificarsi con Cristo e decise di divenire sacerdote.
Venne poi una dura e lunga prova. Perché negli anni della sua permanenza al S. Carlo, il Signore continuò a modellare in lui l’immagine di Cristo. Suo padre morì in un momento critico, in cui era ancora possibile a Josemaria tornare indietro. Perciò il nobile gesto di gettare nel fiume la chiave della bara, al ritorno dal cimitero, significava nientemeno che la decisione di distaccarsi da qualsiasi legame umano, anche se legittimo, che potesse ostacolare il suo accesso all’ordinazione sacerdotale.
Il Signore lo purificava con il dolore, scaricando colpi dove più gli poteva far male, senza risparmiare quanti gli stavano intorno, in particolare la sua famiglia. Josemaria ne era talmente persuaso che ben presto enunciò la regola valida per tutta la sua vita: “Il Signore, per colpire me che ero il chiodo - perdonami, Signore - dava un colpo al chiodo e cento al ferro del cavallo” 112.
Questo modo divino di forgiare i santi richiede da essi una umiltà e una fedeltà incredibili, per lasciar fare al Signore e non mettere alcun ostacolo. Dal silenzio del giovane sacerdote sui “colpi” che Dio gli dava a Sara
256
gozza si deduce non che li seppellisse nella dimenticanza, bensì tutto il contrario: rimasero così marcati nella sua memoria che preferiva non farne parola. Di questo modo di procedere di Dio, a colpi di scalpello e di martello, per fare della sua persona una pietra squadrata sulla quale costruire la sua Opera, aveva un ricordo vivo e duro. Coloro che cercano di schivare la volontà di Dio - ammoniva - soffriranno inutilmente, finendo ridotti a un mucchio informe di ghiaia113.
Esperienza dopo esperienza, in modo faticoso e rapido, imparò le vie della Sapienza. Finché, con il passare degli anni e con un’intensa azione dello Spirito Santo nella sua anima, acquisì una specie di istinto soprannaturale per scoprire nella storia e nella concatenazione degli avvenimenti il sigillo inconfondibile della Provvidenza. Nei motivi che costrinsero gli Escrivà a trasferirsi da Barbastro a Logrono e poi a Saragozza e nelle difficoltà che ora lo assediavano fino a costringerlo ad abbandonarla, indovinava un segreto perché. Quando aveva deciso di andare a Madrid, buttato fuori a spintoni da Saragozza, ma condotto dall’alto dalla mano di Dio, era sicuro dell’esistenza di qualche occulto disegno divino che lo attendeva nella capitale spagnola. Quel continuo trasferirsi, da Barbastro a Logrono e di qui a Saragozza per finire poi a Madrid, non era quindi un percorso capriccioso e labirintico, bensì un’ascesa disciplinata, passo dopo passo, fino alla vetta dalla quale Dio gli avrebbe mostrato l’impresa divina che gli aveva preparato. (Era anche prefigurazione del secondo grande itinerario della sua vita, che avrebbe dovuto percorrere per portare a compimento il progetto fondazionale che il Signore, tra breve, avrebbe deposto nelle sue mani).
Il sacerdote nutriva ancora la speranza di una risposta al suo “Domine, ut videam\” . Presentiva nella fede il prossimo avverarsi del “Domine, ut siti” . E fra gli indizi che gli annunciavano l’avvicinarsi di quell’ora
257
tanto agognata stavano le note di un piccolo taccuino con la copertina di tela cerata del quale ci parla Agustìn Callejas, suo compagno di seminario a Saragozza. In quel libriccino Josemaria raccoglieva epigrammi festosi, massime e aneddoti. Accanto a queste annotazioni ve n’erano altre di carattere autobiografico, provenienti da Logrono, prime divagazioni di uno scrittore adolescente in cui, con la trasparenza dell’acqua pura, si vedeva il fondo della sua anima in frasi fatte di ambizione spirituale e di sentimenti ardenti.
“Avrò avuto diciotto anni, o forse meno” - ricorda Josemaria - “ quando mi sono sentito spinto a scrivere, disordinatamente” 114. Fra gli scritti c’erano anche delle poesie piene di ingenuità, firmate dal “ Chierico Cuore” , e brevi bozzetti e battute per la progettata “Storia di un pretino di paese” ; e citazioni tratte dai classici, da Santa Teresa, dagli storici, da poeti e da romanzieri. Ma tra questo disordinato cumulo di note ve n’erano alcune più intime. E questo è sorprendente: che di quando in quando, dentro o fuori dell’orazione personale, Josemaria si sentisse spinto a prendere nota di un pensiero, di un suggerimento apostolico, di un’indicazione venuta dal Cielo. Molte note, senza alcun dubbio, erano di ispirazione divina. Altre, folgorazioni di luce che aprivano nuove strade alla sua comprensione. Ma da un certo tempo in poi i favori divini erano diventati così frequenti che lo sgocciolare di grazie era ormai una pioggia torrenziale. Fu probabilmente in questo ultimo periodo di Saragozza che incominciò a ricevere alcune locuzioni divine, che rimanevano impresse a fuoco nella sua anima. Egli le trasferiva con rispetto su alcuni foglietti, come testimonianza scritta del fatto e come materia per la sua orazione.
Forse il ritmo crescente di questi eventi soprannaturali straordinari rafforzava i presentimenti dell’arrivo di qualcosa che, come lo spuntare del giorno, era preceduto dal chiarore dell’alba.
258
Esisteva inoltre un altro indizio del fatto che presto avrebbe toccato la meta, dato che nessuno tra coloro che esaminano da vicino la sua storia potrà fare a meno di interrogarsi e sorprendersi del lavoro svolto da un giovane seminarista. Josemaria era il primo a meravigliarsi, per esempio, dell’infusione di pietà a tutto un seminario: “Senza dubbio è stata la Madonna a fare questo” , scrisse per spiegare il miglioramento dei seminaristi nella devozione e nel comportamento.
Con questo stesso spirito apostolico era passato nelle aule dell’Università ecclesiastica e dell’Università civile. Con zelo incomparabile aveva svolto il proprio ministero in parrocchie rurali e in parrocchie urbane e aveva fatto apostolato e direzione spirituale fra diverse persone e in diversi luoghi. Quali esperienze doveva ancora fare? A venticinque anni di età, nell’imminenza di partire per Madrid, vedeva con meraviglia che il Signore lo aveva arricchito con un’esperienza di ministero tanto copiosa quanto difficile da acquisire in così breve lasso di tempo. Approfittando della sua generosa disponibilità, lo aveva condotto rapidamente attraverso una scuola di apprendimento spirituale dalla quale, normalmente, non si esce maestri se non in capo a una vita intera.
Don Josemaria si accorse che questa vertiginosa attività pastorale aveva avuto caratteristiche molto peculiari. I campi nei quali aveva svolto il suo apostolato abbracciavano settori sociali che fino ad allora erano rimasti incolti. D’altra parte, il suo zelo si rivolgeva in egual misura a chierici e a laici, a religiosi e a religiose, a gente di tutti gli strati sociali e di tutte le professioni. In questo senso era un autodidatta che avanzava condotto per mano da Dio; e di conseguenza aveva l’intima convinzione che il consiglio di suo padre, di intraprendere a Saragozza gli studi di Diritto, fosse stato provvidenziale. Nella sua testa fervevano numerose intuizioni. Idee non acquisite sui libri né udite dai saggi. Ed era tale la densità di iniziative che ciascuna di esse richiede
259
va uno sforzo peculiare e appropriato per essere sviluppata. Non si trattava di attività sulla carta, meramente teoriche. Quel giovane sacerdote si era già confrontato con esse negli ambienti contadini o cittadini, nel confessionale o nei centri intellettuali. La direzione spirituale, per esempio, era una pratica non molto estesa fra i laici. E don Josemarìa, cui non piaceva la mediocrità, cercava di far scoprire ai suoi amici elevati orizzonti, facendo in modo che le anime dessero frutto secondo le possibilità personali.
Le numerose ispirazioni divine erano come scintille luminose che mettevano l’anima di don Josemarìa in stato di allerta per l’azione. Dopo di esse veniva la spinta di maggiori grazie: efficaci, abbondanti, complete. Il sacerdote sentiva in modo palpabile che la propria energia per l’azione era inesauribile. È chiaro che doveva affrontare ostacoli, vincere resistenze, lottare contro la fatica, contro la mancanza di mezzi e la scarsità di tempo. Ma nonostante tutto questo, la sua strada, sempre fiancheggiata da spine, gli risultava più percorribile di quanto ci si potesse attendere. Così voleva il Signore. Perciò quelle abbondanti grazie, che rafforzavano le sue facoltà in maniera così evidente e tangibile, egli volle chiamarle “ operative” . Si impadronivano in modo tanto completo della sua volontà che, nel lavoro di ogni giorno - disse - “quasi non dovevo fare sforzo” 115.
Riesaminando la propria vita giovanile, gli venivano facilmente in evidenza quanto numerose fossero state le “provvidenze” del Signore, con le quali lo preparava alla missione che avrebbe ricevuto più avanti. In altre occasioni, tuttavia, scopriva nuove “provvidenze” che tempo addietro gli erano passate inavvertite. Era forse stata una “pigrizia” sua il non essersi laureato in Sacra Teologia quando stava a Saragozza, prima che venisse modificata l’organizzazione ecclesiastica degli studi universitari?
“A questo proposito” - scrisse nel dicembre 1933
260
- “ho pensato spesso che forse a motivo della mia pigrizia non mi era laureato a suo tempo a Saragozza. Tuttavia, a parte le ragioni umane, ne vedo altre soprannaturali. Se fossi stato dottore in Teologia avrei sicuramente fatto il concorso di canonico o quegli altri concorsi da burla che si fecero ai tempi di Primo de Rivera per insegnare Religione negli istituti di insegnamento secondario e non sarei passato per tutto ciò che ho passato a Madrid, e chi sa mai se Dio mi avrebbe ispirato POpera definitivamente! È stato Egli a condurmi, servendosi di avversità senza numero e persino della mia poltroneria” 116.
261
NOTE CAPITOLO IV
1 II decreto di nomina a Reggente Ausiliare del Parroco di Perdiguera è scritto in annotazione originale nel Libro del Registro dei Documenti Arci- vescovili (1922-1942), foglio 278, n. 2697 (30-111-1925).2 L’arcidiocesi di Saragozza aveva 20.409 Kmq; il numero di abitanti era di 475.614. Le parrocchie erano 380; i sacerdoti 852, senza contare 334 religiosi, molti dei quali erano sacerdoti (cfr E. Subirana, Annuario Ecclesiastico, cit., 1924, p. 196).«Nel mese di marzo 1925 il Parroco, don Jesus Martmez Pirrón, era assente da Perdiguera per malattia» (cfr Teodoro Murillo, AGP, RHF, T- 02849, p. 1).3 La parrocchia di Perdiguera apparteneva alla categoria di “Entrada” , cioè il gradino inferiore per importanza; disponeva di una casa ad uso del curato. Probabilmente la casa era rimasta occupata dai mobili e dalle cose del parroco; e don Josemarìa preferì alloggiare in un’altra casa (cfr Scheda interna sugli incarichi parrocchiali, Archivio diocesano; e AGP, RHF, D- 03296, 4).4 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 206. Nel paese questa casa ospitale era nota come Casa de las mangas (cfr Teodoro Murillo, AGP, RHF, T-02849, p. 1).5 I rapporti del Reggente con la famiglia degli Arruga erano estremamente cordiali e, come attesta Mons. Javier Echevarria, «prepararono con affetto e deferenza la stanza di cui disponevano, mettendovi il miglior letto che c’era in casa» (Sum. 1915).6 Teodoro Murillo, AGP, RHF, T-02849, p. 2. Poiché gli uomini lavoravano fuori di casa per gran parte del giorno, don Josemarìa «si organizzò per far visita alle case quando gli uomini erano presenti» (Javier Echevarria, Sum. 1909).7 Teodoro Murillo, AGP, RHF, T-02849, p. 2. Cfr anche: Umberto Farri, PR, p. 31; Francisco Botella, PM, f. 21 lv.
262
8 Teodoro Murillo, AGP, RHF, T-02849, p. 2.9 Ibidem, p. 1.10 Mons. Alvaro del Portillo racconta che quando chiese l’ammissione al- l’Opera, il Fondatore gli consigliava di recitare giaculatorie, fare comunioni spirituali e offrire piccole mortificazioni, spiegandogli che alcuni autori ascetici raccomandavano di tenerne il conto; ma che esisteva il pericolo di insuperbirsi, per cui era meglio lasciarle contare all’angelo custode (cfr Sum. 204; cfr anche Javier Echevarrfa, Sum. 1913).11 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 200; Javier Echevarrfa, Sum. 1911. Il Reggente aveva le facoltà ministeriali «per celebrare e assolvere» dal giorno stesso dell’ordinazione, il 28-III-1925, concesse da D. José Pellicer Gufu, Vicario Capitolare dell’Arcidiocesi, per sei mesi (cfr Libro delle concessioni delle Facoltà Ministeriali dell3Arcivescovado - anni 1902-1952 - foglio 227, n. 5980; AGP, RHF, D-03296/2).12 L’originale in AGP, RHF, D-l 1694.Il viaggio di don Carlos a Burgos, qui citato, era forse in relazione alla malattia della madre, Florencia Blanc Barón (nonna di don Josemarfa) che morì due giorni dopo, il 26 aprile; viveva a Burgos con un altro figlio, don Vicente, canonico della cattedrale. Cfr Carmen Lamartfn, AGP, RHF, T- 04813, p. 1.13 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7323.14 Alvaro del Portillo, Sum. 202; Javier Echevarrfa, Sum. 1910; AGP, POI 1977, p. 264; AGP, POI 1975, p. 225.15 Di questo libro progettato nulla ci è pervenuto, salvo qualche altro episodio. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 205; Javier Echevarrfa, Sum. 1908.16 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 299. In maniera più sintetica ci dà notizia di questa meditazione anche Mons. Juliàn Herranz, che indica come data del racconto il 24 febbraio 1958 (cfr PR, p. 889).17 Cfr Archivio della parrocchia della Madonna Assunta, di Perdiguera: Libro dei Battesimi, tomo VII, fogli 44-44v; e Libro dei Defunti, tomo VII, foglio 22.18 AGP, RHF, D-03296-4.19 Teodoro Murillo, AGP, RHF, T-02849, p. 1.20 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 302.21 Sixta Cermeno, AGP, RHF, T-02856, p. 2. Un altro testimone racconta che dopo la morte del signor José e il trasferimento a Saragozza, «stavano nelle più grandi ristrettezze. Vivevano in un piccolo appartamento della modesta via Rufas. Le difficoltà furono di ogni genere: penuria autentica nei pasti - a volte patirono la fame -, estrema modestia nell’arredamento, massima attenzione anche sulle spese più piccole e a non sciupare gli abiti». E aggiunge un’affermazione di Carmen che, pur senza lamentarsi, «raccontava che le persone che trattavano con la famiglia in quei tempi non si
263
resero mai conto che la loro penuria arrivasse a tanto» (Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 58).22 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 265; e Javier Echevarria, Sum. 1930.23 Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7322. Da quel momento, don Carlos Albàs non volle più riannodare i rapporti con la sorella e i nipoti.24 Istanza inclusa nella sua pratica personale, presso l’archivio della Facoltà di Diritto dell’Università di Saragozza (una copia autentica si trova presso l’archivio della Facoltà di Diritto dell’Università Complutense di Madrid; cfr AGP, RHF, D-15047).La ricevuta ufficiale, con il numero d’iscrizione 14 per la sessione di giugno, porta la data del 30 aprile 1925. Vi si dice che l’alunno è nativo di Barbastro e ha 22 anni; in realtà aveva 23 anni, e l’errore compare anche nell’istanza.25 Cfr Pratica Accademica personale e Registro di Identità Scolastica, negli archivi della Facoltà di Diritto delle Università di Madrid e di Saragozza; cfr anche Appendice documentale, documento XII.26 Cfr ibidem.27 Cfr ibidem.28 La materia “ Storia di Spagna” apparteneva al gruppo dei cosiddetti “ Studi Preparatori” e faceva parte degli insegnamenti di un’altra Facoltà, quella di Lettere e Filosofia. Agli Studi Preparatori faceva seguito il Corso di Licenza, costituito dalle materie di carattere propriamente giuridico, il cui insegnamento veniva impartito nella Facoltà di Diritto.29 Sull’incidente dell’esame di Storia di Spagna, cfr Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 43; nella leale modifica di atteggiamento fatta dal docente, il Fondatore intravvide un’importante norma di condotta: non avere vergogna o timore a rettificare quando si è sbagliato (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 171).30 David Mainar, Sum. 6142.31 Juan Antonio Iranzo, AGP, RHF, T-02850, p. 1.32 José Lopez Ortiz, AGP, RHF, T-03870, p. 1.33 Ibidem, p. 2.34 Luis Palos, AGP, RHF, T-07063, p. 1.35 Juan Antonio Iranzo, AGP, RHF, T-02850, p. 1; Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 2.36 Cammino, cit., n. 72.37 «Il Fondatore ci ha raccontato - riferisce Mons. Echevarria - che, durante il suo periodo universitario, erano poche le donne iscritte all’Univer- sità. Con quelle che frequentavano, il Fondatore dell’Opera mantenne un tratto di sobria cortesia e naturalezza, senza stranezze: le salutava cortesemente e se gli chiedevano qualcosa rispondeva educatamente, ma cercava - come ha fatto sempre - di limitare il suo rapporto con le donne allo stretto
264
necessario; questo comportamento era noto anche ai suoi compagni, che mai lo videro parlare da solo con una donna, nei corridoi dell’Università né altrove» (Sum. 1887).38 Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 2.39 José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 3.40 Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152/1, p. 20.41 Fiorendo Sànchez Bella, Sum. 7550.42 Ecco un esempio del suo zelo sacerdotale per ricuperare anime traviate: quando stava a Madrid seppe che un giovane sacerdote di un’altra diocesi, abbandonato il proprio ministero, lavorava in un’erboristeria. Trovato il negozio vide un giovane lavorante, gli si avvicinò e disse a bassa voce: “Buon giorno, fratello” . “Ma lei chi è e come fa a conoscermi?” , rispose costui. Don Josemarìa gli disse che voleva parlare con lui e gli fissò un appuntamento. Dopo aver pregato e fatto penitenza per questa persona, si recò all’incontro e ne ottenne un completo ravvedimento. Quegli non potè ritornare alla sua diocesi perché il suo Vescovo non lo riteneva prudente, a motivo della notorietà del caso, unico scandalo fra il migliaio di sacerdoti della diocesi, fedeli alla propria vocazione. Fece però un periodo di prova nella diocesi di Madrid, quindi don Josemarìa gli acquistò gli abiti sacerdotali e il sacerdote fu destinato a un paesetto della provincia. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 405; Javier Echevarria, Sum. 1976.43 Cfr la pratica accademica personale (già citata) e l’Appendice documentale, documento XII.44 Cfr Appendice documentale, documento XII.45 Come già detto, le facoltà che gli furono conferite appena ordinato erano valide per celebrare e assolvere: «valeat etiam ad mulierum confessiones audiendas».Il 22 settembre 1925 gli furono rinnovate le facoltà «fino al sinodo di ottobre», e il 5 ottobre 1925 tornarono a dargli le facoltà per altri sei mesi (cfr Libro delle Facoltà Ministeriali (1902-1952) foglio 230, n. 6094 e foglio 231, n. 6108); il 3 luglio 1926 gli furono concesse per un anno (cfr ibidem, fogl. 235, n. 6244). Sul periodo dal 5-III-1926 al 3-VII-1926, cfr Bollettino Ufficiale dell3Arcidio cesi di Saragozza, anno LXV n. 1 (1-1926) p. 9, Circolare n. 2, in virtù della quale, secondo una prassi abituale in tutte le diocesi, insieme agli altri sacerdoti ordinati il 2 8-III-1925 gli venivano prorogate le facoltà fino al superamento degli esami annuali, per lo spazio di un triennio (cfr lo stampato accreditante e autenticato delle facoltà concesse a don Josemarìa, in AGP, RHF, D-03296-2 e D-03296-5).46 Mons. Rigoberto Doménech y Valls (1870-1955) aveva fatto gli studi nel Seminario Centrale di Valencia. Era Dottore in Sacra Teologia e in Diritto canonico. Era Vescovo di Maiorca quando fu eletto e presentato per la sede metropolitana di Saragozza con R.D. 13 novembre 1924. Prese possesso della sede solo nel maggio 1925 (cfr E. Subirana, cit., 1926, p. 390).
265
47 “Fra i ricordi che affiorano ora alla mia memoria con viva attualità” - scrisse nel 1945 - “ve n’è uno di quando ero giovane sacerdote. Da allora ho ricevuto con discreta frequenza due consigli unanimi per “ fare carriera” : prima di tutto, non lavorare, non fare molto lavoro apostolico, perché ciò suscita invidie e crea nemici; in secondo luogo non scrivere, perché tutto quello che si scrive - anche se lo si scrive con precisione e chiarezza - di solito viene male interpretato (...). Ringrazio Dio Nostro Signore di non aver mai seguito questi consigli e sono contento perché non mi sono fatto sacerdote per “fare carriera” ” (Lettera 2-II-1945, n. 15).48 L’originale in AGP, RHF, D-03876. Il certificato è datato Saragozza, 11- III-1931 e lo richiese don Josemaria per ottenere delle lettere testimoniali, che l’arcivescovo di Saragozza vergò il 28-111-1931.49 L’originale in AGP, RHF, D-03876.50 In AGP, RHF, D-15264 si trova un foglietto originale che dice: «Ottobre
- D. José Escrivà sac. - 31 Messe, a 4 pts. - 124 pts. -Apostolato -3 1-Totale -1 5 5 » .
E, scritto di pugno da don Josemaria: “S. Pietro Nolasco - Saragozza” .«Il Padre - riferisce José Romeo - celebrava la Messa ogni giorno nella chiesa di S. Pietro Nolasco, retta dai PP. Gesuiti, ed io ero solito andare a servirla nei periodi di vacanza scolastica. Celebrava la Messa senza fretta e con cura e sembrava che nulla lo potesse distrarre. Ascoltando la sua Messa s’imparava nella pratica quello che poi mi spiegò: il Santo Sacrificio era il centro di tutta la vita interiore. Al termine, era solito dedicare al ringraziamento alcuni minuti, durante i quali stava in profondo raccoglimento» (José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 1).51 Su queste attività nelle grandi solennità o feste, cfr la Cronaca religiosa del quotidiano “El Noticiero33 di Saragozza. (La chiesa di S. Pietro Nolasco vi appare a volte con il nome di “ Chiesa del Sacro Cuore” ). Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 217; Javier Echevarria, Sum. 1924.Alcune testimonianze, come quella di José Romeo, danno un’idea dell’apostolato che don Josemaria faceva in quel periodo fra i suoi amici: «Lo conobbi quando avevo 13 o 14 anni. Non avevo ancora terminato gli studi liceali: probabilmente era l’anno scolastico 1924-25. Il Padre andava molto spesso a casa della mia famiglia perché era compagno di studi, alla Facoltà di Diritto dell’Università di Saragozza, di mio fratello Manuel che poi morì nella guerra spagnola. Il Padre, Manuel ed altri amici si riunivano molte volte al pomeriggio per preparare degli appunti o per studiare. In questo modo conobbe anche tutta la mia famiglia» (José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 1).52 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 171; Francisco Botella, PM, f. 21 lv; Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152/1, p. 22.53 Cfr AGP, P04 1972, p. 760; citato anche da Alvaro del Portillo, PR, p. 312.
266
- È probabile dal contesto che qui per “stazione” si intenda la recita davanti al Santissimo Sacramento di tre Pater; Ave e Gloria consecutivi (NdC).54 A questo episodio - narrato in un incontro con sacerdoti durante la sua catechesi in Spagna nel 1972 - egli aggiungeva: “Voi non fate così, neppure con i vostri fratelli sacerdoti. Ci penseranno loro a pregare (...). Imponete loro una penitenza breve” . E un’altra volta, riferendosi a don Alvaro del Portillo, suo confessore dal 1944 in poi, diceva: “Alvaro è solito darmi per penitenza un’avemaria. Poi mi dice: “ le sue penitenze le faccio io” . E certamente io ho fatto lo stesso, figli miei, perché non ho mai imposto grandi penitenze” (AGP, POI 1970, p. 995).Altre testimonianze sul tema: «Era solito imporre delle penitenze molto leggere, che completava lui stesso, facendo forti penitenze: con cilici che lui stesso si costruiva, mettendoci chiodi, ecc., e anche pregando e mortificandosi per la conversione dei renitenti» (Pedro Casciaro, Sum. 6391). «Consigliava ai suoi figli sacerdoti di imporre una penitenza facile e di supplire essi stessi con la penitenza personale» (Fernando Valenciano, Sum. 7138).55 Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 3.56 Luis Palos, AGP, RHF, T-07063, p. 1.57 Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 1.58 Juan Antonio Iranzo, AGP, RHF, T-02850, p. 1; Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 1.59 David Mainar, Sum. 6141.60 Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 2.61 Cfr Fernando Vivanco, AGP, RHF, T-03713, p. 2.62 «Quando divenne sacerdote, mi piaceva confessarmi con lui. E lo facevo con molta frequenza», dice Fernando Vivanco, ibidem.63 Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 2.64 Francisco Moreno Monforte, AGP, RHF, T-02865, 7.65 Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 3.66 II professore Miguel Sancho Izquierdo lo giudicava, da come lo vedeva in aula, «un alunno intelligente, ben dotato e buono studente» (Sum. 5504). Circa questa amicizia, Mons. Javier Echevarrfa dichiara: «Ho visto di persona l’amabilità e l’autentico affetto con cui si trattavano. Don Miguel dimostrava verso di lui una grande venerazione, nonostante la differenza di età. Don Josemarfa, da parte sua, quando vedeva questo professore lo salutava sempre con grande affetto, chiamandolo “don Miguel, il mio maestro” , affermazione che don Miguel non voleva accettare, poiché era persuaso che colui che si presentava come suo discepolo lo superava in tutti gli aspetti spirituali e umani» (Sum. 1885).67 Cfr Appunti, n. 1554. L’amicizia con il professor Inocencio Jiménez fu duratura e divenne occasione di servizio apostolico, che si estese al resto della sua famiglia. Luis Palos ricorda bene che «Josemarfa fu buon amico
267
del professor Inocencio e della sua famiglia. Sono sicuro che i suoi figli, José Antonio e Maria, lo ricordano molto bene. José Antonio Jiménez Salas ha la cattedra di Geotecnica nella Scuola di Ingegneria; Maria è una donna molto intelligente, valida intellettuale, che fu bibliotecaria e ora è pratica- mente cieca. Il professor Inocencio fu un grande sociologo cristiano e, insieme a Severino Aznar e a Salvador Minguijón, fu l’animatore del “Insti- tuto Nacional de Previsión” (Luis Pàlos, AGP, RHF, T-07063, p. 3; Alvaro del Portillo, PR, p. 338).Sulla sua frequentazione e la sua amicizia con altri professori della Facoltà di Diritto di Saragozza, cfr Carlos Sànchez del Rio, AGP, RHF, T-02853, pp. 1-4; Alvaro del Portillo, Sum. 175 e 176; Francisco Botella, Sum. 5616; Javier de Ayala, Sum. 7577.68 Appunti, n. 959; cfr anche ibidem, nn. 231, 407, 751, 1344 e 1357.69 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 1447; Juan Jiménez Vargas, PM, f. 917; e C 362, 20-X-1937, nella quale fece sapere a sua madre dell’incontro a Barcellona con don José Pou.70 Cfr Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152/1, pp. 199-201; Pedro Casciaro, AGP, RHF, T-04197, pp. 5-7.71 Cfr Juan Antonio Cremades, AGP, RHF, T-05846, p. 1. Cfr Francisco Botella, PM, f. 21 lv; José Ramón Madurga, PM, f. 274v. In una testimonianza si dice che una volta il Fondatore, «nel 1941, passeggiando per la strada del Canal, giunti all’incrocio con l’antica via per Valencia, a Casablanca, che anche a quel tempo era un quartiere di Saragozza molto modesto e che egli conosceva bene, ci raccontò che vi aveva organizzato delle catechesi cui partecipavano degli studenti» (Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 2).72 Appunti, n. 441.73 Appunti, n. 387.74 Lettera 7-X-1950, n. 47. A quanto raccontano coloro che li frequentavano, l’elemosina come opera di misericordia fu un costume radicato in tutta la famiglia. Cfr per esempio José Lopez Ortiz, Sum. 5267.75 Don Josemarìa era stato ordinato sacerdote ad titulum servitii dioecesis.76 AGP, RHF, D-05188.77 Ibidem.78 Cfr Javier Echevarria, Sum. 1917.79 Alvaro del Portillo, Sum. 235.80 «Ricordo che don José Pou de Foxà, uomo di grandi relazioni e ottimo conoscitore della vita ecclesiastica della città, mi raccontò nel 1942 che egli stesso aveva consigliato al Padre di andarsene a Madrid. “In quella situazione - mi raccontò - Josemarìa qui non aveva spazio” » (Javier de Ayala, AGP, RHF, T-15712, p. 2).81 Appunti, n. 193. Le “lettere testimoniali” sono i documenti emessi dal
268
Vescovo a favore di un suddito della propria diocesi, per attestarne davanti ad un altro Prelato la buona condotta.82 Queste parole furono la schietta risposta del Fondatore a una domanda di Mons. Alvaro del Portillo su quanto era accaduto con le sue “testimoniali” alla curia di Saragozza (cfr Appunti, n. 193, nota 209).83 Su questo viaggio del Fondatore riferisce Mons. Javier Echevarria: «Gli ho sentito dire in molte occasioni che era andato a Madrid nel 1926; tuttavia, non ci risulta da nessun documento in quale epoca dell’anno abbia avuto luogo il viaggio» (Sum. 1945).L’Università di Madrid, chiamata allora Centrale, aveva Facoltà e Scuole Superiori per ogni genere di insegnamento ed era l’unica in Spagna in cui, in quegli anni, si potessero fare gli studi per ottenere il Dottorato nelle varie discipline.84 Cfr la rivista mensile Alfa-Beta, pubblicazione dell’istituto Amado. Il primo numero è del gennaio 1927 (cfr AGP, RHF, D- 04357-8).85 Cfr lettera di Nicolas Tena Tejero, in AGP, RHF, D-04743.86 L’Ordinanza Reale consentiva agli alunni ai quali mancassero una o due materie per finire i corsi accademici di presentarsi agli esami nel mese di gennaio, senza dover aspettare la sessione ordinaria d’esami di giugno. L’istanza porta la data del 10 gennaio 1927 ed è redatta nei seguenti termini: “ (...) che, trovandosi nelle condizioni previste dall’Ordinanza Reale del 22 dicembre 1926, poiché gli manca solo l’approvazione nell’esame di “Pratica forense” per finire gli studi (...)” (Cfr Pratica personale..., cit.).87 Cfr Rivista Alfa-Beta, anno I, febbraio 1927, p. 16.88 Cfr ibidem, marzo 1927, pp. 10-12. Altri studi apparsi in questo numero: El retracto de Abolorio o Derecho de la Saca, di Pedro de la Fuente, magistrato provinciale; Significado de la locución “ius ad rem”, di Ramon Serrano Suner, avvocato dello Stato; e Comentarios a la Ley Hipotecaria, di J.M. Franco Espés, avvocato.89 Lettera di P. Prudencio Cancer CMF, in AGP, RHF, D -l5003-6. La lettera è su carta intestata del Collegio dei Missionari Figli del Cuore Immacolato di Maria - Segovia” ed è indirizzata al “Rev. José Maria Escrivà - Saragozza” .90 Con lettera del 9-X11-1927 P. Cancer gli diceva che a Madrid, «in via Orfila 12, vive mia cugina di Fonz, Antonia Santaliestra». La familiarità e l’affetto con cui si interessava della madre e dei fratelli di don Josemaria indicano una consuetudine di grande amicizia. Per i rapporti che ebbe con don Josemaria l’opera di T. L. Pujadas CMF, El Padre Postius: un hombre para la Iglesia, Barcellona 1981, ne parla diffusamente (cfr p. 327). Ma va chiarito che per quanto riguarda i dati e le valutazioni sul Fondatore del- l’Opus Dei, quest’opera contiene degli evidenti errori, spiegabili con il fatto che si fonda su testimonianze orali, rese imprecise dal tempo. L’errore principale consiste nel collocare questi avvenimenti un anno e mezzo più tardi di quando accaddero realmente, il che distorce sostanzialmente la realtà dei fatti. In particolare si afferma che il Fondatore, nell’ottobre
269
1928, assistè agli esercizi spirituali che P. Cancer predicò nel seminario di Madrid. Gli interventi di P. Cancer vengono collocati, nel libro, dopo tali esercizi.Dalla documentazione esaminata è provato a sufficienza che la collaborazione di P. Cancer all’arrivo del Fondatore a Madrid si è concentrata nei mesi di febbraio e marzo 1927. È comunque ben documentato che nell’ottobre del 1928 il Fondatore assistette agli esercizi spirituali nella Casa Centrale dei Padri Lazzaristi, situata in via Garcia de Paredes, a Madrid (cfr Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcalà, l-XII-1928, p. 384).91 Lettera citata del 7-II-1927.92 Lettera di P. Prudencio Cancer a don Josemaria (originale in AGP, RHF, D-15003-5).93 Comunque non sembra che P. Cancer si fosse reso ben conto di ciò che voleva fare don Josemaria: stabilirsi a Madrid con la famiglia per terminare gli studi per il Dottorato in Legge.94 Circolare della Nunziatura Apostolica di Madrid ai Rev.mi Prelati della Spagna (30-XI-1887), nell’Archivio della Segreteria Particolare del- l’Arcivescovado di Madrid. Allora il Nunzio in Spagna era Mons. Angelo di Pietro.95 Circolare della Nunziatura Apostolica di Madrid ai Rev.mi Prelati della Spagna (5-V-1898), nell’Archivio della Segreteria Particolare dell’Arcive- scovado di Madrid. All’epoca il Nunzio era Mons. Giuseppe Francesco Nava di Bontifé.96 Cfr Sinodales Diocesanos, lib. IV, tit. IV, const. V (in Primo Sinodo Diocesano di Madrid-Alcalà. Convocato e presieduto dalVEcc.mo e Rev.mo Mons. José Marta Salvador y Barrera, e celebrato nella Santa Chiesa Cattedrale di questa Città nei giorni 10, 11 e 12 febbraio del 1909, Madrid 1909, pp. 369-370).Mons. José Maria Salvador y Barrera, Vescovo di Madrid-Alcalà, pubblicò il 10 giugno 1914 sul Bollettino Ufficiale del Vescovado una circolare nella quale si ripetevano le disposizioni già menzionate circa i sacerdoti extradiocesani, cui aggiunse una Istruzione del 15 novembre 1910 e numerose Circolari già precedentemente pubblicate sul Bollettino. Disposizioni che dovette richiamare ancora l’anno successivo (cfr Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcalà, 20-XII-1915, pp. 727-729). E per eliminare futuri abusi decretò «non consentire per il futuro di celebrare la santa Messa, neppure per un giorno solo, ai Sacerdoti che si presenteranno qui senza aver preventivamente chiesto e ottenuto l’attestazione di beneplacito stabilita dalla Nunziatura, a meno che per l’urgenza del viaggio vi fosse impossibilitato, nel qual caso sarà sufficiente una lettera o un biglietto di V. Ecc.za o del suo segretario in cui si dichiari che l’interessato non cerca di stabilire la propria residenza a Madrid, ma vi deve restare pochi giorni per risolvere le questioni oggetto della sua venuta» (Circolare di Mons. José Maria Salvador y Barrera ai Vescovi della Spagna, p. 2, in AGP, RHF, D- 08068).
270
97 Lettera di P. Prudencio Cancer a don Josemarìa, in data 9-III-1927 (originale in AGP, RHF, D-15003-5), manoscritta e su carta intestata.98 Lettera di P. A. Santiago CSSR a P. Prudencio Cancer, Madrid 7-III-1927 (originale in AGP, RHF, D-15003-6).99 Era tale la fiducia che tutti i familiari avevano in Josemarìa, da far loro ritenere che le sue decisioni sarebbero state “la cosa migliore” , come testimonia il fratello: cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7325.100 Cfr Archivio Diocesano di Saragozza, Libri del Registro dei Documenti Arcivescovili (1922-1942), anno 1927, fol. 120, n. 1813 (17 marzo 1927: «Permesso per due anni a Madrid per motivi di studio») e fol. 121, n. 1820 (22 marzo 1927: «Commendatizie per Madrid, per due anni»).A questo proposito, Mons. Echevarria dichiara: «Nel suo esposto all’Arci- vescovo di Saragozza sottolineò - era questa la sua intenzione - che, pur frequentando i corsi universitari, avrebbe dedicato la parte più importante della propria giornata all’attività pastorale, per continuare ad alimentare nella propria anima l’amore al ministero per il quale era stato ordinato. Condizionava al lavoro sacerdotale la sua attività di ricerca per il dottorato e la redazione della tesi» (Sum. 1945).101 In virtù di un Decreto Reale del 10 marzo 1917 (“ Gazeta de Madrid” del 15 marzo), su proposta del Ministero della Pubblica Istruzione e Belle Arti, non occorreva «alcuna convalida né aver esercitato per ottenere il titolo corrispondente a ciascun grado», qualora fossero stati superati tutti gli esami del relativo piano di studi.Le tasse per i diritti attinenti al grado di Licenza furono pagate il 15 marzo 1927 (cfr Pratica personale, Archivio della Facoltà di Diritto, Università di Saragozza). Come risulta dalla pratica, il trasferimento a Madrid fu fatto il30 marzo 1927.102 Domingo Fumanal, AGP, RHF, T-02852, p. 1.103 Nell’Archivio diocesano di Saragozza e negli archivi parrocchiali di Fombuena e Badules non esiste alcun riferimento alla permanenza di don Josemarìa in queste parrocchie.Nel Libro del Registro dei Documenti Arcivescovili (1922-1942) dell’arci- diocesi di Saragozza, fol. 300, n. 3190, del 28-111-1931, a motivo di alcune lettere testimoniali in preparazione presso la Curia Arcivescovile di Saragozza, sono segnati dei dati relativi a studi ecclesiastici e incarichi pastorali del Fondatore. Su una copia manoscritta e autentica fatta da lui, intitolata: “Nota dei meriti che desidera far constare nelle lettere testimoniali” , datata Madrid 12 marzo 1931, si legge in un paragrafo: “6.- Nell’aprile 1927 fu incaricato della parrocchia di Fombuena, fino a dopo la Pasqua di Risurrezione di quell’anno” (originale in AGP, RHF, D-15334).104 Lettera di P. A. Santiago a P. Prudencio Cancer, Madrid 20-111-1927 (originale in AGP, RHF, D-15003-6). Dato che la lettera fu probabilmente inviata a Segovia e di là rispedita da P. Cancer, arrivò forse a Saragozza intorno al 24 marzo.105 Appunti, n. 640. Cfr Javier Echevarria, Sum. 1917.
271
P. Cancer, nella citata lettera a don Josemarfa, parlava di «due persone molto influenti a Saragozza» e più oltre gli diceva: «Ti potrò prestare l’aiuto di cui hai bisogno; ma deve essere al momento giusto, poiché forse prima hai bisogno di questo aiuto per altri passi che tu devi fare». Il passo previo al trasferimento a Madrid era il permesso per lasciare la diocesi di Saragozza. Come vi riuscì con tanta facilità?Sembra che in tutta la vicenda del trasferimento a Madrid e delle pratiche nella Curia di Saragozza siano stati implicati diversi amici di don Josemarfa: fra loro sicuramente don José Pou de Foxà e don Luis Latre Jorro, con i quali mantenne contatti epistolari poco dopo il suo arrivo a Madrid (cfr AGP, RHF, D-04355).Don Luis Latre Jorro fu segretario per le visite pastorali del Cardinale Sol- devila. Il giorno dell’attentato in cui il Cardinale morì assassinato, don Luis era con lui in auto e fu ferito. Nel 1925 era ordinario di Filosofia nel- l’Università Pontificia di Saragozza (cfr Bollettino Ecclesiastico Ufficiale dell3Arcivescovado di Saragozza, voi. Statistiche dell3Arcivescovado di Saragozza, l-IV-1925, pp. 16-17). Nel 1925 sostituì don Antonio Moreno Sànchez nella carica di Vicepresidente del Reale Seminario Sacerdotale di S. Carlo (cfr E. Subirana, cit., anno 1925, p. 314, e anno 1926, p. 395). Era amico di don José Pou de Foxà (cfr lettera di don Luis Latre Jorro a don Josemarfa, Saragozza 9-V-1927, in AGP, RHF, D-15003-8).106 La lettera di P. A. Santiago a don Josemarfa (originale in AGP, RHF, D- 15003-7) è scritta su carta intestata: “Il Rettore dei PP. Redentoristi - Piazza Conde de Miranda 2 ” . L’inizio della lettera («giorni fa ho ricevuto la sua graditissima, alla quale non ho risposto») lascia supporre che fu scritta verso la fine di marzo. La domenica di Pasqua cadeva quell’anno il 17 aprile. Perciò don Josemarfa era atteso a Madrid intorno al 20 aprile.107 L’originale è in AGP, RHF, D-15334. Si chiamava “pedone” il postino appiedato, benché in questo caso disponesse di una cavalcatura.i°8 <£Questo crocifisso” - avrebbe scritto più tardi - “mi tenne compagnia nelle mie peregrinazioni. Fu con me a Fombuena e venne con me a Madrid” (Appunti, n. 583).109 AGP, P04 1972, p. 99.110 Javier Echevarrfa, Sum. 3212-3213; citato anche da Alvaro del Portillo, Sum. 1562.111 Cfr la fattura originale in AGP, RHF, D-15247/2.112 Meditazione del 14-11-1964.113 Cfr Appunti, n. 704.114 Appunti, n. 414.115 Meditazione del 14-11-1964.116 Appunti, n. 1090.
272
Capitolo V
LA FONDAZIONE DELL’OPUS DEI
1. Madrid, città e capitale del Regno
Attento al tono ultimativo che si percepiva nella nota del Rettore, con la quale gli comunicava che lo si attendeva a Madrid «nei primi giorni della settimana di Pasqua», don Josemaria si presentò a S. Michele non appena giunto nella capitale, il 19 aprile 1927, martedì dopo Pasqua. Mostrò al Rettore i documenti per ottenere le facoltà per l’esercizio del proprio ministero e per poter celebrare la Messa1.
Come prima soluzione, don Josemaria si era stabilito in una pensione in via Farmacia, nel dedalo di stradine che salivano alla Red de San Luis. Di là si scendeva fino alla Puerta del Sol. A poca distanza dalla Plaza Mayor c’erano una volta due chiese: S. Miguel de los Octoes, dove era stato battezzato Lope de Vega, e S. Giusto, ambedue poi demolite. Al posto di quest’ultima fu edificata una nuova chiesa, ceduta nel 1892 al Nunzio Apostolico e posta sotto la sua giurisdizione: la Chiesa Pontificia di S. Michele2.
Nonostante la sua importanza storica come capitale del Regno fin dall’epoca di Filippo II, il territorio ecclesiastico della Corte di Madrid aveva continuato a dipendere per secoli dalla sede di Toledo, senza costituire
273
diocesi indipendente. Nel Concordato del 1851 ne era prevista l’erezione come suffraganea di Toledo. Peraltro questa decisione fu applicata soltanto nel 18853. Non si potè però evitare che la Corona, i nobili e persino gli stessi ecclesiastici fondassero conventi, costituissero patronati o dotassero di rendite chiese e cappelle al di fuori della giurisdizione ordinaria, che era allora quella dell’arcivescovo di Toledo. In questo modo e sotto l’egida di privilegi ed esenzioni, esistevano a Madrid varie giurisdizioni, come quella personale del Nunzio, quella Palatina dei regnanti e quella Castrense.
Durante i primi giorni Josemaria cercò di informarsi sulle pratiche da fare all’Università, con l’intenzione di presentarsi agli esami nella prima sessione raggiungibile. Nella sua pratica personale risulta che in data 28 aprile 1927 chiese al Decano (Preside) della Facoltà di Diritto l’iscrizione all’esame di “ Storia del diritto internazionale” , del corso di dottorato. Nell’intestazione dell’istanza si legge:
«Don José Maria Escrivà y Albàs, nato a Barbastro in provincia di Huesca, di 25 anni d’età, che abita in questa capitale in via Farmacia n. 2», ecc.4.
All’istanza è allegato un certificato, con il timbro del Collegio Ufficiale dei Medici, steso dal dottor José Blanc Fortacìn nei seguenti termini: «Don José Maria Escrivà y Albàs, di 25 anni, ha ricevuto tutte le vaccinazioni. Madrid, 29 aprile 1927»5. Blanc Fortacìn proveniva da una famiglia imparentata con la signora Dolores e il certificato ha tutta l’aria di essere stato ottenuto in fretta.
Come alcuni altri chierici giunti alla capitale don Josemaria si trovava piuttosto solo. Abituato all’attività apostolica di S. Pietro Nolasco, non trovava in S. Michele possibilità né collaborazione per un impegno simile. Non se ne deve fare una colpa al padre Rettore, che
274
gli aveva già anticipato che non si trattava di una cappellania vera e propria, bensì di celebrare una Messa ogni giorno, con diritto a uno stipendio di cinque pesetas e cinquanta centesimi6.
Questo importo non copriva neppure la pensione di un giorno in via Farmacia, che era di sette pesetas7. Con l’idea di trovare un alloggio più modesto e conveniente continuò le ricerche e seppe che in via Larra era stata inaugurata da pochi mesi una Casa Sacerdotale con trenta camere. Si trattava di un’opera benefica per sacerdoti condotta dalle Dame Apostoliche del Sacro Cuore di Gesù. In un loro bollettino si legge: «Casa Sacerdotale. - Ha funzionato tutto l’anno, e molto bene. Pare che i signori sacerdoti siano soddisfatti (...). Spendono cinque pesetas, l’elemosina che si suol dare per la Messa (...) e fruiscono di un eccellente trattamento nel cibo, nelle pulizie, ecc. (...). Il sig. Vescovo ha avuto la bontà di inaugurarla egli stesso, e il sig. Vicario, che tanto apprezza questa Opera, si è offerto di andare a celebrarvi la Messa per lasciarvi il Santissimo, nella graziosissima cappella che ha questa Casa Sacerdotale»8.
È molto probabile che il cambio di alloggio sia avvenuto il 30 aprile. Comunque, fino alle prime settimane del mese di maggio poco si sa con esattezza dei movimenti e degli studi di Josemaria. Tutto lascia supporre che qualcosa non abbia funzionato nei piani tracciati con tanto ottimismo da padre Cancer quando proponeva di cantare un Te Deum e dava istruzioni al suo protetto: «È opportuno quindi - gli scriveva - che, senza fare ancora trasloco, tu venga a Madrid a negoziare l’incarico, accettarlo, parlare con il Sig. Nunzio e vedere come aprirti la strada»9.
Due settimane dopo essere giunto a Madrid non aveva ancora trattato la faccenda, non era riuscito a parlare con il Nunzio e non poteva aprirsi la strada. Questo è quanto si apprende dalla lettera di don Luis Latre, vice
275
presidente del S. Carlo di Saragozza, che il 9 maggio rispose a quella inviatagli da don Josemarìa:
«Caro amico, il giorno stesso in cui ho ricevuto la gradita tua, giunta per espresso, l’ho inviata a mio fratello che stava a Madrid, affinché si rendesse meglio conto dei tuoi desideri e li potesse meglio illustrare a D. Ino- cencio, che quel giorno stava a Cercedilla, ma che appena ritornato a Madrid fu informato delle tue aspirazioni (...). Non ti dico quanto mi farà piacere sapere che tu ti sia ben sistemato per il momento. E dico per il momento, perché non credo che tu sia soddisfatto dell’attuale situazione, dato che lo stare separato da tua mamma e dai tuoi fratelli in queste condizioni non credo che convenga a nessuno di voi. Il buon fraticello è dispiaciuto di non aver potuto aiutarti. Il meno che potrebbe fare ora è di procurarti con le sue conoscenze delle lezioni private e raccomandarti al Sig. Vescovo, direttamente o per tramite di altre persone, affinché tu possa entrare in qualche chiesa come ascritto, per poter avere dei buoni stipendi e buoni diritti.Nel frattempo cerca di aver pazienza e, soprattutto, di essere molto buono ed evitare compagnie che ti potrebbero danneggiare enormemente. Studia quanto puoi, affinché se Dio permette che ti si chiudano le porte della Città e Capitale, tu possa rientrare qui quanto prima e metterti a disposizione del nostro Prelato, che ha tanta carenza di personale.Con D. José Pou parliamo spesso di te; si lamenta della tua poca fortuna. Dice di averti scritto pochi giorni fa»10.
In che cosa avrebbe potuto aiutarlo don Inocencio Jiménez, suo ex professore di Diritto penale? L’analisi delPincartamento accademico conferma che don Josemarìa non si presentò all’esame in nessuna delle sessioni, da giugno a settembre11, con gran detrimento del suo portafoglio, poiché per iscriversi aveva dovuto pagare quarantadue pesetas più altre gabelle, cioè l’equivalente
276
di otto giorni di pensione. E ancora non aveva trovato il modo di guadagnarsi la vita dando lezioni.
*1'
Buona parte dei sacerdoti di via Larra erano in età matura, ma non mancavano anche alcuni giovani, come don Fidel Gómez e don Justo Villameriel, che preparavano concorsi per diventare cappellani militari; don Avelino Gómez Ledo, che era stato ordinato a Madrid; e don Antonio Pensado. Quest’ultimo, che proveniva da Santiago de Compostela, era, come don Josemaria, sacerdote extradiocesano12.
Il caso di don Antonio è emblematico del criterio usato dal Vescovo di Madrid nella concessione di facoltà a sacerdoti forestieri. Don Josemaria aveva un esempio di ciò che poteva succedergli. In effetti, dal 1922 al 1926 don Antonio, con il permesso del proprio Prelato, aveva frequentato i corsi di Filosofia e Lettere a Madrid. Allora cominciò l’odissea. Il 26 ottobre 1926 gli venne comunicato dalla Segreteria del Vescovado di Madrid che non gli sarebbero state prorogate le facoltà nella diocesi avendo terminato gli studi che lo costringevano a risiedere nella capitale. Riuscì tuttavia a ottenere il permesso per un anno per celebrare la Messa nel monastero dell’Incarnazio- ne, fondazione dei Reali di Spagna e con giurisdizione esente13. Ma nel febbraio del 1927 il Vescovo di Madrid fece pressioni su quello di Santiago affinché anch’egli ritirasse le facoltà al chierico se questi si fosse rifiutato di rientrare nella propria diocesi; il motivo addotto era di non eludere le disposizioni della Santa Sede concernenti gli extradiocesani che dalle province emigravano nella capitale. Privato dunque delle facoltà per celebrare la Messa, ma deciso a rimanere a Madrid, don Antonio si cercò prontamente un posto all’Ospizio Provinciale e presentò nel mese di aprile un’istanza al vescovado chiedendo le facoltà per svolgere l’incarico. La richiesta fu respinta14.
Un sacerdote, per esercitare le funzioni proprie del
277
ministero, doveva essere in possesso delle apposite facoltà concesse dal Vescovo della diocesi. Facoltà di confessare, predicare e celebrare la Messa; potevano essere concesse per un tempo limitato o illimitato. Di conseguenza, se un sacerdote non aveva le facoltà o se l’autorità ecclesiastica gliele ritirava, la sua condizione si faceva davvero critica. Infatti non poteva amministrare lecitamente i sacramenti né ottenere i diritti di stola e d’altare. In questa situazione senza via d’uscita si trovava don Antonio Pensado.
Nel maggio 1927, nella residenza di via Larra, don Josemaria e don Antonio strinsero amicizia ma la vicinanza fu breve. Don Antonio fu costretto poco dopo a lasciare la capitale.
Don Josemaria si trovava da un mese nella residenza quando a Donna Luz Rodriguez Casanova, fondatrice delle Dame Apostoliche, giunse notizia dello zelo di quel giovane sacerdote e del suo desiderio di essere utile con il proprio ministero. La difficoltà stava nel fatto che non aveva il permesso di celebrare la Messa a Madrid, ad eccezione della chiesa di S. Michele. Ella dovette vedere in lui qualcosa di speciale per decidere di nominarlo cappellano della chiesa del “Patronato de Enfermos” (Patronato degli Infermi). Il sacerdote dovette chiedere previamente il problematico permesso diocesano, cosa che fece il 10 giugno, a quanto si legge nella sua istanza:
“Don José Maria Escrivà y Albàs, della diocesi di Saragozza, con permesso del suo Ordinario concesso il 17 marzo 1927, desiderando restare in questa capitale, in via Larra, Casa Sacerdotale, n. 3, per il tempo di due anni, supplica V.S. Ill.ma che si degni di concedergli l’opportuna autorizzazione per poter celebrare il Santo Sacrificio della Messa nella chiesa del “Patronato de Enfermos” .Dio conservi V.S. Ill.ma per molti anni.Madrid 10 giugno 1927”15.
278
Conoscendo i precedenti in materia è tanto più ammirevole l’influenza di Donna Luz. (In seguito il richiedente stesso avrebbe scritto come riuscì a ottenere le facoltà per l’esercizio del proprio ministero: “La prima volta che mi furono date nella diocesi di Madrid, su richiesta di M. Luz Casanova, furono generali, se non ricordo male: di celebrare, confessare e predicare” )16. Chi era questa influente signora? Luz Rodrìguez Casanova, figlia della marchesa di Onteiro, aveva fondato nel 1924 a Madrid la Congregazione delle Dame Apostoliche, i cui fini specifici erano le opere di carità e d’insegnamento fra i bisognosi; era una donna intraprendente e di grande vita interiore17.
All’epoca occupava la sede episcopale di Madrid Mons. Leopoldo Eijo y Garay, i cui dati biografici nel 1927 erano più o meno simili a quelli di altri Prelati. La vita di questo vescovo si differenzia perché presto si intrecciò con quella di don Josemarìa. Era nato a Vigo nel 1878. Aveva studiato nel Seminario di Siviglia e alla Gregoriana di Roma. Ordinato nel 1900, divenne prima vescovo di Tuy (1914) e poi di Vitoria (1917), prima di prendere possesso della diocesi di Madrid-Alcalà nel 192318. La tempra spirituale della sua persona e l’elevato livello culturale caratterizzarono le sue azioni di governo. Rende l’idea del suo stile un rapporto scritto sulla situazione degli ecclesiastici nella capitale spagnola. Si tratta della minuta manoscritta di una lettera datata Madrid 18-11-1933, nella quale rispondeva a un cardinale della Curia Romana che intercedeva per la concessione delle facoltà a un sacerdote extradiocesano:
«Ho ricevuto il pregiato scritto di Vostra Eminenza del 9 corrente (...) e ho l’onore di informarla di quanto segue.È sempre stato desiderio di molta parte del clero spagnolo venire a vivere a Madrid, dove non solo non c’è alcun bisogno di altri sacerdoti, ma ce ne sono già più di quanti ce ne dovrebbero essere. Adempiendo al dovere
279
di cooperare ai desideri di questa Sacra Congregazione che non vuole l’affollamento di chierici extradiocesani nelle grandi capitali, ho sempre fatto la massima attenzione di non concedere facoltà per rimanere a Madrid a coloro che non avessero motivo canonico sufficiente in tal senso (...).E questa una vera croce per questa diocesi, in cui quasi tutti i giorni si devono rifiutare quattro o cinque petizioni del genere (...). Il Presbitero Jerónimo Munoz, della diocesi di Avila, si trova fra questi. Il Conte di Santa En- gracia se l’è portato quale proprio cappellano e, quando ha richiesto per lui le facoltà di celebrare, gli ho detto che non gliele posso concedere perché la Santa Sede melo proibisce (...). Ora la mia umile supplica alla Sacra Congregazione è che, tanto al Presbitero Munoz quanto a tutti gli altri che facessero la stessa richiesta, si voglia rispondere non expedire.Altrimenti tutti gli extradiocesani che aspirano a risiedere a Madrid si rivolgeranno con una petizione alla Santa Sede e, se venisse loro concesso, la metà del clero spagnolo, specialmente coi tempi che corrono, verrebbe qua, con danno veramente grave per la Diocesi e per la Chiesa»19.
Come si vede, a don Leopoldo non tremava la mano nell’impugnare la penna. La lettera è permeata di fermezza e di chiarezza e dimostra che il Prelato non arretrò mai, nonostante le pressioni, dal criterio restrittivo nella concessione di facoltà. Il permesso che fu concesso a don Josemaria nel 1927 fu limitato a un anno. Con parsimonia gli sarebbe stato prorogato il permesso mediante periodici tramiti presso il Vicariato di Madrid; il che lasciava il sacerdote con il fiato sospeso e in continuo timore. E questa la situazione di fondo che inquadra la condizione di instabilità dei sacerdoti extradiocesani nella città di Madrid. Le scarne registrazioni del Libro delle Facoltà Ministeriali della Curia richiedono una buona dose di immaginazione per indovinare i di
280
spiaceri compendiati in ogni riga. Così, nel Libro n. 8, foglio 53, si legge:
«Escrivà Albàs, don José Maria - Saragozza.8 giugno 1927: un anno, nel “Patronato de Enfermos”.11 giugno 1928 fino al 22 marzo 1929 e assolvere.23 marzo 1929: quattro mesi.23 luglio 1929 sino alla fine di giugno 1930».
E nel foglio 55:
Escrivà Albàs, don José - Saragozza.15 luglio 1930: sei mesi Patronato e confessare.14 gennaio 1931: sei mesi.23 giugno 1931: un anno, a Santa Barbara»20.
Per forza dovevano essere brevi tali registrazioni, dato l’inesauribile travaso di chierici nella capitale. Basti dire che nel 1927 dipendevano dalla Curia 533 sacerdoti extradiocesani e 648 diocesani, questi ultimi ripartiti in tutta la provincia, per cui la maggior parte dei sacerdoti residenti a Madrid capitale non appartenevano alla diocesi21.
Don Josemaria, straordinariamente fedele nell’osservanza delle disposizioni ecclesiastiche, dovette chiedere la proroga delle facoltà ministeriali che aveva portato da Saragozza, poiché stavano per scadere. Nel frattempo, per adempiere a quanto indicato dal canone 130 del Codice allora in vigore (di sostenere durante il triennio successivo all’ordinazione un esame sulle sacre discipline) chiedeva l’autorizzazione affinché lo esaminasse il Rettore di S. Michele22.
A Saragozza concessero quanto richiesto con lettera del 17 giugno 1927 del Vicesegretario diocesano; e padre Santiago, Rettore di S. Michele, esaminò il giovane presbitero23. Gli fece scegliere dei temi di Teologia Morale e di Dogmatica e lo sottopose a un lungo esame scritto. Nel proprio resoconto, che consegnò all’esaminato per
281
ché lui stesso lo spedisse a Saragozza, spiegava le ragioni per le quali gli aveva dato il massimo dei voti24.
Le facoltà ministeriali di Saragozza arrivarono al sacerdote con una lettera del 9 luglio, per il periodo di un anno, con l’obbligo di rinnovo annuale fino al 1931. Poi gli furono concesse per cinque anni e quelle generali e perpetue nel 193625. Don Josemarìa fu sempre diligente per quanto concerne i suoi permessi di residenza, per evitare che scadessero le lettere dimissorie e commendatizie emanate da Saragozza, con le quali poteva giustificare la propria presenza a Madrid, fuori dalla diocesi di origine, per poter esercitare il proprio ministero. Come si vedrà, i libri di governo diocesano non registrano i molti dispiaceri procurati al richiedente. In ogni caso, paragonati alle lacrime che gli avrebbe causato la condizione di extradiocesano a Madrid, tali incidenti significano ben poca cosa.
2 .1 residenti di via Larra
Al poco daffare di S. Michele fece seguito la cappellania del “Patronato de Enfermos” , che fu come passare dalla fame alla sazietà. Il Patronato era la sede centrale delle Dame Apostoliche e aveva annessa una chiesa pubblica. Durante l’estate del 1927 il cappellano a poco a poco entrò nella sfera delle attività benefiche e apostoliche dell’istituzione anche se, al momento, non era affatto obbligato a farlo:
«Il Cappellano del “Patronato de Enfermos” - spiega una delle Dame - curava gli atti di culto della Casa: celebrava la Messa tutti i giorni, faceva l’Esposizione del Santissimo e dirigeva la recita del Rosario. Non doveva, a motivo del suo incarico, occuparsi dello straordinario lavoro che veniva svolto dal Patronato fra i poveri e i malati - in generale, con i bisognosi - della Madrid di
282
allora. Tuttavia, don Josemaria approfittò della circostanza della nomina a Cappellano per dedicarsi generosamente, con sacrificio e disinteresse, a un ingente numero di poveri e di malati che giungevano alla portata del suo cuore sacerdotale»26.
Don Josemaria abitava in via Larra, a pochi minuti dal Patronato. Ben presto, seguendo l’esempio dei giovani residenti, si incaricò di piccole riparazioni e di una quantità di faccende a servizio dei suoi compagni. Vi abitava da poche settimane, quando iniziarono le vacanze estive e alcuni sacerdoti si allontanarono da Madrid. Nell’estate del 1927 rimasero pochi residenti stabili, mentre comparivano spesso dei chierici di passaggio per Madrid che si trattenevano pochi giorni in via Larra. Uno di questi visitatori fu don Joaquin Maria de Ayala, che passò quattro giorni nella residenza, dal 15 al 19 giugno27. Quando, alla fine del mese, dovette chiedere un favore a qualcuno a Madrid, pensò alla benevola e servizievole disponibilità di quel simpatico sacerdote aragonese che aveva conosciuto in via Larra. Don Joaquin era Rettore del Seminario di Cuenca e per carica e per età era un chierico di prestigio che poteva con semplicità chiedere un favore al giovane sacerdote. Prima era stato canonico dottorale e ciò traspare dalla lettera che da Alange (provincia di Badajoz) inviò a don Josemaria in data 30 giugno. Iniziava partendo, con una ispirata invocazione, dalla onnipotente virtù della bontà e ai suoi ampi orizzonti, per scendere poi, dal proemio di lodi, agli “ inconvenienti” della virtù: «Uno è l’abuso che ne possono fare coloro con i quali la si esercita. E gliene darà prova questa lettera. Lei dimostrò la sua bontà nei miei confronti quando ho avuto il piacere di convivere con lei in occasione del Congresso Francescano e ora ne abuserò»28.
Fatta la premessa, passava a chiedergli di ritirare, dopo aver verificato che fosse pronta, una veste talare che
283
aveva lasciato a Madrid perché gli sistemassero il collo. E, già che c’era, pregava don Josemaria di acquistargli delle pietrine per l’accendino, che non riusciva a trovare a Cuenca. Chiuse la lettera con i saluti per i residenti, «specialmente ai beniamini, signori Plans e Pensado».
Nulla si sa di Plans e poco di don Antonio Pensado, che, tallonato dalla minaccia del Vescovo di Madrid, ritornò a Santiago de Compostela, da dove il 30 luglio scrisse al suo amico don Josemaria. Nella lettera lo pregava di dire alla signora Aurora - l’incaricata dell’amministrazione della residenza - che aveva fatto la raccomandazione che gli aveva richiesta. Si rivolgeva a lui in quanto era sicuro che avrebbe trascorso lì l’estate: «Suppongo che in casa - scrive - sarai quasi solo perché saranno partiti quelli che andavano in vacanza, mentre saranno aumentati quelli di passaggio»29.
Fra la corrispondenza dell’estate 1927 si conserva una lettera di padre Cancer del 19 luglio, in rispósta a una di don Josemaria. Questi imparò ben presto a fare affidamento esclusivamente sull’aiuto divino e non sulle raccomandazioni umane, comprese quelle degli ecclesiastici. Dalle domande e dalle congetture del religioso ci si rende conto che era pieno di curiosità davanti al riservato silenzio del suo protetto di un tempo. Egli scrive:
«Ero ormai preoccupato per il tuo silenzio. Come gli andranno le cose a Madrid a questo povero pretino che non mi dice nulla? Se la deve passare male, molto male.La tua ultima lettera mi ha un po’ tranquillizzato, benché (...) sia convinto che tu mi nasconda molte cose per non farmi dispiacere (...).Credevo che ormai tu avessi trovato qualcosa di più che la cappellania della Pontificia, qualche lezione privata o qualche centro docente..., un posto di praticante con qualche avvocato di grido, qualche entrata supplementare per l’aiuto in una parrocchia o casa religiosa. Non mi dici nulla di tutto questo, né dell’accoglienza o del rapporto con il sig. Nunzio; né dei tramiti di padre Ra-
284
monet, così abile, così conoscitore del mondo e con tante buone conoscenze; né della tua situazione con il sig. Vescovo diocesano, con il Seminario, con il tuo Prelato di Saragozza. Hai forse lasciato del tutto la Pontificia per servire la signora Luz Casanova? (...).Credevo che a quest’ora tu avessi già una segreteria episcopale e qualche cattedra di assistente procurata da qualche illustrissimo o eccellentissimo amico del padre Ramonet. Chissà che non ci si veda presto»30.
È evidente che padre Cancer, con tante supposizioni e colpi alla cieca, non sapeva con certezza in che stato si trovasse il cappellano del “Patronato de Enfermos” .
Nella corrispondenza con i suoi don Josemarìa li informava dei passi fatti. Cercava di incoraggiarli, ma non aveva ancora risolto la propria situazione in modo tale da poter pensare al trasferimento della famiglia a Madrid. Anche da lontano lasciava trasparire la tenerezza; il fratello Santiago ricorda che Josemarìa gli faceva avere ogni settimana le stesse riviste infantili che un tempo comperava a lui il signor José, quando abitavano a Barbastro31.
Da maggio sino alla fine di novembre del 1927 alloggiò nella residenza di via Larra. Furono solo pochi mesi, ma di tale intensità che la memoria del suo passaggio rimase bene impressa ne due sacerdoti che a quel tempo componevano il gruppo dei “giovani” : Avelino Gómez Ledo e Fidel Gómez Colomo. La convivenza con sacerdoti di età avanzata, riferisce don Avelino, esigeva «una speciale pazienza e comprensione nel trattare con loro e don Josemarìa ne dava l’esempio»32. Questi sacerdoti, con ottant’anni alle spalle, rievocano la figura del loro compagno di pensionato; don Fidel lo definisce come «una persona cordiale, trasparente, leale»33. Mentre di lui don Avelino sottolinea, a dimostrazione dell’affetto umano e dei sentimenti sacerdotali, che si ricordava sempre del giorno del suo onomastico, la festa di
285
Sant’Andrea Avellino, non molto conosciuto in Spagna e pertanto data per lo più ignorata; don Josemaria era l’unico che gli faceva gli auguri «in modo affettuoso e soprannaturale»34.
Dal “Patronato de Enfermos” veniva portata avanti la direzione di molte opere di misericordia. I residenti di via Larra erano estranei a questo apostolato, ad eccezione del giovane cappellano il quale, alla fine dell’estate, vi era già coinvolto in pieno. Da quanto racconta don Fidel, il cappellano non ne faceva ostentazione, benché con simpatia e zelo apostolico cercasse di trascinare con sé altri chierici nelle visite a poveri e ammalati dei quartieri poveri. «Ricordo che un giorno - dice un testimone oculare - in uno di quei quartieri don Josemaria prese in braccio un bambino piccolo, sporco e coperto di piaghe, e gli diede due baci»35.
Al mattino gli abitanti della Casa Sacerdotale celebravano la Messa a ore diverse e in luoghi diversi, e al pomeriggio erano occupati in parrocchie, cappelle o altri impegni. L’unica occasione in cui si ritrovavano era l’ora di pranzo. Dopo mangiato, passavano un po’ di tempo a chiacchierare. In queste chiacchierate, o tertu- lias, veniva toccato ogni genere di temi ed erano momenti dei quali il giovane sacerdote aragonese approfittava per inserire nella conversazione temi apostolici o per aprire inattesi orizzonti partendo da qualche notizia di stampa.
In una di queste conversazioni, riferisce don Fidel, «stavamo commentando qualche avvenimento che ora non ricordo e mi parlò della necessità di fare apostolato anche con gli intellettuali, perché, soggiungeva, sono come le cime innevate: quando la neve si scioglie, scende l’acqua che fa fruttificare le valli. Non ho mai dimenticato questa immagine, che così bene rispecchia il suo ideale di portare Cristo fino al vertice di tutte le attività umane»36.
Colpiva i suoi colleghi «la sincerità con cui parlava e,
286
soprattutto, la sua giovialità, che in lui non era solo frutto dell’età - aveva allora venticinque anni - bensì l’espressione della gioia interiore, di una vocazione sacerdotale vissuta con pienezza di senso soprannaturale»37.
Nonostante le avversità, il giovane cappellano non «se la passava male», come immaginava padre Cancer. Godeva di uno splendido ottimismo che era per lui come una seconda natura, perché, come avrebbe scritto più tardi, si trovava sotto l’influsso di “quelle mozioni, quelle spinte della grazia, quel volere qualcosa, che io non sapevo che cosa fosse”38. Andava avanti senza sapere dove andava, senza sentire la stanchezza della marcia. Ed erano nove lunghi anni che andava ripetendo il “ Domine, ut videaml” .
3. L’Accademia Cicuéndez
Nel novembre 1927 don Josemaria prese in affitto un piccolo appartamento al n. 46 di via Ferdinando il Cattolico, non troppo lontano dal “Patronato de Enfer- m os” . Finalmente gli Escrivà si riunirono a Madrid. Buona notizia, della quale si rallegrava anche padre Cancer, il quale gli rispondeva da Segovia il 9 dicembre: «La tua lettera mi ha procurato una grande gioia. Le mie felicitazioni a tua mamma e ai fratelli. Sperate sempre nel Signore»39. Desiderava sollevare il loro spirito, facendo salutari considerazioni spirituali.
Il Signore gettò un misericordioso velo sulle tribolazioni future, nascondendo per il momento alla famiglia l’avvenire che l’attendeva. Per la terza volta gli Escrivà riorganizzavano la loro vita in una città estranea, senza sospettare di essersi messi proprio nell’occhio del ciclone e che l’uragano che incombeva su Madrid stesse per scatenarsi. Dopo un lungo periodo di assestamento sotto l’egida della Costituzione del 1876, appena salito al trono Alfonso XIII incominciarono a rivelarsi i malesse
287
ri della nazione. I problemi sociali, occupazionali ed economici, ai quali si sommò il disagio dell’esercito, condussero nel 1923 alla dittatura del generale Primo de Rivera. In poco tempo venne restaurato l’ordine, venne conclusa la guerra in Marocco, fu dato impulso alle opere pubbliche, la moneta si rafforzò e migliorò il tenore di vita; a costo, naturalmente, delle libertà politiche e civili.
Il regime potè godere di breve popolarità. Sette anni dopo si era già bruciato; di fronte ai primi disastri economici il generale fu costretto a dimettersi. A questo punto all’apparato della dittatura veniva a mancare un ricambio governativo; per cui nel 1930 la monarchia entrò in un vicolo cieco40. Ma non anticipiamo gli eventi...
Gli Escrivà si erano appena stabiliti a Madrid quando don Josemarìa dovette riprendere la dura fatica dell’insegnamento. Si ripetè la situazione di Saragozza: lezioni private sotto la vigilanza della signora Dolores. Suo fratello Santiago ricorda qualche episodio di quel primo domicilio madrileno: «Josemarìa dava varie lezioni private, talvolta nell’appartamento di via Ferdinando il Cattolico. Veniva a prendere lezioni una ragazza e Josemarìa faceva in modo che fosse sempre presente mia madre, che cuciva. Dava lezione anche a ragazzi più grandi di me, che chiamavamo “ quelli della prozia” , perché li accompagnava una loro prozia molto simpatica, della quale non ricordo il cognome»41.
All’Istituto Amado di Saragozza sostituì l’Accademia Cicuéndez, nella quale insegnava, come a Saragozza, Diritto romano e Istituzioni di Diritto canonico. Fra i due centri di insegnamento naturalmente esistevano grandi differenze quanto ad antichità e specializzazione. In un annuncio pubblicitario del 1918 sul quotidiano “ABC” di Madrid, l’Accademia Cicuéndez veniva descritta come «specializzata in Diritto. Centro di studi con internato, diretto da sacerdoti»42. Secondo quanto
288
asseriva il regolamento, oggetto dell’Accademia era «promuovere l’insegnamento privato degli studi giuridici, preparando con grande accuratezza esclusivamente alla professione di Avvocato». Direttore e proprietario era don José Cicuéndez, sacerdote, avvocato e laureato in Sacra Teologia43.
L’Accademia occupava il primo piano di un edificio di via S. Bernardo, n. 52, angolo via del Pez, vicino all’Università Centrale, ed era molto conosciuta fra gli universitari. Come professore don Josemaria manteneva alta la bandiera della Accademia. Le sue spiegazioni in classe non si limitavano a un’esposizione teorica, ma cercavano con esempi e casi pratici di fissare gli argomenti nella mente degli allievi. Oltre ad essere profondo, era anche ameno. Tanto che, come dice uno di essi, Mariano Trueba, aspettavano volentieri di andare alle sue lezioni «perché erano gradevoli e familiari»44.
Si dimostrava esigente nell’insegnare e desideroso di far rendere al massimo i propri alunni. Seguendo l’esperienza di Saragozza con gli allievi dell’istituto Amado, propose loro di studiare i canoni sul testo latino del Co- dex. Iniziativa che fu accolta con scetticismo, poiché era notoria la scarsa preparazione in latino degli alunni. Tuttavia, alcuni mesi più tardi, poterono verificare con sorpresa che, grazie al metodo didattico di don Josemaria, se la cavavano con una certa disinvoltura45.
I suoi ex alunni testimoniano, in maniera molto espressiva, il comportamento e il carattere del docente di Diritto romano: «molto gradevole, semplice e paterno», afferma Manuel Gómez Alonso46. «Era facile fare amicizia con lui - aggiunge molto spesso, finite le lezioni, lo accompagnavo per la strada verso casa sua».
Secondo Juan Cortés Cavanillas, essi «si sentivano attratti dalla figura del loro professore, dal punto di vista pedagogico e anche per il suo portamento sia umano che sacerdotale»47. Gli allievi dell’Accademia erano in gran parte ragazzi che, per varie ragioni, non potevano
289
frequentare le lezioni della Facoltà. Si attenevano al sistema del “ libero insegnamento” e potevano iscriversi a qualsiasi Università, presentandosi per lo più alle sessioni straordinarie di esami in settembre, perché durante le vacanze estive riuscivano a dedicare più tempo allo studio. Don Josemarìa aveva con loro attenzioni veramente paterne. Da una lettera del suo ex professore di Diritto romano, datata 27 giugno 1928, sappiamo che don Josemarìa non esitò nel ricorrere a lui affinché gli inviasse appunti e programmi da Saragozza, in quanto un gruppo di studenti sarebbe andato là a fare gli esami di Diritto romano, Storia del Diritto ed Economia politica. Il professor Pou de Foxà accettò l’incarico e gli scrisse:
«Caro José Maria, mi giunge la tua lettera del 21 (...). Quanto ai tuoi allievi, credo di poterli iscrivere qui per i tre esami da te indicati. Ti ho mandato tre copie degli appunti e del programma (...). Saluti affettuosi a tua mamma e ai tuoi fratelli»48.
Fra coloro che frequentavano le lezioni dell’Accade- mia c’era un uomo di una certa età, buon padre di famiglia, che cercava di ottenere un titolo universitario per migliorare la propria situazione economica. Il lavoro che faceva ne consumava le energie in modo tale che finiva le giornate sfibrato, non più in grado di dedicare tempo alla famiglia e allo studio. Don Josemarìa sentiva per lui una particolare compassione, forse vedendo riflesse in lui le proprie difficoltà di Saragozza. E così, per un duplice sentimento di pietà e di fraternità, lo aiutò ad andare avanti dandogli delle lezioni straordinarie, senza riscuotere altro premio che la soddisfazione di vederlo laureato49.
Nell’Accademia c’era una buona intesa fra tutti, dal direttore al fattorino. Quest’ultimo si chiamava José Margallo e la sua parte nella presente storia è davvero minima. Di lui don Josemarìa conservò un bigliettino in
290
cui gli faceva gli auguri di Pasqua, firmato «il fattorino dell’Accademia»50, forse inviato con la speranzella di una mancia, ma nel quale si manifestava la buona volontà e lo sforzo calligrafico del ragazzo.
Il giovane sacerdote, che aveva sempre curato i buoni rapporti con tutti a fini apostolici, si dedicava sempre più alla corrispondenza epistolare e augurale. Alla vigilia del suo onomastico, il 18 marzo 1930, andò a fare gli auguri in anticipo al direttore dell’Accademia, poiché il giorno successivo era festivo. Don José Cicuéndez ricevette compiaciuto gli auguri, rendendosi conto solo pochi minuti dopo che anche don Josemaria celebrava il proprio onomastico nel giorno di S. Giuseppe. Ma il suo docente di Diritto romano era già uscito in strada, per cui, in tono di scusa e di pentimento, il direttore gli scrisse un breve biglietto:
«Mio stimato amico, ieri è venuto personalmente a farmi gli auguri (...). Quando Lei era già per strada e io stavo parlando con Chacón, mi sono ricordato che c’era un altro José oltre a me e La chiamai due o tre volte, ma Lei non mi udì. Poiché risuonava ancora nelle mie orecchie il memento nel Santo Sacrificio della Messa del quale Lei mi ha fatto dono, non ho dimenticato di farlo a favore Suo: “oremus prò invicem ut salvemini” . I miei più cordiali auguri (...). Madrid, 19 marzo 1930»51.
* *
L’anno 1927-1928 fu il primo anno in cui lavorò all’Accademia. Il contratto di insegnamento gli fu rinnovato annualmente, con reciproca soddisfazione, forse fino al 193352. Don Josemaria faceva lezione nel turno del pomeriggio. Per il resto della giornata era immerso nei compiti propri del suo ministero e in altre occupazioni inerenti alla cappellania del Patronato. Persino nei brevi momenti liberi, prima e dopo le lezioni, faceva apostolato con gli studenti. Mariano Trueba lo descrive, sotto
291
l’aspetto del vigore apostolico, come «uomo dinamico, di aspetto forte e con un buon colorito in viso. Molto diretto nel rapporto con gli altri e con il desiderio di entrare nella vita di tutti»53.
All’uscita dall’Accademia alcuni studenti lo accompagnavano per un tratto sulla strada di casa, chiacchierando di molte cose. Un certo giorno uno gli obiettò che era impossibile continuare a credere finché c’erano dei sacerdoti che si prendevano gioco della religione conducendo una doppia vita e negando con la condotta ciò che predicavano in pubblico. Don Josemaria gli replicò, con un bel paragone, che il sacerdozio è come un preziosissimo liquore, che può essere versato sia in una tazzina di porcellana che in una di fango54.
Le disposizioni interiori di quel professore sacerdote erano così trasparenti per i suoi discepoli che, fatte salve le distanze proprie del rapporto con un docente, lo trattavano come amico e compagno. Li impressionava l’ordine del suo aspetto e l’eleganza dei suoi modi. Fu grande quindi la sorpresa degli alunni il giorno in cui si presentò in classe con la veste talare tutta macchiatà di bianco. Doveva essergli capitato qualcosa di strano perché non avesse avuto il tempo di spazzolarla. Insistettero molto - dice Mariano Trueba - ed egli raccontò loro l’accaduto. Si trovava sulla piattaforma del tram quando notò che un muratore, con la tuta sporca di calce, gli si stava avvicinando con cattive intenzioni, che il sacerdote intuì dallo sguardo. A quel punto, anticipandone il proposito, lo abbracciò strettamente mentre gli diceva in modo disarmante: “Vieni, figlio mio infarinati con me! Sei contento?”55.
«Fra me e me - racconta Mariano Trueba - pensai che don Josemaria aveva potuto farlo solo perché era un santo e lo dissi ai miei compagni»56.
Maggior stupore produsse in loro il commento di uno dei professori che insegnavano alPAccademia. A quanto pare, quel giovane sacerdote aragonese dal portamento
292
distinto e dottorale, alternava la spiegazione del Codice e delle Pandette con le visite a poveri e malati nei rioni miserabili della città. La cosa non li convinse e la fecero oggetto di scommesse. Seguendolo di nascosto, andarono a finire all’estremo nord, al quartiere di Tetuàn de las Victorias; e un altro giorno nel sobborgo del paese di Vallecas, a sud57.
4. Il "Patronato de Enfermos”
Il “Patronato de Enfermos” , del quale don Josemarìa era primo cappellano - il secondo era don Norberto Ro- drìguez Garda - si trovava in via Santa Engracia al numero 13. L’edificio era stato costruito con l’idea che fosse la sede centrale della fondazione creata da Luz Rodrìguez Casanova. Nelle note del progetto erano raccolti i princìpi ai quali si doveva ispirare la sua architettura: «Che sia una composizione semplice, ma ben fatta, senza lussi decorativi, ma solida e permanente, come deve essere la carità, che è l’idea principale che ispira questo edificio»58. Il risultato fu una costruzione solida e semplice, in cui l’edificato in mattoni si combinava con le parti in pietra e un’allegra e vistosa decorazione di piastrelle smaltate di Talavera.
Per davvero la colonna che sosteneva il “Patronato de Enfermos” era la carità. Da quel solido tronco partivano diversi rami, nei quali trovava posto una quantità di opere di beneficenza e di apostolato: “ Opera della Preservazione della Fede” , “ Opera della Sacra Famiglia” , “Mense di Carità” , “ Società di Protezione” , “ Roperos di S. Giuseppe” , ecc.59. Iniziative che il giovane cappellano sintetizzava felicemente in unico concetto: “L’opera di Dona Luz sono le quattordici opere di misericordia”é0.
Nel “Patronato de Enfermos” , come in un quartier generale, si organizzava la lotta contro l’ignoranza e la
293
miseria. Da lì si dirigevano scuole, mense, centri sanitari, cappelle e catechesi, sparsi per tutta Madrid e nei quartieri di periferia. Al pian terreno di Santa Engracia c’era una mensa pubblica e, al primo piano, un’infer- meria con venti letti e servizi medici. Tutte le sale e le camere del Patronato davano su un grande cortile interno che confinava con una chiesa pubblica; in essa il cappellano era solito celebrare la Messa al mattino presto. La celebrava in modo «riflessivo e devoto, arrivando a impiegarci anche tre quarti d’ora»61. (In seguito, don Josemaria, per riguardo verso i fedeli, avrebbe cercato di non superare la mezz’ora, mettendo un orologio sull’altare).
Pedro Rocamora, uno studente di Legge che a volte gli serviva la Messa, racconta che quando celebrava «si verificava in lui una specie di trasfigurazione. Non sto esagerando - prosegue - . La liturgia per lui non era un atto formale, ma trascendente. Ogni parola aveva un profondo significato e una sottolineatura personale. Assaporava i concetti. Allora molti di noi non sapevano a memoria la Messa in latino. In questo modo io potevo seguire una per una le parole della liturgia. Josemaria sembrava distaccato dall’ambiente umano circostante e come legato da lacci invisibili con la divinità. Questo fenomeno giungeva al culmine al momento del Canone. Qualcosa di strano accadeva in quel momento, in cui sembrava che Josemaria stesse come distaccato dalle circostanze in cui si trovava (chiesa, presbiterio, altare) e che si affacciasse a misteriosi e remoti orizzonti celesti»62.
Ritornando in sacrestia, quando cessava la tensione con cui avevano seguito la Messa, agli accoliti spuntavano le lacrime.
Fra gli accoliti ci fu un seminarista, Emilio Caramaza- na, che durante le vacanze del mese di agosto degli anni1927, 1928 e 1929 gli servì la Messa. Il cappellano lo colpiva per «la maniera squisita» con cui viveva la litur-
294
già. Lo si vedeva - dice - «molto concentrato, come assorto, soprattutto al Canone»; ma, nonostante fosse immerso nella Messa, «pregava molto bene, si capiva il suo latino fin dall’ultimo angolo della cappella, che era abbastanza grande»63.
La pietà del cappellano manteneva svegli e attenti tutti i presenti. José Maria Gonzàlez Barredo, un giovane studente che abitava con i suoi genitori vicino al Patronato, riferisce che il cappellano, per la sua figura giovanile e la sua contagiosa allegria, era conosciuto in casa come “il sacerdote giovincello” , dato che non ne sapevano il nome64.
Nei giorni lavorativi frequentavano la cappella i fedeli del vicinato e alcuni poveri e malati che risiedevano nel Patronato. Ma nei giorni di precetto e nei fine settimana la chiesa era stipata. Perciò, per accogliere tutti, si spostava il tramezzo che separava il refettorio dalla cappella, in modo che si potesse seguire la Messa dal refettorio. La gente ascoltava con piacere le omelie, semplici e ben preparate. Don Josemaria, riferisce Maria Vicenta Reyero, una delle Dame Apostoliche, «era un predicatore e un catechista serio e rigoroso»65.
Dopo la Messa spiegava il catechismo della dottrina cristiana e conversava con vecchi e bambini, «sempre disposto ad ascoltarli e a risolvere i loro dubbi e le loro difficoltà. Il cappellano si era imposto l’abitudine di passare per il refettorio, per conoscere sempre meglio la gente, i loro problemi e «le cose che c’erano dentro ciascuno. Era un amico e un santo sacerdote», afferma Asunción Munoz, un’altra delle Dame66.
Nei fine settimana si svolgevano nel Patronato ogni genere di attività. Per il cappellano l’impegno pastorale cominciava di primo mattino nel confessionale. Ogni sabato venivano a Santa Engracia i malati poveri dei quartieri più vicini, per lo meno quelli i cui acciacchi non impedivano di arrivare fino al Patronato, dove ricevevano cure materiali e spirituali, in ambulatorio e in
295
cappella. Le domeniche poi era il turno dei bambini e delle bambine delle scuole che le Dame Apostoliche avevano nei diversi quartieri. Confluivano tutti a Santa En- gracia e don Josemarìa li confessava. Il numero di persone che vi giungevano era talmente elevato che un’aiutante delle Dame ricorda che una sua cugina, che si chiamava Pilar Santos, «davanti alla quantità di malati di cui si aveva cura, di bambini che si confessavano o che facevano la prima Comunione, diceva: “Qui nel Patronato si fa tutto a tonnellate” »67.
E non si tratta di un’espressione esagerata. Nell’anno1928, per esempio, nel Patronato ci si prese cura di 4.251 malati; si confessarono 3.168 persone; fu amministrata l’Estrema Unzione a 483 moribondi; furono celebrati 1.251 matrimoni; e furono conferiti 147 battesimi68. Le statistiche parlano da sole, senza contare poi che il preparare al matrimonio religioso persone da lunghi anni in situazione irregolare, o l’ottenere che persone lontane dalla Chiesa si decidessero a confessarsi, richiedeva più di una visita di persuasione e di un cristiano tira e molla, particolari non riportati dai bollettini statistici.
Il cappellano andò man mano occupandosi, volontariamente, delle opere di misericordia del Patronato. In primo luogo le attività di formazione dottrinale, come 1’” Opera della Sacra Famiglia” , che si tenevano in via Santa Engracia69. A poco a poco, finì con l’occuparsi anche delle attività esterne. Fra queste ce n’era una che le Dame tenevano in predilezione. Si trattava dell’”Opera di Preservazione della Fede in Spagna” : «opera difficile, ingrata, molto dispendiosa e, di conseguenza, di grande impegno»70. Era, in effetti, un apostolato di rottura, che si svolgeva nelle strade dei quartieri di periferia e che si opponeva frontalmente all’organizzata propaganda anticattolica di cui era fatta oggetto la cintura proletaria di Madrid. Nello spazio di un mattino sorgevano dei baracconi che servivano da scuole laiche o an-
i296 j
i!
ticattoliche. Le Dame accettavano la sfida e aprivano scuole nei dintorni, emulando le sette per impedir loro di impadronirsi dell’anima innocente dei bambini.
Nel 1928 le Dame disponevano a Madrid di 58 scuole con un totale di 14.000 bambini. (Tali cifre erano parzialmente frutto dell’emulazione apostolica di fronte all’aumento delle scuole anticattoliche). Di conseguenza ai servizi del cappellano, senza che formasse parte delle sue strette competenze, si venne a sommare il compito di preparare ogni anno 4.000 bambini alla prima Comunione. La catechesi eucaristica consisteva nel dare loro alcune lezioni e nel parlare con ciascuno di loro per accertarne il grado di comprensione e le disposizioni, dopo aver loro spiegato a fondo, in tre giorni, quanto concerneva la ricezione del Sacramento71.
Naturalmente, don Josemaria non si recava alle 58 scuole, una per una. Coloro che non stavano troppo lontano dal Patronato, come s’è detto, andavano in via Santa Engracia per la Messa, le confessioni e la catechesi. Ma sparse per Madrid, nei quartieri più esterni, c’erano altre sei piccole chiese o cappelle che dipendevano dalle Dame Apostoliche72. Disgraziatamente non avevano un sacerdote fisso. Si cercava e non si trovava altra soluzione che la buona disponibilità del cappellano. «Era molto buono - riferisce una delle ausiliarie delle religiose -, era sempre disponibile per tutto, non faceva mai difficoltà»73. E don Josemaria non dimenticò mai il tempo impiegato nelle confessioni di quei bambini poveri:
“Ore e ore da ogni parte, tutti i giorni, a piedi da una parte all’altra, fra poveri che si vergognavano e poveri miserabili, che non avevano nulla di nulla; fra bambini con il moccio fino in bocca, sporchi, ma bambini e cioè anime gradite a Dio. Che indignazione sente la mia anima di sacerdote quando dicono ora che i bambini non si devono confessare finché sono piccoli! Non è vero! De
297
vono fare la loro confessione personale, auricolare e segreta, come gli altri. E che bello, che gioia! Furono molte le ore in quel lavoro e mi dispiace che non siano state di più”74.
Come indica il suo nome, il “Patronato de Enfermos” era un centro assistenziale per persone povere, che si recavano in via Santa Engracia per essere operate nella clinica o per entrare nell’infermeria. Le Dame e le loro au- siliarie inoltre percorrevano le strade di Madrid facendo visita a malati e moribondi e alleviando la miseria spirituale di persone che mancavano della più elementare istruzione religiosa.
Per collocare nella dovuta prospettiva lo zelo apostolico del giovane cappellano del Patronato è necessario sommare alle già citate attività anche il lavoro delle visite a domicilio. Casi in cui l’aiuto del sacerdote era imprescindibile, perché bisognava confessare, celebrare matrimoni o preparare a ben morire: il tutto in fretta e nel poco tempo disponibile. Al di fuori delle urgenze, che erano frequenti, don Josemaria aveva delle date fisse per il turno di visite. La vigilia del primo venerdì del mese andava a confessare e il giorno successivo portava la Comunione a questi malati. Nelle altre settimane faceva un percorso eucaristico il giovedì, in un’automobile prestata a Donna Luz Casanova; negli altri giorni andava in tram o a piedi75. Molti ammalati vivevano in luoghi lontani o difficili da raggiungere. Ma le distanze non furono mai un problema per don Josemaria, il quale, senza farsi pregare, si trasferiva dall’uno all’altro dei quattro punti cardinali della capitale. Egli, riferisce Jo- sefina Santos, «portava la Comunione indifferentemente a malati che vivevano a Tetuàn de las Victorias, o nelle vicinanze del Paseo de Extremadura, o a Magìn Calvo, o a Vallecas, Lavapiés, San Millàn, o nel quartiere del Lucero o alla Ribera del Manzanares»76.
298
Normalmente il cappellano non si concedeva un momento di ozio. Tutte le sue ore erano sovraccariche di compiti assillanti. Prima o dopo le lezioni all’Accademia passava a trovare qualche malato. Asunción Munoz, la Dama incaricata delle urgenze o dei casi difficili, ricorda: «Molte volte bisognava legalizzare la loro situazione, sposarli, risolvere problemi sociali e morali urgenti. Aiutarli sotto molti aspetti. Don Josemaria si occupava di tutto, a qualsiasi ora, con costanza, con dedizione, senza la minima fretta, come chi sta adempiendo alla propria vocazione, al suo sacro ministero di amore. Con don Josemaria avevamo l’assistenza assicurata in ogni momento. Amministrava i sacramenti e non dovevamo dar fastidio alle parrocchie a ore inopportune»77.
Grazie alla disponibilità del cappellano era naturale che gli piovessero incarichi. Li riceveva sorridente; li adempiva «con piacere, di buon grado, allegramente, prontamente, senza mai opporre difficoltà». Il fatto è che «i malati per lui erano un tesoro: li portava nel cuore»78.
Una volta una delle Dame Apostoliche si era informata su un ammalato. Era un moribondo, noto come un arrabbiato anticlericale. La religiosa ricorse a don Josemaria; forse il cappellano avrebbe potuto fare qualcosa, nonostante il malato fosse già entrato in coma.
“Me ne stavo andando verso la casa di quel poveruomo” - riferisce il cappellano - “e, giunto nella via (Cardinal Cisneros), mi sono ricordato che, mentre mi stavano dando l’appunto concernente il malato, avevo protestato dicendo: è sciocco pensare che riesca a fare qualcosa. Se sta delirando, può mai capitare di trovarlo in condizione di confessarsi? In ogni modo, andrò e lo assolverò sub condicione”.
Avendo “l’abitudine di pregare la Vergine Maria nell’andare a far visita agli ammalati” , recitò un memora
299
re, chiedendo che il moribondo potesse essere assolto presente a se stesso e non sub condicione. Giunto nella casa, i vicini lo avvertirono che non avrebbe potuto fare nulla: poco prima era venuto un sacerdote della parrocchia, che se n’era andato senza poterlo confessare perché il malato non aveva ripreso conoscenza. Non si scoraggiò. Chiamò per nome il vecchio moribondo:
Pepe!Mi rispose subito, del tutto presente a se stesso.- Vuole confessarsi?- Sì, mi disse.Feci uscire tutti. Si confessò, con molto aiuto da parte mia, com’è naturale. E ricevette l’assoluzione”79.
«Gli volevamo molto bene e ci trovavamo bene con lui - dice Margarita Alvarado parlando di don Josemarìa - perché risolveva sempre i problemi». Se si presentava un caso difficile, se un malato in pericolo di morte si rifiutava di ricevere i sacramenti, se ne affidava il compito al cappellano, con la certezza che «avrebbe avuto ragione della sua ostinazione e gli avrebbe aperto le porte del cielo»80.
Uno di questi casi fu quello di un malato gravissimo, del quale le religiose del Patronato gli parlarono rattristate, perché si rifiutava di accogliere il sacerdote. Don Josemarìa prese nota di quanto accadde con quel moribondo, ostinato peccatore:
“Arrivai a casa del malato. Con la mia “santa e apostolica” facciatosta, ho spedito fuori la moglie e sono rimasto da solo con il poveretto. “Padre, quelle signore del Patronato sono delle seccatrici, impertinenti. Soprattutto una di loro”... (si riferiva a Pilar, che è una santa canonizzarle!). Ha ragione, gli ho detto. E mi sono zittito, perché continuasse a parlare lui. “Mi ha detto di confessarmi... perché sto per morire: morirò, ma non mi confesso!” . Allora io: finora non le ho parlato di confessio
300
ne, ma, mi dica: perché non si vuol confessare? “A diciassette anni ho fatto giuramento di non confessarmi e l’ho mantenuto”. Così disse. E mi disse pure che neanche quando si era sposato - aveva circa cinquant’anni - si era confessato... Meno di un quarto d’ora dopo avermi detto queste cose, si confessava piangendo”81.
Fra le centinaia di malati che dovette assistere negli anni della sua cappellania al Patronato non venne mai meno al sacerdote, attraverso il suo ministero, l’efficacia infallibile della grazia. «Non ricordo un solo caso - assicura Asunción Munoz - in cui abbiamo fallito nel nostro intento»82. Un’affermazione così assoluta, così esente da eccezioni, non è facilmente credibile. Però il cappellano non la mitiga, la dà per buona e vera assicurando che nelle sue visite ai malati all’epoca del Patronato, “per grazia di Dio sono sempre riuscito a confessare tutti prima che morissero” 83.
Normalmente si dava al cappellano un foglietto con la data, il nome e l’indirizzo dei malati. Come si può vedere dai fogli che sono stati conservati il sacerdote, che aveva sempre poco tempo a disposizione, studiava l’elenco e lo riordinava, stabilendo i percorsi più efficaci e utili. Gli elenchi, che di solito comprendevano cinque o sei nominativi, comportavano camminate di vari chilometri attraverso luoghi inospitali, sguazzando nel fango d’inverno e riempiendosi di polvere d’estate, calpestando sporcizia e mucchi di spazzatura. Molti di questi percorsi iniziavano nel centro della capitale e si perdevano nei sobborghi, tra schiere ineguali e disordinate di tuguri. Ci sono dei fogli in cui compare l’indirizzo del malato, ma senza il nome. In alcuni casi l’indirizzo non è completo. In altri, sembra che sia stato organizzato di proposito un percorso adatto ai salti irregolari di un cavallo sulla scacchiera delle strade madrilene.
Alcuni elenchi hanno dell’incredibile. Quello del 17 marzo 1928, dedicato alla confessione dei malati, elenca
301
13 nomi. Le distanze sono spaventose. Gli indirizzi vanno dal centro di Madrid (rione degli Ambasciatori) fino al rione di Delicias a sud, passando poi per la Ribera de Curtidores e ritornando in via Franco Rodriguez, nel rione Tetuàn de las Victorias, a nord di Madrid. Non erano rari i percorsi che superavano i dieci chilometri.
In altri casi, come per esempio quello del foglietto del 4 luglio 1928, non compare il nome del malato n. 6, ma solo dove lo si potrà trovare: «Zarzal 10, strada di Cha- martìn, poco prima di arrivare, sulla destra, dove c’è un deposito di benzina». Il sacerdote ebbe forse delle difficoltà nel seguire le indicazioni, perché aggiunge di suo pugno: “Prima c’è una pescheria” . È probabile che conservasse i foglietti per fare ulteriori visite, viste le successive annotazioni o cancellazioni di nomi e indirizzi84.
Il giovane cappellano, sempre disposto a farsi una camminata per assistere un ammalato, andava a piedi o in tram fino ai sobborghi della capitale e spesso attraversava da un capo all’altro la città alla ricerca di anime deturpate o moribonde. Con l’uso, le suole delle sue scarpe si consumavano molto in fretta. Ma la sua gioia aumentava di pari passo al lavoro pastorale.
Alla grazia di Dio, che gli veniva data con abbondanza, don Josemarìa univa molta abilità. Come osserva Maria Vicenta Reyero, tutti restavano contenti «e i malati che visitavamo a domicilio chiedevano che ritornasse lui a confessarli, e non altri»85. Quando c’erano complicazioni, alle Dame rimaneva sempre il ricorso al cappellano, come si accenna in un foglietto del 24 febbraio 1928: «Ha dei grossi pasticci, desidera confessarsi, sarebbe bene che andasse don José M aria»86.
A volte lo sorprendevano all’improvviso, in strada, dei casi in extremis non programmati sull’elenco. Così accadde, per esempio, un giorno che passava nelle vicinanze del parco del Retiro, non lontano dal giardino zoologico. Un guardiano dello zoo, straziato a unghiate e a morsi dagli orsi, fu trasportato precipitosamente in
302
un Pronto Soccorso. Il cappellano riuscì a entrare dietro al ferito il quale, a segni, gli fece capire di volersi confessare. Gli diede l’assoluzione seduta stante87.
Gli anni della sua cappellania nel “Patronato de En- fermos” furono anni di lavoro snervante, ai limiti della resistenza fisica e della capacità di resistenza del suo stomaco, perché molte volte l’unica cosa che poteva dare ai mendicanti che gli chiedevano l’elemosina era il panino della colazione88. Alla fine della giornata, quando le Dame passavano per la cappella, vedevano il cappellano con la testa fra le mani, in ginocchio e appoggiato all’altare, che pregava accanto al tabernacolo, per ore89.
Fra le note del “Patronato de Enfermos” che don Josemaria ha conservato c’è un foglio scritto a caratteri grandi e tratti decisi - la sua inconfondibile scrittura - che dice: “Fac, ut siti”90. In quei mesi degli anni 1927 e 1928 quel giovane sacerdote continuava a implorare per un ideale divino che presentiva nei suoi presagi soprannaturali, frammisti a locuzioni interiori, che annunciavano l’imminenza di ciò che tanto anelava91. Con vive aspirazioni di apostolato e con l’anima ardente, cantava ad alta voce:
“Quando avevo dei presagi che il Signore voleva qualcosa e non sapevo che cosa, dicevo gridando, cantando (era tutto ciò che potevo fare!), alcune parole che sicuramente, pur se mai le avrete pronunciate con la bocca, almeno le avrete assaporate con il cuore: “Ignem veni mit- tere in terram et quid volo nisi ut accendatur?” ; sono venuto a mettere a fuoco la terra e che altro voglio se non che arda? E la risposta: “ Ecce ego quia vocasti m e!” , eccomi, perché mi hai chiamato”92.
L’appartamento di via Ferdinando il Cattolico risuonava dei canti. E il fratellino Santiago, che lo sentiva e non voleva essere da meno, ripeteva la canzone, storpiando e distruggendo il latino93.
303
Queste parole del Signore, riferite da S. Luca, occuparono molte ore della meditazione del giovane sacerdote e furono, senza alcun dubbio, oggetto di una speciale tensione delPanima, per il tono con cui descriveva la commozione interiore che provava. Con il fuoco viene rappresentato nella Sacra Scrittura l’amore ardente di Dio, sceso dal cielo sulla terra per infiammare gli uomini. Di questo amore divino era acceso il cuore sacerdotale di don Josemaria; e con tale foga che le parole gli sfuggivano con impazienza, intonando un cantico d’amore, senza che potesse reprimerle.
Data la sua ansia e l’insistenza nel ripetere il grido del Signore, si deve dare per certo che tutto il suo essere vibrasse a queste parole e si identificasse pienamente con il desiderio divino di offrire il suo Amore a tutto il mondo, a tutte le genti. Perché, come ci viene detto nella parabola del banchetto del gran re, tutti gli uomini sono invitati alla festa. Dal significato di questo grido don Josemaria trasse molte iniziative, ispirate dal Signore, per adempiere il fervente desiderio di incendiare ilJ mondo intero. Nel suo zelo apostolico vedeva la Redenzione come una meravigliosa avventura divina che si sta consumando nella storia e che esige da parte nostra una dedizione radicale: farci una cosa sola con Cristo, avere i suoi stessi sentimenti nei confronti di tutta l’umanità e afferrarci alla Croce redentrice.
Di queste ispirazioni don Josemaria prendeva nota scrivendole su foglietti sparsi e da ciascuna di esse traeva dei suggerimenti pratici o un orientamento apostolico, che poi trasferiva su un quaderno di appunti. Guardandosi attorno, egli non aveva bisogno della sua grande esperienza pastorale per notare nelle anime la mancanza di unità di propositi. Considerava con pena che le credenze dei cristiani nell’agire pratico erano slegate dalla loro vita privata, familiare e sociale. Da nessuna parte veniva offerta ai fedeli la possibilità di dispiegare una vita pienamente cristiana in tutte le sue
304
manifestazioni. Quanto a mettere il fuoco di Cristo all’interno della società, ci si trovava ancora in un terreno incolto. Purtroppo il processo storico seguiva la strada inversa. Da ogni parte si cercava di sloggiare Dio dalla società, relegandolo nelle chiese o in un angolo delle coscienze:
“L’apostolato veniva concepito come un’azione diversa e distinta dalle azioni normali della vita comune: metodi, organizzazioni, propagande che si incrostavano sugli obblighi familiari e professionali del cristiano - a volte impedendogli di compierli con perfezione - e che costituivano un mondo a parte, senza fondersi né interagire con il resto della sua esistenza”94.
Esisteva un procedimento per avviare le anime verso Dio e far loro accettare l’invito universale all’Amore? Era possibile cristianizzare la società e rimuovere il mondo con l’apostolato? Fluivano nella sua mente le ispirazioni come frecce lanciate nell’oscurità contro un bersaglio invisibile; grazie alPinsieme di illuminazioni di cui il Signore faceva dono a quel giovane sacerdote, la risposta a molti dei problemi esaminati era già scritta nei suoi appunti. Don Josemarìa sapeva che le soluzioni che trovava a quegli interrogativi non provenivano dalla sua mente o dalle sue riflessioni, ma da fonte divina.
Sbalordito dalle luci che riceveva, la sua anima e dai panorami apostolici che si estendevano davanti ai suoi occhi, rispondeva prontamente al Signore: “Eccomi, perché mi hai chiamato” . Lo stava facendo già dal 1918, ma ora questo “ecce ego quia vocasti me\” aveva una speciale risonanza. Era un modo nuovo di dire al Signore che si trovava a sua completa disposizione e che stava aspettando qualcosa, ormai imminente, che indovinava essere un disegno amoroso di Dio nei confronti di tutta l’umanità. In qualche modo egli presentiva di esserne parte; ma senza poter immaginare in che cosa
305
consistesse la sua partecipazione. Lo avrebbe raccontato in seguito:
“Intravedevo una nuova fondazione - benché prima del 2 ottobre io non sapessi che cosa fosse - che apparentemente non avrebbe avuto un fine ben determinato”95.
5. Il 2 ottobre 1928
Il rione di Chamberi, nel quale si trovava il Patronato, era il prolungamento verso nord del vecchio centro di Madrid. Zona di espansione, nella quale predominavano case della classe media di quattro o cinque piani ed estese aree non edificate fra conventi, palazzetti e uffici amministrativi. Abbondavano anche gli edifici di mattoni, costruzioni di fine secolo, che presentavano una miscellanea di stili e ornamenti mudejar con decorazioni geometriche gotiche.
L’appartamento degli Escrivà, a una certa distanza dal Patronato, era in accordo con la situazione economica della famiglia, che dipendeva interamente dalle entrate di don Josemaria. Non è necessario dire che erano nelle ristrettezze, anche se non sappiamo fino a qual punto. Una delle Dame Apostoliche azzarda un’osservazione assai prudente, dicendo che l’economia degli Escrivà «non doveva essere particolarmente buona, poiché vivevano semplicemente»96. Anche sul lato della docenza non si conoscono le entrate di don Josemaria. Un dato isolato, relativo all’estate del 1928, ci dà un’idea della preoccupante situazione della famiglia. Il 31 agosto don Josemaria si iscrisse a tre esami del dottorato in Legge, dovendo così versare di colpo 150 pesetas97. Si trattava di una somma troppo rispettabile per permettersi di non presentarsi poi all’esame di Storia della Letteratura giuridica, che era uria delle materie. Gli altri due esami li superò in modo soddisfacente il 15 settembre.
306
Se al cappellano mancava il tempo per studiare e il denaro per pagare le tasse d’esame, com’è che potè sborsare le 150 pesetasì La verità è che non uscirono dalla sua tasca; il pagamento della somma fu un atto di generosità da parte di don José Cicuéndez, che sapeva che il suo docente di Diritto canonico e romano non aveva un soldo98.
Finita la sessione straordinaria d’esami di settembre, all’università e nelle accademie si fruiva di un paio di settimane di riposo prima d’iniziare il nuovo anno. Don Josemaria, che era solito fare tutti gli anni gli esercizi spirituali di sette giorni, approfittò della pausa accademica. Il secondo cappellano del Patronato lo supplì nelle sue funzioni ed egli sistemò le cose per partecipare a un corso di esercizi per sacerdoti diocesani". La Casa Centrale dei Lazzaristi, dove si sarebbero tenuti, si trovava vicino al Patronato. Era un ampio edificio di mattoni di quattro piani costruito intorno a un cortile e giardino interno, con camere semplici e austere che davano su lunghi corridoi. Addossata alla costruzione, all’entrata di via Garda de Paredes, si trovava la chiesa diS. Vincenzo de’ Paoli, oggi Basilica della Milagrosa, terminata nel 1904. Dietro si trovava «un ampio terreno coltivato, fertilissimo, dalle svariate gradazioni di verde e lussureggiante, con diversi riquadri tagliati da sentieri e vialetti, coperti di frondosi alberi, alcuni da frutta, altri da ombra»100. Con lo scorrere degli anni quegli enormi spazi aperti di orti e giardini, che si estendevano fino a Cuatro Caminos alternati a grandi aree libere e zone edificate, sono stati progressivamente inghiottiti dall’espansione della città.
Gli esercizi iniziavano domenica 30 settembre e duravano fino al 6 ottobre. La domenica pomeriggio si presentò don Josemaria, provvisto dei suoi effetti personali e di un bel po’ di carte e di foglietti. In questi fogli, come abbiamo detto, aveva raccolto, fra altre cose, le grazie straordinarie che il Signore gli aveva dispensato per die
307
ci anni, principalmente sotto forma di ispirazioni e illuminazioni101.
In seguito spiegò con semplicità l’origine e il contenuto di quelle carte, che vennero a far parte dei cosiddetti Apuntes intimos (Appunti intimi) che egli chiamava Ga- talinas (Caterine): “Non so se da qualche parte ho indicato l’origine di queste note, le “Caterine” . Se non ho detto nulla, attesto che, senza alcun dubbio, avevo circa diciott’anni, o forse prima, quando mi sentii spinto a scrivere, senza alcun ordine prestabilito... Ora ricordo che di ciò se ne parla nelle schede iniziali. Questo è sufficiente” 102.
Ma con queste dichiarazioni suscita curiosità e lascia insoddisfatti, perché queste “ schede iniziali” non esistono più. La loro storia fu breve. Le ricopiò sul primo quaderno dei suoi Appunti e in seguito gettò il quaderno nel fuoco. Nelle sue pagine si trovavano molti eventi di carattere soprannaturale e poiché egli pensava, logicamente, che se qualcuno le avesse lettelo avrebbe preso per un santo, decise di distruggerle103. In effetti le annotazioni rivelavano, al di sopra di ogni altra considerazione, quanto fosse davvero straordinaria la sua vita. La fedeltà di don Josemarìa ai presentimenti dell’Amore era eroica, dopo dieci anni di abnegata fedeltà alla grazia. La sua fede, certamente, era gigante. La sua speranza, irremovibile. E il suo amore traboccava nelle opere. Ma quel giovane sacerdote, dimenticando l’attesa e i dispiaceri, si riteneva ben ripagato con le grazie ricevute. Solo lui sapeva fino a che punto fosse debitore.
A questo punto il Signore, che lo stava preparando fin dal giorno della nascita per mettere nelle sue mani un incarico divino capace di smuovere il corso della storia, giudicò ormai maturo il suo eletto. Don Josemarìa aveva solo ventisei anni e aveva camminato in modo ammirevole al passo di Dio, senza riserve né remore. E il Signore, sempre geloso delle anime predilet
308
te, non volle farsi vincere quanto a generosità. Oltre a dargli presagi d’amore, lo andò colmando di grazie. Il giovane sacerdote era consapevole dell’occulto dono dei favori straordinari che riceveva, anche se non di tutti; della serenità e del buonumore che spargeva intorno a sé; delle proprie doti come consigliere e guida delle anime. Notava la mano di Dio nella fortezza di fronte alle avversità, nell’efficacia apostolica delle proprie parole, nella docilità con cui si modellavano al calore del suo ministero sacerdotale i poveri e i malati del Patronato, i bambini o gli universitari. Sembrava che gli ostacoli si appianassero al suo passaggio e lo conducessero su una rotta che lo avvicinava a un volere divino lungamente sognato e presagito.
Finalmente, il suo incessante clamore - “Domine, ut videam\ Domine, ut siti ” - aveva raggiunto la vetta dalla quale avrebbe potuto scorgere un progetto divino che non proveniva da ieri, né da dieci anni prima, ma dall’eternità dell’Amore di Dio. Ora il cuore di quel giovane sacerdote era come la gemma di un fiore sul punto di esplodere.
si- * *
Agli esercizi partecipavano sei sacerdoti. Si alzavano alle cinque del mattino e si ritiravano alle nove di sera. In mezzo: esami di coscienza, Messa, prediche da ascoltare, ufficio divino...104.
Il martedì mattina, 2 ottobre, festa degli Angeli Custodi, dopo aver celebrato la Messa, don Josemaria si trovava in camera sua a leggere le note che aveva portato con sé. All’improvviso gli sopraggiunse una grazia straordinaria, con la quale comprese che il Signore dava risposta alle sue insistenti petizioni, al suo “Domine, ut videaml” e al “Domine, ut siti” .
Serbò sempre un comprensibile riserbo su questo meraviglioso evento e sulle circostanze personali105. Esatta
309
mente tre anni dopo avrebbe descritto così la sostanza di quanto accaduto:
“Ricevetti l’illuminazione su tutta l’Opera, mentre leggevo quelle carte. Commosso, mi inginocchiai - ero solo nella mia camera, fra una meditazione e l’altra -, resi grazie al Signore, e ricordo con emozione il suono delle campane della parrocchia di Nostra Signora degli Angeli”106.
Sotto la luce potente e ineffabile della grazia gli fu mostrata l’Opera nel suo insieme; «vidi», è questa la parola che usava sempre quando parlava di quanto accaduto. L’inattesa visione soprannaturale assorbiva in sé tutte le parziali ispirazioni e illuminazioni del passato, distribuite sui foglietti che stava leggendo, e le proiettava verso il futuro, con una nuova pienezza di significato107.
Furono istanti di indescrivibile grandiosità. Davanti ai suoi occhi, dentro l’anima, quel sacerdote in preghiera vide disegnato il panorama storico della redenzione umana, illuminato dall’Amore di Dio. In quel momento, in modo inesprimibile, colse il contenuto divino dell’eccelsa vocazione del cristiano che viene chiamato, in mezzo alle proprie occupazioni terrene, alla santificazione della propria persona e del proprio lavoro. Con quella luce vide l’essenza dell’Opera - strumento ancora senza nome - destinata a promuovere il disegno divinò della chiamata universale alla santità e vide come dall’interno dell’Opera - strumento della Chiesa di Dio - irradiavano i princìpi teologici e lo spirito soprannaturale che avrebbero rinnovato il mondo. Con immenso stupore comprese, nell’intimo della sua anima, che tale illuminazione era non solo la risposta alle sue petizioni, ma anche l’invito ad accettare un incarico divino.
Subito, dopo la torrenziale effusione della grazia, il sacerdote fu invaso da quel sentimento di singolare agitazione che provano le anime davanti alla sovrana presenza del Signore. Ma quando nella coscienza della
310
creatura si scatenano timore e paura, allora l’anima ode un confortante «non temere!»:
“Sono parole divine di incoraggiamento” - questo testo del Fondatore ha carattere autobiografico “Nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, Dio e gli esseri celesti le pronunciano per innalzare la miseria dell’uomo e disporlo a un colloquio di illuminazione e di amore, alla fiducia in cose apparentemente impossibili o difficili, alle quali non arriva la forza della creatura” .“Vi posso assicurare, figli miei, che queste anime non ambiscono né desiderano le manifestazioni di questa ordinaria provvidenza straordinaria di Dio e che hanno una profonda consapevolezza di non meritarle: vi torno a ripetere che il loro sentimento di fronte ad esse è di timore, di paura. Ma poi l’incoraggiamento del Signore - ne timeasl - comunica loro una sicurezza irremovibile, le incendia con impeti di fedeltà e di dedizione; dà loro luci chiare per compiere la sua amabilissima Volontà; e le infiamma perché si lancino a traguardi inaccessibili per le capacità umane”108.
Disponibile ormai a “un colloquio di illuminazione e di amore” , si effuse nella gratitudine, mentre dal profondo del suo essere prorompeva con ritmo impaziente il Domine, ut siti Ora, davanti a un panorama di completa chiarezza, oltre i presagi e i presentimenti, quell’anima si arrendeva con gioia alla vocazione fonda- zionale per portare a termine il disegno divino109.
Nella stanza del sacerdote raccolto in preghiera giungeva lo scampanio festoso della chiesa di Nostra Signora degli Angeli, nel vicino rione di Cuatro Caminos. Quello scampanio rimase per sempre impresso nella sua memoria: “Risuonano ancora nelle mie orecchie” - diceva nel 1964 - “le campane della chiesa di Nostra Signora degli Angeli, che festeggiavano la loro Patrona”110.
ij-
311
Per quel giovane sacerdote la data del 2 ottobre 1928 aveva ormai un ben preciso significato. Era la data della fondazione dell’Opus Dei. Per questo esiste in tutti i suoi resoconti una grande vigilanza di stile per evitare ambiguità di interpretazione; isolava appositamente l’evento soprannaturale dalle altre circostanze personali:
“E giunse il 2 ottobre 1928. Stavo facendo alcuni giorni di ritiro, perché dovevo farli, e fu allora che venne al mondo l’Opus Dei”111.
Quel fatto storico fu un avvenimento imprevisto e inatteso. Non fu affatto il concepimento di un’impresa umana, ma il risultato di una irruzione divina nella storia dell’umanità. “L’Opera irruppe nel mondo quel 2 ottobre 1928” , dirà il Fondatore, esprimendosi in modo impersonale, in una sua meditazione112.
Doveva restare ben chiara l’origine. Don Josemaria ebbe sempre la ferma consapevolezza che il protagonista di quell’evento, l’autore principale, colui che dominava la situazione con la sua maestà e aveva preso l’iniziativa irrompendo imperiosamente nell’anima del suo servo, era il Signore. “ Quel giorno” - diceva - “ il Signore fondò la sua Opera, suscitò l’Opus Dei” 113.
Quindi, collocando se stesso in secondo piano, evitò l’uso della parola “fondatore” . Si attribuì sempre un ruolo secondario, quello di ricettore dell’illuminazione divina, persona gratuitamente scelta dal Signore per giocare con lui, come un padre gioca con il suo bambino piccolo:
“Ancora una volta si è compiuto ciò che dice la Scrittura: ciò che è inetto, ciò che non vale nulla, ciò che - si potrebbe dire - quasi neppure esiste..., tutto questo il Signore prende e mette al proprio servizio. Così prese quella creatura, come proprio strumento”114.
312
E ancor più esplicitamente scrisse nel 1934:
“L’Opera di Dio non l’ha immaginata un uomo (...). Da molti anni il Signore l’ispirava a uno strumento inetto e sordo, che la vide per la prima volta il giorno dei Santi Angeli Custodi, il due ottobre millenovecen- toventotto”115.
Quella illuminazione costituì, per sempre, il suo unico punto di riferimento storico quanto all’origine dell’Opera, considerando quel 2 ottobre come la data di un invito, e della risposta da parte sua alla chiamata fondazionale116.
“È ragionevole” - diceva un 2 ottobre - “che vi rivolga alcune parole nella giornata odierna, in cui inizio un nuovo anno della mia vocazione all’Opus Dei. So che voi ve le aspettate, anche se vi devo dire, figli dell’anima mia, che provo una grande difficoltà, quasi un grande imbarazzo a mostrarmi in questo giorno. Non è una logica modestia. È la costante convinzione, la chiarezza meridiana della mia personale indegnità. Mai mi era passato per la testa, prima di quel momento, che avrei dovuto compiere una missione fra gli uomini”117.
*5* >!•
La data del 2 ottobre era la pietra miliare che indicava con esattezza il momento storico in cui la mente del Fondatore era stata illuminata da “un’idea chiara generale” della sua missione118. La cosa sorprendente è che a quel fatto soprannaturale se ne aggiunge un altro grandemente significativo: le ispirazioni, che aveva ricevuto con una certa regolarità, cessarono improvvisamente. A partire dal 2 ottobre 1928 smisero di fluire, come se si fosse seccata la vena della sorgente. “Sono terminate le prime ispirazioni”, scriveva poi nei suoi Appunti. E il silenzio divino si prolungò fino al mese di novembre del
313
1929, in cui “ riprende di nuovo l’aiuto speciale, molto concreto, del Signore”119.
Le note che aveva portato con sé per meditarle durante gli esercizi spirituali contenevano idee, a quanto pare, prive di un ordine sistematico. Nei giorni successivi agli esercizi le ricopiò ordinatamente, secondo l’illuminazione generale da poco ricevuta “ su tutta l’Opera” . La visione unitaria del progetto divino evidenziava, con nuove dimensioni, quanto in precedenza gli era stato ispirato in maniera frammentaria. E all’interno di questo scenario di incommensurabili dimensioni storiche «vide l’Opus Dei quale il Signore lo voleva e come avrebbe dovuto essere nel corso dei secoli»120.
Nel quaderno di appunti che distrusse erano comprese le annotazioni che si riferivano alla fondazione, fino al marzo 1930. Ma ciò che vide il 2 ottobre 1928 non si spense mai nella sua mente né mai cessò di ardergli nel cuore. Da quella data, la luce ricevuta da Dio - sulla chiamata universale alla santità e sulla ricerca della pienezza della vita cristiana in mezzo al mondo e attraverso il lavoro professionale - costituì la sostanza della sua predicazione. Si mise anche a redigere i documenti che in seguito avrebbe consegnato ai suoi figli dell’Opus Dei. Nel più antico di questi scritti, una lunga lettera datata 24 marzo 1930, il Fondatore dà l’impressione, nelle prime righe, di riascoltare l’eco amoroso del grido: “Ignem veni mittere in terram et quid volo nisi ut accen- datur”, e di voler far conoscere al mondo la missione divina che il Signore gli aveva affidato:
“Il cuore del Signore è un cuore di misericordia, che ha compassione degli uomini e a loro si avvicina. La nostra donazione al servizio delle anime è una manifestazione di questa misericordia del Signore, non solo verso di noi, ma verso l’umanità intera. Perché ci ha chiamati a santificarci nella vita ordinaria di tutti i giorni”121.
314
Un simile disegno divino, questa chiamata universale alla santità, alla perfezione cristiana, è una chiara dimostrazione dell’amore infinito del Signore, che “ha gli occhi e il cuore attenti alle moltitudini, a tutte le persone” . E il Fondatore lanciava al mondo il suo proclama, a nome proprio e a nome di quanti lo avrebbero seguito. Sono parole audaci e imperiose, di chi ha ricevuto da Dio una missione personale di fronte alla storia:
“Dobbiamo rivolgerci sempre a tutti quanti, perché non c’è creatura umana che non amiamo, che non cerchiamo di aiutare e di comprendere. Tutti ci interessano, perché tutti hanno un’anima da salvare, perché a tutti possiamo consegnare, in nome di Dio, un invito a cercare nel mondo la perfezione cristiana, ripetendo loro: estote ergo vos perfecti, sicut et Pater vester caelestis perfectus est (Mt 5,48); siate perfetti come lo è il vostro Padre celeste”122.
Dio non discrimina le anime, come assicura Egli stesso, e non stabilisce delle eccezioni, affinché nessuno si possa scusare adducendo di non essere stato invitato. Sono cadute barriere e pregiudizi:
“Siamo venuti a dire, con l’umiltà di chi si sa peccatore e poca cosa - homo peccator sum (Le 5,8), diciamo con Pietro - ma con la fede di chi si lascia guidare dalla mano di Dio, che la santità non è cosa per privilegiati: che il Signore chiama tutti, che da tutti si attende Amore: da tutti, dovunque si trovino; da tutti, di ogni condizione, professione o mestiere. Perché la vita normale, ordinaria, poco appariscente, può essere mezzo di santità: non è necessario abbandonare il proprio stato nel mondo per cercare Dio, se il Signore non dà a un’anima la vocazione religiosa, poiché tutte le strade della terra possono essere occasione di un incontro con Cristo”123.
Dio va direttamente incontro agli uomini, senza toglierli dal loro posto: dalla terra in cui abitano, dalla
315
professione che esercitano, dalla situazione familiare in cui si trovano. Dio ci aspetta tutti nelle cose piccole, nelle cose normali, perché raramente nella vita succedono cose straordinarie. Dio lo si deve scoprire, quindi, nelle cose di ogni giorno:
“La cosa per noi straordinaria” - proseguiva il Fondatore - “è l’ordinario: l’ordinario fatto con perfezione. Sorridere sempre, passando sopra - con eleganza anche umana - alle cose che importunano, che danno fastidio: essere generosi senza misura. In una parola, fare della nostra vita normale una continua preghiera”124.
Nei piccoli eventi quotidiani, vissuti con amore e alla perfezione, nelle fatiche e nelle difficoltà, nelle gioie, in un lavoro professionale eseguito bene, nel servizio alla società e al prossimo, è sempre racchiuso un tesoro. Perché il lavoro professionale e le relazioni sociali costituiscono l’àmbito e la materia che i cristiani devono santificare, facendosi santi nel disimpegno degli obblighi familiari e civili. Nella chiamata universale alla santità è implicito, pertanto, il valore santificante del lavoro offerto a Dio, il valore cristiano di attività secolari che ci distaccano da questo mondo senza cessare di essere ben presenti in esso. Cosicché l’anima da tutto prende occasione per santificarsi, per divinizzarsi.
“Nella normalità della nostra vita, mentre camminiamo sulla terra accanto ai nostri colleghi di professione - “ogni simile ama il suo simile”, dice il proverbio e così è la nostra vita - Dio nostro Padre ci dà l’occasione di esercitarci in tutte le virtù, di praticare la carità, la fortezza, la giustizia, la sincerità, la temperanza, la povertà, l’umiltà, l’obbedienza...”125.
Pertanto, le scienze e l’arte, l’economia e la politica, l’artigianato e l’industria, il lavoro domestico e qualsiasi altra professione onorevole non sono più profane o in
316
differenti. Perché ogni attività, vivificata nell’unione con Cristo, esercitata con rettitudine e spirito di sacrificio, con amore per il prossimo e con perseveranza, con l’intenzione di dare gloria a Dio, viene nobilitata e acquista valore soprannaturale.
In quel periodo così il Fondatore scriveva in una Caterina-. “Cristo nostro Re ha reso manifesto il suo desiderio” . E poi, in poche parole, compendiava tale dottrina e il modo di raggiungere la santità:
“(...) stando noi sempre nel mondo, nel lavoro ordinario, nei nostri doveri di stato e lì, attraverso ogni cosa, santi!”126.
Il nucleo essenziale del messaggio divino, messaggio di amore e di santificazione, richiedeva una missione apostolica allo scopo di spargere la buona novella per tutti gli angoli della terra e un’opera o istituzione per propagarla fra gli uomini. Fu questa la missione che ricevette don Josemarfa quel 2 ottobre e, in quel preciso momento, il Signore gli pose tra le mani lo strumento per compiere l’impresa apostolica:
“Da quel giorno” - scrisse - “l’asinelio rognoso si rese conto dello splendido e pesante carico che il Signore, nella sua bontà inesplicabile, gli aveva messo sulle spalle. In quel giorno il Signore fondò l’Opera”127.
Splendido carico perché quel giovane sacerdote, alter Christus, stava per diventare araldo del nuovo messaggio per l’umanità: messaggio “vecchio come il Vangelo e nuovo come il Vangelo” . Tuttavia vedeva se stesso, nel migliore dei casi, come un umile e disprezzabile asinelio sul quale, alPimprowiso, era stato posto un carico prezioso e pesante. Dolce peso, condiviso dal Signore, che era entrato nel più profondo della sua anima. A rigore di termini, così sentiva don Josemaria la propria vocazione:
317
“Se mi chiedete come si nota la chiamata divina, come uno se ne rende conto, vi dirò che è una visione nuova della vita. È come se si accendesse una luce dentro di noi; è un impulso misterioso, che spinge l’uomo a dedicare le sue più nobili energie a un’attività che, nella pratica, prende la consistenza di un dovere. Questa forza vitale, che è come una valanga travolgente, è ciò che altri chiamano vocazione.La vocazione ci porta - senza che ce ne rendiamo conto- a prendere nella vita una posizione, che manterremo zelanti e gioiosi, ricolmi di speranza persino nel momento estremo della morte. E un fenomeno che conferisce al lavoro un senso di missione, che nobilita e valorizza la nostra esistenza. Gesù entra con un atto di autorità nell’anima, nella tua, nella mia: questa è la chiamata”128.
Le sue due petizioni, instancabilmente ripetute per più di dieci anni, erano ormai una realtà che aveva preso corpo. La supplica “Domine, ut videaml” veniva esaudita con la rivelazione del disegno divino sulla sua vita, per il bene di tutta l’umanità; E nel momento in cui Diolo aveva accettato come strumento per realizzare l’Ope- ra - “un essere con anima divina” - il suo “Domine, ut siti ” aveva ottenuto risposta:
“Indubbiamente, Gesù voleva che io gridassi dalle mie tenebre come il cieco del Vangelo. E ho gridato per anni, senza sapere quello che chiedevo. E ho gridato molte volte la preghiera “ut siti”, che sembra chiedere un essere nuovo...E il Signore diede la luce agli occhi del cieco - malgrado lui stesso (il cieco) - e annuncia la venuta di un essere con anima divina, che darà a Dio tutta la gloria e stabilirà il suo Regno per sempre”129.
Il presentimento, avuto a Logrono, che sarebbe sopraggiunto “qualcosa” che, secondo le sue parole, “ stava al di sopra di me e in me” 130, si era compiuto. Al di
318
sopra di lui stava il piano divino e dentro di lui la grazia fondazionale necessaria per affrontare le difficoltà e portarlo a termine. Aveva quindi capacità ed esperienza sufficienti per realizzarlo, come è provato dal fatto che il Signore avesse messo interamente nelle sue mani la fondazione dell’Opera. Era carico di virtù soprannaturali e umane; conduceva una vita contemplativa in mezzo alle sue occupazioni e al lavoro; possedeva impeto apostolico, doti di governo e zelo per le anime. In una parola, aveva già, in germe, lo spirito che richiedeva la fondazione. Senza altro maestro al di fuori dello Spirito Santo, incarnava già l’Opera come Fondatore. E così, dalla semente che il Signore aveva sparso nella sua mente e nel suo cuore, sarebbe germogliato tutto lo spirito e tutta la realtà dell’Opera.
Dio affidava a don Josemaria una missione di carattere soprannaturale pienamente iscritta nella missione della Chiesa: trasformare in una realtà tangibile il disegno della chiamata universale alla santità in ogni tempo.
“Suscitando in questi anni la sua Opera, il Signore ha voluto che mai più si ignori e si dimentichi la verità che tutti devono santificarsi e che alla maggior parte dei cristiani compete di santificarsi nel mondo, nel lavoro ordinario. Per questo, finché ci saranno uomini sulla terra, esisterà l’Opera. Occorrerà sempre questo fenomeno: che ci sono persone di tutte le professioni e mestieri che cercano la santità nel loro stato, nella loro professione o mestiere, essendo anime contemplative nel bel mezzo della strada”131.
L’Opera veniva a essere, in seno alla Santa Chiesa, un mezzo di incremento apostolico, con lo scopo di proclamare ai quattro venti la buona novella e di dare testimonianza della ricerca della santità in mezzo al mondo:
“Ci ha scelti lo stesso Cristo” - scriveva il Fondatore - “affinché in mezzo al mondo - nel quale ci ha posti e
319
dal quale non ha voluto segregarci - cerchiamo la santificazione ciascuno nel proprio stato e - insegnando, con la testimonianza della vita e della parola, che la chiamata alla santità è universale - promuoviamo fra persone di tutte le condizioni sociali, e specialmente fra gli intellettuali, la perfezione cristiana in seno alla stessa vita civile”132.
L’Opera veniva a rispondere al grido “ ignem veni mit- tere in terram” con una mobilitazione apostolica atta ad annunciare dappertutto, con l’esempio e la dottrina, il desiderio ardente del Signore. Ma nell’adempiere questa missione i membri dell’Opera avrebbero agito come fedeli normali, uguali agli altri cittadini, con i quali hanno in comune usanze, professione e preoccupazioni sociali. Avrebbero compiuto questa missione senza la velleità di distinguersi, ma con naturalezza, dal di dentro della società, lievito in mezzo alla massa, per condurre il mondo a Dio, per mettere ai suoi piedi il lavoro e i cuori degli uomini. “Voi e io sappiamo e crediamo” - scriveva il Fondatore - “che il mondo ha l’unica missione di dare gloria a Dio. Questa vita ha ragion d’essere solo in quanto prepara il regno eterno del Creatore”133.
Perciò, dal momento in cui apparve l’Opera, si udì un nuovo grido nella vita e negli scritti di quel sacerdote:
“ ...arriverà presto la Pentecoste dell’Opera di Dio... e il mondo intero udrà in tutte le lingue le ardenti acclamazioni dei soldati del Gran Re: Regnare Christum volu- mus!”n4.
if* >1-
Il Signore, che non forza mai la nostra libertà, chiese a don Josemaria il suo assenso; quello del giovane sacerdote fu un “ sì” al progetto divino pieno di convinzione e di fervore. Inoltre, il Fondatore, con molta umiltà, trasformò la risposta in un gioioso “ serviam!” , servirò!, giaculatoria che recitò ogni giorno per tutta la vita. Era
320
un grido di piena sottomissione alla volontà di Dio, l’affermazione della sua piena disponibilità a realizzare l’Opera e il rifiuto di qualsiasi ribellione. Perché, diceva ai suoi figli, “ si ode un colossale non serviam nella vita del singolo, nella vita familiare, negli ambienti di lavoro e nella vita pubblica” 135.
Il 2 ottobre quel sacerdote si rese perfettamente conto della propria povertà e dell’imponente aiuto di cui aveva bisogno. Senza tirarsi indietro, chiese al Signore luce e forza: “Una volontà di ferro che, unita alla grazia divina, ci porti a completare, per la gloria di Dio, la sua Opera, affinché Cristo Gesù regni per davvero, perché tutti con Pietro andranno a Lui per l’unica strada, M aria!” 136.
E volendo riassumere in poche parole quale fosse l’orientamento della sua fondazione e quali finalità perseguisse, lo sigillò in tre giaculatorie, nelle quali sintetizzava il cammino di santificazione dei membri dell’Opera:
“Gesù è il modello: imitiamolo! Imitiamolo servendo la Chiesa Santa e tutte le anime. “ Cbristum regnare volu- m us” , “Deo omnis gloria” , “ Qmnes cum Petro ad Ie- sum per Mariam” . In queste tre frasi sono indicati con la chiarezza necessaria i tre fini dell’Opera: Regno effettivo di Cristo, tutta la gloria a Dio, anime”137.
Egli comprese anche, fin dal primo momento, che dal suo comportamento personale nel compimento dell’impresa divina dipendevano grandi cose per la Chiesa e per la storia del mondo. Sapeva di essere in possesso di un prezioso carisma; però, come il “ servo buono e fedele” della parabola evangelica, lo doveva mettere a frutto. Il Fondatore vide, il 2 ottobre, che era necessario aprire, con lo sforzo personale e le grazie inerenti al proprio carisma di Fondatore, una strada che ancora non esisteva. Predicare quel messaggio di santità in mezzo al mondo, mobilitare le anime all’apostolato, guidare
321
e rinnovare spiritualmente moltitudini di fedeli nel seno della Chiesa sarebbero stati avvenimenti senza precedenti storici. Era logico prevedere che, con il crescere dell’Opera, con l’esercizio dell’apostolato e la ricerca della santità nel mondo, si sarebbe prodotto un inatteso fenomeno pastorale e ascetico che avrebbe richiesto nuovi modelli nella prassi e nella teoria. Il processo di fondazione avrebbe quindi avuto un lungo e difficile percorso, che non avrebbe avuto fine che alla morte del Fondatore. Egli possedeva lo spirito dell’Opera. Egli era il tronco dal quale sarebbero usciti i rami e i frutti.
Il Fondatore non vide i particolari di quel lungo e penoso itinerario accidentato che lo avrebbe condotto alla meta. Ma vide l’Opera proiettata nei secoli, come disegno provvidamente realizzato da Dio. Per quanto lo riguardava, era disposto a cominciare a costruire quanto prima, perché di una cosa era sicuro fin dall’inizio; che tutto ciò gli sarebbe costato sangue e lacrime:
“...so bene” - scriveva fiducioso - “che noi, i primi che cominciamo a lavorare, dobbiamo ammassare, spargendo lacrime di sangue, il calcestruzzo per le fondamenta di cui vi sto parlando. Non perderemo né la fede né la gioia: tutto potremo in Colui che ci conforterà”138.
Jj-
In quei giorni di ritiro dai Lazzaristi riconobbe la mano provvidenziale del Signore, che aveva preparato la pietra fondazionale attraverso i gravi eventi che avevano obbligato la famiglia a peregrinare da Barbastro a Logrono, da Logrono a Saragozza e da Saragozza a Madrid. Con questa luce, la sua vita acquistò un senso completo e nuovo. Dio lo aveva portato fino alla capitale per immergerlo a fondo nei problemi dell’umanità.
“Ieri sera, andando per strada, consideravo” - scriverà nei suoi Appunti - “che Madrid è stata la mia Damasco,
322
perché qui mi sono cadute le squame dagli occhi dell’anima (...) e qui ho ricevuto la mia missione”139.
Prese in esame i mezzi materiali dei quali disponeva per la sua missione e si rese conto della propria nudità. Il Signore lo aveva progressivamente spogliato, nel cammino della vita, di tutti gli impedimenti. “Mi trovavo allora solo con l’unico bagaglio dei miei ventisei anni e del mio buon umore” 140, disse facendo i conti. (E in un’altra occasione: “Nell’Opera abbiamo incominciato a lavorare, quando il Signore volle, con una mancanza assoluta di mezzi materiali: ventisei anni, la grazia di Dio e buon umore. E basta” )141.
6. Una campagna di orazione e di mortificazione
Terminato il ritiro, don Josemarìa si immerse nel lavoro del Patronato. Si mise subito alla ricerca di anime, con il desiderio di trasmettere ovunque il messaggio universale della santità142. Esaminò l’elenco dei giovani che cono-
c sceva, alcuni dei quali erano studenti dell’Accademia Cicuéndez143. Uno dei primi ai quali parlò del suo ideale apostolico fu Pedro Rocamora, che conobbe nel 1928. Glielo presentò uno studente di Architettura, José Romeo Rivera, il quale a sua volta aveva conosciuto il sacerdote tramite il proprio fratello Manuel, collega di don Josemarìa nella Facoltà di Diritto a Saragozza. A loro si aggiunsero Juliàn Cortés Cavanillas e qualche altro allievo dell’Accademia.
Attorniato da questi amici, il sacerdote usciva a passeggio e, chiacchierando, esponeva loro le proprie ambizioni spirituali. Troppo ambiziose, secondo Pedro Rocamora, che racconta di averlo sentito parlare «come un uomo ispirato. Meravigliava, a noi che gli stavamo vicino, la sua certezza di coscienza di dover dedicare la vita a quest’idea. Aveva preso l’impresa su di sé come uno
323
che sa di dover adempiere una sorta di destino, segnato nella propria vita.
- Ma tu credi che questo sia possibile?, gli dicevo io. E lui mi rispondeva:
Sappi che questa non è una mia invenzione, è una voce di Dio”144.
Non sempre le conversazioni avvenivano passeggiando. A volte il sacerdote cercava un luogo tranquillo per leggere ai suoi accompagnatori, riuniti intorno a un tavolo, le annotazioni del quaderno che portava con sé. Se c’era bel tempo, uscendo dalle lezioni dell’Accademia andavano sulla via Castellana, all’angolo con via del Ri- scal, a sedersi all’aperto sulla terrazza di una birreria. Più spesso il gruppo andava a finire al “Sotanillo” . Questo locale - bar, birreria, caffetteria, tutto insieme - era situato in una zona molto centrale: nella via di Alcalà, fra via Cibeles e Piazza dell’indipendenza. L’ingresso era a piano terra e bisognava scendere alcuni gradini, poiché stava in un seminterrato.
Don Josemaria si trovava a suo agio nell’ambiente del “Sotanillo” , attorniato dai suoi giovani amici. Juan, il proprietario, e suo figlio Angel si abituarono a vedere il sacerdote accompagnato dagli studenti. Quando lo vedevano entrare, si scambiavano a voce alta una specie di parola d’ordine: «È arrivato, con i suoi discepoli»145.
Sforzandosi di ricordare gli amici, don Josemaria risalì persino agli anni di studio a Logrono. In effetti, Isidoro Zorzano, in una lettera del 9 dicembre 1928, gli chiese notizie della sua vita146; questo indica che il sacerdote riannodò i rapporti con questo suo compagno dell’istituto di Logrono, che aveva poi frequentato a Madrid la Facoltà di Ingegneria. Ora viveva a Cadice e lavorava nei cantieri navali di Matagorda. A questa lettera fece seguito una lunga corrispondenza, fonte di sorprese per entrambi.
324
Ben presto ampliò il campo apostolico frequentando sacerdoticche già conosceva. Il suo aspetto evidentemente giovanile non sembrava il più idoneo a predicare in una società in cui non mancavano chierici eredi di abitudini e tradizioni multisecolari. E non poteva neppure dimenticare la propria delicata situazione di sacerdote extradiocesano a Madrid, che lo faceva sentire “come una gallina nel pollaio altrui” 147. Ma nonostante tutto non stette troppo a pensarci su. Uno dei primi sacerdoti che cercò di entusiasmare all’apostolato fu don Norberto, l’altro cappellano del Patronato. Le sue intenzioni, in un primo tempo, erano puramente caritatevoli. Don Norberto a quell’epoca era prossimo ai cinquant’anni ed era stato colpito da una malattia nervosa che gli aveva impedito di svolgere incarichi ecclesiastici. Si era rimesso, ma aveva avuto una ricaduta. Fino alla sua morte fu di salute malferma, anche se in generale di ottimo zelo apostolico e di vita interiore148. Le Dame Apostoliche, che lo conoscevano dal 1924, vedevano crescere l’amicizia fra i due cappellani. Sapevano che cosa significava vederli insieme nelle visite ai malati e ai bambini delle scuole. «Don Josemaria - dice una di loro - lo portava con sé per poterlo aiutare: perché si sentisse utile e apprezzato»149.
Uno dei primi sacerdoti ai quali parlò a fondo della propria vocazione fu, senza alcun dubbio, don José Pou de Foxà. Il professore di Diritto romano di Saragozza scriveva da Avila il 4 marzo 1929 a don Josemaria, chiedendogli che andasse a prenderlo alla stazione e che gli prenotasse una camera in albergo. Le parole di commiato lasciano intravedere la sua impazienza di incontrarsi a faccia a faccia con il suo ex allievo: «Poiché ci vedremo presto - scriveva - non ti dico altro, poiché presto ti abbraccerà il tuo amico, José»150.
Pou de Foxà rimase a Madrid diverse settimane, durante le quali ebbe occasione di parlare con calma con il giovane amico. Il professor Carlos Sànchez del Rio, che
325
in quei giorni si trovava anch’egli a Madrid per un concorso a una cattedra di Diritto romano, riferisce che andavano insieme loro tre «quasi tutte le sere, piuttosto tardi, in un bar che si chiamava “El Sotanillo” , che si trovava in via Alcalà. Lì avevamo delle gradevoli conversazioni in cui ci scambiavamo impressioni su ogni genere di argomenti»151.
Don Josemarìa, che non trascurava occasione per fare nuove amicizie con sacerdoti, continuava a mantenere la sua antica amicizia con i sacerdoti che risiedevano in via Larra, dove seminava speranze per il futuro. Così conobbe, per esempio, don Manuel Ayala, di passaggio per Madrid nel 1929. Don Manuel serbò sempre un grato ricordo dei suoi brevi incontri con il cappellano del Patronato, che gli rivelò parte dei suoi ideali: “A quel tempo gli confidai qualcosa dell’Opera. Ed egli la ricorda con affetto” , scrisse poi don Josemarìa152.
Nell’estate del 1929 un giorno si presentò al Patronato per celebrare la Messa don Rafael Fernàndez Claros, giovane sacerdote di San Salvador che studiava all’istituto Cattolico di Parigi. Quando terminò il ringraziamento, il cappellano gli si avvicinò. Chiacchierarono un po’. «Mi sono bastati pochi momenti - dice il salvadoregno - per apprezzare in tutto il suo altissimo valore il tesoro di santità che serbava con cura quella delicata anima sacerdotale»153. Questa amicizia si mantenne viva nel corso degli anni e generò un legame di ordine più elevato: «Come corrisponderò, Padre, alle sue dimostrazioni di bontà? - gli scriveva don Rafael da Parigi, il 4 novembre 1929 -. Non altrimenti che accettando, e lo faccio senza alcuna riservarla sua delicata proposta di patto spirituale sacerdotale»154.
Su questo patto di fraternità il salvadoregno scrisse in un’altra sua lettera da Parigi, il 20 marzo 1930: «I miei reiterati ringraziamenti per il fedele adempimento della sua promessa di ricordarmi nella Santa Messa. A mia volta, io la ricordo tutti i giorni nell’augusto Sacrificio»155.
326
Il cappellano del Patronato cominciò a creare un’autentica mobilitazione di anime e di preghiere: “Dall’anno 1928” - raccontava - “cercai di avvicinarmi ad anime sante, persino a persone sconosciute che avevano, come ero solito dire, “ faccia da buoni cristiani” : e chiedevo loro preghiere” 156.
Un giorno del 1929 s’imbatté per strada, alle sei del mattino, in un sacerdote sconosciuto. Lo fermò e gli chiese di pregare per una sua intenzione. (Il sacerdote era don Casimiro Mordilo, che divenne alcuni anni dopo arcivescovo di Madrid)157. E non era un caso unico, perché Avelino Gómez Ledo, compagno alla residenza di via Larra, ricorda bene lo zelo con cui Josemaria gli chiedeva allora orazione e penitenza, «in maniera viva, stimolante». Più tardi, quando ormai il cappellano del Patronato non viveva più nella residenza, s’incontrò un giorno casualmente con don Avelino in piazza Cibeles. Don Josemaria, ci racconta costui, «camminava avvolto in un mantello e mi colpì il suo assoluto raccoglimento; non v’è dubbio che stesse pregando per strada. Ebbi l ’impressione che mi fosse improvvisamente apparsa una di quelle anime che vivono in maniera straordinaria l’unione con Dio; e mi disse, di nuovo, che raccomandassi il suo lavoro apostolico, con preghiera e mortificazione»158.
Passavano i mesi e il sacerdote continuava a mendicare aiuto: “Continuo a chiedere orazione e mortificazioni a molta gente. Che paura ha la gente dell’espiazione!” 159, esclamava con pena e sorpresa.
Anche un’aiutante delle Dame Apostoliche riferisce, con ilare semplicità, che nessuno riusciva a sfuggire alla campagna di preghiera promossa da don Josemaria.
- “Prega molto per me, prega molto per me”, le diceva ilcappellano.
327
E la donna pensava: «Che cosa vorrà mai fare don Josemaria che chiede tanta preghiera?»160.
Nel gennaio 1929, quando una delle Dame fu in punto di morte, il cappellano la supplicò di intercedere per lui nell’altra vita: o santo o morto!
“Ricordo, a volte con un certo timore” - scriverà poco dopo nei suoi Appunti intimi - “nel caso fosse tentare Dio o fosse orgoglio, che quando era moribonda Mercedes Reyna (...), senza averci pensato prima, mi capitò di chiederle quanto segue: Mercedes, chieda al Signore, dal cielo, che se non dovessi essere un sacerdote non dico buono, ma santo, mi porti via da giovane, quanto prima. In seguito, ho fatto la stessa richiesta a due altre persone - una signorina e un ragazzo - perché tutti i giorni nella Comunione rinnovino davanti al buon Gesù quest’aspirazione”161.
Assistè la Dama negli ultimi giorni della sua malattia. Poi don Josemaria cercò la sua protezione e ne visitò spesso la tomba. Il 31 luglio cominciò una novena, pregandola per le proprie intenzioni e andando ogni giorno a recitare il rosario in ginocchio davanti alla tomba di Mercedes162. L’Opera stava avviandosi e il Fondatore si sentiva spinto a darsi totalmente, con generosità, in olocausto, anche se non mostrò mai la minima inclinazione a offrirsi come vittima. Il “vittimismo” (la scelta spettacolare del sacrificio, come se uno sdegnasse di offrire a Dio le sofferenze e le piccole croci quotidiane) era qualcosa di molto distante dal suo modo di essere e di pensare; e, quanto a non piacergli, neppure la parola stessa gli andava a genio.
La sua anima andava in cerca di qualcosa di speciale da offrire in espiazione. Perciò, trenta giorni dopo aver terminato la novena al camposanto, per intuito spirituale, chiese al Signore senza titubanze che lo spogliasse della sua salute, in atto espiatorio:
328
“Il giorno 11 agosto 1929, secondo una nota che presi quel giorno su un’immaginetta che ho nel breviario, mentre davo la benedizione con il Santissimo Sacramento nella chiesa del “Patronato de Enfermos”, senza averci pensato prima chiesi a Gesù una malattia forte, dura, in espiazione”163.“Credo che il Signore me l’abbia concessa”, soggiunse.
7. Il 14 febbraio 1930
Ripensando ai suoi grandi slanci apostolici a partire dal2 ottobre, don Josemaria ne fece questo semplice riassunto: “Fin dal primo momento ci fu un’intensa attività spirituale e cominciai a cercare vocazioni” 164. Ma da dove nasceva l’impulso, davanti alla Dama moribonda, di chiedere al Signore di essere un sacerdote santo, se non perché vedeva la propria anima quasi sprofondata “nella tiepidezza e nell’abbandono” ?165.
Per quanto possa suonare stonata, questa non è un’affermazione gratuita e senza fondamento. La convinzione dell’enorme dislivello esistente fra i propri tentativi apostolici e la grandiosità dell’impresa che gli era stata affidata provocava nella sua coscienza un serio travaglio:
“Che cosa può fare una creatura che deve compiere una missione, se non ha mezzi, né età, né scienza, né virtù, se non ha nulla?”, chiedeva a se stesso. “Andare da sua madre e da suo padre, ricorrere a coloro che possono qualcosa, chiedere aiuto agli amici... Questo ho fatto io nella vita spirituale. Certo, a colpi di disciplina, battendo il tempo. Ma non sempre: c’erano dei periodi in cui non ci riuscivo”166.
Vedendo il divario fra l’alta missione e le sue scarse risorse, gli sembrava che la sua anima cadesse in un sopore invincibile:
329
“Dopo il 1928, anche se ho cominciato a lavorare subito, ho pure patito sopore. Ego dormivi, et soporatus sum; et exsurrexi, quia Dominus suscepit me (Sai 3,6); mi sono addormentato, sono caduto quasi in un sopore; e fu il Signore che mi svegliò e mi portò a lavorare con sempre maggiore intensità”167.
Passato un numero di anni sufficiente a far decantare vecchi ricordi, gli si presentava ancora alla mente, con dolore, l’ombra delPimmaginaria resistenza di cui nella sua eroica umiltà si rimproverava: “ Il Signore sa bene che ho cominciato a lavorare nell’Opus Dei malvolentieri e per questo vi chiedo mille volte perdono” , scriveva ai suoi figli quasi scusandosi168. Sembrava che, ora che il Signore aveva dato risposta ai suoi ardenti desideri di molti anni di preghiera, gli cedesse la volontà, quasi si sentisse interiormente lacerato:
“Volevo e non volevo. Volevo compiere ciò che era una missione tassativa e dal primo giorno si fece un intenso lavoro spirituale. Ma non volevo, nonostante fossi stato dai quindici ai ventisei anni a implorare Gesù Cristo Nostro Signore, dicendogli come il cieco del Vangelo: Domine, ut videam! (Le 18,41); Signore, fa’ che io veda. Altre volte, con un latino da bassa latinità: Domine, ut siti, che avvenga quello che Tu vuoi e che io ignoro! E lo stesso alla Santissima Vergine: Domina, ut sit!” 169.
Faceva apostolato con autentico impegno e convinzione. “ Sempre senza una vacillazione, benché io non volessi!”, tornava a insistere170. Egli stesso non si poteva spiegare questa apparente contraddizione, questa specie di resistenza interiore. È evidente che non gli mancava la forza della volontà per adempiere la sua missione; il fatto è che, benché la sua dedizione fosse totale, aspirava a mete sempre più generose.
Aveva ricevuto - non aveva dubbi - una “idea chiara, generale” di ciò che sarebbe stata l’Opera, ma non di
330
come realizzarla. È per questo che dal 2 ottobre, essendosi interrotte le ispirazioni, restò a mezza luce, con una chiarezza generale che illuminava il disegno divino, ma sprovvisto di luci specifiche e pratiche per plasmarlo tangibilmente. Per dirla con le sue stesse parole, si interruppe “quella corrente spirituale di divina ispirazione” con la quale “ si andava profilando e definendo ciò che Egli voleva”171. Per attenerci ai suoi sentimenti dobbiamo ammettere che nel suo spirito stava galleggiando l’immagine di un carico pesante e divino, di fronte al quale si sentiva privo di coraggio. Se lo rinfacciò sempre: “Sono stato codardo. Mi faceva paura la Croce cheil Signore metteva sulle mie spalle” 172.
(Questa idea della codardia non è altro, nella vita dei santi, che espressione di umiltà. Vale a dire che è il frutto della loro personale impressione, di fronte alla grandezza degli inviti divini, di rispondere con scarso entusiasmo e pigrizia nel donarsi).
Ma questo presunto timore o codardia, rende forse sufficiente ragione delle sue inquietudini? Non converrà cercare delle cause più attinenti al suo modo di essere nel quale, sicuramente, non albergavano indecisione, timore o pusillanimità? Fin da bambino - come abbiamo visto - al suo carattere ripugnavano la cerimoniosità e l’ostentazione. Questa tendenza naturale finì con il mettere profonde e soprannaturali radici nel suo essere: “Ho sentito nella mia anima, da quando mi sono deciso ad ascoltare la voce di Dio - a presagire l’amore di Gesù -, un grande desiderio di nascondermi e scomparire; di vivere quel illum oportet crescere, me autem minui (Gv 3,30); conviene che cresca la gloria del Signore e che io passi inosservato” 173.
Da qui la sua ripugnanza, come egli stesso confessava, dato che l’idea di “dare inizio a una nuova fondazione potrebbe essere segno di superbia, di un desiderio di eternarsi” 174. Fin da ragazzo aveva sentito una grande
331
diffidenza verso le cose straordinarie, un’invincibile repulsione per le novità clamorose:
“Voi sapete” - scriveva ai suoi figli nel 1932 - “che avversione ho sempre avuto verso l’impegno di alcuni - ma ciò si può basare su ragioni molto soprannaturali, che in ogni caso è la Chiesa a dover giudicare - per fare nuove fondazioni. Mi sembrava - e mi sembra tuttora - che ci fosse una pletora di fondazioni e di fondatori: vedevo il pericolo di una specie di psicosi fondazionale, che conduceva a creare cose non indispensabili, per motivi che consideravo ridicoli. Pensavo, forse con scarsa carità, che in qualche occasione il motivo non fosse neppure importante: l’essenziale era creare qualcosa di nuovo e chiamarsi fondatore”175.
La più logica spiegazione dei sentimenti contraddittori del Fondatore - l’accettazione di una missione e la resistenza a fondare qualcosa di nuovo - è l’intervento divino. Esso si riconosce chiaramente nell’interruzione delle ispirazioni di carattere pratico che aveva ricevuto fino all’ottobre 1928. Con questo ottenne una nuova conferma dell’origine soprannaturale dell’Opera, poiché una fondazione, oltre ad andare al di là delle sue capacità naturali, era estranea ai suoi gusti personali. Vedendolo dunque navigare fra la resistenza e l’entusiasmo, il Signore decise di entrare nel gioco:
“Il Signore (...) vedendo la mia resistenza e quel lavoro in pari tempo entusiasta e debole, mi diede l’apparente umiltà di pensare che nel mondo ci potessero essere già delle cose che non si differenziavano da ciò che Egli mi chiedeva. Era una codardia poco ragionevole; era la codardia della comodità e la prova che a me non interessava essere fondatore di alcunché”176.
In mezzo a queste incertezze d’animo, senza cessare di
332
lavorare per l’Opera, cullava il segreto desiderio - senza alcun fondamento - di trovarsela già fatta altrove:
“Con una falsa umiltà, mentre lavoravo alla ricerca delle prime anime, delle prime vocazioni e le formavo, dicevo: Ci sono troppe fondazioni. A che scopo farne altre? Non potrò forse trovare già fatto nel mondo ciò che vuole il Signore? Se esiste, meglio è andarci, essere soldato semplice piuttosto che fondare, che può essere segno di superbia” 177.
Cercò quindi di ottenere informazioni prima su istituzioni spagnole e poi estere. Ma, quando le esaminava da vicino, si accorgeva che non erano ciò che cercava: “Mi giunsero nelle mani” - scriveva negli Appunti - “notizie su molte istituzioni moderne (in Ungheria, Polonia, Francia, ecc.), che facevano cose strane... Ma Gesù ci chiedeva, nella sua Opera, come virtù sine qua non, la naturalezza!” 178.
Non specificava in che cosa consistessero le stranezze. Sappiamo tuttavia che fin dal primo momento lo spirito dell’Opera fu caratterizzato da cose affatto diverse: “ semplicità, non attirare l’attenzione, evitare esibizionismi, fare tutto apertamente” . In una parola: “ la ripugnanza di fare spettacolo” 179.
Nel novembre 1929 don Josemarìa era intento a questa ricerca infruttuosa quando nella sua anima ricominciarono a sgorgare le ispirazioni180. “Il rinnovarsi di quella corrente spirituale di divina ispirazione” , dopo più di un anno di siccità, portò con sé le luci pratiche per avviare i compiti fondazionali. Tutto ciò costituiva una prova tangibile che era il Signore a condurre quell’impresa divina; don Josemarìa lo scrisse nei suoi Appunti:
“Il silenzio del Signore, dal giorno 2 ottobre 1928, festa dei Santi Angeli e vigilia di Santa Teresina, fino al mese di novembre del 1929, dice molte cose (...): evidenzia in modo indubbio che l’Opera è di Dio poiché, se non fos
333
se stata ispirazione divina, sarebbe stato ragionevole che, terminati i santi esercizi nell’ottobre 1928, immediatamente, con più entusiasmo che mai perché ormai l’impresa era stata delineata, questo povero prete avesse continuato a prendere appunti e a disegnare l’Opera. Non fu così: passò più di un anno senza che Gesù parlasse. E passò, fra altre ragioni, per questo: per dare la prova che il suo asinelio era solo lo strumento... e un pessimo strumento !”181.
* * *
Aveva già dimenticato i suoi tentativi di informarsi quando un giorno gli giunsero tra le mani alcuni stampati su organizzazioni apostoliche182. Ricostruendo i fatti, scriverà nel 1948: “Alla fine fui informato sui Pao- lini del Cardinal Ferrari. Sarà questo? Cercai di informarmi (doveva essere alla fine del 1929)...” 183.
(In un’altra rivista - “Il Messaggero Serafico”- che a volte distribuiva ai malati, apparvero anche alcuni articoli sulle fondazioni, in Polonia, di padre Honorato)184.
Ecco però come prosegue il racconto sui Paolini:
“ ...e venuto a conoscenza che nella Compagnia di San Paolo c’erano anche donne, scrissi nelle mie Caterine (se non le ho bruciate, appariranno fra i pacchi dell’archivio e ci si potranno leggere le stesse cose che ora scriverò): anche se l’Opus Dei non differisse dai Paolini in altro che nel non ammettere neppure lontanamente le donne, la differenza è già notevole ” 1 8 5 .
La frase cui si rimanda si trovava, probabilmente, nel quaderno andato distrutto. Tuttavia consta che le sue espressioni su questo punto contenevano sempre una netta esclusione dell’elemento femminile. “Avevo scritto” - dirà in un’altra occasione -: “non ci saranno mai donne - neppure per scherzo - nell’Opus Dei”186.
Evidentemente il 2 ottobre 1928 non «vide» né gli eventi né i dettagli storici, bensì il nucleo essenziale del
334
messaggio divino. Si può pensare che in tali circostanze, con la ripugnanza che sentiva a fondare qualcosa di nuovo e senza illuminazioni pratiche per fare nuovi passi nella fondazione, decidesse di ammettere donne nell’impresa? Almeno aveva - come opinione personale - un’idea propria, chiara e tassativa: le donne non erano chiamate a far parte dell’organizzazione187.
Il Signore non tardò molto a correggere questo criterio restrittivo:
“Passò poco tempo” - scriverà negli Appunti intimi -.“Il 14 febbraio 1930 stavo celebrando la Messa nella cappella della vecchia marchesa di Onteiro, madre di Luz Casanova, che assistevo spiritualmente quando ero cappellano del Patronato. Durante la Messa, subito dopo la Comunione, tutta l’Opera femminile! Non posso dire che vidi, ma sì che intellettualmente, nei particolari (poi ho aggiunto altre cose sviluppando la visione intellettuale), ho colto ciò che doveva essere la Sezione femminile dell’Opus Dei. Resi grazie e a suo tempo andai al confessionale di padre Sànchez. Mi ascoltò e mi disse: questo viene da Dio come tutto il resto”188.
Il 14 febbraio comprese intellettualmente e nei particolari quanto concerneva le donne: qualcosa che era già implicito nella visione generale del 2 ottobre. A questo punto ebbero fine le titubanze e le ricerche su istituzioni somiglianti:
“Annotai nelle mie Caterine l’evento e la data: 14 febbraio 1930. Poi dimenticai la data e lasciai passare il tempo senza che mai più mi capitasse di pensare, nella mia falsa umiltà (era spirito di comodità, paura della lotta), di essere soldato semplice: era necessario fondare, senza alcun dubbio”189.
L’una e l’altra fondazione lo colsero di sorpresa. Soprattutto quella delle donne: con la mente priva di luce e
335
con la volontà divisa tra il volere e il non sapere. E alla fine un’opinione espressa con fermezza, sull’esclusione delle donne. Ma con questo non si faceva ancor più evidente l’origine divina dell’Opera? Il Fondatore lo ammise:
“Ho sempre pensato - e lo penso ancora - che il Signore, come in altre occasioni, mi abbia “manovrato” abilmente in modo che avessi una prova esterna oggettiva che POpera era sua. Io: non voglio donne nell’Opus Dei! Dio: io invece le voglio”190.
Sui paradossi fondazionali compose, a suo tempo, un ispirato florilegio, poiché non erano ancora finite le sorprese:
“La fondazione dell’Opus Dei avvenne senza di me; la Sezione femminile contro la mia opinione personale e la Società Sacerdotale della Santa Croce quando io volevo trovarla e non la trovavo”191.
336
!NOTE CAPITOLO V
1 Cfr AGP, RHF, D-15247/2. È molto probabile che a Madrid non potè celebrare la Messa fino al giorno successivo (a quel tempo non era consentita la celebrazione della Messà vespertina); forse lo aveva già fatto a Saragozza prima di prendere il treno (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 332; Javier Echevarria* Sum, 1947).2 Quando don Joseriiaria arrivò a Madrid, là chiesa pontificia di S. Michele era retta da una comunità di Padri Rèdentoristi, come è stato detto; attualmente essa è affidata a sacerdoti della Prelatura della Santa Croce e Opus Dei. Cfr AA. W i, Diccionario de Historia Eclesiàstica de Espaha, op. cit., voi IL, p. Ì3§1.3 La diocesi di Madrid fu creata con la Bolla Romani Pontifices Praedeces- sores di Leone XIII, promulgata il 7 marzo 1885. Due giorni dopo un Decreto Reale nominava il primo Vescovo di Madrid. La sede matritense fu elevata al rango di sede arcivescovile dipendente direttamente dalla Santa Sede dalla Bolla Romanorum Pontificum semper di Paolo VI (25-111- 1964).4 Cfr Pratica accademica personale, Archivio della Facoltà di Diritto dell’Università Complutense di Madrid; AGP, RHF, D-03365.5 AGP, RHF, D-15155. Il certificato fu forse presentato assieme all’istanza, nonostante sia in data differente; ma può essere invece che nel presentare l’istanza gli sia stato richiesto un certificato di vaccinazione.6 Cfr lettere già citate di P. A. Santiago, del 7-III-1927 (AGP, RHF, D- 15003-6) e di P. Cancer, del 9-ÌII-1927 (AGP, RHF, D-15003-5).7 Esiste una ricevuta, su carta non intestata, con data 30 aprile 1927, per l’importo di 78 pesetas, corrispondenti a dieci giorni di pensione e varie. Sul retro del foglio c’è il conto, che indica che la pensione giornaliera è di 7 pts. Scritta con una diversa calligrafia si legge la parola Farmacia (cfr AGP;, RHF, D-15247-2).
337
8 Bollettino Trimestrale dell3Opera Apostolica “Patronato de Enfermos”, n. 72, Madrid, gennaio 1928, pp. 12-13.9 Lettera già citata di P. Cancer a don Josemarìa, del 9-III-1927 (AGP, RHF, D-15003-5).10 Lettera di don Luis Latre a don Josemarìa, datata Saragozza 9-V-1927 (originale in AGP, RHF, D -l5003-8); la trascrizione è stata emendata di qualche errore dattilografico). Si noti il «metterti a disposizione del nostro Prelato che ha tanta scarsità di personale» per quanto si riferisce alle «ingiustizie provvidenziali» del capitolo precedente.11 Cfr Appendice documentale, documento XII.12 Don Fidel Gómez Colomo aveva studiato nel Seminario di Toledo ed era stato ordinato sacerdote nel 1925. Ascritto al Vicariato Militare, arrivò a essere Tenente Vicario della Marina. Morì a Madrid nel 1980.Don Justo Villameriel Meneses si preparava al concorso di cappellano militare, che vinse nel 1927.Mons. Avelino Gómez Ledo era stato ordinato sacerdote a Madrid nel 1918. Fu coadiutore nella parrocchia della Concezione di Madrid e poi in quella di Nostra Signora degli Angeli. Dal 1940 fu parroco di Sant5Agostino, pure a Madrid. Morì nel 1977.Don Antonio Pensado Rey era nato nel 1897 ed era stato ordinato sacerdote nel 1920 a Santiago di Compostella.13 II Monastero dell’incarnazione delle Agostiniane Recollette fu fondato da re Filippo III e dalla moglie Margherita d’Austria. Nella sua chiesa fu eretta la parrocchia del Palazzo Reale e fin da tempi antichi il Cappellano Maggiore di Sua Maestà (carica che tradizionalmente spettava all’Arcivescovo di Santiago) vi godeva di giurisdizione esente. Perciò il Vescovo di Madrid non aveva giurisdizione su questa chiesa; e neppure l’aveva l’Ordinario Palatino (o Procappellano Maggiore di Sua Maestà) dal quale dipendeva la giurisdizione di tutti i Patronati Reali, eccetto proprio quello dell’incarnazione (cfr Diccionario de Historia Eclesiàstica de Espana, op. cit., voi. I, pp. 338-9; voi. II, pp. 1382-83; voi. Ili, p. 1887; voi. IV, pp. 2743-2746).14 La comunicazione d’ufficio del Vicario Generale di Madrid (27-1-1927) all’Arcivescovado di Santiago è molto energica. In risposta fu inviata da Santiago una comunicazione (1-II-1927) in base alla quale all’interessato venivano ritirate le facoltà nella sua stessa diocesi fino al suo rientro. La settimana successiva smise di celebrare la Messa nell’incarnazione. Dal tenore della lettera che scrisse il 30-VII-1927, don Antonio dev’essere rimasto a Madrid per tutto il mese di giugno 1927. Non consta che si sia incardinato nella diocesi di Madrid. Tutti i dati citati si trovano nell’Archivio della Segreteria dell’Arci vescovado di Madrid e nell’Archivio del Seminario Maggiore di Santiago di Compostella.15 Non sembra ci siano testimonianze sul come e sul perché Donna Luz Rodrìguez Casanova si sia interessata a favore di don Josemarìa.
338
L’istanza è diretta all’“Ill.mo Vicario Generale della Diocesi di Madrid-Alcalà” (cfr AGP, RHF, D-15147).16 Appunti, n. 178.17 Nata nel 1873, era figlia di Fiorentino Rodriguez Casanova e di Leóni- des Garcia San Miguel. Il titolo del marchesato di Onteiro, per sé e per i suoi discendenti, fu conferito alla madre, già vedova, con Reale Decreto del 15-VII-1891, a motivo dei servigi resi dal marito alla nazione.Le Dame Apostoliche, fondate il 24-V-1924, ottennero l’approvazione definitiva da Pio XII nel 1950. La Fondatrice morì in fama di santità l’8-I- 1949. Il 25-1-1958 fu aperto il suo Processo di Beatificazione (cfr E. Iturbidè, El amor dijo si. Luz R. Casanova, Pamplona 1962).18 Nel 1927 era Dottore in Sacra Teologia (1900) e in Diritto canonico (1902); Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Civile di Beneficenza; Consigliere per la Pubblica Istruzione; Accademico della Pontificia Accademia Romana S. Tommaso d’Aquino e della Reale Accademia della Lingua Spagnola (1926). In precedenza era stato professore di Lingua ebraica nel Seminario di Siviglia; Canonico di Jaén (1904) e di Santiago di Compostella (1908); cfr E. Subirana, cit., 1927, p. 249.19 Minuta manoscritta del 18-11-1933, nell’Archivio della Segreteria Generale dell’Arcivescovado di Madrid.20 Ibidem, Libro delle Facoltà Ministeriali, n. 8, fogli 53 e 54. Si noti che all’istanza del 10-VI-1927 corrisponde la concessione in data 8-VI-1927: l’unica spiegazione, tenute presenti le circostanze, è che le prime facoltà gli siano state concesse su richiesta di Donna Luz due giorni prima che don Josemaria inviasse l’istanza. “ Santa Barbara” è il nome di una chiesa.21 Cfr E. Subirana, cit., 1927, p. 247.22 II canone 130, par. 1, del Codex luris Canonici del 1917 recitava: «Ex- pleto studiorum curriculo, sacerdotes omnes, (...) examen singulis annis saltem per integrum triennium in diversis sacrarum scientiarum disciplinis, antea opportune designatis, subeant secundum modum ab eodem Ordinario determinandum».23 La risposta alla sua richiesta di essere esaminato dal Rettore del S. Michele dice:«Carissimo nel Signore. Sua Ecc. Ill.ma ha disposto che, per rinnovare le facoltà ministeriali, dato che Lei si trova nella condizione prevista dal canone 130, si può presentare lì per essere esaminato» (originale in AGP, RHF, D-15003-10)24 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 487. Mons. J. Echevarria precisa che fu il Rettore stesso a consegnargli «la documentazione in una busta aperta, perché s’incaricasse egli stesso di spedirla per posta»; la chiuse e la mise nella prima cassetta postale che trovò all’uscita da S. Michele (cfr Sum. 1947).25 A partire dall’8-VII-1927 gli furono concesse facoltà per un anno in tre occasioni; poi finalmente per cinque anni il 10-VI-1931 (cfr Archivio Dio
339
cesano di Saragozza, Libro delle concessioni delle facoltà ministeriali, anni 1902-1952; fogli 242, 250, 258, 268, 273, 311).Circa le facoltà del 1936 scrisse: “31-V-1936. In questi giorni il Signore, per mezzo del Vescovo di Pamplona e di don José Pou, mi ha sistemato le facoltà di Saragozza: l’Arcivescovo me le ha concesse generali perpetue” (Appunti, n. 1344).Quanto alle lettere dimissorie e commendatizie, gli furono rinnovate annualmente dal 1929 al 1931, quando gli fu concesso il permesso di risiedere a Madrid fino al 1936 (cfr Libro del Registro dei Documenti Arcivescovili, Archivio diocesano di Saragozza: anno 1929, f. 406; 1930, f. 191; 1931, f. 300; e anno 1931, foglio 318, numero 3.367: “Permesso per Madrid, per cinque anni, e Commendatizie” ).26 Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 1. Asunción Munoz Gonzàlez (1894-1984) fu una delle prime religiose delle Dame Apostoliche del Sacro Cuore. Conobbe don Josemarìa nel 1927 e quando nel 1929 fu nominata Maestra delle Novizie nel Noviziato di Chamartin de la Rosa (Madrid), il Fondatore l’aiutò con i suoi consigli.27 Don Joaqum Maria de Ayala Astor era nato a Novelda (Alicante) e fu ordinato sacerdote nel 1901. Canonico Dottorale di Cuenca, fu nominato Rettore del Seminario nel 1922. Morì assassinato nel 1936. Cfr S. Cirac, Crònica Diocesana Conquense de la Època Roja, voi. II, Martirologio de Cuenca, Barcellona 1947, pp. 178-181.Si trattenne alla Residenza di via Larra in occasione di un congresso che ebbe luogo a Madrid il 15-19 giugno 1927 (cfr S. Eijan, OFM, Crònica de fiestas cwico-religiosas y especialmente el IV Congreso Nacional de Terciarios Franciscanos que con caràcter iberoamericano se celebrò en Madrid los dìas 15, 16, 17, 18 y 19 de junio de 1927, en conmemoraciòn del VII centenario de la muerte de San Francisco de Asis, Barcellona-Ma- drid 1930).28 Lettera del Rev. Joaqum Maria de Ayala a don Josemarìa, 30-VI-1927 (originale in AGP, RHF, D-06929).29 Cfr lettera di don Antonio Pensado a don Josemarìa, 30-VII-1927 (originale in AGP, RHF, D-05186). Aurora Balenzàtegui era ausiliare delle Dame Apostoliche, incaricata dell’amministrazione della residenza di via Larra.Si conservano due ricevute della pensione di don Josemarìa, firmate da Aurora Balenzàtegui: una del 5-VIII-1927 (pensione dal 30 luglio al 5 agosto) e l’altra del 19-VIII-1927 (pensione dal 13 al 19 agosto); ambedue in AGP, RHF, D-15246.30 Lettera di P. Prudencio Cancer a don Josemarìa, datata Segovia 19-VII- 1927 (originale in AGP, RHF, D-15003-5).31 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, AGP, RHF, T-07921, p. 7; Javier Echevarria, PR, p. 70.32 Avelino Gómez Ledo, AGP, RHF, T-03714, p. 1.33 Fidel Gómez Colomo, AGP, RHF, T-01364, p. 1.
340
34 Avelino Gómez Ledo, AGP, RHF, T-03714, p. 2.35 Ibidem, p. 1.36 Fidel Gómez Colomo, AGP, RHF, T-01364, p. 1.37 Avelino Gómez Ledo, AGP, RHF, T-03714, p. 1.38 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 16.39 Lettera di P. Cancer a don Josemaria, 9-XII-1927 (originale in AGP, RHF, D-15003-5).40 II Fondatore, che aveva vissuto e sofferto il burrascoso periodo della Dittatura e della Seconda Repubblica spagnola, riassumeva con acume e brevi pennellate la situazione storica per quello che poteva riguardare la Chiesa in una lettera del 14-VT-1964 a Paolo VI; eccone alcuni paragrafi: “Nel 1923 il generale Primo de Rivera fece un colpo di Stato e, d’accordo con Alfonso XIII, instaurò una dittatura, che durò fino al 1930. Benché, considerato nel suo assieme, l’operato di Primo de Rivera sia stato assai benefico per la Spagna, sotto molti aspetti lese - come ogni dittatura - la libertà degli Spagnoli. Tale mancanza di libertà, approvata - o tollerata - dal Re, provocò un forte movimento di reazione contro la monarchia, anima del quale erano alcuni noti intellettuali anticattolici, alcuni uomini della “ Asociación Católica Nacional de Propagandistas” , diretta dall’allora giornalista Sig. Herrera, e i dirigenti sindacali anarchici e marxisti. Si preparava l’inizio del moto pendolare che sposta le masse da un estremo - la mancanza di libertà - a quello opposto: il libertinaggio. Moto pendolare che è sempre potenzialmente grave, ma che è estremamente pericoloso in popoli appassionati e che continua tuttora a incombere come una minaccia sulla Spagna.Il 14 aprile 1931, in seguito allo stato di tensione creatosi soprattutto a Madrid per la vittoria repubblicana nelle elezioni amministrative in alcune fra le città più importanti della Spagna, e per il timore di una possibile guerra civile, Alfonso XIII preferì allontanarsi dal Paese, e fu proclamata la repubblica” (C 5 7 5 3 ,14-VI-1964).41 Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, AGP, RHF, T-07921, p. 8.42 Cfr “A £C” , Madrid 19-IX-1918, p. 27; Alvaro del Portillo, Sum. 490. Le testimonianze non dicono come egli sia entrato in contatto con l’Acca- demia, benché una delle ragioni potrebbe essere il fatto che vi insegnavano diversi sacerdoti, fra cui don Salvador Pérez, don Angel Ayllón e don Isidoro Arquero, che era incaricato dell’internato.43 Cfr Estratto del Regolamento dell’Accademia, stampato (originale in AGP, RHF, D-03395). Don José Cicuéndez Aparicio era, dal luglio 1910, cappellano - prima della chiesa e poi della scuola - del Reale Patronato di Santa Isabel. Il 2-II-1931 presentò un’istanza all’intendente Generale della Reai Casa e del Patrimonio, in cui esponeva il proprio stato di salute (esaurimento e nevrastenia acuta) e chiedeva tre mesi di aspettativa. Il giorno 9 dello stesso mese gli furono concessi. Il 12-V-1931 chiese una proroga e il 4-VII-1931 il Ministero degli Interni gliela accordò, sospendendo però lo stipendio (cfr Archivio del Patrimonio Nazionale, sezione Pratiche perso
341
nali, Cassa 182/17, Pratica del Cappellano José Cicuéndez Aparicio). Morì a Villa de Don Fadrique (Toledo) nel novembre 1932, a 58 anni di età, dopo una lunga malattia che lo privò delle facoltà mentali alcuni mesi prima della morte (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 271).Quando Don Cicuéndez dovette abbandonare Madrid a causa della malattia, divenne Direttore dell’Accademia il professor Floriàn Ruiz Egea, che era Dottore in Filosofia e Lettere e bibliotecario della Biblioteca Municipale di Chamberì. Era sposato, senza figli. Morì assassinato durante la guerra civile (cfr Manuel Gómez-Alonso, AGP, RHF, T-03771, p. 1).44 Mariano Trueba, AGP, RHF, T-03277.45 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 496, e Javier Echevarria, PR, p. 473, che citano Juliàn Cortés Cavanillas, ex alunno di don Josemaria nell’Accade- mia Cicuéndez e poi divenuto un noto giornalista. Negli anni ‘50 fu corrispondente da Roma del quotidiano “ABC” di Madrid e potè fare spesso visita al Fondatore e avere contatti con Mons. Alvaro del Portillo e Mons. Javier Echevarria, che includono nelle loro dichiarazioni cose raccontate da lui stesso.46 Manuel Gómez-Alonso (AGP, RHF, T-03771, 1), che era stato alunno dell’Accademia nel 1930-31.47 Citato da Javier Echevarria, Sum. 2105.48 Lettera autografa di don José Pou de Foxà, 27-VI-1928 (originale in AGP> RHF, D-15309-1).49 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 498.50 L’originale si trova in AGP, RHF, D-03395-8.51 L’originale si trova in AGP, RHF, D-03395-8.52 Esiste una lettera di don Angel Ayllón del 27 luglio 1928, su carta intestata dell’Accademia, indirizzata a don Josemaria e sulla quale è scritto “Presente” , cioè che il destinatario si trovava a Madrid. Essa dice:«Caro José Maria, ho appena ricevuto una lettera del Direttore con alcune istruzioni che ti devo comunicare per le lezioni del prossimo agosto. Ti prego quindi di farmi il favore di passare dall’Accademia per parlare piuttosto a lungo. Nel pomeriggio entro le sette. Presenta i miei devoti omaggi alla tua Signora Madre e ricevi un abbraccio dal tuo migliore amico e collega» (AGP, RHF, D-03395-7).L’ultima annotazione Sull’Accademia Cicuéndez nei suoi Appunti è del 28-1-1932, al n. 591. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 490. Per quanto si riferisce all’apostolato del Fondatore con alunni e professori, i riferimenti sono più frequenti: cfr Appunti, nn. 362, 420, 492, 591; e Javier Echevarria, Sum. 2109.53 Mariano Trueba, AGP, RHF, T-03277. Mariano Trueba fu alunno di don Josemaria all’Accademia durante il corso 1928-29. Era iscritto alla Facoltà di Diritto come alunno libero e frequentava l’Accademia per accelerare gli studi. Fu poi Magistrato del Lavoro a Vizcaya.54 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 494, che ascoltò questo episodio da José
342
Manuel Sanchiz Granerò, che fu alunno di don Josemarìa nel corso 1927- 28, divenne avvocato e fu membro del Consiglio Superiore di Protezione dei Minori.55 Mariano Trueba, AGP, RHF, T-03277. Negli anni sessanta qualcuno, che aveva udito Mariano Trueba raccontare questo episodio, lo mise per iscritto e lo inviò a don Josemarìa. Quando lo lesse, questi annotò in calce allo scritto: “Lo ricordo, 12-2-66” (cfr Joaqum Alonso, PR, p. 1742).56 Mariano Trueba, AGP, RHF, T-03277.57 Ricordo di Juan Cortés Cavanillas ripreso in Alvaro del Portillo, Sum. 496 e Javier Echevarria * Sum. 210 5.58 II progetto fu di Luis Ferrerò; la costruzione fu terminata nel 1924 e inaugurata dal re Alfonso XIII. Cfr Guìa de Arquitectura y Urbanismo de Madrid, tomo II: Ensanche y Crecimiento, capitolo: Ensanche Chamben: Patronato de Enfermos de Santa Engracia, edito dal Collegio degli Architetti di Madrid, Madrid 1984.59 Cfr la pubblicazione delle Dame Apostoliche: Bollettino Trimestrale del- VOpera Apostolica “Patronato de Enfermos33, n. 72, gennaio 1928; n. 78, gennaio 1930.L’Opera di Preservazione della Fede consisteva in scuole per bambini; le Mense di Carità davano da mangiare ai poveri; la Casa Sacerdotale era una residenza per sacerdoti; l’Opera della Sacra Famiglia cercava di legalizzare situazioni familiari irregolari, la Società di Protezione assicurava prestazioni mediche e farmaceutiche e pure i funerali; i Roperos di S. Giuseppe raccoglievano abiti usati; l’Opera della Perseveranza faceva catechesi e formazione di ragazze giovani, l’Associazione delle Anime del Purgatorio offriva suffragi per i defunti, ecc. (cfr ibidem, gennaio 1930, pp. 2-10).60 Aniceta Alvarez Sànchez de Leon, AGP, RHF, T-04865, p. 3.Nacque a Daimiel (Ciudad Reai) nel 1910. Conobbe don Josemarìa fra il 1927 e il 1931, in quanto aiutante delle Dame Apostoliche del Patronato.61 Cfr Maria Vicenta Reyero, Sum. 5970. La testimone (una Dama Apostolica che conobbe e trattò personalmente con il Fondatore) precisa che don Josemarìa «era solito celebrare la santa Messa le domeniche e qualche altro giorno nell’oratorio privato della marchesa di Onteiro».62 Pedro Rocamora, AGP, RHF, T-05829, p. 6. D. Juliàn Cortés Cavanillas e D. José Maria Gonzàlez Barredo, dice un altro teste, «mi hanno descritto l’emozione che provavano nel servirgli la Santa Messa, emozione che giungeva alle lacrime» (Florencio Sànchez Bella, Sum. 7481).63 Emilio Caramazana, AGP, RHF, T-05335, p. 3.64 José Maria Gonzàlez Barredo, AGP, RHF, T-04202, p. 1. Riferisce anche ciò che gli scriveva sua sorella, in ricordo del cappellano del Patronato: «Mi colpì moltissimo un sacerdote che recitava il rosario con tale devozione e attenzione da farmi restare stupefatta» {ibidem).65 Maria Vicenta Reyero, Sum. 5969.66 Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 2. Religiosa delle Dame Apo
343
stoliche (1894-1984). Conobbe il Fondatore nel 1927 nel “Patronato de Enférmos” durante gli àrlni in cui ne fu cappellano.67 Jdsefina Sàntos* ÀGP, RHF, T-05255, p. 2. Nacque a Segovia nel 1895. Fu aiutante delle religiose nel Patronato, dove conobbe don Josemaria frail 1927 e il 1931,68 Cfr Bollettino Tfimestralé.t., cit., n. 72* gennaio 1928, p. 14; e n. 78, gennaio 1930, p. 12. Le Statìstiche del 1927 sono simili: 4.396 malati visitati; 3225 confessioni; 486 iiitziòììi dei malati} 1,192 matrimoni e 161 battesimi (cfr ibidem).69 «Nel Patronato c’erano anche altre attività, alle quali immagino che avrà preso parte anche don Josemaria: la preparazione di futuri sposi e la catechesi per operai», dice Margarita Alvarado Cogheffi* che fu ausiliaria laica delle religiose del Patronato e lì conobbe don Josemaria. Alcuni anni dopo si fece Carmelitana Scalza con il nome di M. Milagros del Santisimo Sacramento (cfr Margarita Alvarado Coghem, AGP, RHF, T-04676,1),Là sua supposizione è ben fondata poiché fra le carte che si conservano del Fondatore c’è un biglietto dell’Opera della Sacra Famiglia, che porta la data del 18-1114928, vigilia di S. Giuseppe, che dice:«Reverendo Don José Maria, mentre le faccio i nostri auguri, la preghiamo di tenete venerdì prossimo una lezione agli sposi nel Patronato, parlando della Fede (sono conversazioni di un’ora, intorno alle otto e un quarto della Sera)» (originale in AGP, RHF, D-03283).7Ù Cfr Bollettino Trimestrale..., cit., gennaio 1928, p. 7.71 Cfr ìbidem, gennàio 1928* 7; gennaio 1930, p. 5.Josefimì Santos (ÀGP, RHF* T-05255, p. 2) riferisce che «alla domenica si riunivano nel Pattònato tutti i bambini delle scuole che le Dame Apostoliche avevano nei diversi quartieri: don Josemaria li confessava».D’altra parte, Maria Vicentà Reyero testimonia (Sum. 5969) che infondeva vita cristiana «con le sue lezioni e le spiegazioni del catechismo e del Vangelo ai bambini della prima Comunione, nei tre giorni precedenti alla cerimonia».72 Cfr Bollettino Trimestrale..., cit., gennaio 1930, p. 10.«Don Josemaria andava anche nelle scuole che avevamo nei sobborghi di Madrid (...); annualmente facevano la prima Comunione circa 4.000 bambini* Faceva loro lezioni e parlava amichevolmente con ciascuno, usando tutta la sua simpatia personale, tutta la sua energia di apostolo, per portare Ì cuori di quei piccoli alla conoscenza e all’amore per Gesù Cristo» (cfr Àsunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 3).Maria Vicenta Reyero (Sum. 5968) dice che «ascoltava con altri sacerdoti le confessioni dei bambini della prima Comunione che molto spesso venivano a farlo nella nostra chiesa». Nel “Patronato de Enfermos” don Josemaria era aiutato, in queste e in altre attività, dall’altro cappellano, don Norberto Rodriguez Garcia (cfr Àsunción Munoz, AGP, RHF, T- 04393, p. 4).73 Margarita Alvarado Coghem, AGP, RHF, T-04676, p. 1.
344
74 Meditazione del 19-111-1975.75 «Allora non c’era l’abitudine che dalle parrocchie venisse portato il Signore se non in casi gravi; Luz Casanova chiese il permesso al Vescovado e le fu concesso; perciò don Josemaria portava la Comunione a tutti i malati che lo chiedevano» (Josefina Santos, AGP, RHF, T-05255, p. 2).«Salvo casi eccezionali - riferisce Margarita Alvarado - ai malati portava la santa Comunione il giovedì, con un’automobile che prestavano a Donna Luz Casanova. Negli altri giorni andava in tram oppure a piedi, come poteva, A volte con il cattivo tempo, perché ci si occupava dei malati sia d ’inverno che d’estate» (Margarita Alvarado Coghem, AGP, RHF, T- 04676, p. 1).76 Josefina Santos, AGP, RHF, T-05255, p. 2.77 Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 2. La testimonianza di Mons. Alvaro del Portillo ci avverte che don Josemaria svolgeva questa attività con il consenso dei parroci, a norma del Diritto canonico (Sum. 255).78 Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 2; Maria Vicenta Reyero, Sum. 5979.79 Appunti, nn, 119 e 120,80 Margarita Alvarado Coghem, AGP, RHF, T-04676, p. 2; Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 1.S1 Appunti, n. 178.82 Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 1. Da Mercedes Sagiiés, che fu presente ai fatti, Mons. Alvaro del Portillo raccoglie la seguente testimonianza: da quando don Josemaria si occupò della cura spirituale dei malati, non accadde mai che uno di loro morisse senza ricevere i sacramenti (Sum. 257).83 Ernesto Julia, PR, p. 1074. “È evidente” - scrisse don Josemaria - “che potrei raccontare la grande bontà e la giustizia di Dio, da me constatate nelle visite agli ammalati” (Appunti, n. 121).84 In AGP, RHF, D-03283 si conserva un buon numero di foglietti dell’Opera Apostolica e di note inviate al cappellano per le visite ai malati, relative agli anni 1927, 1928 e 1929.85 Maria Vicenta Reyero, Sum. 5976; in una annotazione del 25-XI-1927, per esempio, si legge: «Il malato di via Artistas 8 vuole che vada un’altra volta don José; le Dame Catechiste dicono che è peggiorato» (AGP, RHF, D-03283).86 Cfr ibidem.87 Ernesto Julià, PR, p. 1074.88 Udito dalle labbra del Fondatore da Mons. Javier Echevarrfa (Sum. 1958).89 Josefina Santos, AGP, RHF, T-05255, p. 1; cfr anche Javier Echevarrìa, Sum. 1958.90 Cfr AGP, RHF, D-03283.
345
91 «Non gli mancarono allora - spiega Mons. Alvaro del Portillo - favori straordinari, locuzioni divine che s’imprimevano a fuoco nella sua anima e lasciavano un’impronta indelebile nella sua mente» (cfr Sum. 532).92 Meditazione del 2-X-1962.93 Cfr A. del Portillo, Monsenor Escrivà de Balaguer; instrumento de Dios, op. cit., p. 30.94 Lettera 6-V-1945, n. 41.95 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 17.96 Maria Vicenta Reyero, Sum. 5972. Si conserva un biglietto del Direttore dell’Accademia con la firma di don José Cicuéndez, in data 30-VI-1930, con il quale inviava a don Josemarìa «l’importo della mensilità di giugno», ma non vi si fa cenno della cifra (cfr AGP, RHF, D-03395).97 Le 150 pesetas erano per le gasse (127), per l’inoltro della pratica (7), per il Patronato Universitario (15) e per la marca da bollo sulla domanda. Gli altri due esami ai quali si iscrisse erano Storia del Diritto internazionale, e Filosofia del Diritto.98 Don Josemarìa non disponeva di risparmi, né di tempo per prepararsi agli esami, per cui poteva prevedere di non potersi presentare all’esame di Storia della Letteratura giuridica, che sarebbe stato di lì a due settimane. Ragione questa che lascia supporre il contributo gratuito di don José Cicuéndez, poiché sappiamo che in qualche altra occasione gli pagò i diritti d’esame (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 271).Per quanto concerne i due esami superati, è probabile che Filosofia del Diritto l’avesse preparata l’anno precedente, visto che il 29 agosto aveva presentato la domanda d’iscrizione all’esame pagando i relativi diritti, ma non potè o non volle presentarsi alla sessione di settembre 1927. Quanto alla Storia del Diritto internazionale, egli aveva già una buona base di conoscenze giuridiche, visto che a Saragozza era stato promosso con lode in Diritto pubblico internazionale.99 Nell’agosto 1928 la Segreteria del Vescovado pubblicava una circolare sugli Esercizi spirituali in cui si diceva: «In conformità con la pratica in uso in questa Diocesi negli anni precedenti, avranno luogo diversi turni di Esercizi spirituali per Sacerdoti nel prossimo autunno. Si ricorda, a questo proposito, l’obbligo che hanno di parteciparvi coloro che non l’abbiano fatto negli ultimi tre anni, in conformità con quanto disposto dal Codice di Diritto Canonico» (Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcalà, n. 1469, 16-VIII-1928, p. 249).I Lazzaristi avevano organizzato tre turni: il secondo era dal 30 settembre al 6 ottobre: cfr ibidem, p. 250.100 Cfr Guìa de Arquitectura y Urbanismo de Madrid, op. cit., tomo II, p. 10; cfr anche Anales de la Congregación de la Misión de las Hijas de la Ca- ridad, tomo IX, Madrid 1901, pp. 254-301; M. Horcajada, Resena Histó- rica de las Casas de la Misión fundadas en Espana desde 1704 basta nue- stros dias, Madrid 1915, pp. 481-509. L’edificio ha subito negli anni quaranta una profonda trasformazione e buona parte dell’antica costruzio
346
ne è ora un ospedale. Il resto, ristrutturato e ampliato, è attualmente la residenza della Comunità dei Padri Lazzaristi che si occupano dell’annessa Basilica della Milagrosa.Cfr Anales de la Congregación de la Misión..., cit., p. 290. Agli inizi del secolo la Casa Centrale dei Lazzaristi occupava un enorme isolato, dentro il quale si trovava l’antica proprietà della Casa de los Cipreses e gli orti della Quinta de Hortaleza.101 II 2 ottobre 1928 ricevette l’illuminazione soprannaturale sull’Opera “mentre leggevo quelle carte” (Appunti, n. 306).102 Ibidem, n. 414. Per gli Appunti intimi cfr il capitolo successivo.103 A questo riguardo racconta Mons. Alvaro del Portillo: «Nostro Padre mi ha detto in diverse occasioni che la ragione che lo spinse a distruggerlo fu che vi aveva annotato molti eventi di tipo soprannaturale e molte grazie straordinarie che il Signore gli aveva concesso. Passando gli anni, poiché non voleva che, basandoci su quei doni straordinari, lo considerassimo un santo, mentre - nostro Padre lo affermava con profonda convinzione -, “non sono altro che un peccatore”, prese la decisione di bruciare quel documento» (cfr ibidem, Nota preliminare, p. 4).104 Al turno precedente dei Lazzaristi (16-22 settembre) assistettero 25 sacerdoti; al successivo (14-20 ottobre), 39 sacerdoti: cfr Bollettino Ecclesiastico del Vescovado di Madrid-Alcalà, n. 1476 (l-XII-1928), p. 384. Il direttore degli esercizi era Padre Laredo: cfr Anales de la Congregación de la Misión..., cit., tomo XXXVI, Madrid 1928, p. 609.Secondo quanto prescriveva l’orario, si celebrava la santa Messa fra le sette e le otto; poi si faceva la colazione e l’esame di coscienza e alle nove si recitavano le Ore Minori, seguite dalla lettura del Nuovo Testamento. Fra questa lettura e la predica successiva delle ore undici c’era tempo libero, per meditare. Fu in questo tempo libero - fra le dieci e le undici del mattino - che ebbe luogo il fatto che si narra (cfr AGP, RHF, D-03610: Impiego del tempo per chi pratica gli esercizi).105 Quando doveva parlare di quel momento straordinario di grazie il Fondatore, per umiltà, era molto evasivo; ma c’era un’altra ragione per cui non entrava nei particolari: per dimostrare ai suoi figli che l’Opera non si basava “ su miracolismi; vi ho insegnato con fermezza di non desiderare mai cammini interiori di carattere straordinario” (Lettera 6-V-1945, n. 4).106 E di seguito: “ho ricopiato con una certa unità le note sciolte che avevo scritto fino ad allora ” (Appunti, n. 306).107 Commentando le “note sciolte” , dice J. L. Illanes: «Tutte quelle realtà, che erano fino ad allora come pezzi staccati di un mosaico ancora non assemblato, acquisiscono improvvisamente il loro senso compiuto sotto la luce superiore che Dio ora gli comunica» (cfr J. L. Illanes, Dos de octubre de 1928: alcance y significado de una fecha, in AA. W , Mons. Josemaria Escrivà de Balaguer y el Opus Dei, Pamplona 1982, p. 78).Interpretazione possibile purché si ammetta che il mosaico era incompleto, che l’illuminazione diede una nuova dimensione alle ispirazioni precedenti
347
e che la fondazione - come si vedrà più avanti - esigeva nuove luci divine, per sottolineare l’origine soprannaturale dell’Opera.108 Lettera 6-V-1945, nn. 4-5. Il Fondatore raccontava le proprie esperienze personali, anche quando scriveva in terza persona. Su questo cfr anche la Meditazione del 14-11-1964.109 Di nuovo ripeteva il suo ecce ego quia vocasti me (cfr Meditazione del 2-X-1962), séguito della chiamata di Logrono nel 1918 e della sua risposta, quando implorava luce come il cieco di Gerico. Gesù “entrava con quell’atto di autorità nelPanima” (Lettera 9-1-1932, n. 9), ed essa gli si arrendeva piena di gratitudine perché egli lo chiamava chiaramente “a lavorare nella sua Opera, con una vocazione ben definita” (Lettera 11 -III- 1940, n. 32).110 Meditazione del 14-11-1964; nel 1974 parlava della gioia e “veglia dello spirito che lasciarono nella mia anima - è già passato quasi mezzo secolo - le campane di Nostra Signora degli Angeli” (Lettera 14-11-1974, 1).111 Meditazione del 14-11-1964.112 Meditazione del 2-X-1962.113 Appunti, n. 306; Lettera 14-11-1950, n. 3. Dice Mons. Echevarria: «Il Fondatore non concepì il proposito di fondare l’Opus Dei. Il Signore gli fece vedere l’Opera il 2 ottobre 1928, mentre stava facendo gli esercizi spirituali nel Convento dei Padri Lazzaristi, situato in via Garcia de Paredes, a Madrid (...). Fu quindi un’ispirazione che il Signore trasmise esclusivamente al Servo di Dio. Perciò, non è stata un’idea che abbia concepito per conto suo, e neppure un progetto nato con la partecipazione di altre persone» (Sum. 2139).114 Meditazione del 19-111-1975.115 Istruzione 19-111-1934, nn. 6-7.116 In una annotazione degli Appunti intimi si legge: “Vigilia dei Santi Angeli Custodi, 1 ottobre 1933. Domani sono cinque anni da quando ho visto l’Opera” (n. 1055).Anni dopo, rileggendo questa annotazione, commentava a Mons. del Portillo: “Secondo me, è il modo più chiaro per dirlo: da quando ho visto l’Opera!” (Ibidem, nota 808). Il Signore, quindi, aveva fondato; ed egli aveva “visto” .Spiega Mons. del Portillo, «Nella mente del Padre - in ciò che Dio aveva inciso nella sua anima - non esisteva un fenomeno associativo: perché in questo caso l’Opus Dei non sarebbe ancora stato fondato finché non ci fossero stati per lo meno due soci: il Padre e il primo dei suoi figli. Invece l’affermazione che l’Opus Dei fu fondato il 2 ottobre 1928, sempre ribadita da nostro Padre, dimostra con chiarezza che nostro Padre vedeva l’Opera come opera di Dio, e lui era solamente uno strumento con cui Dio l’aveva realizzata. Nel momento in cui Dio nostro Signore prese tra le sue mani questo strumento affinché cominciasse a lavorare e gli fece vedere che cosa voleva, l’Opus Dei era fondato» (Appunti, n. 306, nota 300).
348
117 Meditazione del 2-X-1962.118 Mons. del Portillo trascrive quanto disse il Fondatore nel 1968 su questo momento: “Ho avuto dei presagi fin dagli inizi del 1918. Poi continuavo a “vedere” , ma senza sapere con esattezza che cosa volesse il Signore: “vedevo” che il Signore voleva qualcosa da me. Io pregavo e continuavo a pregare. Il 2 ottobre 1928 viene “l’idea chiara generale” della mia missione. A partire dal 2 ottobre 1928 non ho più avuto le ispirazioni che il Signore mi stava dando” (Appunti, n. 179, nota 193).119 ìbidem.120 Alvaro del Portillo, Sum. 532.121 Lettera 24-111-1930, n. 1.122 Ibidem, n. 2.123 Ibidem.124 Ibidem, n. 12.125 Ibidem, n. 14.126 Appunti, n. 154.127 Ibidem, n. 306.128 Lettera 9-1-1932, n. 9.129 Appunti, n. 290.130 Lettera 25-V-1962, n. 41.131 Lettera 9-1-1932, n. 92.132 Lettera 14-11-1944, n. 1.133 Lettera 9-1-1932, n. 5.134 Appunti, n. 240.135 Lettera 14-11-1974, n. 10.136 Appunti, n. 215.137 Appunti, n. 171.138 Appunti, n. 93.139 Appunti, n. 993.140 Lettera 11-III-1940, n. 32.141 Lettera 29-XII-1947 /14-11-1966, n. 11.142 Era consapevole di avere assunto “un grande impegno divino e umano” (Meditazione del 3-III-1963).143 Pedro Rocamora, AGP, RHF, T-05829, p. 1; Alvaro del Portillo, Sum. 679; José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 1.144 Pedro Rocamora, AGP, RHF, T-05829, pp. 2-3.145 Appunti, n. 410, nota 359 e n. 479, nota 393.- Letteralmente sotanillo significa “cantinetta” (NdT).146 «Raccontami quello che fai. Seguirai alla fine la carriera consolare?»
349
(AGP, IZL, D-1213, lettera n. 3). Secondo la testimonianza di don Josemaria al processo di Beatificazione di Isidoro Zorzano, il Fondatore lo incontrò un giorno a Madrid intorno al 1927, incontro fugace, al quale ne seguirono altri due sulla via Castellana; poi ci fu l’incontro dell’agosto 1930, di cui si parla più oltre nel racconto (cfr Copia Pubblica Transumpti Processum... Servi Dei Isidoro Zorzano Ledesma, anno 1968, voi. IV, foglio 1074). Cfr José Miguel Pero-Sanz: Isidoro Zorzano Ledesma, Milano, 1999.147 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 240.148 Don Norberto Rodrìguez Garcia era nato ad Astorga (Leon) nel 1880 ed era stato ordinato nel 1905. Nell’ottobre 1910 risiedeva già a Madrid con i suoi genitori e svolgeva il suo ministero sacerdotale all’Ospedale Generale. Nel 1914 si ammalò di una forma nervosa. Guarito, ebbe una ricaduta, e fu per un po’ inabile a svolgere incarichi ecclesiastici. Nel settembre 1924 era secondo cappellano del “Patronato de Enfermos” , incarico che tenne fino all’ottobre 1931. In seguito occupò diverse cappellanie di religiose e fu coadiutore in una parrocchia di Madrid. Morì P8-V-1968.149 Asunción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 4.150 Lettera di don José Pou de Foxà a don Josemaria, Avila 4-III-1929 (originale in AGP, RHF, D-15309).151 «L’Opera era già nata, ma allora non ce ne parlava», dichiara Carlos Sànchez del Rio (cfr AGP, RHF, T-02853, 1).152 Cfr Appunti, n. 1476. Nel 1938, quando anni dopo il Fondatore andò a Burgos, don Manuel era segretario del Seminario della città, che era stato Università Pontificia fino al 1931.153 R. Fernàndez su “La prensa gràfica” , San Salvador, 24-X-1973. Don Rafael Fernàndez Claros è stato Canonico Teologo della cattedrale di San Salvador.154 Lettera di don Rafael Fernàndez Claros a don Josemaria, 4-XI-1929 (AGP, RHF, D-15511).155 Lettera di don Rafael Fernàndez Claros a don Josemaria, 20-111-1930 (AGP, RHF, D-15511). Con analoga finalità apostolica don Josemaria si era iscritto con altri sacerdoti a una Pia Unione, come raccontato negli Appunti, n. 536: “Il 12 marzo 1929, giorno di S. Gregorio Magno, don Norberto e io fummo iscritti a Lisieux all’Unione sacerdotale dei fratelli spirituali di Santa Teresina” .156 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 6. Con il tempo - scriveva nel 1931 - arrivò a sentire una necessità incalzante di chiedere preghiere a tutti: “Ho una vera fissazione di chiedere preghiere: a religiose e sacerdoti, a laici devoti, ai miei malati, a tutti chiedo l’elemosina di preghiere per le mie intenzioni, che sono, naturalmente, l’Opera di Dio e le vocazioni per essa” (Appunti, n. 302); e nel 1932: “ Continuo a chiedere preghiere, persino a persone sconosciute, religiose per esempio, che avvicino per strada, chie
350
dendo alla loro bontà l’elemosina spirituale di un “padrenostro” ” (Ibidem, n. 569).157 Cfr Appunti, n. 569, nota 472.158 Cfr Avelino Gómez Ledo, AGP, RHF, T-03714, 2.159 Appunti, n. 195.160 Josefina Santos, AGP, RHF, T-05255, p. 1.161 Appunti, n. 70; cfr ibidem, n. 1594. L’annotazione è dei primi giorni di luglio 1930. Mercedes Reyna O’Farril era una religiosa del “Patronato de Enfermos” morta in fama di santità il 23 gennaio 1929. Il Fondatore si sentì “ spinto ad affidarsi alla sua protezione” fin dalla sua morte, poiché l’aveva assistita negli ultimi giorni (cfr Appunti, nn. 174, 178, ecc.).162 II 31 luglio 1929 iniziò una novena: “Per nove giorni andai al cimitero: a piedi andata e ritorno, dopo aver recitato in ginocchio il santo rosario sulla sua tomba” (Appunti, n. 178). E il giorno successivo, in una lettera a Rosaria Reyna (C 3, l-VIII-1929), diceva: “ Sto facendo una novena a Mercedes (ho cominciato il giorno di S. Ignazio) e vado tutti i giorni alla sua tomba: le chiedo due cose ben precise. Le sarò grato, Signora, se mi aiuterà a importunare sua sorella” .163 Appunti, n. 432; ibidem, n. 1732, nota 1014. Riguardo all’idea del farsi vittima, il Fondatore chiarì in varie occasioni: “Non mi è mai venuto naturale essere o chiamarmi vittima” (ibidem, n. 413, nota 362). “Non ho mai avuto simpatia né per la parola né per il contenuto del vittimismo” (ibidem, nn. 1372 e 1014. Cfr anche ibidem, n. 1380).164 Lettera 29-XII-1947 /14-11-1966, n. 90.165 Appunti, n. 839.166 Meditazione del 19-111-1975.167 Lettera 8-XII-1949, n. 5.168 Lettera 24-XII-1951, n. 249.169 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 19.170 Appunti, n. 306.171 Appunti, n. 179.172 Ibidem, n. 1870. Ancora dopo molti anni gli veniva in mente la propria presunta mancanza di corrispondenza alle grazie fondazionali; e pochi mesi prima della morte si chiedeva: “Quali mezzi ho messo in atto? Non mi sono comportato bene. Sono stato persino codardo...” (Meditazione del 19-111-1975).173 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 16.174 Ibidem, n. 17.175 Lettera 9T-1932, n. 84.La stessa idea si trova in Appunti, n. 373, scritta il 3-XI-1931. Tuttavia, questo pensiero risale a parecchio tempo prima, poiché nello stesso punto il Fondatore affermava di avere già scritto sull’argomento. Poiché nei nu
351
meri precedenti non si trova alcun passo che parli della questione, si deve concludere che l’annotazione facesse parte del primo quaderno di Appunti, poi bruciato e perciò fu scritta prima del marzo 1930.176 Meditazione del 14-11-1964. Nel 1951 aveva espresso lo stesso pensiero nella Lettera 14-IX-1951, n. 3.177 Appunti, n. 1870. Don José Luis Muzquiz ricorda di avergli sentito dire che, nei mesi successivi al 2 ottobre 1928, “non aveva nessun desiderio ^i essere fondatore” e che se avesse trovato qualche organizzazione simile al- l’Opera, “egli vi sarebbe entrato con gioia come soldato sieniplice ̂ (cfr J q- sé Luis Muzquiz, AGP, RHF, T- 0467S/1, pt 118), ^178 Appunti, n. 1870. L’espressione “cpse strana” non è us^ta in senso peggiorativo, ma è riferita a cose in contrasto cqn la naturalezza prQpria dei membri dell’Opus Dei, che sarebbero dovuti essere cittadini e fedeli qualsiasi (cfr Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 17).179 Meditazione del 14-11-1964. Si rese ben presto conto che in Spagna non esistevano istituzioni di questo tipo; ma gli giunsero notizie di nuove fondazioni apparse in altri Paesi: Italia, Svizzera, Germania, Polonia, ecc. (cfr Mons. Alvaro Del Portillo, Sum. 536).180 “Ricomincia l’aiuto speciale, molto concreto, del Signore” (cfr Appunti, n. 179, nota 193).181 Ibidem, n. 475. Poco tempo dopo scriveva ai membri dell’Opera: “Molte volte - benché non sia capace di fare la scena - ho avuto la tentazione, il desiderio, di mettermi in ginocchio per chiedervi perdono, figli miei, perché per la ripugnanza a fondare, nonostante avessi abbondanti motivi di certezza per fondare l’Opera, feci resistenza quanto potei: mi serva di scusante davanti a Dio nostro Signore il fatto che dal 2 ottobre 1928, pur nel bel mezzo di questa mia lotta interiore, ho lavorato per compiere la Santa Volontà di Dio, cominciando il lavoro apostolico dell’Opera. Sono passati tre anni e ora vedo che forse il Signore ha voluto che subissi allora e che ancora continui a provare una completa ripugnanza, perché abbia sempre una prova esterna del fatto che tutto è suo e nulla è mio93 (Lettera 9-1-1932, n. 84).- Anticamente la memoria di Santa Teresa del Bambino Gesù, ora fissata al 1° ottobre, era il 3 ottobre (NdC).182 Queste informazioni gli giungevano attraverso le riviste religiose spagnole. Nel testo del 25-VIII-1930 parlava di qualcosa che stava già facendo da alcuni anni. “Da parecchio tempo, oltre a portare riviste religiose ai malati (“El Mensajero” , “El Iris de Paz” , riviste missionarie e altre di diverse congregazioni), le ho distribuite tranquillamente e senza pudori per la strada: nei quartieri bassi ci fu un periodo in cui non potevo passare per le strade senza che mi chiedessero riviste” (Appunti, n. 86).«Se non ricordo male - dichiara J. L. Muzquiz - disse che gliele aveva date un suo amico, Alejandro Guzmàn» (AGP, RHF, T-04678/1, p. 20).183 Appunti, n. 1870. Mons. del Portillo ricorda che il Fondatore gli parlò molte volte di un vecchio amico e condiscepolo della Facoltà di Diritto di
352
Saragozza, Enrique Luno Pena, che una volta visitò il “Patronato de Enfermos” e che gli parlò dei Paolini, sui quali aveva pubblicato anche un articolo sulla rivista “Acción Social" nel 1928. Per l’articolo: E. Luno Pena, Pan y Catecismo, in La Acción Social, n. 73, Saragozza, 1-1928, 7.Inoltre, nel numero del 1928 di un annuario ecclesiastico che allora aveva grande diffusione in Spagna, apparve un ampio articolo sulla fondazione del Cardinal Ferrari. Cfr P. Voltas, CMF, Hombres y hechos de la Iglesia contemporànea. El Cardenal Ferrari. Su Obra. La Compania de San Fabio, in E. Subirana, op. cit., 1928, pp. 105-128.184 Cfr L. Martmez de Munecas* Un gran Apóstol de la Acción Católica, in “£ / Mensajero Seràfico”, 1-1-1930, pp. 15-16; 16-1-1930, pp. 50-51; e 1- 11-1930, pp. 81-83. In questi articoli si leggeva che, soppressi in Polonia dal governo zarista gli Ordini religiosi, P. Honorato Kozminski di Biala Podlaska aveva promosso vocazioni religiose organizzandole di nascosto: i membri facevano voti, ma vivevano nel mondo senza abiti religiosi e senza vita regolare di comunità. A partire dal 1892 aveva fondato varie Congregazioni religiose, maschili e femminili, per le diverse categorie sociali.P. Laureano Martmez de Munecas era un cappuccino spagnolo che allora risiedeva a Cracovia e lavorava nelle fondazioni di P. Honorato. Successivamente ritornò in Spagna e, nel 1950, fondò la Congregazione delle Missionarie Francescane del Suburbio.185 Appunti, n. 1870.Il Fondatore confidò a José Luis Muzquiz che, dopo aver letto le citate riviste, “ne fui molto tranquillizzato e scrissi che quelle associazioni erano completamente diverse dalla fondazione che il Signore voleva da me; e inoltre che c’era un’altra differenza fondamentale: in quei gruppi c’erano donne, mentre nell’Opera non ci sarebbero state donne” (AGP, RHF, T- 04678/1, p. 20).186 Meditazione del 14-11-1964. Pedro Casciaro attesta che «arrivò a scrivere: “Nell’Opus Dei non ci saranno donne, neppure per scherzo” » (Sum. 6338); e Bianca Fontàn Suanzes dichiara che «all’inizio, il Servo di Dio aveva assicurato che non avrebbe lavorato con donne “neppure per scherzo” » (PM, f. 1061).187 II 2 ottobre 1928, commenta Mons. del Portillo, il Fondatore vide l’O- pera come era e continuerà a essere sino alla fine dei secoli: sacerdoti e laici in cerca della santità mediante il compimento dei loro doveri familiari e sociali, benché senza esplicito riferimento, per allora, al posto che nell’O- pus Dei sarebbe spettato alle donne e alla Società Sacerdotale della Santa Croce (Sum. 537).L’illuminazione che ricevette il 2 ottobre era “ su tutta l’Opera” : nucleo spirituale e messaggio di santità; ma non su dettagli di composizione e di struttura. Per questo, a parer suo, non c’era posto nell’Opera per le donne o, per dirla con le sue parole, “ io non pensavo che nell’Opus Dei ci dovessero essere donne” (Lettera 29-VTI-1965, n. 2); oppure: “Non ci saranno mai donne” . (Il 2 ottobre 1928 ricevette “l’illuminazione su tutta l’Ope
353
ra” ; il 14 febbraio 1930 “colse” , con una nuova grazia di Dio, un altro aspetto di quel panorama).188 Appunti, n. 1871. Una volta, predicando una meditazione, raccontò: “Andavo a casa di un’anziana signora di ottant’anni che si confessava con me per celebrare la Messa nel piccolo oratorio che aveva. E fu lì, dopo la Comunione, durante la Messa, che venne al mondo la Sezione Femminile. Poi, a suo tempo, andai di corsa dal mio confessore, il quale mi disse: questo viene da Dio come il resto” (Meditazione del 14-11-1964). Si noti l’espressione “Poi, a suo tempo” , scritta nel 1964.189 Appunti, n. 1872. Fra i documenti conservati nell’Archivio Generale della Prelatura si trova una lettera di A. Slatri, datata Milano 21-VII-1930, in cui si informava il Fondatore sui Paolini e l’Opera del Card. Ferrari; ci sono anche due lettere di P. Laureano Martmez de las Munecas, datate 4- 11-1932 e l-IV-1932, inviate da Cracovia, sulle fondazioni di P. Honorato in Polonia (cfr AGP, RHF, D-15059 e D-03293).Vista la data, queste lettere non hanno evidentemente nulla a che vedere con la ricerca di un’istituzione simile all’Opera, quale la vide il Fondatore il 2 ottobre 1928, ma solo con questioni di carattere organizzativo e giuridico; in quegli anni, specialmente nel 1932, egli consultò le costituzioni e i regolamenti di altre istituzioni (cfr Appunti, n. 716, del 10-V-1932). Si consultò su alcuni punti pratici anche con altre persone, come P. Sànchez (cfr ibidem, n. 769, del 7-VII-1932) o P. Postius (cfr ibidem, n. 769 del 7- VII-1932 e n. 808, del 12-VIII-1932); ecc.190 Appunti, n. 1871. Nella meditazione del 14-11-1964 disse: “Perché non ci fosse dubbio che fosse Lui a voler compiere la sua Opera, il Signore agiva dall’esterno. Io avevo scritto: non ci saranno mai donne - neppure per scherzo - nell’Opus Dei. E pochi giorni dopo..., il 14 febbraio, affinché si vedesse che non era cosa mia, bensì contro la mia inclinazione e contro la mia volontà” .191 Citato da Alvaro del Portillo, Sum. 537.
354
Capitolo VI
GLI “APPUNTI INTIMI”
1. Perché “Opera di Dio” ?
Da poco meno di due anni gli Escrivà abitavano nell’appartamento di via Ferdinando il Cattolico quando, nel settembre del 1929, la signora Dolores dovette trasferirsi con i figli in via José Maranón. La nuova casa era collegata con il “Patronato de Enfermos” , ma con un ingresso indipendente. Il cambio di casa non fu fatto per desiderio di miglioramento, ma perché l’appartamento era assegnato alla cappellania. Era comodo per una persona ma molto piccolo per una famiglia; aveva il vantaggio che comunicava con l’edificio principale, consentendo al cappellano di recarsi in chiesa senza dover uscire in strada1.
E probabile che la signora Dolores vedesse con maggior frequenza il figlio, anche se è solo una supposizione, se si tiene conto delle crescenti attività del sacerdote. Perché, oltre agli obblighi della cappellania e le corse di assistenza benefica nei vari quartieri per far visita a malati e bisognosi, aveva molte altre cose da fare. A parte il dovere di mantenere decorosamente la madre e i fratelli come era giusto, doveva terminare gli studi per il dottorato in Diritto, ragione della sua venuta a Madrid. Uno dotato di minor brio e ottimismo di don
355
Josemaria si sarebbe scoraggiato sentendosi imprigionato in una rete di impegni sempre più fitta.
Alla retribuzione per il suo incarico di cappellano, insufficiente per soddisfare le necessità della famiglia, si sommavano le entrate provenienti dall’Accademia Cicuéndez e i guadagni di alcune lezioni private2. Nell’insieme tutto ciò non toglieva gli Escrivà dalle ristrettezze che sopportavano con dignità fin dagli anni di Logrono. Il sostentamento della famiglia, sempre problematico, sollecitò la sua inventiva per riuscire a provvedere ai suoi3. Più di un progetto professionale gli era passato per la testa, in un volo passeggero che presto svaniva assorbito com’era dalla esigente e ineludibile missione di fare l’Opera.
Davanti alla pressione divina e all’instabilità delle circostanze familiari, la corda si rompeva dov’era più sottile e cioè negli studi di Diritto. Don Josemaria fece quello che potè e se non fu molto non fu per colpa sua. Il 15 dicembre 1929 presentò un’istanza al Preside della Facoltà per iscriversi agli esami di Storia della letteratura giuridica e di Politica sociale per la sessione di gennaio 19304. Come sempre, i desideri andavano oltre le sue possibilità. Si potè presentare solamente all’esame di Storia della letteratura giuridica e ottenne un Notevole. Quanto alla tesi dottorale, che costituiva il lavoro più impegnativo per il dottorato, si interessò per trovare un tema di ricerca adatto, con il consiglio del suo ex professore Pou de Foxà, al quale scrisse il 7 marzo 1930:
“Avrà ricevuto alcuni giorni fa una lunga lettera. Oggi le scrivo per mandarle questi fogli sui quali ho copiato i documenti di Diritto canonico che ha la Biblioteca Nazionale nella Sezione Manoscritti, per sapere se lei ravvisa il modo di sfruttare qualcuno di questi manoscritti per la mia tesi: facendo, per esempio, un commento o una critica dell’opera, con un prologo, e alla fine, la bibliografia. Se ritiene che nulla di tutto questo mi possa
356
servire, le sarei grato - abusando io, come sempre, del suo affetto e della sua bontà - se mi indicasse un argomento specifico e le fonti”5.
Prese corpo l’argomento di ricerca per il dottorato con la scelta di un tema di Storia del Diritto canonico concernente l’ordinazione di meticci e figli di meticci nell’America spagnola durante l’epoca coloniale6. Due anni più tardi aveva raccolto materiale sufficiente per poterne informare di nuovo Pou de Foxà:
“Pensavo di inviarle un bel po’ di pagine, ma mi è impossibile scrivere altro.Ne parleremo se, alla fine, non potrò evitare il mio viaggio nella città dell’Ebro (...). Se non ci vediamo, in giugno le manderò un chilo di carte: si armi di pazienza per leggerle”7.
Come si vede non gli mancava impegno e buona volontà. Ma gli mancavano altri ingredienti, non meno imprescindibili, per finire il lavoro:
“Non ho soldi”. - scriveva negli Appunti - “Poiché devo lavorare, a volte eccessivamente, per sostenere la mia casa, non mi resta né tempo né stato d’animo per il lavoro del dottorato”8.
In questa frase così breve, detta con tale soavità, sono racchiusi gli oneri materiali che pesavano su don Josemaria, il quale, sprovvisto di mezzi economici, doveva mantenere sé e i suoi familiari con ore extra di lavoro all’Accademia, senza dimenticare i suoi interminabili obblighi di cappellano. Come poteva dedicarsi alla ricerca e allo studio per il dottorato? Oltretutto, non abbiamo ancora ricordato il suo più gioioso e pesante carico.
Portare avanti l’Opera era un compito gravoso. Per quante ore gli dedicasse don Josemaria, erano sempre poche poiché era chiaro che la fondazione richiedeva
357
molta preghiera, molto sacrificio e molto apostolato. Don Josemarìa cercava con tutti i mezzi di ampliare il campo del proprio apostolato. Chiedeva alle Dame e alle signore che cooperavano nel Patronato nomi e indirizzi di giovani, loro parenti o conoscenti. Chiedeva loro con insistenza di pregare per le sue intenzioni spirituali. In questo modo, nel suo andare e venire, nella sua febbrile attività apostolica, il cappellano stava proclamando, se non a parole almeno con i fatti, la novità dell’Opera. E gli rimase sempre il dubbio se le Dame, nell’affaccendarsi del cappellano, avessero mai sospettato l’esistenza di un proposito sconosciuto.
“Ma non vi rendevate conto” - chiedeva loro molti anni dopo don Josemarìa - “quando stavo nel Patronato, quando frequentavo quei ragazzi giovani, che c’era qualcosa...?”9.
Con ingenuità e disorientata dal labirinto del tempo, Josefina Santos confessa:
«Non mi ero resa conto di nulla».
L’apostolato che don Josemarìa andava facendo al- l’Accademia, alla residenza Larra e nel Patronato, con giovani e sacerdoti, ebbe presto occasione di estendersi. Nel 1930 iniziò fra persone dedite ad arti e mestieri, un lavoro analogo a quello che portava avanti con gli studenti. Esso forse ebbe inizio in una missione per persone di svariate professioni organizzata dal Patronato, in cui il cappellano fu incaricato di fare una predica e di confessare il giorno successivo. Era la prima volta che predicava ufficialmente a Madrid davanti a un pubblico di lavoratori. La funzione si svolse nella cosiddetta Cappella del Vescovo, attigua alla chiesa di Sant’Andrea. Don Josemarìa sentì l’emozione di quel momento e si rivolse ai fedeli con parola disadorna, così come gli
358
usciva dal cuore, libera dagli ornamenti retorici e dai gesti ampollosi dell’oratoria tradizionale. Per dominare il nervosismo e non tenere le mani a penzoloni, si aggrappò strettamente alla ringhiera del presbiterio; fissando in viso i presenti, parlò con autentico ardore. Era il 13 giugno 1930.
“Ero presente quando, nella Cappella del Vescovo, un giovane avvocato” - si riferisce a se stesso - “parlava di religione a un centinaio di operai. Gli riuscì molto bene. Ne ebbi grande gioia. Questo sarà (anche se non in luogo sacro) e qualcosa di più...”10.
Dedicò del tempo alla formazione personale di queste persone. Andava a confessarle nei loro centri di riunione e approfittava di ogni incontro per aiutarle11. In questo modo ben presto ebbe un gruppo di lavoratori chelo seguiva: “Al momento ci sono anche, nell’Opera, impiegati e artigiani” , annotava nel dicembre 193012. La chiamata universale alla santità era per persone di tutte le professioni: “I soci che sono artigiani e operai” - continuava la nota - “ devono essere ben consapevoli della bellezza del loro mestiere, davanti a Dio” . E quando, in seguito, aderì al gruppo un pittore, osservò: “La sua vocazione è per l’orazione e per l’arte”13.
>’r *
L’Opera, che nei suoi primi mesi conduceva una “vita di gestazione, non ancora nata, ma attivissima” , cominciava a germinare storicamente14. Con il pudore di una madre alla sua prima gravidanza, scrisse il Fondatore: “L’Opera cresceva al di dentro, non ancora nata, in gestazione: c’era solo apostolato personale” 15. Senza esempi da seguire né sistemi da copiare si rese conto che, a poco a poco, i tratti che delineavano una nuova spiritualità nascevano dalle sue esperienze personali. Per divina ispirazione, le idee e gli schemi di quella che sa
359
rebbe stata l’organizzazione interna dell’Opera si traducevano in note su note, che il Fondatore inseriva poi nei suoi Appunti. Rileggendo ciò che aveva già scritto nel giugno 1930, si meravigliava davanti a tale grandiosità:
“E continuo a riflettere su quanto ho scritto per convincermi subito che ci vuole un’immaginazione da romanziere pazzo da legare o una febbre a quaranta gradi per arrivare, con la ragione umana, a pensare a un’Opera così; se non venisse da Dio, sarebbe il progetto di un tizio ubriaco di superbia”16.
Tuttavia, l’Opera non era stata ancora battezzata giuridicamente. Per il momento agli occhi del Fondatore importava ben poco che essa non avesse nemmeno un nome proprio. Era conosciuta genericamente come “POpera” , così come avrebbe potuto chiamarsi “il lavoro” o “la missione” . Qualcosa che indicasse un compito, una dedizione, un progetto di lavoro apostolico, qualcosa che evocasse l’idea di una preghiera che dalla terra si eleva a Dio a lode del suo nome. Per don Josemaria l’importante era che stava mettendo in pratica il messaggio centrale dell’Opera e che venisse già al suo fianco, o meglio che lui andasse a cercarla, gente di ogni condizione e mestiere per ascoltare la buona novella. Non importava che si trattasse di un pugno di anime, perché da quel piccolo gruppo sarebbe cresciuta con il tempo un’impresa vigorosa e universale. Nella semente era contenuto l’albero del futuro.
Non deve meravigliare il suo silenzio, conoscendo la ripugnanza di don Josemaria per tutto ciò che comportava ostentazione, in conformità con il suo “nascondersi e scomparire” . Lo spiegava egli stesso:
“Non misi all’Opera alcun nome. Avrei desiderato, se fosse stato possibile - non lo era - che non avesse nome, né personalità giuridica (...). Nel frattempo, chiamavamo il nostro lavoro semplicemente così: “L’Opera””17.
360
Questa espressione generica soddisfaceva l’umiltà del Fondatore, che sperava che il Signore, a tempo debito, avrebbe dato il nome appropriato. In ogni caso la sua idea circa il nome era che dovesse rispondere a due caratteristiche peculiari. In primo luogo, che non facesse alcun riferimento alla sua persona, che non fosse collegato a “Escrivà” . E poi che non consentisse di ricavarne degli appellativi per i membri, che erano e dovevano sempre essere fedeli cristiani comuni. La soluzione sarebbe stata quella di trovare un nome astratto18. L’Opera rimase senza un nome specifico per parecchio tempo.
Benché in precedenza don Josemarìa avesse aperto la propria coscienza ad alcuni confessori, in quel periodo non aveva un direttore spirituale19. Perciò non aveva nessuno - scrisse - “al quale aprire l’anima e comunicare nel foro della coscienza la cosa che Gesù mi aveva chiesto”20. Stando così le cose, avendo sentito dire nel Patronato che padre Sànchez si prendeva molta cura dei suoi penitenti, una mattina ai primi di luglio del 1930 si recò alla residenza dei gesuiti di via della Fior per chiedergli di dirigere la sua anima:
“Allora con calma gli parlai dell’Opera e della mia anima. Entrambi abbiamo visto in tutto la mano di Dio. Restammo d’accordo che io gli portassi alcuni fogli - era un pacchetto di fogli in formato un ottavo - sui quali avevo annotato i particolari di tutto il lavoro. Glieli portai. Padre Sànchez andò a Chamartm per un paio di settimane. Al ritorno, mi disse che l’Opera era di Dio e che non aveva difficoltà a essere il mio confessore. Il pacchetto di fogli l’ho bruciato alcuni anni fa. Mi dispiace”21.
A partire da quel momento, la fine di luglio 1930, don Josemarìa ebbe colloqui periodici con il suo nuovo direttore spirituale per trattare non i temi della fondazione, bensì quanto concerneva la sua anima...
361
“Ma ritorniamo al nome della nostra Opera” - ricorda il Fondatore “Un giorno andai a parlare con padre Sànchez, in un parlatorio della residenza della Fior. Gli parlai delle mie cose personali (gli parlavo dell’Opera solo in quanto aveva rapporto con la mia anima) e il buon padre Sànchez alla fine mi domandò: “Come va quest’Opera di Dio?” Per strada, cominciai a pensare: “Opera di Dio. Opus Dei! Opus, operatio..., lavoro di Dio. Questo è il nome che cercavo!” E in seguito si chiamò sempre Opus Dei”22.
Quel nome si adattava a meraviglia all’Opera, che fra i lineamenti essenziali ha la santificazione del lavoro. Il nome compendiava la Teologia della santificazione del lavoro, con tutte le considerazioni che ne derivano: dignità della vocazione del cristiano che vive e lavora nel mondo, possibilità di un incontro personale con Cristo nei nostri compiti di ogni giorno; il lavoro come strumento di apostolato e di corredenzione; la fatica e le attività umane, divenute preghiera e sacrificio, che l’umanità offre al Creatore: “Deo omnis gloria” ; insomma la santificazione del lavoro, che trasforma i figli di Dio in anime contemplative.
Aveva trovato il nome giusto, che aveva il vantaggio, nel suo significato, di essere un nome “astratto, perché non se ne potesse trarre un appellativo comune per i soci dell’Opera”23. Non aveva prima di allora fissata l’attenzione su questo nome nonostante che, in realtà,lo stesse usando già da molto tempo. E padre Sànchez non stava forse ripetendo ciò che aveva letto nei fogli che don Josemaria gli aveva portato in luglio ?
In realtà fu così, perché in uno degli appunti sulla fondazione - probabilmente di fine marzo, ma comunque precedente al giugno 1930 - si legge: “non si tratta di un’opera mia, ma dell’Opera di Dio”24.
La citata relazione sulla domanda del suo confessore fu scritta nel 1948, quando don Josemaria cercò di ri
362
costruire le fonti storiche andate perdute (le aveva bruciate). È evidente che in tale occasione non consultò gli Appunti che si erano salvati, cioè quelli successivi al marzo 1930. Infatti, se lo avesse fatto, vi avrebbe trovata una propria annotazione in data 9 dicembre 1930, nella quale si legge:
“Li'Opera di Dio: oggi mi chiedevo: perché la chiamiamo così? E rispondo per iscritto (...). Il padre Sànchez, nella sua conversazione, riferendosi alla famiglia non ancora nata dell’Opera, la chiamò 1’“Opera di Dio”. Allora - e solo allora - mi resi conto che nei fogli citati la si chiamava così. E questo nome (Opera di Dio!) che sembra un azzardo, un’audacia, quasi una sconvenienza, il Signore volle che fosse scritto la prima volta senza che10 sapessi quello che scrivevo; e volle il Signore metterlo sulle labbra del buon padre Sànchez, affinché non ci fossero dubbi che è Lui che comanda che la sua Opera si chiami così: VOpera di Dio”25.
11 nome gli veniva offerto non dal suo confessore, ma da Dio attraverso il suo confessore. Infatti, come dice chiaramente in questa annotazione, era stato scritto in precedenza rispetto alle date in cui per la prima volta aveva mostrato i suoi appunti a padre Sànchez. Il Fondatore aveva scritto il nome dell’Opera senza rendersi conto della portata di ciò che stava scrivendo.
È chiaro che, benché alcune volte avesse usato quel nome per riferirsi alla sua impresa apostolica, in realtà il nome Opera di Dio - Opus Dei - non era stato coniato come tale. Nel suo significato più profondo era una denominazione azzardata e ambiziosa, pur denotando che non era creazione di uomini. Don Josemaria non la utilizzò, dato che in bocca a lui, in rapporto con il suo “nascondersi e scomparire” , l’espressione sarebbe sembrata presuntuosa. Forse attendeva un segno esterno, che venne quando il Signore lo avvalorò per mezzo di padre Sànchez. Un elemento in più per non dimenticare
363
che l’Opera era cosa di Dio e non una sua invenzione. Il Fondatore dell’Opera si vedeva come uno strumento che Dio umiliava di quando in quando, perché non dimenticasse che le idee gli venivano ispirate dall’alto e non erano solo farina del suo sacco26.
Il nome Opus Dei univa all’essenza dell’Opera - la santificazione del lavoro - l’origine divina della sua nascita.
* * ir
Dev’essere stato verso la fine del 1930 quando don Jose- maria notò che Dio gli chiedeva un maggiore impegno nel compito fondazionale. Per farlo era necessario scovare del tempo libero in giornate totalmente piene di lavoro. I doveri della cappellania e le visite ai malati del Patronato erano il capitolo che gli consumava più tempo. Se avesse lasciato il “Patronato de Enfermos” avrebbe avuto molte ore libere, ma gli si sarebbero presentati altri problemi. Sarebbe stato costretto anche a lasciare l’appartamento del cappellano e a dover aumentare le entrate. Ma non era questo il peggio, quanto le difficoltà che le disposizioni vigenti creavano ai sacerdoti extradiocesani e il rigore delle norme in base alle quali si concedevano loro le facoltà ministeriali. Secondo quanto stabilito dalle autorità ecclesiastiche diventava praticamente impossibile la residenza a Madrid a coloro che non avessero un valido motivo ecclesiastico. Don Josemarìa ricordava la storia di Antonio Pensado, compagno della residenza di Larra, che aveva dovuto abbandonare Madrid.
A Natale del 1930 stava quindi cercando il modo di ottenere un incarico pastorale compatibile con la sua missione divina. Tramite una dama di palazzo, che col- laborava con il Patronato, fu presentato ad alcuni funzionari della Casa Reale27, che gli procurarono un incontro con il Segretario del Patriarca delle Indie, don Pedro Poveda28.
364
Era il 4 febbraio 1931 quando il cappellano andò a far visita a don Pedro, uomo avanti negli anni e dai modi affabili. Don Josemaria gli espose molto brevemente i propri desideri. L’altro promise di appoggiarlo per ottenere la nomina a Cappellano d’Onore di Sua Maestà.
“Di che cosa si tratta?”, domandò il postulante.
Don Pedro gli spiegò che si trattava di un titolo onorario, senza incarichi pastorali di alcun genere, con certi privilegi quanto al vestiario e...
“Ma con questa nomina” - interruppe il cappellano- “posso risolvere il problema della mia incardinatone aMadrid?”
No. Era una nomina meramente onoraria e senza alcun diritto a incardinarsi nella capitale e quindi non risolveva il suo caso e non lo toglieva d’impiccio.
“Allora non m’interessa affatto” , replicò29.
Grande fu la meraviglia di don Pedro nel vedere che un giovane sacerdote rifiutava una carica tanto prestigiosa e ambita dà altri chierici, per la semplice ragione che si voleva incardinare a Madrid per servire le anime. Per questo servizio spirituale - pensava da parte sua don Josemaria - non aveva bisogno di compensi né di titoli. E neppure di denaro. E se Dio si era visibilmente impegnato a spogliarlo di mezzi materiali, non si sarebbe anche preoccupato lui di coprire le spese dell’apostolato?
Poche settimane dopo aver respinto l’offerta del Segretario del Patriarca delle Indie, don Josemaria iniziò un’altra trafila ufficiale. Alcune signore, che collabora- vano anch’esse con il “Patronato de Enfermos”, lo presentarono al Sottosegretario del Ministero di Grazia e
365
Giustizia, dal cui dipartimento dipendevano gli affari ecclesiastici30. Il dignitario in questione, il signor Martì- nez de Velasco, aveva un posto che gli sarebbe andato alla perfezione, adattandosi esattamente ai desideri del cappellano. Promise di contattare quanto prima don Josemaria. Era il 10 aprile 1931. Non ebbero tempo di stabilire la data del colloquio, perché quattro giorni dopo in Spagna veniva proclamata la Repubblica.
Di questo fallito tentativo lasciò scritto nei suoi Appunti: “Dio non l’ha voluto. E a me non importa nulla. Sia benedetto!”31.
2. Le “Caterine”
Questi Appunti intimi ai quali si fa riferimento sono degli scritti di carattere riservato che il Fondatore, per suo esplicito desiderio, volle che non fossero letti prima della sua morte32. Erano scritti antichi e fra essi si trovavano le note che Josemaria portò con sé per leggerle e meditarle durante il ritiro dell’ottobre 1928. Ma, come si è detto, il primo quaderno di note e i foglietti primitivi non ci sono pervenuti, poiché furono distrutti dal loro autore. Gli Appunti che si conservano partono dal secondo quaderno, iniziato nel marzo 1930.
Le annotazioni erano solitamente brevi, su svariati temi, e all’inizio le scrisse per proprio profitto spirituale e per considerarli nell’orazione. Le chiamava Caterine perché, come era stata Santa Caterina da Siena a suo tempo, erano strumento per mantenere e ravvivare la tensione spirituale che tempo addietro avevano suscitato nella sua anima le grazie straordinarie che aveva ricevuto fin dalla sua prima chiamata a Logrono33. Lo avrebbe scritto egli stesso:
“Sono note ingenue - le chiamavo Caterine per devozione alla Santa di Siena - che scrissi per molto tempo stan
366
do in ginocchio e che mi servivano come ricordo e sollecitazione. Credo che, in genere, mentre scrivevo con semplicità puerile, stavo facendo orazione”34.
Gli Appunti, tutti manoscritti, occupano otto quaderni, senza contare quattordici appendici di fogli sciolti. Non sono integri e in più occasioni sono stati sul punto di scomparire. “Ho bruciato” - confessò il loro autore- “uno dei quaderni di appunti miei personali - anni fa- e li avrei bruciati tutti se qualcuno con autorità, e poi la mia stessa coscienza, non me l’avessero vietato”35.
Da quando ebbe come direttore spirituale padre Sànchez, don Josemarìa utilizzò gli Appunti anche allo scopo di manifestargli con maggior chiarezza le disposizioni della propria anima. Nel terzo quaderno, in una annotazione della fine di febbraio 1931, si legge:
“Quando scrivo queste Caterine (così chiamo sempre queste note) lo faccio perché mi sento spinto a conservare non solo le ispirazioni di Dio - credo fermissimamente che siano divine ispirazioni - ma anche cose della vita che sono servite e possono servire per mia utilità spirituale e perché il mio padre confessore mi conosca meglio. Se così non fosse, mille volte avrei strappato e bruciato foglietti e quaderni, per amor proprio (figlio della mia superbia)”36.
A quel tempo, il Fondatore aveva già un piccolo gruppo di persone che lo seguivano, fra cui alcuni studenti, ai quali faceva conoscere lo spirito dell’Opera attraverso il commento che faceva loro di alcune sue annotazioni. Pedro Rocamora, lo studente che gli serviva Messa nel “Patronato de Enfermos” , ricorda che alcune domeniche pomeriggio egli riuniva diversi giovani e leggeva loro alcune pagine di un quaderno con la copertina di tela cerata, oppure commentava loro solo due o tre brevi pensieri37. In questo modo, poiché conservava tra quelle note ispirazioni divine e pensieri sul proprio
367
stato d’animo, era esposto alla possibile indiscrezione di quanti leggevano alcune pagine del quaderno. Ciò lo decise a separare, in seguito, quanto doveva trattare con il proprio confessore da ciò che si riferiva all’Opera e ai suoi apostolati, come scrisse il 10 maggio 1932:
“Sto perdendo la libertà di annotare le mie cose in queste Caterine perché, non essendosi fatta a parte una ricapitolazione di quanto si riferisce all’Opera di Dio, se devo far conoscere l’Opera mi espongo a far conoscere il resto. Per questo, con l’aiuto di Dio, cercherò di fare questo lavoro quest’estate, separando tutto ciò che è personale e che annoto per il mio direttore e per me”38.
Più volte considerò seriamente la possibilità di dar fuoco a tutti i suoi Appunti intimi; ma il confessore glielo aveva proibito. Egli stesso si rendeva conto che l’attestare questi fatti era un modo di vivere l’umiltà e la semplicità, benché gli costasse moltissimo.
“Ci sono parecchi momenti” - diceva a se stesso - “in cui mi infastidisce l’avere scritto o lo scrivere le Caterine.Le brucerei, se non mi fosse stato proibito. Devo proseguire sulla strada della semplicità. Ormai cerco di spersonalizzare tutto ciò che è possibile”39.
Seguendo la strada della semplicità si vedeva obbligato dalla forza delle circostanze a esporre davanti allo stesso interessato, padre Sànchez, le scortesie che ogni tanto gli venivano dal suo confessore.
“Ho scritto questo nei dettagli” - osservò in una delle Caterine in merito a una mancanza di riguardo da parte del confessore - “perché, sicuramente, il P. Sànchez lo dovrà leggere e vedrà che queste piccolezze - che si presentano con relativa frequenza - mi infastidiscono: perciò credo che mi servano molto”40.
368
Ma se passava sotto silenzio i dati che interessavano la sua vita interiore, dove sarebbe andato a finire? “ Ormai le Caterine non hanno più nulla di intimo. Ometto di annotare tante cose!” , lamentò una volta41.
Considerando le cose con obiettività, senza inutili lamentele per quanto si è perduto, gli si deve essere grati che, nonostante tutto, i suoi appunti siano molto generosi e spontanei. Spontanei anche nei momenti in cui l’autore usa cautela, come nella Caterina del 3 dicembre 1931, in cui scrisse:
“Stamane sono ritornato sui miei passi, come un bambinetto, per salutare la Madonna nella sua immagine in via Atocha, sulla parte alta della casa che ha in quel luogo la Congregazione di San Filippo. Mi ero dimenticato di salutarla: quale bambino perde l’occasione di dire a sua Madre che le vuol bene? Signora mia, che io non divenga mai un ex-bambino.Non racconterò più dettagli come questo, perché non accada che, esponendoli ai quattro venti, perda queste grazie”42.
È quando stava per descrivere possibili stati di contemplazione mistica, o altri stupendi fatti soprannaturali, che l’autore degli Appunti ricorreva al silenzio, alla “ spersonalizzazione” , oppure lasciava a metà il racconto: “Ho rinnovato il mio proposito di non scrivere nulla sull’orazione” - ci dice in una Caterina - “a meno che mi venga ordinato o che mi ci veda costretto. Se annoto qualcosa, perché potrà essermi o essere utile, devo togliere i riferimenti personali”43.
Il risultato finale è che, con tali precauzioni, il lettore rimane nel chiaroscuro quanto a fenomeni ed esperienze soprannaturali. Serva d’esempio la Caterina del giorno successivo a quello in cui aveva fatto il proposito di non riferire particolari sulla propria orazione:
“ 12 dicembre 1931. Oggi Gesù mi ha aperto i sensi,
369
durante la recita dell’Ufficio Divino, come poche volte. In pochi attimi, è stata un’ubriacatura”44. E con questo dà per liquidata la faccenda.
La trovata di “ spersonalizzare” , che è adottata spesso nelle Caterine, equivale a presentare i fatti nudi e crudi, senza succo né sostanza, o a volte sfumati nelle parole e nella descrizione, oppure in terza persona. Così annotò il 10 aprile 1932: “Ieri, in un luogo dove si parlava e si sentiva musica, mi venne l’orazione con una consolazione inesplicabile” . Raccontava poi che stava preparando alla prima Comunione le bambine della scuola di Santa Isabel, e terminava lo scritto, senza spiegazioni intermedie, con queste parole: “Subito dopo, l’ubriacatura di Amore: le mie solite sciocchezze!”45.
Naturalmente il lettore si chiederà in che cosa consistesse 1’“ ubriacatura d’Amore” o quali fossero le sue solite “ sciocchezze” . Ma l’autore delle Caterine non dà altre spiegazioni.
Ci sono anche occasioni nelle quali metteva il veto alla “spersonalizzazione” per esprimere ciò che sentiva, come quando scrisse:
“Non voglio astenermi dall’annotarlo, anche se da tempo ho spersonalizzato le Caterine: molte volte, un po’ stanco della lotta (Egli mi perdona), invidio il malato rognoso, abbandonato da tutti in un ospedale: sono sicuro che si guadagna il Cielo molto comodamente”46.
Si può ritenere soddisfatto il lettore da questa descrizione bruscamente interrotta? È bene che prima di rispondere ricordiamo di nuovo quanto detto all’inizio: che per il loro autore, la finalità degli Appunti intimi èlo sfogo per la coscienza e la raccolta di grazie e avvenimenti per portarli alla meditazione. Con tali premesse, noi lettori siamo degli intrusi che entrano furtivamente a curiosare nel segreto di un’anima. Perciò non ci deve sorprendere che si metta al riparo in un guscio di di
370
screzione e di silenzio. Benché in altre occasioni, lo si deve dire, l’autore non cerchi di spersonalizzare gli eventi. Accade semplicemente che la sua penna scorra per vie diverse rispetto alla curiosità o alla comprensione di chi legge la Caterina. Così, per esempio, alla fine di febbraio del 1932 annotava:
“Sabato scorso sono stato al Retiro dalle dodici e mezza all’una e mezza (è la prima volta, da quando sto a Madrid, che mi permetto questo lusso) e cercai di leggere un giornale. L’orazione veniva con tale impeto che, contro la mia volontà, dovevo interrompere la lettura: e allora quanti atti di Amore e di abbandono ha messo Gesù nel mio cuore e sulle mie labbra!”47.
Comprende il lettore che don Josemarìa non si permetteva il lusso di passeggiare per un parco pubblico? Intendeva allora far sapere che si sentiva rapito in orazione? No, si riferiva a qualcosa di più semplice: che cercava di leggere un giornale e non ci riusciva. Basta verificare che nelle ultime righe della precedente Caterina aveva appena annotato le ondate di orazione che lo invadevano quando si metteva a leggere un giornale: “Voglio annotare, perché è piuttosto strano, che spesso Gesù mi concede orazione quando leggo il giornale”48.
(Si può osservare pure che, preoccupato di scrivere l’episodio della lettura del giornale, si dimenticò del proposito precedente di non fare precisazioni, e ancor meno descrizioni, di fenomeni relativi all’orazione).
In generale, tutte le Caterine che verosimilmente si riferiscono a fatti soprannaturali straordinari richiedono, per la loro corretta comprensione, un’ulteriore aggiunta della stessa specie. Vale a dire, una elevazione spirituale che, analogamente all’alzo per le armi da fuoco, compensi in un certo senso l’evidente “ spersonalizzazione” effettuata dall’autore. Così, per esempio, quando parla di lacrime si deve intendere, probabilmente, il dono
371
delle lacrime; e in molte occasioni in cui parla di orazione dobbiamo pensare, secondo il testo, ad un’alta orazione contemplativa. E se, sovente, si dichiara pieno di miserie e di peccati, è perché così si vedeva alla luce delle grazie divine che Dio, per sua misericordia, è solito concedere ai santi. Una conoscenza di sé che li porta alla persuasione di essere grandi peccatori.
E non mancano neppure dei momenti in cui, trascinato dalla semplicità, si comprometteva, come quando annunciava: “Uno di questi giorni cercherò di scrivere delle Caterine con ricordi della mia vita, nella quale si vedono veri miracoli”49. (Naturalmente, non gli capitò mai di dare compimento a questa inopinata promessa).
* * 55-
“Gli scopi di queste Caterine” - riassunse il Fondatore in una di esse - “ sono l’Opera e la mia anima”50. All’Opera si riferiscono le luci fondazionalì sulla sua essenza soprannaturale, le caratteristiche dello spirito, i princìpi del governo e dell’organizzazione. Le ispirazioni ricevute dal Fondatore sull’insieme dell’Opera erano come idee-madri, dalle quali deduceva modi, mezzi e casi pratici. Di carattere generale è, per esempio, la Caterina del 7 ottobre 1931, scritta esattamente un mese dopo che il Signore aveva confermato con una locuzione l’universalità e la perennità dell’Opera:
“Intendo che le caratteristiche dell’Opera di Dio saranno: unità, universalità, ordine e organizzazione”51.
Dalle linee generali il Fondatore passava poi alla prassi, al particolare, alla realizzazione pratica. Tali idee o iniziative apostoliche a volte venivano attuate tal quali al momento opportuno; altre volte venivano ritoccate o corrette, secondo quanto riteneva meglio il Fondatore. Così, per esempio, in una Caterina del 1931:
372
“(...) sarebbe opportuno che i soci leggessero ogni giorno, privatamente, un capitolo del Nuovo Testamento (tutti lo stesso, ogni giorno” )52.
(La lettura del Nuovo Testamento rimase come norma quotidiana di pietà, ma non l’uniformità e la lunghezza dei testi).
Del tutto eccezionalmente era il Signore stesso che fissava esplicitamente i particolari, come appare in una Caterina del dicembre 1931:
“Quando ci riuniamo per parlare espressamente dell’O- pera, prima di iniziare la conversazione diremo: “In nomine Patris, et Filii et Spiritus Sancti. Amen. - Sancta Maria, Sedes sapientiae, ora prò nobis” . Me lo ha chiesto Gesù stamane nella Basilica di Atocha”53.
Negli Appunti intimi si trovano suggerimenti d’ogni genere, non tutti propriamente fondazionali ma comunque inerenti alla vita di pietà, al modo di vestire, agli atti liturgici e all’apostolato54.
Il nocciolo di novità che l’Opera comportava nella teologia ascetica e pastorale si riflette anche nel lessico che il Fondatore usava. La terminologia, l’ininterrotta battaglia con le parole in funzione di una retta comprensione di quanto voleva esprimere, costituì per lui una dura impresa. Perché l’autore delle Caterine intendeva comunicare qualcosa che era essenziale alla natura del messaggio ricevuto (la santificazione in mezzo al mondo); mentre le espressioni del linguaggio ascetico usuale non si adattavano a questa idea e il loro significato tradizionale snaturava ciò che il Fondatore cercava di esprimere. Questo sforzo ininterrotto che si percepisce negli Appunti per ottenere una maggiore chiarezza di espressione si riferisce, in molte occasioni, all’organizzazione dell’Opera e dei suoi membri. Si parla allora per esempio di gradi e di soci, per distinguere la natura e lo spirito laicale dell’Opera da
373
quanto è proprio dei religiosi. Oppure si paragona l’Opus Dei a un Ordine militare in mezzo al mondo, chiamando all’inizio i suoi membri Cavalieri Bianchi o Dame Bianche, nomi che ben presto abbandonò.
A volte la voglia di trovare i vocaboli esatti era condannata al fallimento, dato che non esistevano nel lessico corrente parole che esprimessero una donazione radicale del cristiano al servizio del Signore senza un mutamento della situazione sociale, familiare e professionale. “Volevo trovare una parola castigliana diversa da “vocazione” , che racchiudesse un analogo significato” . La si dovrà indicare con chiamata?, si domandava in una Caterina55.
Da qui deriva che in questi dettagli terminologici, come in molti altri aspetti della fondazione storica, esista una chiara differenza fra ciò che appartiene all’essenza dell’Opera, che il Fondatore ricevette per divina illuminazione il 2 ottobre 1928, e i successivi tentativi umani per la sua messa in opera. L’autore degli Appunti intimi riconosce in anticipo, già nel marzo 1930, cioè fin dalle prime pagine delle Caterine, che “tutte le note scritte in questi fogli sono un germe che assomiglierà all’essere completo così come assomiglia un uovo al gagliardo pollo che uscirà dal suo guscio”56.
51- * *
Le note rimanenti riguardano l’anima del Fondatore e trattano della sua vita interiore, gli stati della sua coscienza e le circostanze esterne in cui svolge l’apostolato e il suo ministero.
La base della conoscenza che egli aveva di se stesso, l’umiltà del Fondatore, partiva da un assioma:
“Pura matematica: José Maria = Asinelio rognoso”57.
Definizione che si trova spesso nelle Caterine, a volte sintetizzata nella sigla b.s. (“ borrico sarnoso” )
374
nelle note per il direttore spirituale. In una Caterina del 9 ottobre 1931 descriveva l’orazione di quel giorno su questo tema:
“Oggi nella mia orazione mi sono confermato nel proposito di farmi santo. So che ci riuscirò: non perché sia sicuro di me stesso, Gesù, ma perché... sono sicuro di Te. Poi ho considerato che sono un asinelio rognoso. E ho chiesto - chiedo - al Signore che guarisca la rogna delle mie miserie con la soave pomata del suo Amore: che l’Amore sia un cauterio che bruci tutte le croste e ripulisca tutta la rogna della mia anima: che io vomiti il mucchio di spazzatura che c’è dentro di me. Poi, ho deciso di essere un asinelio, ma non rognoso. Sono il tuo asinelio, Gesù, che non ha più la rogna. Dico così perché tu mi ripulisca, poiché non mi lascerai mentire... E del tuo asinelio, Bambino Gesù, fa’ quello che vuoi: come i bambini discoli della terra, tirami le orecchie, frusta forte questo asinaccio, fallo correre quanto ti piace... Voglio essere il tuo asinelio, paziente, lavoratore, fedele... Fa’ che il tuo asinelio, Signore, domini la sua povera sensualità di asino, che non risponda recalcitrando allo sprone, che porti con piacere il carico, che il suo pensiero e il suo raglio e il suo lavoro siano impregnati del tuo Amore, tutto per Amore!”58.
Con la stessa franchezza con cui dava sfogo alla propria anima scopriva, a volte, quell’insieme di sentimenti sopiti che tanto ci dicono su di una persona. Quando, per esempio, scriveva: “La morte - Donna Pelata - sarà per te una buona amica” 59, non stava facendo uno scherzo tetro di cattivo gusto. Dava libero sfogo a una sorridente familiarità con la conclusione della vita. In contrasto con questa vena filosofica di buon umore, si svela il ritmo drammatico della sua vita interiore, densa e appassionata:
“Signore! Dammi la virtù dell’ordine, (Credo che sia una virtù, e anche fondamentale; per questo la chiedo).
375
Signore!! Fa’ che sia a tal punto tuo che non entrino nel mio cuore neppure gli affetti più santi, se non attraverso il tuo Cuore piagato.Signore!!! Signore! Fa’ che impari a tacere (perché di tacere non mi sono mai pentito; di parlare, molte volte). Signore!! Fa’ che non ti offenda mai deliberatamente, neppure in modo veniale.Signore! Dammi ogni giorno più amore per la santa purezza, più zelo per le anime, maggior conformità alla tua benedettissima Volontà”60.
Agli Appunti arrivano anche l’eco e gli stridori degli eventi quotidiani di quei giorni, insieme alle questioni della sua famiglia. Le Caterine sono veramente una rete a strascico. Attraverso queste pagine scorrono, frammischiate, esplosioni impetuose di amor divino e dichiarazioni ingenue, come quella del marzo 1934:
“Una notizia fresca: mi sono tagliato i capelli a zero.Che umiliazione essere così grasso!”61.
Espresso in questo modo, con semplice neutralità, il taglio dei capelli ci dice poco. Tuttavia, esso ha implicato per lui una notevole mortificazione, aumentata da quell’incipiente ingrassare, nonostante i grandi digiuni e le penitenze corporali.
Gli Appunti intimi non costituiscono propriamente un diario, né per il contenuto delle pagine né per la discontinuità delle annotazioni che abbracciano essenzialmente il periodo 1930-1940. Ciononostante essi rappresentano un’autentica e inesauribile fonte autobiografica. Nel loro insieme sono pagine di grande ricchezza spirituale, che trasudano da ogni parte grazia divina. L’autore vi appare al naturale, trasparente, con ingenuità da bambino, mezzo nascosto al riparo del riserbo con cui vengono scritti gli appunti. A volte a bassa voce, quasi scusandosi, riferisce particolari minuscoli e deliziosi che forse sarebbero potuti passare inosservati,
376
ma che rivelano un magnifico fondo di virtù e di grandezza di spirito. Altre volte sfuggono lamentele e giubilo, o grida di dolore e di entusiasmo. E l’anima del Fondatore che sovente si sfogava nelle annotazioni.
“Ritengo” - confessava - “che queste Caterine finiscano con l’essere... un millepiedi: cose meravigliose, che sono di Dio, e puerilità e alleluia da monachella sciocca o da fraticello scemo, che sono espansioni della mia povera piccola anima”62.
Da questa varietà di composizione deriva, per ciò stesso, un’invitante e saporitissima lettura. Il fatto è che al di sopra di tutto esiste un invisibile agglutinante autobiografico. Lo stile dell’autore infonde vita e arguzia alle Caterine, qualunque sia il tema che trattano, dandoci l’immediata evidenza di un cuore focoso e innamorato. Si veda, per esempio, la sua indignazione per la trascuratezza nella liturgia e negli oggetti e luoghi sacri:
“Fa pena vedere come preparano gli altari e i presbitèri per la celebrazione delle feste. Oggi, in una scuola ricca, la pala d’altare era piena di ridicoli ornamenti floreali, posti sopra gradini di legno dipinti a metà. Il tabernacolo di solito è messo in tal modo che il sacerdote, anche se è di buona statura, deve sempre salire su un panchetto per aprire, chiudere e per prendere il Signore. Le carte- gloria, in equilibrio instabile... E i sacerdoti pure in equilibrio instabile, perché devono fare vere piroette da charleston per non battere la testa contro una bruttissima lampada di ottone dorato che pende bassissima sul presbiterio o per non finire con il naso per terra, incespicando nelle mille pieghe del tappeto, sistemato sui gradini dell’altare, probabilmente dopo essere stato dismesso per vecchiaia dal salotto di una di quelle bigotte, più colorate di un pappagallo, che vengono di mattina, già ben dipinte, a ricevere nel loro sepolcro, imbiancato e con macchie di carminio, il Signore della semplicità, Gesù. E
377
i canti!... sono tali che si può dire di avere assistito a una Messa, più che cantata, ...ballabile!E meno male se, dietro alla pala d’altare, oltre a una gradinata di legnaccio grezzo, sulla quale ogni giorno passa Cristo in mano al sacerdote per essere esposto, meno male se non c’è un mucchio di ciarpame pieno di polvere che trasforma il luogo santo in un ripostiglio del mercato delle pulci di Madrid. Tutto ciò l’ho visto di persona”63.
Lo stile ricorda molto quello di Teresa di Gesù, per il linguaggio comune, la spontanea semplicità, la scioltezza di espressione. Tuttavia, fra la Vita della santa e gli Appunti intimi esiste una netta diversità. Nonostante la disinvoltura stilistica delle Caterine, quando arriva il momento di descrivere esperienze mistiche personali don Josemaria scantona. Questo comportamento, questa fedeltà alla massima “nascondersi e scomparire”, è il marchio che il Fondatore, per volontà divina, lasciò impresso nell’Opera come caratteristica di predilezione:
“Altre istituzioni” - si legge in una Caterina - “hanno come prova benedetta della predilezione divina il disprezzo, la persecuzione, ecc. L’Opera di Dio avrà questo: passare inosservata”64.
3. La seconda Repubblica spagnola
Il 14 marzo 1931 don Josemaria annotava questo, pensiero: “Che poca cosa è una vita per offrirla a Dio!... e se la vita è di un asino... e di un asinelio rognoso!! (...). Nonostante tutto, mi attendo grandi cose, entro quest’anno 1931”65.
Un mese più tardi, il 14 aprile, in Spagna veniva proclamata la seconda Repubblica. Evento di grande risonanza storica; rumoroso, più che grande. E, naturalmente, non una delle “grandi cose” che egli si attende
378
va. Le “grandi cose” perdurano nel presente divino, mentre l’avvento di nuovi regimi e di rivoluzioni passa presto a costituire un anello morto nella catena degli avvenimenti passati.
Come conseguenza dei risultati delle elezioni municipali del 12 aprile Re Alfonso XIII abbandonò il trono e si esiliò volontariamente per evitare spargimenti di sangue. In un clima di manifestazioni e di tumulti di piazza si costituì un governo provvisorio, messo insieme dai partiti repubblicani. Il vuoto lasciato dal vecchio regime sarebbe stato riempito da un’ondata eccitata di violenze popolari. I politici che avevano conquistato il potere erano quasi tutti nemici dichiarati della Chiesa, e intendevano creare in gran fretta uno stato laicista66. Dalle elezioni generali del 28 giugno 1931, alle quali, in segno di protesta, molti cattolici si astennero dal partecipare, uscì un’Assemblea Costituente che doveva elaborare la nuova Costituzione. I deputati erano per la maggior parte socialisti, massoni e radicali; i loro sentimenti e ideologie erano aggressivamente anticattolici67.
Nel frattempo si verificarono eventi dolorosi. L’11 maggio in tutta Madrid bruciavano, con la passività complice delle autorità e della polizia, conventi, chiese e scuole di insegnamento secondario condotte da religiosi68. La prima chiesa bruciata fu quella della casa professa dei Gesuiti, in via della Fior. Visto l’atteggiamento tollerante verso gli incendiari adottato dal governo nella capitale della nazione, i capoluoghi di provincia non vollero essere da meno. Il vandalismo incendiario si propagò immediatamente a molte altre città: Siv iglia, M alaga, Valencia, M urcia, Alicante, Cadice...69. In tre giorni, dall’11 al 13 maggio, furono bruciati moltissimi edifici, quasi tutti chiese e conventi.
Nel caldo dell’estate in Parlamento fu discusso, senza perdere tempo, un progetto di Costituzione frutto di un laicismo arrabbiato. Progetto incomprensibile sotto il profilo democratico, in un Paese a schiacciante maggio
379
ranza cattolica, ma nel quale era carente la formazione civico-religiosa e sussisteva un forte odio anticlericale, come avrebbe descritto in seguito il Fondatore:
“A quell’epoca - nel 1928 - (...) nonostante l’ambiente religioso e il fondo cattolico della mia patria, gli uomini erano abbastanza lontani da Dio. Nessuno si occupava di loro. Le donne avevano di solito un certo pietismo, quasi sempre privo di basi dottrinali. Gli uomini si vergognavano di essere devoti. Si respirava l’aria dell’Enci- clopedia: e perdurava la triste spinta del XIX secolo”70.
I dibattiti parlamentari sulla questione religiosa s’imperniarono sull’articolo 26, che mirava alla completa sottomissione della Chiesa alle leggi civili, con ogni genere di impedimenti e proibizioni. Si proibiva ai religiosi l’esercizio dell’insegnamento. Si minacciava di nazionalizzare tutti i beni degli Ordini religiosi; e si ordinavalo scioglimento di quanti facessero voto «speciale di obbedienza ad autorità diversa da quella legittima dello Stato» (chiara allusione ai Gesuiti)71. Ben poco potè fare la minoranza cattolica in Parlamento per evitare l’approvazione dell’articolo.
II 9 dicembre veniva promulgata una Costituzione che era un insulto ai sentimenti cattolici e ai diritti della Chiesa. Di fronte a così sfacciato sopruso non si fece attendere la dichiarazione collettiva dei Vescovi, il 20 dicembre 1931, che dichiarava in maniera «pubblica e ufficiale la ferma protesta e la riprovazione collettiva dell’Episcopato per l’attentato giuridico contro la Chiesa perpetrato dalla Costituzione appena promulgata»72.
Così, unilateralmente e senza rispettare il Concordato in vigore, fu provocato l’ingiustificato scontro fra il nuovo Stato e la Chiesa. E l’attacco prese corpo in base a quanto stabilito dalla legislazione attuativa degli articoli della Costituzione. Il 22 gennaio 1932 fu disciolta la Compagnia di Gesù. Subito dopo furono
380
secolarizzati i cimiteri. Quindi fu varata la legge del divorzio. La massima tensione fu raggiunta l’anno successivo quando, il 17 maggio 1933, fu approvata dal Parlamento la legge sulle Confessioni e Congregazioni religiose, in esecuzione dell’articolo 26 della Costituzione. Con questa legge il culto cattolico finiva nelle mani dell’autorità civile; tutti i beni ecclesiastici erano dichiarati di proprietà pubblica nazionale; agli Ordini e Congregazioni veniva proibito l’esercizio dell’insegnamento; e infine lo Stato si riservava il diritto di annullare le nomine ecclesiastiche73.
La risposta fu una nuova lettera collettiva dell’Epi- scopato spagnolo (25 giugno 1933)74 e, da parte della Santa Sede, l’enciclica Dilecfissima nobis (3 giugno 1933) di Pio XI, in cui si legge:
«Non mancammo (...) di far spesse volte presente agli attuali governanti di Spagna quanto era falsa la via da essi seguita e di ricordar loro come non è con il ferire l’anima del popolo nei suoi più profondi e cari sentimenti che si può raggiungere quella concordia di spiriti, la quale è indispensabile per la prosperità di una nazione (...). Ma ora non possiamo non levare nuovamente la nostra voce contro la legge, recentemente approvata, “ intorno alle Confessioni e Congregazioni religiose”, costituendo essa una nuova e più grave offesa non solo alla religione e alla Chiesa, ma anche ai decantati princìpi di libertà civile sui quali dichiara basarsi il nuovo regime spagnolo»75.
I politici e gli intellettuali laicisti spagnoli avevano in mano il controllo del potere e della propaganda. Guidati soltanto dall’odio per la Chiesa, aggravarono la situazione eccitando il rancore delle masse operaie contro le istituzioni religiose e i loro membri76.
Questo, è bene non dimenticarlo, è lo scenario nel quale si muove il Fondatore a partire dal 1931. Questi sono i fatti storici che occorre tenere presenti se si
381
vuole valutare la portata delle sue parole e dei suoi atteggiamenti.
Le pagine più dense degli Appunti intimi corrispondono proprio agli anni della Repubblica (1931-1936). Anche quando la finalità delle annotazioni mirava solamente all’Opera e alla sua anima, i quaderni di appunti sono coinvolti nelle circostanze storiche e i riferimenti alla persona del Fondatore si intersecano con gli eventi pubblici.
* * *
L’avvento della Repubblica (14 aprile 1931) fu uno scossone che risuonò tragicamente nella vita di quel sacerdote, come si legge in una Caterina-.
“La Vergine Immacolata difenda questa povera Spagna! Dio confonda i nemici di nostra Madre la Chiesa! La Repubblica spagnola: Madrid per ventiquattro ore è stata un immenso bordello... Sembra che ora ci sia calma. Ma la massoneria non dorme... Anche il Cuore di Gesù veglia! Questa è la mia speranza. Quante volte, in questi giorni, ho compreso, ho udito le voci potenti del Signore che vuole la sua Opera!”77.
La preoccupazione di don Josemana non era fatta di ragioni politiche. Prendeva gli avvenimenti come venivano, con serenità, al di fuori di valutazioni di parte. Al momento di giudicare fatti di natura politica o sociale, il Fondatore metteva sempre al primo posto il fine soprannaturale delle anime. In questa prospettiva non gli importava tanto il genere di regime, quanto le conseguenze che la politica dei governi avrebbe avuto sulla vita cristiana dei cittadini. E così consigliava di fare a quanti lo seguivano da vicino, chiedendo loro che rivolgessero la mente a Dio, come suggeriva a uno dei suoi seguaci nel maggio 1931:
382
“Carissimo Isidoro, ho ricevuto con molta gioia il tuo scritto, che tutti attendevamo impazienti (...). Notizie: non ti faccia né caldo né freddo il cambiamento politico: ti importi solo che non offendano Dio. E ripara”78.
Il suo istinto non lo ingannava nel ricevere la Repubblica con tanta diffidenza. Lo dimostrarono subito i fatti. La settimana successiva a Madrid incominciavano a bruciare i conventi. Bruciava la chiesa dei Gesuiti e aleggiavano spesse coltri di fumo nel cielo di Madrid quando il cappellano, temendo un assalto alla chiesa del “Patronato de Enfermos” e un sacrilegio, decise di ritirare quanto prima le Ostie consacrate. Parlò con Manuel Romeo, colonnello dell’esercito, che aveva conosciuto a Saragozza e che abitava non lontano, per portare il Santissimo a casa sua. Poi, in abiti borghesi, con un vestito del figlio del colonnello, accompagnato dal fratello Santiago e da un alunno dell’Accademia Ci- cuéndez, entrò nella chiesa del Patronato79.
“Cominciò la persecuzione” - raccontava in una Caterina “Lunedì 11, accompagnato da Manuel Romeo, dopo essermi vestito in borghese con un abito di Colo, mi sono comunicato con la Forma dell’ostensorio e, con una pisside piena di Ostie consacrate avvolta in una veste talare e in un po’ di carta, siamo usciti dal Patronato da Una porta secondaria, come ladri”80.
Il gruppo uscì su via Santa Engracia verso Cuatro Caminos, in silenzio, confondendosi con i passanti. Fra le lacrime, “da solo con Gesù nella pisside” , infiammato dal dolore di espiazione per tanti sacrilegi, egli diceva nel profondo dell’anima: “ Gesù, che ogni incendio sacrilego aumenti il mio incendio di Amore e di Riparazione” 81.
(Depose la pisside in casa dei Romeo; e non fu l’unica volta che dovette ritirare precipitosamente il Signore dal tabernacolo)82.
383
Anticipando il giudizio storico su quanto stava per soffrire la Chiesa in Spagna, definiva i fatti in poche parole: “Accadde che l’inferno si scatenò a Madrid”83. Ciò causò anche il trasferimento degli Escrivà a un nuovo domicilio:
“Il giorno 13 sapemmo che si cercava di bruciare il Patronato: alle quattro del pomeriggio ci recammo con le nostre cose in via Viriato 22, in un brutto appartamento- lato interno - che provvidenzialmente trovai”84.
Si era scatenata una campagna contro la Chiesa. L’anticlericalismo agitava la stampa; questa eccitava le masse e il popolo perseguitava i ministri del Signore85. Ciò che un paio d’anni prima era impensabile, era già possibile alla vigilia della Repubblica:
“Ieri” - scrisse il 22 novembre 1930 - “dal barbiere ho tenuto un comizio, stanco di sentire che prendevano per oro colato le opinioni di quei giornalucoli indecenti che si chiamano “Il Sole” e “La Voce”. Oggi venivo da Cha- martm. Il padre Sànchez mi aveva appena esortato, a proposito di quanto ho appena detto, a non tacere se è per il bene del prossimo, ma a parlare in modo tranquillo, senza intemperanze e senza arrabbiarmi”86.E continua il racconto: Non molto lontano dal negozio del barbiere, camminando verso il Patronato, “giunto presso via del Cisne, in via Fernàndez de la Hoz, sono passato vicino a un gruppo di muratori. Uno di essi, in tono di burla, gridò: la Spagna nera! Udire questo e voltarmi verso di loro, con aria decisa, fu tutt’uno. Mi ricordai di quello che aveva detto il padre e parlai tranquillo, senza arrabbiarmi. Alla fine mi diedero ragione, compreso quello che aveva gridato il quale, insieme a un altro di loro, mi strinse la mano. Questi, di sicuro, non insulteranno più un altro sacerdote”87.
La sua vivacità di carattere difficilmente passava sopra a sconvenienze o grossolanità verso la persona di
384
un sacerdote. Faceva bene padre Sànchez a moderare il temperamento del giovane cappellano. Ma sarebbe ingiusto attribuire gli alterchi al temperamento di don Josemaria, poiché le cose si aggravarono in tal misura dall’avvento della Repubblica che gli incidenti erano all’ordine del giorno.
Tra la fine di luglio e i primi di agosto del 1931 andò a fare la novena davanti alla tomba di Mercedes Reyna, la Dama Apostolica morta in odore di santità, sepolta nel cimitero dell’Est, noto anche come La Almudena. Si può vedere che non si tratta più di episodi isolati:
“Uno di quei giorni” - scriveva — “accanto a una delle due fontane che ci sono sul percorso che va dalla strada di Aragona all’Est, c’era un gruppo di bambini e di donne che facevano la coda per riempire d’acqua brocche, recipienti, bidoni di latta. Dal gruppo dei bambini venne una voce: “Un prete! Prendiamolo a sassate” . Con un moto più veloce della volontà chiusi il breviario che stavo leggendo e li affrontai: “Sfacciati! È questo che vi insegnano le vostre madri?” . E aggiunsi anche altre parole”88.
(Sarebbe interessante sapere quali parole). Da quanto scrisse in occasione di un’altra visita al camposanto, non si trattava solamente di birichinate o di sfacciataggine di bambini:
“Un altro caso: la via di Lista, verso la fine. Questo povero prete veniva, stanco, dalla novena. Un muratore si scosta da un lavoro che stanno facendo e dice, insultante: “Uno scarafaggio, schiacciamolo!”. Molte volte faccio finta di non sentire l’insulto. Questa volta no. “Che coraggioso! - gli dissi- Prendersela con un signore che le passa accanto senza offenderla! E questa la libertà?” . Gli altri lo fecero tacere dandomi ragione, senza parole. Poco oltre un altro muratore volle in qualche modo spiegarmi il perché della condotta del suo compagno:
385
“Non è bello, ma, lo vuol sapere?, è l’odio” . E ne fu soddisfatto ”89.
La demagogia politica aveva spalancato le chiuse dell’odio. Cosa triste per un sacerdote che, nel suo costante peregrinare da un quartiere all’altro della capitale, vi si imbatteva da ogni parte. Ma se servono altri esempi, non doveva scavare molto nella memoria per trascriverli sugli Appunti. Eccone un altro dei giorni della novena:
“Ancora? Ecco. Tranne l’ultimo giorno, credo che negli altri otto rimanenti aspettasse la mia uscita dal cimitero un diavolo con l’aspetto di un ragazzo di dodici o quattordici anni. Questi, quando mi ero allontanato di alcuni passi dal portico del cimitero, intonava con un tono da clarinetto, che arrivava fino al midollo delle ossa, le strofe più canagliesche dell’inno di Riego. - Che sguardi quelli di un operaio che lavorava con altri nella piazzetta che sta davanti al cimitero! Se si potesse assassinare con gli occhi, in questo momento non starei scrivendo le mie Caterine. Ricordo di essere stato guardato così una volta nei viali della periferia. Dio mio! Perché quest’odio per i tuoi?”90.
Le cose peggiorarono. Divennero popolari le sassate non meno degli incendi. Il cappellano ricevette più di una sassata, anche se non ne ha fornito i particolari. Le donne del “Patronato de Enfermos” dovevano armarsi di molto coraggio per continuare le opere di beneficenza. Alcune furono malmenate nel quartiere di Tetuàn: «Le trascinarono per strada, colpendole in testa con un punteruolo da ciabattino. Una di loro, Amparo de Miguel, cercò eroicamente di difendere le altre; le strapparono i capelli e la maltrattarono fino a sfigurarla»91.
Il consiglio sugli eventi storici - “Non ti faccia né caldo né freddo il cambiamento politico: ti importi solo
386
che non offendano Dio”92 - il sacerdote lo applicava interamente a se stesso. Con il risultato che il suo carattere si ribellava; non per i soprusi politici, ma per le offese al Signore. Quindi fece il fermo proposito di placare gli scatti con i quali dimostrava il suo zelo per la casa di Dio. Allo scopo di dominarsi e di riparare s’impose una dura penitenza: non leggere i giornali. In questa battaglia ascetica, che fu un’autentica epopea, non ci furono solo allori. I dibattiti parlamentari sulle faccende religiose sconfiggevano i suoi buoni propositi. Alcune volte ne usciva vincitore, altre volte vinto:
“Letture: al di fuori di quelle di devozione e di studio (...), ultimamente mi ero proibito persino “Il Secolo Futuro” . Il non leggere giornali per me implica di solito una mortificazione non piccola; tuttavia, con la grazia di Dio, vi sono stato fedele sino alla fine della discussione parlamentare della Legge (!) contro le Congregazioni religiose. Che lotte, le mie! Queste epopee le possono capire solo coloro che ci sono passati. Alcune volte, vincitore; la maggior parte delle volte, vinto. - Fatta la storia di questo piccolo evento della mia vita d’ogni giorno, considero la faccenda davanti a Dio nostro Signore e vedo che, dato l’apostolato in cui Egli mi ha messo, ho bisogno di stare al corrente delle cose che accadono nel mondo e, per armonizzare questa necessità con la mortificazione nella lettura, arrivo alle seguenti conclusioni:...” .
(E di seguito, per tenersi al corrente degli accadimenti del mondo, si imponeva una lettura disciplinata, fissando i confini del come e del quando)93.
Anche così, la veemenza del suo zelo per la gloria del Signore lo scuoteva a fondo, come accadde quando fu approvato il famoso articolo 26 della Costituzione:
“Giorno di Santa Teresa di Gesù, 1931. Ieri, quando sono venuto a conoscenza dell’espulsione della Compa
387
gnia di Gesù e degli altri accordi anticattolici del Parlamento, ho sofferto. Avevo mal di testa. Sono stato male fino al pomeriggio. Perché poi al pomeriggio, in borghese, sono salito a Chamartìn con Adolfo: il padre Sànchez e tutti gli altri Gesuiti erano felici di patire persecuzione per il loro voto di obbedienza al Santo Padre. Che cose belle ci ha detto e con quale serenità!”94.
Gli insulti che riceveva per la strada, più che ferirlo,lo alteravano: ardeva di santa indignazione. Dapprincipio non riusciva a passarli sotto silenzio. Poi trovò un rimedio spirituale a burle e volgarità e, senza perdere la serenità, raddoppiò le preghiere per coloro che lo ingiuriavano:
“Proseguono le raffiche di insulti ai sacerdoti” - scriveva al principio di agosto del 1931 - “Ho fatto il proposito, che rinnovo, di tacere anche se m’insultano, anche se mi sputano addosso. Una sera, nella piazza di Cham- berì, mentre mi recavo a casa di Mirasol, qualcuno mi ha tirato in testa una manciata di fango, che quasi mi ha tappato un’orecchia. Non ho fiatato.Anzi: il proposito di cui sto parlando è di “lapidare” questi poveri odiatori a forza di avemarie. Credevo che tale proposito fosse ben solido, ma l’altro ieri non l’ho vissuto per due volte, facendo una chiassata, invece di conservare la mansuetudine”95.
A forza di tenere a bada ingiurie e rispondere con avemarie, creò un nuovo abito nella sua focosa natura. Poche settimane più tardi scrisse questa Caterina:
“ 18-IX-1931. Devo ringraziare il mio Dio per un notevole cambiamento: fino a poco tempo fa, gli insulti e le burle che, per il fatto di essere sacerdote, mi venivano rivolte da quando è venuta la repubblica (prima, rarissime volte), mi facevano reagire con violenza. Mi sono proposto di raccomandarli con un’avemaria alla Santissima Vergine quando avessi udito grossolanità o indecenze.
388
L’ho fatto. Mi è costato. Ora, quando sento parole ignobili, mi intenerisco tutto, come regola generale, considerando la disgrazia di questa povera gente che, così facendo, crede di fare una cosa giusta perché, abusando dell’ignoranza e delle passioni, hanno fatto credere loro che il sacerdote, oltre a essere un pigro parassita, sia loro nemico, complice del borghese che le sfrutta. La tua Opera, Signore, aprirà loro gli occhi!”96.
Non sempre riusciva a mantenere questo atteggiamento. A volte la ribellione interiore erompeva energicamente. Una di queste esplosioni ebbe luogo a motivo dello scioglimento della Compagnia di Gesù, come annotava negli Appunti:
“Il sopruso di cui è stata vittima la Compagnia ha prodotto in me una sensazione fisiologica di stanchezza e, naturalmente, di indignazione. Ho avuto ancora, per questo motivo, un alterco su di un tram. Ora tacerò. La società codarda in cui viviamo è un intreccio di egoismi.La tua Opera, Gesù, la tua Opera!”97.
L’Opera era ancora una creatura “ in gestazione” , una semente divina che stava mettendo radici neU’anima del Fondatore.
In pochi mesi, fra il 1931 e il 1932, si verificò un brusco cambiamento nella vita spagnola. L’odio religioso aveva inasprito la convivenza civile. Nei settori intellettuali si respirava accanimento contro le attività religiose, la pietà e la dottrina; nel frattempo don Jo- semaria cercava di portare avanti l’Opera che il Signore gli chiedeva, sotto lo stendardo del Regnare Chri- sturn volumus.
“È molto bello” - pensava il Fondatore - “quello che Dio vuole; e d’altra parte non capisco, non vedo perché essendo così necessaria, non sia stata intrapresa prima
5 v??98un opera cosi .
389
4. Dal “Patronato de Enfermos” al Patronato di Santa Isabel
Dalle date fondazionali - 2 ottobre 1928 e 14 febbraio 1930 - don Josemaria era uscito fermamente disposto a compiere la volontà di Dio e a cercare la santità, poiché era questo il messaggio che da quel momento in poi doveva predicare a tutti. Desiderio che esprimeva in modo incisivo quando scriveva, nell’aprile 1930:
“Signore, desidero veramente, una volta per tutte, aborrire smisuratamente tutto ciò che abbia sentore di ombra di peccato, anche veniale”99.
In quel primissimo periodo della gestazione comprese che era necessario, prima che l’Opera diventasse di dominio pubblico, maturare interiormente:
“Non è ancora arrivata la mia ora: prima devo imparare a soffrire, devo avere capacità di orazione; ho bisogno di ritiro e di lacrime”100.
Comprese allora che la futura solidità dell’Opera esigeva che il Fondatore stesso seppellisse se stesso nelle fondamenta, con molta preghiera e molta espiazione. Scrisse nell’ottobre 1930:
“Sto considerando - e lo scrivo qui perché poi, leggendolo, me ne convinco a fondo e mi fa bene - che gli edifici materiali, nella loro costruzione, hanno grande somiglianza con quelli spirituali. E così come la banderuola dorata del grande edificio, per quanto brilli e stia in alto, non conta nulla per la solidità della costruzione, mentre viceversa una vecchia pietra squadrata nascosta nelle fondamenta, sottoterra, dove nessuno la vede, è di importanza capitale perché non crolli la casa... anche se non brilla come il misero ornamento dorato là in alto... Così in questo grande edificio che si chiama
390
“l’Opera di Dio” e che riempirà tutto il mondo, non bisogna dare importanza alla banderuola che luccica. Questo verrà! Le fondamenta: da esse dipende la solidità di tutto l’insieme. Fondamenta profonde, molto profonde e salde: le pietre di queste fondamenta sono l’orazione; la malta che le unirà ha solamente un nome: espiazione. Pregare e soffrire, con gioia. Scavare molto in profondità; poiché per un edificio gigante occorre una base anch’essa gigante”101.
Perciò si tracciò un piano di priorità nella sua vita interiore:
“Primo, orazione; poi, espiazione; in terzo luogo, molto in terzo luogo, azione” (novembre 1930)102.
In accordo con questo piano compose una preghiera affinché la recitassero ogni giorno i membri dell’Opus Dei, nome che aveva dato all’Opera poco prima. (A quel tempo, come si vedrà, don Josemaria aveva solo tre seguaci). Ce lo racconta in una Caterina del 10 dicembre 1930:
“In questi giorni stiamo facendo delle copie delle “Pre- ces ab Operis Dei sociis recitandae”. Le ha approvate il mio confessore. Si vede che il Signore, perché così deve essere nel profondo la sua Opera, ha voluto che incominciasse dalla preghiera. Pregare sarà il primo atto ufficiale dei membri dell’Opera di Dio. Per ora il lavoro è personale: ci riuniamo solo per fare orazione”103.
Don Josemaria mendicava preghiere per la strada, come abbiamo detto. Chiedeva agli ammalati che offrissero i propri dolori sull’altare dell’espiazione, poiché aveva una fede indistruttibile che le sofferenze dell’innocente strappano le grazie al Signore e compensano le nostre miserie. Armato di questa fiducia, si attendeva dalla preghiera dei poveri i miracoli del cielo. E non si
391
meravigliava che queste sue suppliche non rimanessero mai senza risposta. Per lui era un fatto comprovato:
“Di questo ho una felice esperienza: quando, senza sentimentalismi, ma con vera fede, ho chiesto al Signore o alla Madonna qualche cosa spirituale (e anche qualcuna materiale) per me o per altri, me l’ha concessa” (10 febbraio 1931)104.
Fra i tanti casi, ricordava la caduta vertiginosa del giornale “Il Sole” e l’apparizione del “ Crogiolo” . Era ricoverata al “Patronato de Enfermos” una povera donna, chiamata Enriqueta. Era mezza scema. Con la sua balbuzie diceva al cappellano: «Padre, le voglio molto bene». Il cappellano le raccomandò di offrire le comunioni per una sua intenzione (che chiudesse “Crogiolo” , il giornale anticlericale).
“La superbia dei sapienti” - scrisse poi negli Appunti - “sarebbe stata confusa dall’umiltà di una povera ignorante. E così è stato. “Crogiolo” è morto. Stanno per editare un altro quotidiano - “Luce” - ma sono sicuro che, se Enriqueta la Tonta continua a pregare, questa lucerna resterà presto senza stoppino”105.
Don Josemaria non smise mai di chiedere preghiere, mendicando dappertutto questa elemosina spirituale, a tal punto, affermava, che era in lui quasi una seconda natura106.
E ne dava le ragioni: “ Sono sicurissimo del potere senza limiti della preghiera (...). La preghiera anticiperà l’ora (l’ora di concludere la gestazione) dell’Opera di Dio. Perché l’orazione è onnipotente” 107. Per lui essa rappresentava l’ossigeno, che non si finisce mai di respirare; o la panacea per ogni genere di mali. Se arrivano fatica e preoccupazioni, un momento di orazione - scrisse - “è lo scacciapensieri per noi che amiamo Gesù” 108.
il- ì ’r
392
Nel frattempo, i tristi avvenimenti politici avevano scosso tutta la Spagna e creato un clima generale di disagio, che si nota dall’interruzione delle Caterine per quasi due mesi. Quando le riprese, in data 15 luglio 1931, il Fondatore scrisse nelle prime righe: “ Quante cose avrei potuto annotare a partire dall’orribile e sacrilego incendio dei conventi! Più avanti ne dirò qualcosa” 109.
È presumibile che con il cambio di casa degli Escrivà la formazione catechetica e la preparazione alla prima Comunione nelle scuole delle Dame Apostoliche e le visite domiciliari ai malati, il lavoro del cappellano fosse enorme. Tuttavia si ha la certezza che le impressioni che smise di annotare nei suoi Appunti durante la primavera del 1931 siano estranee ai fatti politici di quei giorni. Quando scriveva “più avanti ne dirò qualcosa” , non si riferiva a quelle vicende, ma allo stato della sua anima, descritto in una bella pagina del 31 agosto. Quattro anni di lotta a Madrid; poi, l’inondazione di grazie fon- dazionali. E sempre la sua docilità, il suo abbandono nelle braccia del Signore, come il bambino si abbandona sicuro in quelle di suo padre. Dio lo aveva condotto a un’alta orazione di unione, dandogli altezza e ampiezza di orizzonti, attirandolo vicino a Sé:
“Mi vedo come un povero uccellino che, abituato a volare soltanto da albero ad albero o, al più, fino al balcone di un terzo piano..., una sola volta ebbe l’ardire di arrivare fino al tetto di una casetta, che non era proprio un grattacielo... Ma ecco che un’aquila afferra il nostro eroe - lo aveva scambiato per un pulcino della sua razza- e, fra i suoi artigli poderosi, l’uccellino sale, sale molto in alto, oltre le montagne della terra e le vette innevate, oltre le nubi bianche e azzurre e rosa, ancora più su, fino a guardare in faccia il sole... E allora l’aquila, liberando l’uccellino, gli dice: - Forza, vola!...Signore, che io mai più torni a volare rasoterra! Che sia sempre illuminato dai raggi del Sole divino - Cristo -
393
nell’Eucaristia! Che il mio volo non s’interrompa fino atrovare il riposo del tuo Cuore!”110.
Dio gli stava chiedendo da molti mesi di lasciare il “Patronato de Enfermos” per dedicarsi con maggiore intensità all’Opera. Pochi giorni prima dell’avvento della Repubblica sembrava che avesse già risolto il problema, quando si verificò il brusco cambiamento di regime politico e la persecuzione contro la Chiesa. Il luogo fondazionale e apostolico di don Josemarìa stava a Madrid, dove doveva esercitare il proprio ministero sacerdotale, con disponibilità di tempo per dedicarsi all’apostolato specifico dell’Opera. Ma come sacerdote extradiocesano, incespicava nella nota difficoltà di ottenere il permesso e le facoltà dal Vescovo di Madrid.
A questo punto, peraltro, né l’uno né l’altro problema lo preoccupavano, sicuro che Dio avrebbe portato avanti la sua Opera. Don Josemarìa era capace, per salvare un’anima, di esporsi a gravi pericoli: a contrarre una malattia o che non gli venissero rinnovate facilmente le facoltà ministeriali. Di fatto aveva già corso entrambi i rischi. Frequentando i malati aveva rischiato molte volte di contrarre malattie contagiose. Quanto alla sua condizione di giovane sacerdote extradiocesano, si era messo in evidenza in qualche altra occasione, trascinato dall’ardente zelo per le anime. Un giorno, facendo visita ai malati segnalati dal Patronato, lo avvisarono che un giovane tubercolotico aspettava la morte in un bordello, dove abitava sua sorella, una prostituta.Il pericolo di dannazione eterna di quell’anima lo angosciò; chiese e ottenne il permesso dal Vicario Generale di tentare di confessare il moribondo e amministrargli gli ultimi sacramenti. Andò a far visita al malato, insieme ad Alej andrò Guzmàn, ottimo cristiano e già avanti negli anni, dall’aspetto grave, con una bella barba, avvolto in un mantello. Ottenne dalla tenutaria della casa la promessa che nel giorno in cui avrebbe portato il
394
f
Viatico non vi si sarebbero arrecate offese al Signore. Eil giorno stabilito, accompagnato dal Guzmàn, portò la Comunione al tubercolotico111.
La verità è che non era facile per il sacerdote lasciareil “Patronato de Enfermos” , nonostante tante valide ragioni soprannaturali. Con il tempo, il suo cuore aveva messo radici in quel lavoro fra i bambini, i malati e i poveri:
“Sto per lasciare il Patronato. Lo lascio con pena e con gioia. Con pena perché, dopo quattro anni abbondanti di lavoro nell’Opera Apostolica, durante i quali ci ho messo ogni giorno l’anima, posso ben dire che in quella Casa Apostolica ho messo una buona parte del mio cuore... E il cuore non è un rottame inservibile da buttare via in malo modo. Con pena anche perché un altro sacerdote, nella stessa situazione, nel corso di questi anni si sarebbe fatto santo. Io, invece... Con gioia, perché non ce la faccio più! Sono convinto che Dio non mi vuole più in quest’Opera: lì mi annichilo, mi annullo. Intendo sul piano fisico: di questo passo finirei con l’ammalarmi e quindi a non poter svolgere lavoro intellettuale”112.
Non trovava il modo di lasciare il Patronato e fu il Signore che gli risolse la faccenda, a quanto riferì negli Appunti:
“Non termino queste righe senza aggiungere che è statoil Signore a mettere il punto finale. Io andavo chiedendo nella Santa Messa che si sistemassero le cose per poter smettere di lavorare nel Patronato. Credo che sia stato il quinto giorno di questa petizione quando il Signore mi ascoltò: è stato lui, non v’è dubbio, perché esaudì ampiamente la mia supplica... La concessione fu accompagnata da umiliazione, ingiustizia e disprezzo. Sia benedetto! (...). Nel giorno di Sant’Efrem il Signore mi concesse di lasciare le Dame Apostoliche”113.
395
Non sappiamo in che cosa fosse consistita l’umiliazione, nel momento in cui si svincolò dal Patronato. Ma la decisione presa era già di dominio pubblico se un religioso della Sacra Famiglia, Luis Tallada, scrisse a don Josemarfa alla fine di giugno: «Ho saputo da una lettera dei Padri che Ella stava per lasciare il Patronato. La notizia in parte mi ha sorpreso, come Lei può immaginare, e prevedo che sarà difficile per Donna Luz trovare un sostituto che possa riempire il vuoto che la separazione da Lei determinerà in quella simpatica opera. Non abbondano le persone con spirito di sacrificio e di abnegazione »114.
La festa di Sant’Efrem cadeva il 18 giugno. Peraltro, l’ex cappellano continuò a prestare i suoi servizi nel Patronato per dare tempo alle Dame di trovare un sostituto. In mezzo ai torbidi di quella instabilità sociale non era facile coprire il posto vacante. Per quattro mesi, dal giugno all’ottobre, rimase a fare il cappellano e visitare malati. Gli costava andarsene di lì, dove aveva buona parte del suo cuore e dove aveva la possibilità di alleviare e offrire le sofferenze del prossimo per muovere a compassione il Signore: “Penso che alcuni malati, fra quelli che ho assistito fino alla morte durante i miei anni apostolici (!), facciano forza al Cuore di Gesù” 115, meditava fra sé.
Si sarebbero assuefatte le Dame all’idea che da allora in poi non avrebbero più avuto un cappellano disponibile per i casi difficili? Il giorno del commiato definitivo, il 28 ottobre, ebbe una piccola contrarietà che colpì molto la sua sensibilità. Forse un commento ingiusto dietro le spalle e di cui si rese conto in seguito, facendo visita ai marchesi di Miravalles116.
Aveva senso il passaggio dal “Patronato de Enfer- mos” al Patronato di Santa Isabel, nel quale don Jose- marìa si vide impegnato all’ultimo momento e con il quale non risolveva la precaria vita economica della famiglia? Lasciava un posto fisso, anche se assorbente e
396
poco retribuito, per entrare come cappellano interinale in un convento, senza nomina ufficiale e “ senza ricevere alcuna retribuzione” 117.
Del passaggio a Santa Isabel non era interamente responsabile don Josemaria; e non fu affatto una decisione ponderata. Fu piuttosto la conseguenza delle circostanze politiche e, lo si deve riconoscere, dell’estrema generosità del giovane sacerdote. Infatti accadde che, dopo aver lasciato ufficialmente il “Patronato de Enfer- mos” senza tuttavia abbandonarne il servizio, ebbe notizia della situazione precaria in cui si trovavano le religiose agostiniane del convento di Santa Isabel. Ormai da parecchio tempo il loro cappellano, don José Ci- cuéndez, era malato. Lo avevano supplito i padri Agostiniani Recolletti. Tutto era andato bene fino all’avvento della Repubblica, quando per quei buoni religiosi tutto era divenuto più complicato. Per recarsi dalle monache dovevano attraversare tutto il parco del Retiro, o attraversare strade sterrate e scendere, presso il muro di cinta del Giardino Botanico, fino ad Atocha, per risalire poi per via Santa Isabel. Zona solitaria, di sobborghi o terreno aperto, non molto raccomandabile per chi vestiva un abito talare118.
I terreni che occupava il convento di Santa Isabel erano compresi nella proprietà di campagna del segretario di Filippo II, Antonio Pérez. Dopo che i beni di costui erano stati confiscati dalla Corona, nel 1595 nella proprietà era sorta una scuola per bambini poveri, orfani e abbandonati. Alla quale, in onore della principessa Isabel Clara Eugenia, fu dato il nome di Santa Elisabetta, regina di Ungheria.
Vi si trasferì anche, nel 1610, il monastero delle Agostiniane Recollette della Visitazione di Nostra Signora, fondato a Madrid nel 1589 dal beato frate Alonso de Orozco. Le monache agostiniane abitarono parte della scuola e si occuparono delle bambine. Passarono dei secoli e, dopo non poche vicissitudini
397
storiche, dal 1876 erano le religiose dell’Assunzione a condurre la scuola119.
Nel 1931 le due istituzioni - il Collegio delle Religiose dell’Assunzione e il Convento delle Agostiniane Recollette - formavano il Reale Patronato di Santa Isa- bel. Con l’avvento della Repubblica era stata nominata una Commissione dipendente dal Governo per amministrare tutti i Patronati che erano stati legati alla Corona. Le autorità civili repubblicane quindi, senza tener conto dell’autorità ecclesiastica, avocarono a sé la provvista di posti nei Patronati120. D ’altro lato, l’antica Giurisdizione ecclesiastica Palatina, della quale don Gabriel Palmer era Vicario Generale, continuò a funzionare finché fu soppressa dalla Santa Sede, che nel 1933 ne trasferì le attribuzioni al Vescovo di M adrid-Alcalà121.
Questa è, a grandi linee, la storia dei Patronati che un tempo dipendevano dalla Cappella Reale. Il monastero delle Agostiniane e il collegio dell’Assunzione attraversarono nel periodo repubblicano altre difficoltà oltre a quelle meramente giuridiche. Fin da tempi remoti, il Patronato di Santa Isabel contava su un Rettore e due cappellani per la cura spirituale delle monache. Mail fatto è che le cappellanie, che per secoli non avevano creato problemi, si trovavano in una situazione deplorevole e le monache erano senza assistenza spirituale. In effetti, il 16 giugno 1931 cessava dal suo incarico il Rettore don Buenaventura Gutiérrez Sanjuàn, tolto dai ruoli di servizio per Ordinanza Ministeriale122. Il primo cappellano, don José Cicuéndez, era assente per malattia dal dicembre 1930123. Quanto al secondo cappellano, don Juan Causapié, era da tempo passato a un altro Patronato Reale, quello di “Nuestra Senora del Buen Suceso” , di cui era stato nominato Rettore Amministratore interinale il 9 luglio 1931124.
In una situazione tanto desolante e dopo aver atteso al convento un sacerdote per un paio di settimane, le
398
f
monache di Santa Isabel cercarono di assicurarsi quello che consideravano un aiuto piovuto dal cielo. Decisero in fretta e furia di nominare cappellano don Josemaria, come egli raccontava negli Appunti il 13 agosto 1931:
“In questi giorni le monachelle di Santa Isabel - di quello che fu Patronato Reale - cercano di ottenere la mia nomina come cappellano di quella Santa Casa. Umanamente parlando, anche per l’Opera, credo che mi convenga. Ma me ne sto tranquillo. Non cerco neppure una raccomandazione. Se il mio Padre Celeste sa che sarà per la sua gloria, sistemerà lui la faccenda”125.
La cappellania gli avrebbe procurato continuità ecclesiastica per risiedere a Madrid, il che rappresentava un grande vantaggio per il Fondatore e per i suoi apostolati. Comunque gli sembrava cosa più perfetta non andare in cerca di raccomandazioni. Ma da questo atteggiamento di passivo abbandono nelle mani di Diolo tolse il suo direttore spirituale, padre Sànchez Ruiz, che gli consigliò di interessarsi attivamente della faccenda. Da quanto si può arguire dalle annotazioni di questi mesi negli Appunti, le speranze di ottenere il posto apparivano e scomparivano, come le anse dei meandri di un fiume.
Il 21 settembre non erano definite le pratiche con le autorità civili, ma finalmente don Josemaria potè annotare, con gioia e consolazione:
“Giorno di S. Matteo, 1931. Ho celebrato per la prima volta la Santa Messa in Santa Isabel. Tutto per la gloria di Dio”126.
Di fatto, così era già cappellano di Santa Isabel, il che risolveva almeno in parte i suoi problemi di sacerdote extradiocesano. Ma l’ottenere una nomina ufficiale dalle autorità civili era un’altra questione. Continuò a darsi da fare durante l’autunno.
399
Padre Sànchez insisteva con lui perché si impegnasse al massimo per ottenere definitivamente la cappellania. Don Josemaria seguiva docilmente il parere del suo confessore. Alcune volte trovava provvidenziale il corso che prendevano le cose, quando qualcuno si offriva di dargli una mano. Altre volte arrivava alla conclusione che la faccenda si complicava sempre più. “ Sembra che il demonio si metta a complicare la faccenda di Santa Isabel, come se gli dispiacesse molto” , annotava il 12 novembre127. Fu davvero provvidenziale constatare, la settimana successiva, di avere evitato di essere espulso dalla diocesi di Madrid. In effetti, come cappellano di Santa Isabel, ora era passato sotto la giurisdizione ecclesiastica palatina, trattandosi di un posto in un antico Patronato Reale. Proprio in quei giorni il Vescovo di Madrid stava rispedendo alle diocesi d’origine i chierici extradiocesani, stando a quanto leggiamo negli Appunti:
“Un’altra delicatezza di Gesù verso il suo asinelio: da queste Caterine si deduce che ora appartengo alla giurisdizione del Sig. Patriarca delle Indie. Ora, si sa cheil Sig. Vescovo di Madrid fa firmare a tutti i sacerdoti della capitale dei fogli che, secondo quanto afferma pubblicamente, non hanno altro scopo che di inviare alle loro rispettive diocesi i signori Preti che non siano di questa diocesi di Madrid-Alcalà. Naturalmente, da come Dio ha disposto le cose, tutto questo non mi riguarda”128.
Dalla sera al mattino, senza sforzo da parte sua, don Josemaria si vedeva quindi garantita la permanenza a Madrid. Quanto a ottenere dal governo la nomina ufficiale retribuita, egli chiedeva al Signore “che, purché convenga per l’Opera, mi procuri questa sistemazione. Ma se mi dovesse allontanare, sia pure di un millimetro, non la voglio né la chiedo”129.
400
5. Nuove luci fondazionali
Nel momento in cui sistemava le cose per tenere il Fondatore più vicino alla Croce temprando la sua anima nel dolore, Dio stava anche levigando lo strumento che doveva portare a compimento i piani divini sull’Opus Dei. Durante l’estate del 1931, in mezzo a grandi tribolazioni, don Josemaria ricevette nuove luci sul messaggio centrale della dottrina e dello spirito dell’Opus Dei. Illuminazioni che gli facevano comprendere aspetti già impliciti nell’essenza dell’Opera. Dio lo assisteva così nei suoi compiti fondazionali, dandogli la falsariga per la loro realizzazione, persino nei particolari.
Quando i suoi fratelli si recarono a Fonz per passarvi le vacanze estive, don Josemaria rimase solo con sua madre nell’appartamento di via Viriato, dove si era stabilito dopo aver lasciato l’abitazione annessa al “Patronato de Enfermos” . Fu allora che il Signore cominciò a operare le “grandi cose” presagite dalla sua anima mesi addietro. Una di esse ebbe luogo il 7 agosto 1931. L’accaduto affiora in una lettera del 1947:
“Mi vergogno” - confessava prima di iniziarne la relazione - “ma ve lo scrivo, adempiendo alle indicazioni che ho ricevuto: poche cose di questo genere vi racconterò” . E proseguiva:“Il giorno della Trasfigurazione, mentre celebravo la santa Messa nel “Patronato de Enfermos” in un altare laterale, mentre alzavo l’Ostia ci fu un’altra voce senza suono di parole.Una voce, come sempre, perfetta e chiara: Et ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsuml (Gv 12,32). E il concetto preciso: non è nel senso in cui lo dice la Scrittura; te lo dico nel senso che mi mettiate in cima a tutte le attività umane; che, in tutti i luoghi del mondo, ci siano dei cristiani con una dedizione personale e liberrima, che siano altri Cristi”130.
401
È chiaro che, se non fosse esistita un’annotazione su quanto accaduto quel giorno, sarebbe difficile calibrareil fatto in senso soprannaturale, perché il pudore non consentiva al sacerdote che una confessione a metà. Orbene, ecco la Caterina relativa a quel giorno:
“7 agosto 1931. Questa diocesi celebra oggi la festa della Trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo. Nel formulare le intenzioni della santa Messa, mi sono reso conto del cambiamento interiore operato da Dio in me, in questi anni di residenza nella ex-Corte... Un cambiamento avvenuto nonostante me stesso: senza la mia cooperazione, posso dire. Credo di aver rinnovato il proposito di indirizzare tutta la mia vita al compimento della Volontà divina: l’Opera di Dio. (Proposito che rinnovo in questo istante con tutta l’anima). Giunse il momento della Consacrazione: nell’alzare la Sacra Ostia, senza perdere il dovuto raccoglimento, senza distrarmi- avevo appena fatto mentalmente l’offerta all’Amore misericordioso - si presentò al mio pensiero, con forza e chiarezza straordinarie, quel passo della Scrittura: “et si exaltatus fuero a terra, omnia trabam ad me ipsum” (Gv 12,32). In genere, di fronte al soprannaturale, ho paura. Poi viene il “ne timeas! sono Io”. E compresi che saranno gli uomini e le donne di Dio ad innalzare la Croce con la dottrina di Cristo sul pinnacolo di tutte le attività umane... E vidi il Signore trionfare e attrarre a sé tutte le cose.Pur sentendomi vuoto di virtù e di scienza (l’umiltà è la verità..., senza fronzoli), vorrei scrivere dei libri di fuoco e farli correre per il mondo come una fiamma viva, che dia luce e calore agli uomini e trasformare tanti poveri cuori in braci ardenti per offrirli a Gesù come rubini della sua corona di Re”131.
Questa nuova luce era una grazia specifica che confermava il messaggio del 2 ottobre, sottolineando il valore del lavoro professionale all’interno dello spirito dell’Opera, come mezzo di santificazione e di apostola
402
to132. Nello stesso tempo viene messa in risalto la funzione del lavoro nell’economia della Redenzione, come eco del “ricapitolare tutte le cose in Cristo” di cui scrive S. Paolo agli Efesini133.
Cristo, innalzato sulla croce per essere guardato dagli uomini, è segno di salvezza per molti. La guarigione redentiva dell’umanità guastata dal peccato dei nostri progenitori nel paradiso terrestre era già prefigurata dal serpente di bronzo che Mosè fece innalzare perché fossero risanati quanti erano stati morsi dai serpenti nel deserto.
Così pure Cristo, inchiodato sulla croce, oggetto delle burle dei nemici e del dolore degli amici, è segno di contraddizione per molti. Ma non sta in questa visione del Salvatore, condannato a morte e vittima sul Calvario, il significato della locuzione ricevuta da don Josemaria nella festa della Trasfigurazione, bensì nel fatto che Egli vuole che si stabilisca il dominio del suo amore attraverso le attività degli uomini. Affiora di nuovo sulle labbra del Fondatore il “regnare Christum volumus” : mettere ai piedi di Cristo tutte le attività degli uomini, il prodotto dei loro sforzi e la creatività della loro intelligenza, come piedistallo di lode (“Deo omnis gloria” ), affinché regni sulle volontà degli uomini e domini tutto il creato.
La potenza creativa dell’uomo, partecipazione del potere creatore di Dio, si mette in evidenza nella sua vocazione umana, nella sua vocazione professionale. E allora che lo spirito di laboriosità, alla ricerca dell’opera perfetta da offrire a Dio applicandosi al lavoro con la massima intensità, lo trasforma in mezzo di santificazione e di apostolato. Perciò, consacrando a Dio le opere delle nostre mani e della nostra intelligenza, eleviamo la vocazione umana all’ordine soprannaturale; operazione che, per azione della grazia, racchiude un effetto santificante che avvicina il cielo alla terra. Così realizziamo davvero la riconciliazione di tutte le cose con Dio; perché, dall’interno del mondo, l’intera crea
403
zione sarà attratta dalla Croce verso l’alto, per essere offerta da Cristo al Padre.
Il lavoro per il cristiano non è solamente un obbligo familiare o un dovere verso la società. Il lavoro ci inserisce in pieno nell’economia della Redenzione ed è strumento apostolico per partecipare alla missione salvifica della Chiesa, secondo quanto diceva il Fondatore:
“Considerando la grandezza del nostro compito apostolico in mezzo alle attività umane, cerco di tenere presenti nella memoria, accanto alle scene della morte - del trionfo, della vittoria - di Gesù sulla Croce, alcune sue parole: et ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum (Gv 12,32)-, quando sarò innalzato sopra la terra, attirerò tutto a me.Uniti a Cristo mediante l’orazione e la mortificazione nel nostro lavoro di ogni giorno, nelle mille circostanze umane della nostra vita semplice di cristiani comuni, compiremo la meraviglia di mettere tutte le cose ai piedi del Signore, innalzato sulla Croce, dove si è lasciato inchiodare dall’amore per il mondo e per gli uomini.In questo modo tanto semplice, lavorando e amando nei compiti propri della nostra professione o mestiere,10 stesso che facevamo quando Egli ci è venuto a cercare, adempiamo l’impegno apostolico di mettere Cristo in cima e nella profondità di tutte le attività degli uomini: perché nessuna delle attività oneste è esclusa dall’ambito del nostro lavoro che diventa manifestazione dell’amore redentore di Cristo.In questo modo, il lavoro è per noi non solo il mezzo naturale per provvedere alle necessità economiche e per stare in logica e normale comunità di vita con gli altri uomini, ma è anche - e soprattutto - il mezzo specifico di santificazione personale che Dio nostro Padre ci ha indicato è il grande strumento di apostolato e di santificazione che ci ha messo a disposizione per fare in modo che in tutto il creato risplenda l’ordine da Lui voluto.11 lavoro, che deve accompagnare la vita dell’uomo sulla terra (cfr Gn 2,15), è per noi nello stesso tempo - e in
404
grado massimo, perché alle esigenze naturali se ne uniscono altre di ordine prettamente soprannaturale - il punto d’incontro della nostra volontà con la volontà salvifica del Padre celeste”134.
i r * *
Fin dall’inizio il Signore aveva mostrato al Fondatore l’Opus Dei come un disegno di portata universale, cattolica. Non a caso una Caterina del 2 ottobre 1930 affermava, con fede assoluta, che l’Opera di Dio “riempirà il mondo intero” 135.
In quei giorni dell’estate 1931 l’anima di don Jose- maria - come spiegheremo più avanti - era immersa in grandi tribolazioni. Di esse il Signore si serviva per purificarne gli affetti e condurlo a un totale abbandono nella Provvidenza, benché all’intorno le circostanze storiche fossero davvero calamitose. Nonostante tutto, don Josemaria non incrociò le braccia in attesa di tempi più propizi. La missione che gli era stata affidata lo incalzava. In seguito, ricordando questi anni in cui il Signore lo pressava perché vivesse esclusivamente di fede, lasciò testimonianza scritta dell’aiuto divino:
“I primi passi, in verità, non sono stati per nulla facili. Ma il Signore, tutte le volte che era necessario - non parlo di miracolismi, ma del modo abituale con cui il Padre del Cielo tratta i propri figli quando sono anime contemplative -, è accorso sempre a darci la fortezza soprannaturale (...). E fece udire la sua locuzione chiara, intorno all’anno trenta, non una ma molte volte, dicendo: et fui tecum in omnibus ubicumque ambulasti! (2 Re 7,9), sono stato e sarò con te dovunque tu vada”136.
Questa locuzione era stata descritta nei suoi Appunti l’8 settembre 1931, festa della Natività della Madonna:
“Ieri pomeriggio, alle tre, mi sono recato sul presbiterio della chiesa del Patronato a fare un po’ di orazione da
405
vanti al Santissimo Sacramento. Non ne avevo voglia. Ma lì restai, come un fantoccio. Talora, ritornando in me, pensavo: Tu vedi, buon Gesù, che se sto qui è per Te, per farti piacere. Nulla. La mia immaginazione andava a briglia sciolta, lungi dal corpo e dalla volontà, allo stesso modo in cui un cane fedele, sdraiato ai piedi del padrone, dormicchia sognando corse e caccia e amiconi (cani come lui) e si agita e guaisce in sordina... ma senza staccarsi dal suo padrone. Così stavo io, proprio come un cane, quando mi resi conto che, senza volerlo, ripetevo delle parole latine cui non avevo mai fatto caso e che non avevo motivo di serbare nella memoria. Persino ora, per ricordarle, dovrò leggerle sulla scheda che porto sempre in tasca per segnarmi ciò che Dio vuole. (Sul foglietto di cui sto parlando, mosso istintivamente dall’abitudine annotai, lì nel presbiterio, quella frase, senza darle importanza): così dicono le parole della Scrittura che mi trovai sulle labbra: “Et fui tecurn in omnibus ubicumque ambulasti, firmans regnum tuum in aeternum”. Applicai l’intelligenza al senso della frase, ripetendola adagio. E ieri pomeriggio, e oggi stesso, quando ho riletto queste parole (poiché, ripeto, quasi che Dio si fosse impegnato a confermarmi che erano sue, non le ricordo da una volta all’altra) ho compreso bene che Cristo Gesù voleva dirmi, per nostra consolazione, che l3Opera di Dio starà con Lui in ogni luogo,
■ consolidando il regno di Gesù Cristo per sempre”137.
Con queste parole divine veniva confermato il carattere universale e perenne dell’Opera, al servizio della Chiesa. Il Signore gli faceva capire così l’ininterrotta continuità della missione dell’Opus Dei sulla terra. Fortificato da questa locuzione, il 9 gennaio 1932 il Fondatore scriveva per tutti i membri dell’Opus Dei (quei pochi di allora e l’immensa moltitudine che egli si attendeva), con assoluta fede soprannaturale nell’impresa divina:
“Abbiate pertanto l’assoluta sicurezza che l’Opera compirà sempre con divina efficacia la propria missione;
406
perseguirà sempre il fine per il quale il Signore l’ha voluta sulla terra; sarà con la grazia divina - per tutti i secoli - uno strumento meraviglioso per la gloria di Dio: sit gloria Domini in aeternum! ('Sai 104,3\) " l3S.
Di fronte alla situazione storica di sommovimento quasi rivoluzionario nel quale si trovava sommerso, il Fondatore confermava i suoi sull’origine soprannaturale dell’Opera, facendo loro vedere che non si trattava di un’istituzione o di un’organizzazione apostolica passeggera, provocata dalla persecuzione religiosa in Spagna. L’Opera non veniva a colmare una necessità del momento per poi scomparire come altre organizzazioni, una volta restaurata la pace politica e sociale. Nel secolo XIX, e anche nel XX, erano stati molti gli istituti nati in occasione delle persecuzioni religiose e che venivano a colmare un vuoto, a svolgere le attività pastorali precedentemente svolte dagli Ordini e dalle Congregazioni espulse dai vari Paesi.
La loro vita era destinata ad essere effimera, fino ad esaurimento delle circostanze che le avevano rese necessarie. In una Caterina egli chiariva che con l’Opera non sarebbe accaduto:
“Mentre vedremo cadere grandi “apostolati” tumultuosi, che ora suscitano fervore ed entusiasmi umani, l’Opera di Dio, sempre più forte e vigorosa, durerà sino alla fine”139.
Ancora risuonava nell’anima del Fondatore l’eco della locuzione del 7 settembre, quando il 14 dello stesso mese il Signore gli mostrò la via della perennità dell’Opera: l’identificazione dei suoi membri con Gesù Cristo nell’umiliazione della Croce:
“Festa dell’Esaltazione della Santa Croce, 1931. Che gioia mi ha dato l’epistola di oggi! In essa lo Spirito Santo, tramite S. Paolo, ci insegna il segreto dell’immorta
407
lità e della gloria (...). Questo è il cammino sicuro: attraverso l’umiliazione, fino alla Croce; dalla Croce, con Cristo, alla Gloria Immortale del Padre”140.
* *
Il 21 settembre ritornarono da Fonz i suoi fratelli, Carmen e Santiago. Avevano un bell’aspetto. Nello stesso giorno, festa di S. Matteo, come abbiamo visto, don Josemaria celebrava per la prima volta la Messa in Santa Isabel, con il beneplacito del Patriarca delle Indie, autorità ecclesiastica palatina dalla quale dipendeva il convento.
E fu il giorno dopo, forse mentre ritornava da Santa Isabel, che la gioiosa chiarezza di sapersi figlio di Dio s’impossessò di tutto il suo essere, mentre s’immergeva a lungo in un’orazione di unione e di ringraziamento, camminando per strada. Lo raccontava in una Caterina:
“Mi misi a considerare le bontà del Signore nei miei confronti e, pieno di gioia interiore, avrei gridato per la strada, perché tutti sapessero della mia filiale gratitudine: Padre! Padre! E, se non gridando, a bassa voce continuavo a chiamarlo così (Padre!) molte volte, sicuro di fargli piacere”141.
Per un lungo periodo solo a fatica riusciva a trattenersi dal manifestare ad alta voce i sentimenti filiali verso Dio. Tutta la sua giornata era permeata di affetti e l’orazione si prolungava dal mattino alla sera; anche se una volta, l’i l ottobre, scrisse: “ Sia chiaro che faccio poca orazione e non nel momento giusto” . Due giorni dopo, il 13 ottobre, puntualizzava:
“L’altro giorno ho detto che faccio poca orazione e devo correggermi o, meglio, spiegare il concetto: non ho ordine - faccio il proposito di averlo da oggi -, non faccio la meditazione (pure da oggi fisserò un’ora al giorno); ma quanto all’orazione di affetti, vari giorni la fac-
408
ciò dalla mattina alla sera; certo, in alcuni momenti in modo speciale”142.
Il 16 ottobre fu una giornata memorabile, densa di preghiera. Fu uno di quei giorni in cui riuscì a malapena a leggere qualche riga del giornale, poiché lo trascorse rapito in unione contemplativa:
“Giorno di Santa Edvige, 1931. Volevo fare orazione, dopo la Messa, nella quiete della mia chiesa. Non ci sono riuscito. Ad Atocha ho comprato un giornale (l'ABC) e ho preso il tram. Fino a questo momento in cui scrivo, non sono riuscito a leggere più di un paragrafo del giornale. Ho sentito affluire l’orazione di affetti, copiosa e ardente. Così in tram e fino a casa. Questo appunto che scrivo non è altro che il prosieguo, interrotto solo per scambiare due parole con i miei - che non sanno parlare d’altro che della questione religiosa - e per baciare molte volte la mia Madonna dei Baci e il nostro Gesù Bambino”143.
Quando, in seguito, dovette fornire dei particolari sull’orazione di quel giorno, “l’orazione più alta” che mai avesse avuto, spiegando quella straordinaria grazia di unione con Dio mentre andava in tram e camminava per strada, vi individuerà una lezione. Il Signore gli aveva fatto comprendere che la consapevolezza della filiazione divina doveva stare nel cuore stesso dell’Opera:
“Sentii l’azione del Signore che faceva affiorare nel mio cuore e sulle mie labbra, con la forza imperiosa di una necessità assoluta, questa tenera invocazione: Abbai Pater! Mi trovavo per strada, in tram (...). Probabilmente lo invocai ad alta voce.E vagai per le strade di Madrid, forse un’ora, forse due, non posso dirlo: il tempo passò senza che me ne accorgessi. Dovettero prendermi per pazzo. Stavo contemplando con luci che non erano mie questa stupefacente
409
verità, che restò accesa come una brace nella mia anima per non spegnersi mai più”144.
Il messaggio del 2 ottobre 1928, la chiamata alla santità in mezzo al mondo, tornava a ripetere la dottrina vecchia e nuova del Vangelo: “estote ergo vos perfecti, sicut et Pater vester caelestis perfectus est; siate perfetti, come lo è il vostro Padre celeste”145.
Il 16 ottobre 1931 percepì, nella misteriosa profondità della filiazione divina, la portata di questa sorprendente realtà. Non nel modo in cui l’aveva vissuta fino ad allora, ma proiettata all’interno della specifica missione fondazionale, come spiegava ai suoi figli:
“Vi potrei dire persino quando, il momento e fino a dove ci fu la prima orazione da figlio di Dio.Ho imparato a chiamarlo Padre nel “Padre nostro”, fin da bambino; ma sentire, vedere, ammirare il desiderio di Dio che noi siamo figli suoi..., fu per strada, e su un tram - per un’ora, un’ora e mezza, non so Abba, Pater!, dovevo gridare.Ci sono nel Vangelo delle parole meravigliose (tutte lo sono,): nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare (Mt 11,27). Quel giorno, quel giorno Egli volle in maniera esplicita, chiara, tassativa, che insieme a me voi vi sentiate sempre figli di Dio, di questo Padre che sta nei cieli e che ci darà quello che chiediamo nel nome di suo Figlio (...)”14é.
Ancora nel 1971, predicando una meditazione, riviveva il ricordo sorprendente di quella giornata, che fu una conferma dell’ineffabile qualità dell’essere figlio di Dio e del fatto che l’Opera era, veramente, Opus Dei:
“Ti ringrazio, Signore, per la tua continua protezione e per i tuoi interventi, a volte molto evidenti - io non lo chiedevo, non lo merito! - affinché non rimanga alcun
410
dubbio che l’Opera è tua. Mi viene alla mente questa meraviglia della filiazione divina. Fu in una giornata molto assolata, per la strada, in un tram: Abba, Pater! Abba, Pater! (,..)”147.
Con questa nuova luce fondazionale il Signore gli fece capire che, sebbene la coscienza della filiazione divina esistesse già nell’Opera, doveva essere il fondamento del suo spirito. Così scrisse il Fondatore:
“Compresi che la filiazione divina doveva essere una caratteristica fondamentale del nostro spirito: Abba, Pater! E che, vivendo la filiazione divina, i miei figli sarebbero stati pieni di gioia e di pace, protetti da un muro inespugnabile; avrebbero saputo essere apostoli di questa gioia e avrebbero saputo comunicare la loro pace, anche nella sofferenza propria o altrui. Proprio per questo: perché siamo persuasi che Dio è nostro Padre”148.
L’anima del Fondatore, arricchita da questa particolare consapevolezza della filiazione divina, infuse questa realtà in tutti gli aspetti dello spirito dell’Opera. Le verità e i misteri cristiani - tutti noi, redenti dal peccato, siamo stati elevati all’ordine soprannaturale e resi figli adottivi di Dio, deificati dalla grazia e chiamati all’intimità con la Trinità Beatissima - ebbero da allora uno speciale rilievo nella meditazione e nella vita interiore di don Josemana. A tal punto che la caratteristica della filiazione divina finì con l’informare tutto lo spirito dell’Opus Dei e la vita di pietà di ciascuno dei suoi membri, che cercano di vivere l’autentica libertà dei figli di Dio; persone che lavorano non come salariati, ma come eredi della gloria; che si sforzano in modo particolare di trattare Dio con l’intimità di un figlio che sa di essere amato; che nel loro apostolato si sentono corredentori con Cristo per ricondurre le anime al Padre; e che ricevono la gioia e il do-
411
lore, la malattia o la morte, come venute dalle mani amorevoli di nostro Padre Dio.
* * *
Nei giorni seguenti all’alta marea di affetti filiali che lo sorprese in tram, continuò a ricevere luci dal Signore. Una notte si coricò recitando una delle giaculatorie con le quali dava sollievo alla sua anima in caso di tribolazioni: “ Sia fatta, si compia, sia lodata ed eternamente esaltata la giustissima e amabilissima Volontà di Dio sopra tutte le cose. Amen. Amen” . Il giorno successivo annotò:
“Come risposta del Cielo al mio grido di questa notte, in anticipo e perché sì, questa mattina alle nove, quando stavo andando a prendere il tram per Chamartm, mi sorpresi a recitare un versetto che, pure perché sì o per abitudine (naturalmente, credendo che venisse da Dio) scrissi su di una scheda.- timor Domini sanctus, perma- nens in saeculum saeculi; iustitia Domini vera iustificata in semetipsa (Sai 19,10). Elevati e giusti sono i tuoi giudizi, Signore; santo è il timore del Signore, ma, accettando con tutta l’anima i tuoi giudizi, ti chiedo, Gesù mio, di condurmi per cammini di Amore”149.
Per tutto quel giorno non riuscì a comprendere il giusto significato del “ timore di Dio” . Che sofferenza e che angoscia lo scontro nella sua anima fra il timore di Dio e il gusto del recente “Abba, Pater! Abba, Pater!” che ancora assaporava150. Il suo spirito non riacquistò la calma neppure di notte. Al mattino andò a trovare il suo confessore, che gli spiegò il senso del “ timor Domini” , che deve essere inteso come timore di offendere Dio, che è la Somma Bontà, o timore di allontanarsi da Lui, che è nostro Padre. Erano cose ben note a don Josemaria, ma in quei momenti sentì come se il Signore gli togliesse un velo dagli occhi, come spiegò in una Caterina:
412
“30-X-1931. Oggi sono piuttosto stanco, indubbiamente come conseguenza della commozione spirituale di questi ultimi giorni, soprattutto di ieri. - Non capisco il mio accecamento nel tradurre il timor poiché altre volte, per esempio nella frase “initium sapientiae timor Domini” , per timore ho sempre inteso riverenza, rispetto. - Gesù, mi metto con fiducia nelle tue braccia, nascondendo il capo nel tuo petto amorevole, con il mio cuore vicino al tuo Cuore: voglio solo ciò che vuoi Tu”151.
Fu una lezione pratica, mediante la quale rimase impresso nel cuore del Fondatore la natura del dono del timore di Dio, che non è paura servile, bensì timore filiale di offendere nostro Padre Dio.
Era tanto frequente l’essere immerso nell’orazione contemplativa che, in qualche occasione e per risparmiarsi spiegazioni, scriveva di stare “ senza fare orazione” , senza aggiunte. Sabato 12 dicembre stava a colazione in casa di amici “ senza fare orazione” , quando il Signore gli pose nella mente e sulle labbra una nuova luce:
“Ieri sono stato a colazione in casa dei Guevara. Stando lì, senza fare orazione, mi sorpresi - com’è accaduto altre volte - a dire: “Inter medium montium pertransi- bunt aquae” (Sai 104,10). Credo che in questi giorni ho avuto altre volte sulle labbra queste parole, perché sì, ma non davo loro importanza. Ieri le ho dette con tanta evidenza che ho sentito l’impulso di annotarle e le ho capite: sono la promessa che l’Opera di Dio vincerà gli ostacoli e che le acque del suo Apostolato passeranno oltre tutti gli ostacoli che si presenteranno”152.
Con quel messaggio il Signore gli voleva dire che l’azione apostolica, lo sviluppo dell’Opera, si sarebbe aperta la strada come un torrente che scava gole tra le rocce. Non voleva anche avvertirlo che il suo cammino
413
non sarebbe stato spedito? Il Signore, senza dubbio, gli dava in anticipo vigore, ottimismo e pazienza, senza lasciargli vedere di colpo in che cosa sarebbero consistiti gli ostacoli perché, come diceva il Fondatore stesso nel 1968, “ se, in quei momenti, avessi visto che cosa mi attendeva, sarei morto, tanto grande è stato il peso di ciò che si è dovuto soffrire e gioire!” 153.
6. Una croce senza Cirenei
Don Josemaria andava a caccia di preghiere con avidità, da ogni parte. Della corrispondenza dell’autunno 1931 si conservano due lettere. La prima, del professor Pou de Foxà, è datata Saragozza, 20 novembre e dice così: «Mio caro e indimenticabile José Maria, ho ricevuto la tua lettera, che mi ha fatto ridere con i tuoi racconti. Mi sembrano bene i tuoi propositi: tener duro e andare avanti, ché un aragonese non arretra; e, come dici, se l’Opera è importante, lo è anche l’Artefice, mentre tu sei solo l’impasto del quale Dio farà ciò che desidera, se l’impasto, di fango in fin dei conti, non si ribella allo Scultore. Credimi che con piacere prego e pregherò che sostenga il tuo impegno; ne avrei un guadagno anch’io, poiché avrò una particina nelle tue preghiere, che senza dubbio mi frutteranno grazie per aver ragione delle meschinità e bassezze di questa terra (...). Il mio ricordo a tua mamma e ai fratelli e per te un forte abbraccio dal tuo amico José Pou de Foxà»154.
S’intuisce chiaramente che il cappellano di Santa Isabel aveva scritto al suo amico chiedendogli preghiere e lamentandosi di essere strumento inadeguato a porre le basi di una grande impresa soprannatùrale; al che don José rispondeva incoraggiandolo a mettersi con docilità nelle mani del divino Scultore, che modellerà a suo piacere il fango di cui dice di esser fatto.
414
La seconda lettera è di don Ambrosio Sanz, canonico di Barbastro:
«Barbastro, 17 dicembre 1931.Carissimo amico, ho ricevuto la tua lettera del 26 del mese scorso e ho anche ricevuto il tuo fonogramma di auguri.Che cosa ti succede che mi parli di belle croci e chiedi preghiere con tanta premura? Hai qualche tribolazione addosso o, come cireneo della carità, vuoi aiutare altri a portarla? Sai che partecipo a tutte le tue gioie e a maggior ragione alle tue pene, per cui se posso fare qualcosa, disponi, che le mie tanto povere preghiere, più povere di quanto tu non supponga, non ti mancheranno. Ho parlato con qualche cappellano di suore di clausura e ho fatto la richiesta che mi hai affidato.Abbiti cura di te e non essere tanto attento al cielo da dimenticare che hai ancora i piedi appoggiati sulla terra.Affettuosi saluti a tua mamma e ai fratelli. Ti vuol bene e ti abbraccia A. Sanz»155.
Senza dubbio, don Josemaria gli aveva scritto facendogli gli auguri per la festa di Sant’Ambrogio, il 7 dicembre, e ne aveva approfittato per aprirgli il cuore chiedendogli preghiere. Aveva quindi messo in forte apprensione il canonico, nella cui risposta si intuisce una certa preoccupazione. Perché, mentre José Pou de Foxà sbrigava i “racconti” di don Josemaria con buon umore e dandogli corda, don Ambrosio non sapeva nulla delle belle croci né di quali cirenei parlasse. E temendo un po’ per la salute del suo giovane amico, gli raccomandava che, nel prendersi cura delle cose dello spirito, non dimenticasse l’aspetto materiale dell’esistenza.
Ma no; con la sua croce e le sue pene sulle spalle, il cappellano andava per Madrid su una strada seminata di grazie stupende e di sofferenze non comuni. Assieme alla brezza di mistica esultanza, che elevava e cullava la
415
sua anima al di sopra delle miserie di questo mondo, al Fondatore non mancava un lungo gemito di tribolazioni. In settembre comparvero i primi sintomi di una dolorosa prova, che si prolungò nel corso dell’autunno 1931. Si legge nei suoi Appunti:
“Mi trovo in grande tribolazione e abbandono. Motivi? Per la verità, i soliti. Ma è qualcosa di personalissimo che, senza togliermi la fiducia nel mio Dio, mi fa soffrire, perché umanamente non vedo via d’uscita possibile dalla mia situazione. Si presentano tentazioni di ribellione: e dico serviam!”156.
Tre settimane dopo, il 30 settembre 1931, annotava:
“Mi trovo in una situazione economica più preoccupante che mai. Non perdo la pace. Ho assoluta fiducia, una vera sicurezza, che Dio mio Padre risolverà presto questa faccenda una buona volta. Se fossi solo!... allora la povertà, me ne rendo conto, sarebbe una delizia. Sacerdote e povero: privo perfino del necessario. Meraviglioso!”157.
La trasparenza delle note autobiografiche degli Appunti intimi consente di vedere con chiarezza gli stati e i moti della sua anima. “Tutte le cose della mia anima - senza nascondere nulla - le ho comunicate e le comunicherò sempre al mio direttore spirituale” , si legge in una Caterina1 5 8 .
Ma quando consegnò le Caterine in eredità ai suoi figli spirituali raccomandava loro di non esibirle ai quattro venti: “Abbiate il pudore di non mettere in mostra la mia anima” , diceva loro159. Voleva evitare di esporre in pubblico le ristrettezze e i sacrifici patiti dai suoi familiari.
Sapendo da tempo come lo trattava il Signore, che, per colpire lui, “ dava un colpo al chiodo e cento al
416
ferro del cavallo” , preferì affrontare la faccenda direttamente. Così scriveva il 2 ottobre 1931:
“Lo affrontai” - si riferiva al Signore - “e gli dissi che il padre Sànchez mi aveva proibito di chiedergli quella cosa; e che perciò non gliela chiedevo, ma (così, brutalmente) volevo che sistemasse i miei e se la prendesse solo con me”160.
(Ciò che il confessore gli aveva proibito era di chiedere una grave malattia).
Per rimediare in qualche modo alle sofferenze della madre e dei fratelli decise di avere ancora maggiori attenzioni verso di loro: “Vedrò in mia madre la Santissima Vergine; in mia sorella Carmen, Santa Teresa o Santa Teresina; e in Guitìn, Gesù adolescente” 161. (Con Santiago la cosa non era facile, perché “ il ragazzino ha, come me, un pessimo temperamento” ).
Quanto riferiva più avanti (26 ottobre 1931) avrebbe potuto chiarire ciò che scriveva a don Ambrosio sulle belle croci:
“A questa mia mancanza di formazione sono dovuti parecchi dei miei momenti di scoraggiamento, delle ore - o giorni - di difficoltà e di malumore. Generalmente, Gesù mi dà la croce con la gioia - cum gaudio et pace - e una croce con gioia... non è una croce. Per la mia natura ottimista, ho abitualmente una allegria che potremmo chiamare fisiologica, da animale sano; non è questa la gioia alla quale mi riferisco, ma a quella soprannaturale, che proviene dall’abbandonare tutto e abbandonarsi nelle braccia amorevoli del Padre-Dio” 162.
Subito dopo spiegava in che cosa consisteva la croce senza cirenei, sul cui misterioso senso s’interrogava il buon canonico di Barbastro:
417
“Signore, il grave peso della mia croce è che ne sono partecipi altre persone. Dammi, Gesù, una croce senza cirenei. Ho detto male: avrò bisogno della tua grazia, del tuo aiuto, come in tutto. Con Te, Dio mio, non c’è prova di cui abbia paura: penso a una malattia dura, unita per esempio a una cecità totale - una croce mia, personale - e audacemente avrei, Gesù, la gioia di gridare con fede e con il cuore in pace, dalla mia oscurità e sofferenza: Dominus illuminatio mea et salus meal... Ma se la croce fosse il tedio, la tristezza? Io Ti dico, Signore, che con Te sarei lietamente triste”163.
Così meditava il sacerdote, senza riuscire a capire se il fatto che la sua famiglia fosse partecipe di quel peso costituisse un sollievo o se invece lo rendesse più pesante:
“Neppure ora so, Gesù, se sia eccesso o mancanza di generosità il mio desiderio di una croce senza cireneo. Eccesso, perché mi dolgo tanto per la croce altrui... Mancanza, perché sembra una ribellione verso ciò che Tu vuoi; perché sembra che desideri non la tua Croce, ma una croce di mio gusto”164.
Con la sensibilità e l’immaginazione dolorosamente agitate, la sua anima era quasi in carne viva poiché sentiva pietà per il peso della croce sui propri familiari:
“Oggi Gesù ha reso più pesante la Croce - la Santa Croce - sulle povere spalle dei cirenei: e che male mi fa!”165.
Queste ultime Caterine le scriveva in ginocchio nella sua povera cameretta, non per una speciale devozione, ma per mancanza di spazio: “ Già da parecchi giorni” - spiegava - “per necessità, poiché devo scrivere in camera mia e non c’è posto per una sedia, scrivo le Caterine in ginocchio. E mi viene da pensare che, essendo una mezza confessione, sia gradito a Gesù che le scriva sem
418
pre così, in ginocchio; cercherò di compiere questo proposito” 166. In mezzo alle angustie vedeva chiaramente che doveva risolvere da una parte la situazione canonica, con la nomina ufficiale per la cappellania di Santa Isabel; e dall’altra, ottenere la tranquillità economica per i suoi. Egli stesso si meravigliava che la famiglia potesse continuare a vivere in quelle condizioni. “Non so come potremo vivere” , si chiedeva167. Ma è ben vero che vivevano così da quando avevano lasciato Barbastro, benché le cose si fossero aggravate in modo allarmante a Saragozza. Ora, a Madrid, la vita era per loro quasi un miracolo quotidiano. Per evitare dispiaceri a sua madre e ai fratelli, don Josemarfa li alimentava di speranze, affermando che le cose sarebbero migliorate:
“Finora ho nascosto a mia madre e ai miei fratelli la nostra vera situazione. L’ho fatto altre volte. Signore, Gesù mio, non è che io non voglia cirenei - voglio ciò che vuoi Tu - ma, con vera generosità e per tuo Amore, vorrei evitare loro queste sofferenze”168.
Alla fine di novembre la situazione si aggravò169; erano tali le ristrettezze che si decise a chiedere dei prestiti agli amici: non gli diedero denaro ma almeno si scusavano con ottime ragioni. Finché il Signore gli ispirò l’idea di ricorrere a una banca, dove chiese e ottenne un prestito di trecento pesetas. Il giorno stesso, 26 novembre, comprese nuovi aspetti della povertà e del distacco mentre riceveva la benedizione con il Santissimo nella chiesa di Medinaceli:
“E allora” - annotava al rientro a casa - “ho capito molte cose. Non sono meno felice perché sono nell’indigenza o nell’abbondanza. Non devo chiedere nulla a Gesù; mi limiterò a fargli piacere in tutto e a raccontargli le cose come se Egli non le sapesse, come fa un bambino piccolo con suo padre”170.
419
Fu quello il giorno in cui scrisse a don Ambrosio chiedendogli preghiere. Che cosa avrebbe pensato il canonico se avesse letto quest’altra Caterina del 29 novembre?:
“Ora che davvero la Croce è solida, pesante, Gesù sistema le cose in modo da riempirci di pace. Signore, che Croce è questa? Una Croce senza Croce. Con il tuo aiuto, conoscendo la formula dell’abbandono, saranno sempre così le mie Croci”171.
Il Signore, in un soffio, gli restituì la pace, facendogli constatare il meraviglioso e umanamente inesplicabile comportamento della madre e della sorella, “ammirevolmente disposte a ciò che Dio vuole” 172.
Pochi giorni dopo (il 10 dicembre 1931) avrebbe scritto:
“Dio nostro Signore sta inondando di grazia i miei (...). Ora non è accettazione: è gioia. Davvero in questa casa siamo tutti matti”173.
Sotto Natale si ammalò Carmen, poi la signora Dolores e, la sera dopo, dovette mettersi a letto il fratello. Sembrava un ospedale. Don Josemaria vide l’occasione di passare dei giorni digiunando senza che nessuno se ne accorgesse e ne approfittò subito. Ma la madre conosceva bene i suoi polli; don Josemaria descrisse quanto accadde la sera del 20 dicembre in maniera un po’ monca e con comprensibili riserve:
“La mamma, poveretta, si è un po’ innervosita - cosa del tutto naturale - dicendo “non può continuare così” e si è arrabbiata con me perché non ho cenato né preso nulla: “per questo ti senti la testa vuota”, mi ha detto. A nome loro ho offerto a Gesù i brutti momenti che stanno passando. Poi abbiamo recitato, come d’abitudine, il
420
santo Rosario. Fino alle undici in punto ho cercato di fare orazione”174.
Indubbiamente la testimonianza è unilaterale. Per com pletarla bisognerebbe sentire l ’altra parte, la madre, che ci spiegherebbe le mortificazioni e i digiuni del figlio, che non mangiava né di giorno né di sera e aveva dei capogiri di pura debolezza. Comunque, la collera della signora Dolores era già superata quando il mattino dopo don Josemaria scrisse questa tranquilla Caterina:
“Oggi (sono appena ritornato da Santa Isabel) trovo la mamma con molta pace, come sempre, mentre lavora nelle cose di casa, anche questo come sempre”175.
In quei giorni il cappellano era sotto pressione. Lo spingeva il suo confessore, lo spingeva la signora Dolores. Don Josemaria doveva riconoscere che, in effetti, nella capitale tutta la famiglia subiva delle purificazioni passive, come annotava in una Caterina del 23 dicembre176.
La signora Dolores si era armata di serenità e vedeva piovere disgrazie senza prendersela:
“È l’ultima volta che prendo nota di cose del genere” - . scrisse il 30 dicembre -. “Sono sbalordito di vedere con
quale tranquillità, come se parlasse del tempo, mia madre, poveretta, diceva ieri sera: “Non ce la siamo mai passata tanto male come adesso”; e poi abbiamo continuato a parlare di altre cose, senza perdere l’allegria e la pace. Che buono sei, Gesù, che buono! Saprai tu come ricompensarla”177.
Ma due settimane dopo aver fatto il proposito di non scrivere più cose sulla famiglia, ecco un’altra Caterina che fa eccezione178.
Il diavolo, padre dell’angoscia, dovette infine rendersi
421
conto di quale fosse il tallone d’Achille di quel sacerdote paziente, e insistè nell’attaccarlo sul fronte familiare179. Davanti all’insinuazione diabolica, il sacerdote si armò di pazienza e fortezza per resistere all’attacco. Questa era la sua supplica:
“Gesù, poiché sono il tuo asinelio, dammi la cocciutaggine e la fortezza dell’asino per compiere la tua amabile Volontà”180.
Nel frattempo la signora Dolores, ancora all’oscuro dell’impresa soprannaturale che il figlio aveva tra le mani, si diede da fare per conto suo. Forse all’inizio del febbraio 1932 scrisse a monsignor Cruz Laplana, Vescovo di Cuenca, con il quale aveva un legame di parentela181. Gli espose la situazione in cui si trovava Josemaria e gli chiese consiglio. Il Prelato le fece pervenire una risposta per mezzo di un certo canonico che passò per Madrid uno di quei giorni. Il canonico era don Joa- quìn Maria de Ayala (lo stesso che nell’estate del 1927 aveva chiesto per lettera a don Josemaria che gli ricuperasse una veste talare e gli comperasse le pietrine per l’accendino); e il contenuto del messaggio, un generoso invito. Lola - le diceva il Prelato - perché non viene a trovarmi tuo figlio? Ho un posto di canonico per lui182.
Come poteva non sfruttare il demonio questa nuova occasione per tentarlo? Su questo argomento, don Josemaria parlò con don Norberto, l’altro cappellano del “Patronato de Enfermos” . Ecco la Caterina del 15 febbraio 1932:
“Poi (a don Norberto lo raccontai, quando accadeva e dopo, sentendo le suggestioni del nemico) poi mi fa venire in mente che l’ecclesiastico di Cuenca disse alla mamma che io andassi a concorrere a un canonicato vacante della cattedrale... In seguito, il mio padre Direttore, che mi disse che l’Opera doveva cominciare a Madrid e che a tutti i costi io dovevo restare qui. Insomma,
422
Satana è furbo, cattivo e spregevole, ma mi ha fatto vedere, come mi diceva ridendo don Norberto, mentre a me sembrava che non sarebbe mai potuto accadere, che posso perdere la gioia e la pace (non le ho perse) e possono darmi dei dispiaceri!”183.
Dalla tentazione uscì vittorioso e disposto a “ fare pressioni su Gesù” affinché desse a quelli di casa sua, ai cirenei, “con la pace dello spirito che ora hanno, il benessere materiale” 184.
Un minimo di benessere economico alla famiglia tardò ad arrivare. Per un paio d’anni, durante i quali Dio si fece pregare, le cose andarono di male in peggio.Il che non impedì che il cappellano di Santa Isabel, sempre alle prese con la sua croce, esclamasse contento: “ Signore: io sono l’uomo felice che non aveva neppure la camicia” 185.
7. La via dell’infanzia spirituale
Nei mesi di settembre e ottobre 1931, quando nel cuore del giovane sacerdote germinavano copiosi gli affetti di amore, il Signore lo confermava nel cammino del vero abbandono filiale. E dal torrente di quelle grazie fu potenziata un’altra sorgiva: la vita dell’infanzia spirituale.
“Avevo l’abitudine quand’ero giovane” - scrisse il Fondatore - “di non utilizzare alcun libro per la meditazione. Recitavo, assaporandole una ad una, le parole del Pater noster e mi soffermavo - gustandola - sulla considerazione che Dio era Pater, mio Padre, che mi dovevo sentire fratello di Gesù Cristo e fratello di tutti gli uomini.Era una continua meraviglia, la contemplazione di essere figlio di Dio! Dopo ogni riflessione mi sentivo rafforzato nella fede, più sicuro nella speranza, più acceso d’amore. E nasceva nella mia anima la necessità, essen
423
do figlio di Dio, di essere un figlio piccolo, un figlio bisognoso. Da qui nacque nella mia vita interiore la vita d’infanzia, che ho vissuto finché ho potuto - finché posso - e che ho sempre raccomandato ai miei, lasciandoli liberi”186.
Il 2 ottobre, festa degli Angeli Custodi, terzo anniversario della fondazione dell’Opus Dei e allora vigilia della festa di Santa Teresina di Lisieux, invocò ardentemente gli spiriti celesti e in modo speciale il proprio Angelo Custode:
“Gli dissi cose affettuose e gli chiesi che mi insegnasse ad amare Gesù, almeno... almeno come l’ama lui. Indubbiamente Santa Teresina (...) volle anticiparmi qualcosa per la sua festa e ottenne dal mio Angelo Custode che mi insegnasse oggi a fare orazione di infanzia. Che cose puerili dissi al mio Signore! Con la fiduciosa confidenza di un bambino che parla al suo Amico Grande, del cui amore è sicuro. Che io viva solo per la tua Opera- gli chiesi - che viva solo per la tua Gloria, che viva solo per il tuo Amore (...). Ricordai e riconobbi lealmente che faccio tutto male: questo, Gesù mio, non ti può sorprendere: è impossibile che io faccia una sola cosa giusta. Aiutami Tu, fallo Tu per me e vedrai come riesce bene. Poi, audacemente e senza allontanarmi dal vero, ti dico: impregnami, ubriacami del tuo Spirito e così farò la tua Volontà. La voglio fare. Se non la faccio è perché... non mi aiuti.E ci furono affetti amorosi per la Madre e Signora mia, e mi sento in questo momento molto figlio di Dio mio Padre”187.
Questa Caterina è la primizia del nuovo cammino intrapreso. Poi don Josemarìa attraversò, in raccoglimento interiore, alcuni giorni di orazione affettiva e fervida, mentre fuori correvano voci allarmanti di una nuova ondata di incendi a chiese e conventi. Il 14 ottobre seppe che era stato approvato il famigerato artico
424
lo 26 della Costituzione, che comportava l’espulsione della Compagnia di Gesù. La sera stessa andò a trovare il suo confessore a Chamartm. Il pericolo non riguardava solamente i Gesuiti. Tutti i conventi e le residenze di religiosi erano esposti al pericolo di essere assaltati. Gli studenti cattolici, per proteggerli, montavano la guardia di notte. Il 15 ottobre, festa di Santa Teresa di Gesù, il cappellano si presentò in clausura. Le monache erano intimorite dalle allarmanti notizie che circolavano. Le rassicurò come potè, parlando con calore e ottimismo:
“Oggi sono entrato nella clausura di Santa Isabel. Ho incoraggiato le monache. Ho parlato loro di Amore, di Croce e di Gioia... e di vittoria. Via l’angoscia! Siamo al principio della fine. Santa Teresa mi ha ottenuto dal nostro Gesù la Gioia (con la maiuscola) che oggi ho mentre, a quanto sembra, umanamente parlando, dovrei essere triste per la Chiesa e per le mie cose (che vanno male, in verità). Molta fede, espiazione e, al di sopra della fede e dell’espiazione, molto Amore. Inoltre, stamane, per purificare due pissidi e non lasciare il Santissimo Sacramento in chiesa, ho dovuto consumare il contenuto di quasi mezza pisside, pur avendo dato parecchie parti- cole a ciascuna religiosa”188.
Le religiose lo premiarono per quella semina di gioia:
“Uscendo dalla clausura, in portineria, mi hanno mostrato un Bambin Gesù che era un Sole. Non l’ho mai visto così bello! Incantevole. L’hanno denudato: sta con le braccine incrociate sul petto e gli occhi socchiusi. Bellissimo: me lo sono mangiato di baci... e ben volentieri melo sarei rubato”189.
Da allora, ogni settimana andava alla ruota del convento e la monaca addetta gli passava il bambinello. Era l’epoca in cui s’intrecciavano nella sua anima gioie
425
e afflizioni, l’ardente fluire di affetti nell’orazione e dure prove nelle quali chiedeva una croce senza cirenei. La devozione al Bambino Gesù andava riempiendo la sua vita interiore:
“Il Bambino Gesù: come mi ha avvinto questa devozione da quando ho visto il grandissimo brigante che le mie monache conservano nella portineria della clausura! Gesù Bambino, Gesù Adolescente: mi piace vederti così, Signore, perché... posso osare di più. Mi piace vederti piccolino, indifeso, per illudermi che tu abbia bisogno di me”190.
Man mano che si radicava nella sua anima la solida devozione all’infanzia di Cristo, don Josemaria si rendeva conto di quanto paradossale fosse questo comportamento spirituale, in quanto richiedeva, allo stesso tempo, fortezza e squisita delicatezza:
“Riconosco la mia goffaggine, Amor mio..., tanto grande che persino quando voglio accarezzare faccio male. Addolcisci i modi della mia anima: dammi, voglio che tu mi dia, nella forte virilità della vita d’infanzia, la delicatezza e dolcezza con cui i bambini trattano, con intima effusione d’amore, i loro genitori”191.
Per questa strada, che non era di infantilismo sentimentale, il Signore rendeva più forte la sua anima, come osservava in una Caterina:
“Cammino d’infanzia. Abbandono. Fanciullezza spirituale. Tutto questo che Dio mi chiede e che io cerco di avere non è infantilismo, bensì forte e solida vita cristiana”192.
Con la fiducia di un bambino piccolo davanti a Dio suo Padre, adattò non senza sforzo le antiche abitudini dell’orazione a quel nuovo cammino d’infanzia, convin
426
cendosi “ sempre più di quanto bello e soave sia questo cammino, perché conduce i peccatori ad avere gli stessi sentimenti che hanno avuto i santi” 193.
La maggior parte delle Caterine in cui raccolse idee sulla vita d’infanzia spirituale o espresse sentimenti personali di questo genere sono relative al dicembre 1931 e al gennaio 1932. Il 30 novembre, primo giorno della novena dell’immacolata Concezione, scriveva: “Quando recito il rosario o - come ora in Avvento - faccio altre devozioni, contemplo i misteri della vita, passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo, prendendo parte attiva nelle azioni e negli avvenimenti, come testimone e servo e compagno di Gesù, Maria e Giuseppe” 194.
Già allora si era abituato a recitare il rosario contemplando i misteri della vita del Signore come un bimbo piccolo trasportato sulla scena dei fatti e presente come testimone. A giudicare dalle osservazioni che aggiungeva (per esempio: “Mi dispiace annotare questi particolari, che potrebbero far pensare bene o non male di me. Sono pieno di miserie)” 195, tutto lascia supporre che questo modo di recitare il rosario lo immettesse in una elevata preghiera contemplativa.
Il secondo giorno della novena, primo dicembre, si aspettava - senza chiederlo - un favore, un segno di progresso nella via dell’infanzia spirituale, un regalo nella novena alla Madonna. Lo ricordava esplicitamente in una Caterina: ,
“Madre Immacolata, Santa Maria, Signora mia: qualcosa mi darai in questa novena alla tua Concezione senza macchia. Ora non chiedo nulla - a meno che non me lo comandino - ma ti espongo il desiderio di arrivare alla perfetta infanzia spirituale”196.
E una mattina, dopo aver detto Messa, alla fine del ringraziamento, scrisse tutto d’un fiato, accanto al presbiterio nella sacrestia di Santa Isabel, il libro Santo
427
Rosario. Non sappiamo con certezza in quale giorno della novena; ma sappiamo che la vigilia della festa dell’immacolata, il 7 dicembre, stava leggendo in Santa Isabel a due giovani “ il modo di recitare il rosario” , poiché fu questa l’intenzione con cui lo scrisse: aiutare altri a recitarlo197.
In seguito, quando scrisse il prologo, raccontò al lettore il segreto della via dell’infanzia spirituale:
“Amico, se vuoi essere grande, fatti piccolo. Per essere piccolo bisogna credere come credono i bambini, amare come amano i bambini, abbandonarsi come sanno abbandonarsi i bambini, pregare come pregano i bambini (...). Fatti piccolo. Vieni con me, e vivremo - ecco il nocciolo della mia confidenza - la vita di Gesù, di Maria e di Giuseppe”.
Così, dolcemente, s’introduce il lettore nella scena:
“Non dimenticare, amico, che siamo bambini. La Signora dal dolce nome, Maria, è raccolta in preghiera. Tu puoi essere, in quella casa, quello che preferisci: un amico, un servitore, un curioso, un vicino... - Quanto a me, in questo momento non oso essere nessuno. Mi nascondo dietro di te e contemplo attonito la scena: L’Arcangelo pronuncia il suo messaggio”198.
Della presentazione del Santo Rosario sono anche queste righe:
“L’inizio del cammino che ha per termine l’amore folle per Gesù, è un fiducioso amore alla Madonna”.
In casa sua conservava una piccola immagine della Vergine, in legno intagliato, che aveva l’abitudine di baciare ogni volta che usciva o entrava (“ la mia Vergine dei Baci: finirò per mangiarmela” , esclamava in una Caterina)199. Ma tutte le immagini della Madonna, non
428
solo quella, lo commuovevano. Soprattutto quelle che trovava buttate per strada, incisioni o immaginette sudicie e polverose. O quelle che gli venivano incontro nelle sue scorrerie per Madrid, come l’immagine di ceramica su cui posava ogni giorno gli occhi quando lasciava Santa Isabel. Questa immagine, che si trovava sulla terrazza di una casa di via Atocha, presenziò, pochi giorni dopo che aveva composto il Santo Rosario, a uno strano evento raccontato in una Caterina-.
“Ottava dell’immacolata Concezione, 1931. Ieri pomeriggio alle tre, mentre mi dirigevo al collegio di Santa Isabel per confessare le bambine, in via Atocha sul marciapiede di S. Carlo, quasi all’angolo con via Santa Inés, incrociai tre giovani, più che trentenni. Quando mi furono vicini, uno di essi si fece avanti gridando: “adesso gliele dò”, e alzò il braccio con un gesto tale che il colpo mi sembrò inevitabile. Ma prima che riuscisse ad aggredirmi uno degli altri due gli disse in modo imperioso: “No, non picchiarlo” . E subito dopo, in tono burlesco, piegandosi verso di me, soggiunse: “Asinelio, asinelio” . Attraversai all’angolo di Santa Isabel con passo tranquillo, e sono sicuro di non aver manifestato nulla all’esterno della mia interna trepidazione. Mi ha impressionato sentirmi chiamare (da simile difensore!) con il nome - asino, asinelio - che ho davanti a Gesù. Ho subito recitato tre avemarie alla Santissima Vergine, che presenziò all’evento con la sua immagine posta nella casa di proprietà della Congregazione di S. Filippo”200.
(L’appellativo di asinelio non era noto se non al suo confessore). Il giorno successivo, annotò altre impressioni su quanto accaduto:
“16 dicembre 1931. Ieri mi sentivo stanco, certamente in conseguenza dell 'assalto in via Atocha. Sono convinto che fu cosa di origine diabolica. Anche don Norbertolo pensa. Colui che cercò di aggredirmi aveva una terribile faccia da folle. Degli altri due non ricordo nulla.
429
Sul momento - e neppure dopo - non ho perduto la pace. E stata una trepidazione fisiologica, che mi ha accelerato i battiti del cuore e, me ne sono reso conto, non è trasparita all’esterno neppure con un gesto. Mi stupì, come ho raccontato, il tono ironico, burlesco con cui mi ha chiamato, per due volte, asinelio. Istintivamente ho innalzato il mio cuore e mi sono messo a recitare tre avemarie alla Madonna. Poi, ho annotato alla lettera su una scheda le parole di quelle persone”201.
Alla devozione mistica verso la Vergine dei Baci è ispirata una delle più belle e sublimi pagine degli Appunti. Non è una fantasia letteraria, come a prima vista potrebbe apparire, bensì incandescente esperienza interiore. Un’esperienza mistica, in cui l’audacia del desiderio diventa comando, con cui i bambini aprono il regno dei Cieli.
Giunse il 28 dicembre, festa dei Santi Innocenti, giorno in cui in Spagna si fanno gli scherzi, le cosiddette inocentadas202. Il cappellano andò a Santa Isabel e trovò che, per ventiquattro ore, una novizia avrebbe fatto da priora del convento e la monaca più giovane da vicepriora. Si vedevano Madri austere e d’età compiere con gran divertimento i lavori imposti dalla priora del giorno. Ritornando a casa, don Josemaria baciò la sua Madonna e incominciò la meditazione. Presa la penna, assorto in orazione, scrisse questa Caterina:
“Un bambino fece visita a un certo Convento (...). Bambino: tu sei l’ultimo asino, meglio, l’ultimo animale fra gli amanti di Gesù. E tocca a te, per diritto, comandare in Cielo. Sciogli l’immaginazione, lascia libero anche il tuo cuore... Voglio che Gesù mi perdoni... del tutto. Che tutte le anime benedette del purgatorio, purificate in meno di un secondo, ascendano a godere del nostro Dio..., perché oggi faccio io le sue veci. Voglio... sgridare alcuni Angeli Custodi che conosco - per scherzo s’intende, ma un po’ anche sul serio - e ordino loro di ubbidire (pro
430
prio così: ubbidire) all’asinelio di Gesù in cose che sono a tutta gloria del nostro Re-Cristo. E dopo aver comandato molto, molto, direi a mia Madre Santa Maria: Madonna, nemmeno per scherzo voglio che tu smetta di essere la Signora e l’imperatrice di tutto il creato. Allora Lei mi darebbe un bacio in fronte, lasciandomi, come segno di tanta grazia, una grande stella sopra gli occhi. E con questa nuova luce vedrei tutti i figli di Dio che verranno fino alla fine del mondo, intenti a combattere le battaglie del Signore, sempre vincitori con Lui... e udrei una voce più che celestiale, come il fragore di grandi acque e il rombo di un tuono possente, eppure dolce nonostante la sua intensità, come il suono di molte cetre suonate all’unisono da un numero infinito di suonatori, che dice: Vogliamo che regni! A Dio tutta la gloria! Tutti, con Pietro, a Gesù per mezzo di Maria!...E prima che questo giorno meraviglioso giunga alla fine, oh, Gesù, gli dirò, voglio essere un fuoco di pazzia d’A- more! Voglio che la mia sola presenza sia sufficiente a incendiare il mondo, per molti chilometri all’intorno, di un incendio inestinguibile. Voglio sapere che sono tuo. Poi, venga la Croce: non avrò mai paura dell’espiazione... Soffrire e amare. Amare e soffrire. Magnifico cammino! Soffrire, amare e credere: fede e amore. Fede di Pietro. Amore di Giovanni. Zelo di Paolo. Restano ancora all’asinelio tre minuti di “divinizzazione”, buon Gesù, e allora comanda... che Tu gli dia più Zelo che a Paolo, più Amore che a Giovanni, più Fede che a Pietro. L’ultimo desiderio: Gesù, che non mi manchi mai la Santa Croce”203.
Due giorni dopo, ristabilita la serietà nel convento, le monache gli permisero di portarsi a casa la statuetta di Gesù Bambino. Il sacerdote si portò via il Bambinello avvolgendolo nel mantello, per fare insieme a lui gli auguri natalizi a mezzo mondo. Approfittando dell’occasione, lo fece fotografare:
“Oggi mi sono preso il “Bambin Gesù di Santa Teresa”. Me l’hanno lasciato le Madri Agostiniane. Siamo andati
431
a fare gli auguri a Fra’ Gabriele, dai Carmelitani, che ne fu contento e mi donò un’immaginetta e una medaglia. Poi sono andato dal Padre Joaquin, direttore di don Norberto. Abbiamo parlato dell’Opera di Dio. Di là sono andato dalle Ancelle dell’Amore Misericordioso e mi sono trattenuto a lungo con Madre Pilar. Poi a casa di Pepe R., dove abbiamo fotografato il Bambino. Prima di andare a casa sono salito da don Norberto, perché vedesse il Bambinello. A casa mia, la mamma recitò ad alta voce un padrenostro e l’avemaria. E qui terrò Gesù fino a domani”204.
Quando e come imparò la vita di infanzia spirituale ce lo racconta in una Caterina del gennaio 1932:
“Non ho conosciuto sui libri il cammino di infanzia fino a dopo che Gesù mi ha fatto camminare su questa strada”205.“Ieri per la prima volta” - scrisse il 14 gennaio - “ho cominciato a dare un’occhiata a un libro che devo leggere con calma molte volte: “Piccola via di infanzia spirituale”, del Padre Martin. Con questa lettura mi sono reso conto che Gesù mi ha fatto sentire, persino con le stesse immagini, la via di Santa Teresina. In queste Caterine si trova annotato qualcosa che lo prova. Leggerò pure con calma la “Storia di un’anima” ”206.
La sua anima era già tanto ricca di grazie che, nonostante i ripetuti propositi di non riferire fatti straordinari, gli sfuggivano inevitabilmente, nelle Caterine, alcuni eventi soprannaturali. Così fu per due locuzioni del 1932:
“Stamane, come d’abitudine” - scrisse il giorno 4 - “quando stavo per uscire dal Convento di Santa Isabel, mi sono avvicinato un istante al Tabernacolo, per accomiatarmi da Gesù dicendogli: Gesù, qui c’è il tuo asinelio... Vedi Tu che cosa fare con il tuo asinelio... E intesi immediatamente, senza parole: “Un asinelio fu il mio
432
trono a Gerusalemme” . Questo fu il concetto che compresi, con assoluta chiarezza”207.
In quel momento lo assalì un dubbio. Con l’attenzione concentrata sull’asina di cui parla S. Matteo, credette che la locuzione fosse un’interpretazione erronea, forse diabolica, del Vangelo. Appena giunto a casa consultò il Vangelo e placò il suo spirito. Gesù era entrato a Gerusalemme cavalcando un asinelio208.
Da tempo, quando vedeva una comunità di religiose in preghiera diceva, mettendo in atto il metodo dell’infanzia spirituale: “Gesù, non so loro quanto ti amino, ma io ti amo più di tutte loro insieme”209. Ora, poco dopo la locuzione dell’asinelio, mentre ribadiva la propria mancanza di generosità verso il Signore, gli sfuggì negli Appunti un’altra delle numerose locuzioni che ricevette:
“16 febbraio 1932. Da alcuni giorni ho un forte raffreddore: è stata l’occasione perché si manifestasse la mia scarsa generosità con il mio Dio, diminuendo l’orazione e le mille piccole cose che un bambino - e ancor più un bambino asinelio - può offrire al suo Signore ogni giorno. Mi stavo rendendo conto di questo e che rimandavo i propositi di dedicare più interesse e tempo alle pratiche di pietà, ma mi tranquillizzavo pensando: più avanti, quando ti sentirai bene, quando si assesterà la situazione economica dei tuoi... allora! E oggi, dopo aver dato la Santa Comunione alle monache, prima della Santa Messa, dissi a Gesù quello che tante e tante volte gli dico, di giorno e di notte: (...) “Ti amo più di loro” . Immediatamente ho inteso, senza parole: “Le opere sono amore, non i bei ragionamenti” . Vidi subito con chiarezza quanto io sia poco generoso, e mi vennero alla mente molti particolari cui non pensavo né davo importanza, che mi fecero comprendere con molta evidenza la mia mancanza di generosità. O Gesù: aiutami, perché il tuo asinelio sia completamente generoso. Opere, opere!”210.
433
(Nuova grazia che, come premio al suo desiderio di amare, il Signore gli concedeva perché si conoscesse meglio interiormente; e, d’altro lato, divino sprone per esigere una maggiore donazione di tutte le sue facoltà).
* * *
“Mi attendo grandi cose, in questo anno 1931” , aveva scritto nel mese di marzo negli Appunti. La sua aspettativa fu ampiamente superata. Dodici mesi dopo era così ricólmo di grazia divina da sentirsi traboccare, come sono manifesti in un ubriaco gli effetti del vino; così pieno di Dio che gli veniva voglia di implorare una tregua.
“Mi sento inondato, ubriaco di grazia di Dio. Che grande peccato se non corrispondo! Ci sono dei momenti - oggi stesso - in cui mi viene voglia di gridare: Basta, Signore, basta!” (11-III-1932)211.
L’aquila divina aveva afferrato l’uccellino e lo aveva innalzato ad altezze da vertigine. Il Signore aveva impresso definitivamente nella sua anima il sentimento della filiazione divina, che spingeva il suo spirito ad accettare con amore qualsiasi evento, “ senza badare se sia- come li definisce il mondo - favorevole o contrario, perché, venendo dalle sue mani di Padre, anche se il colpo di scalpello ferisce la carne, è pur sempre una prova di Amore, che toglie le nostre asperità per avvicinarci alla perfezione” (29-XI-1931)212.
Il suo coraggio nel percorrere sentieri di dolore e di espiazione fu premiato dal trionfo dell’amore che, da allora in poi, s ’impose nella sua anima su qualsiasi altro sentimento:
“Gesù, ho molti desideri di riparazione. Il mio cammino è amare e soffrire. Ma l’amore mi fa gioire nella sofferenza, a un punto tale che ora mi sembra impossibile di poter mai soffrire. L’ho già detto: non c’è nessuno che
434
mi possa dare un dispiacere. Anzi, aggiungo: non c’è nessuno che mi possa far soffrire, perché la sofferenza mi dà gioia e pace” (24-I-1932)213.
Da allora in poi, la vita di quel sacerdote fu sempre una normale, serena e amabile combinazione di grandi pene e di grandi gioie. Pene agrodolci, che non gli toglievano la pace; e gioie mai veramente complete.
Immergendosi negli Appunti intimi si vede e si misura quanto Dio aveva operato nel corso di un anno nella sua anima, semplificandola nell’orazione e attraendola negli affetti.
“Ora tra Maria e me, tra Gesù e me, ...nessuno! Prima cercavo dei santi intermediari” (7-IV-1932)214.“Ora vado direttamente al Padre, a Gesù, allo Spirito Santo, a Maria. Ciò non significa che non abbia delle devozioni (S. Giuseppe, gli Angeli, le anime del purgatorio, Domenico, Giuseppe Calasanzio, Don Bosco, Teresa, Ignazio, Saverio, Teresina, Mercedes, ecc.), ma la mia anima indubbiamente si semplifica R.Ch.V.” (26-H-1932)215.
Proseguiva la vita di infanzia spirituale, giovane e audace, e la preghiera del sacerdote sgorgava ora in modo imperioso:
“L’espressione della mia orazione “io voglio” è una maniera infantile di chiedere. Quindi non esco dalla strada” (14-I-1932)216.
Il Fondatore uscì dal 1931 anche con una singolare abitudine. Cominciare a leggere un giornale e immergersi in Dio era un tutt’uno. Al principio questo fatto, che si era ripetuto parecchie volte nel corso dell’anno, gli sembrò curioso, come già abbiamo rilevato217. Ma ben presto vide diventare frequenti e inesplicabili le aridità o i favori che lo coglievano alPimprowiso, fuori
435
tempo e fuori luogo; in modo intempestivo e, molte volte, travolgente:
“È incomprensibile: so di qualcuno che è freddo (nonostante la sua fede, che non ammette limiti) accanto al fuoco divinissimo del Tabernacolo e poi, in mezzo alla strada, fra il rumore di automobili, tram e persone, o mentre legge un giornale, sperimenta folli rapimenti di Amore di Dio” (26-III-1932)218.
Stava forse ricevendo lezioni pratiche su come si può avere vita contemplativa nel traffico congestionato, nel brulichio di persone o nell’ozio di una lettura?
Il diavolo, nel frattempo, non se ne stava inattivo. Scrollava quell’uomo di Dio. Dapprima con l’insinuazione che non aveva diritto a condannare alla povertà la sua famiglia per la “pazzia” dell’Opera. Poi cercando di rubargli la tranquillità, seminando zizzania nella faccenda della nomina ufficiale nel Patronato di Santa Isabel. Alla fine, vedendo quanto poco successo aveva, decise di aggredirlo, con il permesso del Signore.
Da principio il sacerdote non si rese conto che si trattava della rabbia del “grandissimo tignoso” - così chiamava il diavolo219 - finché divenne vittima di uno speciale tipo di violenze. Una domenica di marzo, a mezzogiorno, si recava tranquillamente leggendo il breviario a dare una lezione privata, quando di punto in bianco si prese una violenta pallonata. Si dominò e non voltò neppure il capo “per vedere se fosse casualità o malizia”220.
Dieci giorni dopo, il mercoledì santo, andò a confessare le bambine interne del Collegio di Santa Isabel. Stava ritornando per via Duca di Medinaceli quando scorse dei ragazzi che giocavano sul marciapiede del- l’Hotel Palace. Smaliziato da esperienze similari, si portò rapidamente dall’altro lato della strada, ma non riuscì a evitare l’inevitabile:
436
“Un formidabile calcio di punta e... pumi, la botta sulla lente destra degli occhiali e sul naso. Non ho neppure voltato la testa. Ho tirato fuori il fazzoletto e con calma ho continuato a camminare mentre ripulivo gli occhiali (...). Ho colto subito l’astio diabolico (non poteva essere cosa fortuita) e la bontà di Dio che lo lascia abbaiare, ma non mordere. Là cosa più logica sarebbe stata la rottura della lente, dato che aveva ricevuto un colpo non da poco... O magari una ferita al mio occhio destro. La prima eventualità mi avrebbe procurato un bel dispiacere, perché sono in difficoltà a pagare i pochi tram che devo necessariamente prendere... In fin dei conti: Dio è mio Padre”221.
Non c’è due senza tre, come riferisce un’altra Caterina-.
“Lunedì, 11 aprile. Ieri, mentre camminavo per via Al- varez de Castro - sul marciapiedi, leggendo il breviario- per prendere il 48 in direzione dell’ospedale, mi hanno tirato un’altra gran pallonata! Mi sono messo a ridere.Si è arrabbiato”222.
Don Josemana, con gran senso umoristico, si rendeva conto che Dio “lascia che il diavolo abbai, ma non morda”223. Anche un’altra volta, a quel tempo, sentì in modo chiarissimo che l’inferno ruggiva contro l’Opera di Dio. “Accadde alle dodici del mattino di un giorno di sole, sulla passeggiata di via Martìnez Campos, all’angolo con la Castellana”224. Non diede altre spiegazioni, poiché aveva “ spersonalizzato” le Caterine dai fatti soprannaturali che riguardavano la sua persona. Ma probabilmente l’accaduto si riferisce a un’annotazione di qualche settimana prima in cui si legge:
“L’inferno è furibondo, urla e rugge, perché Satana intravede le anime che l’Opus Dei porterà a Gesù e l’insieme del suo agire nel mondo: l’effettivo regno di Cristo in tutta la società: Regnare Christum volumus”225.
437
NOTE CAPITOLO VI
1 Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7325; Alvaro del Portillo, Sum. 249; Joaqum Alonso, PR, p. 1738.2 Cfr Appunti, nn. 620 e 656. Allora come oggi dare lezioni private non era un lavoro continuativo; in certi periodi era particolarmente difficile trovare alunni. Per questo motivo ci furono dei momenti in cui, proprio mentre aveva urgente necessità di denaro per far fronte a pagamenti di scadenza immediata, si trovò senza alunni. In uno di questi momenti angosciosi, in cui non vedeva alcuna soluzione, gli offrirono delle lezioni private. Dopo averle accettate, annotò: “Questo mi consentirà di pagare l’affitto (questo mese non avrei potuto farlo) e l’iscrizione di Guitin” - il fratellino - “all’istituto. Siano rese grazie a Dio” (ibidem, n. 620). Le lezioni private gli imponevano a volte di procurarsi delle dispense, di svolgere pratiche accademiche e, persino, di accompagnare gli allievi in altre città per gli esami. In una lettera indirizzata a Pou de Foxà, dell’8-IV-1932, don Josemarìa gli parlò di uno di questi viaggi.3 Cfr Lettera di Isidoro Zorzano, 9-XII-1928 (AGP, IZL, D-1213, 3).4 Cfr Pratica Accademica personale, cit., e Appendice documentale, documento XII.5 C 7, 7-III-1930. Con l’accumularsi di mille cose da fare, l’impegno per la tesi di laurea si faceva sempre più difficile.6 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 485.7 C 28, 8-IV-1932.8 Appunti, n. 1676.9 Josefina Santos, AGP, RHF, T-05255, p. 2.10 Appunti, n. 39; cfr ibidem, nota 52.La cosiddetta Cappella del Vescovo a Madrid era stata fondata nel 1520 da Francisco Vargas y Carvajal, consigliere segretario dei Re Cattolici e poi di Carlo V, e da suo figlio Don Gutierre, Vescovo di Plasencia.
438
11 Cfr Appunti, n. 163. Tale fu il caso di un impiegato di commercio, del quale si fa cenno (cfr ibidem, n. 444).12 Ibidem, n. 137.13 Ibidem, n. 200.14 Ibidem, n. 179, nota 193.15 Ibidem, n. 164. La nota porta la data del 27-VI-1932. Il Fondatore parlerà in altre occasioni di “segreto della gestazione” (ibidem, n. 205, nota 225) e di “ Opera non-nata” (ibidem, n. 89).16 Ibidem, n. 67.17 Ibidem, n. 1867.18 Ibidem, n. 1310; Alvaro del Portillo, Szwz. 542.19 Fra i sacerdoti con i quali ricordava di aver parlato c’erano don Norberto, di cui s’è parlato; un canonico di Tarazona che poi lo fu di Toledo, probabilmente don Angel del Barrio (cfr E. Subirana, cit., 1928, p. 453), poi cappellano della Cappella dei Re (di don Angel esiste una lettera datata Toledo 18 agosto 1944, indirizzata a don Josemaria, nella quale gli ricordava la loro dimestichezza e le «inquietudini» che manifestava intorno al 1928: cfr originale in AGP, RHF, D-12807); don Josemaria menzionò anche “un sacerdote valenziano e un giovane religioso della Congregazione della Sacra Famiglia” (cfr Appunti, n. 1864; e Alvaro del Portillo, Sum. 327).20 Appunti, n. 1864.21 Ibidem, n. 1866. Questo scritto fu redatto nel 1948 senza aver consultato il n. 73 degli Appunti, scritto intorno al 26 luglio 1930, e che dice testualmente: “Domenica 6 luglio ho consegnato a P. Sànchez questi fogli, nel Patronato, quando venne per gli esami della Preservazione della Fede. Lunedì 21 dello stesso mese, a Chamartin, il Padre mi ha restituito le note e si è impegnato a essere il nostro Direttore. Laus Deol”22 Ibidem, n. 1868.23 Ibidem, n. 1867.24 Cfr Ibidem, n. 21 e anche il n. 73. Prima del 6 luglio 1930, in diversi luoghi degli Appunti aveva scritto di “Opere di Dio” (cfr nn. 32 e 38) o di “ Opera di Dio” (cfr nn. 4 e 72).25 Ibidem, n. 126. In nota mons. Alvaro del Portillo commenta: «In altre occasioni il Padre ci ha spiegato che quando udì Padre Sànchez parlare dell’Opera di Dio, unì questo nome all’essenza dell’Opera di santificare il lavoro, trasformandolo in preghiera. E con questa nuova interpretazione la denominazione Opera di Dio non gli apparve più cosa presuntuosa, bensì perfettamente logica; e considerò inoltre un mandato divino - come è scritto qui - il fatto che si chiamasse così: Opera di Dio, Opus Dei» (ibidem, nota 146).26 Cfr ibidem, n. 66.27 Era Donna Carolina Carvajal, sorella del Conte Aguilar de Inestrillas.
439
Sui passi compiuti a Palazzo c’è un riferimento in una lettera inviata a don Josemaria da Isidoro Zorzano (Malaga 26-1-1931): «Mi racconterai come va avanti la faccenda del Palazzo» (cfr AGP, IZL, D-1213, n. 13).28 Don Pedro Poveda Castroverde fu il fondatore delle Teresiane. Nacque a Linares (Andalusia) nel 1874. Fu ordinato sacerdote nel 1897; fu professore al seminario di Guadix (Granada). Nel 1906 si trasferì nelle Asturie, dove svolse una intensa attività pedagogica e fondò nel 1911 due scuole di Magistero, a Gijón e ad Oviedo. Nel 1921 divenne membro della Cappella Reale a Madrid; nel 1931 venne nominato segretario della Giurisdizione Palatina. Fu assassinato in odio alla religione il 28-VII-1936. La sua Causa di canonizzazione fu iniziata nel 1955. Il processo diocesano terminò nel 1958 e nel 1980 la Congregazione per le Cause dei Santi emise il decreto detto di introduzione della Causa. Cfr A. Serrano, La estela de un Apóstol, Madrid, 1942; S. de Santa Teresa OCD, Vida de D. Pedro Poveda Castroverde, Madrid 1942; Flavia Paz Velàzquez, Cuadernos Biogràfi- cos, ed. Narcea 1986, 1987, ecc. La beatificazione di Pedro Poveda da parte di S.S. Giovanni Paolo II ha avuto luogo il 10 ottobre 1993.29 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 240; e Javier Echevarria, Sum. 3250. «L’incarico era una meta ambita da molti», spiega Mons. Echevarria; e prosegue: «A seguito di questa conversazione nacque fra i due sacerdoti una profonda amicizia e, nonostante la differenza d’età, D. Pedro Poveda chiamava molte volte don Josemaria per confidarsi fraternamente, per chiedergli consiglio e aiuto nel ministero sacerdotale».30 Nei suoi Appunti, n. 192, racconta che, dopo che ebbe rifiutato la Cappellania Onoraria palatina, “ la marchesa de los Alamos, Maria Luisa Guzmàn, Maria Machimbarrena e sua nipote Maruja (figlia della prima), tutt’e quattro, mi accompagnarono al Ministero di Grazia e Giustizia per presentarmi al Sottosegretario D. José Martmez de Vela- sco. Quattro giorni dopo, la repubblica...” . “Venerdì scorso” (il 17-IV- 1931), “ in casa di Aguilar de Inestrillas, mi presentarono alla signora Martmez de Velasco, che si affrettò a dirmi - e si vedeva che diceva il vero - che a suo marito era dispiaciuto di non aver avuto il tempo di sistemare un suo parente e me” .31 Ibidem.32 II pacchetto che conteneva gli Appunti intimi era conservato nell’archivio della Prelatura insieme ad altre cose, in una busta sulla quale il Fondatore aveva scritto: “In qualsiasi caso, dopo la mia morte queste carte - come pure i quaderni che costituiscono i miei Appunti intimi — devono essere consegnati a don Alvaro, senza che nessuno li legga prima, affinché faccia a parte le annotazioni opportune, dato che questo figlio mio è l’unico che, avendogli io parlato di questi scritti molte volte e a lungo, è in grado di commentare e chiarire tutto quanto debba essere commentato o chiarito. Roma, 2 settembre 1968” .33 “I santi” - scriveva nel 1932 - “ sono sempre delle persone scomode, uomini o donne - la mia santa Caterina da Siena! - perché con il loro esem
440
pio e la loro parola sono un continuo motivo di disagio per le coscienze che sono immerse nel peccato” (Lettera 9-1-1932, n. 73).34 Appunti, n. 1862 (Roma, 14-VI-1948).35 Ibidem. “Ho bruciato il quaderno n. 1” , scrisse nella pagina iniziale del quaderno n. 2.36 Appunti, n. 167.37 Pedro Rocamora, AGP, RHF, T-05829, p. 2.38 Appunti, n. 713. In una Caterina del 24-V-1932 si legge: “Proposito: se non c’è vera necessità, non parlerò mai delle mie cose personali” (ibidem, n. 735). Probabilmente bruciò il primo quaderno dopo Pestate, poiché scrisse altrove - come si era proposto - le note del ritiro spirituale del 1932, che fece in ottobre. (Al ritorno a Madrid, dopo aver fatto a Segovia i suoi esercizi spirituali, scrisse nei suoi Appunti: “ 14 ottobre 1932: conserverò a parte gli appunti dei miei esercizi spirituali” cfr Appunti, nn. 839 e 1701). L’ultima volta che negli Appunti compare un riferimento che indica l’esistenza del primo quaderno è dell’11 dicembre 1931, dove si dice che stava leggendo “una delle note sciolte del primo quaderno a don Lino” , un altro sacerdote, “per fargli conoscere l’Opera più nei particolari” (.Appunti, n. 470). E il giorno precedente commentava che, rileggendo una “certa annotazione del primo quaderno di Caterine” , aveva compreso un punto sconosciuto della propria vita spirituale (cfr ibidem, n. 474).39 Ibidem, n. 996.40 Ibidem, n. 379.41 Ibidem, n. 1040.42 Ibidem, n. 446.43 Ibidem, nn. 472 e 477.44 Ibidem, n. 475.45 Ibidem, n. 691.46 Ibidem, n. 1115. Pure eccezionale, per esempio, è quanto scrisse il 26 novembre 1931: “Dopo la Santa Messa, oggi, nel ringraziamento e più tardi nella chiesa dei Cappuccini di Medinaceli, il Signore mi ha inondato di grazie. Si è adempiuto ciò che dice il Salmo: Uinebriabuntur ab ubertate domus tuae; et torrente voluptatis tuae potabis eos” . Pieno di gioia verso la Volontà di Dio, sento di avergli detto con S. Pietro: ecce reliqui omnia et secutus sum te. E il mio cuore si rese conto del “centuplum recipies” ... Ho vissuto davvero il Vangelo del giorno” (n. 415).47 Ibidem, n. 619. E molto probabile che talvolta dovesse abbreviare la strada attraversando il parco del Retiro, ma certamente non lo faceva per passeggiare (cfr n. 473).48 Ibidem, n. 618.49 Ibidem, n. 349. “Per fortuna” - commentava alcuni anni dopo rileggendo questa nota - “nonostante il cammino d’infanzia che percorrevo, non
441
scrissi questi appunti. Per lo meno non ricordo di averli scritti” (cfr ibidem, nota 334).50 Ibidem, n. 263.51 Ibidem, n. 311.52 Ibidem, n. 343.53 Ibidem, n. 471.54 Ibidem, n. 342.55 Ibidem, n. 13.56 Ibidem, n. 14.57 Ibidem, n. 116.58 Ibidem, n. 313.59 Ibidem, n. 875.- L’espressione usata (in spagnolo Dona Pelada) fa allusione al tradizionale simbolo del teschio (NdT).60 Ibidem, n. 15.61 Ibidem, n. 1166.62 Ibidem, n. 423.63 Ibidem, nn. 458-459. La ragione di scrivere una Caterina è non solo uno sfogo alla sua santa indignazione, ma anche quello di dare un avvertimento per gli oratori che l’Opera avrebbe avuto in futuro, nei quali - termina la nota - “ si eviterà di cadere in simili disattenzioni verso il nostro Re-Cristo” .64 Ibidem, n. 581; cfr Lettera 24-111-1930, n. 21.65 Appunti, n. 173.66 II Governo provvisorio, nel quale c’erano due cattolici e cinque massoni, si autodefinì, fin dalla sua costituzione il 14 aprile, come “governo di pieni poteri” , dandosi uno statuto giuridico il cui art. 3 sanciva come base della propria politica la libertà di credenze e di culto (cfr Gaceta de Madrid, n. 105, 15-IV-1931, 195).Il clero e i cattolici accettarono serenamente gli eventi e il nuovo ordine politico, anche se preoccupati per l’impostazione anticlericale delle forze repubblicane. Il 24 aprile il Nunzio, Mons. Tedeschini, inviò una lettera a tutti i Vescovi, trasmettendo loro indicazioni sulla posizione da adottare: «...essere desiderio della Santa Sede che vostra Eccellenza raccomandi ai sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli della sua diocesi, che rispettino i poteri costituiti e obbediscano ad essi per il mantenimento dell’ordine e del bene comune» (cfr F. de Meer, La Cuestión religiosa en las Cortes Constituyen- tes de la II Repùblica Espanola, Pamplona 1975, pp. 30-31).La Santa Sede sperava che il governo rispettasse i diritti della Chiesa e il Concordato vigente.67 I partiti più rappresentati nell’Assemblea Costituente furono: Socialisti (117), Radicali (93), Radical-Socialisti (59) e Sinistra Repubblicana della
Catalogna (43). Il resto era formato da piccole fazioni di 9 partiti (cfr Republica Espanola. Cortes Constituyentes, Madrid 1932, p. 124). La Camera era formata da 406 deputati in totale. Durante le elezioni la destra non potè o non seppe organizzarsi, per cui la rappresentanza parlamentare non corrispondeva alla realtà della società spagnola.681 giorni 11, 12 e 13 maggio bruciarono 107 edifici religiosi, quasi tutti chiese e conventi. La polizia assistette agli incendi senza fare nulla per fermare gli atti vandalici, benché fin dal giorno prima le autorità fossere a conoscenza che sarebbero scoppiati disordini. A Madrid, forze dell’ordine assistettero passive all’incendio della chiesa di via della Fior. Tale passività del governo contribuì a che gli incendi si ripetessero in molte altre città della Spagna senza che la forza pubblica si decidesse a intervenire. Per tutto ciò che si riferisce al contesto politico, religioso e sociale della II Repubblica spagnola, cfr Stanley G. Pane, La primeva democracia espanola: la Segunda Republica, 1931-1936, Barcellona 1995; Richard H. Robinson, Los orige- nes de la Espana de Franco: derecba, Republica y Revolución 1931-1936, Barcellona 1974; Gonzalo Redondo, Historia de la Iglesia en Espana, 1931- 1939, voi I, La Segunda Republica (1931-1936), Madrid 1993.69 Gli incendi di chiese e conventi non accaddero soltanto nel maggio 1931, ma si ripeterono molte volte durante la Repubblica Spagnola: nel gennaio 1932 a Saragozza, Cordoba e Cadice; nell’aprile 1932 a Siviglia; in luglio a Granada; in ottobre a Cadice, Marchena e Loja; nel dicembre 1933 bruciarono a Saragozza 10 chiese e conventi e a Granada 6 chiese, ecc. Tutto ciò prima dello scoppio rivoluzionario delle Asturie nel 1934 e degli incendi in tutta la Spagna nel 1936 durante i mesi di governo del Fronte Popolare e prima della Guerra Civile (cfr A. Montero, Historia de la Persecución religiosa en Espana, op. cit., pp. 26-27).70 Lettera 29-XII-1947 /14-11-1966, n. 28.Il progetto di Costituzione fu reso noto il 18 agosto. Gli articoli che si riferivano a questioni religiose erano l’art. 3: «Non esiste religione di Stato»; l’art. 24, con il quale tutte le confessioni religiose erano sottomesse alle leggi generali del Paese e veniva annunciato che «lo Stato scioglierà tutti gli Ordini religiosi e nazionalizzerà tutti i loro beni»; l’art. 25, sulla libertà di coscienza e i limiti all’esercizio del culto; l’art. 41, che preconizzava il divorzio; e gli art. 46 e 47 sull’insegnamento.Ciò provocò la pubblicazione di due importanti documenti sulle relazioni fra la Chiesa e lo Stato: la Lettera pastorale del Card. Segura (15-VIII-1931) e il Messaggio della provincia Ecclesiastica Tarraconense; vi erano condannate le dottrine della separazione tra Chiesa e Stato e il laicismo, secondo gli insegnamenti di Papa Leone XIII: «La Lettera pastorale del Card. Segura e il Messaggio dei Vescovi tarraconensi erano, sul piano dei princìpi, una dichiarazione di assoluta incompatibilità tra la Chiesa e la Costituzione che voleva darsi la Repubblica» (F. de Meer, op. cit., pp. 84-85).71 Sul dibattito parlamentare sull’art. 26 della Costituzione (24 del progetto), approvato dal Parlamento il 14 ottobre, cfr F. de Meer, op. cit., pp.129 e ss.
443
Non appena fu nota la redazione definitiva e l’approvazione dell’art. 26 della Costituzione, Papa Pio XI inviò il 16 ottobre un telegramma alla Gerarchia e ai «fedeli figli della Chiesa di Spagna», protestando contro le offese ai «sacrosanti diritti della Chiesa, che sono i diritti di Dio e delle anime», e invitando tutti a «unirsi alle sue intenzioni nella celebrazione del Santo Sacrificio la domenica di Cristo Re, affinché cessi la grande tribolazione che affligge la Chiesa e la nazione spagnola» (cfr Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcalà, n. 1546, 1931, pp. 405-406).72 La pastorale collettiva dell’Episcopato spagnolo portava la data del 20 dicembre 1931, ma fu resa pubblica nelle diocesi il primo gennaio 1932.73 Cfr “ Gaceta de Madrid”, 3-VI-1933. La legge era stata approvata il 17 maggio, ma doveva essere autenticata e firmata dal Presidente della Repubblica, Alcalà Zamora che, molto indeciso, la firmò solo il 2 giugno.74 II documento dell’Episcopato iniziava ricordando che la Gerarchia spagnola, nella dichiarazione collettiva del dicembre 1931, «espose il profondo dissenso della Chiesa di fronte agli eccessi dello Stato che violavano la coscienza cristiana e i diritti confessionali», senza che si potesse accusare le autorità ecclesiastiche di aver sobillato i fedeli, sempre rispettosi dell’ordine pubblico. Poi analizzava «il durissimo trattamento a cui viene sottoposta la Chiesa in Spagna. Essa viene considerata non come persona morale o giuridica riconosciuta e rispettata debitamente all’interno della legalità costituita, ma come un pericolo da individuare e sradicare con norme e interventi di ordine pubblico» (cfr Dichiarazione delVEpiscopato a seguito della legge sulle Confessioni e Congregazioni religiose, in Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcalà n. 1585, 1933).75 AAS, 25 (1933), pp. 275-276. L’arcivescovo di Toledo, Mons. Gomà, appena nominato, pubblicò la lettera pastorale Horas graves (12-VII- 1933), in cui affermava energicamente che «i tentacoli del potere statale sono arrivati dappertutto e hanno potuto penetrare tutto, obbedendo rapidamente all’unico pensiero che li informa: quello di annientare la Chiesa» (cfr A. Montero, op. cit., p. 32).76 Le basi legali erano pronte e, in conformità con lo spirito laicista e la mancanza di rispetto per le dichiarazioni sulle libertà umane contenute proprio nella Costituzione, applicarle voleva dire dare il via all’odio fratricida e, in definitiva, preparare la Guerra Civile 1936-1939.Il primo presidente del Governo repubblicano e presidente della Repubblica, Niceto Alcalà Zamora, scrisse in seguito che la Costituzione spingeva alla guerra civile: «Si è fatta una Costituzione che è un invito implicito alla guerra civile, dalla dottrina - in cui prevale la passione sulla serenità equilibratrice - alla prassi, in cui l’improvvisazione e l’equilibrio instabile sostituiscono l’esperienza e la solida armonia dei poteri» (N. Alcalà Zamora, Los defectos de la Constitución de 1931 , Madrid 1936, p. 51).L’atteggiamento della Gerarchia e dei cattolici spagnoli era stato fin dal primo momento di sottomissione ai poteri costituiti. A questo scopo in
444
ogni diocesi furono date disposizioni da parte dei vescovi. Quelle del Vescovado di Madrid-Alcalà sono raccolte nella Circolare n. 93, Sul rispetto e l'obbedienza ai Poteri costituiti, come aveva chiesto Sua Santità attraverso il Nunzio Apostolico (cfr Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid- Alcalà, n. 1534,1-V-1931, pp. 173-175).77 Appunti, n. 191. La nota porta la data del 20 aprile 1931.78 C18,5-V-1931.79 In data 26 aprile 1931 il Vescovo di Madrid, per evitare sacrilegi, decretava in quali casi si poteva vestire l’abito secolare, a motivo dello sgomento provocato dagli avvenimenti del 14 aprile e del loro carattere antieccle- siastico (cfr Circolare Ad clerum sive saecularem sive regularem circa usum vestis talaris, in Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid- Alcald, n. 1534, l-V-1931, pp. 176-177).Santiago Escrivà de Balaguer, che aveva allora 12 anni, ricorda: «Ho accompagnato Josemarìa a portare il Santissimo dalla cappella del Patronato, in via Nicasio Gallego, alla casa di Pepe Romeo, in via Santa Engracia angolo Maudes, quasi a Cuatro Caminos. Forse ci accompagnava anche Cortés Cavanilla, ma non lo ricordo. Sicuramente ci siamo andati a piedi, perché ricordo la folla, la gente sui marciapiedi, ecc. Josemarìa era vestito da civile con un abito di Pepe Romeo e con un berretto che gli copriva l’ampia tonsura che allora portava. Per strada si poteva circolare poiché, pur essendoci un clima rivoluzionario, l’agitazione era soprattutto vicino ai conventi» (AGP, RHF, T-07921, p. 12). Cfr anche Alvaro del Portillo, PR, p. 1353; e Mario Lantini, Sum. 3562.80 Appunti, n. 202.81 Ibidem, nn. 724 e 573.82 Portò il Santissimo a casa dei Romeo le sere dell’ l l , 12 e 16 maggio, quest’ultima volta per un falso allarme. Cfr Appunti, n. 202.83 Ibidem, n. 424.84 Ibidem, n. 202. Cfr Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7325; Joaqum Alonso, PR, p. 1738.85 “In questa campagna che si è fatta e si fa contro i religiosi, i sacerdoti e la Chiesa, mi sono rafforzato nell’opinione, già manifestata nelle Caterine, che ci sia un’organizzazione segreta che muove il popolo (sempre bambino) con la stampa, giornali, libelli, calunnie, propaganda a voce. Poi lo portano dove vogliono: pure all’inferno” (Appunti, n. 331).86 Ibidem, n. 114.87 Ibidem.88 Ibidem, n. 210.89 Ibidem, n. 211.90 Ibidem, n. 212. Le parole di una strofa dicevano: «Se preti e frati sapessero / le bastonate che li aspettano / andrebbero in coro a cantare: / libertà, libertà, libertà». E probabile che si riferisca a questa strofa.
445
91 Margarita Alvarado Coghem, AGP, RHF, T-04676, 1.92 C 18, 5-V-1931.93 Le conclusioni erano:“a) Devo leggere un quotidiano: “Il Secolo” , visto che sono abbonato.b) Pur senza comprarli - perché devo vivere sempre la povertà - se mi capita tra le mani qualche altro giornale cattolico e c’è qualcosa di interessante, leggerlo.c) In nessun giornale leggere articoli meramente letterari o ricreativi.d) Non leggere riviste illustrate e neppure scorrerle (...). Fanno eccezione le riviste scientifiche e - naturalmente - quelle che trattano delle missioni cattoliche.e) Leggerò “Il Secolo” la mattina successiva alla sua uscita” (Appunti, n. 1726).“Il Secolo futuro” (El Siglo Futuro) era un giornale tradizionalista nel quale lavorava don Antonio Sanz Cerrada, un sacerdote amico di don Jo- semaria, che scriveva con lo pseudonimo di “Fray Jumpero” . Era un giornale a orientamento cattolico e don Josemaria lo leggeva per amicizia verso di lui, anche se spesso non condivideva la linea del giornale (cfr ibidem, n. 1691).94 Ibidem, n. 327. La data della nota è 15-X-1931.95 Ibidem, n. 222.96 Ibidem, n. 291. Un mese dopo gli insulti non turbavano minimamente la sua pace esteriore; il 26-X-1931 scriveva:“Prendo nota di un curioso progresso che ho notato in me. Ne ho già parlato. Prima, gli insulti mi facevano arrabbiare. Poi mi facevano gioire. Ora risate, burle e insulti mi lasciano tranquillo come se fossero rivolti a un muro” (ibidem, n. 348).97 Ibidem, n. 590.98 Ibidem, n. 164.99 Ibidem, n. 28.100 Ibidem, n. 28.101 Ibidem, n. 92.102 Ibidem, n. 111. Questa trilogia si ripetè, nella pratica e nei propositi della sua vita interiore, in diversi modi. Per esempio, facendo di questi tre aspetti i punti di esame di coscienza quotidiano (cfr ibidem, n. 75), o considerando gli aspetti dell’apostolato come apostolato di preghiera, espiazione ed azione (cfr ibidem, n. 129); ovvero: “Pregare, pregare e pregare. Espiare, espiare ed espiare. Poi... lavorare solo per la sua gloria!” (ibidem, n. 154).103 Ibidem, n. 128. L’insistenza del Fondatore sulla preghiera e la mortificazione continue fecero presa su quanti lo seguivano. «Mi convinco sempre più - scriveva Isidoro Zorzano - che solo con il Suo aiuto possiamo raggiungere il nostro obiettivo; è necessario che con la preghiera, l’azione
446
e l’espiazione, otteniamo questa grazia singolare» (Lettera di Isidoro a don Josemaria, 27-X-1931; AGP, IZL, D-1213, n. 18).Queste idee, come si può vedere dalle lettere del Fondatore a Isidoro Zorzano, riflettono gli insegnamenti ricevuti: “Le fondamenta devono essere, prima di tutto, la preghiera e l'espiazione (sacrificio)” (C 12, 23-XI-1930); “spero che presto le cose si mettano in modo (...) che l’azione accompagni l’apostolato nascosto di preghiera e sacrificio” (C 21, 3-IX-1931).104 Appunti, n. 160. È commovente la sua fede nei meriti della sofferenza degli innocenti, come si vede da una Caterina. “ Giorno di S. Giovanni Evangelista, 1930. Oggi, fin dal mattino, avevo offerto le mie azioni al simpaticissimo Apostolo amato da Cristo... Il Signore volle ricompensare la miserabile miseria dei miei meriti mettendomi davanti un malatino di sedici anni, tisico; quando sono uscito dalla visita (al n. 11 di via Cana- rias), offrii l’anima di quel bambino sofferente al Santo Apostolo. E S. Giovanni mi ripagò subito” (27-XII-1930) (n. 140).105 Ibidem, n. 522. Il Fondatore attribuiva anche la precedente caduta de “Il Sole” , un giornale antireligioso, all’efficacia della preghiera innocente di Enriqueta la Tonta (cfr ibidem, nota 431; e Alvaro del Portillo, Sum. 1189).Persino negli Appunti intimi il Fondatore evitava l’uso della prima persona. Quando narrò questo fatto cercò di “ spersonalizzarlo” , quasi fosse un’idea di don Norberto, che era sicuramente al corrente di quanto accaduto, ma la sintassi lascia intravedere che era lui stesso a esortare Enriqueta.“Intorno agli anni dal 1927 al 1931” - raccontò altrove - “si dirigeva spiritualmente con un certo sacerdote una povera donna, ritardata mentale, ignorante e priva di cultura, ma di una squisita finezza d’animo. La chiamavano Enriqueta la Tonta. A quel tempo in Spagna godeva di una gran fama un quotidiano duramente anticattolico, diretto da un gruppo di intellettuali, che stava causando grave danno alle anime e alla Chiesa. Un giorno quel sacerdote, - saldo nella fede e privo di altre armi - chiese alla poverina: “Da oggi, fino a che te lo dirò, pregherai per una mia intenzione” . L’intenzione era che il giornale cessasse le pubblicazioni; e dopo poco tempo si compì di nuovo ciò che dice la Scrittura: quae stulta sunt mundi elegit Deus ut confundat sapientes (1 Cor, 1,27); che Dio ha scelto gli sciocchi secondo il mondo per confondere i saggi: quel giornale chiuse per la preghiera di una povera scema, che continuò a pregare per la stessa intenzione, e allo stesso modo chiusero un secondo e un terzo quotidiano, che avevano preso il posto del primo e che facevano gran danno alle anime” (Lettera 7-X-1950, n. 12).L’ispiratore di “Il Sole” , di “ Crogiolo” e di “Luce” era José Ortega y Gas- set (cfr Appunti, n. 522; sulla storia e la crisi di questi giornali, cfr Gonzalo Redondo, Las empresas politicas de José Ortega y Gasset. “El Sol”, “Crìsol” y “Luz” (1917-1934), Madrid 1970).106 Cfr Appunti, n. 302.107 Ibidem, n. 390.
447
108 Ibidem, n. 430.109 Ibidem, n. 205.110 Ibidem, n. 244.111 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 257 e 258.112 Appunti, n. 207.113 Ibidem, nn. 208 e 209. Sant’Efrem era il 18 giugno, ma egli smise di lavorare al Patronato solo il 28 ottobre 1931 (cfr Appunti, n. 209, nota 236) quando le religiose trovarono un sostituto. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 257. Conferma il dato della sua uscita dal Patronato il fatto che, nel registro di concessione delle facoltà ministeriali, alla data del 23 giugno 1931, è indicata la chiesa di Santa Barbara e non quella del Patronato.114 Lettera del P. Luis Tallada a don Josemaria, 30-VI-1931 (originale in AGP, RHF, D-15399).Le Dame Apostoliche avevano un noviziato a Chamartin dal 1929; ne era cappellano il P. Superiore della Sagrada Familia a Madrid (cfr E. Iturbide, El Amor dijo si, Pamplona 1962, p. 177). In quegli anni fu Maestra delle novizie Àsunción Munoz (cfr ibidem, pp. 175-176), la quale dichiara che anche il cappellano del Patronato andava spesso a far loro visita (Asun- ción Munoz, AGP, RHF, T-04393, p. 4). Da quanto si apprende dalla corrispondenza con P. Luis Tallada, don Josemaria conobbe anche altri religiosi della Sagrada Familia a Madrid.115 Appunti, n. 689.116 Ibidem, n. 356. Mons. Alvaro del Portillo, commentando questo incidente, scrive: «si trattò di piccolezze senza importanza, a quanto mi assicurò nostro Padre, ma il Signore permise che gli dolesse molto» (ibidem, nota 338). Poi si accomiatò dalle religiose, non solo dimenticando ciò chelo aveva fatto soffrire, ma chiedendo loro scusa: “La faccenda del Patronato l’ho sistemata come mi ha detto Padre Sànchez: con molto affetto; sono tornato a chiedere scusa se non sono stato loro di edificazione con il mio carattere, ecc.” (ibidem, n. 363). Per l’ammirazione e la gratitudine che ebbe sempre per le Dame Apostoliche e per le loro attività, cfr Alvaro del Portillo, Sum. 447; e Javier Echevarria, Sum. 2077.117 Cfr l’istanza presentata da don Josemaria al Ministero del Lavoro, il 26-1-1934, in Archivio del Patrimonio Nazionale, sezione Patronati Reali, Patronato di Santa Isabel, Incartamento personale di Josemaria Escrivà, Cassa 182/21.118 La prima notizia che ebbe sull’abbandono in cui si trovava la cappella- ma di Santa Isabel fu nel mese di luglio, tramite una delle Ausiliarie delle Dame Apostoliche, Catalina Garcia del Rey (Appunti, n. 354).Suor Cecilia Gómez Jiménez, ricordando le notizie che giravano nel convento, dice: «A quanto ho sentito dire dalle religiose, venire qui a celebrare significava rischiare la vita; e poiché nessuno voleva venire, rimasero senza cappellano» (Sum. 6515).119 Cfr José Luis Sàenz Ruiz-Olalde O.A.R., Las Agustinas Recoletas de
448
Santa Isabel la Reai, de Madrid, Reai Monasterio de Santa Isabel, Madrid 1990; e Leticia Sànchez Hernàndez, El convento de Santa Isabel: Madrid 1589-1989 (in {tReal Fundación del Convento de Santa Isabel de Madrid”, Patrimonio National, 1990).120 Cfr Decreto del 20-IV-1931 sui Beni del Patrimonio della Corona, in “ Gaceta de Madrid" (21 e 22 aprile 1931) e Decreto del 22-IV-1931, conil quale veniva creata una Giunta presso il Ministero degli Interni per dirigere i Patronati dell’estinta Casa Reale, in “ Gaceta de Madrid” (24 aprile 1931).Cfr Decreto del 20-XI-1931 sulla Provvista di personale per sedi vacanti nei Patronati della Corona, in “ Gaceta de Madrid33 (26 novembre 1931). Le sedi allora vacanti o che si rendessero tali, dice il decreto, «saranno provviste dal Presidente della Repubblica o dal Capo del Governo, su proposta del Ministro degli Interni».121 Don Gabriel Palmer era Vicario Generale della Giurisdizione Palatina, dalla quale dipendevano i Patronati Reali e che aveva la propria sede nel “Patronato del Buen Suceso” (cfr Archivio del Patrimonio Nazionale, sezione citata, Cassa 2756/22).Cfr Comunicazione del Consiglio d’Amministrazione del Patrimonio della Repubblica, indirizzata a S. E. R. Mons. Ramon Pérez Rodriguez, Patriarca delle Indie, in data 2 febbraio 1933, perché si prendesse cura dell’archivio e dell’ufficio della estinta Pro-Cappellania Maggiore di Palazzo (che esercitava allora la giurisdizione palatina), sita in via Quintana, 2 (in Archivio del Patrimonio Nazionale, sez. Patronati Reali, Cassa 2756/22).122 Sugli obblighi del cappellano, cfr Joaquin Alonso, PR, p. 1738; Cecilia Gómez Jiménez, Sum. 6510; Juan Jiménez Vargas, Sum. 6703; Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7328.Don Buenaventura Gutiérrez y Sanjuàn fu ordinato a Toledo nel 1904; divenne Cappellano d’Onore di Sua Maestà il 29 gennaio 1909 e Rettore del Reai Patronato di Santa Isabel l’I dicembre 1919. Ricoprì l’incarico finché «cessò il 16 giugno 1931 in virtù dell’Ordine Ministeriale che eliminava dall’organico del servizio attivo tutto il personale applicato alla Cappella del fu Palazzo Reale» (Archivio del Patrimonio Nazionale, Sez. Patronati Reali, Patronato di Santa Isabel, Pratica personale di D. Buenaventura G. y S., Cassa 182/20); cfr anche E. Subirana, op. cit., 1931, p. 430.123 Don José Cicuéndez Aparicio - il già citato direttore dell’Accademia Cicuéndez - era stato nominato cappellano di Santa Isabel nel luglio 1910 (cfr, nell’Archivio ora citato, la sua pratica personale, cassa 182/17; cfr anche E. Subirana, cit., 1931, p. 430).124 Cfr Comunicazione indirizzata a Don Juan Causapié, Maggiordomo della Fondazione, Ospedale e chiesa del “Buen Suceso” , dal Ministero degli Interni, nella quale gli veniva notificata la nomina a Rettore Amministratore interinale, firmata dal Dr. Cifuentes, Madrid, 9 luglio 1931 (nella Pratica personale di don Juan Causapié, Archivio citato, Cassa 178/73); cfr anche E. Subirana, cit., 1931, p. 430.
449
125 Appunti, n. 225.126 Ibidem, n. 294.127 Ibidem, n. 387.128 Ibidem, n. 403.129 Ibidem, n. 497.130 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 89.131 Appunti, nn. 217 e 218. Nella diocesi di Madrid-Alcalà la festa della Trasfigurazione del Signore era celebrata il 7 agosto, dato che il giorno 6 era impedito perché ricorreva la festa dei Santi Giusto e Pastore, Patroni principali della diocesi.La capitale della Spagna è stata sempre chiamata la “ Villa de Madrid” e, durante la monarchia, la “ Villa y Corte” , perché vi risiedeva la Corte reale. Quando don Josemaria scriveva queste righe era stata da poco proclamata la Repubblica: per questo utilizza l’espressione “ex Corte” .L’offerta all’Amore Misericordioso è una preghiera, molto diffusa a quel tempo, che dice così: «Padre Santo, per mezzo del Cuore Immacolato di Maria, ti offro il tuo amatissimo figlio e ti offro me stesso in Lui, per Lui e con Lui, secondo tutte le sue intenzioni e a nome di tutte le creature» (cfr Alvaro del Portillo, Sum. 337 e 1118). Di questa devozione si tornerà a parlare più avanti, in questo capitolo.132 Sulla grazia ricevuta il 7-VIII-1931 danno la loro testimonianza, per averne udito il racconto dalla bocca del Fondatore: Alvaro del Portillo, Sum. 1711; Javier Echevarrìa, PR, p. 1698; Mario Lantini, Sum. 3741; Ju- liàn Herranz, PR, p. 982. Sul lavoro come mezzo di santificazione e di apostolato, idea sempre presente nella predicazione e negli scritti del Fondatore, cfr ad esempio Lettera 11-III-1940, nn. I l e 13; È Gesù che passa, nn. 14, 39, 105, 156, 183.133 E f 1,10.134 Lettem i 1 -III-1940, n. 13.135 Appunti, n. 92.136 Lettera 29-XII-1947 / 14-11-1966, n. 5.137 Appunti, n. 273. Prima della locuzione del 7-IX-1931 aveva scritto del- l’Opus Dei: “Riempirà tutto il mondo; e si estenderà anche per l’intero orbe (...), affinché la terra intera sia un solo gregge e un solo Pastore” (ibidem, nn. 92 e 134).138 Lettera 9-1-1932, n. 93.139 Appunti, n. 629.140 Ibidem, n. 284. Nella Istruzione 19-111-1934, nn. 28 e 29, c’è questo pensiero, collegato a quanto espresso il 10 settembre 1931 (Appunti, n. 277), e riferito esplicitamente all’Opera e a ciascuno dei suoi membri. Eccone il contenuto:“Nostro Signore non vuole per la sua Opera una personalità effimera: ci chiede una personalità immortale, perché vuole che nell’Opera ci sia un
450
gruppo inchiodato alla Croce: la santa Croce ci renderà durevoli, sempre con lo stesso spirito del Vangelo, che porterà l’apostolato d’azione come frutto saporito dell’orazione e del sacrificio.In questo modo si ritorna a vivere, da parte dell’Opera e di ciascuno dei suoi membri, il divino segreto che S. Paolo insegnava ai Filippesi (2, 5-11), strada sicurissima dell’immortalità e della gloria: attraverso l’umiliazione, fino alla Croce; dalla Croce, con Cristo, alla gloria immortale del Padre” .141 Appunti, n. 296.142 Ibidem, nn. 317 e 326.143 Ibidem, n. 334.Anni dopo, ricordando quel giorno, scriverà: “L’orazione più alta l’ebbi (...) stando su un tram e, subito dopo, mentre vagavo per le strade di Madrid, contemplando questa meravigliosa realtà: Dio è mio Padre. So che, senza poterlo evitare, ripetevo: Abba, Pater! Immagino che mi prendessero per pazzo” (Istruzione V-35/IX-50, n. 22, nota 28). Il Signore gli confermava così che “ la strada non impedisce il dialogo contemplativo; l’agitazione del mondo è, per noi, luogo di orazione” (Lettera 9-1-1959, n. 60).Riferendosi alla filiazione divina, fondamento dello spirito dell’Opus Dei, scrisse: “Questo aspetto tipico del nostro spirito nacque con l’Opera e nel 1931 prese forma: in momenti umanamente difficili, nei quali avevo tuttavia la certezza dell’impossibile, di ciò che oggi è divenuto realtà” (Lettera 9-1-1959, n. 60).144 Ibidem e Lettera 8-XII-1949, n. 41; cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 1077 e 1297.145 Lettera 24-111-1930, n. 2.146 Meditazione, del 24-XII-1969.147 Meditazione del 2-X-1971.148 Lettera 8-XII-1949, n. 41.149 Appunti, n. 357. Il solo pensiero che fosse possibile aver paura di Diolo faceva soffrire. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 1030; Javier Echevarria, Sum. 2517.150 Cfr Appunti, n. 358. Non appena tranquillizzatosi, gli venne uno di quegli intensissimi trasporti di orazione che lo colmavano di gioia interiore (cfr ibidem, nn. 358-359).151 Ibidem, n. 364. Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 1030; Mario Lan- tini, Sum. 3666; Ignacio Celaya, Sum. 5935; ecc.152 Appunti, n. 476.153 Parole di un’omelia del 2-X-1968, raccolte in AGP, P02 1968.154 Lettera di don José Pou de Foxà a don Josemaria, 20-XI-1931 (AGP, RHF, D-15309).155 Lettere di don Ambrosio Sanz a don Josemaria, 17-XII-1931 (AGP, RHF, D-15241). Don Ambrosio Sanz Lavilla fu ordinato a Santander nel
451
1911. Era dottore in Sacra Teologia e in Diritto Canonico. Fu canonico di Barbastro nel 1927 e professore del Seminario della città fino al 1956, anno della sua morte (cfr E. Subirana, cit., 1928, p. 103).Nella Caterina n. 423 si legge: “Ieri ho scritto al canonico di Barbastro don Ambrosio Sanz, chiedendogli preghiere” ; e datò lo scritto 28 novembre, all’epoca “vigilia dell’Apostolo Sant’Andrea” (Appunti, n. 421). Don Ambrosio dice di aver ricevuto la lettera «del 26 scorso». È possibile che, salvo errore di memoria, don Josemarìa abbia datato al 26 la lettera, che però proseguì a scrivere e spedì il 28.156 Appunti, n. 274 (9-IX-1931).157 Ibidem, n. 301.158 Ibidem, n. 560.159 Ibidem, nota preliminare.160 Appunti, n. 307; cfr Meditazione, 14-11-64.161 Appunti, n. 335.162 Ibidem, n. 350.163 Ibidem, n. 351.164 Ibidem, n. 355.165 Ibidem, n. 356 (28-X-1931).166 Ibidem, n. 363.167 Ibidem, n. 387 (2-XI-1931).168 Ibidem, n. 388.169 Cfr ibidem, n. 415.170 Ibidem, n. 416.171 Ibidem, n. 429.172 Ibidem, n. 426.173 Ibidem, n. 467.174 Ibidem, n. 493.175 Ibidem.176 “In questa Madrid” - era il cristiano lamento della signora Dolores - “noi stiamo passando il purgatorio” (ibidem, n. 500, 23-XII-1931).177 Ibidem, n. 523.178 Cfr ibidem, n. 564 (14-1-1932).179 Cfr ibidem, n. 597 (15-11-1932).180 Ibidem, n. 596.181 Su questo Vescovo, cfr Sebastiàn Cirac Estopanào, Vida de Don Cruz Laplana, Obispo de Cuenca, Barcellona 1943.182 AGP, POI, 1979, p. 251.183 Appunti, n. 598 (15-11-1932).
452
184 Ibidem, n. 599.185 Ibidem, n. 587.186 Lettera 8-XII-1949, n. 41.187 Appunti, n. 307.188 Ibidem, n. 328. L’art. 26 della Costituzione approvato il 14 ottobre 1931, diceva: «Vengono sciolti gli ordini religiosi che statutariamente impongano, oltre ai tre voti canonici, un altro voto speciale di obbedienza ad autorità diversa da quella legittima dello Stato».Non c’era dubbio sull’obiettivo perseguito. Con decreto pubblicato il 24 gennaio 1932 vennero sciolti i centri d’insegnamento, i noviziati e le residenze della Compagnia di Gesù. Cfr Gonzalo Redondo, Historia de la Iglesia en Espana (1931-1939), Rialp, Madrid 1993, voi. I, pp. 164 e ss.189 Appunti, n. 328. «Quell’immagine del Bambino Gesù - commenta Mons. Alvaro del Portillo - diede occasione a nostro Padre di fare molta orazione e molti atti d’amore verso la santissima Umanità di Gesù. Era solito chiederlo alle suore specialmente nel periodo natalizio e lo faceva danzare, lo ninnava e lo vezzeggiava».190 Ibidem, n. 347. Questa Caterina così prosegue: “mi fai sentire che l’Opera di Dio non avrà devozioni né immagini particolari, specifiche, come hanno di solito i membri di famiglie religiose. (L’Amore Misericordioso - e la sua dottrina - è universale)” .La devozione “all’Amore Misericordioso” che il Fondatore citava qui fu una sua devozione privata. Da testimonianze scritte sue e di altri sappiamo che la praticò fin dai primi anni del soggiorno a Madrid (cfr Appunti, nn. 432 e 1380; Alvaro del Portillo, Sum. 1268) e che tutti i giorni faceva l’offerta all’Amore Misericordioso dopo la Consacrazione della Messa (cfr Appunti, n. 217; Alvaro del Portillo, Sum. 337, 1118 e 1119; Javier Eche- varrìa, Sum. 2580; Joaqum Alonso, Sum. 4751). Diffondeva anche questa devozione fra altre persone, distribuendo o inviando immaginette (cfr Appunti, n. 1029; José Ramon Herrero Fontana, AGP, RHF, T-05834, p. 1). La devozione all’Amore Misericordioso è complemento e sviluppo della devozione al Sacro Cuore di Gesù. Nacque in Francia intorno alla figura di Santa Teresa di Lisieux e del suo cammino di infanzia spirituale; ne è stata promotrice una religiosa dell’Ordine della Visitazione, Marie Thérè- se Desandais.191 Appunti, n. 570.192 Ibidem, n. 435. Il giorno successivo (l-XII-1931) aggiunse: “Infanzia spirituale! L’infanzia spirituale non è semplicioneria spirituale, né mollezza: è cammino saggio e vigoroso che, per la sua difficile facilità, l’anima deve intraprendere e continuare portata per mano da Dio” (ibidem, n. 438).193 Ibidem, n. 574.194 Ibidem, n. 435.195 Ibidem.
453
196 Ibidem, n. 437.197 Cfr ibidem, n. 454, nota 382. Inviò al suo confessore l’originale manoscritto, del dicembre 1931, con una nota nella quale si legge: “Le invio questi fogli ciclostilati, che hanno lo scopo di spingere i nostri amici sulla via della contemplazione” (cfr AGP, T HF, D-04668). E l’I gennaio 1932 scrisse: “Ieri sono stato da P. Sànchez. Mi ha restituito, postillati, i miei fogli sul santo rosario” (.Appunti, n. 529).Un’edizione molto modesta, con l’intenzione di farla oggetto di regalo, fu fatta nel 1934 a Madrid, nella tipografia di via Juan Bravo 3, con licenza ecclesiastica. Il titolo è: “Santo Rosario, di José Maria” .La prima edizione dopo la guerra civile (José Maria Escrivà: Santo Rosa- rio, Edizioni Turia, Valencia) fu stampata probabilmente all’inizio di ottobre 1939, dato che la licenza ecclesiastica ha la data del 2-X-1939. Questa edizione porta già un prologo del Vescovo di Vitoria e ha il formato di un opuscolo.La prima edizione commerciale (Josemaria Escrivà de Balaguer: Santo Rosario, ed. Minerva, Madrid 1945), a differenza delle precedenti, ha il formato di un libro, di dimensioni ridotte ed elegantemente illustrato. L’autore ampliò leggermente il testo del 1934, limitatamente al commento di alcuni misteri.198 Santo Rosario, primo mistero gaudioso.Un appunto del 15 agosto 1931 sembra indicare che in precedenza già aveva sperimentato il metodo di contemplazione enunciato: “ Giorno del- l’Assunzione della Madonna, 1931: ieri e oggi ho importunato, quasi con troppa insistenza, la Santissima Vergine, chiedendole protezione per l’O- pera di Dio. Da questa sera farò una novena a nostra Madre, commemorando la sua assunzione al cielo in corpo e anima. Davvero mi riempie di gioia, e mi sembra di essere presente con la Trinità beatissima e con gli Angeli, a ricevere la loro Regina, con tutti i Santi, che acclamano la Madre e Signora” (Appunti, n. 228).199 Ibidem, n. 226 (13-VIII-1931). Citazioni in date successive sulla “Vergine dei Baci” (o “Madonna dei Baci” , come è stato tradotto altre volte): ibidem, nn. 239, 325, 488, 701 e 702.200 Ibidem, n. 484.Mons. A. del Portillo fa il seguente commento: «A nostro Padre non piaceva raccontare avvenimenti di tipo soprannaturale che avessero un rapporto con la sua persona. Tuttavia, questo episodio me l’ha riferito in più di un’occasione. Mentre lo raccontava, faceva notare che l’ora del giorno non era propizia alle allucinazioni, poiché si trattava di una giornata di sole pieno ed erano solamente le tre del pomeriggio. Mi raccontava di aver udito dire da quello che aveva preso le sue difese: asinelio, asinelio', nessuno conosceva questa definizione che nostro Padre dava di se stesso - a parte Dio Nostro Signore - se non il suo confessore, P. Sànchez. Il Padre attribuì l’attacco a un’azione diabolica e la difesa al suo Angelo Custode» (ibidem, n. 484, nota 397).201 Ibidem, n. 485.
454
202 II “giorno dei Santi Innocenti” equivale al April-fooVs day nei Paesi di lingua inglese; e i relativi scherzi, ai poissons d’avril dei francesi e al pesce d’aprile degli italiani.203 Appunti, nn. 516, 517e518.204 Ibidem, n. 528. «Riferiva la Madre Carmen de San José, ormai defunta, che era sacrestana al tempo in cui don Josemaria era cappellano, che c’era nella comunità un piccolo Gesù Bambino, che veniva portato in chiesa solo nelle feste natalizie per l’adorazione; quando glielo passavano attraverso la ruota, lo udivano trattare il Bambinello con molta familiarità e affetto e indirizzargli dei saluti come se fosse vivo; alcune volte il Servo di Dio ottenne di poter portare a casa sua il Bambinello per fare orazione davanti a lui; poi lo restituiva alla comunità» (Cecilia Gómez Jiménez, Sum. 6511).Le religiose di Santa Isabel hanno pubblicato recentemente un’immaginet- ta del Gesù Bambino con il seguente testo:BAMBINO GESÙ DI MONSIGNOR ESCRIVÀ«Nel Reale Monastero di Santa Isabel delle Agostiniane Recollette di Madrid-Atocha, fondato dal Beato Alonso de Orozco nel 1589, è racchiusa una ricca storia di arte e di santità. Fra i suoi tesori, di cui moltissimi furono distrutti dalle fiamme durante la guerra civile (1936-39), si conserva una piccola statuetta del Bambino Gesù, di legno intagliato, forse del XVII secolo, che veniva esposta anticamente, e ancora oggi, alla venerazione dei fedeli durante le festività del Natale.Di questo monastero fu Cappellano e Rettore maggiore, dal 1931 al 1936, monsignor Josemaria Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei. Fra le religiose contemplative è ancora molto viva la memoria di quel giovane sacerdote, amantissimo dell’Eucaristia e completamente dedito all’orazione. Esse coltivano il ricordo di qualche episodio singolare verificatosi fra padre Escrivà e il Divino Bambinello. Si crede che egli abbia ottenuto da Lui qualche grazia straordinaria. Il padre si portava spesso a casa sua la già celebre immagine, con il permesso della Priora. E quando la restituiva si dimostrava commosso e pieno di gioia. A quel tempo ardeva di fervore mistico e scrisse il libro Cammino con il titolo di Considerazioni spirituali, come pure il trattatello II Santo Rosario.Per contemplare e venerare questo piccolo simulacro del Bambino Gesù di Monsignor Escrivà arrivano al monastero delle Agostiniane Recollette persone dai paesi più lontani».205 Appunti, n. 560.206 Ibidem, n. 562; e proseguiva così:“ Credo di averla già letta una volta, ma senza darle importanza e senza che, a quanto pare, lasciasse traccia nel mio spirito. Fu per prima Mercedes che fece sì che io comprendessi e ammirassi e volessi praticare la sintesi della sua vita mirabile: nascondersi e scomparire. Ma questo programma di vita, che in lei era conseguenza, frutto saporito della sua intima e profonda umiltà, non è altro, in fin dei conti, che il nòcciolo dell’infanzia
455
spirituale. Allora Teresina mi prese e mi portò, con Mercedes, per mezzo di Maria mia Madre e Signora, all’Amor e di Gesù” .Il suo criterio nei confronti di questa via di spiritualità lo espresse in una Caterina del 2-1-1932: “Quando dico in queste Caterine che il Signore desidera per i soci la conoscenza e la pratica della vita d’infanzia spirituale, non è mia intenzione “uniformare” le anime degli “uomini di Dio” . Al contrario (...), quello che vedo è: 1) bisogna far conoscere a tutti e a ciascun socio la vita di infanzia spirituale; 2) non si forzerà mai nessuno a seguire questa via, né alcun’altra via spirituale determinata” (ibidem, n. 535). Come scriverà più tardi, non imponeva ai suoi figli spirituali questo cammino, ma lo raccomandava (cfr Lettera 8-XII-1949, n. 41).207 Appunti, n. 543, del 4-II-1932.208 “Ero un po’ turbato” - continua la Caterina - “perché ricordavo solamente il passo del cap. 21 di S. Matteo e ritenevo che Gesù fosse salito su un’asina per entrare a Gerusalemme; in questo momento apro il santo Vangelo (di quanta esegesi ho bisogno!) e leggo nel cap. 11 di S. Marco, ai versetti 2,4-5-7: Et ait illis: ite in castellum, quod contra vos est, et statim introeuntes illue, invenietis pullum ligatum, (...). Et duxerunt pullum ad Iesum: et imponunt illi vestimenta sua, et sedit super eum (cfr anche: Le 19,30 e 35; Gv 12, 14 e 15). - R. Ch. V.Bambino buono: digli a Gesù molte volte al giorno: ti amo, ti amo, ti amo...” .Mons. del Portillo commenta: «Fu una sorta di zuccherino che il Signore diede a nostro Padre, riempiendolo di gioia e di pace. A proposito del commento del Padre - “ di quanta esegesi ho bisogno!” - è bene tenere presente che ebbe sempre il massimo dei voti nell’esegesi della Sacra Scrittura, di cui frequentò quattro corsi. Fu il Signore che lo rese cieco per un momento, affinché sentisse il bisogno di verificare i passi testamentari e non avere così motivo di dubitare: anche nostro Padre lo spiegava così» (;ibidem, nota 451; cfr Javier Echevarrfa, Sum. 3272; Juliàn Herranz, Sum. 4029; José Luis Muzquiz, sum. 5853; César Ortiz-Echague, Sum. 6902).209 Appunti, n. 421.210 Ibidem, n. 606; cfr Cammino, n. 933. Circa questa locuzione interiore del Signore, Mons. del Portillo commenta che «diede una forte spinta a nostro Padre», non perché stesse pregando poco, ma perché «il Signore gli chiedeva di più, e con questa locuzione gli diede luce affinché si rendesse conto di “molti particolari cui non davo importanza” » (ibidem, nota 496; cfr Javier Echevarrfa, Sum. 3272; Juliàn Herranz, PR, p. 982; Ernesto Julia, Sum. 4245; Giovanni Udaondo, Sum. 5083; Cecilia Gómez Jiménez, Sum. 6517; Maria Isabel Laporte, Sum., 5189).211 Appunti, n. 653.212 Ibidem, n. 430.213 Ibidem, n. 582. Così prosegue l’annotazione: “Don Norberto mi dice molte volte che non sarà sempre così e soffrirò. Non lo credo, Gesù: Tu
456
non mi puoi togliere ciò che mi hai dato tanto generosamente. Ma se fosse, da questo momento e per sempre ti dico: si faccia” .214 Ibidem, n. 690.115 Ibidem, n. 618. Il Fondatore aveva organizzato le proprie devozioni nel corso della settimana: “La domenica la dedicherò alla Trinità Beatissima. Il lunedì, alle mie buone amiche le Anime del Purgatorio. Il martedì, al mio Angelo Custode e a tutti gli altri Angeli Custodi, e a tutti gli Angeli del cielo senza distinzione. Il mercoledì, al mio Padre e Signore S. Giuseppe. Il giovedì, alla Santa Eucaristia. Il venerdì, alla Passione di Gesù. Il sabato, alla Vergine Santa Maria, mia Madre” (ibidem, n. 568, del 18-1-1932).Di Mercedes Reyna, religiosa delle Dame Apostoliche, si è già parlato. Don Josemaria aveva intenzione di scriverne la biografia e per qualche tempo raccolse documentazione dalla famiglia di Mercedes. Nel suo Epistolario ci sono diverse lettere a Rosaria Reyna de Ribas, sorella di Mercedes (cfr C 2, 21-VII-1929; e anche Lettere 3, 4, 5, 6, 8, 9, 11 e 13).In una lettera a Rosaria Reyna del 28-1-1932, poiché la famiglia chiedeva le lettere di Mercedes, chiese una proroga per il suo lavoro biografico, il ritardo del quale, scriveva, è dovuto “anzitutto alle circostanze politiche; poi all’incendio dei conventi, che mi obbligò a traslocare, trasferendomi dal Patronato; e infine alla dura necessità di far fronte alla vita (...). D’altra parte i momenti attuali non sono propizi per buttarsi in avventure editoriali: anche questo ha contribuito a trattenermi sulla strada che mi ero tracciata” (C 25, 28-1-1932). Come si vede da lettere successive (cfr C 27, 5-II-1932; C 29, 17-IV-1932; C 37, l-X-1932), don Josemaria dovette restituire i documenti, senza aver lavorato alla biografia di Mercedes Reyna.216 Appunti, n. 563.217 Cfr ibidem, n. 618.218 Ibidem, n. 673.219 Ibidem, n. 556.220 Ibidem, n. 659 (13-111-1932).221 Ibidem, n. 671 (23-111-1932).222 Ibidem, n. 693 (ll-IV-1932).223 Ibidem, n. 671.224 Ibidem, n. 482.225 Ibidem, n. 393.
457
Capitolo VII
LA GESTAZIONE DELL’OPERA
1. Tra gli ammalati: “sublime servizio”
Alla fine del XVI secolo a Madrid esistevano quattordici piccoli ospedali. Un capitano del Reggimento delle Fiandre, Bernardino de Obregón, poi conosciuto come l’Apostolo di Madrid, convinse re Filippo II a fonderli in uno solo. Fu creata una Giunta per gli Ospedali e il progetto del nuovo edificio fu affidato a Herrera, l’architetto dell’Escorial. Furono scelti dei terreni vicini alla proprietà di Antonio Pérez, dove fu costruito il convento di Santa Isabel, confinante con l’Ospedale della Passione, destinato alle donne1.
Ma iniziare i lavori e dare la stura alle liti fu tutt’uno. E non deve destare meraviglia perché lo svincolamento di fondazioni, cappelle e chiese collegate con gli ospedali moltiplicò i ricorsi presso le autorità ecclesiastiche. I lavori rimasero fermi per quasi un secolo e non furono ultimati che ai tempi di Carlo III. L’antico Ospedale della Passione fu demolito nel 1831 e sul medesimo terreno di via Atocha fu costruita la sede della Facoltà di Medicina di S. Carlo2.
Quando don Josemarìa usciva da Santa Isabel si trovava di fronte l’imponente costruzione dell’Ospedale Generale (chiamato pure Provinciale), in una delle cui
459
ali era stato sistemato il Policlinico, che dipendeva dalla Facoltà di Medicina. Nell’estate del 1931, quando ancora non aveva lasciato del tutto il lavoro del “Patronato de Enfermos” , guardando l’imponente edificio gli venivano inevitabilmente in mente i malati che abbandonava. Lo turbava il fatto che ben presto, il giorno in cui avesse preso commiato dalle Dame Apostoliche, si sarebbe aperto un tremendo vuoto nella sua anima. (“Nel “Patronato de Enfermos” il Signore volle che io trovassi il mio cuore di sacerdote” , confessava)3.
(Il lavoro negli ospedali, la vicinanza alla sofferenza, l’offerta dei dolori e la preghiera dei malati in lacrime: furono queste le radici dalle quali il Fondatore trasse vitalità soprannaturale agli inizi dell’Opera).
Il tempo passava e il 28 ottobre 1931 lasciò definitivamente il “Patronato de Enfermos” . Nello stesso giorno il Signore pose rimedio alle sue preoccupazioni dandogli in eredità una grande abbondanza di malati dei quali occuparsi:
“Un altro favore del Signore” - scrisse -. “Ieri ho dovuto lasciare definitivamente il Patronato e quindi i malati; ma il mio Gesù non vuole che li lasci e mi ha ricordato che Lui sta inchiodato in un letto d’ospedale...”4.
Per dare continuità alle sue opere di misericordia con i malati, Dio si servì del sacrestano di Santa Isabel, Antonio Diaz, il quale gli parlò della Congregazione di S. Filippo Neri. Questa Congregazione, detta dei “Filippini” , si occupava dei malati dell’Ospedale Generale5. Don Josemarfa si informò, si consultò con il confessore e annotò lieto negli Appunti: “Da domenica prossima comincerò ad esercitare questo sublime servizio”6. L’8 novembre assistè per la prima volta alla riunione della Congregazione. Secondo le Costituzioni, il numero di fratelli, tutti laici, era di 70 al massimo; fra di essi veniva eletto un Fratello Maggiore. A quel tempo si attene
460
vano ancora, nelle consuetudini e cerimonie, alle antiche usanze delle Costituzioni. Le domeniche, alle quattro in punto del pomeriggio, si presentavano i fratelli, ridotti allora, nel 1931, a poco più di una dozzina7. Si vestivano di una veste nera e andavano a pregare nella cappella della Congregazione. Poi, fatta la distribuzione degli incarichi, a coppie o in gruppi di tre o quattro percorrevano le sale loro indicate, non senza aver prima raccolto materiale dal deposito: asciugamani, catini, sapone, bende, forbici, ecc.
Nelle Costituzioni viene precisato che i Filippini dovevano prestare i loro servizi ai malati «con molta umiltà e rispetto, vedendo in ciascuno l’immagine viva di Cristo». Vi sono indicati anche, per capitoli, i compiti specifici dei fratelli: «Rifare i letti ai poveri»; «avere uno speciale riguardo per gli asmatici»; «lavare i piedi e provvedere al taglio dei capelli e delle unghie ai poveri»; «quando occorre, si ripuliscano i vasi da notte», ecc.8.
Nelle lunghe ore passate ogni giorno al capezzale dei malati, affratellato ai loro dolori, testimone delle loro miserie, consolando con la sua presenza e cancellando le miserie dell’anima nel sacramento della Penitenza, don Josemarìa riusciva a vedere la figura amabile e sofferente di Cristo riflessa nei malati. Cristo misericordioso, Cristo paziente, Cristo caricato del peso e della bruttura del peccato, Cristo che condivide i nostri dolori e le nostre pene. E il sacerdote, altro Cristo, si identificava con i malati nel dolore e nella misericordia. Sentiva il vivo desiderio di vedere e aiutare Cristo nei malati. Desideri che portavano il cuore di don Josemarìa all’ospedale. In una Caterina del marzo 1932 si legge:
“I bambini e i malati. Nello scrivere queste parole - Bambino, Malato - sento la tentazione di usare la maiuscola, perché, per un’anima innamorata, essi sono Lui”9.
461
La Congregazione viveva una vita languida per lo scarso numero di fratelli, per la loro insufficiente preparazione sanitaria e per i numerosi ostacoli che venivano frapposti al loro lavoro spirituale. Dall’avvento della Repubblica il clima delle corsie era divenuto ostile e persino aggressivo. E le notizie delle lotte di fuori arrivavano, caricate di odio, fino a quel rifugio della sofferenza, come ricorda un compagno di don Josemaria: «Era un lavoro durissimo e molto ingrato. Il clima anticattolico era generalizzato e molti malati ci insultavano. Ci occupavamo di tagliare loro i capelli, raderli, tagliare le unghie, lavarli e pulire le sputacchiere. Era davvero ripugnante. Andavamo le domeniche pomeriggio e ne uscivamo con la nausea »10.
Per mancanza di spazio i malati riempivano le sale e i corridoi erano disseminati di materassi11. Per di là passavano i Filippini come una carezza di misericordia, calmando la desolazione o la disperazione dei pazienti. Uno di loro ricorda «la scia spirituale» che lasciava don Josemaria al suo passaggio, «dando sollievo allo spirito di malati e moribondi»12.
Tra i fratelli della Congregazione che frequentavano l’ospedale negli anni 1931 e 1932 c’erano Luis Gordon, Jenaro Làzaro e Antonio Medialdea. Luis era un giovane ingegnere industriale con una buona posizione economica, che dirigeva una fabbrica a Cienpozuelo, nelle vicinanze di Madrid. Jenaro, scultore di professione, aveva circa trent’anni. Antonio Medialdea era dipèndente di un’azienda commerciale13. C’erano altri fratelli più anziani, come il vecchietto che era a capo del gruppo con cui don Josemaria andò una domenica. Il sacerdote era meravigliato dal fatto che, finito il suo compito in una corsia, il vecchietto si accomiatasse ingenuamente con una “pietosa assurdità” : “Fratelli, che Dio vi dia la salute del corpo... (qui una gran pausa, e poi tutto di seguito) ... e quella spirituale, se conviene” 14.
In questo “ sublime servizio” a contatto con la soffe
462
renza, don Josemarìa maturava e si arricchiva. La sua impressione, dopo aver passato la prima domenica con i Filippini, fu espressa in due parole: “Ne fui edificatissi- mo” . Annotazione che ripetè tre domeniche dopo, quando gli toccò per compagno il singolare vecchietto: “E rimasi edificato” 15. L’aiuto materiale che potevano prestare a tanti malati, nel sistemarli o nel curarne l’igiene, era certamente poca cosa. Era considerevole, invece, il bene che facevano alle anime, a volte con un semplice gesto di carità o con poche parole di cristiana consolazione. Ci fu il caso commovente di uno zingaro che, dopo aver perdonato generosamente i suoi nemici, si decise a riconciliarsi con Cristo, perché “gli era penetrato nell’anima ciò che aveva sentito dire da qualche fratello di S. Filippo, mentre soccorreva altri malati” 16. Era una domenica del febbraio 1932 quando uno dei fratelli andò ad avvertire don Josemarìa che un moribondo non voleva ricevere i Santi Sacramenti:
“Era uno zingaro, ferito a pugnalate in una rissa” - scrisse il sacerdote -. “Accettò subito di confessarsi. Non voleva lasciare la mia mano e, poiché lui non ce la faceva, volle che gli mettessi la mano davanti alla bocca per baciarmela. Era in uno stato spaventoso: espelleva escrementi dalla bocca. Faceva veramente pena. A gran voce giurò che mai più avrebbe rubato. Mi chiese un Crocifisso. Non l’avevo, gli diedi un rosario. Se lo arrotolò al polso e lo baciava, dicendo frasi di profondo dolore per aver offeso il Signore”17.
Dopo esser stato con lui, il cappellano aveva un’incombenza e si allontanò. Fino al martedì successivo non seppe nulla della morte di quell’uomo; e annotò negli Appunti:
“Un ragazzo, fratello di S. Filippo, è venuto a raccontarmi che lo zingaro fece una morte edificante, dicendo fra l’altro, mentre baciava il Crocifisso del rosario: “Le mie
463
labbra sono putride, io non posso baciarti” . E gridava perché le sue figlie lo vedessero e capissero di avere un buon padre. Per questo, senza dubbio, mi aveva detto: “Mi metta il rosario, che si veda, che si veda” . Gesù, l’ho fatto già, ma torno a offrirti quest’anima, per la quale ora reciterò un responsorio”18.
Don Josemarfa trascinò in queste visite domenicali alcuni giovani che dirigeva spiritualmente, come José Romeo e Adolfo Gómez Ruiz. A questi studenti si aggregarono altri amici e compagni, come Pedro, il fratello di Adolfo, e uno studente di Diritto che si chiamava José Manuel Doménech19. Verso le sei e mezza del pomeriggio terminava il giro delle corsie e, insieme al sacerdote, essi raggiungevano passeggiando il centro di Madrid. Questi giovani non erano abituati alla vita di ospedale. Ne uscivano con lo stomaco rivoltato, con un fetore persistente che impregnava i vestiti e con la visione nauseante di pus, piaghe e miserie di ogni genere. Appena mettevano i piedi in strada, più di uno vomitava per il ribrezzo. Era molto meritorio per loro sopportare questa naturale ripugnanza, poiché a casa loro godevano, per contrasto, di molta pulizia e benessere. Tale era la condizione di Luis Gordon, che si recava all’ospedale con la propria automobile.
Probabilmente Luis aveva letto quanto era scritto nelle Costituzioni dei Filippini, cioè che il fine della Congregazione è la pratica delle virtù «in tutto ciò che conduce alla consolazione, alla salute spirituale e corporale dei poveri, senza omettere cosa alcuna, per quanto umile e ripugnante possa essere, prestandosi e rendendosi utile nel pulire i vasi da notte, scopare e pulire i pavimenti fra i letti, e altri esercizi che la pratica suggerisca»20. Una domenica gli toccò accompagnare don Jose- maria. Il sacerdote si prese cura di un tubercolotico e chiese a Luis di pulirgli il vaso da notte. Vedendolo pieno di sputi gli sfuggì un gesto di repulsione; ma si con
464
trollò e, senza proferire parola, andò a un gabinetto in fondo alla sala. Don Josemaria gli andò dietro dopo un momento per aiutarlo. Se lo trovò nel pieno svolgimento del suo compito. Dal rubinetto aveva messo dell’acqua nell’orinale e, rimboccatosi fino al gomito le maniche della camicia, lo puliva a fondo con una mano ripetendo, con un’espressione lieta: «Gesù, che faccia buon viso!»21.
I rivolgimenti storici ruppero il ritmo delle attività che i fratelli stavano prestando nell’Ospedale Generale. Nell’estate del 1932 s’interruppero le loro iniziative di carità. È chiaro che le disposizioni ufficiali rispetto ai servizi che svolgevano suore e religiosi nei pubblici ospedali raggiunsero anche i Filippini. Il governo cercava di sostituire le Figlie della Carità con infermiere di professione e con personale laico. Si cercava, senza alcuna remora, di farla finita con la pratica caritativa di associazioni cattoliche come la Congregazione dei Laici di S. Filippo Neri e furono sospese le funzioni dei cappellani di ospedale22.
Le visite dei Filippini poterono però riprendere più avanti. E don Josemaria, che nell’aprile 1932 aveva già fatto la sua ascrizione ai Filippini, chiese all’organismo direttivo di essere di nuovo confermato nella fraternità: «Questa Giunta degli Anziani - gli fu notificato - nella riunione tenutasi oggi 10 giugno ha accordato, con unanimità assoluta, di considerarla come fratello della nostra amata Congregazione, secondo i suoi buoni desideri. Madrid, 10 giugno 1934. Il Fratello Segretario, Tomàs Mìnguez»23.
È molto verosimile che, mosso dal desiderio di assistere i malati, si rifacesse ai diritti acquisiti da tempo immemorabile dalla Congregazione. E tutto sembra indicare che, poiché gli ospedali non disponevano di cappellani in quanto soppressi dal governo, don Josemaria cercasse l’egida di una nomina, un qualsiasi pezzo di carta24, per recare assistenza ai pazienti dell’Ospedale Generale.
465
2. L’Ospedale del Re
Per effetto della nuova Costituzione repubblicana le chiese, le associazioni e gli istituti religiosi sarebbero stati privati da allora in poi di ogni aiuto economico da parte dello Stato e dei municipi. Anzi, era prevista «la totale estinzione entro due anni dello stanziamento per il clero»25. L’intenzione era di farla finita con la Chiesa, se non in maniera violenta, per inanizione dei suoi ministri.
Uno dei chierici coinvolti in tali provvedimenti era don José Maria Somoano, un giovane sacerdote ordinato nel 1927 dal Vescovo di Madrid e che nel 1931 ricopriva l’incarico di cappellano nell’Ospedale del Re26. L’ospedale stava all’estremo nord di Madrid, a sette chilometri dal centro, praticamente isolato in mezzo alla campagna. Il nome completo, Ospedale Nazionale delle Malattie Infettive, spiega la ragione dell’isolamento. Era stato inaugurato nel 1925. (Dal regime precedente gli veniva il nome di Ospedale del Re)27. Vi si curavano i casi epidemici e le malattie contagiose tra le quali la terribile tubercolosi, malattia che allora causava il maggior numero di ricoveri e che era la causa principale dei decessi.
Il 2 gennaio 1932 la monaca incaricata della ruota nel monastero di Santa Isabel, su esplicita richiesta del cappellano, offrì preghiere e mortificazioni per il buon esito di una faccenda che don Josemaria aveva tra le mani. Nel frattempo egli, accompagnato da don Lino, altro giovane sacerdote, si presentò all’Ospedale del Re per parlare con il cappellano Somoano, che era impaziente di sapere dell’Opera. “Non fu inutile l’orazione e l’espiazione” - scriverà due giorni dopo negli Appunti - “questo amico appartiene già all’Opera”28. (Era questo il periodo in cui don Josemaria - come vedremo tra poco - conquistò i primi seguaci sacerdoti). Agli occhi del Fondatore, fu un’acquisizione eccellente, una vocazione
466
di prima classe, un autentico tesoro per il lavoro di apostolato; una leva per smuovere i cieli, come annotava negli Appunti:
“Con José Maria Somoano abbiamo ora, come si dice, un magnifico collegamento, perché questo nostro fratello sa, in modo ammirevole, incanalare la sofferenza dei malati del suo ospedale affinché il Cuore del nostro Gesù acceleri l’ora della sua Opera, mosso da così eccelsa espiazione”29.
Don Josemarìa valutava talmente importante la preghiera del dolore per lo sviluppo dell’Opera, che questo stupendo contributo era più che sufficiente per ammettere una persona all’Opera:
“Don Lino ieri ci parlò di una malata dell’Ospedale del Re, anima molto gradita a Dio, che potrebbe essere la prima vocazione di espiazione. Con il consenso di tutti, don Lino le comunicherà il nostro segreto. Anche se morisse prima dell’inizio ufficiale - cosa probabile, perché sta male - varranno di più le sue sofferenze”30.
Il Fondatore si sentiva mosso interiormente dal Signore per lavorare tra i malati, considerando il fondamento del dolore espiatorio indispensabile per iniziare l’Opera. Quando, il 7 marzo 1932, don Lino gli propose di accettare «la cappellania dell’ospedale degli incurabili, che si trova vicino a quello del Re», avrebbe accettato, se sua madre non si fosse opposta31.
i! '
Il 29 gennaio 1925, non appena terminato il primo padiglione dell’Ospedale de Re, vi entrarono i primi pazienti: due malati di tubercolosi polmonare. Prima di loro e tre mesi prima che vi fosse un direttore, vi si erano già insediate le Figlie della Carità. A capo di queste religiose infermiere stava suor Engracia Echevarria, che
467
rimase nell’ospedale ininterrottamente fino al 1936. Alla comunità appartenevano suor Isabel Martin - infermiera, farmacista e sacrestana della cappella, in periodi diversi - e suor Maria Jesus Sanz, incaricata della cucina e dei magazzini. Queste tre religiose conobbero don Josemaria, in modo speciale la superiora, suor Engracia che, fortunatamente, ha lasciato una testimonianza di notevole peso su quel periodo agitato. Con la disinvoltura dei suoi novantanove anni suonati, suor Engracia fa una coraggiosa dichiarazione: «Conservo con grande lucidità - dice - i ricordi di quel periodo, non solo quanto alle date, ma anche per ciò che si riferisce ai particolari e al tipo delle persone e degli avvenimenti»32. Era senza dubbio donna di governo e di notevole perspicacia. Subito si rese conto che quel giovane sacerdote, che era comparso nell’ospedale nei primi mesi del1932, era il direttore spirituale di Somoano. E non le sfuggì neppure che le sue visite, oltre ad essere opere di misericordia, obbedivano a un bisogno apostolico. Per questo, in diverse occasioni gli mandò delle persone di cui occuparsi33.
Le visite di don Josemaria all’ospedale, all’inizio sporadiche, ben presto divennero regolari. In poche settimane si rese conto della finezza d’animo del cappellano Somoano, al quale “ il solo pensiero che ci fossero dei sacerdoti che salivano all’altare poco preparati faceva spargere lacrime di Amore e di Riparazione”34. E furono tante le profanazioni, gli oltraggi e i sacrilegi commessi dalle masse rivoluzionarie nella primavera del 1931, che il cappellano si sentì spinto a offrire la propria vita per la Chiesa in Spagna. (Una delle religiose udì l’offerta di Somoano in cappella, senza che lui notasse la sua presenza)35. Don Josemaria, che non ne sapeva nulla, si sorprese varie volte sentendogli dire frasi come: “Morirò presto: vedrai”36. Un po’ incuriosito, voleva chiedergli il perché ma, per un motivo o un altro, non si presentò mai l’occasione buona per farlo.
468
Somoano morì la notte di sabato 16 luglio, dopo due giorni di agonia, avvelenato. Fu sepolto il lunedì; e don Josemaria, che tante speranze aveva riposto in questa vocazione, la offrì al Signore. Era morto martire, avvelenato in odio al sacerdozio. Al ritorno dal funerale annotò nei suoi Appunti:
“ 18 luglio 1932. Il Signore si è preso uno dei nostri: José Maria Somoano, sacerdote ammirevole. Morì vittima della carità nell’Ospedale del Re (del quale è stato cappellano sino alla fine, nonostante tutte le furie laiche) nella notte della festa di N. Signora del Carmelo - della quale era devotissimo e ne portava il santo scapolare - e, poiché questa festa cadeva di sabato, è certo che quella stessa notte ha raggiunto Dio. Anima bellissima (...). La sua vita di zelo gli guadagnò le simpatie di tutti coloro che con lui convivevano. Lo si è seppellito questa mattina (...). Oggi, di buon grado, ho dato a Gesù questo nostro socio. Sta con Lui e ci sarà di grande aiuto. Avevo riposto molte speranze nel suo carattere, retto ed energico; Dio lo ha voluto per Sé: sia benedetto”37.
Don Josemaria si sentì impegnato a colmare il vuoto che la morte del cappellano aveva creato. «A quell’epoca - riferisce suor Engracia - siamo rimaste senza cappellano e in quelle circostanze venne don Josemaria Escrivà, che allora era un giovane sacerdote che aveva forse solo trent’anni e disse che non mi preoccupassi di non avere più un cappellano ufficiale; che di notte o di giorno e a qualsiasi ora, sotto la mia responsabilità, lo dovevo chiamare, a seconda della gravità del malato che chiedeva i Santi Sacramenti»38. Il cappellano di Santa Isabel dovette trovare un buco nella propria giornata, già abbastanza intensa. Attraversava tutta Madrid, dal sud al nord, da Atocha a Fuencarral e arrivava attraverso i campi fino all’ospedale. Vi andava tutti i martedì, per confessare i malati. Ma, aumentando i penitenti e
469
allungandosi le visite, si vide costretto ad andare a confessare anche al sabato39.
I malati aspettavano con vera ansia l’arrivo del giovane sacerdote. Si attendevano da lui una parola di conforto, un gesto, un semplice sorriso che riscaldasse il cuore. «Vedevo che, quando veniva a confessare e ad aiutare, con le sue parole di incoraggiamento, i nostri malati - racconta suor Maria Jesus - lo aspettavano con gioia e speranza. Li ho visti accettare il dolore e la morte con un fervore e una donazione che ispiravano devozione a noi che stavamo loro intorno»40. «I malati che morivano all’ospedale non avevano paura della morte - assicura suor Isabel -. La guardavano in faccia e la ricevevano perfino con gioia». E la suora ricorda il caso di una ragazza malata, la cui unica consolazione era di guardare e riguardare la fotografia del fidanzato che aveva sopra il comodino. Don Josemarìa le parlò e le infuse una tale consolazione che non si preoccupò più del conforto che le dava il ritratto e «morì molto santamente»41.
Quasi tutte le domeniche e i giorni festivi celebrava la Messa per tutto l’ospedale e predicava l’omelia. Se faceva bel tempo, si diceva Messa nel giardino, all’aria aperta, benché la situazione politica non fosse certo propizia alle manifestazioni di carattere liturgico. Il giovane sacerdote non si ritraeva di fronte al pericolo. «Quando lo conobbi - chiarisce su questo punto suor Engracia - era giovane, ma molto sensato, molto serio e coraggioso»42. Dava testimonianza della propria condizione con l’aspetto e il modo di vestire, poiché portava sempre la veste talare. Tuttavia, l’aria che tirava era di continua sfida al sacerdote, come si deduce dalla morte di Somoano e dalle parole, chiare e laconiche, di suor Engracia: «Il nostro ospedale era allora distante dalla città. C’era opposizione al clero da parte della maggioranza delle persone che vi lavoravano. Don Josemarìa ebbe sempre un atteggiamento sereno, ma energico. Si vedeva, già da al
470
lora, che aveva stoffa per governare. Era un uomo con grande serenità per tutto»43.
Arrivare fino all’Ospedale del Re in aperta campagna in abito religioso o clericale significava esporsi a insulti e pietrate. («Noi venivamo spesso prese a sassate»44, dice suor Maria Jesus. Don Josemaria non sarà stato trattato con maggior affetto). All’interno dell’ospedale il sacerdote era esposto al contagio delle malattie infettive. Per confessare nelle corsie affollate era necessario stare con l’orecchio vicino al cuscino e quindi al rantolo profondo dei moribondi, agli sputi e ai colpi di tosse dei tubercolotici.
La storia delle sorelle Garcfa Escobar è emblematica di ciò che a quei tempi significava la tubercolosi. C ’era a Hornachuelos, in provincia di Cordova, una famiglia con tre figlie: Braulia, Benilde e Maria Ignacia. Braulia era iscritta a Magistero alla Scuola Normale di Cordova; una ragazza che viveva nella sua stessa pensione le trasmise la tubercolosi. La famiglia fece subito richiesta di un posto all’Ospedale del Re. Passò del tempo e, mentre erano in attesa di un letto libero, si ammalò anche Maria Ignacia, contagiata da sua sorella. Data la gravità del suo stato, nel 1930 occupò il posto riservato a Braulia. Il suo male era incurabile; la malattia e i dolori le consumavano il corpo, in modo lento e inesorabile45.
Maria Ignacia era l’ammalata della quale don Josemaria aveva annotato: “ anima molto gradita a Dio, potrebbe essere la prima vocazione di espiazione” . Nella primavera del 1932 fu ammessa nell’Opera, poiché don Josemaria sapeva che ella offriva al Signore i propri dolori per accelerare la maturazione spirituale dell’impresa apostolica alla quale collaborava don So- moano. Ben presto le sue sorelle, che dopo alcuni mesi si erano trasferite a Madrid per starle accanto poiché la sua fine si avvicinava rapidamente, seppero che apparteneva all’Opus Dei. In diverse occasioni constata
471
rono gli effetti delle visite in corsia di don Josemaria. «Rimasi colpita - dice Benilde - dalla gioia e dalla serenità di tutte quelle donne, madri di famiglia, povere, separate dai loro figli per il timore del contagio e che, appena vedevano entrare don Josemaria, si riempivano di una profonda felicità»46.
Il Fondatore seguiva con affetto quella inestimabile vocazione, incoraggiandola nella sua funzione espiatoria e offrendo al Signore i crudeli dolori che pativa la malata. Nei giorni in cui il sacerdote le faceva visita, la malata non poteva contenere la propria esultanza. La gioia di Maria Ignacia - racconta sua sorella Braulia - era allora evidente e non vedeva l’ora di darle la grande notizia: «È stato qui don Josemaria. Sono molto contenta»47.
Era nell’Opera da un anno, fedele alla propria vocazione, quando entrò nell’ultima fase del suo calvario. «Io stavo con lei giorno e notte - riferisce Braulia -. Aveva dolori terribili; era piagata dalla testa ai piedi; l’ultima vertebra era deformata e sporgeva molto. Si era consumata, era anche molto più piccola di statura. Cla- rita, l’infermiera, poteva sollevarla senza alcun aiuto»48.
In maggio iniziò un intensissimo olocausto espiatorio e di lì a pochi giorni, a quanto si legge negli Appunti intimi, le fu amministrato il Viatico:
“Giorno di Sant’Isidro, 15 maggio 1933. Ieri ho amministrato il Santissimo Viatico a mia sorella Maria Garda. È vocazione di espiazione. Malata di tubercolosi, fu ammessa nell’Opera con il beneplacito del Signore. Anima eccelsa. Ha fatto con me la confessione generale prima di ricevere la Comunione. Mi accompagnò all’ospedale nazionale (del Re) Juanito J. Vargas. Questa nostra sorella ama la Volontà di Dio: vede nella malattia, lunga, penosa e diffusa (non ha nulla di sano) la benedizione e le predilezioni di Gesù e, benché affermi nella sua umiltà di meritare il castigo, il terribile dolore che
472
sente in tutto l’organismo, soprattutto per le aderenze addominali, non è un castigo, è una misericordia”49.
Quattro mesi sul bordo dell’agonia; poi una nota ne- crologica del Fondatore che comunicava ai suoi seguaci nell’Opera la morte di Maria Ignacia:
“La vigilia dell’Esaltazione della Santa Croce, il 13 settembre, si è addormentata nel Signore questa prima nostra sorella della nostra Casa del Cielo (...). La preghiera e la sofferenza sono state le ruote del carro di trionfo di questa nostra sorella. Non l’abbiamo perduta: l’abbiamo guadagnata. Alla notizia della sua morte vogliamo che la pena naturale si trasformi presto nella gioia soprannaturale di sapere con certezza che ormai abbiamo più potere in cielo”50.
Un’altra malata, Antonia, diede il cambio a Maria Ignacia come “ anima di espiazione” 51. Quanto a don Josemaria, quante migliaia di ore consumate al capezzale dei moribondi e quanti malati assistiti nelle sale affollate degli ospedali! Aveva vegliato tanti morti che persino nel pietoso esercizio di comporre cadaveri acquistò abilità e perizia52. Ma essendo un uomo che, a detta di suor Isabel, «non faceva ostentazione della propria persona né di ciò che faceva», è difficile sapere quali ospedali visitava. Uno dei pochi dati su questo punto è la testimonianza di monsignor Cantero, un sacerdote che studiava a Madrid e che, in alcune occasioni, accompagnò don Josemaria. «Sono stato in diversi ospedali - precisa monsignor Cantero Ospedale Generale, Ospedale del Bambino Gesù, Ospedale della Principessa, Ospedale del Re»53. Negli Appunti intimi è citato l’Ospedale della Principessa incidentalmente, perché don Josemaria fu interrotto, l’8 maggio 1933, mentre annotava alcune Caterine', e conclusa l’interruzione, di ritorno dall’ospedale riprese la penna per raccontare quanto accaduto:
473
“Ho dovuto interrompere perché sono venuti prima un sacerdote e poi due signorine a darmi il nome di un giovane malato grave dell’Ospedale della Principessa. Il padre del malato - entrambi contadini dell’Estremadura - non voleva che si confessasse il suo ragazzo “che una volta..., da bambino, si era confessato e comunicato”, perché non si spaventasse. Sono andato all’ospedale. Grazie a Dio, si è confessato. Che ignoranza! Homines et iumenta salvabis, Domine!”54.
(La sua fama di confessore di moribondi doveva essere grande, se in un caso urgente andavano ad avvisarlo prima un sacerdote e poi due signorine. Va notata anche la prontezza nell’andare e nel risolvere il problema).
L’Ospedale della Principessa si trovava a circa trecento metri dalla Accademia Cicuéndez, risalendo per via S. Bernardo, all’incrocio con via Alberto Aguilera. Il centro dipendeva dalla Beneficencia Sanitaria ed era aggregato alla Facoltà di Medicina. Le sale avevano duecento e più letti e sfruttavano al massimo lo spazio, per cui non c’era posto nemmeno per i comodini. Nell’ospedale lavorava nel dicembre 1933 un giovane medico, Tomàs Canales Maeso, alle dipendenze del dottor Blanc Fortacìn, lo stesso che aveva firmato nel 1927, poco dopo l’arrivo a Madrid di don Josemaria, il suo certificato di vaccinazione. Un certo giorno Tomàs trovò il suo capo che parlava con un sacerdote, che gli volle presentare come «un gran sacerdote, mio parente e compaesano (di Barbastro), che non è un trabucaire» (con trabucaire si definiva il prete politicante)55. Dopo questa presentazione, Tomàs se lo ritrovò spesso nelle corsie: «Lo vedevo a diverse ore del mattino - riferisce il giovane medico - per cui ne deduco che ci doveva stare tre o quattro ore». Forse approfittava della vicinanza dell’ospedale per recarvicisi dall’Accademia. In ogni caso, aveva le sue sale preferite, poiché era solito trattenersi in quelle delle malattie contagiose. Fu avvi
474 ìl
sato ripetutamente del rischio che correva; al che rispondeva invariabilmente, sorridente e sereno, che “lui era immunizzato contro tutte le malattie”56.
Nel servizio ai malati risiedevano la saldezza e l’energia occulta del nascente Opus Dei. Lo affermava il Fondatore volgendo lo sguardo al passato, poco prima di terminare il suo viaggio sulla terra:
“Furono anni intensi, in cui l’Opus Dei cresceva al di dentro senza che ce ne rendessimo conto (...). La fortezza umana dell’Opera sono stati i malati degli ospedali di Madrid: i più miserabili; quelli che vivevano nelle loro case, perduta anche l’ultima speranza umana; i più ignoranti dell’estrema periferia”57.
Davvero la sua anima si fortificò alla scuola della sofferenza, nelle lunghe agonie, nella fermezza d’animo davanti al dolore. Quante riflessioni e pietosi episodi provengono dalle sue visite ai malati; e quanti atti eroici rimarranno nascosti per sempre! Una Caterina del 14 gennaio 1932 è come il canto trionfale del dolore: “Benedetto sia il dolore. Amato sia il dolore. Santificato sia il dolore... Glorificato sarà il dolore!”58.
La storia di questa Caterina egli la raccontò in pubblico durante la catechesi del 1974 nel continente americano:
“Era una povera donna perduta, che un tempo era appartenuta a una delle famiglie più aristocratiche della Spagna. Io la trovai già in disfacimento; in disfacimento nel corpo, mentre guariva nell’anima, in un ospedale per incurabili. La poveretta era stata carne da caserma. Aveva marito, aveva figli; aveva abbandonato tutto, era impazzita per le passioni, ma poi quella creatura seppe amare. Mi ricordavo di Maria Maddalena: sapeva amare”59.
Con il corpo cauterizzato dal dolore e l’anima purificata dal pentimento, entrò in agonia. Il sacerdote le am
475
ministrò gli ultimi aiuti spirituali e alle soglie della morte le andò sussurrando all’orecchio la litania del dolore. Ella, con la voce rotta, ripeteva le frasi gridando. “Poco dopo morì e sta in Cielo e ci ha aiutato molto” , soggiungeva il Fondatore60.
Grazie a tanta preghiera, alcune volte bagnata di sangue e altre di lacrime, si andava facendo l’Opera.
3 .1 primi seguaci
Nel Piccolo bozzetto che Maria Ignacia scrisse sulle virtù di don José Maria Somoano, si racconta che questi disse alla malata: «Maria, si deve pregare molto per un’intenzione che è per il bene di tutti (...). Preghi senza posa, perché lo scopo dell’intenzione di cui le parlo è molto bello». E così percorreva le sale «incoraggiando tutti i malati a offrire preghiere e tutte le loro sofferenze per la sua intenzione»61. Poiché gli volevano molto bene, ci fu una risposta ammirevole alle sue richieste. Maria Ignacia racconta il caso di una donna sulla qualei medici, alla disperata, fecero un tentativo estremo: un’operazione alla gola senza anestesia, dolorosissima. Mentre la attraversavano con un trequarti, un grosso punteruolo a tre spigoli, ella sentiva un dolore insopportabile e ripeteva fra sé: «Dio mio! per l’intenzione di don José M aria»62. Quando affrontavano interventi cruenti, i malati - proseguiva il racconto - «ricordavano sempre questa intenzione».
All’inizio del 1932 Maria Ignacia fu presa da forti febbri e da dolori continui; poiché neppure lei, che ancora non apparteneva all’Opera, conosceva l’intenzione per la quale il cappellano don Somoano li faceva pregare con tanta insistenza, gli disse:
«Don José Maria, penso che la sua intenzione debba valere molto, perché da quando lei mi ha suggerito di pre
476
I
gare e di offrire, Gesù si sta comportando con me in modo splendido. Di notte, quando i dolori non mi lasciano dormire, passo il tempo ricordando ripetutamente al Signore la sua intenzione»63.
In seguito, quando la paziente apparteneva già all’O- pera, il cappellano le spiegò che per costruire bene l’O- pus Dei era necessario gettare delle solide fondamenta di santità: «Non puntiamo al numero, questo mai! - le diceva il cappellano -. Anime sante... anime in intima unione con Gesù... anime consumate dal fuoco dell’amore divino, anime grandi! Mi capisce?».
Nel manoscritto della malata si leggono subito dopo altre parole del cappellano sullo stesso argomento: «Le si devono dare solide fondamenta. Per questo cerchiamo che le fondamenta siano di pietra di granito (...). Le fondamenta prima di tutto, poi verrà il resto»64. Occorrevano anime che aspirassero alla santità e occorreva anche il numero perché potesse avviarsi il lavoro nei vari apostolati; vale a dire: qualità e, almeno, un pugno di vocazioni.
Un’annotazione del febbraio 1932 mostra la fretta di don Josemarìa, il cui desiderio prorompeva: “ Gesù, vedo che la tua Opera può iniziare presto”65. Questa santa impazienza era uno sprone che il Fondatore trasmetteva ai suoi: al cappellano Somoano e a Maria Ignacia, a quanti stavano lontano e a chi viveva a Madrid: a questi di persona e a quelli per lettera.
“L’Opera di Dio la sta chiedendo Lui a gran voce. Ma vuole che la chiediamo noi di continuo, con il nostro comportamento... E che non siamo di ostacolo. L’ora indubbiamente si avvicina, anche se non ci sembra”66.
Un’eco di questa premura si ha nel Piccolo bozzetto di Maria Ignacia e nella corrispondenza di Isidoro il quale, scrivendo nel Natale del 1931 da Malaga ai suoi
477
«buoni amici» di Madrid, chiese loro di fortificarsi interiormente per «quando Lui avrà bisogno di noi». E si accomiatava con queste parole: «Spero da Lui che queste festività ci siano proficue e che l’anno prossimo ci conceda di andare in palestra, poiché sarà segno che siamo al completo in qualità e in quantità»67. (Spontaneamente e senza che nessuno gli avesse chiesto la sua opinione in proposito, Isidoro scrisse da Malaga nel marzo 1932: «Credo che il segno divino per cominciare la nostra missione sarà quando arriveremo a dodici»)68.
* * *
A volo d’uccello, lontane le vicissitudini di quegli anni, il Fondatore richiamava la condizione assai diversa dei primi che lo avevano seguito:
“C’era un po’ di tutto: c’erano universitari, operai, piccoli imprenditori, artisti... Io allora non sapevo che quasi nessuno avrebbe perseverato; ma il Signore sapeva che il mio povero cuore - fiacco, codardo - aveva bisogno di quella compagnia e di quella fortezza”69.
Più che di vocazioni sicure, si trattava di persone, giovani per la maggior parte, che si avvicinavano al sacerdote in cerca di direzione spirituale. Ma il Signore continuava a giocare con lui come si gioca con un bambino. Una serena lettura degli Appunti mostra in che cosa consisteva questo gioco, questo incessante andirivieni di anime, molte delle quali si entusiasmavano presto e presto perdevano l’entusiasmo. Il gruppo iniziale dal quale fu attorniato era formato da Pepe Romeo, don Norberto Rodrfguez e Isidoro Zorzano, che erano, a loro volta, continuatori dei “discepoli” del Sotanillo. Pepe era della famiglia nella cui casa aveva portato il Santissimo dal Patronato, nei giorni in cui bruciavano le chiese a Madrid. Don Norberto, secondo cappellano del “Patronato
478
de Enfermos”, si autovincolò all’Opera prima che lo invitasse il Fondatore, il quale raccontò così la storia:
“ (...) quando, con una certa titubanza, una sera gli comunicai il segreto, mi aspettavo che dicesse: lei è un visionario, un pazzo. Invece, quando terminai di leggere le antiche schede, contagiato da divina pazzia, con il tono più naturale del mondo mi disse: la prima cosa da fare è l’Opera maschile”70.
Quanto a Isidoro, compagno di studi a Logrono, con il quale manteneva un’affettuosa corrispondenza e con cui si era trovato per strada in diverse occasioni prima dell’estate del 1930, ebbe luogo un nuovo e provvidenziale incontro, riferito in una Caterina del 25 agosto:
“Ieri, giorno di S. Bartolomeo, mi trovavo a casa dei Romeo e mi sentii inquieto - senza motivo - e me ne andai prima dell’ora logica per andar via, dato che era ragionevole che aspettassi il ritorno a casa del signor Manuel e di Colo. Poco prima di arrivare al Patronato, in via Ni- casio Gallego incontrai Zorzano. Gli avevano detto cheio non c’ero ed era uscito dalla Casa Apostolica con l’intenzione di andare a Sol, ma la sicurezza di incontrarmi- mi disse - lo indusse a ripassare per via Gallego”71.
Isidoro, che lavorava come ingegnere in Andalusia, era andato a Madrid spinto dalle sue inquietudini spirituali. Alle prime parole, don Josemaria vide che il Signore gli inviava un’anima servita su un vassoio. E gli fissò un appuntamento nel pomeriggio al “Patronato de Enfermos” con l’intenzione di parlargli dell’Opera. “Nel pomeriggio” - prosegue la Caterina - “ Isidoro è venuto: abbiamo parlato; è molto contento; vede, come me, il dito di Dio. Adesso so - diceva - perché sono venuto a Madrid” .
Passarono dei mesi dall’incontro con Isidoro. Mentre stava per essere proclamata la Repubblica, nell’aprile
479
1931, don Josemaria scrisse con esultante ottimismo: “I nostri uomini e donne di Dio, nell’apostolato di azione, abbiano per motto: Dio e a u d a c ia !” 72. E nella Caterina successiva enumerava la forza umana disponibile per la sua impresa: “5 aprile 1931. Ieri, domenica di Risurrezione, don Norberto, Isidoro, Pepe ed io abbiamo recitato le preci dell’Opera di Dio”73.
Era tutta lì l’Opera: un giovane studente, un ingegnere, un sacerdote d’età e ammalato e, alla loro testa, don Josemaria. “I nostri uomini e donne di Dio” , le agognate vocazioni, tardarono a venire. Ma il Signore gli concesse di conoscere giovani in grado di capire l’Opera. In virtù di una specie di istinto soprannaturale, ebbe il presentimento che nella sua attività di proselitismo esisteva una serie di curiose coincidenze tra le vocazioni e le feste degli Apostoli.
“Per la storia dell’Opera di Dio” - scriveva in una Caterina dell’8 maggio 1931 - “è molto interessante annotare queste coincidenze. Il 24 agosto, giorno di S. Bartolomeo, ci fu la vocazione di Isidoro. Il 25 aprile, giorno di S. Marco, ho parlato con un altro (...). Il giorno dei Santi Filippo e Giacomo (l-V-1931) ho avuto l’occasione - senza cercarla - di parlare a due. Uno di essi, con il quale ho avuto un lungo colloquio, vuole essere dell’Opera”74.
(Non si trattava di una mera ipotesi, poiché tre giorni prima, mentre fissava un colloquio con un giovane, gli venne da pensare: “Visto che il Signore sistema le cose per domani, che sia la festa di un Apostolo? Andai in sacrestia, presi il calendario... S. Giovanni ante p o rtam la- tinam l Non ebbi dubbi sulla vocazione di Adolfo” .
Quando scriveva queste righe aveva già avuto modo di verificare la validità delle “coincidenze” , dato che aggiunse: “ Così è stato. Ormai è socio. Dio lo benedica!)”75. Da allora si abituò ad aspettarsi regali come pio
480
vuti dal cielo nelle feste degli Apostoli: “Mi domandavo ieri pomeriggio, più di una volta: che regalo faranno domani all’Opera i Santi Apostoli?”76. (Lo scriveva nella festa dei Santi Filippo e Giacomo).
Così pure aveva già osservato in precedenza un’altra strana “coincidenza” : che le vocazioni erano fulminanti e si decidevano senza vacillare:
“Finora, dato curioso, tutte le vocazioni all’Opera di Dio sono state repentine. Come quelle degli Apostoli: conoscere Cristo e seguire la chiamata. Il primo non dubitò. Venne con me dietro a Gesù alla ventura (...). Il giorno di S. Bartolomeo, Isidoro; per S. Filippo, Pepe M.A.; per S. Giovanni, Adolfo; poi, Sebastiàn Cirac: così tutti. Nessuno dubitò; conoscere Cristo e seguirlo fu tutt’uno. Gesù, fa che perseverino; e invia altri apostoli alla tua Opera”77.
Se nel primo resoconto che fece sui suoi seguaci si accorse delle coincidenze cronologiche e se nel secondo rilevò che gli interessati non avevano opposto resistenza o remore alla vocazione, due anni dopo, nel 1933, scoprì che la sua permanenza e il suo ministero nel Patronato di Santa Isabel non era stato un evento fortuito nella storia dell’Opera. Non era evidente che al suo apostolato era legata tutta una catena di vocazioni? “ Carmen, Hermógenes, Modesta..., Gordon, Saturnino, Antonio, Jenaro...”78. Di questi nomi, i primi tre sono donne che frequentavano il confessionale del cappellano in Santa Isabel e che si donarono nell’Opera. E don Saturnino de Dios era un sacerdote amico di don Josemarìa, della Congregazione dei Filippini.
Dello zelo che spingeva don Josemarìa a reclutare anime da notizia un paragrafo della lettera del 5 maggio 1931, nella quale diceva a Isidoro:
“Il giorno di S. Marco ho parlato con uno... Il giorno dei Santi Filippo e Giacomo, con due... Domani, S. Gio
481
vanni Apostolo ante portarti latinam, con un altro. Un pittore, un dentista, un giovane medico, un awocatino... Inoltre, Dorai, dell’Istituto-Scuola, mi ha inviato una bellissima lettera”79.
Poiché non mancavano certo feste di Apostoli nel corso del calendario liturgico, che cosa si faceva di questa messe di vocazioni?
Per quanto frequenti fossero le festività, il fatto è che il volume delle vocazioni non aumentava mai. Perché il numero aumentava ma poi, quando alcuni abbandonavano l’impresa, si riduceva come nel caso dei soldati di Gedeone. Alcuni non avevano la taglia spirituale e altri se ne andavano attardandosi per strada. Fra loro Adolfo, al quale aveva parlato il giorno di S. Giovanni ante portam latinam. Nel chiarire la situazione di Adolfo verso l’Opera, il 31 ottobre 1933, fece una rapida e sommaria conta delle forze:
“Vedendo chiaramente che non ha vocazione, cessa di appartenere alPOpera.Fra i morti e... i “morti” ..., sono sette, Signore!”80.
Adolfo compreso, erano quattro coloro che ultimamente avevano cessato di seguirlo. Il Fondatore ne soffriva, anche se comprendeva che per perseverare nell’O- pera non bastavano le qualità personali né la buona volontà, ma era necessaria la chiamata divina. Ma che dire delle altre tre perdite, cioè dei membri dell’Opera defunti negli ultimi mesi? Si trattava di anime elette, con una vocazione molto chiara. Per primo Dio si era preso il cappellano Somoano; e per ultima Maria Ignacia, che aveva adempiuto con sovrabbondanza alla sua funzione di anima espiatoria. (E chiaro che, quando il sacerdote fece la propria contabilità spirituale, la perdita di Maria Ignacia l’aveva messa, come abbiamo visto, nella colonna dell’“Avere” . “Non l’abbiamo perduta: l’abbiamo
482
guadagnata”, si legge nella nota necrologica redatta alla morte della malata)81.
Chi poteva prevedere che Luis Gordon sarebbe mortolo stesso anno in cui aveva chiesto di essere membro dell’Opera? Giovane, sano, con una brillante carriera e un’invidiabile situazione sociale, riuniva tutte le condizioni necessarie per aiutare a mettere le fondamenta materiali e apostoliche che cercava don Josemarìa. Il Signore se lo era preso senza alcun preavviso di una morte acerba. E nella nota necrologica redatta dal Fondatore il 5 novembre 1932, giorno della morte, si proclamava un lungo elenco delle sue virtù: “Buon modello: obbediente, discretissimo, caritatevole fino allo sperpero, umile, mortificato e penitente... uomo di Eucaristia e di orazione, devotissimo a Maria Santissima e a Santa Teresi- na..., un padre per gli operai della sua fabbrica, che lo hanno pianto sinceramente alla sua morte” 82.
Meditando le due prime morti - Somoano e Gordon - avvenute quando aveva più bisogno di una buona manodopera apostolica e di anime mature, don Josemarìa ripercorse con il pensiero la storia della propria vita; e con tali ricordi davanti agli occhi, terminava la nota necrologica con queste parole:
“Amiamo la Croce, la Santa Croce che pesa Sull’Opera di Dio. Il nostro gran Re Cristo Gesù ha voluto portarsi via i due meglio preparati, affinché non riponiamo le speranze in cose terrene, neppure nelle virtù personali di alcuno, ma solo ed esclusivamente nella sua Provvidenza amorosissima ”83.
Quando si lamentava filialmente con il Signore del fatto che i morti fossero già sette, egli mostrava di conoscere per esperienza la “ logica divina” e non si scoraggiava. Continuava a utilizzare i mezzi soprannaturali; ritornava alla preghiera, alla mortificazione, all’apostolato attivo, pur sapendo che nella pesca apostolica mol
483
te anime gli sarebbero scivolate di mano. “Mi misi a lavorare” - racconterà con un velo di stanchezza - “e non era facile: le anime sfuggivano come sfuggono le anguille nell’acqua” 84.
Negli esercizi spirituali che il Fondatore fece nel 1934, gli venne in mente di riunire le numerose grazie e favori singolari ricevuti dal Cielo e dei quali si ricordava, sotto il titolo: “ciò che Dio nostro Signore ha dato a me in particolare” . Nell’elenco compare un attributo non facile da catalogare e che viene descritto così: “ Quel non so che di santificatore, che fa sì che s’infiammino le anime di molti quando io parlo loro, anche se da parte mia mi ritrovo spento” 85. Effettivamente era già da anni che nelle anime che entravano in contatto con lui si verificavano indicibili cambiamenti. Lo scultore Jenaro Làzaro che le domeniche pomeriggio, all’uscita dall’Ospedale Generale, si tratteneva a parlare con don Josemaria, riferisce i propri ricordi: «Quelle conversazioni produssero in me un’impressione incancellabile: era un uomo di Dio, che trascinava verso di Lui le persone che frequentava»86.
Quel 2 gennaio 1932, quando andò all’Ospedale del Re per spiegare l’Opera a don Somoano, si sentiva fisicamente abbattuto (spento, come dice lui): “A seguito della conversazione con don Norberto, la mattina di quel giorno mi sentivo senza forze; e al pomeriggio, quando parlavo con Somoano, ero più impacciato del solito. Ormai questo amico appartiene all’Opera”87.
Dai frutti siamo in grado di riconoscere quel “non so che di santificatore” che aveva la sua parola. Ancor più se leggiamo quello che Maria Ignacia scrisse nel suo Piccolo bozzetto, circa lo stato d’animo di Somoano dopo che aveva conversato dell’Opera con don Josemaria: «Ricordo che mi raccontò come un fatto unico quanto gli accadde il primo giorno in cui aveva accettato di farne parte: che la notte non potè prendere sonno per la grande gioia che provava»88.
484
Anche don Pedro Cantero notò la stupenda penetrazione spirituale della sua parola, poiché nel raccontare il primo incontro con don Josemaria in un corridoio della Facoltà di Diritto di Madrid, nel settembre 1930, soggiunge che, dopo il saluto e la prima chiacchierata, «iniziò un’amicizia che sarebbe durata per tutta la vita (...). Josemaria entrò a poco a poco nella mia anima, facendo un vero apostolato da sacerdote a sacerdote»89. Venne la Repubblica; accaddero grandi soprusi e sacrilegi, già accennati; i due amici non si videro per qualche tempo. Inaspettatamente, la sera del 14 agosto 1931, quando nel cielo della capitale «sembrava ancora aleggiare il fumo degli incendi dei conventi», don Josemaria si presentò a casa del suo amico. Tirò fuori dal suo abbattimento don Pedro, che si trovava con l’animo triste e pessimista; e il potere della sua parola operò in tal modo che, come dice testualmente monsignor Cantero, «cambiò la prospettiva della mia vita e del mio ministero pastorale»90. Ciò che don Pedro non seppe è che il Fondatore, per ottenere questo cambiamento, si era appoggiato sull’orazione e sulla mortificazione che aveva chiesto a Isidoro Zorzano, a don Norberto, alle monache di Santa Isabel, ai malati degli ospedali e persino al suo Angelo Custode91. Perché era abituale per don Josemaria cercare la “complicità” degli angeli nelle sue imprese apostoliche.
* *
Quando don Josemaria ricordava la grande varietà di condizioni che esisteva in quanti lo seguivano nei primi tempi, come se il Signore volesse dimostrare che nell’O- pus Dei ci sarebbe stato ogni genere di persone e di professioni: “universitari, operai, piccoli imprenditori, artisti...” , è strano che nell’elenco non faccia menzione dei sacerdoti. Tuttavia egli aveva già avviato delle riunioni per sacerdoti, chiamate “conferenze del lunedì” , che ini
485
ziarono il 22 febbraio 1932, il lunedì precedente alla festa di S. Mattia:
“Lunedì scorso” - annotava negli Appunti - “ci siamo riuniti per la prima volta cinque sacerdoti. Continueremo a riunirci ogni settimana, per immedesimarci. Ho dato a tutti la prima di una serie di meditazioni sulla nostra vocazione”92.
Alcuni di questi sacerdoti si erano uniti a don Josemaria fin dai primi momenti e in maniera imprevista, come nel caso di don Norberto e di don Lino Vea- Murguia93; altri, come don José Maria Somoano, un po’ dopo. Per trasmettere loro lo spirito dell’Opera don Josemaria andava incontro a un lungo lavoro. Più lungo di quanto non immaginasse, dato che doveva creare in loro un legame soprannaturale e umano fatto di affetto e di dottrina, che li unisse alla sua persona in quanto Fondatore dell’Opus Dei. E per lavorarne le anime li portava con sé a far visita ai malati negli ospedali o ad occuparsi della catechesi in parrocchie e scuole94.
Dell’interesse che metteva nella formazione di quel gruppo di sacerdoti rende l’idea quanto Maria Ignacia riferisce del cappellano Somoano: «Quando al lunedì ritornava dopo aver partecipato alle riunioni spirituali della nostra Opera, solo a guardarlo gli si notava la contentezza e la soddisfazione e il quadernetto in cui conservava gli appunti delle meditazioni e altre cose del genere era il suo gioiello più prezioso»95.
Sicuramente don Josemaria predicava ai sacerdoti con l’esempio e metteva nelle sue parole il calore vibrante della sua fede e del suo ottimismo, facendo loro scorgere ideali infuocati. Tutto ciò è riflesso nell’atteggiamento di don Somoano, stando al necrologio che ne fece la settimana stessa della sua morte: “ Con quale entusiasmo ascoltò, nella nostra ultima riunione sacerdotale, il
486
j
lunedì precedente alla sua morte, i progetti dell’inizio della nostra azione!”96.
Le presenze alle prime riunioni raramente superavano la mezza dozzina. “Lunedì scorso” - si legge negli Appunti, in data 28 settembre 1932 - “ci siamo riuniti, con don Norberto e a casa sua, Lino, José Maria Vegas, Sebastiàn Cirac ed io. Si è parlato dell’Opera e abbiamo recitato un responsorio per José Maria Somoa- no”97. (La metà di quel gruppo morì martire in odio alla religione, poiché don Lino Vea-Murgìa e don José Maria Vegas furono tra le migliaia di sacerdoti assassinati nel 1936)98.
Nel lavoro di formazione delle anime che aveva intorno a sé, don Josemarìa dovette fare anche ricorso alla corrispondenza, poiché alcuni di coloro che dirigeva si trovavano fuori Madrid. Attraverso le lettere di Isidoro Zorzano, che per alcuni anni risiedette a Malaga, ci rendiamo conto di che cosa significava la parola scritta e ardente di don Josemarìa. Pochi giorni dopo quella memorabile conversazione del 24 agosto a Madrid, quando Isidoro scoprì la propria vocazione, questi scriveva, al suo rientro a Malaga:
«Malaga, 5-9-1930. (...) Il tema della nostra ultima conversazione mi ha molto soddisfatto, dato che mi ha suggerito nuove idee e mi ha fatto concepire nuove speranze, o meglio, speranze già perdute (...). L’ottimismo che mi hai iniettato lo vedo in pericolo, sento la necessità di starti vicino e di orientarmi definitivamente, con il tuo aiuto, nella nuova era che hai aperto ai miei occhi e che era precisamente l’ideale che mi ero forgiato e che ritenevo irrealizzabile»99.
E dopo una settimana:
«Malaga, 14-9-1930. (...) Mi dici che la tua lettera era lunga, ma a me è sembrata molto breve; l’ho letta diverse volte, poiché conforta grandemente il mio spirito. Og
487
gi mi sono comunicato, secondo il tuo consiglio, unendomi allo spirito dell’Opera di Dio; ora sono compieta- mente confortato, ora trovo il mio spirito invaso da un benessere, da una pace, che non avevo mai sentito finora; devo tutto alPOpera di Dio»100.
Si avvicinava il secondo anniversario dell’inizio del lavoro dell’Opera con le donne; e questo campo apostolico era praticamente deserto. C’era un evidente ritardo nelle vocazioni. Chiunque potrebbe credere che il Fondatore se la prendesse con calma, ma non era così. Rinchiuso nel confessionale di Santa Isabel, attendeva pazientemente - seminando l’attesa di preghiere - che il Signore gli inviasse anime.
“Domenica 8 novembre 1931”. - si legge negli Appunti- “Credo che venerdì scorso il Signore mi abbia messo davanti un’anima per cominciare, a suo tempo, il ramo femminile dell’Opera di Dio”101.
E il martedì successivo scriverà a Isidoro: “ Sai che credo che il Re mi abbia mandato un’anima per cominciare il ramo femminile?” 102. Quest’anima ebbe delle incertezze, finché un giorno chiese al sacerdote un colloquio, decisa a chiedere l’ammissione all’Opera. Da qualche tempo don Josemaria non scriveva Caterine e, quando prese la penna per annotare la data dell’evento, si rese conto di un’altra “coincidenza” :
“Proprio ieri, 14 febbraio 1932, giorno della prima vocazione femminile, ricorrevano esattamente due anni da quando il Signore aveva chiesto l’Opera delle donne. Che buono è Gesù!”103.
Poche settimane dopo chiese l’ammissione Maria Ignacia. Carmen Cuervo, la prima vocazione femminile, e la nuova “vocazione di espiazione” s’incontrarono al- l’Ospedale del Re domenica 10 aprile 1932. E il lunedì
successivo, quando si incontrarono i sacerdoti, don Jo- semaria propose loro di recitare un Te Deum104. Era il minimo. Grazie a Dio, ormai era avviato il lavoro con le donne. Ma se non aveva difficoltà ad avvicinarsi alle malate sofferenti e contagiose, ben diverso era il comportamento di don Josemaria con le donne sane. Manteneva, inflessibile, le distanze, ricevendole nel confessionale; e la sua delicatezza con le prime donne dell’Opera arrivò al punto di affidarle alla direzione spirituale di don Norberto o di don Lino105.
Nel terzo anniversario della fondazione non si nascondeva che l’apostolato, per quanto si riferiva alle donne, era abbastanza fiacco. Il Fondatore non si scoraggiava, continuava ad aspettare vocazioni senza spazientirsi: “ 14 febbraio 1933. Sono oggi tre anni da quando il Signore chiese l’Opera femminile. Quante grazie, da allora! Finora, le donne sono poche” 106.
Un anno dopo si ripeterà la scena della visita di Carmen Cuervo a Maria Ignacia nell’Ospedale del Re; ma cambiarono il luogo dell’incontro e i personaggi: ora era Hermógenes che andava a far visita ad Antonia nel- l’Ospedale Generale:
“ 14 febbraio 1934. Oggi sono quattro anni da quando il Signore ispirò il ramo femminile. Ho fatto in modo che Hermógenes porti ad Antonia, malata in ospedale, un regalo. Vediamo quando mi invierai, mio Dio, la donna che possa mettersi alla loro testa all’inizio, lasciandosi formare!”107.
La storia dei primi che lo seguirono - studenti, sacerdoti, donne - fu un tessere e un disfare, un continuo farsi e sgretolarsi. Don Josemaria sapeva fin troppo bene che alcuni dei seguaci che Dio gli inviava per incoraggiarlo non avrebbero resistito; ma intanto avrebbero migliorato la loro vita interiore. Era consapevole, come dice il proverbio latino (anguillam cauda tene-
489
bat), di pretendere a volte di afferrare le anguille per la coda: gli sfuggivano.
Nonostante ciò, non perdeva l’ottimismo soprannaturale, né di fronte ai cedimenti né di fronte alle morti, anche se il suo cuore accusava le perdite con grande dolore. Più gravi conseguenze comportò il lasciare le vocazioni femminili alla cura di altri sacerdoti, poiché essi non arrivarono mai a capire del tutto lo spirito del- l’Opus Dei.
Nel 1939 don Josemarìa aggiunse una breve nota ad una delle antiche Caterine, spiegando, in brevissime parole, che per mancanza di tempo da dedicare alle donne, aveva affidato a don Norberto e a don Lino il compito di formare le vocazioni femminili; e che questo compito non era stato portato a termine108.
4. Un ritiro spirituale accanto a S. Giovanni della Croce
“Sapesse la voglia che ho di solitudine!” - scriveva l’8 aprile 1932 a don José Pou de Foxà - “Ma il miele non è fatto per la bocca dell’asino e mi devo contentare di una vita di confusione e movimento, ballando per tutto il giorno di qua e di là. Sia benedetta e amata la Volontà di Dio”109.
La sua vita era davvero un via vai inarrestabile. Messa, funzioni in chiesa, confessioni di monache e di fedeli a Santa Isabel; confessioni di suore e preparazione di bambine alla prima Comunione nella scuola dell’Assun- zione; visite agli ospedali; e conversazioni, e direzione spirituale di giovani e di sacerdoti, ecc.110. Questa pesante dedizione pastorale non gli dava beneficio economico, per cui era costretto ad aggiungere a tutto il resto le lezioni nell’Accademia Cicuéndez e le lezioni private a domicilio. Impossibile prescindere da tali occupazioni.
490
Da quelle pastorali perché le esigeva la sua anima; e da quelle di docenza perché le esigeva il suo mantenimento, o almeno quello del resto della famiglia.
Il desiderio di solitudine, verso cui sospirava nella lettera sopra citata, gli sembrava a volte una tentazione, quando la stanchezza o il demonio gli suggerivano che non sarebbe stato male dedicarsi a un’esistenza di maggior tranquillità spirituale, libera dall’agitazione del lavoro apostolico. Lo si legge in una Caterina:
“La tentazione torna a sussurrarmi nelle orecchie la vita di pace e di virtù, non già del Padre X o di Fra’ Nessuno, ma di un pretino sconosciuto nell’ultima parrocchia rurale, senza grandi lotte né grandi ideali di azione immediata...”111.
Per respingere le tentazioni di condurre un diverso genere di vita, che lo assalirono intorno all’aprile 1932, il cappellano sfruttava la potente supplica delle anime innocenti. Nei giorni in cui andava a preparare le bambine della prima Comunione, chiedeva loro di recitare con lui, tutti insieme, “un’avemaria per il santo a legnate” 112. (Avranno capito quelle anime tenerelle chi era il “ santo a legnate” ?). Ma il motivo per cui scriveva la lettera a Pou de Foxà era un altro. “Se Dio non provvede diversamente” - gli comunicava don Josemaria - “dovrò venire a Saragozza nel giugno prossimo, perché un figlio dei Guevara si presenti agli esami” 113.
Il suo confessore lo costrinse a comprarsi un cappello e una veste talare prima di mettersi in viaggio. (Doveva essere ridotto piuttosto male a vestiario). Comperò anche “un quaderno nuovo, poiché pensavo di fare un diario di caterin e” nA.
Quando rientrò a Madrid, il 13 giugno, il quaderno era ancora bianco: non aveva scritto nessuna Cater in a ; aveva però inviato delle brevissime lettere alla famiglia115.
491
L’estate 1932 fu movimentata. Non potè trovare la solitudine cui aspirava. Il 10 agosto a Madrid ci fu una disorganizzata insurrezione alla quale partecipò un certo numero di ufficiali dell’esercito e alcuni gruppi di studenti monarchici. Il governo e la forza pubblica erano stati preavvertiti, per cui ben presto la rivolta fu soffocata e la pace ristabilita. I congiurati finirono in prigione. José Manuel Doménech, uno di coloro che accompagnavano le domeniche don Josemaria all’Ospedale Generale, racconta l’accaduto: «Avevo preso parte, insieme ad altri studenti di Madrid, ai fatti del 10 agosto. Eravamo andati al mattino presto, armati, a occupare l’edificio delle Poste. La maggior parte di noi fu arrestata e spedita al Carcere Modello, prima nel settore dei prigionieri politici e poi in isolamento, con un regime carcerario rigoroso»116. Finì in carcere anche Adolfo Gómez, quello del giorno di S. Giovanni ante portam la- tinam, uno dei giovani che di notte vigilavano conventi e chiese per evitare incendi e assalti.
Negli Appunti di quella giornata si legge:
“Giorno di S. Lorenzo, 10 agosto 1932. Questa mattina alle cinque mi hanno svegliato degli spari, vere scariche di mitragliatrici. Sono andato a Santa Isabel vestito da civile. Il nostro Adolfo è prigioniero: è un’anima grande, che capisce l’ideale e si sa sacrificare per esso. Il Signore ce lo protegga”117.
Lo stesso giorno si recò dove si trovava Adolfo, ma non gli fu consentito vederlo. Passò diversi giorni di dolorosa attesa, senza poter parlare con il prigioniero. Finalmente riuscì a fargli recapitare poche righe di conforto.
“Vigilia di S. Bartolomeo, 23-VIII-1932. Siamo riusciti a mandare alcune cose ad Adolfo. Tutti i giorni vado al carcere. Credo che oggi, visto che andrò con sua madre,
492
riuscirò a vederlo. Non farò più annotazioni su questo argomento”118.
Quel giovane sacerdote si recava al Carcere Modello in veste talare, «benché il far visita ai detenuti significasse mettersi in evidenza ed esporsi ad essere perseguitato», commenta José Antonio Palacios, uno studente incarcerato119. Don Josemaria fece la conoscenza con alcuni di quegli universitari esaltati. Parlava con loro nel parlatorio dei prigionieri politici, una lunga galleria con un’inferriata continua e con le sbarre molto strette. Raccomandava loro serenità e buon umore. Parlava loro della Madonna e della visione soprannaturale del lavoro, affinché non cadessero nell’ozio e continuassero a offrire al Signore alcune ore di studio. Date le circostanze, i libri non erano la principale preoccupazione di questi studenti agitati. Ma il sacerdote diceva loro le cose in modo così persuasivo - osserva José Antonio - che «per impiegare il tempo io mi misi a dare lezioni e a ripassare il francese»120.
Un certo giorno, José Manuel Doménech udì dalla cella gridare il suo nome. Aperto il portellino, una guardia carceraria gli consegnò una busta. Dentro la busta c’era un libro del Piccolo ufficio della Madonna, che recava la seguente dedica:
Beata Mater et intacta Virgo, gloriosa Regina mundi, intercede prò Hispanis ad Dominum “A José M. Doménech, con tutto l’affetto Madrid, agosto 1932 José M. Escrivà”121.
«Mi fece una profonda impressione l’affetto del Padre e la sua preoccupazione per la mia vita interiore - dirà José Manuel egli sapeva che conoscevo e recitavo il “piccolo ufficio” ». Nel mese di settembre don Josemaria perse le tracce di molti di loro. Gran parte dei
493
prigionieri politici furono deportati in Africa; ma non per questo sospese le visite a quanti erano rimasti nel Carcere Modello122.
Per tutta l’estate il sacerdote avvertì un gran desiderio di solitudine, di ritiro spirituale. Due mesi dopo che se ne era lamentato con l’amico Pou de Foxà, si legge di nuovo in una nota del primo giugno:
“Ho bisogno di solitudine. Anelo un lungo ritiro, per stare con Dio, lontano da tutto. Se Egli lo vuole, me ne darà l’occasione. Lì sedimenterebbero molte cose che ribollono dentro di me; e Gesù, sicuramente, preciserà particolari importanti per la sua Opera”123.
Finalmente, in settembre sistemò le cose. Con l’autorizzazione del Provinciale dei Carmelitani si preparò a fare una settimana di ritiro spirituale a Segovia, nel convento dove riposano i resti di S. Giovanni della Croce. Il2 ottobre scriveva:
“Giorno dei Santi Angeli Custodi, vigilia di Santa Tere- sina, 1932: quattro anni! Anche il Signore ha voluto ricordarmelo, inviando una vocazione femminile (...). Domani vado a Segovia, agli esercizi, accanto a S. Giovanni della Croce. Ho chiesto, ho mendicato molta preghiera. Vedremo”124.
Arrivò al convento dei Carmelitani Scalzi di Segovia lunedì 3 ottobre 1932. Immediatamente si dedicò a preparare il piano del ritiro, che pensava di fare nel più completo isolamento, com’era sua abitudine, senza ascoltare sermoni o prediche. La sua cella portava un “ bel numero” , il 33, che gli ricordava doppiamente le Persone della Santissima Trinità, e un cartiglio che diceva: Gloriatio. Et in timore Dei sit tibi gloriatio. Eccl. 9,23. (Subito gli vennero in mente i brutti momenti che aveva passato nell’ottobre dell’anno precedente, quando mentre contemplava la propria filiazione divina il Si
494
gnore aveva coperto nella sua mente il giusto significato del timor Domini. Una coincidenza troppo strana perché l’iscrizione non gli apparisse un promemoria da parte del Signore)125.
Adattò il piano del ritiro alle esigenze dell’orario conventuale. Si sarebbe alzato alle cinque meno un quarto; alle cinque e mezza un’ora di meditazione; poi la santa Messa; alle otto, colazione; alle nove e mezza, un’altra ora di meditazione. Alle undici e mezza il pranzo. Al pomeriggio, altre due meditazioni di un’ora, rosario e lettura. Alle sei e un quarto della sera: cena, esame e disciplina. Alle dieci, dopo aver recitato le preci, sarebbe andato a coricarsi126.
Il convento godeva di una magnifica vista. In distanza, al di sopra della zona alberata che scendeva fino all’avvallamento del fiume, si elevava un sottile promontorio con un castello erto sullo sperone. Don Josemarìa era convinto che il Signore lo avrebbe trattato bene perché stava “ in casa di sua Madre, nel Carmelo” . E gli venne di colpo il lontano ricordo di Logrono, dei carmelitani scalzi che camminavano sulla neve127. Così aveva avuto inizio la sua storia; e ora si trovava in un convento del Carmelo, da solo con il suo Dio.
* * *
Le note dei suoi primi giorni di ritiro sono brevi. Poche righe bastano per indicare il corso dei suoi pensieri.
“Primo giorno. Dio è mio Padre. - Non mi separo da questa considerazione (...). Io sono di Dio... e Dio è per me.Secondo giorno, mercoledì. - O Domine!, tuus sum ego, salvum me fac! -E t a te numquam separari permittas! - Signore, non è tanto facile farsi santo! - Lo credo bene che ti dicesse la Madre Teresa: “Per questo hai così pochi amici” .Terzo giorno, giovedì. Né la considerazione della gravità
495
del peccato, né la vista dei castighi eterni che meritò e merita, mi smuovono (...). Sono così freddo. Tutt’al più aggiro il problema per gridare al mio Dio: ti amo, perché sei buono: io sono un miserabile... Castigami, ma fa che ogni giorno ti ami di più”128.
Pure del terzo giorno, 6 ottobre, è questo appunto:
“Oggi, nella cappella di S. Giovanni della Croce (vi passo tutti i giorni alcuni momenti di solitudine piena di compagnia) ho visto che, per iniziare le riunioni sacerdotali e tutte le altre in cui si tratti dell’Opera di Dio, faremo la seguente preghiera (...): 1) Veni Sancte Spiritus.2) Sancte Michael, ora prò nobis. -Sancte Gabriel, ora prò nobis. -Sancte Rapbaèl, ora prò nobis. 3) In nomine Patris, et Pilii et Spiritus Sancti. Amen. A) Sancta Maria, Sedes Sapientiae, ora prò nobis”129.
Lo speciale significato di queste parole sarebbe passato inavvertito se non esistessero altre testimonianze autobiografiche concordanti e complementari, come per esempio quanto scrisse nel 1941:
“Passavo lunghi momenti di orazione nella cappella dove sono conservati i resti di S. Giovanni della Croce: e lì, in quella cappella, ebbi la mozione interiore di invocare per la prima volta i tre Arcangeli e i tre Apostoli - la cui intercessione noi dell’Opera chiediamo ogni giorno nelle nostre Preci - prendendoli da quel momento come Patroni delle tre opere che compongono l’Opus Dei”130.
Questa mozione soprannaturale veniva a risolvere, come si spiegherà più avanti, la struttura dell’Opera e la sua organizzazione apostolica. Del venerdì, quarto giorno di ritiro, sono queste considerazioni:
“Il Regno di Gesù Cristo. Questo è ciò che è mio! (...) L’asinelio! Non è più un asino rognoso (...). Con le sue povere spoglie fanno tamburi da guerra e tamburi e
496
zampogne da pastori. Potessero servire così le spoglie dell’asinelio di Gesù, per suonare nella grande guerra per la gloria di Dio e per il regno universale ed effettivo di Cristo, mio Signore..., e per cantare strofe infuocate, canzoni di pastori di Betlemme, al Bambino che nacque per morire per me! (...).Sentii come se dentro di me mi dicessero: “Ma se sei un ipocrita... Stai perdendo il tempo, dedicandoti a... costruire frasi” . E in quell’istante, quasi per confermare quel pensiero, mi capitò una cosa sciocca - che sto per dire - mentre guardavo l’Alcàzar di Segovia: quel castello sta chiedendo a gran voce, così stagliato nel cielo - sembra di cartone - dei soldatini di piombo, perché si possa divertire un bambino figlio di giganti. Dubitai: anche prima avrò costruito delle frasi senza sostanza? Ma percepii chiaramente: no, stavo facendo orazione”131.
Nel suo ritiro seguiva un piano personale, per proprio conto, ma non a suo capriccio. Padre Sànchez gli aveva dato una traccia per orientarlo. Inoltre il suo confessore avrebbe letto in seguito tutto quello che egli avrebbe scritto durante quei giorni. (“Faccio questo inciso” - avvertì esplicitamente - “ affinché, leggendo le mie note, il mio padre Sànchez veda come vado: non sono uscito dal ghiaccio, eccezion fatta per alcuni lampi di fervore” )132.
La domenica meditava sulla purezza: “ la santa purezza, umiltà della carne” 133 e decise di rinnovare nelle mani della Vergine alla fine del ritiro l’impegno sacerdotale di fedeltà d’amore. Passò poi ad esaminare il proprio distacco, proponendosi di essere più generoso e di lasciare tutto alla cura del Signore134. Fece subito dopo una dichiarazione di sottomissione della propria volontà: “Sono deciso a obbedire sempre al mio Padre spirituale. Così pure ai miei superiori gerarchici” 135.
Dal luglio 1930 si confessava con padre Valentin Sànchez Ruiz, ad eccezione delle settimane in cui il buon gesuita si tenne nascosto quando divenne esecutivo il de
497
creto che scioglieva la Compagnia. Fin dal primo momento fu molto chiaro a tutti e due che la missione fon- dazionale e il governo dell’Opera erano materie estranee alla direzione spirituale che egli si attendeva dal confessore. Il suo confessore non era direttore dell’Opera di Dio, bensì direttore del sacerdote. (Sulla direzione spirituale di padre Sànchez, don Josemaria scrisse: “Non ha avuto nulla a che vedere con l’Opera, perché mai lo lasciai intervenire o esprimere opinioni” )136.
Con questa premessa e con assoluta semplicità, dichiarava: “Tutte le cose della mia anima - senza riservarmi nulla - le ho comunicate e le comunicherò sempre al mio direttore spirituale” 137. Così stando le cose, dietro a questo fermo comportamento si scorge quanto gli costasse mettere a nudo la propria anima in materie chelo potessero innalzare agli occhi altrui.
“Giorno di S. Marco, 25 aprile 1932. Questa mattina sono stato con il mio padre Sànchez. Avevo deciso di raccontargli del giorno 20; sentivo una certa ripugnanzao vergogna. Mi è costato, ma gliel’ho detto”138.
Il fatto a cui si riferiva non è cosa da poco. Alcuni giorni prima, alla sera, prima di coricarsi, si era raccomandato a S. Giuseppe e alle Anime del purgatorio per le quali aveva una speciale devozione, affinché lo svegliassero alle sei meno un quarto. (Doveva ricorrere a loro, poiché al sonno si univa lo sfinimento). E questa è la Caterina che racconta l’accaduto:
“Questa mattina - come sempre quando lo chiedo umilmente, qualunque sia l’ora in cui mi corico - mi svegliai da un sonno profondo come se mi stessero chiamando, sicurissimo che fosse arrivato il momento di alzarmi. In effetti, erano le sei meno un quarto. Ieri sera, pure d’abitudine, chiesi al Signore di darmi la forza per vincere la pigrizia quando mi fossi svegliato, perché - lo confesso a mia vergogna - mi costa enormemente una cosa così
498
piccola e sono parecchi i giorni in cui, nonostante questa chiamata soprannaturale, rimango a letto per un po’. Oggi ho pregato, quando ho visto l’ora, ho lottato... e sono rimasto a letto. Alla fine, alle sei e un quarto della mia sveglia (che è rotta da tempo) mi sono alzato e, pieno di umiliazione, mi sono prostrato a terra riconoscendo la mia mancanza - serviaml, servirò! - mi sono vestito e ho cominciato la meditazione. Bene: fra le sei e mezza e le sette meno un quarto ho visto, per un certo tempo, che il volto della mia Madonna dei Baci si riempiva di letizia, di gioia. La fissai bene: credetti che sorridesse, perché mi faceva questo effetto, ma le labbra non si muovevano. Molto sereno, ho detto a mia Madre tante cose affettuose”139.
Non era la prima volta che gli accadevano cose simili. Cercava di non dar loro importanza. Era restio ad ammettere “facilmente la straordinarietà di certe cose” . E dopo essersi sottoposto ad una prova, nel caso si trattasse di una suggestione dei sensi, dovette arrendersi all’evidenza.
“Sono giunto a fare delle prove” - scrisse - “nel caso fosse una mia suggestione, perché non ammetto facilmente la straordinarietà di certe cose. Inutilmente: il volto della mia Madonna dei Baci, quando io apposta, cercando di suggestionarmi, volevo che sorridesse, continuava nella serietà ieratica che ha la povera scultura”140.
La piccola scultura della Madonna dei Baci, Sanata osculorum Virgo, faceva davvero cose stupende: “ In- somma, la mia Signora, Santa Maria, (...) ha fatto una carezza al suo bambino” 141.
Il discepolo spirituale di padre Sànchez taceva molte piccole umiliazioni, attraverso le quali andò progredendo sulla via della pazienza. Gli dispiaceva veramente, fino alle lacrime, il dover andare in tutta fretta, dopo aver
499
fatto delle lezioni o aver fatto visita ai malati, correre alla disperata fino a Chamartin, dove risiedeva il padre gesuita da quando era stata incendiata la casa in via della Fior. Chiedeva di lui e non poche volte il portiere gli riferiva che doveva tornare un altro giorno. Non si rendeva conto il suo confessore che non aveva tempo per arrivare fin là, fuori della capitale? E neppure era il caso di dirgli che era stato costretto ad andarci a piedi, facendo una camminata per quei luoghi fuori mano, perché non aveva i pochi miseri centesimi per il tram142.
Padre Sànchez era un buon direttore di anime e don Josemaria gli era molto riconoscente, perché anche il fastidio delle attese a Chamartin gli fece “molto bene” 143. Nei suoi Appunti e nella sua corrispondenza ci sono alcuni discreti elogi del confessore. Ci sono anche alcune osservazioni, come quelle appena ricordate delle attese e dei viaggi a vuoto, che non sarebbero state molto gradite al suo confessore, ma egli le annotava pur sapendo che l’interessato le avrebbe lette. Tuttavia questo particolare aspetto delle sue relazioni con il confessore era materia secondaria ed episodica. L’essenziale, insisteva il Fondatore, era “compiere la Volontà di Dio, manifestata chiarissimamente sulla sua Opera” 144.
Negli ultimi giorni del ritiro a Segovia meditò sulla Passione e Resurrezione del Signore, non senza che il diavolo - “ il tignoso” - gli facesse passare un brutto momento con i suoi imbrogli nella notte tra la domenica e il lunedì:
“Ieri sera il demonio, che se ne va a spasso per la mia cella, tornò a rimestare cose passate. Ho passato un brutto momento. E anche questa mattina. Te lo offro, Dio mio, come espiazione. Ma sono debole, non posso nulla, non valgo nulla: non mi lasciare. Afflitto, ho avuto un colloquio con mio Padre Giovanni della Croce: così mi tratti in casa tua? Come permetti che il ti
500
l
gnoso mortifichi i tuoi ospiti? Credevo che tu fossi più accogliente...”145.
*
Al ritiro si era portato dei quesiti di coscienza ai quali era necessario dare risposta quanto prima, dato che incidevano sulla sua dedicazione all’Opera. Il primo che si pose fu quello degli studi: “Devo fare il Dottorato in Diritto civile e in Sacra Teologia?” 146. Per maggiore chiarezza di analisi decise di trascrivere e numerare le ragioni prò o contro. Ne trasse il proposito di presentare la tesi in Diritto e di ottenere il Dottorato in Sacra Teologia nel 193 3147.
Passò al secondo quesito: “ Conviene che io faccia dei concorsi, per esempio a qualche cattedra universitaria?” . Dopo avere discusso animatamente con se stesso, scrisse: “Ragioni a favore: onestamente non ne vedo” . E non le vedeva in quanto era fermamente persuaso che Dio non aveva bisogno di questo per costruire la sua Opera: “ Cercare un’occupazione civile, visto quanto detto fin qui, sarebbe dubitare della divinità dell’Opera, che è il mio fine sulla terra”148.
D’altra parte, tutto sembrava sconsigliare la cattedra. Benché propendesse per il Diritto canonico, materia sulla quale aveva lavorato nei suoi ultimi anni di docenza a Saragozza e a Madrid, la preparazione avrebbe richiesto molti anni e molto studio. Questo senza pensare all’aspetto economico: come avrebbe mantenuto, nel frattempo, la famiglia?
Per il “contro” stavano anche ragioni soprannaturali di gran peso. Dedicarsi a una cattedra significava rubare tempo all’Opera di Dio. La sua vocazione gli richiedeva una disponibilità totale: “Essere solo, esclusivamente - e sempre - sacerdote: padre direttore di anime, nascosto, sepolto in vita, per Amore” 149.
Lasciò per ultimo il più delicato dei problemi, poiché era una faccenda in cui erano coinvolte altre persone. Si
501
trattava “della famiglia, la mia famiglia” . Don Norberto gli aveva dato su questo punto una nota perché la meditasse. Don Josemarìa andò a considerare la questione accanto al Tabernacolo: “Vediamo che cosa dice Gesù!” 150. Don Josemarìa vide che l’appunto di don Norberto inquadrava il tema “tutto sul piano divino” . Adduceva solamente ragioni soprannaturali, inconfutabili ma, in un certo senso, disumanizzate, dato che, nel suo caso particolare, gli richiedevano di scrollarsi di dosso ogni affetto verso i propri consanguinei.
Mettendo al di sopra di ogni altra considerazione l’inquadramento “ sul piano divino” come base della sua analisi, don Josemarìa passò in rivista serenamente i fatti e le ragioni che avevano presieduto lo svolgimento della sua vita e di quella della sua famiglia. Davanti a lui sfilarono i ricordi, netti e talvolta brutali: il sacrificio dei genitori per dargli una buona educazione dopo la rovina familiare; le speranze che avevano riposto in lui e il “danno economico” comportato dalla sua scelta per il sacerdozio; l’aver aggravato la situazione della famiglia nel rifiutare un incarico ecclesiastico per seguire la “pazzia divina” 151. Arrivò così alla conclusione che la “maniera pratica” di proteggere la sua famiglia era di lasciar agire il Signore:
“Le cose di Dio si devono fare alla maniera divina. Io sono di Dio, voglio essere di Dio. Se lo sarò veramente, Egli - senza indugio - sistemerà tutto, premiando la mia Fede e il mio Amore, e il silenzioso e per nulla piccolo sacrificio di mia madre e dei miei fratelli. Lasciamo che operi il Signore”152.
Prima di terminare gli esercizi, si tracciò un “programma minimo di vita spirituale” che comprendeva diverse pratiche: il breviario, un’ora di orazione al mattino e un’altra la sera, mezz’ora di ringraziamento dopo la Messa; recita del santo rosario, rivivendone le scene;
502
esami di coscienza a mezzogiorno e la sera; visita al Santissimo; preci dell’Opera; lettura del Nuovo Testamento e di qualche altro libro spirituale. A questo programma aggiunse un foglio di “Propositi” , quali il “non disprezzare le cose piccole, invocare il mio Angelo Custode, acquisire un contegno grave e modesto, ecc.” Tutto questo unito a nuove mortificazioni corporali: cilicio quotidiano; dormire per terra tre volte alla settimana; e digiuno assoluto, senza pane né acqua, un giorno alla settimana.
Infine, prima di lasciare Segovia, fece un’esplicita affermazione della sua fede nell’origine soprannaturale dell’Opera, irrobustendo così il suo deciso impegno di donazione:
“Per terminare: sento che, anche se dovessi rimanere solo nell’impresa se Dio lo permette, anche se mi trovassi disonorato e povero - più di quanto lo sia ora - e malato... non dubiterò né della divinità dell’Opera, né della sua realizzazione! E confermo la mia convinzione che i mezzi sicuri per compiere la Volontà di Gesù, prima di agire e di muoversi, sono: pregare, pregare e pregare; espiare, espiare ed espiare”153.
5. Il lavoro di S. Raffaele
Nel ritiro di Segovia stabilì di non avere davanti a sé che due vie: “La via della Croce: compiere la Volontà di Dio nella fondazione dell’Opera, che mi condurrà alla santità (...); e la via ampia - e corta! - della perdizione: compiere la mia volontà”154.
“ Ora, subito, che cosa posso fare io per l’Opera?” , si chiedeva impaziente e deciso a seguire la via della Croce. Fedele al suo motto di utilizzare i mezzi soprannaturali (orazione ed espiazione) prima di lanciarsi nell’attività apostolica, fece impressionanti propositi di espiazione di tutti i suoi sensi, interni ed esterni. Il nuo
503
vo elenco di mortificazioni, che completa quello che aveva fissato a Segovia, è del 3 dicembre 1932. Sono nove determinazioni tassative, concrete, precedute da un secco: “Non guardare mai!”155.
Era questa una risposta a una considerazione che aveva fatto il sesto giorno di ritiro: “A che scopo guardare” - si chiedeva - “ se il mio mondo sta dentro di me?” 156. Non significava disdegno; era un’intima rinuncia ascetica al godimento illimitato della vista, alla curiosità per un’infinità di forme piacevoli, alla diversità di luci e colori e alla grazia degli esseri. La decisione di non posare mai la vista su cosa alcuna va intesa, per quanto contiene di olocausto, in rapporto alla vivacità del suo sguardo, pronto a scoprire le bellezze del mondo esterno, scivolando su di esse come chi accarezza un fine velluto: “Dio mio!” - si legge in una Caterina del 14 novembre 1932 - “trovo grazia e bellezza in tutto ciò che vedo; custodirò la vista in ogni momento per Amore” 157. Gli altri propositi costituivano un ampio e fitto programma di mortificazioni dei sensi corporei e delle potenze interiori.
* * *
Fin dal momento della fondazione l’Opera era perfettamente “disegnata” 158, ma era necessario compierla con l’apostolato, cercando vocazioni e trasmettendo lo spirito proprio dell’Opus Dei. In quel momento don Josemaria contava su un gruppo di sacerdoti, un altro di giovani e due o tre donne, tutti preparati a rispondere a una chiamata di santità in mezzo al mondo. Aveva anche altre persone che si dirigevano con lui. Da tempo aveva visto la necessità di organizzare l’apostolato personale che svolgeva con persone tanto diverse fra loro ed era alla ricerca del modo in cui strutturarlo. Nell’incertezza, pensò di creare un’associazione per studenti universitari, con il nome di Pia Unione di Santa Maria della Speranza159. Finché, giovedì 6 ottobre 1932, men
504
tre faceva orazione nella cappella di S. Giovanni della Croce, durante il suo ritiro spirituale di Segovia, ebbe “la mozione interiore di invocare per la prima volta i tre Arcangeli e i tre Apostoli” : S. Michele, S. Gabriele e S. Raffaele; S. Pietro, S. Paolo e S. Giovanni160. Da quel momento li considerò Patroni dei diversi campi apostolici che compongono l’Opus Dei.
Sotto la protezione di S. Raffaele sarebbe stato messoil lavoro di formazione cristiana della gioventù; le vocazioni per l’Opera che ne fossero venute sarebbero state poste sotto la protezione di S. Michele, allo scopo di formarle spiritualmente ed umanamente. I padri e le madri di famiglia che avessero partecipato alle attività apostoliche o entrassero a far parte dell’Opera avrebbero avuto per Patrono S. Gabriele.
Ultimamente era giunto alla conclusione che l’apostolato con i giovani non doveva essere organizzato in un’associazione, bensì svolgersi in un’istituzione di docenza privata; per esempio, un’accademia161. Ma prima si verificò un cambiamento nella vita di don Josemarìa che, pur avendo a prima vista poco a che vedere con il lavoro di S. Raffaele, è decisamente collegato all’inizio della formazione dei giovani studenti.
“Dopo aver fatto insistente orazione al Signore” - si legge in un’annotazione del 9 dicembre 1932 - “trovai in modo provvidenziale un appartamentino decente per viverci con la mia famiglia. Deo gratias. Ho chiesto un credito alla Corporazione per pagarlo, come l’altro, in un anno. Così posso cambiare casa”162.
L’appartamento era un piano nobile a sinistra, al numero 4 di via Martìnez Campos. Il costo era di 1380 pesetas l’anno, in mensilità anticipate163. Aveva sicuramente dei vantaggi se don Josemarìa intonò il Deo gratias. Di nuovo la signora Dolores fece un trasloco. Questa volta in un appartamento ampio, dove avreb
505
bero fatto miglior figura le sue capacità, perché in via Viriato non c’era posto neppure per le sedie. Fu così che, senza aspettare di avere un’accademia, don Josemaria incominciò a riunirsi con sacerdoti e studenti; si incontravano ed egli dava loro delle conversazioni di formazione.
Le 1380 pesetas che s’impegnò a pagare annualmente non ci autorizzano a presumere un miglioramento nella situazione economica degli Escrivà. E sufficiente il seguente episodio, accaduto pochi giorni dopo la firma del contratto di affitto:
“Ieri si è fermato il mio orologio da tasca” - scrisse don Josemaria -. “La faccenda era piuttosto complessa, per me: perché non ho un altro orologio e perché il mio capitale ammonta, oggi, a settantacinque centesimi (...). Parlando con il mio Signore gli suggerii che fosse il mio Angelo Custode, al quale Egli ha dato più arte che a tutti gli orologiai, a sistemare il mio orologio. Sembrò che non mi avesse ascoltato, dato che mi misi a muovere, a toccare e ritoccare, invano, l’orologio guasto. Allora (...) mi sono inginocchiato e ho iniziato un padrenostro e un’avemaria, che forse non arrivai neppure a finire, perché ho preso di nuovo l’orologio, ho toccato le lancette... e si è messo in moto! Ho ringraziato il mio buon Padre”164.
(A quanto sembra, non si trattava di un caso isolato o fortuito. Il suo Angelo custode se la cavava con la meccanica: “D’ora in poi lo chiamerò l’orologiaio” , scrisse165. All’angelo, sicuramente, non mancò il lavoro, perché passarono diversi mesi prima che don Josemaria potesse pagarsi la sistemazione dell’orologio).
La povertà - “mia gran signora” , la chiamava - presiedeva tutta la sua vita e così pure gli inizi del lavoro diS. Raffaele, l’apostolato con i giovani. Il contratto d’affitto era del 10 dicembre. Vediamo ora come stava a denaro alla fine di novembre.
506
In quei giorni, sulla porta di una scuola del “Patronato de Enfermos” , trovò un’immagine della Madonna Immacolata, buttata via e sporca di fango. Don Josemaria era solito raccogliere le immagini sacre trovate per strada, per bruciarle poi a casa; ma questa la raccolse con il presentimento che si trattasse di un’offesa, di una pagina di catechismo strappata per odio. “Perciò” - scrisse in una Caterina - “non brucerò la povera immagine - una pessima stampa, su carta brutta e lacerata -; la conserverò, la metterò in una bella cornice, quando avrò denaro... e chi mi dice che non si darà culto di amore e riparazione, con il tempo, alla “Madonna del Catechismo ” ! ” 166.
Il 2 dicembre, una settimana prima di prendere in affitto il nuovo appartamento, senza denaro per una piccola cornice, passava in rassegna la propria povertà evangelica, senza lamenti né vanità:
“Mi trovo - più che mai - senza un centesimo. La nostra povertà (mia gran signora, la povertà) è identica, da alcuni anni, a quella di quanti chiedono l’elemosina per strada. Ci nutre e ci veste (senza nulla di superfluo e anche senza alcune cose necessarie) nostro Padre che sta nei cieli, lo stesso che nutre e veste gli uccelli, secondo quanto dice il Santo Vangelo. Non mi preoccupa per niente, per niente, per niente questa situazione economica. Siamo abituati a vivere di miracoli”167.
Ottenne un credito per l’appartamento e una cornice per la stampa. In cambio di questo favore e omaggio, chiese alla Madonna che gli procurasse una catechesi. La Madonna non si fece pregare molto.
Don Josemaria conosceva bene i quartièri fra Tetuàn de las Victorias e l’Ospedale del Re. Gruppi di baracche, disseminate fra miserabili casupole, formavano “ La Ventilla” o “Barriada de los Pinos” 168. Nel 1927 le Missionarie della Dottrina Cristiana avevano costruito a
507
Los Pinos la Scuola del Divino Redentore per i bambini di quella povera gente. La scuola era in un avvallamento del terreno; quando pioveva vi affluivano a torrenti tutte le acque dei dintorni.
«Una mattina, che ricordo molto bene - racconta suor San Paolo - perché c’era stata un’abbondante nevicata e tutto era coperto di bianco, dalla sala di ricreazione della Comunità, che si trovava al piano superiore, vedemmo avvicinarsi alla scuola due sacerdoti vestiti con tonaca e mantello. Era mattina presto, perché si vedeva ancora tutto bianco e pulito; poi si trasformava tutto in un pantano. Era don Josemarìa - accompagnato da un altro sacerdote che si chiamava don Lino - che veniva a chiederci che gli lasciassimo organizzare una catechesi nella scuola»169. Questa visita fu martedì 17 gennaio, come si legge negli Appunti:“19 gennaio 1933 (...) Domenica scorsa sono andato a Pinos Altos o Los Pinos, dove si trova una scuola di religiose, nella quale terremo dal prossimo 22 la nostra catechesi. Martedì, nonostante la grande nevicata, andammo Lino e io a vedere il locale e a salutare le suorine, che hanno molto buono spirito, e il cappellano. Si meravigliarono di vederci arrivare in mezzo alla neve: con così poco ci siamo guadagnati il Signore”170.
Il gruppo dei seguaci di don Josemarìa si era allora molto assottigliato. Alcuni avevano lasciato Madrid; altri avevano patito “malattie e tribolazioni” ; altri ancora si erano stancati di seguirlo perché avevano “una volontà che non vuole” 171. In tali circostanze fu provvidenziale l’arrivo di uno studente di Medicina che si chiamava Juan Jiménez Vargas. Don Josemarìa parlò con lui un paio di volte. Nel secondo colloquio, il 4 gennaio 1933, aprì allo studente il panorama soprannaturale dell’Opera. Dietro a questa vocazione vennero alcuni amici. Gli amici di Juan erano gente con ardore patriottico, assidui alle riunioni di propaganda politica
508
che solitamente si svolgevano alla domenica, proprio il giorno della catechesi. Qualcosa calmò i bollori di quegli intrepidi attivisti, tanto da far loro pensare di essere più utili nella catechesi che negli incontri politici. La prima visita al rione Los Pinos fu fissata per domenica 22 gennaio.
Frattanto don Josemaria aveva già iniziato a lavorare le anime di quel gruppo di studenti. Sabato 21 gennaio Juan si presentò con due amici affinché don Josemaria desse loro una lezione di formazione religiosa. La riunione ebbe luogo nell’asilo di Porta Coeli, in una sala ceduta loro dalle suore:
“Sabato scorso, con tre ragazzi e a Porta Coeli, ho dato inizio, grazie a Dio, al lavoro patrocinato da S. Raffaele e S. Giovanni. Dopo la conversazione, ho fatto l’esposizione minore e ho dato loro la benedizione con il Signore. Ci riuniremo il mercoledì”172.
Juan fu impressionato dalla fede e dalla devozione che trasparivano dai gesti e dalle preghiere liturgiche, «soprattutto dal suo modo di tenere in mano l’ostensorio e di impartire la Benedizione»173. Alcuni anni più tardi, il sacerdote avrebbe spiegato dove stava andando il suo pensiero mentre dava la benedizione con il Santissimo:
“Finita la lezione, andai in cappella con quei ragazzi, presi il Signore sacramentato nell’ostensorio, lo alzai, benedissi quei tre..., e ne vedevo trecento, trecentomi- la, trenta milioni, tremila milioni..., bianchi, neri, gial-. li, di tutti i colori, di tutte le combinazioni che l’amore umano può fare. E mi sono sbagliato per difetto, perché tutto è diventato realtà nel giro di quasi mezzo secolo. Mi sono sbagliato, perché il Signore è stato molto più generoso”174.
* * *
509
Don Gabriel, il cappellano della scuola (era nella località chiamata Arroyo), era solito celebrare la Messa alle undici per tutti i partecipanti alla catechesi. Gli studenti venivano a gruppi dal rione di Tetuàn per incontrarsi lì con don Josemaria e con don Lino, che a turno spiegavano la dottrina. Finita la Messa, cominciavano le lezioni di catechismo175.
Andare ad Arroyo era di per sé un atto di eroismo, per l’evidente ostilità del quartiere, come prova un selvaggio attentato riferito da suor San Paolo: «Un giorno,il 4 maggio 1933, la scuola fu assaltata da un gruppo di uomini, che irrorarono di benzina alcune parti della casa per appiccarvi il fuoco, mentre delle donne scalmanate gridavano: “Non ne scampi nessuna; sono otto, ammazzatele tutte” . Intervennero in tempo le guardie di pubblica sicurezza, evitando l’incendio»176.
Don Josemaria si occupava anche di altre catechesi, poiché andava spesso a confessare e a spiegare il catechismo ai bambini orfani di Porta Coeli, dove le suore dell’asilo gli avevano concesso il locale per riunirsi con gli studenti. Di quel gruppo di studenti qualcuno veniva invitato alle riunioni del mercoledì, anche con la speranza che ne uscissero delle vocazioni, sia per il lavoro di S. Gabriele (padri di famiglia) sia per quello di S. Michele (vocazioni al celibato apostolico)177.
A titolo di lezione privata don Josemaria faceva allora anche catechesi ai Sevilla. Questa famiglia era costituita dalla prole di due fratelli vedovi, che avevano rimediato alla loro triste situazione familiare mettendo insieme tutti i propri figli e formando un’unica famiglia, della quale si fece carico una sorella nubile, Maria Pilar Sevilla. In casa abitavano quattordici persone, compresi i domestici. La zia Pilar concertò con il sacerdote una lezione di religione alla quale assistevano quattro o cinque bambini e le ragazze di servizio. Durante il 1932 e il 1933, queste lezioni avevano luogo «due volte alla settimana, mercoledì e sabato, tra le
510
cinque e le sei del pomeriggio»178. Le lezioni erano molto amene. I piccoli si sedevano a semicerchio e don Josemaria metteva davanti a loro un libro di testo su un tavolino basso. Quando faceva riferimento alle illustrazioni, le testoline dei bambini si accostavano, curiose, sopra le figure. Altre volte parlava loro dell’infanzia del Bambino Gesù o raccontava loro delle storie di quando lui era piccolo. L’uditorio non si rassegnava che le lezioni durassero così poco. «Non se ne vada, don Josemaria! - ripetevamo tutti i giorni, come raccontò Seve- rina, che assisteva alle lezioni con i bambini e che più avanti si fece suora con il nome di suor Benita Casado -. Che fretta ha? Perché tanta fretta?»179.
L’assalto alla scuola di Arroyo non fu un fatto isolato.Il 1933 era iniziato all’insegna della violenza, frutto della demagogia. La sollevazione rivoluzionaria anarchica, preceduta da scioperi e atti di terrorismo, era fissata per l’8 gennaio. Quel giorno ci fu un vistoso spiegamento del più scontato repertorio rivoluzionario. Esplosero delle bombe. Ci furono sparatorie con la forza pubblica e tentativi di assalire alcune caserme. E non mancarono incendi, assassinii e disordini di ogni genere in diverse città e paesi di tutta la Spagna. Un buon numero di anarcosindacalisti finì nel Carcere Modello, in bracci diversi da quelli dove si trovavano José Antonio Palacios ei suoi compagni; tutti però si ritrovavano a passeggiare e a prendere aria nello stesso cortile.
Quando don Josemaria andò a far visita ai giovani reclusi dell’estate li trovò restii a convivere con persone così contrarie alla religione. Il sacerdote consigliò loro il rispetto; la cosa migliore era mostrare loro con affetto dove sbagliavano e trattarli amichevolmente. “Ripassate il catechismo” - insisteva -; “ la dottrina di Cristo è chiara: amate questi uomini come voi stessi” 180. E portò loro in carcere dei catechismi perché li rileggessero. Dopo alcuni giorni di pacifica convivenza, misero in pratica i suoi consigli, come racconta José Antonio: «Orga
511
nizzammo delle partite di calcio mescolandoci tra noi. Ricordo che io giocavo in porta e i miei terzini erano due anarcosindacalisti. Non ho mai giocato al calcio con più eleganza e minor violenza»181.
6. Una disorganizzazione organizzata
Il 16 febbraio 1933 si compiva un anno della locuzione avuta alla balaustra di Santa Isabel. “Dio mio” - esclamava don Josemarìa a quel ricordo “come mi duole la frase le opere sono amore, non i bei ragionamen- ti!1S2. Si sapeva, e si sentiva, nelle mani del Signore in maniera privilegiata, in continua orazione giorno e notte (dono che si prolungò per tutta la sua vita), salvo quando il Signore interrompeva momentaneamente questa grazia. Sperimentava allora il peso morto della propria volontà:
“Ci sono momenti” - annotava il 24 novembre 1932 - “in cui, privato di quella unione con Dio che mi dava orazione continua, anche nel sonno, mi sembra di resistere alla Volontà di Dio. E debolezza, Signore e Padre mio, lo sai bene: amo la Croce, la privazione di tante cose che tutti ritengono necessarie, gli ostacoli per fare l’Opera, la stessa mia piccolezza e la mia miseria spirituale”183.
Non era forse una divina pazzia intraprendere la conquista del mondo intero senza mezzi materiali? E, scrivendo questa Caterina, si guardava intorno nella sua ingrata cameretta di via Viriato, che gli richiamava alla mente il luogo dove ebbe origine il Don Chisciotte. («Un carcere - dice Cervantes - dove ogni scomodità trova posto e dove ogni triste rumore sta di casa»). Perché, che cosa valeva lui, Signore?
“Nulla, al confronto del fatto meraviglioso che ciò significa: uno strumento poverissimo e peccatore che
512
progetta con la tua ispirazione la conquista del mondo intero per il suo Dio, dal meraviglioso osservatorio di una stanza interna di una casa modesta, dove ogni scomodità materiale ha la sua dimora. Fiat, adimpleatur. Amo la tua Volontà (...), sicuro - sono tuo figlio - che POpera si manifesterà presto e secondo le tue ispirazioni. Amen. Amen”184.
Sapendosi scelto senza alcun merito per un’impresa divina, così annotava durante il ritiro di Segovia:
“Dio non ha bisogno di me. È una misericordia amorosissima del suo Cuore. Senza di me l’Opera andrebbe avanti, perché è sua e susciterebbe un altro o altri, come trovò i sostituti di Eli, di Saul, di Giuda...”185.
Presto gli si presentò un’altra occasione del tutto particolare per dimostrare la sua fedeltà assoluta ai piani di Dio. Dopo due anni di soprusi e di sfacciata persecuzione alla Chiesa, i cattolici spagnoli cominciarono a reagire. Àngel Herrera, sino ad allora direttore di “El Debate” (Il Dibattito), il più influente quotidiano cattolico, progettava di creare un centro di formazione per sacerdoti, dal quale sarebbero usciti i futuri Assistenti ecclesiastici dell’Azione Cattolica spagnola. Angel Herrera era allora presidente dell’Azione Cattolica e cercava sacerdoti di prestigio per dirigere le anime. Don Pe- dro Cantero gli parlò di don Josemaria, al quale il presidente espose i propri progetti sul centro di formazione. Restarono d’accordo di rivedersi P II febbraio. Della conversazione intercorsa don Josemaria fece il seguente riassunto:
“Il Signor Herrera mi ha offerto la formazione spirituale dei sacerdoti selezionati dagli illustrissimi Prelati spagnoli, che si riuniranno a vivere in comunità a Madrid (nella parrocchia di Vallecas), allo scopo di ricevere questa formazione e la preparazione sociale che darà loro
513
un Padre Gesuita (me ne disse il nome: non lo ricordo). Gli dissi che l’incarico non era adatto a me: perché questo non è nascondersi e scomparire. Che misericordioso è il Signore nel mettere nelle mie mani un incarico così! Nelle mie mani che non hanno mai ricevuto - lo posso dire - neppure l’ultima nomina ecclesiastica!”186.
Herrera non si diede per vinto, ma don Josemaria declinò anche altre richieste incompatibili con la completa dedizione all’Opera.
“Mi chiese di predicare gli esercizi a un gruppo di giovani (propagandisti), ma mi scusai, adducendo che non ho formazione e che sono occupato in altre cose che non mi consentono di farlo (...). Insistè molto sul fatto che dobbiamo rivederci”187.
Di ritorno a casa, raccontò per sommi capi il colloquio, accennando alla speranza di ottenere qualche altro posto in futuro. «Che ti diano una cosa che serva per fare molto bene alle anime, ma che sia lucrativa», gli suggerì suo fratello Santiago188.
La meraviglia di Angel Herrera fu probabilmente maggiore di quella di don Pedro Poveda il giorno che don Josemaria ricusò l’offerta di diventare Cappellano Onorario della Casa Reale. L’incarico nell’Azione Cattolica non era un semplice riconoscimento onorifico; voleva dire mettere nelle sue mani la direzione spirituale di un gruppo di anime selezionate e vedere riconosciute le proprie doti personali davanti alla Gerarchia spagnola189.
* * *
Dopo gli eventi dell’agosto 1932, la vigilanza della polizia e il controllo su ogni genere di riunione diventavano sempre più stretti. Ora che don Josemaria aveva un gruppo stabile di giovani che lo seguivano, gli era imprescindibile un tetto che proteggesse legalmente le sue
514
attività apostoliche e formative. La cosa migliore sarebbe stata un’accademia di insegnamento: conclusione alla quale giunse dopo aver respinto, come abbiamo detto, l’idea di una Fraternità di studenti190. In quel momento l’Opera non aveva bisogno di una struttura giuridica. La sua dinamica apostolica rispecchiava la realtà stessa della vita, per cui il Fondatore arrivò a definirla “una disorganizzazione organizzata” 191.
Ne frequentavano gli apostolati persone differenti per stato civile, professione, età e altre circostanze personali. Tra di loro e l’Opera non esisteva alcun legame giuridico, ma dei doveri di servizio e di fedeltà accettati liberamente, di buona voglia, fino a dove arrivava la risposta generosa alla vocazione divina. Accanto a questa disorganizzazione stavano i compiti apostolici, articolati sotto l’invocazione dei tre Arcangeli e con la coesione interna propria dello spirito dell’Opera, il cui nocciolo consisteva nella santificazione del lavoro e nell’apostolato attraverso l’esercizio della professione.
Le ultime vocazioni ammesse erano la riprova dell’or- ganizzata diversità dell’impresa di don Josemarìa. Juan Jiménez Vargas, che chiese l’ammissione il 4 gennaio1933, era studente. Jenaro Làzaro, che ricevette la vocazione la vigilia del colloquio di don Josemarìa con il presidente dell’Azione Cattolica, era scultore: “Un uomo fatto, artista e impiegato alle Ferrovie” . La terza vocazione di quel periodo giunse l’i l febbraio. La sua storia risaliva all’epoca del “Patronato de Enfermos” , quando il cappellano, dal suo confessionale, vedeva un giovane entrare in chiesa ogni mattina. Si salutavano; si riconoscevano per strada, ma senza arrivare mai a parlarsi. Finché il sacerdote si decise a fare un passo avanti, raccontato in data 25 marzo 1931:
“Oggi, 25, festa dell’Annunciazione della Madonna, conla mia apostolica sfacciataggine (audacia!), mi sono rivolto a un giovane che fa ogni giorno la Comunione nel
5 1 5
la mia chiesa, con molta pietà e raccoglimento, e - aveva appena ricevuto il buon Gesù - gli ho detto: “Senta, avrebbe la carità di pregare un po’ per una intenzione spirituale per la gloria di Dio?” “Sì, padre”, ha risposto, e mi ha pure ringraziato! La mia intenzione era che lui, così devoto, fosse scelto da Dio come apostolo nella sua Opera. Già altre volte, vedendolo dal mio confessionale, avevo chiesto la stessa cosa al suo Angelo custode”192.
Due anni dopo, l’Angelo custode aveva adempiuto al suo incarico nei confronti dell’ex studente, ora professore in una scuola di Linares, un paese dell’Andalusia:
“Il Signore, attraverso l’Angelo Custode, ci ha portato, nel giorno dell’immacolata di Lourdes, questo giovane: è José Maria Gonzàlez Barredo. 1933 ”193.
“L’Opera cresceva al di dentro, non ancora nata, in gestazione” 194. Finché non fosse arrivato il momento di spuntare al di fuori, don Josemaria si dedicava a far crescere la fraternità tra i membri dell’Opera e a dare loro una formazione apostolica. Oltre a questo lavoro, oscuro e silenzioso, il suo ottimismo soprannaturale apriva orizzonti a un futuro in cui sembrava già saldamente inserito. “In tutte le nostre case, in un posto ben visibile”- aveva scritto il 23 agosto 1932 - “si metterà il versetto del capitolo 15 di S. Giovanni: Hoc est praeceptum menni ut diligatis invicem sicut dilexi vos” 195. Aveva forse già un’idea di quando queste case avrebbero incominciato a funzionare? Frattanto non sentiva premura di riunirsi con la sua gente nelPintimità? E la “disorganizzazione organizzata” non richiedeva a gran voce una vita in famiglia?
Don Josemaria prese in affitto l’appartamento di Martinez Campos con l’idea di non dover ricorrere a case altrui per le riunioni con gli studenti o con i sacerdoti. In attesa dell’agognata accademia, la casa della signora Do
516
lores fece da sede dell’Opera. Nel pomeriggio del 19 marzo 1933 gli Escrivà attendevano, con una certa impazienza, che venissero i giovani di don Josemaria a invadere l’appartamento. La circostanza fu solennizzata con una merenda in stile familiare, alla quale non mancarono dei pasticcini inviati dalla madre di don Norberto196.
Lì, nell’appartamento di via Martinez Campos, si fece un intenso apostolato, anche se non sempre la famiglia degli Escrivà poteva contare sulla disponibilità economica necessaria per prendersi cura del gruppo di giovani che affluivano, invitati da don Josemaria. In casa della signora Dolores si davano lezioni di formazione e circoli di studio. Si facevano simpatiche chiacchierate presiedute da don Josemaria il quale alla fine, prima del commiato, leggeva il Vangelo del giorno da un messale grande e faceva loro un incisivo commento con parole semplici ma che gli venivano dal profondo del cuore. «Il Padre - dice Juan Jiménez Vargas, che era uno dei presenti - conosceva il Vangelo molto bene e aveva fatto molta orazione sul Vangelo»197.
In quelle riunioni c’era calore di famiglia. Don Josemaria si sforzava di far loro capire con l’esempio che cosa significava la vita in famiglia dell’Opera. «Sua madre e i suoi fratelli - dice Jenaro Làzaro - collaboravano di buon grado a questo compito». Con una certa frequenza gli Escrivà li invitavano a prendere qualcosa. Il tono di distinzione della casa, la cortesia e l’amabilità con cui Carmen e la signora Dolores offrivano quelle merende, «non permetteva di rendersi conto a prima vista del fatto che quegli inviti comportavano un autentico sacrificio»198. (Questa però è una riflessione successiva di Juan Jiménez Vargas, il quale, come tutti gli altri, ammazzava l’appetito a spese della dispensa della signora Dolores. Uno degli ospiti, José Ramón Herrero Fontana, udì una volta Santiago Escrivà, ancora bambino, dare sfogo ad alta voce alle proprie preoccupazioni: «I ragazzi di Josemaria si mangiano tutto»)199.
517
In via Martmez Campos il sacerdote riceveva anche molte altre visite. In casa di Pepe Romeo incontrò un giorno Ricardo Fernàndez Vallespin, al quale mancava un anno per diventare architetto e che per guadagnare qualcosa, dava lezioni private ad altri studenti. Don Josemaria diede appuntamento in via Martmez Campos a Ricardo, il quale vi si presentò alla data stabilita, con l’animo un po’ sospeso e il presagio che la visita avrebbe avuto «una grande influenza» sulla sua vita. «Mi parlò delle cose dell’anima», ricorda, senza precisare meglio,lo studente. Accomiatandolo, il sacerdote gli regalò un libro sulla Passione di Cristo, sulla cui prima pagina scrisse una dedica:
+ “Madrid, 29-V-33 Cerca Cristo Trova Cristo Ama Cristo”200.
Fu allora che dovette prendere corpo il progetto del- l’agognata Accademia per sviluppare l’apostolato con gli studenti, a quanto si deduce dal colloquio che don Josemaria ebbe con Manolo Sainz de los Terreros. «Intorno alle sette e mezza - racconta questo giovane studente - me ne andai tutto tranquillo in via Martmez Campos, n. 4, per incontrare “quel signor Sacerdote che voleva parlarmi dell’Accademia” . Quanto ero lontano dal prevedere... tutto quello che sarebbe successo!». La prima impressione che produsse in lui quel sacerdote -lo dichiara lui stesso - fu «una inclinazione, una particolare simpatia, un desiderio di confidarmi quale non ho mai sentito con altri»201. Fu così che amabilmente gli aprì la propria anima «senza lasciare nulla di nascosto».
* * *
Parte dell’ “ organizzazione” nell’Opera consisteva nel- l’assoggettarsi a determinate pratiche di vita cristiana.
518
Attraverso la direzione spirituale, don Josemaria tracciava un programma giornaliero di norme fondamentali per alimentare la vita di orazione durante la giornata, quali la meditazione, la santa Messa, gli esami di coscienza, la lettura del Vangelo e la visita al Santissimo Sacramento. Inoltre, i membri dell’Opera aggiungevano a queste norme alcune consuetudini e preghiere, come il recitare insieme le Preci delPOpera nelle quali, con brevi espressioni prese dalla liturgia della Chiesa e dalla Sacra Scrittura, si prega per le necessità dell’Opus Dei e dei suoi membri. Era stato il “primo atto ufficiale” , avvenuto già nel dicembre 1930202.
Il piano di vita non si esauriva in un semplice elenco di pratiche di pietà, ma fondeva, in unità di vita, l’ascetica propria del cristiano con l’esercizio della professione. Perché, in virtù dello spirito proprio dell’Opus Dei, si tendeva a far sì che l’attività professionale dei suoi membri - un altro modo di fare orazione - sfociasse nell’apostolato; e l’apostolato esigeva il supporto di un’intensa vita di orazione. In questo modo, alle pratiche ascetiche che richiedevano un tempo fisso, si aggiungevano tutte le altre (esami, giaculatorie, atti di presenza di Dio, di riparazione o di considerazione della filiazione divina) che servivano a mantenere sempre operante la vita contemplativa.
Nel febbraio 1933 il Fondatore ritenne che fosse arrivato il momento di stabilire un piano unitario: “Voglio stabilire un piano di vita al quale assoggettarci tutti nel- l’Opera” - scrisse il 14 febbraio - “e obbligarci ufficialmente a compierlo da quest’anno dal giorno di S. Giuseppe, nostro Padre e Signore”203.
Nel mese successivo aveva già redatto delle “Norme provvisorie” , che distribuì subito ai suoi, non senza averne prima sperimentato l’adattabilità e la compatibilità con il genere di vita che conducevano le persone dell’Opera. Alcune cose, come il commento del Vangelo prima di ritirarsi alla sera, erano di fatto già vissute da
519
quando don Josemarìa riuniva i giovani studenti in casa della madre, in via Martìnez Campos204.
L’importanza di questo passo non consisteva nel fatto che le norme fossero una novità, bensì che la loro pratica venisse fatta propria dai membri dell’Opera, che si proponevano di viverle in modo stabile, armonicamente fuse con un lavoro assiduo nel corso della giornata. Mantenendo quindi l’unità di vita contemplativa in mezzo ad ogni genere di attività, facilitando così la pratica delle virtù, da quelle teologali fino a quelle cosiddette naturali o umane (sincerità, ottimismo, fedeltà, allegria, ecc.).
520
NOTE CAPITOLO VII
1 II venerabile Bernardino de Obregón aveva fondato l’Ospedale dei Convalescenti in via Fuencarral. Con l’esperienza assistenziale acquisita suggerì al Re la creazione di un Ospedale Generale, la cui amministrazione fu affidata a una Giunta di persone illustri e pie, presieduta da un ministro del Tribunale del Consiglio della Castiglia; esso si mantenne con donativi, elemosine e, più tardi, con rendite del Tesoro e della Municipalità di Madrid. Questa regia fondazione potè contare su importanti donativi e legati di Filippo II, Filippo III, Filippo V, Ferdinando VI (che fece dono della Plaza de toros di Madrid), Carlo III e Ferdinando VII. All’epoca, l’ospedale fu una vera rivoluzione per il mondo della sanità e fu uno dei migliori ospedali d’Europa.Filippo III assistè ai funerali di Fra’ Bernardino de Obregón e ne sollecitò il processo di beatificazione.Cfr Memoria delVEcc.mo Governo Provinciale di Madrid. Il lavoro di sei anni: 1924-1929, Madrid 1929, pp. 17-23; cfr anche Come io vi ho amato, organo della Congregazione di laici di S. Filippo Neri (Fratelli dell’O- spedale), Madrid, 14-V-1967, n. 1, pp. 31-33.2 I lavori, secondo il progetto fatto da Herrera per incarico di Filippo II, furono sospesi per una causa intentata davanti alla Santa Sede, che si risolse dopo ottant’anni, cosicché la costruzione fu eseguita durante il regno di Ferdinando VI e terminata dagli architetti di Carlo III, Hermosilla e Sabatini.Alla Facoltà di Medicina era annesso un Policlinico, che nel 1931 occupava un’ala dell’Ospedale Generale ed era stato ceduto allo Stato con una convenzione secondo il Regio Decreto del 24-XII-1903 (Cfr Memoria delVEcc.mo Governo Provinciale di Madrid, cit., p. 17).La monumentale costruzione misurava 24.200 metri quadrati; era di forma rettangolare e con spaziose gallerie. Aveva la capacità di 2.000 letti. Negli anni sessanta l’ospedale fu chiuso. Attualmente, parte dell’antico
521
edificio dell’Ospedale Generale è stata restaurata per ospitare il Centro culturale Regina Sofia.3 Appunti, n. 731.4 Ibidem, n. 360.5 Cfr El R. R José Maria Escrivà de Balaguer y la Congregación de Herma- nos Filipenses, in Come io vi ho amato, n. 32, Madrid l-X-1975, pp. 5-6. In questo articolo vi sono notizie interessanti circa il ricordo lasciato tra i Filippini dal cappellano delle Agostiniane di Santa Isabel, benché ci siano alcune inesattezze di date. Vi si dice: «Il nostro confratello Antonio Diaz gli diede notizia della nostra esistenza e dei nostri santi esercizi con i malati» (ibidem). Questo dato concorda perfettamente con quanto scritto in Appunti, n. 360; e non è in contraddizione con quanto dichiara un altro testimone: attraverso uno studente in medicina, Adolfo Gómez Ruiz, egli si rese conto della situazione in cui si trovava l’ospedale e pensò di collaborare con la Congregazione dei Filippini per «avere accesso all’ospedale per prendersi cura dei malati e usare la cappella per andarci a fare orazione» (José Romeo, AGP, RHF, T-03809, pp. 7-8). L’informazione avuta da Adolfo Gómez fu evidentemente successiva a quella del sacrestano e probabilmente precedente alla prima visita di don Josemarìa, che fu due domeniche dopo.
Appunti, n. 360.7 Cfr ibidem, nn. 381 e 383. La Congregazione di S. Filippo Neri dei laici servi degli ammalati del Santo Ospedale Generale di Madrid fu fondata nel 1694 e le sue prime costituzioni furono approvate dall’Arcivescovo di Toledo, nel 1707, poi modificate e approvate di nuovo il 4-V-1745.Questa Congregazione era la continuazione di quella degli “Hermanos Obregones del Hospital” e aveva a disposizione una sala nell’Ospedale. Alla fine del XIX secolo i Filippini furono autorizzati a costruire una cappella e alcune sale nel giardino che circonda l’ospedale.Scopo della Congregazione era praticare la carità con i malati, «vedendo in ciascuno l’immagine viva di Cristo, riflettendo che Sua Maestà dice che quanto si fa per loro è fatto a Lui e che offre in premio la sua eterna gloria» (Costituzioni della Congregazione del nostro Padre e Patriarca S. Filippo Neri dei Laici, Madrid 1899, p. 22).L’organizzazione di governo era formata da un Fratello Maggiore e da una Giunta degli Anziani. I Fratelli della Congregazione presenti all’Ospedale Generale di Madrid, in quanto laici, dovevano consultarsi in certi casi con due sacerdoti, chiamati Consultori.Nel 1931 i sacerdoti di S. Filippo Neri non risiedevano a Madrid, ma ad Alcalà de Henares e quindi per un certo tempo i Consultori furono sacerdoti secolari di Madrid. Cfr Libro dei Verbali della Giunta degli Anziani della Congregazione, nella sede di via Antonio Arias, n. 17.8 Costituzioni..., cit., cap. 10, p. 2 2 .1 Filippini si occupavano anche di seppellire i morti e di distribuire alimenti e vestiario tra i malati, per cui erano noti al popolo come Fraternità della zuppa.
522
9 Appunti, n. 647 (annotazione dell’ll-III-1932).10 José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 8.11 Nonostante l’ottimismo e la prudenza con cui fu redatta la citata Memoria del Governo Provinciale di Madrid, basta leggere i problemi originati dalla mancanza di letti nell’Ospedale per avere un’idea delle sue condizioni (cfr ibidem, p. 19). Nei Libri dei Verbali delle Riunioni del Governo di Madrid relativi al periodo 1930-1932 (Biblioteca del Municipio di Madrid) si può seguire la descrizione delle “calamità” alle quali si riferisce il Fratello della Congregazione, Patricio Gonzàlez de Canales, nella lettera al Rettore della Basilica di S. Michele del 18-VII-1967, in AGP, RHF, D-15312. Per esempio, ogni giorno scappavano dall’ospedale dieci o dodici malati, dato che i portieri non possono conoscere «le migliaia di malati che ci sono nell’ospedale» (Libro 95, f. 219, del 1931); le polemiche a motivo della sostituzione, con delle infermiere, delle Figlie della Carità che lavoravano nell’ospedale; o le richieste dei malati di alcune sale di evitare che fossero allontanati i fratelli della Congregazione dì S. Filippo Neri (cfr Libro 96, f. 75, del 29-IX-1932).11 Fondatore a volte parlò “dell’Ospedale Generale di Madrid, poverissimo, pieno di malati, di cui molti sdraiati nelle corsie perché non c’erano letti” . Cfr Gonzalo Herranz, Sin miedo a la vida y sin miedo a la muerte (in Memorias..., op. cit., pp. 139-140).12 Cfr El R. R José Maria Escrivà de Balaguer y la Congregación de Her- manos Filipenses, in Come io vi ho amati, n. 32, Madrid l-X-1975, pp. 5- 6 .
13 José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 8; Jenaro Làzaro, AGP, RHF, T- 00310, p. 1; Alvaro del Portillo, Sum. 263.14 Appunti, n. 433.15 Ibidem, nn. 383 e 433.16 Ibidem, n. 609.17 Ibidem, n. 608.18 Ibidem, n. 609; cfr Alvaro del Portillo, Sum. 262; Javier Echevarria, Sum. 1961.19 José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 8; José Manuel Doménech, AGP, RHF, T-00872.20 Costituzioni..., cit., p. 26.21 Lettera 15-X-1948, n. 192; Alvaro del Portillo, Sum. 264; Javier Echevarria, Sum. 1960; episodio riferito in Cammino, cit., n. 626.22 Cfr Libro dei Verbali delle Riunioni del Governo di Madrid, cit., Libro 96, specialmente f. 75, 135,136, 147, 147v, 160v e 162.In Appunti, n. 685, don Josemarìa scrisse: “5 aprile 1932: domenica scorsa ho fatto la professione nella Congregazione di S. Filippo. So che è piaciuto al Signore” .Questa annotazione si riferisce alla cerimonia, dato che di fatto assisteva
523
già agli esercizi della Congregazione dal 1931 (cfr ibidem, n. 622). Non si sa comunque con certezza quanto le misure prese dalle autorità dell’Ospe- dale Generale influirono sulla Congregazione di S. Filippo Neri e sui Fratelli durante il 1933, dato che non si trattava di una congregazione religiosa ma di una semplice fraternità benefica.23 Cfr lettera di Tomàs Minguez (Fratello Segretario) a don Josemaria, del 10-VI-1934 (in AGP, RHF, D-15312). Secondo le Costituzioni, la Congregazione doveva avere due sacerdoti Consultori, senza voce né voto nel governo. E possibile, dato che i Padri dell’Oratorio stavano lontano da Madrid e il viaggio era assai rischioso, che don Josemaria svolgesse le funzioni di Consultore e dirigesse le preghiere nella cappella nel 1931 e nel 1932. Lo si deduce da quanto afferma il Fratello Patrizio: «Il P. Escrivà prese contatto con noi e poco dopo fu nominato P. Consultore» (cfr El R. R José Maria Escrivà de Balaguer y la Congregación de Hermanos Filipenses, in Come io vi ho amati, n. 32, Madrid l-X-1975, pp. 5-6).Da nessuna parte egli afferma di essere stato Consultore, ma il fatto che in una Caterina (in data 21-XI-1932) scrivesse che “P. Sànchez ha nelle sue mani un incartamento che si riferisce alla mia azione nella Congregazione di S. Filippo. Mi attengo all’obbedienza” (Appunti, n. 871); e il fatto che di nuovo il giorno 9-XII-1934 alludesse “alla faccenda dell’Ospedale” (ibidem, n. 948) lascia supporre che quando i Padri dell’Oratorio ritornarono a fare i Consultori (cfr José Romeo, AGP, RHF, T-03809, p. 8), ci dovette essere una diversità di opinioni sulla politica da seguire nell’Ospedale a seguito degli ostacoli frapposti dalle autorità.24 Questa supposizione è suffragata da due note sciolte del 1934, che dicono: “Domenica: Santa Isabel, lezione o catechesi. Pomeriggio, Ospedale. Domenica: mattina, Ospedale Generale” (Appunti, nn. 1794 e 1796).Gli esercizi della Congregazione si tenevano al pomeriggio nell’Ospedale Generale. Questo sembra indicare che il cappellano di Santa Isabel si prendesse cura dei malati indipendentemente dagli orari di visita dei Filippini.25 Nella seduta del Parlamento del 22 marzo 1932, in sede di approvazione del bilancio preventivo del Ministero della Giustizia, le spese ecclesiastiche cui far fronte furono ridotte a 26.457.427 pesetas contro le 66.984.509 del preventivo del 1931. Da questo bilancio del culto e del clero dipendeva il personale ecclesiastico secolare, circa 35.000 persone (vescovi, canonici, parroci, coadiutori).26 Cfr A. Valdés, Quincuagésimo aniversario de la muerte de José Maria Somoano Berdasco, in “La Nueva Espana” del 15-VIII-1982.27 Cfr J. Torres Gost, Medio siglo en el Hospital del Rey, Madrid 1975. Alvaro del Portillo, Sum. 264. All’avvento della Repubblica, l’Ospedale del Re cambiò il nome in Ospedale Nazionale, anche se la gente continuava a chiamarlo con il nome precedente.28 Appunti, n. 541.29 Ibidem, n. 545. Così amministrava le preghiere del dolore: “Lino e i due José Maria si sono fatti carico di una vocazione per ciascuno. Ho chiesto
524
che si avvalgano a questo scopo dell’espiazione dell’Ospedale del Re” (ibidem, n. 552). Si tratta di don Lino Vea-Murguia, don José Maria Somoano e don José Maria Vegas.30 Appunti, n. 685.31 “I suoi suggerimenti sembrano venire da Dio” . E soggiunse: “ha sempre avuto ragione” (Appunti, n. 640). E infatti, due settimane dopo che egli ebbe consultato la signora Dolores, ci fu la drastica riduzione del preventivo del Ministero della Giustizia per il Culto e il Clero; e poco dopo furono soppresse le cappellanie.32 Engracia Echevarrfa, AGP, RHF, T-04389, p. 1; cfr anche Isabel Martin Rodriguez, Sum. 5774; Maria Jesus Sanz Zubiria, AGP, RHF, T-05138, 1.33 Cfr Appunti, n. 1003.34 Ibidem, n. 785.35 Cfr ibidem, n. 789.36 Ibidem, n. 793.37 Ibidem, n. 785. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 267; Joaqum Alonso, Sum. 4615. Cfr José Miguel Cejas, Con il battere dei vostri passi. José Maria Somoano e gli inizi dell3Opus Dei, Milano 1997.38 Engracia Echevarrfa, AGP, RHF, T-04389, p. 1.«La voce di bilancio accreditata a tutte le istituzioni che richiedevano la presenza del Clero venne abolita - spiega Suor Engracia -. Il Direttore del nostro Ospedale, Dottor Manuel Tapia, era un uomo di grande levatura morale, molto retto, rispettoso e onesto, ma poco informato sui doveri di un cristiano (...). Si comportò sempre molto bene. E quando sparì lo stanziamento per il Clero, ci chiamò proponendoci che, dal nostro stipendio di impiegate ospedaliere, da poco aumentato, devolvessimo una certa somma per coprire le spese di un sacerdote che continuasse a seguire spiritualmente i malati dell’Ospedale. Io feci così, perché sapevo che i malati avevano diritto a ricevere i Sacramenti e l’aiuto spirituale necessario» (ibidem). Il Decreto del Ministero degli Interni che scioglieva il Corpo dei Cappellani della Beneficenza Generale era del 26-111-1932 (cfr Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcalà, 15-IV-1932, n. 1557, p. 149). All’art. 3 diceva: «Quando un malato (...) richieda atti di culto religiosi, lo si esaudirà, qualunque sia la sua religione, purché ve ne sia la possibilità». Negli ospedali tale possibilità non si dava, poiché gli stanziamenti ufficiali erano sempre insufficienti.39 Cfr Isabel Martin Rodriguez, Sum. 5776; Maria Jesus Sanz Zubiria, AGP, RHF, T-05138, p. 2.40 Maria Jesus Sanz Zubiria, AGP, RHF, T-05138, 2.41 Cfr Isabel Martin Rodriguez, Sum. 5776 e 5777.42 Engracia Echevarrfa, AGP, RHF, T-04389, p. 2.43 Ibidem. «Era molto comune che i sacerdoti non indossassero la veste talare - testimonia José Romeo Rivera -. Il Padre portò sempre la tonaca»
525
(AGP, RHF, T-03809, p. 9). Juan Jiménez Vargas riferisce che «molti sacerdoti, che pure si sentivano capaci di comportarsi eroicamente se si fosse presentata l’occasione, andavano per strada in abiti civili (...). Il Padre non volle mai andare in giro in abiti civili. Anzi, portava un mantello che senza dubbio attirava l’attenzione più di un soprabito» (AGP, RHF, T- 04152/1, p. 4).44 Maria Jesus Sanz Zubiria, AGP, RHF, T-05138, 1.45 Braulia Garcia Escobar, AGP, RHF, T-04966, p. 1.46 Benilde Garcia Escobar, AGP, RHF, T-04965, p. 1.47 Braulia Garcia Escobar, AGP, RHF, T-04966, p. 3.48 Ibidem, p. 4.49 Appunti, n. 1006. Juan Jiménez Vargas, che lo accompagnava, riferisce: «Quando conobbi e frequentai il Fondatore, egli continuava ad effettuare le sue visite e ad esercitare il suo apostolato sacerdotale in detti ospedali. Una volta, occasionalmente, lo accompagnai a portare la Comunione a una malata molto grave dell’Ospedale del Re; dopo averla comunicata, la incoraggiò e l’esortò a prepararsi degnamente per l ’ora della morte» (Sum. 6702).50 Appendice documentale, documento XV.51 Ne parlava il Fondatore in una Caterina del 14-11-1934 (Appunti, n. 1136); cfr anche Natividad Gonzàlez Fortun, Sum. 5874.52 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 315; Javier Echevarria, PR, p. 1590. Lo riferisce un testimone oculare: «Un’altra volta ho accompagnato io stesso il Fondatore alla casa di una famiglia, sita nelle vicinanze di piazza di Spagna, dove si trovava il cadavere di un giovane al quale il Servo di Dio aveva prima amministrato i Santi Sacramenti; egli lo rivestì in mia presenza» (Juan Jiménez Vargas, Sum. 6702).53 Pedro Cantero, AGP, RHF, T-04391, p. 9.54 Appunti, n. 1002.55 Tomàs Canales, AGP, RHF, T-02219.56 Ibidem.57 Meditazione del 19-111-75.58 Appunti, n. 563.59 AGP, P04 1974, II, p. 406.60 Ibidem. L’episodio è citato e raccolto testualmente da Alvaro del Portillo, Sum. 269; cfr anche Cammino, cit., n. 208.61 Piccolo bozzetto delle virtù dello zelante apostolo Don José Maria Somoano (riposi in pace) scritto da un’ammalata dell’Ospedale Nazionale (Manoscritto di Maria Ignacia Garda Escobar, del 1932, in AGP, RHF, D- 03381).62 Ibidem.
526
63 Ibidem.64 Ibidem.65 Appunti, n. 615 (25-11-1932).66 C 20, 14-VIII-1931.67 Lettera di Isidoro Zorzano a don Josemaria, del 24-XII-1931 (originale in AGP, IZL, D-1213, lettera n. 19).68 Lettera del 2-III-1932 (ibidem, n. 21).69 Meditazione del 19-111-1975.70 Appunti, n. 354.71 Ibidem, n. 84.72 Ibidem, n. 186. Questo grido: “Dio e audacia!” si va ripetendo nei giorni successivi; cfr ibidem, nn. 190 e 224.73 Ibidem, n. 187.74 Ibidem, n. 197.75 Ibidem, n. 198.76 Ibidem, n. 997.77 Ibidem, n. 354.78 Ibidem, n. 963 (23-111-1933).Braulia Garda Escobar conobbe le prime donne dell’Opera perché andavano a far visita a sua sorella nell’Ospedale del Re: «Mia sorella Maria Igna- cia - racconta - era meravigliosamente assistita spiritualmente dal Padre. Andavano a trovarla e a farle compagnia anche altre ragazze; alcune appartenevano all’Opera. Una si chiamava Modesta Cabeza ed era una ragazza semplice; suo direttore spirituale era don Lino. Il Padre le chiedeva di pregare per intenzioni ben precise (...). Andava all’Ospedale a far compagnia a mia sorella anche Carmen Cuervo Radigales, che risiedeva nel Collegio dell’Assunzione del Patronato Reale di Santa Isabel. Era “Delegata del Lavoro” , cosa insolita a quei tempi in cui non era normale che le donne occupassero cariche pubbliche. L’ultima del gruppo che io ricordo era Hermógenes, che lavorava in banca» (Braulia Garcfa Escobar, AGP, RHF, T-04966, pp. 2 e 3; Ramona Sànchez, AGP, RHF, T-05828, p. 2).
79 C1S,5-V-1931.80 Appunti, n. 1072.81 Appendice documentale, documento XV.82 Appendice documentale, documento XIV.83 Ibidem. Dal punto di vista economico, l’ingresso di Luis Gordon nell’O- pera avrebbe rappresentato un grande appoggio per le iniziative apostoliche. Il Fondatore commentava che la sua morte era stata provvidenziale. L’Opus Dei continuò così a crescere nella più assoluta povertà, senza mezzi materiali. Era necessario che l’Opera nascesse povera, come Gesù a Betlemme (Alvaro del Portillo, Sum. 1220).
527
84 Meditazione del 2-X-1962; cfr Lettera 14-IX-1951, n. 4.85 Appunti, n. 1756.86 Jenaro Làzaro, AGP, RHF, T-00310, p. 1.87 Appunti, n. 541.88 Piccolo bozzetto..., cit., in AGP, RHF, D-03381.89 Pedro Cantero, AGP, RHF, T-04391, pp. 3 e 4.90 Ibidem, p. 5.91 II 14 agosto 1931 il Fondatore scrisse a Isidoro Zorzano: “Ieri ho fatto il proposito di raccontare il nostro grande segreto ad un altro... Ti chiedo una preghiera specialissima e qualche piccola espiazione volontaria. Guarda, questa volta “l’affare” resterà fra te e me: non chiedo preghiere a nessuno, e neppure espiazione. Da noi dipenderà smuovere il Cuore del nostro Re... Questa vocazione, se Dio la dà, l’avrai “generata” tu, con la tua supplica opportuna e importuna. Puoi intensificare in questi giorni la tua vita spirituale, per non affievolirti dopo” (C 20, 14-VIII-1931).Nella lettera del 26 agosto 1931, indirizzata alle persone dell’Opera, Isidoro rispose alla chiamata: «Ho intensificato la preghiera e, poiché le contrarietà non mi mancano nel corso della giornata, ho abbastanza materia da offrire a Lui come espiazione (...). Tutto questo l’ho offerto affinché vada a buon fine la nostra faccenda» (Lettera di Isidoro Zorzano al Fondatore, 26-VIII-1931; originale in AGP, IZL, D-1213, n. 16); cfr anche Appunti, nn. 231, 362, 365 e 591.92 Ibidem, n. 613.93 Don Lino Vea-Murguia Bru era nato a Madrid nel 1901 ed era stato ordinato sacerdote nel 1926. Nel 1927 divenne cappellano del “Patronato de Enfermos” e dal 1930 primo cappellano delle Ancelle del Sacro Cuore.Il 15 o 16 agosto 1936 fu assassinato a Madrid (cfr Incartamento personale nell’Archivio della Segreteria Generale dell’Arcivescovado di M adrid-Alcalà).Come si è già visto, don Norberto, dopo che don Josemaria gli aveva letto alcune Caterine, si ritenne incorporato all’Opera. Nel caso di don Lino, don Norberto agì per conto proprio, ammettendolo all’Opera senza consultarsi con il Fondatore (cfr Appunti, nn. 354 e 412).94 Cfr Pedro Cantero, AGP, RHF, T-04391, p. 9.95 Piccolo Bozzetto..., cit., in AGP, RHF, D-03381.96 Appendice documentale, documento XIII.97 Appunti, n. 834.Don Sebastiàn Cirac Estopanàn, che per qualche tempo ebbe come direttore spirituale don Josemaria, era nato a Caspe (Saragozza) nel 1903 e fu ordinato nel 1928. Nel 1932 divenne canonico di Cuenca. Nel 1934 si trasferì in Germania per ragioni di studio e nel 1940 vinse il concorso per la cattedra di Filologia Greca all’Università di Barcellona. È morto nel 1970.98 Don José Maria Vegas Pérez era nato nel 1902 a Madrid e fu ordinato
528
nel 1927. Nel 1928 fu ascritto alla parrocchia di S. Martino e divenne poi cappellano della Cappella del Santissimo Cristo di S. Ginesio. Nel 1935 prese possesso del Rettorato del Cerro de los Angeles. Il 27-XI-1936 morì assassinato a Paracuellos de Jarama (cfr Incartamento personale nell’Ar- chivio della Segreteria Generale dell’Arcivescovado di Madrid-Alcalà).99 Lettera di Isidoro Zorzano a don Josemaria, 5-IX-1930 (originale in AGP, IZL, D-1213, n. 7).100 Lettera del 14-IX-1930 (originale in AGP, IZL, D-1213, n. 8).101 Appunti, n. 381.102 C 22, 10-XI-1931.103 Ibidem, n. 602; “ Carmen Cuervo: così si chiama la donna che Gesù sta preparando per l’Opera di Dio” ; cfr anche n. 1872.104 Cfr Appunti, n. 693. In questa Caterina del lunedì mattina, 11 aprile 1932, a proposito della prima vocazione di espiazione, annotava: “Grazie a Dio. Oggi, nella nostra riunione settimanale, proporrò ai miei fratelli sacerdoti di recitare il Te Deum” .105 Cfr ibidem, n. 434.106 Ibidem, n. 931.107 Ibidem, n. 1136.108 Cfr ibidem, n. 381.“Ho seguitato a lavorare con i ragazzi” - spiegava in un’altra Caterina - “ma continuavo a sentire la necessità di cercare altre anime fra le donne” (ibidem, n. 1878); oppure “operavo in un ambiente di donne (...), ma non trovavo persone che mi sembrassero pronte” (ibidem, n. 381).109 C 28, 8-IV-1932.110 Cfr Appunti, n. 691, del 10 aprile, dove registrava: “In questi giorni preparo alla prima Comunione le bambine della scuola di Santa Isabel” .111 Ibidem, n. 402.112 Ibidem, n.710.113 C 28, 8-IV-1932.114 Appunti, n. 748.115 È possibile che la famiglia degli Escrivà stesse attraversando delle difficoltà che tenevano inquieto don Josemaria. Cfr C 30, 7-VI-1932 e ss.116 José Manuel Doménech, AGP, RHF, T-00872.La storia della Seconda Repubblica spagnola fu molto tormentata. Nell’estate 1932 continuavano i disordini pubblici, gli attentati criminali contro persone e chiese, le tensioni patriottiche a motivo dell’autonomia catalana e di alcuni movimenti separatisti, cui si aggiungeva la disoccupazione e la difficile situazione economica del Paese.In queste condizioni i monarchici tramarono una cospirazione, con la partecipazione di alcuni militari malcontenti delle riforme dell’Esercito intraprese dal governo repubblicano. L’insurrezione era fissata per il 10 agosto,
529
alle quattro del mattino e doveva avvenire contemporaneamente a Siviglia e a Madrid. Ma non era ben organizzata e non aveva molti seguaci. Inoltre, il governo conosceva fin dal mese di luglio l’esistenza del complotto.Il 10 agosto il generale Sanjurjo si sollevò a Siviglia, ma non gli si unirono le guarnigioni di altri capoluoghi. L’insurrezione di Madrid fu facilmente e rapidamente soffocata.117 Appunti, n. 800.118 Ibidem, n. 814.119 José Antonio Palacios, AGP, RHF, T-02750,1.120 ìbidem, p. 3.121 José Manuel Doménech, AGP, RHF, T-00872.122 Ibidem. A parte le pene comminate ai militari e ai civili che erano insorti e l’esproprio delle terre di quanti avevano partecipato al complotto contro il regime o si presumeva che lo avessero appoggiato, furono applicate altre sanzioni, come la deportazione a Villa Cisneros, nell’ex Sahara spagnolo, di 145 congiurati o sospetti tali, fra i quali José Manuel Doménech.1 prigionieri furono portati da Madrid a Cadice, da dove si imbarcarono per l’Africa il 22 settembre 1932. Altri sospetti o presunti implicati rimasero nel Carcere Modello di Madrid.123 Appunti, n. 746.124 Cfr Appunti, n. 838. Il 12 settembre 1932 don Josemarìa si recò al convento dei Carmelitani di Madrid a consegnare un’istanza per essere ammesso nel Terzo Ordine dei Carmelitani Scalzi. “Due cose (oltre all’Amore) mi spingono a farmi terziario carmelitano: attaccarmi maggiormente a mia Madre Immacolata, ora che mi vedo più debole che mai; e assicurare suffragi alle “mie buone amiche le Anime benedette del Purgatorio” ” (ibidem, n. 823). La data di ammissione nel Terz’Ordine, in risposta all’istanza, fu il2 ottobre 1932 (cfr ibidem, n. 838).125 Ibidem, nn. 1635-1636; cfr Jesus Alvarez Gazapo, Sum. 4347; Giovanni Udaondo, Sum. 5080.126 Cfr Appunti, n. 1634.127 Cfr ibidem, n. 1637.128 Ibidem, nn. 1637-1640.129 Ibidem, n. 1642.130 Istruzione 8-XII-1941, n. 9. Sugli Arcangeli, Patroni dell’Opera, cfr ibidem, nota 1211; Javier Echevarria, Sum. 2645; Mario Lantini, Sum. 3587; Joaqum Alonso, Sum. 4616; Carmen Ramos, Sum. 7361.131 Appunti, nn. 1644, 1646 e 1648.132 Ibidem, n. 1655.133 Cfr ibidem, n. 1658.134 Cfr ibidem, n. 1660.135 Ibidem, n. 1661.
530
136 Così scrisse il Fondatore: “Il P. Sànchez mi ha ripetutamente fatto capire (anche se non me l’ha detto) di essere il Direttore della mia anima, non il Direttore dell’Opera di Dio. E capisco, con lampante chiarezza, che così deve essere” (ibidem, n. 565). Concetto che si ripete in un’altra Caterina. “L’ho già detto altre volte: il P. Sànchez è il Direttore della mia anima, non il Direttore dell’Opera. Perciò, la sua opinione è molto rispettabile; anzi, sarò sempre molto incline ad accettarla, ma so di non avere l’obbligo di assoggettarmi” (ibidem, n. 784). Di padre Sànchez scrisse in una lettera del 1947: “Non ha avuto nulla a che vedere con l’Opera, perché non gli ho mai consentito di intervenire o di esprimere un’opinione. Con una chiara luce di Dio, compresi che lì non potevo cedere né tollerare che altri eseguissero ciò che il Signore chiedeva a me” (Lettera 29-XII- 1947/14-11-1966, n. 20).137 E aggiunse le ragioni che lo portavano ad agire in questo modo: perché vi si sentiva spinto in modo soprannaturale, perché ciò è quanto esige la vita di infanzia spirituale e “perché in questo modo è impossibile che io sia ingannato” (Appunti, n. 560). In momenti di dubbio, di turbamento, o quando doveva prendere qualche decisione che riguardava la sua anima, consultò sempre il proprio direttore.“Andai subito dal mio P. Sànchez, per raccontargli lo stato della mia anima” , annotava il 12 maggio 1932 (ibidem, n. 719). “ Sono andato da P. Sànchez, gli ho esposto lo stato della mia anima: oggi ho sofferto e così pure ieri. Il mio Padre Sànchez è stato molto paterno” (ibidem, n. 744).138 Ibidem, n. 708.139 Ibidem, n. 701.140 Ibidem, n. 702.141 Ibidem.142 In una Caterina del novembre 1931 riferiva uno di questi eventi. Aveva camminato fino a Chamartin per vedere padre Sànchez: “Dopo una lunga attesa scese un ragazzino, che mi disse seccamente: “Ha detto il Padre che ha molto da fare” . Allora non lo posso vedere?, gli chiesi. “ Chiaro” , mi rispose il ragazzino.Sono rimasto impietrito. Subito l’ho offerto a Gesù, nonostante la mia ribellione di superbia, e ho cercato di soffermarmi su pensieri come questo: fin troppa pazienza ha con me il padre S.! Sono noioso. Oltretutto, anche se non avesse avuto nulla da fare, questi grossi dispiaceri ti fanno molto bene, José Maria” (Appunti, n. 379; cfr anche n. 1757).Anni dopo, Mons. Escrivà stava una volta pranzando nella Casa Generali- zia dei Gesuiti a Roma e raccontava questi ricordi. Il Fratello laico della Compagnia che stava servendo a tavola interruppe con spontaneità la conversazione con queste parole: «Mi ricordo molto bene di questo, perché toccava a me molte volte venire a dirle che Padre Valentm Sànchez non la poteva ricevere» (Javier Echevarria, Sum. 2063).143 Cfr Appunti, n. 1757.144 ìbidem, n. 1661. Sulle doti del suo direttore spirituale e sul rapporto
531
con padre Sànchez, il Fondatore scrisse: “ Che grazia gli ha dato il Signore per dirigere!” (C20, 14-V1II-1931).E in un’altra lettera: “Ebbe cura di me da quel buon sacerdote che era; mi trattò molte volte con durezza e lodo la sua durezza” (Lettera 29-XII-1947 /14-11-1966, n. 20).Nelle note redatte durante gli esercizi spirituali del 1934, destinate a essere lette da P. Sànchez, scrisse: “L’interesse che Lei ha sempre dimostrato per l’Opera di Dio e per la mia anima mi riempie di gratitudine. Perciò, padre mio, le voglio molto bene in Gesù Cristo: tutti i giorni la ricordo nella mia preghiera e tutti i giorni per due volte torno a pregare per lei intra missam” {Appunti, n. 1791).145 Ibidem, n. 1665. Ultimamente erano aumentati, a quanto sembra, la rabbia del diavolo e i suoi tiri mancini. Il Fondatore non insistè sull’argomento con maggiori particolari. Cfr anche ibidem, nn. 719, 720, 721, 739 e 743.146 ìbidem, n. 1676. Probabilmente parlò in giugno con Pou de Foxà a Saragozza; egli dovette incoraggiarlo a concludere gli studi (cfr C 28, 8-IV-1932 e Appunti, n. 780).147 Ibidem, n. 1678.Il problema vero era la sua povertà, che gli aveva già impedito di addottorarsi in Sacra Teologia al termine dei corsi accademici nell’Università Pontificia di Saragozza:“Non ho soldi. Questo comporta una duplice conseguenza: a) che, poiché devo lavorare - a volte eccessivamente - per mantenere la mia casa, non mi resta né il tempo né la voglia per lavorare al dottorato; e b) che, anche se avessi tempo, non avendo soldi, è impossibile dedicarmi a questi esercizi accademici” (ibidem, n. 1676).148 Ibidem, nn. 1680-1681.149 Ibidem, n. 1679.150 Ibidem, n. 1686.151 Cfr ibidem, n. 1688.152 Ibidem, n. 1689.153 Ibidem, n. 1699.154 Ibidem, n. 1695.155 Ibidem, n. 1702. Le altre erano le seguenti:“2) Non fare domande per curiosità.3) Non sedermi se non quando è indispensabile e sempre senza appoggiare le spalle.4) Non mangiare nulla di dolce.5) Non bere altra acqua oltre a quella delle abluzioni.6) Dal pasto di mezzogiorno non mangiare pane.7) Non spendere neppure cinque centesimi se, al mio posto, un povero mendicante non li potrebbe spendere.
532
8) Non lamentarmi mai di nulla con nessuno, a meno che sia per chiedere consiglio.9) Non lodare, non criticare.Deo omnis gloria! Leggerò questa nota ogni domenica” .156 Ibidem, n. 165 8.157 Ibidem, n. 870. Per tutta la vita lottò, mortificandosi anche in cose lecite, per custodire la vista, come mostra un curioso episodio accaduto verso la fine del 1931. Don Josemarìa era amico dei marchesi di Guevara (il marchese, Floro Rodrìguez Casanova, era fratello di Donna Luz Casanova). Avendo conosciuto un giovane pittore a corto di lavoro, un giorno, trovandosi a casa della marchesa, le chiese se ella volesse commissionargli il proprio ritratto. La marchesa accondiscese con piacere. Il pittore si presentò; la marchesa posò e gli diede poi un proprio abito perché terminasse il ritratto nel suo studio. Pochi giorni dopo il pittore andò da don Josemarìa. Era in difficoltà: aveva bisogno di sapere il colore degli occhi della marchesa. Il sacerdote confessò di non saperlo; ma a tutto c’era rimedio: in settimana sarebbe andato a pranzo dai marchesi e l’avrebbe informato.Giunto il giorno del pranzo, mentre stava a tavola, raccontò ingenuamente il colloquio con il pittore e il problema di questi:«Mi guardi, Padre: ho gli occhi di un verde stupendo!», disse la marchesa. “Da ora in poi li guarderò ancor meno, sciocca!” , ribattè il sacerdote (cfr Appunti, nn. 181, 356, 450 e 462; e AGP, P04 1974, II, 510).158 II 2 ottobre 1928, scrisse il Fondatore, “era stata disegnata l’impresa” , cui doveva seguire la realizzazione, stabilendo lo spirito proprio dell’Opus Dei e portandone avanti gli apostolati; ciò significava “che questo povero prete avrebbe continuato a scrivere e a disegnare l’Opera” (ibidem, n. 475; cfr nota 391).159 Fu un’idea precedente agli esercizi spirituali a Segovia (“Pia Unione o quello che sia” , ibidem, n. 772). Don Josemarìa si consultò con padre Po- stius sulla convenienza di creare o meno in quei momenti un’associazione di giovani universitari (cfr Appunti, n. 769, del 7-VII-1932). L’idea della Pia Unione fu messa da parte ben presto. Il 29 settembre 1932 annotava: “ Oggi sono stato da P. Postius. Consiglia di non fare un’associazione di giovani. Di lavorare senza un’associazione: aprendo un’accademia, per esempio. È quello che pensavo io” (ibidem, n. 837).160 Istruzione 8-XII-1941, n. 9; cfr anche Appunti, n. 1642.Due giorni dopo, sabato, scrisse: “Ho recitato le preci dell’Opera di Dio, invocando i Santi Arcangeli nostri Patroni: S. Michele, S. Gabriele, S. Raffaele... Ho una grande sicurezza che questo triplice appello, rivolto a personaggi così alti nel regno dei cieli, debba essere - è - graditissimo all’Uno e Trino e renda più vicina l’ora dell’Opera!” (Appunti, n. 1653).Il ricorso agli Arcangeli e agli Apostoli, cercandone l’intercessione per l’apostolato, risale a epoca molto precedente. Per esempio, il giorno di S. Giovanni Evangelista (27 dicembre) 1930, in cui si raccomandò all’Apostolo e ne ottenne un favore (cfr ibidem, n. 140); e il 14 gennaio 1931,
533
quando si chiese in una Caterina: “ S. Giovanni (nostro Patrono?)” (ibidem, n. 152).In un’altra Caterina, dell’8 maggio 1931, memoria dell’apparizione di S. Michele, si legge: “Ho raccomandato l’Opera a S. Michele, il grande combattente, e penso che mi abbia ascoltato” (ibidem, n. 198).161 Durante il ritiro spirituale a Segovia, nel 1932, in merito all’apostolato con giovani universitari scrisse che sarebbe stato posto “ sotto la protezione di Santa Maria della Speranza e il patrocinio di S. Raffaele Arcangelo. E ciò sempre senza costituire associazione di alcun genere: a base di accademie” (ibidem, n. 1697). Idea ripresa in un’altra Caterina: “Il lavoro di S. Raffaele e di S. Giovanni si farà sempre nelle nostre accademie, senza formare con gli studenti associazioni di alcun genere” (ibidem, n. 921).162 Ibidem, n. 890.163 Copia del contratto di affitto in AGP, RHF, D-15113. Nel contratto si dice: «casa di via Franco Giner (già Martinez Campos) n. 4, piano nobile a sinistra». Le mensilità erano di 115 pts. La terza delle condizioni contrattuali stabiliva che «il ritardo di quattro giorni nel pagamento dell’affitto è ritenuto causa sufficiente per dare inizio allo sfratto».164 Appunti, n. 892.165 Ibidem, n. 893.166 Ibidem, n. 883.167 Ibidem, n. 884.168 Negli Appunti intimi del 18 luglio 1932, riferendosi alla visita che fece a don José Maria Somoano, ormai quasi agonizzante, scrisse: “Il medico di guardia disse che lo mettevamo nei guai; dovetti andarmene dall’Ospedale del Re; dopo aver confessato alcuni bambini a “La Ventilla” , andai a casa di don Norberto” (ibidem, n. 787).169 Cfr Suor San Paolo Lemus y Gonzàlez de la Rivera, AGP, RHF, T- 05833; e Pilar Angela Hernando Carretero, AGP, RHF, T-05250, 1.170 Appunti, n. 907.171 Ibidem, n. 863.172 Ibidem, n. 913.173 Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152/1, p. 19. Un altro studente presente era José Maria Valentm-Gamazo; cfr AGP, RHF, T-02710.174 Cfr AGP, P04 1975, p. 278. «Molte volte il Padre ci ha detto - commenta Mons. del Portillo - che, mentre dava la benedizione con il Santissimo, non vide solo tre ragazzi, ma tremila, trecentomila, tre milioni...; bianchi, neri, gialli, di tutte le lingue e di tutte le latitudini» (Istruzione 9-1-1935, nota 25).175 José Ramon Herrero Fontana, AGP, RHF, T-05834, p. 3; e Pilar Angela Hernando Carretero, AGP, RHF, T-05250, p. 1.176 Suor San Paolo Lemus y Gonzàlez de la Rivera, AGP, RHF, T-05833.
534
177 Per dirlo con parole del Fondatore, “scegliere coloro che andranno poi all’opera patrocinata da S. Gabriele e da S. Paolo, e coloro che verranno al “cuore” dell’Opera di Dio” (Appunti, n. 913, del 25-1-1933). Più avanti, quando ormai lo sviluppo dell’Opera era delineato, il Fondatore spiegava che in realtà tutti nell’Opera sono cuore, dato che esiste una sola e identica vocazione all’Opus Dei.178 Benita Casado, AGP, RHF, T-06242, pp. 1-2. Suor Benita professò come religiosa della Congregazione delle Serve di Maria. Luis, uno dei nipoti di Pilar Sevilla, ricorda che nel 1933 don Josemaria lo preparò alla prima Comunione, che fece il 15 marzo, e che gli regalò un quadretto-ricordo (cfr Luis Sevilla, AGP, RHF, T-06243, p. 2).179 Benita Casado, AGP, RHF, T-06242, p. 3; cfr anche Luis Sevilla, AGP, RHF, T-06243, p. 3.180 José Antonio Palacios, AGP, RHF, T-02750, 5.181 Ibidem, p. 6.182 Appunti, n. 912; cfr anche n. 606.183 Ibidem, n. 877.184 Ibidem.185 Ibidem, n. 1696.186 Ibidem, n. 925; cfr Alvaro del Portillo, Sum. 241; Javier Echevarria, Sum. 2080; Joaqum Alonso, Sum. 4618; Joaqum Mestre, AGP, RHF, T- 00181, p. 34.Angel Herrera Oria nacque a Santander nel 1886 e morì nel 1968, Cardinale Vescovo di Malaga. Fu il primo Presidente Generale dell’Associazione Cattolica Nazionale dei Propagandisti, che era stata fondata nel 1908 da padre Àngel de Ayala, S. J.; diresse il quotidiano “El Debate” dalla sua nascita nel 1911 fino al 1933. Durante quegli anni si mise in evidenza per la sua azione sociale con gli studenti cattolici. Nel 1933 venne nominato presidente della Giunta Centrale dell’Azione Cattolica spagnola. Fu ordinato sacerdote nel 1940, consacrato Vescovo nel 1947 e nominato Cardinale nel 1965. Sui progetti di Angel Herrera e sulla creazione del centro di formazione, cfr Gonzalo Redondo, Historia de la Iglesia en Espana (1931- 1939), op. cit., pp. 202 e ss.187 Appunti, n. 926. Sulla risposta negativa alle proposte di Herrera Oria, cfr Florencio Sànchez Bella, Sum. 7488.1 colloqui del Fondatore con Angel Herrera furono almeno tre, in un breve lasso di tempo, anche se fu la seconda volta, l’i l febbraio, che affrontarono l’argomento del centro di formazione e fu fatta l’offerta a don Josemaria, che la declinò seduta stante (cfr Appunti, nn. 923, 925, 926, 927, 933 e 934).Nell’annotazione dell’ll-II-1933 (ibidem, n. 923) si legge: “ Senza dubbio la Madonna mi ha fatto ieri pomeriggio due regali: il secondo, che sono rimasto zoppo e non ho quasi potuto dormire la scorsa notte (...). E il primo, che ci ha dato un’altra vocazione per l’Opera, Jenaro Làzaro” . Mons. del Portillo riferisce come rimase zoppo: quando era entrato a parlare con
535
Herrera non sentiva alcun dolore; quando ne era uscito, zoppicava. Era la prima volta che aveva un attacco reumatico (cfr Sum., 242).188 Appunti, n. 927.189 Quando Mons. Olaechea era già Arcivescovo di Valencia, convinto della santa eroicità di quel comportamento, affidò al proprio segretario, don Joaqum Mestre Palacio, l’incarico di dare testimonianza del fatto, cosa che questi fece con le seguenti parole:«Il presidente Herrera insisteva, con validi argomenti: “Pensi, don Jose- marfa, che nel centro riunirò, con l’aiuto di Dio, i migliori sacerdoti della Spagna, e che le offro di esserne il Direttore” . Ma il Padre rispose invariabilmente e categoricamente: “No, no. Ringrazio, ma non accetto; perché io devo percorrere (...) la strada sulla quale Dio mi chiama. Inoltre, non accetto proprio per quello che lei mi dice: perché in questo centro si riuniranno i migliori sacerdoti di Spagna. Ed è evidente che io non sono in grado di dirigerli” » (AGP, RHF, T-00181, p. 34).Il presidente dell’Azione Cattolica spagnola e futuro cardinale rimase così impressionato per quel gesto di distacco del Fondatore che trent’anni dopolo rammentava a don Florencio Sànchez Bella (Sum. 7488).Mons. J. Echevarria riferisce così il rifiuto a Herrera: “ Ci ho pensato bene e non posso accettare. Inoltre, se di là passeranno i sacerdoti più eminenti di Spagna, ce ne saranno molti altri migliori di me e di cui io non sono certamente all’altezza, che possono dedicarsi a formarli; e d’altra parte, ho già altri impegni ai quali non posso sottrarmi, perché sarebbe un tradimento di ciò che il Signore mi chiede” (Sum. 2080).Altre testimonianze: Alvaro del Portillo, Sum. 241; Joaqum Alonso, Sum. 4618; Juliàn Herranz, Sum. 3881; Francisco Botella, PM, f. 221; Pedro Casciaro, Sum. 6320.190 Cfr Appunti, nn. 768, 773 e ss. e n. 837.191 “La nostra è una disorganizzazione organizzata” , scriveva il 19 marzo1933 (ibidem, n. 956).I tentativi di trarre insegnamenti o esperienze da altre organizzazioni non servirono mai a nulla al Fondatore. Già agli inizi del 1930 andava in cerca di notizie su moderne istituzioni di apostolato in altri Paesi; se n’era dimenticato, finché un giorno, intorno al 14 febbraio 1932, giunse una lettera dalla Polonia di padre Laureano de las Munecas (cfr ibidem, n. 603). Era la risposta alla lettera inviata a Cracovia da don Josemarìa (cfr ibidem, n. 581). Don Lino s’incontrò a Santander con P. Laureano verso la metà del settembre 1932. Don Josemarìa non ne aspettava alcuna soluzione per l’impostazione da dare all’Opera e, d’altra parte, aveva già deciso di creare una società culturale, o una Residenza: “Non so se il P. Laureano porterà qualche soluzione pratica per impostare l’Opera di fronte all’autorità ecclesiastica e di fronte all’autorità civile (...). I soci e le associate dovranno formare delle società culturali” (ibidem, n. 835).192 Ibidem, n. 184.193 Ibidem.
536
194 Ibidem, n. 164.195 Ibidem, n. 815.196 Cfr ibidem, n. 952.Dell’offerta che la signora Dolores e Carmen fecero della loro casa per fini apostolici, Mons. Echevarria afferma: «Dalla loro franca e completa collaborazione ha tratto beneficio lo spirito dell’Opus Dei, poiché, senza intervenire nella fondazione, seppero assecondare il clima di famiglia che egli volle per l’Opera in adempimento della Volontà di Dio» (PR, p. 488).197 AGP, RHF, T-04152/1, p. 25; cfr anche Jenaro Làzaro, AGP, RHF, T- 00310, p. 2.198 Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152/1, 25.199 AGP, RHF, T-05834, p. 2; cfr anche José Ramon Madurga, PM, f. 283v; Ignacio Maria de Orbegozo, Sum. 7274; Istruzione V-35/IX-50, n. 85, nota 153.200 Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, pp. 2-4. Il libro era Historia de la Sagrada Pasión, di Luis de la Palma.201 AGP, RHF, T-12082, p. 5.202 “ Si vede che il Signore, perché così deve essere nell’intimo la sua Opera, ha voluto che incominci con la preghiera. Pregare sarà il primo atto ufficiale dei membri dell’Opera di Dio” (Appunti, n. 128).203 Ibidem, n. 935.204 Le Norme provvisorie furono scritte dal Fondatore il 24-111-1933, festa di S. Gabriele (Appunti, n. 966). Nascono da una sintesi del piano di norme di pietà che aveva scritto durante il ritiro spirituale del 1932 a Segovia. Cfr anche Appunti, nn. 170e939.
537
Capitolo Vili
I PRIMI CENTRI DELL’OPERA
1. Una “prova crudele”
Fin dal momento in cui ci si cominciò a riunire in via Martìnez Campos, don Josemaria vide che l’appartamento era troppo piccolo e che era necessario disporre di un’accademia per lo sviluppo delle attività di S. Raffaele e di S. Gabriele1. C’era bisogno di gente e di denaro; si lanciò a cercarli. Nel marzo 1933 parlò con i primi professori della futura accademia. Quando riuscì ad accordarsi con il secondo, scrisse con traboccante ottimismo:
“Con costui e con Rocamora e con altri che sicuramente il Signore mi manderà, potremo incominciare la parte dell’Opera affidata a S. Gabriele e a S. Paolo”2.
Il primo giugno vennero a Madrid i membri dell’Opera che lavoravano in Andalusia: Isidoro Zorzano e José Maria G. Barredo. Il loro arrivo significò disporre di collaboratori per un nuovo sforzo: “Si parlò dell’Acca- demia. Hanno cercato persino l’appartamento. Si lavora, ed entro quest’estate sarà cosa fatta, per cominciare in ottobre” . Mentre annotava queste parole, gli sfuggì una considerazione che, in fondo, è l’indizio “spersona
539
lizzato” del fatto che aveva dilapidato le proprie energie e che fisicamente stava per soccombere:
“Il lavoro esaurisce il tuo corpo e non riesci a fare orazione. Stai sempre alla presenza di tuo Padre. Come i bambini piccoli, se non gli puoi parlare molto, guardalo di tanto in tanto... ed Egli ti sorriderà”3.
Il lavoro di avviare l’Accademia era talmente impegnativo che un momento dedicato alla lettura del giornale bastava per procurargli dei rimorsi:
“Ho passato momenti di vera- pena, di intenso dolore, nel vedere la mia miseria da una parte e dall’altra l’urgente necessità dell’Opera. Ho dovuto interrompere le mie letture (...). Mi faceva fremere di indignazione con me stesso il pensiero di aver perso e di perdere tempo... il tempo di mio Padre Dio!”4.
Ma davvero perdeva tempo?
“Si fa tardi” - scriveva negli Appunti -. “È mezzanotte meno venti e ancora mi restano delle cose da annotare. Per oggi, l’ultima Caterina: ieri ho tirato al ciclostile un foglietto in cui chiedevo orazione ed espiazione, allo scopo di ottenere luci dal Signore: perché io trovi il tempo e possa ordinare in breve e correttamente tutto ciò che si riferisce all’organizzazione dell’Opera, così come Dio la vuole”5.
Dare lezioni private - ne era costretto - era cosa che desiderava evitare, per quanto possibile. Come ricuperare quelle ore? Perché Dio non dava “tranquillità e indipendenza economica” ai suoi, in modo che egli si potesse occupare esclusivamente dell’Opera? Tuttavia è un fatto certo e straprovato che il Signore veniva sempre in soccorso del focolare della signora Dolores. La cosa straordinaria di questi interventi è che accadevano pro
540
prio all’ultimo momento e in modo tale che la famiglia ne rimaneva sollevata e rinasceva la tranquillità d’animo; ma senza mai tirarli fuori dalle ristrettezze economiche. Il tono pieno di pudore con cui si trattava la povertà in casa degli Escrivà rendeva quasi impossibile indovinare le difficoltà in cui versavano:
“Dio, mio Padre e Signore, di solito mi concede la gioia in mezzo alla povertà totale in cui viviamo. Anche agli altri di casa, salvo qualche breve momento, dà la stessa gioia e pace”6.
Il Fondatore era abituato agli interventi inattesi della Provvidenza nel caso di estreme necessità economiche. Come capofamiglia, accanto alla missione ricevuta da Dio, doveva occuparsi allo stesso tempo di mantenere i suoi7.
* * «•
Non erano ancora trascorsi sette mesi da quando era stato a Segovia e già il suo spirito reclamava di nuovo la solitudine: “ Sento ogni giorno di più la necessità di ritirarmi per un certo tempo per dedicare alcuni giorni a una vita esclusivamente contemplativa: Dio e l’Opera e la mia anima” 8. Fu così che, preso accordo con i Re- dentoristi di via Manuel Silvela, si recò al convento per fare un ritiro per conto suo. Era il 19 giugno 1933. Tutto si svolgeva con tranquillità, finché un giorno si scatenò in strada “una terribile baraonda” . Un gruppo di ragazzacci, davanti al cancello d’ingresso e con una latta di combustibile, minacciava di incendiare il convento. Don Josemaria si affacciò alla finestra udendo gli schiamazzi ma ritornò a raccogliersi in silenzio, vedendo che il fratello portinaio stava all’erta e armato di un buon randello9.
In fondo, questo episodio, puntualmente raccontato, non è altro che una lieve digressione che copre in parte
541
quanto capitò al sacerdote il giorno prima, giovedì 22 giugno, vigilia del Sacro Cuore, che è raccontato con semplice franchezza: “ Sentii la prova crudele che da tempo mi aveva annunciato Padre Postius” 10.
(Padre Postius, religioso claretiano che fu suo confessore durante i mesi in cui padre Sànchez dovette nascondersi, gli aveva preannunciato una forte prova, come trascritto su una Caterina: “Padre Postius, con il quale mi confesso da quando Padre Sànchez si è nascosto essendo entrato in vigore il decreto di scioglimento della Compagnia, mi disse anche che sarebbe arrivato il momento in cui la prova sarebbe consistita nel non sentire l’impulso soprannaturale e l’amore per l’Opera” 11.
La prova dolorosa sarebbe stata il non “ sentire la divinità della Sua Opera” 12. Era già passato un anno e mezzo e il sacerdote serbava, probabilmente, solo un lontano ricordo dell’ammonimento).
La sera di giovedì, vigilia del Sacro Cuore, don Josemaria stava meditando sulla morte. Se fosse sopraggiunta in quel momento, quali erano le sue disposizioni? Che cosa poteva strappargli? Si esaminò e si trovò distaccato da tutto, o da quasi tutto: “ Oggi non credo di essere attaccato a qualcosa. Forse - mi viene in mente - lo sono all’affetto che nutro per i ragazzi e per tutti i miei fratelli dell’Opera” . E pregava Dio che quando fosse arrivata la morte per portarlo davanti alla Sua presenza, non lo trovasse “ attaccato a cosa alcuna della terra” 13.
La sera stessa gli arrivò la prova suprema del distacco. Era come se il Signore, per brevi istanti, gli avesse tolto la luce chiara del 2 ottobre 1928, lasciandolo in balia degli opposti pensieri che assalirono la sua mente. Il Fondatore descriveva così la propria angoscia:
“Da solo, in una tribuna di questa chiesa del Perpetuo Soccorso, cercavo di fare orazione davanti a Gesù Sacramentato esposto nell’ostensorio, quando per un
542
istante e senza che ve ne fosse alcuna ragione - non ve ne sono - mi venne in mente questo pensiero amarissimo: “E se tutto fosse una menzogna, una tua illusione, e perdessi il tempo..., e - peggio - lo facessi perdere a tanti altri?” ”14.
Un repentino vuoto soprannaturale, una suprema angoscia, gli annegarono l’anima nell’amarezza (“Fu questione di secondi” - scrisse - “ma come si soffre!” ). Allora, con uno sforzo di distacco, offrì al Signore, completamente, la propria volontà. Gli offrì di distaccarsi dall’Opera, nel caso fosse un inciampo:
“Se non è tua, distruggila; se lo è, rassicurami”.
Così, annullando qualsiasi possibile vacillazione, strappando da sé la promessa ricevuta sull'immortalità dell’Opera, come Abramo donava in sacrificio la creatura che aveva in gestazione dal 2 ottobre 1928. Donava anche le speranze dei dieci anni precedenti, da quando a Logrono aveva cominciato a supplicare: “Domine, ut sit! Immediatamente” - soggiunse - “mi sentii confermato nella verità della sua Volontà sulla sua Opera” 15.
* *
Meditando durante il ritiro, fece un elenco di quelli che chiamava i suoi “peccati attuali: Disordine. Gola. La vista. Il sonno” 16.
In che cosa consisteva il disordine? A quanto si legge in una nota redatta alla fine del ritiro, intitolata “Azione immediata” , il rimedio al disordine era abbandonare ogni attività che non fosse direttamente finalizzata al servizio dell’Opera:
“Devo lasciare ogni attività” - scrisse -, “anche se è veramente apostolica, che non sia completamente orientata al compimento della Volontà di Dio, che è l’Opera. Proposito: sono arrivato a confessare settimanalmente
5 4 3
in sette posti diversi; lascerò queste confessioni, tranne i due gruppetti di ragazze universitarie”17.
Non è difficile rifare il conto dei luoghi dove confessava regolarmente tutte le settimane: l’asilo di Porta Coeli, la scuola di Arroyo, i ragazzi della Ventilla, l’istituzione Teresiana di via Alameda, l’Accademia Veritas di via O’Donnell, le bambine della scuola dell’Assunzione e i fedeli della chiesa di Santa Isabel. Tutto questo senza citare i malati e i moribondi degli ospedali18. A Santa Isabel si metteva nel confessionale al mattino presto. E tutte le mattine, tra una confessione e la lettura del breviario, udiva aprirsi violentemente la porta della chiesa e, subito dopo, uno strepito di rumori metallici, seguito dal rumore di una porta sbattuta. Incuriosito, poiché non vedeva la porta dal confessionale, per capire di che cosa si trattasse si appostò un giorno all’entrata della chiesa. Quando si aprì rumorosamente la porta, si trovò di fronte un lattaio, carico dei bidoni per la distribuzione del latte. Gli chiese che cosa facesse:
“Padre, io vengo ogni mattina, apro (...) e lo saluto: “Gesù, ecco qui Juan il lattaio” ” .
Il cappellano restò senza parole e passò la giornata ripetendo, a modo di giaculatoria: “ Signore, qui c’è questo disgraziato che non ti sa amare come Tuan il lattaio” 19.
Quanto al peccato di gola, che cosa intendeva don Josemaria? Forse si riferiva al fatto che, per migliorare il pasto e per sollevare lo spirito dei commensali, portava a casa, in rare occasioni, qualche dolce? “ C’era di mezzo la mia gola”20, commentava, perché gli piacevano le cose dolci. Ma che cosa avrebbe potuto dire della fame che lo spingeva - sono sue parole - a mangiare “troppo pane, a tal punto da credere di peccare di gola
544
mangiando pane, che oltretutto mi fa ingrassare e mi rende difficile la digestione”21?
E evidente che, con le sue insaziabili esigenze di mortificazione, la sua coscienza si trovava più in là dei confini della gola e della fame. Nei giorni di ritiro scrisse una nota per il suo confessore, nella quale si legge: “Indubbiamente, Padre, il Signore mi chiede di aumentare la penitenza. Quando gli sono fedele su questo punto, sembra che l’Opera prenda nuovo slancio”22. Risultava così che il vigore apostolico dell’Opera si rinnovava a costo delle raddoppiate penitenze del Fondatore.
La sua capacità di lavoro e il suo ardente desiderio di lavorare lo conducevano allo sfinimento. E contro le lusinghe del sonno, che lo reclamava fin dal mattino, si serviva di stratagemmi:
“Mi sento così incline alla pigrizia” - annotava per conoscenza del suo confessore - “che, ad alzarmi alla mia ora al mattino non mi spinge il desiderio di piacere a Gesù; infatti - non rida - mi devo ingannare dicendo: “poi ti coricherai un po’ durante la giornata”. E quando prima delle sei vado verso Santa Isabel, spesso mi burlo di questo peso morto che mi porto e gli dico: “asinelio mio, peggio per te: fino a questa notte non tornerai a coricarti” ”23.
Infine, per quanto riguarda la vista, il suo audace e titanico proposito di “Non guardare mai!” era indubbiamente rispettato da un’esigente finezza di coscienza, che imponeva continue rinunce ai suoi sensi.
s 5 - * » S *
Pochi mesi prima, nel Bollettino ufficiale della Diocesi di Madrid-Alcalà era stata pubblicata una circolare di monsignor Eijo y Garay nella quale si annunciava che, a partire dal primo aprile 1933, venivano estinte le Giurisdizioni castrense e palatina. I luoghi, persone e cose
545
sottoposti a quest’ultima passavano «a dipendere unicamente dagli Ordinari diocesani rispettivi, in conformità con le norme del Diritto Canonico»24.
La prima notizia che ne ebbe il cappellano di Santa Isabel fu il 23 marzo, come annotava negli Appunti:
“Scompare la giurisdizione palatina. Questa mattina sono stato con don Pedro Poveda e mi disse che parlerà con don Moràn e che io continuerò a stare a Santa Isabel come ora. Per me è lo stesso. Sono figlio di Dio: Egli si preoccupa di me. Forse è finita la mia missione in questo posto”25.
È molto probabile che la prima notizia gli sia giunta attraverso don Pedro Poveda, segretario del Patriarca delle Indie, poiché fu lui a consigliargli di andare a salutare il Vicario Generale di Madrid, don Francisco Moràn, per esporgli la propria situazione nel Patronato di Santa Isabel. Il Vicario era il braccio destro del Vescovo e aveva sentito parlare di don Josemarfa fin da quando aveva ottenuto le sue prime facoltà a Madrid su richiesta di Luz Casanova. Ma non si erano mai incontrati personalmente, finché un giorno, nel gennaio del 1931, si conobbero in metropolitana. Rimasero d’accordo di parlare al Vicariato il giorno successivo, dove furono date a don Josemarìa tutte le facilitazioni per rinnovare le facoltà ministeriali26.
Dell’alta stima in cui lo teneva don Francisco Moràn rende l’idea quanto accaduto nella Commissione dei Rettori dell’estinta Giurisdizione palatina, durante la riunione del 29 aprile 1933:
“Sono andato a trovare don Pedro Poveda, così buono, sempre così fraterno con me, e mi disse che ieri si sono riuniti i Rettori di tutti i Patronati che sono passati alla Giurisdizione ordinaria. Ed è accaduto che, quando hanno parlato del personale, il Vicario di Madrid (Moràn), che presiedeva, ha fatto di questo povero asi-
546
nello un elogio tale che don P. Poveda ne fu contentissimo. Quando sono uscito dall’istituzione Teresiana e ho preso il 48, che vergogna, che profonda pena mi ha fatto sentire il Signore per gli elogi del Vicario!”27.
Quando don Josemaria terminò gli otto giorni di ritiro spirituale nel convento dei Redentoristi, i giovani universitari avevano superato gli esami e preparavano le vacanze estive. Prima che si disperdessero, egli sfruttò l’ultima occasione di stare insieme per dar loro consigli e raccomandazioni. Poi, nel mezzo dell’estate, con la gente fuori di Madrid, il sacerdote si sentì molto solo: “ Come mi trovo solo, a volte!” - annotava il 12 agosto - “Bisogna aprire l’Accademia, succeda quel che succeda, nonostante tutto e tutti”28.
Il 15 agosto s’interrompono le Caterine. Ma una lettera datata Fonz 29 agosto e indirizzata a Juan J. Vargas, ci dice dove si trova:
“Solo due righe” - dice il primo capoverso -. “È la notte dal 29 al 30 e sto vegliando mio zio, che è grave, ma resiste con la sua tempra d’acciaio”29.
A motivo della malattia dello zio paterno, don Teodoro, don Josemaria fece due viaggi a Fonz, assieme al resto della famiglia. Ne venne una battuta d’arresto per la messa in moto dell’accademia. Ormai di ritorno a Madrid, meditando su un nuovo anniversario della fondazione, don Josemaria sentì l’urgente necessità dell’apostolato, come si intuisce dalle Caterine: ,
“ l-X-1933. Domani sono cinque anni da quando vidi l’Opera. Dio mio, me ne chiederai conto! Che mancanza di corrispondenza alla grazia!”30. “6-X-1933. Non perdo la pace, ma ci sono momenti in cui mi sembra che mi scoppi la testa, tante sono le cose a gloria di Dio- la sua Opera - che ribollono in me, e tanta è la pena
547
che mi dà il vedere che ancora non si cristallizzano in cose tangibili”31. “ 18-X-1933. Ho mal di testa. Soffro, per la mia mancanza di corrispondenza e perché non vedo l’Opera muoversi”32.
Il 26 ottobre preparò una nota per il suo confessore. Vi esaminava brevemente le cause della propria impazienza, lasciando intravedere una sferzata di avvilimento davanti alla lentezza del cammino dell’Opera:
“Mi tortura fino a farmi dolere la testa il pensiero di lasciare incompiuta questa Volontà: 1) per il disordine della mia vita interiore (...); 2) perché non curo - non ci arrivo, non posso fare di più - i ragazzi che ci sono arrivati, portati da Lui”33.
Iniziava il mese di novembre e le persone dell’Opera non avevano ancora trovato un locale adatto per l’accademia:
“In questi giorni, di nuovo, stiamo cercando un appartamento. Quante scale e quante impazienze! Egli mi perdoni”34.
Il 4 novembre Ricardo, lo studente di Architettura al quale aveva regalato la “Storia della Santa Passione” con la dedica che lo invitava a cercare, trovare e amare Cristo, andò a fargli visita in via Martmez Campos. Don Josemarìa gli parlò dell’Opera. Gli spiegò chiaramente che Dio nostro Signore voleva che questo disegno del Cielo, del quale gli stava parlando, si compisse sulla terra; e che aveva carattere universale. Era per tutti e per tutti i tempi. Per portarlo a compimento occorreva un gruppo di innamorati di Cristo che santificassero il proprio lavoro in mezzo al mondo e stessero inchiodati alla Croce. Entusiasmato, Ricardo racconta: «Gli dissi semplicemente: io voglio far parte di “questo” , perché ancora non sapevo neppure come si chia
548
masse “questo” , che era l’Opera di Dio»35. A partire da quel momento il sacerdote aveva un altro collaboratore in vista dell’accademia:
“ 13 novembre 1933 (...). In questi giorni ci occupiamo dei mobili per l’appartamento. Si è incaricato di acquistarli Ricardo F. Vallespm. E venuto Isidoro, perché si fa il contratto a nome suo e - rimango sempre solo - nonostante la sua venuta devo sistemare io questa faccenda”36.
2. L’Accademia “DYA”
In dicembre don Josemaria cominciò un nuovo quaderno degli Appunti con la seguente notizia: “In primo luogo, è stata benedetta la Casa dell’Angelo Custode. Il giorno dellTmmacolata, in maniera improvvisata, abbiamo fatto questo omaggio a nostra Madre (...). Che entusiasmo nei nostri ragazzi per sistemare la casa!”37.
Il 30 dicembre annotava con intima gioia: “ Questa è la prima Caterina che scrivo nella stanza della direzione dell’Accademia DYA, che è la nostra casa dell’Angelo Custode”38.
Finalmente aveva la tanto agognata accademia, che chiamò DYA (Dio e Audacia); nome che da tempo aveva destinato alla prima casa editrice che avessero fondato; ma venne prima l’accademia. Il nome coincideva inoltre con le iniziali di Diritto e Architettura (“Derecho y Arquitectura” - DYA), che erano le materie oggetto delle lezioni. Don Josemaria fece un disegno della targa di metallo per la porta. Isidoro si occupò di farla fondere in un’officina di Malaga 39.
L’appartamento di via Luchana, numero 33, occupato dall’accademia, disponeva di ben pochi locali. Era un centro culturale dove gli studenti assistevano a lezioni o a conferenze. Di fatto, era qualcosa di più di un
549
centro accademico; era un luogo di formazione cristiana per giovani universitari, che potevano anche parlare con il sacerdote e farsi dirigere spiritualmente. L’aspirazione di don Josemaria era che il clima che vi si respirava fosse quello di un ambiente familiare, pensiero che espresse con queste parole: “Per quelli di S. Raffaele, l’accademia non è l’accademia. È la loro casa”40.
Aveva anche scritto, in precedenza: “ Ci sia nelle accademie, insieme alla biblioteca, una buona sala di studio, comodissima, per quelli di S. Raffaele”41. Il superlativo, pur benintenzionato, aveva poco o nulla a che vedere con quell’appartamento. Ciò che con enfasi chiamavano sala di studio era un locale piuttosto irregolare e piccolo, senza altra decorazione che l’immagine incorniciata della Madonna del Catechismo. Lo studio dove il sacerdote riceveva era ancora più piccolo. Se poteva vantarsi di qualcosa era di una Severa austerità. Sul tavolo c’era un teschio e sulla parete una croce di legno, nera e senza crocifisso. Se qualche curioso gli chiedeva il significato della croce di legno nuda, consentiva al sacerdote di rispondergli: “ Sta aspettando il crocifisso che le manca: e quel crocifisso devi essere tu”42.
A fine pomeriggio, quando ritornava dal confessare, dalle visite ai malati o dal fare lezione, si trovava lo studio e gli altri locali occupati dagli studenti. Nonostante si sentisse stanco morto si dominava e, rifugiatosi nella cucina della casa, si preparava a ricevere i giovani in colloqui confidenziali e ad ascoltare le confessioni. I penitenti che sfilavano di là erano in tal numero che, scherzando, diceva che quella cucina era una vera cattedrale43.
Non appena risolvevano un problema economico ne arrivava un altro. Con la somma che raccoglievano dai piccoli contributi di quanti frequentavano l’accademia, come ricorda lo scultore Làzaro, difficilmente coprivano l’affitto mensile. L’acquisto di un semplice orologio
550
da parete diede origine a una lunga catena di piccole frustrazioni. Per tre volte furono sul punto di comperarlo; ma per tre volte vi furono necessità più urgenti. Alla fine lo regalò la contessa di Humanes, non senza ammonirli che non se lo “mangiassero”44. E vero che avevano fatto un bilancio preventivo, ma a che cosa serviva se le entrate erano insufficienti? La piccola somma che all’inizio avevano messo da parte per far fronte a qualsiasi eventualità fu consumata dalle tasse per la licenza di apertura del centro di insegnamento45. Per don Josemaria l’importante era avere già uno strumento per il suo lavoro di apostolato e una casa per farci “vita in famiglia” con i membri dell’Opera; vale a dire, un luogo dove riunirsi e in cui i suoi figli potessero ricevere i mezzi di formazione: lezioni, conversazioni o colloqui con il sacerdote. Era l’unico modo per far loro conoscere e assimilare lo spirito dell’Opera, stando assieme al Padre, ascoltando le spiegazioni dalle sue labbra e prendendo il suo esempio come modello di comportamento.
Da un mese era stato preso in affitto l’appartamento di via Luchana e da poco ne era stata ultimata la sistemazione, quando accadde qualcosa che lasciò stupefatti i presenti. Era il 5 gennaio 1934, vigilia dell’Epifania. «Il Padre propose al piccolo gruppo di suoi figli lì riuniti - dice Ricardo F. Vallespin - che per l’inizio dell’anno accademico 1934-35, cioè nell’ottobre 1934, dovevamo aver pronta una residenza in una casa più grande, nella quale alcuni di noi potessimo vivere, così che ci sarebbe stata la possibilità di avere un oratorio con il Signore presente nel Tabernacolo»46.
(Non tutti condividevano l’ottimismo del motto della casa - “Dio e Audacia” -; ecco quanto racconta il Fondatore di uno dei suoi sacerdoti: “Non appena aperta la Casa dell’Angelo Custode, un mio fratello sacerdote- molto preoccupato - mi suggeriva già che la chiudessi, perché era un fallimento. Effettivamente (non rac
551
conterò la trafila) non l’ho chiusa ed è stato un successo insperato e palese)”47.
Impostata da poco l’accademia e mentre ancora perduravano le difficoltà, don Josemaria era spinto dall’impaziente desiderio di avere una nuova casa più ampia. Benché non fosse, propriamente, irrequietezza, bensì docilità alla pressione della premura divina: “Fretta. Non è fretta. È Gesù che spinge”48. Effettivamente, sembrava che il Signore lo spingesse contribuendo all’impresa. Non erano passati tre giorni che un’anima caritatevole gli offrì un’elemosina sostanziosa, che il Fondatore riservò al nuovo centro che pensava di aprire, come annotava il giorno del suo compleanno, 9 gennaio 193449.
ir i ’c
La grata dietro la quale le monache di Santa Isabel si comunicavano ricordava sempre a don Josemaria la locuzione divina: “Opere sono amore e non i bei ragionamenti. (Eppure” - pensava, soffrendo - “che vita di tiepidezza la mia! Che miserabile sono! Fino a quando, Gesù, fino a quando!)”50. Quella locuzione era lo sprone che lo faceva galoppare nei suoi piani apostolici, conducendolo da via Martinez Campos a via Luchana e, appena sistemata l’accademia, facendolo pensare a un piano di più ampio respiro.
Quando “ i ragazzi di Josemaria” - così chiamava Santiago i giovani che suo fratello portava nella casa di via Martinez Campos - si trasferirono all’accademia, gli Escrivà si resero conto che il sacerdote si stava sistemando una casa indipendente. E suo fratello, anima semplice e senza alcun pregiudizio, glielo ricordava spesso:
“Ogni giorno, quando uscivo dalla casa di mia madre”- raccontò parecchi anni dopo - “mio fratello Santiago
552
¥
si avvicinava, mi metteva le mani nelle tasche e chiedeva: che cosa ti porti al tuo nido?”51.
La casa della signora Dolores aveva mobili, arredi e oggetti di valore, che si erano salvati nella lunga peregrinazione da Barbastro a Madrid; ma quanto all’andamento economico, non aveva nulla da invidiare alla Casa dell’Angelo Custode. Entrambe le case si sostenevano per miracolo52. A quell’epoca, Carmen, la sorella di don Josemarìa, mise a frutto i propri studi di Magistero fatti a Logrono53. Gli Escrivà sopportavano le difficoltà fin troppo bene e grande era la loro fiducia nella Provvidenza54.
Deciso ad alleviare gli oneri che gravavano sulla famiglia, don Josemarìa pensò che avrebbero potuto risparmiare l’affitto di via Martìnez Campos se fossero andati a vivere nella casa destinata al cappellano di Santa Isabel. Consultò il Vicario della diocesi e ne ebbe il permesso di presentare un’istanza al Ministero dell’interno, cui allegò una lettera d’appoggio di suor Maria del Sagrario, priora del convento. Il richiedente chiedeva che, svolgendo egli l’incarico di cappellano “ senza ricevere alcuna retribuzione ufficiale” , gli venisse concesso di “occupare, come cappellano, la casa che nel convento è destinata a chi esercita tale incarico”55. L’istanza è del 26 gennaio 1934; prima di inviarla e dopo aver considerato la cosa alla presenza di Dio, aveva deciso l’opportunità di quel passo allo scopo di ottenere la nomina ufficiale e di stabilizzare, una volta per tutte, la propria situazione canonica a Madrid56.
Cinque giorni dopo gli veniva notificato che, «vista la sua istanza con la richiesta che gli venga concesso il diritto all’alloggio, esercitando in via interinale la funzione di cappellano delle reverende Madri Agostiniane Recollette del Monastero di Santa Isabel e la nota favorevole emessa da detta Comunità, questo Patronato ha accordato quanto richiesto». La risposta eludeva qual
553
siasi riferimento alla nomina57. Ma il Rettore di Santa Isabel, che non era stato consultato, non prese bene l’iniziativa del cappellano e delle suore e ancor più la successiva decisione delle autorità civili. Per questo, e per risparmiarsi dispiaceri, don Josemaria decise di non occupare per il momento l’alloggio. Più che per il Rettorelo fece per altre ragioni, che espose per ordine e con precisione nelle Caterine-.
“Ragioni? 1) Che non ci possono abitare i miei senza che ci abiti anch’io. 2) Che non conviene che io viva nel convento, perché mi lego ancor più ai miei, mentreio desidero svincolarmi. 3) Che Gesù vuole, per il prossimo anno accademico, l’internato: e ci devo vivere anch’io”58.
Nel frattempo, Santiago aveva già fatto visita al “nido” di via Luchana; e la signora Dolores e Carmen non erano lontane dall’intuire che cosa si nascondeva dietro la facciata dell’Accademia e l’apostolato di Josemaria59, il quale non potè fare altro che tenere per un certo tempo la famiglia in sospeso, dopo aver loro annunciato la risposta favorevole del Ministero dell’interno. In casa Escrivà si facevano preparativi per il trasferimento e ci si chiedeva quando si poteva fare il trasloco nell’appartamento di Santa Isabel. Ma il sacerdote prendeva tempo con scuse vaghe e preferiva non affrontare l’argomento.
Perché questa resistenza ad accettare un discreto risparmio dell’affitto? Perché non se ne andavano una buona volta a Santa Isabel? Stanchi di risposte vaghe e insoddisfacenti, i familiari al completo, senza giri di parole, affrontarono seriamente la questione il 10 febbraio. Gli chiedevano: perché stiamo a Madrid, dove stiamo tanto male? E il sacerdote, ascoltando la domanda e fronteggiando in silenzio la bufera, diceva dentro di sé al Signore: “Tu lo sai perché sto qui”60.
554
E il Fondatore pensava alle ragioni che, per ordine e con rigore, aveva annotato giorni addietro nelle Caterine.
* * *
Nei colloqui con il Vicario Generale, don Josemarìa lo aggiornava puntualmente sul lavoro di formazione cristiana che si faceva nell’Accademia DYA: conferenze, corsi di religione, lezioni di latino, un ciclo sull’apologetica..., e i circoli di studio, le confessioni, le conversazioni di formazione61. Da marzo, dopo aver ottenuto dai Redentoristi l’uso di una cappella, cominciò a dare ritiri spirituali. Una volta al mese vi si riunivano la domenica mattina venti o trenta ragazzi e finivano il ritiro a metà pomeriggio62.
Continuavano a fare la catechesi domenicale nella scuola di Arroyo e facevano visita ai malati, oppure si univano a catechesi già organizzate in altri quartieri. Queste opere di misericordia avevano i loro rischi, come si può vedere da quanto accaduto a Manolo Sainz de los Terreros e a coloro che lo accompagnavano. Una domenica, finita la catechesi, questi andò con altri quattro o cinque studenti a far visita ad alcuni poveri a Vallecas. All’improvviso furono assaliti da una ventina di individui. Manolo ricevette tante di quelle botte e calci in testa che gli assalitori lo credettero morto. Sorte analoga toccò agli altri. Uno di essi, Alvaro del Portillo, insanguinato e con una spaventosa ferita sulla testa, riuscì a fuggire anche se gravemente ferito63.
Le notizie sull’apostolato e le attività dell’Accademia DYA si sparsero rapidamente nei circoli studenteschi ed ecclesiastici di Madrid. Lo zelo del cappellano di Santa Isabel e il suo nuovo modo di mettere a fuoco la vita cristiana, con la proposta di una santità per tutti, si faceva strada a poco a poco. E don Josemarìa notò pure con gioia che, nelle sue conversazioni con il Vicario,
555
questi ripeteva già, come se fossero sue, idee che provenivano dallo spirito dell’Opera:
“Lunedì scorso sono stato dal Vicario di Madrid. Ci andai per una questione del convento di Santa Isabel. Abbiamo parlato di molte cose, del nostro apostolato, dei ragazzi... Don Moràn si fermò per un bel po’ di tempo ed è veramente cambiato: prima mi spingeva perché io andassi in cattedra; ora mi diceva: non occorrono sacerdoti-maestri, né sacerdoti-professori, bensì sacerdoti che formino maestri e professori”64.
Pochi giorni dopo questa visita, il primo marzo, gli si presentò l’occasione di parlare con il Vescovo di Cuen- ca, monsignor Cruz Laplana, lo stesso che aveva promesso alla signora Dolores per suo figlio un posto di canonico. Era obbligato a dargli una spiegazione per la rinuncia alla caritatevole offerta di una prebenda. A grandi linee gli parlò dell’Opera65. Allora il Vescovo comprese a che cosa fosse orientato l’impegno apostolico di don Josemaria e gli offrì i suoi buoni uffici per stampare a Cuenca, a condizioni molto economiche, alcune considerazioni spirituali che, sotto forma di un piccolo libro, sarebbero servite ai giovani dell’accademia per fare meditazione. A questo don Josemaria allude in una lettera al Vicario del 26 aprile:
“In questa Casa dei Redentoristi” - scrisse - “si svolgerà un altro ritiro spirituale la prima domenica di maggio e, con l’aiuto di Dio, spero che sia fecondo, perché i giovani universitari hanno risposto molto bene, partecipando ai ritiri precedenti.Sono convinto che il Signore benedice questi giovani che portano avanti l’accademia, in cui troviamo tante possibilità per il nostro apostolato sacerdotale fra gli intellettuali, adempiendo, del resto, la chiara Volontà di Dio su di me, che è “nascondermi e scomparire” (...).Per motivi di economia, con l’approvazione del Vescovo
556
di Cuenca, è in stampa un libretto - poi ne seguiranno altri - nella “Tipografia Moderna”, un tempo “Tipografia del Seminario”, di quella città (Cuenca)”66.
Come contropartita, correvano per Madrid notizie fosche e deformate su ciò che si faceva nell’accademia. Il sacerdote lo scoprì un giorno di maggio, quando si recò a rinnovare le facoltà ministeriali. Era andato a trovare don Moràn, il quale, molto amabilmente, chiamò per telefono interno gli Uffici del Vescovado e diede le opportune disposizioni perché lo esaudissero. Mentre si avvicinava allo sportello dell’ufficio, don Josemaria udì che uno della curia diceva a un altro impiegato: “ E quello che ha una setta apostolica” . Con molta calma si avvicinò allo sportello e disse:
“Senta, non si arrabbia se le dico una cosa?” .
Quegli lo guardò un po’ sconcertato; don Josemaria gli ripetè sorridente:
“Davvero non si arrabbia?No, perché dovrei?Allora, guardi: né setta, né apostolica” .
E l’impiegato:
“Come fa a sapere che mi riferivo a lei?Lo so con certezza”.“Allora ha la coda di paglia”, replicò sfacciatamente l’impiegato.“Allora, sempre sorridendo e in tono amichevole, gli dissi che di tutto quello che faccio il Vicario è perfettamente al corrente. E il buon G. C. mi raccontò (gli sfuggì, perché era sconcertato) che diverse volte erano state mosse accuse contro di me per l’Opera. E parlò di una lettera... e di invenzioni da burletta sul teschio e sulla Croce che stanno in Direzione”67.
557
Lunedì 28 maggio, poco dopo l’incidente dello sportello, arrivando a casa trovò un messaggio dal Vescovado:lo si pregava di presentarsi da don Moràn. Non era necessaria molta immaginazione per intuire quello che c’era dietro l’invito. Il giorno successivo si recò al Vicariato e, di ritorno a casa, stese il resoconto del colloquio:
“Il signor Vicario mi ricevette molto amabilmente. Mi fece sedere (chi frequenta il Vicariato sa bene la distinzione che implica questo particolare) e mi disse: “Mi dica che cos’è quest’Accademia DYA”. Mi sono sfogato del tutto. Don Moràn, con gli occhi socchiusi, ascoltava, assentendo con movimenti del capo. Gli dissi, in sintesi: 1) Che mi dava molta gioia con la sua domanda. Che nelle mie lettere (gli scrivo sovente) gli dicevo apposta alcune cose, dandogli così occasione per farmi delle domande. 2) Feci la storia esterna dal 2 ottobre 1928. 3) Gli feci notare che siamo andati in via Lucha- na sapendo che ci viveva un grande amico suo - del Vicario - perché non avevamo nulla da nascondere. 4) Parlai dei miei figli sacerdoti, lodando quelli che lui conosce, come deve fare un padre. 5) Mi disse di non interrompere i ritiri spirituali durante l’estate. 6) Mi disse pure che avevo già il permesso per pubblicare “Santo Rosario” . 7) E - qui viene il bello - mi chiese (come se a Madrid non ci fossero teologi o associazioni ad hoc) di fargli un piano di studi religiosi per universitari”68.
Uscendo dal Vescovado andava benedicendo tutti gli angeli della corte celeste per l’occasione avuta di sfogarsi completamente. Seguendo il consiglio del suo confessore, aveva esposto solamente la “ storia esterna” dell’Opera. Quella intima, la gestazione della creatura spirituale, era una faccenda privata della sua anima. E, riflettendo fra sé, continuò:
“Ora, due parole: siamo clandestini? Assolutamente no. Che cosa si direbbe di una donna incinta che volesse registrare allo stato civile e in parrocchia il proprio figlio
558
non ancora nato? O che cercasse di iscriverlo all’Uni- versità? Signora - le direbbero - aspetti: che venga alla luce, che cresca e si sviluppi... Ora, nel seno della Chiesa Cattolica c’è un essere non ancora nato, ma con vita e attività proprie, come un bimbo nel seno di sua madre... Calma: arriverà il momento di iscriverlo, di chiedere le approvazioni opportune. Nel frattempo, renderò sempre conto all’autorità ecclesiastica di tutte le nostre attività esterne, come ho fatto finora - senza provocare carteggi che verranno più avanti. Questo è il consiglio di Padre Sànchez e di don Pedro Poveda, oltre che - aggiungo io - del buon senso”69.
Poi, con molto buon senso, anche soprannaturale, commentava:
“Ci vedono. Si rendono conto. Bene. Buona cosa. Forse che, quando c’è fuoco, si possono evitare il fumo, il calore e la luce? Così neppure, essendoci l’Opera, potremo evitare il fumo della calunnia o della mormorazione, né il calore del nostro apostolato, né la luce dell’Amore di Dio manifestata nel nostro esempio e nella nostra parola”70.
Già cominciava ad avere la nozione di ciò che implicava il “nascondersi e scomparire” e dell’alto prezzo che doveva pagare per questo motto divino applicato all’Opera.
3. Il Rettore di Santa Isabel
Nel maggio 1934, quasi un anno dopo aver fatto gli esercizi spirituali, tornò a sentire brama di restare solo con Dio (“ Come mi farebbero bene due o tre mesi di solitudine, per fare orazione e penitenza!” )71. Eppure, chi l’avrebbe mai detto, quando cominciò i suoi esercizi dai Redentoristi, il 16 luglio, si scoprì ormai con “pochissi-
559
ma voglia di farli”72. Per eccitarsi alla compunzione, come prima cosa enumerò un lungo elenco di grazie fino ad allora ricevute. C’era da restare sbalorditi: “ Grazie innumerevoli, alcune straordinarie. L’Opera di Dio!”73.
Poi meditò sulla propria vocazione al sacerdozio. Considerò la premura del Signore nei confronti del compito che gli aveva affidato e la resistenza di alcuni sacerdoti, che non avevano il suo stesso zelo74. Ripassò mentalmente il lavoro fatto nell’accademia, e si sentì del tutto insoddisfatto del proprio sforzo e dei risultati ottenuti: “ Guardo e vedo che non corriamo. Non corriamo a tal punto che si può dire che “non c’è l’Ope- ra” . Allora? Vediamo che cosa hanno fatto i santi”75.
Si misurò, nel desiderio, con la “ squisita prudenza” di sant’Ignazio, uomo di grandi audacie. Meditò le sante decisioni di Teresa di Gesù, che “non perdeva il tempo in smancerie” . Infine, fece i conti con se stesso. Quali risoluzioni aveva preso? Che cosa ne era stato dell’ampliamento dell’Accademia DYAì Come era stato impiegato un mucchietto di denaro che il Signore paternamente aveva loro inviato al principio dell’anno? Allora gli venne in mente che, per la stessa strada per la quale gli erano arrivate seimila pese tas, poteva arrivargli di colpo tutto il denaro di cui aveva bisogno per la Residenza. E, incoraggiato da questo pensiero, fece la sua orazione: “Andiamo, Signore, per una volta, perché non ci dai tutto? Io aspetto”76. (Il denaro si fece comunque aspettare).
Una delle tristi esperienze apostoliche di don Jose- maria era che molti dei giovani, non appena andavano in vacanza al termine dell’anno accademico, scomparivano come l’acqua nella sabbia. Ne perdeva le tracce. Ogni autunno doveva pertanto ricominciare con alcuni veterani: pochi. Ma nell’estate 1934, prima che gli studenti se ne andassero da Madrid, studiando il problema, ebbe una brillante idea: farsi dare l’indirizzo estivo, con l’intenzione di inviare loro ogni mese delle circola
560
ri, intitolate “Notizie” , per incoraggiarli nella vita interiore e salvare la continuità del lavoro apostolico. Aiutato da coloro che rimanevano a Madrid, ne stampò una copia al ciclostile, sistema piuttosto rudimentale, e glieli inviò prima di fare il suo ritiro spirituale. Due settimane dopo, uscito dai Redentoristi, trovò sul tavolo una cinquantina di lettere. Rispose con gioia, distribuendo consigli ai vacanzieri77.
Erano i primi giorni di agosto, in piena estate, quando don Josemaria girava per tutta Madrid con le persone rimaste a cercare case o appartamenti liberi. Alla fine trovarono una casa grande e ben situata, in grado di ospitare l’accademia e una residenza per studenti. Ma solo per cominciare a parlare con il proprietario erano imprescindibili 25.000 pesetas. Il sacerdote lanciò immediatamente una campagna di preghiere, scrivendo a destra e a manca. Tre sue lettere sono datate 5 agosto 1934 e in tutt’e tre si canta la stessa canzone; così scrisse a uno:
“Fa un triduo alla nostra Madre Immacolata, chiedendo venticinquemila pesetas, che ci occorrono subito. Qui stiamo pregando Dio e dandoci da fare, ma ci occorre la preghiera di tutti”78. E a un altro:“Senti, un favore: fa un triduo alla nostra Madre Immacolata perché, se è volontà di Dio, ci mandi le venticinquemila pesetas che ci occorrono per la Casa dell’Ange-lo Custode”79. E ad un terzo:“L’internato è necessario. Ci muoviamo, ma finora non ci sono soldi. Aiutaci: prega e fa pregare. Dobbiamo seccare nostro Padre-Dio. Tuttavia, benché sembra che dorma e non ci faccia caso, la Santissima Vergine ci aiuta... Riusciremo a completare la Casa dell’Angelo Custode! Non avere dubbi (...). Manolo, diventa bambino piccolo davanti al Tabernacolo e fa’ a Gesù questa preghiera, semplice, fiduciosa e audace... e perseverante: “Signore, vogliamo - per Te - venticinquemila pesetas contanti e sonanti” ”80.
561
Il 30 agosto don Josemarìa, accompagnato da Juan J. Vargas e da Ricardo F. Vallespìn, si recò al santuario del Cerro de los Angeles, vicino alla capitale. Durante il ringraziamento, dopo la Messa, gli si risvegliò quel suo istinto soprannaturale di ricorrere sempre alla Madonna. E lì consacrò POpera alla Santissima Vergine81.
Agosto fu un mese duro; lo annotava lo stesso giorno:
“Quante lacrime, in questo periodo, per i miei peccati e per la Casa dell’Angelo Custode! Visite, risposte negative, sembra chiuso l’orizzonte umano... Ma con Te, Gesù, nonostante la mia miseria, andremo avanti”82.
Si fecero calcoli minuziosi delle entrate e delle uscite dell’Accademia-Residenza. Furono poi prosciugati i conti correnti di Isidoro Zorzano e di José Maria G. Barredo e così a stento si riuscì a pagare la caparra e la prima rata di affitto di alcuni appartamenti in via Fer- raz 50: due al primo piano e uno al secondo. «Prendemmo possesso della casa ai primi di settembre - riferisce Vallespìn -. Furono fatti i lavori di muratura necessari per unire i due appartamenti e per mettere in uno dei bagni le docce per i futuri residenti; poi si cominciò ad ammobiliare» 83.
Prima di dare inizio ai lavori di muratura si trovarono con un pericoloso deficit di 15.000 pesetas. Don Josem arìa dovette di nuovo scrivere per chiedere aiuto. Tutte le lettere del 6 settembre hanno la stessa notizia di fondo.
“Siamo qui pieni di preoccupazioni” - raccontava a don Eliodoro Gii, un sacerdote amico -: “abbiamo preso in affitto una nuova casa in via Ferraz 50. Ci sono dei bei progetti di realizzazione immediata, molto fattibili, ma, dopo aver riunito il denaro, ci mancano15.000 pesetas, che non sappiamo da dove tirar fuori. Raccomanda molto la cosa nella S. Messa e nella tua preghiera”84.
562
E in un’altra lettera:
“Siamo pieni di preoccupazione per questo benedetto denaro (...). Non posso mentire: umanamente non vedo soluzione. Ma ci sarà una soluzione. Non è possibile tornare indietro. Orazione, orazione e orazione”85.
Solamente nella lettera al Vicario Generale, anch’essa del 6 settembre, si tace la pressione economica e le frasi scorrono terse e spensierate:
“Mio amato e venerato Signor Vicario, importuno ancora l’attenzione di V.E. per farle sapere, in primo luogo, il nuovo domicilio dell’Accademia DYA: via Fer- raz 50. Hanno preso in affitto tre appartamenti, uno per l’Accademia e due per la Residenza. La casa ha un ottimo aspetto. Fino alla metà del mese non faranno il trasloco”86.
È chiaro che don Josemaria cercava di chiudersi la ritirata. Poteva forse tornare indietro dopo aver notificato ufficialmente al Vicario il nuovo indirizzo dell’Acca- demia e della Residenza? Dio aveva l’ultima parola.
* * *
Intorno a queste date gli Appunti intimi presentano una notevole lacuna di diverse settimane, che si chiude con un “Povere caterine\ Quante cose tralascio di annotare!”87. Di fatto riprendono solo a novembre avanzato, rompendo il silenzio con questa sconcertante annotazione:
“20 novembre 1934. Ormai nella Casa dell’Angelo Custode - via Ferraz - scrivo oggi, finalmente, poche parole in queste Caterine. Scrivo per scrivere: sono tante le cose che dovrei segnare, che non ne scrivo nessuna”88.
Almeno erano già sistemati in via Ferraz. Nel frattempo si era risolto il problema economico che li aveva
563
fatti ammattire alcune settimane prima. Le cose erano andate così: il 16 settembre don Josemaria era partito da Madrid per Fonz, dove si trovavano la madre e i fratelli, allo scopo di proseguire le pratiche per la vendita delle proprietà che erano rimaste a loro in eredità dopo la morte di don Teodoro, avvenuta l’anno precedente. Il viaggio fu pittoresco, poiché il sacerdote condivise lo scompartimento del treno con una famiglia di Madrid che portava una scimmietta per rallegrare il viaggio. Il sacerdote, senza badare ai suoi compagni di viaggio, sfruttò il tempo impegnandosi a individuare chiese nel paesaggio: “Io mi dedicai - fin da Madrid - a uno sport divino: scrutare l’orizzonte per dire qualcosa a Gesù nei Tabernacoli del percorso”89.
Passò la notte a Monzón e il giorno successivo, giunto a Fonz, pensò che fosse arrivato il momento di esporre alla famiglia il problema economico e di parlare loro dell’Opera. Poi scrisse con grande gioia a quanti erano rimasti a Madrid, quasi si fosse tolto di dosso un peso dopo molti anni:
“Fonz, 17 settembre 1934.Gesù vi protegga. Sono arrivato questo pomeriggio, alle cinque. Ho parlato con la mamma e i miei fratelli: ho raccomandato molto la cosa a S. Raffaele... e ci ha ascoltati. Mia madre vi scriverà due righe. Domani andrò a Barbastro con mia sorella Carmen per sistemare tutto”90.
Tre giorni dopo spiegava loro, con dovizie di dettagli, quanto era accaduto in quel colloquio:
“Seguendo l’ordine cronologico, brevemente, vi voglio raccontare tutto ciò che ho fatto. Vedrete: un quarto d’ora dopo il mio arrivo in paese (scrivo da Fonz, anche se imbucherò questa lettera domani a Barbastro) ho parlato dell’Opera a mia madre e ai miei fratelli, a grandi linee. Quanto avevo importunato i nostri amici del
564
Cielo in vista di questo momento! Gesù ha fatto sì che andasse tutto molto bene. Vi dirò, letteralmente, che cosa mi hanno risposto. Mia madre: “Va bene, figlio mio, ma non ti frustare e non ti rovinare la salute” . Mia sorella: “ Me l’immaginavo e l ’avevo detto alla mamma” . Il piccolo: “Se tu hai dei figli..., devono avere molto rispetto per me questi ragazzi, perché io sono... il loro zio!” . Subito tutti e tre videro del tutto naturale che il loro denaro fosse utilizzato per l’Opera. E ciò - sia gloria a Dio! - con tanta generosità che, se avessero dei milioni, li darebbero ugualmente.
Adesso parliamo di quello sterco del diavolo che è il denaro: mia madre pensa di poter ricavare 35 o 40 mila pesetas (...).
In sintesi: domani scendo a Barbastro con Guitìn - da lì andrò a Monzón per chiamarvi, perché a Barbastro vengono a sapere tutto - e il Giudice mi ha promesso che l’I ottobre finiscono tutte la scartoffie, grazie a Dio.
Naturalmente, farò in modo che si venda martedì o mercoledì prossimo - prima è impossibile - e verseremoil ricavato (...).
Nel frattempo, perché non cercate di comperare dei mobili con il pagamento a 30 giorni o più, come si fa normalmente con le fabbriche?
Naturalmente, non mi muovo di qui senza il denaro, costi quel che costi!
Un’altra cosa: loro sono d’accordo che io dorma al- l’Accademia e mi porti là tutte le cianfrusaglie della mia stanza. Così portano con sé la donna di servizio che hanno qui, che altrimenti non potrebbero portarsi per la mancanza di una camera”91.
Quelli di Madrid cominciarono a cercare mobili e accessori domestici con grande entusiasmo in attesa dell’arrivo di don Josemaria, che adempì alla promessa di non ritornare senza il denaro. Ricevettero un’altra lettera da Fonz, nella quale si annunciava: “Mercoledì - o forse domani - vi potrò inviare un primo pizzico delle20.000 di cui abbiamo bisogno”92.
565
Al ritorno di don Josemaria si pose termine ai lavori. Ricardo, l’architetto, che sarebbe stato il direttore della Accademia-Residenza, dice che «la casa fu ammobiliatalo stretto indispensabile». Fu comperato il necessario per la cucina e le stoviglie; e fu acquistata a credito la biancheria da letto in un grande magazzino. Ma purtroppo, poiché il denaro era bastato solo per completare una camera a due letti, in uno dei locali vuoti furono ammucchiati per terra materassi, coperte, lenzuola, asciugamani e cuscini93.
Don Josemaria decise di benedire quanto prima la casa. Lo fece un pomeriggio, quando era già buio. Alla scarsa luce di qualche candela, poiché c’era un guasto elettrico nella casa, percorse i locali, irrorandoli abbondantemente di acqua benedetta:
“Avevamo biancheria che mi avevano dato a credito certi grandi magazzini, perché la pagassi non appena possibile. Ma non avevamo armadi per riporla. Sul pavimento stendemmo con cura della carta di giornale e sopra una gran quantità di cose (...). Mi ero portato dal Rettorato di Santa Isabel un secchiello con acqua benedetta e un aspersorio. Mia sorella Carmen mi aveva confezionato un rocchetto splendido (...). Mi ero portato da Santa Isabel anche una stola e un rituale e benedissi la casa vuota: con che solennità e gioia, con che sicurezza!”94.
Il 30 ottobre notificò per lettera al Vicario che il nuovo centro era già in funzione:
“Si è aperto l’anno alla DYA, e spero che saranno abbondanti i frutti soprannaturali, nonché di cultura e formazione cattolica, che si dovranno ottenere in questa Casa. Ho questa sicura speranza, perché i fondamenti del nostro lavoro sono l’orazione e il sacrificio: posso affermare - e non esagero - che questi nostri ragazzi sono eroici. Vedesse come lavorano in prima persona - assistenti universitari, stesi a terra; ingegneri che pitturano
566
pareti; avvocati, medici e studenti (di quelli che studiano) che fanno le veci dei falegnami - e come mettono a disposizione i loro risparmi per questo apostolato”95.
(Non esagerava. Uno degli apprendisti falegnami era uno studente di nome José Maria Hernàndez Gamica, per gli amici Chiqui. Lo presentarono a don Josemaria in pieno trambusto. Ed egli, senza troppi preliminari, lo invitò a parteciparvi: “ Salve, Chiqui; ben arrivato! Prendi questo martello e dei chiodi e vai a inchiodare là sopra...)”96.
Appena aperta 1 Accademia di via Ferraz, il Fondatore si trovò in mezzo a “grandi tribolazioni, interiori ed esteriori” , come vedremo subito. In quel momento il Signore lo conduceva avanti, “ servendosi di numerose avversità” , pur senza mai togliergli la serenità. (“ Quante preoccupazioni e quante notti in dormiveglia! Benché, in genere, dorma bene, perché la mia pace, grazie a Dio, è profonda e forte”, scrisse in una Caterina)97.
* * *
Le vicissitudini attraverso le quali era passata la Giurisdizione Palatina tennero don Josemaria in una permanente situazione di fatto, canonicamente instabile. Da tre anni era al servizio della Comunità delle Agostiniane. Esse apprezzavano la robusta vita interiore del cappellano, il quale, secondo l’espressione di suor Maria del Buen Consejo, era «un sacerdote che viveva di fede: era pieno di Dio». Il suo amore all’Eucaristia era tangibile quando portava la Comunione alle monache malate. Avviluppava con riverenza il portaviatico nel velo omerale, stringeva amorevolmente al petto il Santissimo Sacramento e percorreva in completo raccoglimento i corridoi della clausura. «A me don Josemaria faceva l’effetto di quei quadri che rappresentano S. Cristoforo che portava sulle spalle Gesù Bambino, e il suo peso lo faceva piegare», soggiunge suor Maria98.
567
Un giorno giunse all’orecchio della Comunità che don José Huertas Lancho, Rettore del Patronato di Santa Isabel, pensava di rinunciare alla carica. Di fatto era il cappellano, e non il Rettore, a prendersi cura delle suore, per cui queste ritennero giunto il momento di ottenere finalmente la nomina effettiva di don Josemarìa. E glielo comunicarono. Il sacerdote, però, si rifiutò di chiedere il Rettorato, perché il posto non era ancora vacante; ma la priora, suor Maria del Sagrario, non era disposta a rischiare che qualcun altro la battesse sul tempo. Pertanto, dopo aver consultato il resto della Comunità e il Vicario, il 4 luglio 1934 scrisse alla Direttrice Generale di Beneficenza una lettera di richiesta a favore del cappellano interinale:
«Precedo la rinuncia del Signor Rettore, perché tutti sanno già che se ne va e immagino che ci saranno dei sacerdoti che ne faranno richiesta; benché credo che Lei non procederà a concedere l’incarico sapendo che qui c’è uno che ha diritto alla nomina, tuttavia mi prendo la libertà di ricordarglielo, pregandola di perdonare se ciò turba la sua delicata coscienza.Con grande fiducia rimango la sua aff.ma, Suor Maria del Sagrario, Priora»99.
Il Rettore si assentò da Madrid e presentò la rinuncia formale all’incarico soltanto l’I ottobre. La macchina amministrativa si mise allora in moto e don Josemarìa, che non era intervenuto nella questione, scrisse al Vicario per informarlo che la richiesta della sua nomina a Rettore era un’iniziativa personale della Priora di Santa Isabel presso la Giunta dei Patronati: “Io non ho presentato istanza in questo senso, né penso di presentarla. Mi attengo assolutamente a ciò che Dio vuole, e del tutto agli ordini di V.S. Ill.ma” 100.
L’11 dicembre il Presidente della Repubblica firmavail decreto di nomina:
568
«Su proposta del Ministro del Lavoro, Sanità e Previdenza, e in conformità con quanto disposto nel decreto 14 febbraio 1934, nomino nell’incarico di Rettore del Patronato di Santa Isabel don José Maria Escrivà Albàs, Licenziato in Diritto Civile. Dato a Madrid, 11 dicembre 1934.Firmato: NICETO ALCALÀ-ZAMORA Y TORRES. Il Ministro di Lavoro, Sanità e Previdenza: ORIOL AN- GUERA DE SOJO»101.
La divulgazione della notizia, contrariamente a quanto ci si poteva attendere, non toccò minimamente don Josemarìa, perché “quasi fosse una conferma del nostro spirito, nascondersi e scomparire” , - egli commentò - “ il Signore fece in modo che i miei due cognomi venissero ignorati o sbagliati in tutti i giornali e nei notiziari radio” 102. Ma la cosa non finì lì. Quando il sacerdote passò al Ministero dell’interno a ritirare il documento di nomina, trovò che, senza chiedergli parere né dargliene comunicazione, qualche funzionario aveva già fatto la pratica amministrativa di presa di possesso dell’incarico in data 19 dicembre103.
Don Josemarìa sapeva che la presa di possesso di una carica ecclesiastica conferita dalle autorità civili richiedeva la preventiva autorizzazione del Vescovo. Quindi, dal Ministero andò direttamente al Vescovado a comunicare quanto accaduto al signor Vicario. Don Francisco Moràn gli fece i suoi rallegramenti, promise di sistemare le cose con il Vescovo e, saputo che presto sarebbero scadute le sue facoltà ministeriali, gliele prorogò immediatamente fino al giugno 1936104.
Il sacerdote non capiva il perché di tanta cortesia da parte del Vicario, finché la settimana successiva ricevette una lettera in cui il Vescovo di Cuenca lo metteva al corrente della posizione assunta dal Vescovo di Madrid a seguito delle informazioni che gli aveva dato il Vicario Generale. Ancora una volta ebbe la prova che dai
569
mali, vale a dire dalle maldicenze sulla sua persona, Dio ricavava dei beni; e annotò:
“Il Vescovo di Cuenca mi scrive e mi racconta che, a suo giudizio, il giorno in cui parlai dettagliatamente a don Moràn - dopo le insidie - il Vicario fece poi al Vescovo un tale resoconto, che si spiega il motivo della benevolenza del Vescovado nei nostri confronti. Laus Deo, che scrive diritto su righe storte!”105.
Quando, il 23 gennaio, si presentò di nuovo a salutare il Vicario, questi gli assicurò che poteva considerarsi legittimo Rettore e che gli veniva confermata la nomina, sebbene fosse politica di don Leopoldo non avallare mai in scriptis le nomine ecclesiastiche conferite dalle autorità civili, dato l’atteggiamento che queste tenevano contro la Chiesa dal 1931. Gli consigliò però di comunicare la nomina all’Arcivescovo di Saragozza. Suggerimento che egli mise in atto senza ritardo, ottenendo da Mons. Rigoberto Doménech questa burocratica risposta:
«Mio caro amico, riceva le mie più cordiali felicitazioni per la sua nomina a Rettore-Amministratore del Patronato di Santa Isabel, incarico nel quale le auguro le maggiori soddisfazioni e chiedo al Signore che le conceda il suo aiuto per disimpegnarlo con il massimo profitto. In pari tempo la ringrazio per le sue sincere e generose espressioni»106.
La risposta, pur cortese, sembrava lasciar trapelare un tono di studiata ambiguità, che forse aveva il significato di una disapprovazione. In quegli anni di persecuzione della Chiesa, accettare una nomina ecclesiastica dalle autorità civili equivaleva a collaborare con il nemico107.
Il sospetto di don Josemaria che dietro alla lettera gentile si celassero maldicenze di curia diventò certezza. E questo nonostante le spiegazioni date da Pou de Foxà
570
circa la nomina e la sua accettazione. Ciò che davvero si pensava negli ambienti clericali di Saragozza, il nuovo Rettore di Santa Isabel lo seppe più tardi, da una lettera del suo buon amico, il professore di Diritto romano: «Arrivò il signor Segretario - lo informava Pou de Foxà - il quale, parlando di te, perché io lo indussi a parlare con la sana intenzione di conoscere il suo criterio, mi disse che le cose della repubblica non stavano bene a un sacerdote, poiché equivaleva a significare che fosse d’accordo con essa»108. Frattanto la Comunità delle Agostiniane Recollette di Santa Isabel viveva santamente, estranea a scrupoli politici o ecclesiastici. Erano molto contente di averla avuta vinta.
4. L’Accademia-Residenza di via Ferraz
La politica della seconda Repubblica spagnola, settaria e aggressiva in materia religiosa, culminò nella cosiddetta “Legge sulle Confessioni e Associazioni Religiose” , del giugno 1933. Questa legge contribuì in modo decisivo ad esasperare i sentimenti di una nazione prevalentemente cattolica, mobilitando grandi masse di credenti. Fu così che, dopo la reazione popolare alle elezioni generali del 1933, fu creato un governo di centro, moderato. Di fronte alla disfatta elettorale, i socialisti e i gruppi marxisti e anarchici si diedero a una provocatoria belligeranza. Nell’ottobre 1934 scoppiò nelle Asturie un’insurrezione armata, che si trasformò in una guerra civile senza quartiere contro i poteri legalmente costituiti. Il governo dovette inviare l’esercito per sottomettere i rivoluzionari e la campagna dell’ “ ottobre rosso” fu lunga e sanguinosa. La “ Rivoluzione delle Asturie” lasciò dietro a sé una scia di martiri, sacerdoti e religiosi, e molte chiese bruciate o distrutte109.
Era scontato che l’anno accademico 1934-1935 dovesse trascorrere a scossoni, data la fragilità politica del
Paese. A causa della “Rivoluzione di Ottobre” , degli scioperi generali a Madrid e del rinvio dell’apertura delle aule universitarie, i residenti non comparivano. Si misero annunci sui giornali, ma tutto fu inutile110.1 calcoli finanziari, tanto laboriosamente ponderati mesi prima per fare un bilancio preventivo, vennero meno per mancanza di entrate. Arrivò Natale e in via Ferraz ci si trovò in un bell’imbroglio economico.
* * *
Molte e svariate furono certamente le difficoltà che don Josemaria dovette superare agli inizi del suo apostolato. Nei giovani studenti trovava un entusiasmo iniziale che poi non riusciva a calare in profondità e che rifuggiva da assumere impegni di una disciplina fatta di rinunce e di donazione. Per quanto si riferisce alle donne, l’assidua attenzione con cui faceva loro conoscere l’Opera eil suo spirito non andava oltre, per mancanza di tempo, alla direzione spirituale in confessionale. Diverso fu il caso dei sacerdoti. Si trattava, in buona parte, di persone di una certa età che, proprio per questo, avevano abitudini e comportamenti molto radicati. Per più di tre anni don Josemaria si era adoperato a fondo per infondere loro lo spirito giovane e soprannaturale dell’Opus Dei. A quanto pare, non arrivarono a comprendere del tutto don Josemaria e, di conseguenza, alcuni si mantennero a una certa distanza111. Ben presto il Fondatore si rese conto di questo allontanamento, che non proveniva da mancanza di affetto da parte dei suoi fratelli sacerdoti, ma dal fatto che non avevano preso un impegno chiaro di fare propria quell’impresa divina. Solamente don Somoano vi si era identificato; ma ben presto Dio se l’era preso con Sé.
Allo scopo di unire coloro che gli stavano più vicini, don Josemaria cercò di vincolarli formalmente. Cinque dei primi sacerdoti che lo avevano seguito s’impegnarono a vivere l’obbedienza e “ l’adesione completa all’au
572
torità dell’Opera” , in virtù di un “Impegno” fatto il 2 febbraio 1934112. Ma il loro comportamento lasciò molto a desiderare. Era evidente che il Signore disponeva le cose in modo tale che questi sacerdoti, pur essendo molto santi, quando si trattava di portare avanti il lavoro apostolico lasciavano solo il Fondatore. Così tutte le sue energie fisiche e tutta la sua volontà erano interamente spese nell’assecondare la spinta che il Signore imprimeva all’Opera113.
La creazione dell’Accademia-Residenza DYA in via Ferraz fu la prova del fuoco attraverso la quale dovettero passare coloro che seguivano don Josemaria. Il motto DYA (Dio e Audacia) era lo stendardo che inalberava il Fondatore, il quale, pieno di fede e di fiducia soprannaturale, si lanciava ben oltre le proprie possibilità umane. Andava al passo che Dio gli scandiva, con una fiducia e una fretta che, agli occhi di qualche sacerdote che collaborava con lui in quel lavoro apostolico, sembravano una colossale imprudenza. La decisione di don Josemaria, che pretendeva di montare immediatamente una Accademia-Residenza non avendo i mezzi necessari, appariva una pazzia evidente, un affare suicida. Era un’azione paragonabile - criticava uno di loro - “a chi si lancia da grande altezza senza paracadute, dicendo: Dio mi salverà”114. In fin dei conti, che cosa si guadagnava precipitando le cose? Non era meglio aspettare l’anno successivo per aprire l’Accademia-Re- sidenza con maggior preparazione?
Indubbiamente mancava loro audacia apostolica; e i criteri soprannaturali che il Fondatore applicava al compimento della sua missione divina non li capivano fino in fondo. Con la loro mancanza di fede stavano rallentando l’impeto che il Signore dava a tutta l’Opera, per mezzo del Fondatore, per il quale era giunto il momento di avere una residenza nella quale abitare con i propri figli per formarli. Così egli si esprimeva nella sua orazione:
573
“Signore, il ritardo per l’Opera non sarebbe di un anno... Non vedi, Dio mio, quale diversa formazione si potrà dare ai nostri avendo un internato, e quale maggiore facilità ci sarà ad avere nuove vocazioni?(...) Un anno? Non dobbiamo essere persone dalla visuale ristretta, minori di età, di vista corta, senza orizzonti soprannaturali... Lavoro forse per me? E allora!...”115.
Il motto “Dio e Audacia” fu la pietra di paragone che distingueva quanti erano disposti a seguire don Josemarìa da quelli che definivano imprudenti le sue av- _ venture apostoliche: mancavano forse di fede questi sacerdoti? O piuttosto avevano troppa prudenza umana? Monsignor Pedro Cantero, che conosceva il Fondatore e quei sacerdoti, risponde: «Non so se seppero essere all’altezza di ciò di cui il Padre aveva bisogno. L’orizzonte che apriva don Josemarìa era di tale ampiezza che lo poteva capire solo chi avesse davvero la virtù della magnanimità. Mi sembra che i ragazzi giovani, con la loro audacia, capissero meglio ciò che don Josemarìa doveva realizzare»116.
Da parte sua il Fondatore non tardò a rendersi conto del fatto che, affinché comprendessero nella sua integrità lo spirito dell’Opus Dei, i sacerdoti dovevano provenire - come più oltre si spiegherà - dalle file dei membri laici già formati nello stesso spirito117. Il Signore, evidentemente, si era servito degli eventi dell’Acca- demia-Residenza per purificare la sua anima, come espresse in una Caterina del gennaio 1935:
“Non è che non amino l’Opera e me - mi vogliono bene- ma il Signore permette molte cose, senza dubbio per aumentare il peso della Croce”118.
Nonostante le numerose contrarietà, interiori ed esterne, don Josemarìa si mantenne saldo, senza cedere nel suo proposito, con la sicurezza che il Signore lo avrebbe tolto dal pantano (“Perché non è cocciutaggi-
574
ne: è luce di Dio che mi fa sentire saldo, come su una roccia” )119. E siccome non era uomo da attendere i miracoli standosene a braccia conserte, ricorse con impeto all’orazione e alla penitenza; impeto che fu frenato dal suo direttore spirituale:
“Non mi consente grandi penitenze” - scrisse “Quello che facevo prima, niente di più, e due digiuni, il mercoledì e il sabato, e dormire sei ore e mezza, perché dice che se no nel giro di due anni sarò inservibile”120.
Per la questione economica aveva cercato chi lo aiutasse. Nel dicembre precedente, il giorno di S. Nicola di Bari aveva nominato questo santo Vescovo patrono dell’Opera per le questioni economiche121. Ricorse anche a S. Giuseppe con una messa votiva di ringraziamento per i molti doni del passato... e per quelli che si attendeva ora, per risolvere il futuro dell’Accademia122.
* * *
Da quando gli Escrivà avevano lasciato l’appartamento di via Martmez Campos per trasferirsi nei locali di Santa Isabel, don Josemaria teneva un piede nel Patronato e l’altro in via Ferraz. Era obbligato a stare attento soprattutto alla Residenza, dove i problemi di servizio e amministrazione erano continui. Era abituale che alla fine del mese non ci fosse il denaro per pagare gli affitti degli appartamenti, o il conto del macellaio, o del panettiere, o del droghiere. Vivevano in parte di credito quanto alla fornitura dei generi commestibili; per quanto riguarda gli affitti, il sacerdote andava a trovare il proprietario, il signor Javier Bordiu, pregandolo di pazientare per il ritardo... «Io soffrivo - racconta Ricardo, il direttore -. Qualche volta ho pianto e le mie lacrime cadevano sul libro dei conti»123.
Se per qualsiasi motivo Ricardo doveva assentarsi don Josemaria restava in direzione fino a sera tardi. In
575
queste occasioni lasciava la Residenza ad ore avanzate, per andare a Santa Isabel. Nelle notti oscure d’inverno, pensando ai pericoli che correva un sacerdote solitario per le stradine di Madrid, i suoi familiari lo aspettavano con ansia a Santa Isabel prima di coricarsi. Stavano di vedetta dietro i vetri, finché lo vedevano comparire avvolto nel mantello in fondo alla strada. Con il tempo ci fecero quasi l’abitudine, benché la signora Dolores continuasse a restare con l’animo sospeso124.
Di fronte alle avversità degli ultimi mesi, don Josemarìa arrivò a convincersi, come Giona, di essere di disturbo al progresso dell’Opera, e confessava: “È dei miei peccati, della mia ingratitudine, la colpa delle tribolazioni che soffriamo” . Allora dentro di lui irrompeva un grido: “Signore, castiga me e dà impulso all’Opera” 125.
E trovò il rimedio nella penitenza. (Nonostante che affermi che il suo direttore non gli consentiva “grandi penitenze” , per non ridursi inservibile in un paio d’anni, è un fatto che gli aveva permesso digiuni, cilici e discipline nei giorni di lunedì, mercoledì e venerdì)126. Padre Sànchez gli controllava le mortificazioni corporali quanto alla frequenza; ma come poteva calibrare l’intensità o i modi delle discipline? La signora Dolores invece sì che era al corrente di quanto fosse aspra la sua penitenza, come testimonia il suo commento quando suo figlio le parlò per la prima volta dell’Opera nella famosa riunione familiare a Fonz. Persino suo fratello sapeva che si “ ciliciava” \ Gli Escrivà erano disposti a cedere generosamente all’Opera l’eredità di don Teodoro. La madre gli fece solamente una richiesta: “ma non ti frustare e non ti rovinare la salute” 127. (Le sferzate delle discipline che il figlio scaricava sulle proprie carni erano un martirio per la sensibilità della madre, che ne udiva il rumore. Era impossibile evitarlo nella casa di via Martmez Campos e poi in quella di Santa Isabel, per quanto don Josemarìa aprisse i rubinetti per farne uscire rumorosi getti d’acqua. E benché ripulisse con
576
cura la stanza da bagno dopo l’operazione, non sfuggivano agli occhi perspicaci della madre le piccole macchie di sangue rimaste sul pavimento o sulle pareti)128.
Appena potè, si portò le discipline nella Residenza. Toccò allora a Ricardo udire le sonore scudisciate: «Il Padre, non so con quale frequenza, si chiudeva nella stanza da bagno e cominciava a darsi colpi con la disciplina. Ho visto, per una disattenzione del Padre, che quelle discipline non erano come quelle che utilizzavamo noi, fatte solo di corda. Quelle del Padre avevano dei ferri, non so esattamente se fossero dei chiodi, dei dadi, o altro, ma sono sicuro che fossero dei pezzi di ferro. Il Padre non sapeva che io udivo i colpi, e io mi arrabbiavo, mi tappavo le orecchie per un bel po’, ma i colpi continuavano secchi: pam, pam, pam... Sembrava che non dovessero finire mai. Non osavo dire nulla al Padre, ma dopo che se n’era andato, entrando in bagno, vedevo che erano state discipline di sangue e che, pur essendone state accuratamente ripulite le tracce, trovavo qualche punto della parete di piastrelle punteggiato di rosso (...). Avrei dato qualunque cosa per non vedere né udire le prove di quelle penitenze»129.
Continuavano a echeggiare le critiche allarmistiche di qualche sacerdote che collaborava con don Josemaria: l’Accademia era “un fallimento; per qual motivo mi dovrei aspettare che Dio mi faccia un miracolo. La catastrofe! I debiti!” 130.
Don Josemaria non perse la serenità. Chiese a padre Sànchez e a don Pedro Poveda se mai avesse commesso una grave imprudenza. Entrambi lo incoraggiarono: era, indubbiamente, una prova del Signore131.
Fu così che il 21 febbraio, senza dire nulla ai sacerdoti, riunì tre dei suoi e propose loro una soluzione temporanea alla situazione economica: fare a meno di un piano e portare l’Accademia DYA a quello della Residenza, dove c’era spazio in abbondanza. L’anno accademico successivo sarebbe arrivata l’espansione, il mo
577
mento in cui sarebbe scattata la molla compressa e avrebbero recuperato quanto lasciavano in quel momento132. Fu comunicata la decisione a quelli che stavano fuori di Madrid. Tutti reagirono con fede e ottimismo: «Ci comprimiamo ora affinché in questo periodo embrionale possiamo acquisire la necessaria elasticità, a modo di molla, per fare a suo tempo il grande salto della tigre», scriveva Isidoro da Malaga133.
Per don Josemaria, l’abbandono del piano equivaleva a una “apparente ritirata strategica” 134, mentre per alcuni dei suoi sacerdoti era una prova evidente del fallimento. Per questo, e con i precedenti dei mesi trascorsi, decise la sua futura norma di comportamento nei loro confronti: “ Cercherò di tirarne fuori il meglio, fino a vedere se maturano nello spirito dell’Opera” . Quindi seguì con loro una prudente tattica di tira e molla. Ben sapeva perché non reagivano. (“Hanno poca visione soprannaturale e uno scarso amore per l’Opera, che per loro è un figlio posticcio, mentre per me è anima della mia anima)” 135.
L’atteggiamento vacillante del gruppo di sacerdoti fu, per mesi, una costante preoccupazione per don Josemaria. Benché li avesse chiamati all’Opera come collaboratori e fratelli, furono invece un peso. Alcuni di essi avevano preso poche settimane prima un impegno di obbedienza, allo scopo di rafforzare l’autorità di governo del Fondatore. Ma il loro comportamento fu molto diverso da quello che ci si poteva attendere. Il Fondatore, sotto l’effetto di questo amaro cruccio, disse qualche volta che essi erano stati la sua “corona di spine” . L’atteggiamento negativo che assunsero li allontanò dallo spirito dell’Opera. Il 10 marzo egli dovette registrare un fatto penoso: “Da alcuni giorni non è possibile tenere la Conferenza sacerdotale, che si svolgeva ogni settimana dal 1931 ” 136.
A partire da allora le sue relazioni con i sacerdoti dell’“ impegno” del 1934 si fecero poco meno che inso
578
stenibili e, oltretutto, gli cadde addosso la croce delle mormorazioni. Gli amici lo consigliarono di disfarsi di quel gruppo di sacerdoti, ma don Josemaria preferì chiedere loro una collaborazione sacerdotale, senza peraltro consentire, da quel momento in poi, che intervenissero negli apostolati dell’Opera. Tale fu la linea che decise nel 1935:
“Senza seguire il consiglio di Padre Sànchez e di Padre Poveda (tacito, il primo; fin troppo esplicito, il secondo) di cacciare i sacerdoti, per i motivi che la carità mi impedì a suo tempo di indicare nelle Caterine, poiché vedo le virtù di tutti e l’innegabile buona fede, ho optato per il termine medio di sopportarli, ma al di fuori delle attività proprie dell’Opera, usufruendo, quando è necessario, del loro ministero sacerdotale”137.
Don Josemaria non poteva contraddire il dettato del proprio cuore. Sentiva per quei sacerdoti un affetto particolare e avrebbe poi sparso lacrime di ammirazione e di santa invidia, poiché diversi di loro morirono martiri di lì a pochi mesi. In tutta la sua vita si diede da fare per i sacerdoti diocesani, perché non si trovassero soli o mancassero della dovuta cura spirituale. E una delle più grandi gioie del Fondatore fu che i sacerdoti diocesani con il tempo poterono incorporarsi al- l’Opera, formando parte della Società Sacerdotale della Santa Croce.
ì 'r i l-
Il 19 marzo 1935, festività di S. Giuseppe, fu un gran giorno. Quel 19 marzo irruppero nel cuore del Fondatore tutte le amarezze degli ultimi mesi: le difficoltà materiali, l’apparente fallimento apostolico, le critiche e l’insubordinazione dei sacerdoti: “ Che tu sia benedetto, Gesù, che non fai mancare a questa fondazione il sigillo regale della Santa Croce!” . In questa Caterina del 20
579
marzo, che sintetizza le pene del giorno precedente, ricordava una lezione definitivamente impressa nella sua memoria anni addietro, quando aveva annotato:
“Gesù mi ha sempre voluto per Sé - un giorno lo spiegherò con calma - e per questo mi ha sciupato tutte le feste, ha messo fiele in tutte le mie gioie, mi ha fatto sentire le spine di tutte le rose del cammino... E io, cieco: non vedevo, finora, la predilezione del Re che per tutta la mia vita ha impresso nella mia carne e nel mio spirito il sigillo regale della Santa Croce”138.
Per la prima volta ebbe luogo, quel 19 marzo, l’incorporazione definitiva all’Opera delle vocazioni già consolidate. Volendo evitare malintesi e per evidenziare che non si trattava di fare voti o promesse come i religiosi, il Fondatore spiegò loro in che cosa consistesse: “ Consiste - senza voti né promesse di alcun genere - nel dedicare per sempre la vita all’Opera” . L’incorporazione, che si fece davanti alla povera croce di legno del futuro oratorio della Residenza, fu designata con il nome di “Schiavitù” , mutato in seguito in “Fedeltà” 139. La cerimonia era simbolicamente completata dalla consegna di un anello che portava incisa, all’interno, la data e la parola “serviam” (servirò). E allo scopo di sottolineare fino a dove arrivava la responsabilità della donazione, don Josemaria domandava, uno per uno, a coloro che avevano già fatto la “Fedeltà” :
“Se il Signore si prendesse la mia vita prima che l’Opera abbia le necessarie approvazioni canoniche che le diano stabilità, tu continueresti a lavorare per portare avanti l’Opera, anche a costo dei tuoi averi, del tuo onore e della tua attività professionale, mettendo, in una parola, tutta la tua vita al servizio di Dio nella sua Opera?”140.
I giorni che seguirono alla festa di S. Giuseppe furono di grande attesa. Già da tempo tutti si stavano pre
580
parando all’arrivo del Santissimo (del “Residente” per eccellenza, come lo chiamava don Josemarìa, con la viva speranza di averlo in casa). Avere un tabernacolo in casa era stata la ragione principale dell’abbandono di via Luchana. E fu senza dubbio il demonio che, davanti a così grande evento, mise degli ostacoli: “Il demonio mette degli ostacoli per ritardare la venuta di Gesù nel Tabernacolo di questa Casa” , si legge in una Caterina141. Quando egli era sul punto di chiedere il decreto di erezione dell’oratorio, si ammalò il Vicario Generale. Ma il 2 marzo, ristabilitosi il Vicario, don Josemarìa lo informava sui ritiri mensili e su una catechesi che svolgevano nella Colonia Popolare e terminava la lettera con una chiara allusione: “Penso che Gesù sarebbe molto contento, in mezzo a questa sua com briccola, se avessimo un vero oratorio con il Tabernacolo ” 142. Il 13 marzo presentò un’istanza al Vicariato, in cui ne faceva richiesta.
Destinarono all’oratorio il miglior locale dell’appartamento. Riuscirono ad avere un altare portatile e, come pala d’altare, un quadro con la cena di Emmaus. Trovarono anche il tabernacolo, gli ornamenti e i candelabri, alcune cose regalate, altre in prestito. Don Josemarìa, nel frattempo, aveva premura che venisse l’O- spite: “ Gesù, verrai presto nella tua Casa dell’Angelo Custode, nel Tabernacolo? Ti desideriamo!” 143. Alla vigilia di S. Giuseppe non aveva ancora ricevuto risposta all’istanza in cui chiedeva un oratorio semipubblico144. Dovevano ancora procurarsi diversi oggetti, come le ampolline, la campanella, la palmatoria, il piattino per la Comunione, ecc. Don Josemarìa ne fece un elenco elo conservò, chiedendo a S. Giuseppe che qualche anima caritatevole ne facesse dono. Grande fu la sorpresa quando, la vigilia stessa della festa, il 18 marzo, il portiere portò di sopra un pacchetto che gli aveva consegnato un signore. Apertolo, il sacerdote vide che conteneva tutto quello che mancava, esattamente gli ogget
581
ti enumerati nell’elenco. Cercarono di identificare il donatore. Il portiere non seppe dare altra indicazione che questa: era stato un signore con la barba. Non poteva essere più precisa la risposta di S. Giuseppe alle sue preghiere. Consapevole di questo, in ringraziamento del favore, che consentiva la presenza di Gesù Sacramentato nella casa, egli decise che in tutti i futuri centri dell’Opera la chiave del tabernacolo avrebbe avuto una catenina e una medaglia con la scritta Ite ad loseph, patriarca del Nuovo Testamento e custode della chiave del Pane degli Angeli145.
“Finalmente!... Gesù viene a vivere con noi. Et omnia bona pariter cum eo..., e tutto il bene verrà pure con Lui”, annunciava con gioia il sacerdote nella lettera del 30 marzo a José Maria G. Barredo146.
Il 31 marzo, con l’oratorio pieno di giovani, don Josemaria celebrò la Messa con una pianeta bianca, con l’altare adornato di fiori e le candele la cui altezza risaliva a scala verso il Crocifisso posto sopra il tabernacolo. Prima di distribuire la Comunione rivolse alcune parole di ringraziamento al nuovo “Residente” . E, con la gioia di avere in casa il Signore, si dimenticò della lunga serie di sacrifici e scrisse al Vicario: “È stata celebrata la Santa Messa nell’Oratorio di questa Casa, ed è stato riservato Sua Divina Maestà, compiendo pienamente i desideri di tanti anni (dal 1928)” 147.
È sorprendente come, da questa data, il clima della Residenza apparisse cambiato, più familiare. Nei pomeriggi del sabato in via Ferraz c’era grande animazione. Il sacerdote dava una meditazione agli studenti e la benedizione con il Santissimo. Poi si faceva una colletta per “ i fiori della Madonna” 148. Parte del denaro raccolto serviva per i fiori necessari all’altare, parte per le elemosine ai poveri derelitti del suburbio. (Ci si occupava anche dei “poveri della Vergine” ,
582
gente caduta in miseria, poveri che si vergognavano e con dignità nascondevano la fame e le sofferenze. A questi si portava, oltre alla consolazione di una visita, un regalo qualsiasi, un dolce o un libro che non avrebbero mai potuto comprare).
Le catechesi della domenica aumentarono. Fu necessario organizzare due ritiri mensili. Cominciò una lezione per operai a Carabanchel... Era verissimo quello che diceva don Josemaria: “Da quando abbiamo Gesù nel Tabernacolo di questa Casa, si nota in modo straordinario che la Sua venuta ha comportato una maggior estensione e intensità del nostro lavoro” 149.
}[-
L’anno precedente Ricardo F. Vallespin aveva patito un attacco di reumatismi, così acuto che, se si fosse prolungato, gli avrebbe impedito di presentarsi a un esame della Scuola di Architettura. Mosso dall’amore per la Madonna, egli aveva fatto allora una promessa che consisteva nel recarsi a piedi da Madrid ad Avila se fosse guarito e avesse superato l’esame: e così accadde. Ma quando lo raccontò a don Josemaria faceva già parte dell’Opera e il Fondatore lo dispensò dal compimento della promessa. Avvicinandosi la fine dell’anno accademico e potendo contare in via Ferraz su un buon numero di giovani, dai quali attendeva vocazioni e residenti per l’anno successivo, don Josemaria fece propria l’idea di Ricardo. Voleva ringraziare la Madonna in un modo speciale per i favori che avevano ricevuto durante l’anno. Sarebbe andato il 2 maggio al santuario di Sonsoles, in compagnia di Ricardo e di José Maria G. Barredo.
“Deciso il viaggio a Sonsoles, volli celebrare la Santa Messa nella Residenza prima di intraprendere il viaggio per Avila. Nella Messa, durante il memento, con molta forza - non era tutta mia - chiesi al nostro Gesù che accrescesse in noi - nell’Opera - l’Amore per Maria e che
583
questo Amore si traducesse in opere. Sul treno, senza volerlo, ripensavo allo stesso tema: la Madonna è senza dubbio contenta del nostro affetto, cristallizzato in consuetudini virilmente mariane: una sua immagine, che i nostri portano sempre; il saluto filiale entrando e uscendo dalla stanza; i poveri della Vergine; la colletta del sabato; omnes ad Jesum per Mariam; Cristo, Maria, il Papa... Ma nel mese di maggio ci voleva qualcosa di più. Allora, pensai alla “romena di maggio” : abitudine che deve essere istituita - lo è già - nell’Opera”150.
Senza entrare nella città di Avila, s’incamminarono direttamente verso il santuario. Da lontano si vedeva il santuario in cima al pendio. Recitarono una parte di rosario mentre salivano, un’altra parte all’interno, davanti all’immagine della Madonna, e la terza parte mentre ritornavano alla stazione di Avila. Da alcuni particolari della romena il sacerdote trasse argomento per fare ai suoi delle considerazioni sulla perseveranza:
“Da Avila” - raccontava - “vedevamo il Santuario ma, com’è logico, giunti alla base del monte la Casa di Maria scomparve ai nostri sguardi. Abbiamo commentato: così molte volte fa Dio con noi. Ci mostra chiaramente il fine e ce lo fa contemplare per rassicurarci nel cammino della sua amabilissima Volontà. Ma, quando siamo già vicini a Lui, ci lascia nelle tenebre e apparentemente ci abbandona. È l’ora della tentazione: dubbi, lotte, oscurità, stanchezza, voglia di sdraiarsi per via... Ma no: avanti. L’ora della tentazione è anche l’ora della Fede e dell’abbandono filiale nel Padre-Dio. Via i dubbi, i vacillamenti e le indecisioni! Ho visto il cammino, l’ho intrapreso e lo continuo. Sempre più su - coraggio! - ansimando per lo sforzo; ma senza fermarmi a raccogliere i fiori che a dritta e a manca mi offrono un momento di riposo e l’incanto del loro aroma e dei loro colori... e del loro possesso; so molto bene, per amara esperienza, che è cosa di un istante coglierli e vederli inaridire; e non ci sono in essi, per me, né colori, né aromi, né pace”151.
584
In ricordo della romena, don Josemarìa conservò in un cofanetto un pugno di spighe, come simbolo e speranza di fecondità apostolica del mese di maggio152.
* 51- 55-
L’Accademia-Residenza riprendeva forze, quando gli giunse l’eco di calunnie e mormorazioni. Un giorno il figlio del proprietario di via Ferraz raccontò a don Josemarìa che qualcuno aveva detto a suo padre:
“ “Perché avete affittato i vostri appartamenti alla DYA, che è una cosa dei massoni” ? “Caspita!- gli aveva replicato questi - non sapevo che i massoni recitassero ogni giorno il rosario così devotamente” ”153.
(Dal suo appartamento, il signor Bordili udiva i residenti recitare insieme il rosario).
Poi seppe che l’amico di uno studente che frequentava la Residenza si era rifiutato di entrare in casa perché aveva sentito dire: “ Questo don Josemarìa è matto” 154. Le calunnie si divulgarono rapidamente fra il clero di Madrid. In un’annotazione del 7 marzo, scrisse sugli Appunti: “Prosegue l’attacco insidioso contro l’Opera” . Alcuni giorni prima aveva incontrato un sacerdote che conosceva appena, che gli aveva chiesto:
““Come va quest’opera?”“Quale opera?”, gli replicò don Josemarìa.“L’accademia che avete”. “L’accademia, dove lavoro, è di un architetto, professore della Facoltà di Architettura””.“E la massoneria bianca?”, continuò quello con insistenza.“È calunnioso questo paragone”, rispose indignato allo scriteriato. “Lì non c’è nulla di nascosto e non dobbiamo nascondere nulla: non ci sono segreti né misteri. Un gruppo di giovani, che studiano molto e cercano di vivere da buoni cristiani..., e che quindi non meritano di essere offesi con insidiose affermazioni” ”155.
585
Esplosero i pettegolezzi. Un “ santo sacerdote logorroico” , scrisse don Josemaria negli Appunti, si scandalizzò della croce di legno dell’oratorio, perché non aveva il Crocifisso156. Matti, massoni, eretici. Veniva così impiantata, fin dal 1935, la semente delle calunnie contro l’Opera.
5. “ Padre, maestro e guida di santi”
L’estate del 1935 fu per don Josemaria una lunga e continua giornata di lavoro. Con l’aiuto di quanti erano rimasti a Madrid preparò e inviò i fogli di “Notizie” a chi stava in vacanza. Iniziò due gruppi di lezioni di formazione spirituale e non interruppe i ritiri mensili che dava agli studenti.
Nel mese di luglio, inatteso regalo dall’alto, gli vennero due vocazioni: due giovani che con il passare del tempo sarebbero stati tra i primi sacerdoti dell’Opera. Uno era Alvaro del Portillo, lo studente che a Vallecas aveva subito una terribile ferita al capo, riuscendo poi a fuggire in metrò. In marzo aveva conosciuto il sacerdote di via Ferraz e aveva pensato che sarebbe stato scortese andare in vacanza senza salutarlo. Sabato 6 luglio si presentò nella Residenza. Don Josemaria lo invitò al ritiro che avrebbe avuto luogo il giorno successivo. Quella domenica gli spiegarono per la prima volta in che cosa consisteva l’Opera e nello stesso giorno chiese di esservi ammesso157. L’altro era Chiqui, quello che era passato direttamente dalla presentazione al piantare chiodi sull’alto di una scala.
Il Fondatore era disfatto per lo strapazzo fisico e morale al quale era stato sottoposto per tutto l’anno accademico, ma si rianimò davanti alla prospettiva di ottenere nuove vocazioni. Aveva riposto le sue speranze nel successivo anno accademico e voleva evitare che le circostanze lo cogliessero di sorpresa, come nel 1934.
586
“L’Opera va bene. Qui si vede D io”158, scriveva alla fine di agosto al Vicario. Ma lunghi mesi di tensione e di fatiche accumulate finirono con il minare la salute di quanti erano impegnati nel dirigere la Residenza. Il primo che finì con il soccombere alla stanchezza fu Ricardo, il direttore: dovette stare a letto nel mese di agosto159. Don Josemaria, più incallito e resistente - ma anche più esausto -, trascinò come potè la sua stanchezza fino a settembre, quando andò a fare un ritiro spirituale dai Redentoristi di via Manuel Silvela. Alcuni mesi prima don Francisco Moràn, notandone lo sfinimento, gli aveva offerto alcuni giorni di riposo in una tenuta di sua proprietà, a Salamanca160. Ma don Josemaria non potè accettare.
Nel pomeriggio di domenica 15 settembre si recò al convento dei Redentoristi. Era così distrutto che il corpo non gli rispondeva. Probabilmente, da quello che scrisse poi, era più di un anno che non dormiva sette ore di seguito:
“Lunedì: sono le nove e un quarto del mattino e ancora non posso dire di aver cominciato i santi esercizi. Ieri sera ero disfatto: ho dormito dalle undici alle sei e mezza!(...) Ho vomitato parte del pasto. Sono debolissimo.(...) Non ho fatto niente (oggi non ho ancora fatto la disciplina: la farò prima di coricarmi) e sono sfinito, come se mi avessero bastonato. Forse faccio male a prender nota di aspetti fisiologici. Ma il fatto è che ora mi stenderei dovunque, anche in mezzo alla strada come un barbone, per rialzarmi solo dopo quindici giorni”161.
Fece il suo primo proposito, che consisteva nel dormire per terra e per non più di sei ore:
“Martedì. Ho dormito per terra stupendamente (...). Poiché devo dire tutto, mi accuso di pigrizia. Addio ai propositi di ieri! Alle cinque del mattino si è messa a
587
suonare una campana da cattedrale capace di svegliare un sordomuto (...). Alle sei, forte come un sansone chiomato, e debole come un bambino per servire il mio Dio, mi sono alzato dal soffice letto. Mi sento stupendamente. Ergo..., all’asinelio, niente delicatezze: bastonate!”162.
Benché lontano da via Ferraz, il suo cuore vegliava su coloro che erano rimasti nella Residenza, sostenendoli con la sua preghiera e le sue mortificazioni: “ Come mi ricordo di questi miei figli!” , scrisse nel suo ritiro. “Oggi, alle otto, ci sarà 1 ’“ emendatio” (Circolo Breve) come al solito. Alle otto in punto farò la disciplina per loro” 163.
Il giovedì Ricardo andò al convento a consegnargli una lettera. In quel momento il sacerdote si rese conto che gli scoppiava il cuore di gioia e che voleva bene ai suoi ragazzi con tutta l’anima. Non l’aveva forse notato fino ad allora?
si- * *
Le persone dell’Opera, in maggioranza studenti, avevano sempre visto don Josemarìa con la veste talare. L’unica eccezione era Isidoro: avevano la stessa età ed erano stati compagni di scuola a Logrono. Nel 1930 nacque fra di loro una nuova amicizia, quando Isidoro venne ammesso nell’Opera. Ma la condizione di uguaglianza nei rapporti, mentre conduceva a un più profondo affetto umano, non potè impedire il sorgere di una impalpabile distanza spirituale, che finì per rendere inevitabile un rapporto diverso. Il cambiamento si nota nelle lettere che si scambiarono Isidoro e don Josemarìa durante quel periodo e, più chiaramente, nelle formule di saluto e di commiato.
Negli anni dal 1930 al 1932 le formule abituali di Isidoro erano: «Mio caro amico José Maria» e, nei commiati: «Ricevi un abbraccio dal tuo buon amico»164.
In un secondo periodo, nel 1933, le espressioni che
588
usava correntemente non erano solo amichevoli, ma fraterne: «Mio caro fratello José Maria», oppure «Mio caro amico e fratello»; e la formula di commiato: «Ricevi un abbraccio dal tuo vecchio amico e fratello», oppure «Ti abbraccia fraternamente»165. A partire dal maggio 1934 compare una nuova formula di apertura: «Mio caro Padre José M aria»166.
Invece, l’apertura e il commiato delle lettere di don Josemaria non si assoggettavano a una formula determinata, anche se avevano sempre un tono di caldo affetto:
“Madrid, 1-III-1931. Carissimo Isidoro (...). Ti raccomanda al Padrone e ti abbraccia fraternamente José Maria” .
E due giorni dopo:
“Madrid, 3-III-1931. Carissimo Isidoro (...). La mia benedizione di sacerdote e di Padre, con un forte abbraccio, a nome di tutto il manicomio. José Maria”167.
Tre anni dopo, la “fraternità” è stata definitivamente soppiantata e sostituita, in tutta la sua corrispondenza, da una crescente “paternità” : “A tutti la benedizione di vostro Padre, che non vi dimentica e vi chiede preghiere. José Maria” (lettera dell’l-VI-1934)168. Questa paternità spirituale e di famiglia, che fiorì nella primavera del 1934, segue a un’annotazione degli Appunti:
“Domenica, 11 marzo 1934 (...). Nell’Opera di Dio non ci sono speciali onori. Il Padre Presidente dell’Opera verrà chiamato semplicemente così: Padre. Senza reverendo, né illustrissimo, né altro”169.
Fin dagli inizi il Fondatore sentì la vocazione di paternità: “ Gesù non mi vuole sapiente di scienza umana. Mi vuole santo. Santo e con cuore di padre” 170. Queste
589
considerazioni sono in una Caterina del 1931. E nel 1933, chiedendo il permesso di inasprire le proprie penitenze, esortava il suo confessore con queste parole: “ Guardi che Dio me lo chiede e inoltre è necessario cheio sia santo e padre, maestro e guida di santi” 171.
Non gli era facile chiamare figli i membri dell’Opera;lo faceva arrossire, lui che si era dato per motto “nascondersi e scomparire” , e si rifugiava nella semplice risorsa della fraternità, come confessava egli stesso:
“Fino all’anno 1933 mi causava una sorta di vergogna il fatto che tutte queste persone mi chiamassero Padre. Perciò io li chiamavo quasi sempre fratelli, invece che figli”172.
D’altra parte, la sua giovinezza gli creava difficoltà. Era sui trent’anni e pretendeva di essere capofamiglia di gente - sacerdoti o laici - che avevano la sua stessa etào erano più anziani? Molte volte recitò una sua giaculatoria: “Dammi, Signore, ottant’anni di gravità!” 173. Dopo un po’ di tempo, notò che il suo carattere acquisiva, a poco a poco, un tocco di serietà. Le barzellette, le risate, la sana giovialità erano pur sempre cose che gli piacevano. Tuttavia questo lecito piacere, con un sottofondo di frivolezza o di festosità, a volte si tramutava in amarezza, causandogli un cattivo sapore in bocca. “E Gesù” - pensava - “che impone ottant’anni di gravità sul mio povero cuore, troppo giovane” 174. Il sacerdote vigilò sui propri detti e parole nella conversazione. Cercò di controllare i propri gusti e i modi in pubblico. Si sforzò di evitare qualsiasi mancanza di misura. Si controllò persino nel modo di camminare. Non era disposto, tuttavia, a rinunciare alla vita di infanzia spirituale a favore della gravità degli anziani. Cercò allora di trovare una formula che mettesse insieme questi termini diversi. “ Gesù” - chiedeva - “voglio essere un
590
bimbo di due anni, con ottanta inverni di gravità e sette catenacci nel mio cuore” 175.
Ma nel 1934 cominciò a cambiare idea quanto alla gravità: “La gravità: Gesù aveva, quando è morto in croce, trentatré anni. La giovinezza non mi può servire di pretesto. Inoltre, ormai sto finendo di essere giovane” 176.
Quanto ai “ sette catenacci” , era qualcosa che veniva considerando da tempo, fin da quando era stato nel convento di S. Giovanni della Croce e aveva messo per iscritto le proprie considerazioni:
“La santa purezza: umiltà della carne. Signore, sette catenacci per il mio cuore! Sette catenacci e ottantanni di gravità. Non è la prima volta che ascolti questa mia richiesta (...). Il mio povero cuore è ansioso di tenerezza”177.
La sua vita affettiva, traboccante di gioia e copiosa, si accordava malamente con gli “ottanta inverni di gravità” . Pretendeva di ingabbiare i sentimenti nello stesso modo in cui si sforzava per dare misura al comportamento. Tutto inutile. Il cuore gli sfuggiva: impossibile contenerlo. L’intensità dei suoi battiti gli incuteva timore. Finché il Signore gli fece vedere che quella traboccante tenerezza era destinata a Lui e, per Lui, ai suoi figli, e che nel suo petto esisteva una vena inesauribile di affetto, limpido e paterno. Lo scoprì il 19 settembre, quando Ricardo venne dai Redentoristi a consegnargli una lettera:
“Venne Ricardo, come ho detto, e vederlo mi diede una grande gioia. Voglio bene ai miei ragazzi con tutta la mia anima. E la mia volontà è di avere sempre per loro questo affetto, per Cristo. Tuttavia, questo pomeriggio ebbi diverse volte lo scrupolo che questo affetto (che naturalmente è più intenso nei confronti dei figli miei che vedo più dediti all’Opera) potesse dispiacere a Gesù. Un momento fa Gesù mi ha fatto vedere e sentire che non
591
gli dispiace: perché ad essi voglio bene per Lui; e perché, pur volendo tanto bene a loro, a Lui voglio bene milioni di volte di più”178.
Accanto alla funzione di Padre - che aveva assunto “con la piena coscienza di stare sulla terra solo per realizzarla” 179 - il Fondatore si sentiva chiamato a essere “maestro e guida di santi” . Avrebbe intrapreso la via del magistero e della sapienza, cercando di emergere negli studi e avere una cattedra? Oppure avrebbe sacrificato questo nobile desiderio? Dopo averlo meditato, diede la risposta al direttore spirituale: “Il mio cammino è il secondo: Dio mi vuole santo e mi vuole per la sua Opera” 180.
* ir
L’anno accademico 1935-1936 iniziò con il recupero di ciò che era stato ceduto con la “ritirata strategica” di trasferire l’Accademia DYA al piano inferiore. All’inizio di settembre scrissero alle scuole più note delle varie province e misero annunci della Residenza sulla stampa nazionale. Arrivarono molte richieste di posti e, non essendo sufficienti i letti di via Ferraz 50 e non potendo riaffittare il piano dell’anno precedente, sistemarono un appartamento nella casa adiacente, al numero 48, per la cui sistemazione don Josemaria dovette ricorrere di nuovo alla madre, che mise a sua disposizione 45.000 pesetasu i .
Al compimento di sette anni dalla fondazione, don Josemaria scriveva questa Caterina:
“Da quel 2 ottobre 1928, quante misericordie del Signore! Oggi ho pianto molto. Ora che tutto va molto bene mi sento fiacco e senza fortezza. Come ci si rende chiaramente conto che hai fatto e fai tutto Tu, Dio mio!”182.
Il funzionamento della Residenza nell’anno precedente era stato davvero un miracolo quotidiano. Nel 1934
592
avevano cominciato con un buon organico di domestici: due ragazzi di servizio e un cuoco professionista che dovettero licenziare subito (dopo averlo ben pagato) perché non avevano residenti. Ora, fatti più accorti, ridussero il personale domestico a una cuoca e a un giovane aiutante, già fattorino nella Residenza, che faceva ogni genere di commissioni, come aprire la porta e servire a tavola. La cuoca era una donna di notevole esperienza professionale183.
Per quanto concerne il resto del servizio, il giovane domestico certo non eccelleva nel compimento dei suoi doveri. Sacerdote e direttore facevano i lavori domestici quando i residenti uscivano di casa. Rifacevano i letti, scopavano la casa, lavavano i piatti e preparavano la tavola. Erano allenati dall’anno precedente. I residenti erano una ventina e i lavori di pulizia si facevano a mano e di buon grado:
“Il giorno di S. Carlo, 4 novembre” - si legge in una Ca
terina - “sono trascorsi due anni dalla vocazione di Ricardo. L’abbiamo festeggiato la sera: lui ha lavato tutte le stoviglie della casa, io le asciugavo e le rimettevo a posto. Abbiamo terminato verso mezzanotte, con santa allegria”184.
Nel mese di novembre chiesero l’ammissione all’Opera due studenti di Architettura, amici tra loro e provenienti entrambi dalla provincia di Valencia. Uno di essi, Pedro Casciaro, aveva conosciuto don Josemaria nel gennaio del 1935 e da allora aveva assistito alle conversazioni di formazione umana e spirituale organizzate dalla Residenza. L’altro aveva conosciuto l’Opera in ottobre; si chiamava Francisco Botella. Andarono entrambi a vivere in via Ferraz 48185.
Lì si respirava un’atmosfera cordiale, «di pietà, di studio e di apostolato», scrive Aurelio Torres-Dulce, uno studente di Medicina che frequentava la Residen
593
za; non senza chiarire che «l’obiettivo fondamentale di tutto ciò era di ordine soprannaturale: migliorare la condotta cristiana»186. Gli studenti frequentavano la casa proprio perché non era un “ luogo di ricreazione” . Si esigeva loro impegno nello studio, “perché studiare è un obbligo grave” . Dovevano considerare la residenza come casa propria, partecipando ad incarichi e spese. Non era consentito loro di involgarirsi, di “restare nel mucchio” . Li si incoraggiava a nutrire nobili ambizioni187.
Nel contesto dell’opprimente sconvolgimento politico del Paese, quell’ambiente era un luogo di allegria e di pace, gradevole come la meravigliosa scoperta di un’oasi nel deserto. Conoscitore degli esaltati impeti giovanili, scatenati in quella triste circostanza della storia spagnola, don Josemaria annotò in una Caterina ciò che in loro era necessario correggere e ciò che bisognava insegnare:
“Spirito dell’Opera di S. Raffaele: non si consenta ai ragazzi di discutere su questioni politiche nella nostra casa; far loro vedere che Dio è quello di sempre, che non si è “tagliato le mani”; dir loro che l’apostolato che si fa con loro è di carattere soprannaturale; parlare molte volte della presenza di Dio, nei colloqui personali, nelle conversazioni per tutti e sempre; rendere cattolici il loro cuore e la loro mente”188.
Agli inizi del 1935, José Luis Muzquiz, uno studente di ingegneria, ebbe un colloquio con don Josemaria: «Mi espose brevemente - dice José Luis - ciò che faceva l’Accademia DYA che, senza fondare alcuna nuova associazione, cercava di formare dei buoni cristiani, istruendoli e inducendoli a essere coerenti con tale condizione, e cercava di formare, a poco a poco, altri giovani disponibili a ricevere questa formazione. Mi disse che alle conversazioni o circoli partecipavano giovani di tutte le regioni della Spagna che studiavano a Ma
594
drid, di tutte le tendenze e i partiti politici, ma che non si chiedeva a nessuno a quale partito appartenesse»189.
E quando Ricardo, il direttore della Residenza, ne definisce il tono spirituale - «ambiente di allegria, di pace, di amore di Dio e di serenità davanti a tutte le circostanze avverse dell’ambiente politico e sociale» - ci sta comunicando, senza averne la pretesa, lo stato d’animo del Padre190. Quel sacerdote aveva scoperto, tempo addietro, il perché della propria serenità quando tutto tremava intorno a lui:
“Credo che il Signore abbia posto nella mia anima un’altra caratteristica: la pace; avere la pace e dare la pace, a quanto vedo nelle persone che frequento o dirigo”191.
6. L’apostolato con le donne
Al momento di mettere le sue considerazioni per iscritto, don Josemaria manifestava “un particolare interesse a essere obiettivo, del tutto spassionato” . In modo particolare quando si trattava dell’Opera, dell’apostolato o del processo interiore della propria vita e del carattere. Consapevole di questo, nel maggio 1935, libero da entusiasmi o da scoramenti, obiettivo e sereno, si mostrava soddisfatto del cammino percorso dall’Opera mentre ne descriveva lo sviluppo:
“E vedo che tutto è avviato: S. Raffaele, S. Gabriele e S. Michele: i tre rami dell’Opera; tutto l’apostolato degli uomini. E innegabile la dedizione di tutti”192.
Proprio tutti? È chiaro che don Josemaria considerava persi per l’Opera quei sacerdoti di cui alcuni mesi prima aveva scritto: “Purtroppo finora, senza offesa per nessuno, - tutti sono molto santi - non ho trovato un sacerdote che mi aiutasse, dedicandosi come me
595
esclusivamente all’Opera”193. La speranza di scaricare su di loro una parte del lavoro era venuta meno. “Se i sacerdoti miei fratelli mi aiutano” , pensava...194. Ma lo lasciarono solo con il suo peso.
Mancanza di collaborazione che ebbe negative ripercussioni sullo sviluppo del lavoro con le donne. In una nota dell’ottobre 1933 per il proprio confessore, compare già questa preoccupazione. Uno dei pensieri che inquietavano il Fondatore era “dedicare poca attenzione alle nostre”, lasciando incompiuta la Volontà del Signore. “Se ancora perseverano” - diceva fra sé - “è per uno speciale favore di Dio” 195. (Lo sconcertava il pensiero di lasciare incompiuta la Volontà di Dio, e questolo induceva ad esprimersi con una certa improprietà. La sua preoccupazione derivava dalle limitazioni di tempo e anche di forza fisica. Lo riconosceva parlando dell’apostolato con i giovani, quando scrisse: “Non mi curo - non ci arrivo, non posso fare di più - dei ragazzi che sono venuti con noi” ).
A Natale del 1933 i giovani dell’Opera, con il Fondatore in testa, fecero un triduo allo Spirito Santo, chiedendogli vocazioni; specialmente - annotava negli Appunti - “quella di una donna che faccia loro da testa (o meglio, da cuore)” 196.
Don Josemaria, che era Padre anche delle vocazioni femminili, continuava a serbare una delicata distanza nel rapporto con le donne. Non si incontrava con loro «al di fuori del confessionale; ed evitava qualsiasi gesto che potesse dare motivo a fraintendimenti», dice Nati- vidad Gonzàlez Fortun197. Dato che pensava di non aver ancora raggiunto gli “ottant’anni di gravità” , preferì lasciarle in mano ad altri sacerdoti. Don Norberto e don Lino, come già detto, se ne occupavano abitualmente. Ciò di cui don Josemaria non si sentiva molto sicuro era dei risultati. Come avrebbero potuto quei sacerdoti trasmettere alle donne la formazione e lo spirito proprio dell’Opera se essi stessi non l’avevano acquisi
596
to? Fu così che alcune vocazioni, che don Josemarìa si era faticosamente guadagnate nel confessionale, se ne andarono in brevissimo tempo198.
Il 28 aprile 1934 don Josemarìa riuscì a riunire per la prima volta alcune donne dell’Opera - non più di mezza dozzina - nel parlatorio del Convento di Santa Isabel; e i sabati successivi utilizzarono un locale della C asa della Studentessa, ceduto da don Pedro Poveda199. I suoi progetti di apostolato con le donne per il momento non lo assillavano e diceva tra sé, speranzoso: “ Quando le mie figlie si saranno un po’ organizzate...” . Ma era evidente che non lo erano molto. In quelle circostanze, don Josemarìa fece quello che potè. Perché l’apertura della Residenza di via Ferraz, la situazione di tensione venutasi a creare a seguito delle critiche dei sacerdoti, nonché le angustiose difficoltà economiche, gli impedivano di occuparsi con regolarità di quelle anime, che mancavano di orientamento e di governo. Con la presenza del Santissimo nell’oratorio di via Ferraz cambiarono radicalmente le cose. Spesso, nelle ore in cui i residenti si trovavano fuori, il sacerdote dava a quel gruppo di donne la meditazione e la benedizione. Parlava loro della santificazione del lavoro e dell’apostolato. Si entusiasmavano udendolo parlare, benché don Josemarìa rimanesse sempre con il dubbio se capivano davvero200. «La verità è che avevamo sì buona volontà - commenta con semplicità Felisa Alcolea - ma nulla più»201.
Privo di altri aiuti, gli fu fisicamente impossibile mettersi in pieno nel lavoro apostolico con le donne. Non aveva un momento libero, neanche se avesse lavorato per tutte le ventiquattro ore del giorno. I suoi obblighi come Rettore, le visite negli ospedali e, soprattutto, l’aumento della direzione spirituale degli studenti della Residenza consumavano tutte le sue forze e tutte le sue ore. Di fatto, don Josemarìa si trovò sulla soglia dello sfinimento in varie occasioni. E quando, nel 1936, so
597
praggiunse la guerra di Spagna, quelle donne, ancora poco formate nello spirito dell’Opus Dei, si sbandarono. Isolate e senza più assistenza spirituale, quelle incipienti vocazioni si sradicarono dall’Opera, a causa della forzata interruzione imposta dal conflitto. Le vie del Signore sono davvero imperscrutabili.
* * *
Con orgoglio di Padre, il Fondatore mostrava un’ammirazione sconfinata per i suoi figli. “I miei figli laici - tutti - sono eroici”202, affermava con piena convinzione. In loro trovò l’aiuto necessario allo sviluppo dell’Opera. E con la convinzione soprannaturale che fossero gli strumenti da tanto tempo attesi per mettere in moto l’impresa soprannaturale, così pregava il Signore all’inizio dell’anno accademico 1935-1936:
“Signore, disponi le cose in modo che possiamo lavorare bene - come vuoi tu - in quest’anno appena iniziato. Gesù, che il tuo povero Asinelio sappia formare secondo la tua amabilissima Volontà questi tuoi apostoli, i nostri ragazzi di S. Michele, perché facciano l’Opera”203.
Chiunque metteva piede nella Residenza poteva percepire una calda temperatura umana che, a detta di un testimone, «sembrava penetrare tutto, non solo quelli che vi si trovavano, ma persino le cose materiali e insensibili»204. Coloro che venivano per la prima volta, dopo essere entrati in oratorio a salutare il Signore, venivano presentati al Padre. Questi li riceveva nella stanza del direttore, poiché la sua camera, piccola e scarsamente illuminata, era occupata da un armadio in cui si conservava l’archivio e i paramenti dell’oratorio. La camera del direttore era di circa tre metri per quattro. Lo spazio era occupato da un letto senza testiera, un piccolo armadio, un tavolo di lavoro e tre o quattro sedie205.
Lo stile di don Josemarìa era diretto, familiare e calo-
598
]
irosamente affabile. Dopo pochi minuti, il visitatore stava trattando temi personali, aprendo la sua anima al sacerdote come se lo conoscesse da sempre. Alcuni uscivano da quel primo incontro avviati verso una revisione completa della propria vita, rinnovando progetti e ideali, con l’anima inquieta per aver scoperto orizzonti insospettati206.
Di statura medio-alta, il sacerdote appariva robusto, con la faccia rotonda e la fronte ampia. Aveva gli occhiali e i capelli molto scuri e molto corti. Un lieve sorriso, trattenuto a volte da gesti di passeggera serietà, illuminava continuamente il suo viso. La sua costituzione, l’aspetto allegro e la conversazione affettuosa facevano pensare, ingannevolmente, a una vita tranquilla e a pacifici impegni sacerdotali. Tuttavia un attento osservatore, sotto il colorito lievemente scuro della pelle, indovinava, più che vedere, un ascetico pallore, che era la traccia lasciata dalla stanchezza di prolungate veglie e dall’asprezza di dure privazioni. La sua piacevole figura fisica copriva i rigori di discipline e digiuni. Molte sere arrivava nella Residenza senza aver toccato cibo per tutto il giorno; invitava uno studente a parlare con lui mentre mangiava una frittata di un solo uovo. A volte accadeva pure che, se il ragazzo guardava il piatto con appetito, il sacerdote glielo cedesse, fingendo di non avere voglia; allora il digiuno si prolungava fino al giorno successivo207.
La pulizia della veste talare e le scarpe ben lucide smentivano ogni idea di povertà, grazie alle sue precauzioni. Quando si inginocchiava in oratorio, don Josemaria faceva molta attenzione a nascondere con la tonaca le suole consumate. Quelle scarpe non le aveva mai indossate nuove; erano tra quelle scartate dai residenti208.
Nelle meditazioni predicate faceva ad alta voce la propria orazione personale. Coloro che lo ascoltavano, partecipando ai pensieri e agli affetti del sacerdote, ne
599
venivano colpiti. E così pure quanti assistevano alla sua Messa: sorpresi dalla devozione del celebrante e dal suo immedesimarsi nei divini misteri, usciti dall’o- ratorio commentavano fra di loro: «Questo sacerdote è un santo»209.
7. Scritti per la formazione
Il Padre si dedicò con impegno a compiere la propria funzione di “maestro e guida di santi” . Nei suoi figli - a quel tempo, una dozzina scarsa - vedeva anime chiamate alla santità, diamanti grezzi che dovevano essere tagliati, a uno a uno, per ottenerne il massimo splendore, secondo le doti e le qualità di ciascuno. “I soci” - registrava negli Appunti - “non devono essere formati in serie, bensì, senza scapito dell’unità e della disciplina, bisogna fare in modo che ciascun uomo di Dio sviluppi la propria personalità, il proprio carattere”210.
Periodicamente aveva con ciascuno di essi un colloquio confidenziale, per guidarli nella vita interiore. Nella direzione spirituale il Padre si dimostrava esigente, convinto com’era che “è grave pigrizia che il direttore si accontenti che un’anima dia quattro quando può dare dodici”211. E, in conformità al messaggio che andava predicando, non si riteneva soddisfatto se i suoi figli non divenivano “santi da altare” . In questi calcoli entravano, naturalmente, anche le donne, come riferisce Felisa Alcolea: «Ci diceva con forza: “Dovete essere sante, ma sante da altare; io non mi accontento di meno” »212.
Fin dall’inizio, come abbiamo visto, il Fondatore utilizzò le sue note e i quaderni degli Appunti intimi per far conoscere l’Opera e il suo spirito. Ma oltre alle Caterine scrisse anche altri documenti. Ad esempio alcune Lettere destinate a tutti, che potremmo chiamare fondazionali, in cui sviluppava punti essenziali dell’O
600
pera e del suo spirito, raccogliendo “ idee-madri” e princìpi validi per il futuro, al di sopra delle circostanze storiche213.
Nella formazione dei membri dell’Opus Dei, già dal 1931 aveva stabilito il principio base dell’unità e della varietà: “I soci saranno diversi fra di loro come sono diversi i santi del cielo, ciascuno dei quali ha le proprie note personali e peculiari; e tanto simili tra loro comelo sono anche i santi, che non sarebbero tali se ciascuno di essi non si fosse identificato con Cristo”214. Mentre nella conversazione personale periodica si occupava di ciò che ciascuno aveva di particolare, nelle Lettere mirava all’unità della formazione. La prima di queste Lettere fondazionali è datata 24 marzo 1930. Vi esponeva la chiamata universale alla santità e il modo in cui i suoi figli dovevano praticare le virtù che conducono alla perfezione cristiana. Perché “la santità non è cosa per privilegiati”215.
Nella stessa data dell’anno successivo terminò la sua seconda Lettera, datata Madrid, 24 marzo 1931. Nelle cinquanta pagine del testo scorrono i consigli spirituali per navigare sicuri “ in un mare sconvolto dalle passioni e dagli errori umani”216. Il Fondatore indicava ai propri figli, con sollecitudine di Padre e maestro, gli ostacoli nei quali si può inciampare cammin facendo e il modo di lottare in tempo di bonaccia o in tempo di burrasca; e i mezzi umani e soprannaturali per superare scoraggiamenti e debolezze: fedeltà alla vocazione, letizia nella lotta, umiltà, sincerità, pietà, speranza, abbandono nella filiazione divina, ricorso alla Vergine...
“L’Opera non viene a rinnovare, né tanto meno a riformare nulla nella Chiesa”, avvertiva in una terza Lettera, del 9 gennaio 1932. E concludeva ricordando “una vecchia novità: dopo tanti secoli, il Signore si vuol servire di noi perché tutti i cristiani scoprano, finalmente, il valore santificatore e santificante della vita ordinaria
601
- del lavoro professionale - e l’efficacia dell’apostolato della dottrina esercitato con l’esempio, l’amicizia e la confidenza.Gesù nostro Signore vuole che proclamiamo oggi in mille lingue - e con il dono delle lingue, in modo che tutti sappiano applicarlo alle proprie vite -, in tutti gli angoli del mondo, questo messaggio vecchio come il Vangelo e come il Vangelo nuovo”217.
E come portare questa “dottrina a tutti gli angoli del mondo, per aprire i cammini divini della terrai”218. E questo il tema di un’altra sua Lettera, del 16 luglio 1933, in cui rispose a questa domanda: fare un apostolato di amicizia e di confidenza, scusare, comprendere, annullare il male nell’abbondanza del bene, praticare la santa transigenza con le persone e la santa intransigenza con l’errore, essere seminatori di pace e di gioia, amici della libertà, della convivenza e del dialogo con coloro che non condividono le nostre idee.
* * *
Tempo addietro, il 30 ottobre 1931 per la precisione, don Josemaria era stato assalito da un dubbio inquietante a proposito delle Caterine che raccoglieva in un quaderno: il quarto quaderno, che stava per completare. L’incertezza che lo teneva in bilico era questa: “Non è superbia o per lo meno cosa inutile scrivere queste Caterine}”119.
(La domanda non era oziosa. Nel 1930 aveva dovuto affrontare un dubbio analogo e il risultato fu che bruciò il primo quaderno degli Appunti', un gesto di autentica umiltà, come si è già visto, perché non lo credessero un santo).
Scomparsa ogni traccia di quanto scritto nelle date fondazionali - 2 ottobre 1928 e 14 febbraio 1930 - rispose a se stesso: “Naturalmente per l’Opera di Dio saranno utili molte di queste note. Inoltre, credo ferma
602
mente che sono mozioni divine. Anche per la mia anima sono utili”220.
Pertanto la risposta del 1931 è di conservare gli Appunti; per umiltà, in quanto non si credeva un santo, e perché si rendeva conto che appartenevano al patrimonio dell’Opera. Ma non ci sarà in tutto questo un’ombra di superbia?
“Superbia? No. Dal punto di vista spirituale sono evidenti soltanto motivi di umiliazione, perché si vede chiara la bontà di Dio e la mia resistenza alla grazia; dal punto di vista letterario - come ho detto altre volte - questi appunti sconclusionati sono pure per me una grande umiliazione”221.
(Tuttavia, la tentazione - repressa - di coltivare le proprie doti letterarie gli si affacciava in quei giorni, poiché la settimana precedente osservava di passaggio: “Scrivo sempre peggio. Ma non importa, perché non è per un concorso letterario” )222. Le esigenze apostoliche non gli consentivano di soddisfare tali inclinazioni. Gli mancava il tempo per scrivere. A volte gliene mancava la voglia; altre, persino le forze223.
E chiaro che si rendeva conto dell’utilità degli Appunti. Le note che prendeva su pezzi di carta - quando ne aveva l’ispirazione - e che ricopiava poi su foglietti, per trasferirle poi sui quaderni, erano una ricchissima miniera spirituale. Vi registrava dolci effusioni di Amore, aspri pensieri ascetici, iniziative pratiche, luci fondazionali e “ idee-madri” pregnanti di soluzioni, ma che al momento erano, come am m oniva in una Caterina, “un germe che assomiglierà all’essere completo così come assomiglia un uovo al gagliardo pollo che uscirà dal suo guscio”224.
Nel dicembre 1932, allo scopo di fornire metodi e temi di meditazione ai suoi figli e alle altre persone che ricorrevano alla sua direzione spirituale, don Josemaria
603
compilò 246 pensieri estratti dalle Caterine, li copiò a macchina e li stampò al ciclostile, sotto forma di fascicoli. Questa prima redazione di Consideraciones espiri- tuales (“ Considerazioni spirituali” ) era anche conosciuta come “ Consigli”225.
In seguito, nel 1934, decise di stampare le “ Considerazioni” , aggiungendo ai punti precedenti nuovi pensieri estratti dalle Caterine, fino a un totale di 43 8226. Da una lettera di don Sebastiàn Cirac, canonico di Cuenca, sappiamo che nel mese di aprile erano già avviati i contatti per la pubblicazione. Don Sebastiàn aveva assistito a Madrid ad alcune delle riunioni del lunedì con altri sacerdoti e ben volentieri si prese l’incarico di chiedere dei preventivi alla “Tipografia Moderna” . (Gli chiedevano trecentodieci pesetas per cinquecento esemplari). Inoltre, per snellire la cosa, don Sebastiàn era stato nominato censore del libro227. Tutto andava con il vento in poppa.
Finché, da quanto si apprende da un’annotazione di don Josemarìa del 18 maggio, cominciarono a soffiare venti contrari:
“Ho inviato a Cuenca le “Considerazioni” e sembra che si scandalizzino - o meglio - si spaventano per alcune parole, che peraltro non implicano alcun errore o mancanza di rispetto; per esempio, la frase “santa facciatosta”. Ho protestato ieri con una lettera a Cirac e, cedendo su tutto il resto, spero che il libretto uscirà con “facciatosta” . È meglio che esca comunque, anche se in collaborazione (!): verrà poi il momento di pubblicarlo senza ritocchi”228.
A giro di posta il canonico gli rispondeva: «Ho ricevuta la tua e, dopo averla letta per conto mio, l’ho letta al signor Vescovo, al quale non è piaciuto il tuo atteggiamento per quanto riguarda la parola facciatosta. Dice di non poter concedere l’autorizzazione a un libro
604
nel quale si avvalora l’uso di una parola che suona male e che ha un cattivo significato nel linguaggio comune; e ti raccomanda di cambiarla con un’altra: determinatezza, decisione, coraggio... (...). Ti prego di tener presenti i consigli del signor Vescovo, che qui e nella sua Chiesa è oracolo divino»229.
Per quella brava persona di monsignor Cruz Laplana, era questa una parola disdicevole sulla penna di un prete, per quanto don Josemarìa la santificasse mettendola al servizio della vita di infanzia spirituale. Poiché la faccenda minacciava di trasformarsi in una discussione bizantina e poiché, d’altra parte, non era il caso di contraddire il Vescovo, oltretutto parente e amico degli Escrivà e che, in fin dei conti, doveva avallare il censore e aveva voce e voto nella “Tipografia Moderna” (un tempo “Tipografia del Seminario” ), don Josemarìa cedette. Non senza far constare il proprio disaccordo scrivendo sulla stessa lettera ricevuta da don Sebastiàn:
“E dagli con la mia facciatosta! Diremo (per ora) sfrontatezza”230.
Il biografo vorrebbe tenersi al di fuori di questo curioso incidente, ma non può fare a meno di dare la propria opinione. A suo modo di vedere, non si trattava di una mera questione filologica. Si può supporre che il problema, più che di lessico, fosse di prudenza ecclesiastica e di convenzionalismo civile. Era di questo stile la precauzione dei predicatori che evitavano di pronunciare dal pulpito la brutta parola “maiale” , usando abili perifrasi, quali: “gli animali che guardano in basso” o “gli animali immondi” ; oppure, se la pronunciavano, si affrettavano a chiedere scusa all’uditorio. Ma don Josemarìa non si fermava a simili puerilità; e questa è una nota a suo favore quanto al coraggio del suo stile letterario. (Fortunatamente i lettori, non avendo accesso agli Appunti intimi, si sono risparmiati dei sussulti a
605
causa dello stile letterario, perché lì, in una Caterina dell’agosto 1931, si legge: “Margaritas ad por cosi II cibo più delicato e scelto, se viene mangiato da un maiale (questo è il suo nome, senza eufemismi) o esce dall’immondo animale trasformato in ripugnante escremento o si trasforma tutt’al più... in carne di maiale! Siamo angeli, per nobilitare le idee nelPassimilarle. O, almeno, siamo uomini: per trasformare gli alimenti in muscoli vigorosi e belli, o forse in cervello potente... capace di comprendere e di adorare Dio. Ma... non rendiamoci bestie come tanti e tanti!)”231.
Vi è certamente una particolare circostanza in questa faccenda che è opportuno spiegare. L’autore degli Appunti registrava massime e considerazioni seguendo la propria ispirazione. E così che le annotazioni sulla “ santa facciatosta” appaiono disseminate nelle pagine del quinto quaderno, relative alla prima metà dell’anno 19 3 2232. Ma quando si trattò di lavorare sugli Appunti, nel dicembre di quell’anno, e don Josemaria ordinò le materie, mettendo ogni cosa al suo posto, tutte le considerazioni sull’argomento finirono riunite e affratellate in una stessa pagina, con i numeri dal 90 in poi. Inviando le nuove “ Considerazioni spirituali” a Cuenca nel 1934, don Josemaria rispettò la distribuzione delle vecchie pagine del 1932; fu così che, sotto il titolo “ Il piano della tua santità” , il Prelato potè leggere:
“Il piano di santità che il Signore ci chiede è definito da questi tre punti: la santa intransigenza, la santa coazione e la santa facciatosta” .“Una cosa è la santa facciatosta e un’altra l’impudenza mondana” .“La santa facciatosta è una caratteristica della vita d’infanzia. Questa facciatosta, trasferita alla vita soprannaturale,...” ecc. ecc.233.
606
(In totale sei “ santa facciatosta” . Può stupire la preoccupazione del Vescovo? Si capisce meglio ora il suo sussulto?).
Tornando ora alla storia, la decisione presa da don Josemaria tolse un peso al Vescovo, che ne fu pienamente soddisfatto, a quanto scrisse don Sebastiàn nella lettera del 28 maggio: «Carissimo don José Maria. La tua ultima lettera mi ha molto rallegrato per la fiducia che riponi nel signor Vescovo, al quale pure è piaciuta molto la tua condotta e la sottomissione al suo parere»234.
Il volumetto fu stampato in giugno235. In esso appariva ripetuta l’espressione “ santo coraggio” . L’autore, fedele alla propria ispirazione e attento all’integrità del testo, rimase in attesa. Lasciò trascorrere il tempo. Quando giunse “il momento di pubblicarlo senza ritocchi” , quando venne edito Cammino, rimise la “ santa facciatosta”236. In occasioni ben più gravi della sua esistenza e della storia dell’Opus Dei, il Fondatore avrebbe esercitato la stessa santa cocciutaggine “di concedere senza cedere, con l’intenzione di recuperare”237.
Come era scritto nell’avvertenza preliminare del libro, le “ Considerazioni spirituali” rispondevano “alle necessità di giovani universitari laici diretti dall’autore” e, come questi spiegava, “ sono note che uso per aiutarmi nella direzione e nella formazione dei giovani”238. Si toccavano argomenti come la pratica dell’orazione mentale; tema questo che per uno studente universitario era come scoprire un nuovo mondo:
“Non sai pregare? Mettiti alla presenza di Dio, e non appena comincerai a dire: “Signore,... non so fare orazione!...”, sii certo che avrai cominciato a farla”239.
In mille modi diversi don Josemaria sottolineava agli universitari che la strada dell’apostolato passava, prima di tutto, attraverso la santificazione dei doveri professionali:
607
“Un’ora di studio, per un apostolo moderno, è un’ora di apostolato”240.
* * il-
Talvolta, la domenica pomeriggio, racconta Francisco Botella, «il Padre ci faceva andare nella sua stanza, ci sedevamo di fronte a lui intorno al suo tavolo di lavoro, ed egli, prendendo lo spunto dall 'Istruzione sullo spirito soprannaturale dell’Opera o daW Istruzione di S. Raffaele, ci parlava dell’Opera»241.
Il Fondatore aveva scritto le “Istruzioni” a beneficio dei suoi figli, per fissare ed esporre i punti essenziali della storia, dello spirito e dell’apostolato dell’Opus Dei242. Nella Istruzione sullo spirito soprannaturale dell’Opera di Dio, per esempio, li invitava a considerare che il disegno apostolico che stavano realizzando non era un’impresa umana, “bensì una grande impresa soprannaturale” . Divina per l’origine e la natura, perché “l’Opera di Dio non l’ha immaginata un uomo per risolvere la deplorevole situazione della Chiesa in Spagna dal 193l ”243.
Il chiaro proposito del Padre in questa Istruzione era di “marchiare a fuoco” nell’anima dei suoi figli tre considerazioni:
“1) L’Opera di Dio viene a compiere la Volontà di Dio. Perciò, siate profondamente convinti che il Cielo è impegnato a che si realizzi.2) Quando Dio nostro Signore progetta qualche opera a favore degli uomini, pensa in primo luogo alle persone che deve utilizzare come strumenti... e concede loro le grazie opportune.3) Questa convinzione soprannaturale della divinità dell’impresa finirà con il darvi un entusiasmo e un amore così intenso per l’Opera da farvi sentire felicissimi di sacrificarvi perché si realizzi”144.
Idee forti e affilate, che «si radicano nella mente e nel
608
cuore», dice Francisco Botella. Leggerle - dice Ricardo F. Vallespin a nome di tutti - «fece un bene enorme alle nostre anime e aumentò i nostri desideri di santità e di dare persino la vita affinché si realizzasse l’Opera, compiendo così la Volontà di Dio» 245.
E per estendere l’Opera di Dio dappertutto, “ stabilendo il regno di Cristo per sempre”, sarebbe stato necessario trascinare con zelo di apostoli altri compagni. Questa idea costituisce il tema centrale di un’altra Istruzione nella quale il Fondatore parla di proselitismo246. Vi espone i mezzi, umani e divini, che bisogna utilizzare; descrive i possibili ostacoli; le qualità degli uomini, buone e cattive; chi riunisce le condizioni per far parte dell’Opus Dei e chi invece ne è privo e quindi non vi può trovare posto:
“Non c’è posto: per gli egoisti, i codardi, gli indiscreti, i pessimisti, i tiepidi, gli sciocchi, i pigri, i timidi, i frivoli. C’è posto: per i malati, prediletti da Dio, e tutti coloro che hanno un cuore grande, anche se più grandi sono state le loro debolezze”247.
La terza Istruzione - “per l’opera di S. Raffaele” - è datata 9 gennaio 1935. Scritta, probabilmente, nell’autunno del 1934, dopo la rivoluzione delle Asturie, con la casa vuota per mancanza di residenti, con critiche e pessimismi da parte di alcuni collaboratori; a dispetto di tutto ciò, il tono del documento, fin dalle righe di introduzione, rivela pace e ottimismo e contiene l’annuncio di un felice futuro:
“Carissimi, da tempo si va notando la necessità di una Istruzione che indichi le norme generali che devono seguire i formatori per inserire nell’Opera le anime dei nuovi che il Signore invia. Io non posso arrivare a tutto”248.
609
8. Preparativi di espansione:Madrid, Valencia, Parigi
Dalla rivoluzione delle Asturie, nel 1934, la vita politica degli spagnoli era diventata enormemente difficile. Nel febbraio del 1936 si sarebbero svolte le elezioni politiche. Da un lato stava il Fronte Popolare, di ispirazione marxista. Dall’altro, una confusa coalizione di partiti di destra. Le settimane pre-elettorali furono cariche di tensione. La casa in cui abitavano gli Escrivà si trovava vicino all’ingresso della chiesa di Santa Isabel, esposta agli assalti o agli incendi; ritennero prudente trasferirsi altrove, in attesa di capire la piega che avrebbero preso gli avvenimenti. E don Josemaria non perse l’occasione, a lungo attesa, di andare a vivere nella Residenza di via Ferraz:
“31 gennaio 1936” - si legge negli Appunti - “È quasi mezzanotte. Mi trovo nella nostra Casa dell’Angelo Custode. Gesù ha disposto le cose così bene che starò un mese intero con i miei figli. Mia madre e i miei fratelli vivranno, nel frattempo, in una pensione della calle Mayor”249.
Il Fronte Popolare, anche se non in modo travolgente, vinse le elezioni del 16 febbraio. Vittoria che arroventò gli animi rivoluzionari, accentuando il fondo antireligioso che già avvelenava la vita civile. Era temerario ritornare all’appartamento del Patronato, per cui la signora Dolores si trasferì, per la settima volta, a un nuovo domicilio. Il figlio, con il suo abituale ottimismo, pur nella catastrofe per la causa religiosa che lasciava presagire la nomina di Manuel Azana a Presidente del Governo, vedeva anche il lato positivo della situazione:
“La mamma e i miei fratelli abitano in via Rey Francisco
610
3, ora via Dottor Càrceles. Ho approfittato per dire loro che ormai rimango definitivamente ad abitare con i miei ragazzi. Non tutto il male viene per nuocere. Azana è l’occasione che non ho voluto perdere. La mamma l’ha presa bene, anche se le è dispiaciuto”250.
Ben presto si abbattè su tutta la Spagna una tempesta di disordini di piazza, crimini, scioperi e violenze d’ogni genere. L’11 marzo scriveva nelle Caterine:
“Continuano gli incendi, nelle province e a Madrid. Stamane, mentre celebravo la Santa Messa in Santa Isabel, per ordine superiore le guardie sono state disarmate (...). D’accordo con le religiose, ho consumato una pisside quasi piena di particole. Non so se succederà qualcosa. Signore, basta sacrilegi”251.
Quello che si temeva accadde due giorni dopo:
“Il giorno 13 hanno tentato di assaltare Santa Isabel. Hanno distrutto alcune porte. In modo provvidenziale la marmaglia è rimasta senza benzina e sono riusciti solo a incendiare parzialmente la porta esterna della chiesa, perché sono fuggiti davanti a un paio di guardie (...).La gente è molto pessimista. Io non posso perdere la mia Fede e la mia Speranza, che sono conseguenza del mio Amore (...). Oggi (il 25 marzo) in Santa Isabel, dove si spaventano per un nonnulla (non so come le monache non siano tutte malate di cuore), sentendo tutti parlare di assassinii di preti e suore, di incendi e assalti e orrori..., mi sono scoraggiato e - la paura è contagiosa - ho avuto timore per un momento. Non ammetterò pessimisti accanto a me: è necessario servire Dio con gioia e abbandono”252.
Nonostante l’atmosfera carica d’odio e con presagi di morte, in mezzo a notizie allarmanti, le Caterine proseguono la loro rotta apostolica:
611
“Sento la necessità, la premura di aprire case fuori Madrid e fuori di Spagna”, annotava il 13 febbraio. E intorno a quella data scriveva: “Sento che Gesù vuole che andiamo a Valencia e a Parigi (...). Si sta già facendo una campagna di preghiera e sacrificio, per porre le fonda- menta di queste due Case”253.
Il progetto di espansione dell’Opera, dentro e fuori di Spagna, stava nello stesso germe della universalità del disegno divino. Ne aveva parlato don Josemarìa con il Vicario Generale nel 1934 ed ora lo informava per lettera, datata 10 marzo 1936:
“È molto probabile che entro la prossima estate venga aperta una Casa dell’Opera nelle province - forse a Valencia - e sto preparando il terreno per inviare un gruppetto a Parigi...”254.
Contava su un pugno di vocazioni e già sentiva l’impazienza di andare alla conquista di altre nazioni? Chi lo spingeva a piani di ampliamento apostolico tanto ambiziosi? Come sempre, era il Signore e don Josemarìa utilizzava un trucco per aiutarsi, un’astuzia umana e soprannaturale. Annunciava apertamente e in modo impegnativo i suoi progetti alle autorità ecclesiastiche, per cui, in un certo senso, si tagliava la ritirata, per non ritornare sui propri passi. Era una tattica eccellente anche per un altro motivo. Era un mezzo sicuro per riunire preghiere e mortificazioni per dare un buon fondamento ai progetti, come confessava a se stesso nelle Caterine, riferendosi alla lettera in cui parlava di Valencia e di Madrid al Vicario:
“Di proposito parlo di queste due case: da una parte, per ottenere molte preghiere e sacrifici; dall’altra, per bruciare le navi, come Cortés”255.
Come faceva con il Vicario Generale di Madrid, don Josemarìa spiegava gli apostolati dell’Opus Dei ai Ve
612
scovi che passavano per la capitale. Li invitava a celebrare la Messa o a pranzare nella Residenza, per poter poi parlare con loro:
“È consolante” - annotava il 2-XI-1935 - “vedere come la Gerarchia, quando conosce l’Opera, le vuol bene”256.
Al Vescovo di Pamplona, monsignor Olaechea, parlò dell’espansione apostolica e disse che il Signore chiedeva di aprire una casa a Valencia e un’altra a Parigi257. E con il Vescovo ausiliare di Valencia, monsignor Lauzu- rica, prese l’impegno di fargli visita a breve termine: “Nella seconda metà di aprile penso di andare a Valencia, poiché mai apriremo Accademie o Residenze senzail beneplacito dei Vescovi”258.
Non dimenticava, naturalmente, il fondamento soprannaturale: “Le nostre Case di Valencia e di Parigi devono basarsi sulla sofferenza” , ripeteva in una Caterina dell’11 marzo. “Sia benedetta la Croce! Contrarietà? Di solito non ne mancano ogni giorno”259.
Impossibile sapere quali fossero le contrarietà alle quali si riferiva, poiché dall’inizio di novembre del 1935 fino alla primavera 1936 sugli Appunti compaiono soltanto una ventina di annotazioni260. Ma non per questo diminuiva il sacrificio silenzioso del Fondatore, secondo quanto riferiva nell’ultima Caterina del 1935:
“Giovedì 12 dicembre 1935. Alcuni giorni fa, nella Santa Messa, dicevo al Signore: “Dimmi qualcosa, Gesù, dimmi qualcosa”. E come risposta vidi con chiarezza un sogno che avevo fatto la notte precedente, nel quale Gesù era grano, sepolto e marcito - apparentemente - per essere poi spiga piena e feconda. E compresi che questa, e non altra, era la mia strada. Buona risposta!”261.
il- >[- ir
613
Nei primi momenti successivi alla nascita dell’Opus Dei,il Fondatore era ancora privo di esperienza sui passi concreti che conveniva fare. Stava a capo di una grande impresa divina che, pur essendo ben definita quanto all’origine, ai mezzi e ai fini soprannaturali, mancava del supporto materiale dei suoi apostolati. Doveva ancora stabilire le proprie modalità peculiari di azione e aveva in corso il lavoro di formazione dei membri. L’impegno di sviluppo iniziale consisteva, da parte del Fondatore, in un esercizio di verifica e di approssimazione analogo a quello di un bimbo che muove i primi passi:
“L’Opera di Dio non nascerà perfetta” - spiegava con Una bella immagine il Fondatore -. “Nascerà come un bambino. Prima debole. Poi, comincia a camminare. In seguito, parla e agisce per conto suo. Si sviluppano tutte le sue facoltà. L’adolescenza, la virilità, la maturità... L’Opera di Dio non sarà mai vecchia: sempre virile nei suoi impeti, e prudente, audacemente prudente, vivrà nell’eterna maturità che le deve dare l’identificazione con Gesù, il cui apostolato farà sino alla fine”262.
E dove ha le radici questa “eterna maturità” se non nell’essenza stessa dello spirito dell’Opera, in cui trova posto una maniera peculiare e positiva di valorizzare e “divinizzare” le strutture temporali, per offrirle a Dio? Una simile visione della realtà storica come occasione favorevole per l’incontro con Cristo è molto lontana dal contemptus mundi predominante nell’ambiente religioso dell’epoca, per il quale liberarsi delle attività meramente temporali era il requisito preliminare a una vocazione di ricerca della santità. Ben diverso è il modo di intendere e di trattare le cose del mondo secondo lo spirito dell’Opus Dei, che vede nel lavoro un mezzo di santificazione. I membri dell’Opus Dei rispondono alla chiamata divina stando nel mondo; e nel mondo continuano ad avere la loro mentalità seco
614
lare, senza cambiare professione, ma facendone lo strumento dell’apostolato.
Nasce così uno stile di vita in cui il cristiano compie la propria missione corredentrice nella normalità quotidiana, all’interno della società alla quale appartiene, operando apostolicamente come il lievito, all’interno, adattandosi sempre alle circostanze storiche e sociali nelle quali si muove.
A quel tempo, negli anni trenta, le imprese apostoliche erano create o promosse dalla Gerarchia ecclesiastica, o da Ordini o Istituti religiosi, e svolgevano il loro apostolato come attività imposta dall’alto o dall’esterno dell’ingranaggio sociale. Inoltre, per la maggior parte delle volte, la direzione di questi apostolati non era nelle mani dei laici. Di conseguenza, l’impegno apostolico proposto da don Josemaria, in consonanza conlo spirito secolare dell’Opus Dei - cioè esercitato da laici nel proprio ambiente professionale - era a quell’epoca un fatto senza precedenti.
Già dal 1930 il Fondatore stava cercando il modo pratico con cui far apparire esternamente e con chiarezza che i membri dell’Opus Dei erano laici, fedeli e cittadini comuni. Cercava anche di risolvere il problema di “una netta separazione fra l’Opera di Dio, lega spirituale, e le diverse attività da fare (apostolato)”263. Fu nel giorno di S. Giovanni Evangelista, il 27 dicembre 1930, che trovò la soluzione al problema, “evitando la confusione tra lo spirituale e le imprese materiali”264.
Sarebbero sorte così le opere corporative di carattere apostolico, prima delle quali fu l’Accademia DYA. L’Accademia era un centro culturale di carattere civile; come tale era stata registrata ed era stata pagata alla pubblica amministrazione la tassa dovuta. Vi si davano lezioni di Diritto e di Architettura ed era gestita da laici, perché, come aveva scritto il Fondatore in una Caterina, “ i sacerdoti saranno solamente - e non è poco - direttori di anime”265. L’accademia era, inoltre,
615
un centro dell’Opera dove si impartiva formazione cristiana e umana. Con questa prima iniziativa l’attività apostolica dei membri dell’Opus Dei rimase quindi segnata con il carattere laicale. Don Josem arìa, pur dando impulso a tutta l’attività apostolica ed essendoil creatore dell’impresa, rimaneva discretamente in seconda fila, riaffermandone così il carattere di iniziativa civile, mentre evitava nell’Accademia ogni minima ombra di clericalismo, specialmente di fronte alle autorità ecclesiastiche. Così si esprimeva, per esempio, nell’istanza del 13 marzo 1935, intesa a ottenere la concessione di un oratorio semipubblico, che iniziava con questo chiarimento:
“José Maria Escrivà y Albàs, presbitero, direttore spirituale dell’Accademia-Residenza DYA - via Ferraz 50 - della quale è Direttore tecnico l’architetto Ricardo Fernàndez Vallespìn, Professore aggiunto alla Scuola Superiore di Architettura, rispettosamente sottopone al- l’Eccellenza Vostra, ecc.”266.
Con la creazione dell’Accademia DYA si mise in moto anche l’apostolato con giovani professionisti, alcuni dei quali sposati; e quando l’Accademia si trasferì in via Ferraz 50, Miguel Dean, allora già laureato in Farmacia, racconta che «il Padre svolgeva un importante lavoro di direzione spirituale e di formazione di tutte le persone che vi passavano»267.
L’Opera non aveva personalità giuridica di alcun genere e non aveva neppure una forma legale in quegli anni di insicurezza civile, di frequente soppressione del diritto di riunione e di stretta vigilanza poliziesca. Nel 1933 il Fondatore aveva pensato di creare una “Società di Collaborazione Intellettuale” (So-Co-In), che raggruppasse i docenti universitari, con l’intenzione che fosse il germe dell’opera di S. Gabriele. Ne elaborò il regolamento ma non lo sottopose all’approvazione
616
delle autorità civili fino a dopo le elezioni politiche del febbraio 1936, come annunciava a monsignor Olae- chea nella lettera del 3 marzo:
“È stata fondata la “Società di Collaborazione Intellettuale” (opera di S. Gabriele) e lo “Sviluppo degli Studi Superiori” , per gestire tutta la parte economica dell’Opera”268.
Un’associazione di carattere culturale avrebbe consentito loro di riunirsi per ricevere le lezioni di formazione senza il pericolo di trovarsi fuori legge ogni volta che veniva sospeso il diritto di riunione dei cittadini. E una società civile, con fini culturali e capitale sociale costituito ad opera di soci scelti da loro, sarebbe servita per acquisire i mezzi materiali adeguati ai fini: Accademie, Residenze, Biblioteche, Scuole, ecc.
Man mano che crescevano - e crescevano rapidamente- accadeva loro come ai bambini: tutto diventava piccolo. Dapprima erano state le quattro modeste stanze dell’Accademia DYA di via Luchana. Poi il lavoro di S. Gabriele, come scriveva il 14 ottobre 1935:
“Grazie a Dio, cresciamo. Gli abiti diventano corti (...), è l’ora di creare la “So-Co-In” e lo “Sviluppo degli Studi Superiori” . Quest’ultima società per la parte economica. La prima è l’opera di S. Gabriele”269.
Poi divenne piccola la casa, come raccontava il Fondatore al Vicario Generale nel febbraio del 1936: “Pur avendo preso in affitto un altro piano al n. 48, la casa ci viene piccola”270.
(Lo strappo successivo sarebbero state Valencia e Parigi).
Per inciso diremo che, con la faccenda degli scossoni
617
volti alla crescita apostolica, don Josemarìa finì con il convincersi che era inutile prendere misure e confezionare abiti in anticipo: “Si vede ciò che ho detto tante volte: è inutile fare dei regolamenti, perché dev’essere la vita stessa del nostro apostolato che, a suo tempo, ci indicherà il modello”271.
Compì la promessa di andare a far visita a monsignor Lauzurica nella seconda metà di aprile. Come gli aveva annunciato per lettera, portava con sé il progetto apostolico della casa di Valencia, spiritualmente ben = preparato: “ Quante preghiere e sacrifici, quante ore di studio santificate, quante visite ai poveri e ore di veglia davanti al tabernacolo, e quante discipline e altre mortificazioni sono salite fino al Signore, in petizione di grazie per compiere la sua amabilissima Volontà!”272.
Lunedì 20 aprile, accompagnato da Ricardo Fernàn- dez Vallespìn, giunse a Valencia. Al pomeriggio don Josemarìa ebbe un colloquio con monsignor Lauzurica, e gli lasciò le Istruzioni e altri scritti sull’Opera. Il martedì il Prelato invitò a pranzo i due visitatori madrileni. Li trattò con calorosa cordialità e promise di parlare con l’Arcivescovo per concedere loro un oratorio semipubblico nel futuro centro che avrebbero aperto a Valencia.
«È così che in agosto o alla fine di luglio verremo a si- stanare la Casa di S. Raffaele di Valencia», scriveva Ricardo273.
A Valencia, il Padre parlò con un giovane studente, Rafael Calvo Serer, che chiese l’ammissione all’Opera dopo una lunga passeggiata e una lunga chiacchierata.
A partire da quella data accadde qualcosa di totalmente inatteso, perché non c’è pagina degli Appunti in cui non trapelino dolenti e tristi note: le comunioni del sacerdote sono fredde; non sa “recitare bene neppure un’avemaria” ; gli “sembra che Gesù se ne sia andato a
618
spasso” e lo lasci solo; si trova scontento di sé, “ senza voglia di nulla” ; non riesce a coordinare le idee; “un po’ zoppo, con un reumatismo, nonostante il caldo” ; senza forze per fare una mortificazione; desideroso di “qualche giorno di distensione” , perché vede che il Signore lo tratta “come una palla: su e giù, e sempre a colpi. Ut iumentum!...”274.
Tutto questo lungo rosario di prove e sofferenze spirituali lo colse debilitato nelle forze fisiche e la sua resistenza ne fu erosa. Senza caricare le tinte, lo spiegava in una lettera al Vicario Generale all’inizio di maggio: “ Sento la necessità di essere molto semplice con lei, Padre. Sul piano fisico, sono grasso e fiacco, molto stanco”275.
Due giorni dopo parlò confidenzialmente con don Pedro Poveda, che in precedenza era pure passato per una situazione simile. Don Pedro gli raccomandò ciò che un tempo gli aveva consigliato anche don Francisco Moràn: il riposo, ancor meglio a letto. E seguì il consiglio:
“Sono andato a casa di mia madre e sono stato tutto il giorno a letto, senza parlare né vedere alcuno, e sono stato un po’ meglio. È esaurimento fisico: in questi ultimi otto mesi ho parlato, fra prediche, meditazioni e conversazioni di S. Raffaele, trecentoquaranta e rotte volte, per almeno mezz’ora. Inoltre, la direzione dell’Opera, la direzione delle anime, le visite, ecc. Così si spiega che ci siano dei momenti terribili in cui tutto mi dà fastidio, persino ciò che più mi è caro. Il demonio ha fatto coincidere questa debolezza fisica con mille piccole cose”276.
A ben vedere, non erano poi così piccole le difficoltà che gli caddero addosso in quel tempo: gli avevano appena annunciato la confisca da parte dello Stato della chiesa e del convento di Santa Isabel, che le suore avrebbero dovuto abbandonare; continuavano ad arri
619
vargli critiche, pettegolezzi e mormorazioni; non trovava denaro per acquistare la nuova casa; stavano per scadere le facoltà ministeriali; soffriva di un forte attacco reumatico...277.
Alla fine del maggio 1936 riassumeva la propria situazione con queste parole, che lasciano trasparire forti sofferenze:
“Debole, mi sento terribilmente debole in tutto, corpo... e anima, nonostante le apparenze. Questo mi fa sentire strano. E non voglio. Aiutami, Madre nostra.Morire è una buona cosa. Come può essere che qualcuno abbia paura della morte?... Ma per me, morire è una vigliaccheria. Vivere, vivere e patire e lavorare per Amore: questo devo fare”278.
Trattava se stesso come un bambino piccolo, che non si consola se prima non ha sparso dei lacrimoni e non ha attirato l’attenzione sulle sue lamentele? No, in realtà non era così; era il Signore che amorevolmente gli stringeva l’anima. E allora, ricorrendo alla vita di infanzia spirituale, esponeva teneramente al Signore le proprie pene:
“Signore, permetti che mi lamenti un pochino?”, gli diceva don Josemaria. “Ci sono dei momenti (per la mia miseria: mea culpa) nei quali mi sembra di non poterne più. Ormai mi sono lamentato. Perdonami.La mia Madre del Cielo è stata molto paziente con me durante quest’ultimo mese di maggio. Mi sono comportato come un figlio cattivo”279.
Ma ecco che all’improvviso negli Appunti appare una nota libera di giubilo, come se, finalmente, il sole avesse spazzato via un mare di nubi:
“30 maggio 1936. Stanotte ho dormito stupendamente. Non mi sono svegliato che alle sei e un quarto. E da tan
620
to tempo che non dormo tanto tutto d’un fiato. Inoltre, ho una gioia interiore e una pace che non cambierei con nulla. Dio sta qui: non esiste cosa migliore che il raccontare a Lui le pene, perché cessino di essere tali”280.
Ebbe solamente due giorni di tregua. Tempo sufficiente, tuttavia, per terminare di redigere l'Istruzione per i direttori, pensando ai nuovi centri da aprire di lì a poco:
“Oggi - in occasione delle prossime fondazioni a Valencia e a Parigi - questa Istruzione è rivolta ai miei figli che partecipano alle preoccupazioni di governo nelle Case o Centri dell’Opera”281.
Poi dava ai direttori gli opportuni consigli, trasmettendo loro la propria esperienza di direttore di anime e i princìpi ai quali si dovevano attenere nel governo282.
Questo piccolo raggio di sole durò ben poco. I cieli si oscurarono di nuovo e sulla sua anima tornarono ad affollarsi le nubi e i problemi:
“5 giugno 1936. Sento la necessità di un ritiro, di solitudine e di silenzio. Non mi sembra possibile fruire di alcuni giorni così. Che peccato! Fiat”283.
Due settimane dopo continuava ad anelare a un ritiro; ma fisicamente era tanto affaticato che non ritenne opportuno rinchiudersi. In quei giorni stavano cercando una nuova casa a Madrid e un’altra a Valencia. Alla fine, mercoledì 17 giugno potè scrivere questa Caterina:
“Questo pomeriggio si firma il contratto di acquisto della casa. Non andò delusa la mia speranza, anche se in questo periodo ho dato a Gesù dei buoni motivi per abbandonarci. Un’altra prova della divinità dell’Opera: poiché è Sua, non l’abbandona; se fosse stata mia, già da tempo l’avrebbe abbandonata”284.
621
Non gli sembrò vero di suonare le campane a distesa.Il giorno successivo informava il Vicario Generale di una notizia tanto lieta:
“A Valencia si sta cercando casa e presto la sistemeranno (...). Qui c’è la buona notizia che ieri è stato firmatoil contratto di acquisto della casa di via Ferraz 16, che era del Conte del Reai”285.
Frattanto i giorni passavano rapidi. Per strada il clima era teso, con notizie di agitazioni e di violenze. Ma, in mezzo al disordine, il Fondatore aveva sufficiente presenza di spirito per annotare sui suoi Appunti le mete apostoliche a cui tendeva, al di sopra del caos generale della nazione:
“Madrid? Valencia, Parigi? Il mondo!”286.
Passarono alcuni giorni e don Josemaria cominciò a sentirsi “ strano” . Gli venivano “nientemeno che tristezze e malinconie e umiliazioni” . Tutto senza motivi che spiegassero come e perché svaniva come fumo al vento l’allegria che gli faceva sempre compagnia e che gli era peculiare, “tintinnante di sonagli”287. Era certamente strano il suo stato d’animo perché negli ultimi giorni di giugno, senza perdere la pace e la tranquillità, sperimentava una indefinibile inquietudine di spirito. Si trovava teso, in stato di allerta e di attesa, con “brama di croce e di dolore e di Amore e di anime”288. Due giorni dopo aver annotato queste parole, il 30 giugno 1936, il presentimento che il Signore lo attendesse sulla Croce assumeva a poco a poco certezza e consistenza. E nella sua memoria riviveva un evento ancora aperto fra lui eil Signore, accaduto sette anni prima:
“Agosto 1929 e agosto 1936: non so— ma sì che lo so - perché accosto nella mente queste due date”289, annota
622
va negli Appunti l’ultimo giorno del mese di giugno o uno dei primi giorni del luglio 1936.
Il fatto a cui allude era avvenuto l’i l agosto 1929. Mentre dava la benedizione con il Santissimo nella chiesa del “Patronato de Enfermos” , aveva chiesto al Signore, con uno slancio spontaneo, “ una malattia forte, dura, per espiazione”290. La risposta gli venne interiormente: la richiesta era concessa. Ora, dal più profondo del suo essere affiorava alla coscienza un impulso, allo stesso tempo dolce e doloroso, che lo conduceva ad offrirsi per Amore alla Croce di Cristo, come scrisse in una Caterina:
“Senza volerlo, con un movimento istintivo - che è Amore - apro le braccia e schiudo le mani affinché Egli mi inchiodi alla sua Croce benedetta: per essere suo schiavo - serviamì -, che significa regnare”291.
Nella coscienza del sacerdote affiorava un acceso desiderio di conversione definitiva, di purificazione radicale di tutti gli affetti, “ anche di quelli che in sé sono santi”292. Di quando in quando aveva il presentimento che la data della malattia concessa dal Signore fosse prossima, forse di lì a un mese. “A volte penso” - scrisse - “che la mia offerta dell’agosto 1929, mio Padre- Dio l’accetterà il prossimo agosto”293. Ma non poteva prévedere di quale genere fossero le sofferenze che gli erano riservate per l’agosto 1936, né da dove provenissero. Lo assediava il pensiero di offrirsi come vittima espiatoria sulla Croce che si avvicinava, e faceva interiormente degli sforzi per respingere l’idea, che considerava esibizionistica e propizia t i la vanità o alla superbia. L’allontanava “perché, nella prosa dei mille piccoli dettagli quotidiani, c’è poesia più che sufficiente per sentirsi sulla Croce - persino nelle giornate in cui sem
623
bra che si sia perduto tempo - vittima! su una Croce senza spettacolo”294.
Finalmente arrivava per lui il momento di stare più vicino al Signore, sulla Croce. E si faceva coraggio: “Josemaria, sulla Croce!”295.
E la Croce che il Signore gli aveva preparato era un inatteso olocausto di amore e di dolore, in riparazione di tutti gli orrori della guerra civile spagnola, ormai imminente.
ir * il-
I sospirati progetti di espansione apostolica si stavano facendo realtà. Con che gioia fecero il trasloco nella nuova casa. I primi giorni di luglio trasportarono i mobili dal n. 50 al n. 16 di via Ferraz. Quando finirono, tutta la casa era sottosopra. La settimana successiva fecero ordine. Il 15 luglio erano ormai definitivamente insediati nella nuova casa296.
Non erano numerosi i componenti della squadra che avevano provveduto al trasloco e alla sistemazione. I membri dell’Opera che non risiedevano a Madrid erano quasi tutti partiti per raggiungere le famiglie, in provincia. Pedro Casciaro e Francisco Botella erano partiti il 3 luglio per Valencia, per riposarsi qualche giorno dallo sforzo fatto nelle ultime settimane di studio, e con l’incarico del Padre di trovare una casa per aprirvi il nuovo centro. Nella ricerca li aiutava Rafael Calvo. Tutto si svolse molto rapidamente. Il giorno 16 avvisarono per telegramma di aver già trovato una casa adatta. Il 17 Ricardo andò a Valencia. La mattina del 18 luglio si trovavano riuniti nell’ufficio dell’amministratore della proprietà per ultimare le clausole del contratto, quando la famiglia dell’amministratore lo chiamò al telefono per dargli la notizia che l’Esercito di stanza in Africa si era sollevato e che a Barcellona si sparavano cannonate per le strade297.
I sogni di espansione, per il momento, furono bruscamente interrotti.
624
NOTE CAPITOLO Vili
1 II Fondatore, con ottimismo e anticipando la storia, in quei giorni andava raccogliendo nei suoi Appunti intimi elementi sulla struttura e il funzionamento del lavoro di S. Gabriele. Per esempio: “Nei centri numerosi quelli di S. Gabriele dovranno essere divisi in gruppi, in base al tipo di professione” (Appunti, n. 1027). Come si ricorderà, il lavoro di S. Gabriele comprendeva l’apostolato con persone sposate.2 Ibidem, n. 957. Non perdeva occasione di contattare le persone che conosceva, professionisti che avevano terminati gli studi, per inserirli nella futura Accademia come professori: “30 aprile 1933: (...) Il Signore sta inviando professori per l’Accademia: Rocamora, Gonzàlez Escudero, Lueimo, Atanasio e i nostri. Ieri sera mi hanno portato Fernando Oriol” (ibidem, n. 993).3 Ibidem, nn. 1018 e 1016.4 Ibidem, n. 1021, del 13-VI-1933. In un’altra Caterina della stessa data o di pochi giorni dopo, scrisse: “Ora, con l’attuale caos politico, cado nella tentazione di leggere i giornali. Non so fare neppure questo” (cfr ibidem, n. 1024).Si trattava, molto probabilmente, di articoli sulla legge delle “ Confessioni e Associazioni Religiose” (“ Gaceta de Madrid33, del 3-VT-1933), che limitava il culto cattolico e sottoponeva a severe ispezioni l’attività e l’amministrazione degli Ordini e Congregazioni Religiosi.5 Ibidem, n. 945.6 Ibidem, n. 957.7 Cfr ibidem, n. 1050. Cfr anche ibidem, nn. 976, 986, 992, ecc.8 Ibidem, n. 1005, dell’ll-V-1933.9 Cfr ibidem, nn. 1713-1714.10 Ibidem, n. 1729.Juan Postius Sala nacque nel 1876 a Berga (Barcellona) e morì nel 1952 a
625
Solsona (Lerida). Nel 1894 aveva professato nella Congregazione del Cuore Immacolato di Maria. A Roma terminò gli studi di dottorato in entrambi i Diritti. Una parte importante della sua attività fu propagare la devozione mariana mediante Congressi Mariani Internazionali. Fu l’organizzatore del XXII Congresso Eucaristico Internazionale del 1911 a Madrid. Fra le sue molte pubblicazioni c’è El Código canònico aplicado a Espana en forma de instituciones, Madrid 1926.11 Appunti, n. 599 (15-11-1932).12 Ibidem, n. 742. In una Caterina dell’aprile o del maggio 1930, si legge: “Neppure una sola volta mi capita di pensare di ingannarmi, che Dio non voglia la sua Opera. Anzi, al contrario” (ibidem, n. 27).13 Ibidem, n. 1710. Don Josemaria rispettava e seguiva le tracce per i temi di meditazione che gli aveva dato R Sànchez, come pure l’orario comunicatogli da R Gii, religioso redentorista, al suo arrivo nel convento (cfr ibidem, nn. 1704-1705).14 Ibidem, n. 1729. Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 464; Joaquin Alonso, Sum. 4612. Il Fondatore scrisse di avere preso nota di questo fatto, anche a parte rispetto alle note date poi a P. Sànchez alla fine degli esercizi, “perché desidero che i primi siano al corrente delle divinissime piccolezze che hanno fatto da contorno alla nascita di questa nuova milizia di Cristo. Conoscendo ciò e insieme le mie miserie di cui dovranno accorgersi stando con me, non potranno fare a meno di amare l’Opera e di esclamare: veramente quest’Opera è... l’Opera di Dio!” (Appunti, n. 1730). I “primi” sono i primi seguaci (cfr anche testo citato alla nota 18).15 Ibidem, n. 1730. Le parole di offerta dell’Opera le scrisse “nel momento preciso in cui accadeva il fatto” nella chiesa (ibidem, n. 1729).16 Ibidem, n. 1709. L’1 maggio 1933 fece, di questi “peccati attuali” , un elenco che coincide con quello degli esercizi di giugno: “Piangere: non so se la mia anima diventa fiacca; non credo; il fatto è che sono come un bambino. Ho difetti, peccati da bimbo cattivo: gola, pigrizia, sonno..., tutta la sensualità sveglia. E nell’orazione: quando avrò ordine nell’orazione?” (ibidem, n. 995).17 Ibidem, n. 1723.18 Ibidem, nn. 787, 938, 955 e note 685 e 1281.L’Accademia Veritas di via O’Donnell era retta dalle Teresiane; all’istituzione Teresiana di via Alameda, a Madrid, don Josemaria era solito recarsi con una certa frequenza a confessare, come testimoniano P. Silvestre San- cho O.P. e don Eliodoro Gii Ribera: «Ho conosciuto per la prima volta il Servo di Dio nella Casa delle Teresiane del P. Poveda, in via Alameda 7, a Madrid. Successivamente ci siamo visti in diverse occasioni» (Silvestre San- cho, Sum. 5392; Eliodoro Gii Ribera, Sum. 7747).Come si può vedere da un appunto del 1934, solamente in parte compì il proposito di smettere di confessare in alcuni posti:“Domenica: Santa Isabel. Lezione o catechesi, al pomeriggio, ospedale. Lunedì: confessioni all’Assunzione, alle 15. Riunione sacerdotale.
626
Martedì: José Maria Valentin (10.30). Accademia.Mercoledì: confessioni all’Assunzione. Riunione del gruppo di S. Raffaele. Jenaro Làzaro.Giovedì: lezione. Al pomeriggio, Accademia. Confessioni, via O’Donnell, 7 (17.30).Venerdì: conversazione formativa ai primi, bambine povere di Santa Isabel (confessarle) e a Porta Coeli. Angel Cifuentes (8-9) - Pepe Romeo. 16.30 predica, Dame inglesi.Sabato: Accademia. Confessioni: bambine di Santa Isabel (9), Porta Coeli (11) e Teresiane (17.30). - Accademia - Jaime Munàrriz (8-9). Juanito J. Vargas (12) - Benedizione dalle Ancelle” (Appunti, n. 1794).19 Cfr AGP, P04 1974, II, pp. 418-419. La data di questo episodio può collocarsi intorno al 1932-33, ma non più tardi. Suor Benita Casado testimonia che, quando don Josemaria parlava di come fare orazione, raccontava «la storia di Juan il lattaio che tutte le mattine diceva al Signore: “Ecco qui Juan il lattaio” » (AGP, RHF, T-06242, p. 4).10 Appunti, n. 719.21 Ibidem, n. 974.22 Nota fatta al corso di ritiro, il 22 giugno 1933. Subito dopo, fissava le discipline, i cilici, il digiuno e i giorni in cui dormire per terra, per farli approvare dal confessore:“ = Discipline: lunedì, mercoledì e venerdì, più un’altra straordinaria nelle vigilie delle feste del Signore o della SS. Vergine; un’altra straordinaria settimanale, di supplica o di ringraziamento.= Cilici: due al giorno, fino all’ora di pranzo; fino all’ora di cena, uno; Martedì quello ai fianchi e venerdì quello delle spalle, come fino ad ora.= Dormire: sul pavimento, se è di legno, o sul letto senza materasso: martedì, giovedì e sabato.= Digiuno: il sabato, prendendo solamente quello che mi danno come prima colazione” (ibidem, n. 1724).Stabilì il tempo e il tipo di letture da fare e confessava che “ il non leggere i giornali per me rappresenta di solito una mortificazione non piccola” (ibidem, n. 1726). In quei tempi di disordini e di persecuzione della Chiesa era necessario essere informati e pronti.23 Ibidem, n. 1727.24 Bollettino Ufficiale del Vescovado di Madrid-Alcald, 1 aprile 1933, n. 1580, p. 114. La data della Circolare (n. 109) era quella del TI marzo 1933.Un ordine di Azana, ministro della Guerra, ai comandanti di divisione, in data 9 marzo 1932, proibiva la pratica di qualsiasi atto di culto nelle caserme. Il Vescovado, dall’l aprile 1933, si sarebbe «fatto carico con effetto immediato di tutte la questioni che fino ad ora erano di competenza della Giurisdizione ecclesiastica militare» nel territorio della diocesi (cfr Circolare citata).Le giurisdizioni castrense e palatina dipendevano entrambe dal Patriarca delle Indie, Ramon Pérez Rodriguez, che il 14 aprile 1933 fu nominato dal
627
Papa Vescovo di Cadice, della cui sede prese possesso il 30 maggio 1933 (cfr Annuario Ecclesiastico, cit., anno 1934, p. 73). Cfr anche la nota di Mons. Eijo y Garay al Direttore Generale della Beneficenza, 24-XI-1939 (Archivio della Segreteria Generale dell’Arcivescovado di Madrid: Patronati, pratica “Buen Suceso”).25 Appunti, n. 963. Riferimenti al tema della sua situazione ecclesiastica in Santa Isabel: ibidem, nn. 556, 636, 719, 886.26 Sui rapporti del Fondatore con don Pedro Poveda: Appunti, nn. 251, 295, 731, 745, 938, 955. Il Fondatore lasciò pure una nota scritta sulla sua amicizia con don Pedro a motivo di alcune inesattezze espresse, molti anni dopo, dal Nunzio in Spagna Mons. Riberi (1962-1967) (cfr ibidem, nota 266 e nn. 1627 e 1628; e AGP, RHF, AVF-0041, pp. 47-48; anche Alvaro del Portillo, Sum. 240).27 Appunti, nn. 994-995. Prima del 1933, il Vicario Generale conosceva le attività del Fondatore attraverso la nomina a cappellano del “Patronato de Enfermos” , il rinnovo delle facoltà ministeriali, i permessi di celebrazione delle Messe nella chiesa del Patronato, il passaggio al Patronato di Santa Isabel, la concessione delle facoltà su richiesta di don Pedro Poveda, una visita di don Lino a nome di don Josemaria per la catechesi nella scuola di Arroyo, e qualche altro motivo.In una Caterina datata 19-VI-1933 si legge: “Sono stato a rinnovare le mie facoltà. Chi l’avrebbe mai pensato! Con grande cortesia me le hanno date subito e senza farmi pagare i diritti. Sono rimasto d’accordo di far visita qualche volta a Don Moràn, per tenerlo al corrente di quello che faccio” (n. 1025).Sulla concessione delle facoltà ministeriali nella diocesi di Madrid-Alcalà dal 1932 al 1936, cfr Libro delle Facoltà Ministeriali, n. 8, foglio 55v; n. 9, foglio 58v.28 Appunti, n. 1049.29 C 42, 29-VIII-1933. Il successivo riferimento è del 18 settembre, e vi si dà notizia della morte di don Teodoro e dell’andata di tutta la famiglia a Fonz: “Dovemmo fare due viaggi a Fonz, a motivo della morte di mio zio (che riposi in pace)” , scrisse in una Caterina (n. 1055).30 Appunti, n. 1055.31 Ibidem, n. 1057.32 Ibidem, n. 1065. E aggiunse: “Il Padre Sànchez mi ha rimproverato per la mia impazienza nel desiderare, soffrendo, che il nostro apostolato dell’Opera cristallizzi in “qualcosa” ” (ibidem, n. 1067).33 Ibidem, n. 1732.34 Ibidem, n. 1072.35 Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, p. 6. Ricardo aveva trascorso l’estate del 1933 senza poter vedere don Josemaria a causa di un attacco acuto di reumatismi che per poco non gli aveva fatto perdere l’anno accademico, impedendogli di studiare.
628
36 Appunti, n. 1077.37 Appunti, n. 1083. Ad eccezione di quanto avvenne per le prime due case di Madrid e per un’altra a Burgos (1938), nessun centro o casa dell’Opera si sarebbe più chiamata con il nome di un santo. Cfr ibidem, nota 834 e n. 1106.38 Ibidem, n. 1094.39 In una lettera datata Malaga, 13 gennaio 1934, scriveva a don Josemaria: «La targa dell’Accademia è già terminata; è riuscita abbastanza bene, è copia fedele del tuo disegno» (originale in AGP, IZL, D-1213, n. 45). “La prima attività corporativa” - disse il Fondatore in una meditazione del 19-111-1975- “fu l’Accademia che chiamavamo DYA - Diritto e Architettura - perché vi si davano lezioni di queste materie; ma per noi la sigla significava Dio e Audacia” .Il motto “Dio e audacia!” era stato scritto per la prima volta in una Caterina del 27-111-1931: “I nostri uomini e donne di Dio nell’apostolato d’azione abbiano per motto: “Dio e audacia!” ” (Appunti, n. 186; cfr ibidem, nn.190 e 224).40 Appunti, n. 989.41 Ibidem, n. 1071.42 Ibidem, n. 1102 (5-1-1934). Sulla croce di legno, cfr José Ramon Herre- ro Fontana, AGP, RHF, T- 05834, p. 3.43 Cfr Alvaro del Portillo, PR, p. 464; e Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, p. 10.44 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 304; anche AGP, POI VII-1955, p. 44; AGP, P03 1979, p. 251; Jenaro Làzaro, AGP, RHF, T-00310, p. 2.45 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 302. A quanto testimonia Ricardo Fernàndez Vallespin (AGP, RHF, T-00162, p. 14), le difficoltà e le ansie si alternavano, a volte, con avvenimenti nei quali era evidente l’intervento straordinario della Provvidenza. Uno di quei casi è narrato nei dettagli da Juan Jiménez Vargas (AGP, RHF, T-04152/1, p. 26): mancava il denaro necessario per pagare la bolletta della luce; don Josemaria, mentre riguardava delle vecchie carte nel suo studio di Santa Isabel, strappò una busta vuota e la gettò nel cestino. Mentre la gettava gli parve però che ci fosse qualcosa dentro: era un biglietto da 25 pesetas, quanto bastava per pagare l’importo della bolletta.46 AGP, RHF, T-00162, p. 12.47 Appunti, n. 1753.48 Ibidem.49 Cfr ibidem, n. 1109. Il 7 gennaio aveva chiesto l’intervento di S. Giuseppe: “Se il mio Padre e Signore S. Giuseppe (...) ci porta avanti questa casa, la seconda che si aprirà sarà la Casa di S. Giuseppe” (ibidem, n. 1106).50 Ibidem, n. 1120.51 Meditazione del 19-111-1975.
629
52 Cfr Appunti, n. 1091.53 Cfr ibidem.54 Cfr ibidem, n. 1063.55 Istanza al Ministro del Lavoro del 26-1-1934. Originale in Archivio Generale del Patrimonio Nazionale (Palazzo Reale) - Patronati Reali - Santa Isabel, Pratica di don Josemarìa, cassa 182/21.Lettera della Priora del Convento al Ministro del Lavoro, 28-1-1934. Originale in Archivio Generale..., cit.Gli antichi Patronati Reali dipèndevano dalla Direzione Generale della Beneficenza. Al tempo della II Repubblica spagnola questa Direzione Generale passò dal Ministero del Lavoro a quello degli Interni e poi alla Pubblica Istruzione.56 Cfr Appunti, n. 1125.57 Ministero degli Interni, 31-1-1934. Originale in Archivio..., cit.58 Da quanto si apprende dalla Caterina del 3 febbraio su questa questione della casa, egli riteneva di aver fatto un passo avanti quanto alla propria “stabilità” in Madrid; ma non si decideva a cambiare casa per le ragioni indicate e soprattutto per l’ultima che enumera: la speranza di vivere presto in un centro dell’Opera, con il Signore nel tabernacolo: “Perché spero che Egli vada a vivere con i suoi figli - siamo figli di Dio - nella Casa del- l’Angelo Custode, a Natale del ‘34; e chi può pensare che stando lì Gesù (stiamo valutando il prezzo di una buona cassaforte per il tabernacolo) non ci stia io?” (Appunti, n. 1128).59 Cfr ibidem, n. 1124 (27-1-1934).60 Ibidem, n. 1133 (11-11-1934).61 Della conversazione del 26 gennaio 1934 con don Francisco Moràn scrisse: “Con santa facciatosta, ne approfittai per rendere ben accetti a don Moràn due dei miei fratelli sacerdoti. La cosa più importante del colloquio fu che, quando gli parlai della “accademia del sig. Zorzano”, dove proseguo il mio lavoro con giovani universitari, mi disse: Perché non date lezioni di religione agli intellettuali? E si lamentò che avrebbero già potuto annunciare sul “Bollettino” e sugli stampati a parte (me ne diede uno) i corsi di via Luchana 33. Si vede che “Luchana 33” gli suonava bene..., prima ancora che io glielo dicessi. Rimasi d’accordo di inviargli un elenco di professori e alunni e mi diede libertà per organizzare come volessi questa faccenda” (ibidem, n. 1126).62 Intorno al 22 marzo annotava con gioia: “Abbiamo fatto il primo giorno di ritiro dell’Opera, domenica scorsa. Sono contento” (ibidem, n. 1167). La cappella era in via Manuel Silvela (cfr José Ramon Herrero Fontana, AGP, RHF, T- 05834, p. 3); il ritiro comprendeva tre o quattro meditazioni date da don Josemarìa, la Via Crucis, il santo Rosàrio, la lettura spirituale, la visita al Santissimo e l’esame di coscienza (cfr Ricardo Fernàndez Vallespìn, AGP, RHF, T-00162, p. 13).Fra le attività di questo tipo svolte nell’Accademia DYA, il Fondatore
630
elencò nel 1934 quelle a scadenza mensile, settimanale o quotidiana. Da esse si vede che dava anche lezioni di latino; e che non era una sola, ma numerose le lezioni di formazione per le persone del lavoro di S. Raffaele; e così pure i ritiri mensili (cfr Appunti, n. 1798).63 Mons. del Portillo, che ancora non andava all’Accademia DYA, racconta di essere stato aggredito da un gruppo di 15 o 20 persone, che lo ferirono alla testa colpendolo brutalmente con una chiave inglese; le sue condizioni furono molto critiche per alcuni mesi. Ferito e sanguinante, riuscì a salvare la vita perché corse nel metrò e potè prendere un treno che partiva in quel momento (cfr Appunti, n. 1131 e nota 851).64 Ibidem, n. 1140.65 Cfr ibidem, n. 1146.66 C 48, 26-IV-1934.67 Appunti, nn. 1187, 1188.68 Ibidem, n. 1191.69 Ibidem, n. 1192.70 Ibidem, n. 1193.71 Ibidem, n. 1184.72 Ibidem, n. 1738.73 Ibidem, n. 1743.74 Cfr ibidem, nn. 1753 e 1754.75 Ibidem, nn. 1786, 1787.76 Ibidem, n. 1790.77 C 57, 23-VII-34; C 58, 23-VH-34; C 62, 24-VII-34.78 C 65, 5-VIII-34.79 C 67, 5-VIII-34.80 C 68, 5-VIII-34.81 “Dopo la Messa, durante il ringraziamento, senza averlo deciso prima, mi venne di consacrare l’Opera alla Santissima Vergine. Credo che sia stato un suggerimento divino (...). Penso che oggi - così, con semplicità - abbia avuto inizio una nuova tappa per l’Opera di Dio” (Appunti, n. 1199).82 Ibidem.83 AGP, RHF, T-00162, pp. 17-18.84 C 73, 6-IX-34.85 C 76, 6-IX-34.86 C 74, 6-IX-34. Ricardo Fernàndez Vallespin riferisce che don Josemaria «decise che, agli effetti esterni, figurassi io come Direttore della Residenza, ed era anche opportuno che fossi io a firmare il contratto come affittuario della casa» (AGP, RHF, T-00162, p. 16).87 Appunti, n. 1202.
631
88 Ibidem, n. 1203.89 C 7 9 ,17-IX-34.90 C 80, 17-IX-34.91 C 81, 20-IX-34.92 C 52, 24-IX-34.93 Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, pp. 18-19.94 Meditazione del 19-111-75.95 Cfr C 55, 30-X-34.96 Meditazione del 19-111-75.97 Appunti, n. 1206.98 Maria del Buen Consejo Fernàndez, AGP, RHF, T04953.99 Originale in Archivio Generale..., cit.100 C 87, 22-XI-34.101 “ Gaceta de Madrid”, n. 347 del 13-XII-34, p. 2121. La giurisdizione delle funzioni amministrative, secondo il decreto del 17-11-1934, faceva distinzione fra fondazioni benefiche e benefico-docenti. Dei Patronati si occupava il Ministero di Lavoro, Sanità e Previdenza.102 Appunti, n. 1205.103 II giorno 27 andò al Ministero a prendere la propria nomina e vide che gli era stato conferito il “possesso della carica”; eccone il testo: «Visto il Decreto dell’11 corrente, con il quale Ella viene nominato Rettore del Patronato di Santa Isabel, le si è attribuito il possesso della carica a far data dal successivo 19. Le comunico quanto sopra per sua conoscenza e soddisfazione, nonché agli effetti dei relativi conteggi. Madrid, 27 dicembre 1934. Il Direttore Generale J. Saenz de Grado» (Decreto del Direttore Generale della Beneficenza del 27-XII-1934. Originale nell’Archivio della Segreteria Generale delPArcivescovado di Madrid-Alcalà. Ne esiste copia in Archivio Generale..., cit.)104 Cfr nota autografa del Fondatore circa il colloquio del 27-XII-34 con il Vicario Generale; originale in AGP, RHF, AVF-0003.105 Appunti, n. 1214.106 Lettera di Mons. Rigoberto Doménech al Fondatore, del 2-II-1935 (originale in AGP, RHF, D-15514/2).107 Nella lettera a Pou de Foxà del 28 gennaio lo avvisava di aver scritto al- l’Arcivescovo di Saragozza, da cui dipendeva, per comunicargli la sua nomina a Rettore e far presente che stava prestando servizi ecclesiastici in Santa Isabel dal 1931, “per disposizione del Sig. Patriarca delle Indie” e che detti servizi erano “sempre esclusivamente sacerdotali” (C 96, 28-1- 35).108 Equivaleva a bollarlo, con parola in voga qualche tempo dopo, come “collaborazionista” di un regime anticattolico, quale aveva dimostrato di
632
essere la Repubblica con le sue misure contro la Chiesa. Perciò, in un lungo poscritto a una lettera dell’8-II-1935, scriveva al Vescovo di Cuenca affinché a sua volta “tranquillizzasse” l’Arcivescovo di Saragozza: “Per quanto a me personalmente non me ne importi nulla, come sacerdote e come base- fondamenta - dell’Opera che Dio mi ha affidato, è bene che le cose stiano al loro posto, secondo verità. E la verità è questa:1) Che non faccio nulla senza il mio direttore spirituale.2) Che mi sono rifiutato di presentare l’istanza per chiedere il Rettorato.3) Che hanno richiesto l’incarico per me la Priora e la Comunità di Santa Isabel, con il beneplacito delPIll.mo Vicario D. Francisco Moràn.4) Che, se era cosa malfatta pretendere il Rettorato, non fui io (che ne ho fatte tante!) a farla, ma l’hanno fatta invece un bel po’ di canonici provinciali - fra i quali qualche Decano - e vari sacerdoti di Madrid.5) Che il Rettore precedente, come me nominato dalla Repubblica, commise una tale cattiva azione accettando la nomina che il suo Prelato - Plll.mo Vescovo di Astorga - Pha castigato... nominandolo suo Segretario, incarico che occupa attualmente.6) E infine, che non mi facciano inquietare perché - come lei ben sa - a una semplice indicazione del mio Prelato o del mio Padre Sànchez,, senza alcun dispiacere - perché non ho mai avuto né ho ambizione di sorta - farei la rinuncia al Rettorato... e a venti rettorati e canonicati che avessi, perché - gloria a Dio! - mi muove solo il desiderio ardentissimo di compiere la Volontà di Gesù.7) Sarà anche bene ricordare che, avendo avuto - ed avendo attualmente - più di un’occasione per occupare cariche e per svolgere attività civili, come fanno altri Sacerdoti - che non per questo sono malvisti: anzi, al contrario - non ho mai voluto occuparmi d’altro che di cose esclusivamente sacerdotali.8) Inoltre: è stato il Patriarca delle Indie - e non il governo della Repubblica - che mi ha sostenuto in Santa Isabel fin dall’anno 1931. E data da allora l’amicizia, della quale non sono mai abbastanza grato, del santo Padre Po veda, Segretario del Signor Patriarca (...).Credo che fosse opportuno che aprissi il cuore a V. E.; e so che V. S. Ill.ma tranquillizzerà l’Ecc.mo Signor Arcivescovo. Gesù la ripaghi mille volte” . (C 98, 8-II-1935).109 Cfr Antonio Montero, Historia de la persecución religiosa en Espana, op. cit., pp. 41-52.110 Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, p. 19.111 Cfr Appunti, n. 756.112 Ibidem, n. 1127; cfr ibidem, n. 1037.113 Cfr ibidem, n. 1751.114 Ibidem, n. 1210. Forse questa infelice critica alterava idee e parole dette da don Josemaria nelle riunioni del lunedì. In una Caterina del 1930 si può leggere:“Non si deve tentare Dio. Se, con molta fede nella Provvidenza e senza pa
633
racadute, mi butto in strada dall’alto del palazzo dei telefoni, sono un pazzo e un cattivo cristiano. Se invece, con molta fede e un paracadute, mi butto da un aeroplano che sta volando a un chilometro da terra, probabilmente ottengo il mio scopo e merito la qualifica di uomo prudente e buon cristiano.(...) non ci si deve fidare solo della prudenza umana (allora sì che è sicuro il tonfo); viceversa, con molta fede in Lui, bisogna utilizzare tutti i mezzi che useremmo in ogni altra faccenda (insieme all’Orazione e all’Espiazione)” (cfr ibidem, nn. 60 e 61).115 Ibidem, nn. 1754 e 1755.116 Pedro Cantero, AGP, RHF, T-04391, p. 7.117 Saturnino de Dios Carrasco, AGP, RHF, T-01478, p. 3.118 Appunti, n. 1217.Nel dicembre 1937, con la calma e l’obiettività che danno la distanza storica e la grazia fondazionale, don Josemaria accettò quanto gli diceva tempo addietro padre Sànchez e cioè che quegli avvenimenti erano “una delle prove patenti della divinità della nostra impresa” : “Quando riunivo quei santi sacerdoti al lunedì, in quella che chiamavo “Conferenza sacerdotale”, allo scopo di dar loro lo spirito dell’Opera, affinché fossero miei figli e collaboratori; quando, nel 1932 o 33, volontariamente, spontaneamente e Uberrimamente, diversi di loro fecero promessa di obbedienza nella nostra casa di Luchana, non si poteva pensare che - con la più retta intenzione, senza dubbio - si sarebbero quasi immediatamente disinteressati dell’Opera” (ibidem, n. 1435).119 Ibidem, n. 1232.120 Ibidem, n. 1221. In una nota precedente (n. 1219) riferendosi al digiuno, scrisse: “Signore, quanto mi costa il digiuno! Perché, trattandosi di una cosa tanto piccola, mi costa tanto?” .121 “Il giorno di S. Nicola di Bari” - scrisse - “ho promesso al Santo Vescovo, mentre stavo salendo all’altare per celebrare la Messa, che se si risolve la nostra situazione economica nella Casa dell’Angelo Custode, lo nominerò Amministratore dell’Opera di Dio” (ibidem, n. 1206). «Immediatamente, pensando che la sua fosse stata scarsa generosità - commenta Mons. del Portillo - aggiunse: “Anche se ora non mi dai ascolto, sarai il Patrono della nostra amministrazione economica” . E da allora - 6 dicembre 1934 - S. Nicola di Bari è il nostro Patrono per le questioni economiche» (ibidem, nota 913).Ancor prima del giorno di S. Nicola del 1934, aveva già fatto ricorso al santo in cerca di aiuto, come raccontò egli stesso: “A Madrid, in piazza Antón Martin, si trova la parrocchia di S. Nicola. Lì fu la prima volta che ho invocato S. Nicola per “dargli una stoccata” ” (AGP, P04 1975, p. 74).122 Cfr Appunti, n. 1222.123 Ricardo Fernàndez Vallespfn, AGP, RHF, T-00162, p. 21.124 Cfr Appunti, n. 1220.
634
125 Ibidem, n. 1222.126 Cfr ibidem, nn. 1795, 1796,1800, 1801 e 1804. Questi numeri riportano alcune note sciolte dell’anno 1934, che contengono i suoi piani di mortificazione corporale, periodicamente riveduti dal confessore. Le discipline non sono mai meno di tre alla settimana.In una Caterina dell’ 11 marzo 1934 si legge: “Ieri mi è costato lacrime che il P. Sànchez mi togliesse il digiuno questa settimana. Credo proprio di dover lottare contro la gola. Ho avuto un malore in tram e per questo non mi lascia digiunare” (Appunti, n. 1155). I digiuni ricompaiono nelle note sopra citate.127 C 81, 20-IX-1934.128 Juan Jiménez Vargas, che abitava con il Fondatore in via Ferraz, testimonia che «praticava mortificazioni e penitenze anche corporali fino al sangue, con le discipline e i cilici. Anche se egli cercava di nasconderci tutto questo, non ci riusciva del tutto. Ho visto in camera sua gocce e macchie di sangue, indice di queste penitenze, e quando i “rossi” perquisirono la sua camera, trovarono in un cassetto del suo tavolo delle discipline con parti metalliche, insanguinate. Usava anche cilici, e ce ne consigliava l’uso. Dormiva per terra con una certa frequenza. In alcune occasioni passava la notte senza dormire, in preghiera. E faceva frequenti mortificazioni in piccole cose, per esempio ai pasti, e ce lo suggeriva. Spesso digiunava» {Sum. 6706).Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 360. «Quando abitava nella nostra casa - racconta il fratello Santiago - entrava in bagno e apriva tutti i rubinetti perché non si udissero i colpi di disciplina, ma io li udivo» (Santiago Escrivà de Balaguer y Albàs, Sum. 7346).129 Ricardo Fernàndez Vallespm, AGP, RHF, T-00162, p. 22.130 Cfr Appunti, n. 1227.131 Cfr ibidem, n. 1229.132 Cfr ibidem, n. 1234. Quel giorno, 21 febbraio 1935, fu la prima volta che il Fondatore riunì i membri dell’Opera per informarli ufficialmente di una decisione di questo genere (si trattò, in questo caso, di Ricardo Fernàndez Vallespm, Juan Jimànez Vargas e Manolo Sainz de los Terreros).133 Lettera di Isidoro Zorzano al Fondatore, del 27-11-1935 (in AGP, IZL, D-1213, n. 75).134 C I 01,27-11-1935.135 Cfr Appunti, nn. 1233 e 1232. In merito al comportamento dei sacerdoti che gli stavano intorno, il Fondatore faceva un’eccezione per due di essi: don Saturnino de Dios e don Eliodoro Gii (cfr ibidem, nn. 1217 e 1235).136 Ibidem, n. 1243.137 Ibidem, n. 1277.
635
138 Ibidem, nn. 1246 e 389. Sulle sgradevoli esperienze di quei giorni, cfr ibidem, nn. 1234, 1237, 1245, 1247 e 1266.139 Ibidem, n. 1225; per alcuni dettagli sulla cerimonia: Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, p. 25.140 Appunti, n. 1287 e nota 974; Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T- 04152/1, p. 6. Isidoro Zorzano e José Maria Gonzàlez Barredo quel giorno non poterono fare la “Fedeltà” essendo fuori Madrid (cfr C 104, 11-111-35 e C 108, 24-111-35; cfr anche la lettera di Isidoro Zorzano del 18-111-35 in AGP, IZL, D-1213, n. 78).141 Ibidem, n. 1258.142 C 102, 2-III-35.143 Appunti, n. 1237.144 L’istanza del Fondatore al Vescovo di Madrid-Alcalà per la concessione di un oratorio semipubblico è del 13-111-1935. La visita del luogo destinato al culto venne delegata al parroco della zona, quello di S. Marco, che il 27 marzo 1935 trovò l’oratorio «nelle dovute condizioni e dotato di quanto è necessario per il culto», e procedette a benedirlo, affinché fosse «abilitato per celebrarvi la santa Messa» (cfr Relazione del Parroco di S. Marco, del 27-111-1935, in Archivio Generale dell’Arcivescovado di Madrid-Alcalà, sezione oratori (1931-1936). Il decreto di erezione dell’oratorio è del 10-IV-1935; originale in AGP, RHF, Sez. Giuridica 1/8066.145 Talvolta il Fondatore parlò di questa provvidenziale donazione di oggetti. Non fu possibile identificare il benefattore, ma don Josemaria non se ne meravigliò - riferisce Mons. Alvaro del Portillo - perché era persuaso che si trattasse di una risposta alle sue preghiere da parte dello stesso S. Giuseppe, al quale si era raccomandato (cfr Sum. 305).«Commentò alcune volte l’accaduto nelle meditazioni o nelle prediche, per invitare alla fiducia in Dio» (Juan Jiménez Vargas, PM, f.927). La frase “Ite ad Joseph ” è l’eco della raccomandazione biblica agli affamati: “ricorrete a Giuseppe!” , che era il sovrintendente del Faraone. Sulla chiave del tabernacolo, cfr Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, p. 24.146 C 109, 30-111-35.147 C 110, 2-IV-35.Venerdì 29 marzo ottenne il permesso verbale del Vicario per celebrare la Messa domenica 31 e lasciare il Santissimo nel tabernacolo (cfr AGP, RHF, AVF-0007, p. 8, del 29-111-35; e AVF-0009, p. 10, del 24-IV-35).A Isidoro comunicarono la notizia per telefono ed egli scrisse l’I aprile: «Che grande gioia mi avete procurato ieri! (...). Questa notte mi sono svegliato diverse volte ripensandoci» (AGP, IZL, D-1213, n. 80).148 Cfr Ricardo Fernàndez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, p. 26; e Aurelio Torres-Dulce, AGP, RHF, T-03773, p. 3.149 C 113, 15-V-35.150 Sulla romena a Sonsoles esiste una Caterina del 7-V-1935, che dice: “Ad
636
Avila nacque una “usanza” mariana, che si radicherà per sempre nell’Opera. Non dico altro, perché se ne parla altrove” (Appunti, n. 1270).In effetti, della romena fu fatta una relazione, iniziata da Ricardo R Valle- spin e proseguita e conclusa dal Fondatore. La si trova in AGP, RHF, AVF-0010.- Si è preferito lasciare il termine spagnolo romena (“pellegrinaggio” ), poiché sia l’episodio narrato sia l’”usanza mariana” voluta dal Fondatore e praticata dai membri dell’Opus Dei è caratterizzata normalmente dalla presenza di un ridotto numero di persone, a differenza dell’idea di folla presente nell’italiano “pellegrinaggio” (NdT).151 Ibidem.152 Durante il ritorno della romena a Sonsoles accadde un episodio che don Josemarìa riferì, assieme ai punti meditati nel pomeriggio:“Al ritorno, mentre recitavamo il Santo Rosario, in latino, ecco un’upupa attraversarci in volo la strada. Mi sono distratto e ho gridato: un’upupa! Null’altro: abbiamo seguitato a pregare; io, vergognandomi un po’. Quante volte gli uccelli di una illusione mondana vogliono distrarci dai tuoi apostolati! Con la tua grazia mai più, Signore.E l’ultima cosa: i punti di meditazione che abbiamo considerato al ritorno, in treno.1) Dio nostro Padre avrebbe potuto, con buona ragione, scegliere chiunque altro per la sua Opera, al nostro posto.2) Dobbiamo contraccambiare l’Amore Misericordioso di Gesù, che ci ha scelti per la sua Opera (più o meno questo).3) Vedere quanto è bello l’apostolato dell’Opera e quanto grande sarà l’impresa entro pochi anni - e anche ora - se corrispondiamo.La petizione: uno spirito di sacrificio totale, di schiavitù, per Amore, per l’Opera. Madrid, maggio 1935” (AGP, RHF, AVF-0010).153 Appunti, n. 1240; cfr anche n. 1295.154 Ibidem, n. 1244.155 Ibidem, n. 1267.156 Ibidem, n. 1285.157 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 1 e 588. Egli fece suo con facilità in quel breve contatto lo spirito dell’Opera e del Fondatore, dal momento che in “Notizie” del settembre 1935, passando in rassegna le notizie che arrivavano da coloro che stavano in vacanza, il Padre scrisse: “Alvaro del Portillo si è dedicato con successo, a La Granja, alla famosa pesca di cui parla S. Marco nel primo capitolo del suo Vangelo” (AGP, RHF, D-03696).158 C 126, 22-VIII-35.159 Nella lettera del 5-IX-1935 don Josemarìa gli disse: “Riccardo, figlio mio, sento la preoccupazione di non averti detto - perché non lo ritenevo necessario - di offrire bene al Signore, per mezzo di Maria, tutte le piccole contrarietà della tua malattia (...). Abbi cura di te. Non preoccuparti di niente e non tornare a casa finché non ti senti forte” (C 129, 5-IX-1935). Cfr C 130 del 6-IX-1935.
637
160 Alvaro del Portillo, Sum. 452.161 Appunti, nn. 1808, 1810 e 1811.162 Ibidem, nn. 1812el813.163 Ibidem, n. 1821.164 Lettere di Isidoro Zorzano al Fondatore, del 30-X-1930 e del 27- II- 1931. Originali in AGP, IZL, D-1213, nn. 10 e 14.165 Ibidem, del 3-II-1933, del 15-11-1933, del 21-111-1933, del 24-111-1933, ecc. (nn. 26, 27, 30, 31).166 Ibidem, dell’8-V-1934, del 21-V-1934, dell’8-VI-l934, del 9-VII-1934, del 26-VII-1934, ecc. (nn. 52, 54, 56, 57, 59).167 C 15, 1-III-31; C 16, 3-III-31. (Negli scritti e nella predicazione del Fondatore è molto frequente trovare i termini “pazzo” o “matto da legare”, o simili; sono gli stessi che taluni gli elargivano per il suo messaggio di santità nel mondo. Ma don Josemaria trasformava queste espressioni denigratorie in qualcosa di positivo: nella confessione del suo fine amor di Dio, al di sopra di ogni umano pregiudizio).Ecco altre forme di commiato nella corrispondenza con Isidoro del 1931: “Un affettuoso abbraccio fraterno da questo pazzo, José Maria” (C 19, 6-V-31).“Fraternamente ti abbraccia, José Maria” (C 20, 14-VIII-31). “Fraternamente, prega per te José Maria” (C 22, 10- XI-31).168 C 51, l-VI-34.169 Appunti, n. 1152; sull’uso della parola “Padre”, ibidem, n. 1032.170 Ibidem, n. 385; l’annotazione prosegue: “Mi chiede preghiera. Mi conduce per strade d’Amore, perché io sia una brace e un pazzo. Brace che accenda di un fuoco divoratore molte anime di apostoli, anch’essi pazzi - pazzi di Cristo - che finiranno per trasformare il mondo in un falò” .171 Ibidem, n. 1725.172 Ibidem, n. 1293, del 28-X-35. Cfr ibidem 1199 e 1200.173 Ibidem, nota 357. Il 22 novembre 1931 annotava: “Signore Dio, metti ottant’anni di gravità e di esperienza sopra il mio povero cuore, troppo giovane” (n. 409).174 “Adesso, se sento queste cose divertenti, mi piacciono ancora, ma passo un brutto momento. Se le dico, se mi sfugge qualche sciocchezza, immediatamente provo amarezza. È Gesù che impone gli ottant’anni di gravità sul mio povero cuore, troppo giovane” (n. 465).175 Ibidem, n. 506. Uno dei propositi del corso di ritiro del giugno 1933 riguardava il modo di celebrare la Messa: “Messa di sacerdote anziano e grave, senza manierismi” (ibidem, n. 1720; e, in una Caterina del 6-XI- 1933, ritornò sull’argomento: “Mi manca ancora molto per avere la gravità che desidero” n. 1073).176 Ibidem, n. 1766.
638
177 Ibidem, n. 1658.178 Ibidem, n. 1832.179 Lettera 6-V-1945, n. 23.180 Appunti, n. 678; cfr ibidem, nn. 1078 e 1080.181 Cfr ibidem, n. 1841.182 Ibidem, n. 1283.183 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 308; Juan Jiménez Vargas, Sum. 6713 e 6716; Meditazione del 19-111-1975; C 124, 12-VIII-35.184 Appunti, n. 1298.185 La storia di queste vocazioni è differente, benché simile quanto al modo di avvicinarsi all’Opera e alla comprensione del suo carattere soprannaturale: «Conobbi per la prima volta don Josemaria - riferisce Pedro Casciaro- nel gennaio 1935, a Madrid, all’Accademia Residenza DYA, in via Ferraz 50; fui presentato da un mio amico d’infanzia, allora studente in Legge.Gli facevo visita ogni settimana, per confessarmi e parlare con lui. Alcune settimane dopo cominciai ad assistere ai mezzi di formazione che teneva per studenti universitari: io ero allora studente della Scuola Superiore di Architettura di Madrid. Tutto questo fino alle vacanze estive (...). Poiché temevo che egli non mi consentisse subito di chiedere l’ammissione, lo feci con una lettera, che spedii per posta. Quando pensai che ormai l’avesse ricevuta, andai a trovarlo. Allora egli diede inizio alla mia formazione» (Sum. 6312 e 6313).«Conobbi don Josemaria - dichiara Francisco Botella - il 13 ottobre 1935, nella Residenza di via Ferraz 50, a Madrid. A quel tempo studiavo Architettura e Scienze Matematiche. Un mio compagno, Pedro Casciaro, mi condusse alla Residenza, senza che io conoscessi ancora l’esistenza dell’O- pus Dei (...). Continuai a frequentare la Residenza, partecipando ad alcuni circoli tenuti da don Josemaria. Il 23 novembre 1935 chiesi di entrare nel- l’Opera; e il 7 gennaio 1936 andai a vivere nella Residenza» (Sum. 5605).186 Aurelio Torres-Dulce, AGP, RHF, T-03773, 3.187 Cfr Appunti, nn. 1163, 1165, 1167.188 Ibidem, n. 1160.189 Sum. 5790.190 Ricardo Fernàndez Vallespm, AGP, RHF, T-00162, p. 26.191 Appunti, n. 1095.192 Ibidem, n. 1268.193 Ibidem, n. 1751. Lo scriveva nel giugno 1934.194 Ibidem, n. 1789.195 Ibidem, n. 1732.196 Ibidem, n. 1093.197 E prosegue: «Tutto ciò che si può dire in questo senso è poco. Per le as
639
sodate della sezione femminile il rapporto con don Josemaria si limitava alla direzione spirituale» (Natividad Gonzàlez Fortun, Sum. 5875 e 5869). Riferendosi ad alcune penitenti, scrisse in merito al proprio modo di trattarle: (...) “a me, che sono così sgradevole”; e commenta Mons. del Portillo: «Il Padre faceva in modo, in confessionale, di essere molto duro e sbrigativo con le donne» (Appunti, n. 1304 e nota 987).198 Felisa Alcolea, che conobbe don Josemaria nel 1933 e chiese l’ammissione all’Opera nel marzo 1934 (cfr ibidem, n. 1169), attesta: «Abbiamo avuto qualche altra riunione con don Josemaria, ma dopo poco tempo, poiché egli aveva molto lavoro, fu don Lino Vea-Murguia che si occupò in particolar modo di noi» (AGP, RHF, T-05827, 2). Conferma l’aiuto di don Lino anche un’altra testimonianza di Ramona Sànchez, che chiese l’ammissione insieme a Felisa Alcolea (cfr Appunti, n. 1196), la quale, riferendosi alla catechesi che facevano nella parrocchia di Tetuàn, dice: «Si sarebbe occupato di questa catechesi anche don Lino Vea-Murguia» (AGP, RHF, T-05828, p. 1).199 Cfr Appunti, n. 1181.200 In una annotazione del 26 aprile 1935 si legge: “Il sabato successivo al venerdì di Passione ho avuto un dispiacere molto grande. Tanto che mi dispiaceva di aver convocato cinque delle nostre per quel giorno. Sono venute e ho parlato loro dell’Opera, in particolare del suo apostolato: si sono entusiasmate” (ibidem, n. 1265).201 Felisa Alcolea, AGP, RHF, T-05827, p. 5.202 La Caterina prosegue: “Gesù mio, che consolazione ti devono dare con la loro condotta! Non abbandonarmeli. Madre mia - Mamma del Cielo -, sii molto Madre per i miei figli” (Appunti, n. 1200).203 Ibidem, n. 1288.204 Eduardo Alastrué, AGP, RHF, T-04695, p. 1.205 Cfr Pedro Casciaro, Sum. 6319; Alvaro del Portillo, Sum. 375.206 «La conversazione con il Padre - dichiara José Ramon Herrero Fontana- apriva un mondo nuovo con orizzonti sconfinati per la vita interiore e l’apostolato. Parlava di problemi reali - era molto realistico - ma diceva cose che nessuno aveva detto fino ad allora: accanto a lui si sentiva con forza la chiamata di Dio alla santificazione in mezzo al mondo (...). L’incontro col Padre mi trasformò: mi svelò un mondo interiore mai sognato e grandi desideri di avvicinare altri alla conoscenza e all’amicizia con Nostro Signore Gesù Cristo» (AGP, RHF, T-05834, p. 4).«Ho ancora vivo nella memoria il suo sguardo profondo che mi si è confitto nell’anima e la sua allegria che mi ha trasformato, riempiendomi di gioia e di pace», dice un altro degli studenti dopo il primo incontro con don Josemaria (Francisco Botella, AGP, RHF, T-00159/1, p. 201).207 Cfr Alvaro del Portillo, Sum. 365.208 Cfr Pedro Casciaro, Sum. 6401.209 Alvaro del Portilloj PR, p. 397; cfr anche l’impatto della sua predicazione: Eduardo Alastrué, Sum. 5526.
640
210 Appunti, n. 304.211 Ibidem, n. 901.212 Felisa Alcolea, AGP, RHF, T-05827, p. 5; cfr anche José Ramon Herre- ro Fontana, AGP, RHF, T-05834, p. 4.213 Cfr Appunti, Nota preliminare, p. 9, e nota 152.214 Ibidem, n. 503.215 Lettera 24-111-1930, n. 2. Questa lettera, come pure altre di quegli anni, ha subito nel corso del tempo dei ritocchi terminologici, ma la sostanza del contenuto è rimasta invariata. Per questo il Fondatore conservò la data della prima redazione.216 Lettera 24-111-1931, n. 1.217 Lettera 9-1-1932, n. 91. Alcune di queste Lettere sono molto estese. Questa è di ottanta pagine.218 Lettera 16-VII-1933, n. 1.219 Appunti, n. 368.220 Ibidem.221 Ibidem.222 Ibidem, n. 352.223 Cfr ibidem, nn. 695 e 941.224 Ibidem, nn. 14 e 527.225 C 40, 24-VII-33. Il testo avverte che tre punti sono ripresi dal Decena- rio al Espiritu Santo, di Francisca Javiera del Valle (ediz. ital. Decenario allo Spirito Santo, Milano 1995). Cfr anche Appunti, n. 688.226 Soppresse i tre punti ripresi dal Decenario; ma lasciò due considerazioni del suo confessore, con qualche variazione: “Una frase, molto bella, del P. Sànchez per i membri dell’Opera: a chi può essere un luminare non si perdona che non lo sia” (Appunti, n. 234); frase che comparirà in Considerazioni spirituali, p. 24, e poi in Cammino, cit., n. 332: “A chi può essere un sapiente, non perdoniamo di non esserlo” . L’altra è in Appunti, n. 329 e in Cammino, cit., n. 61.227 Cfr lettera di don Sebastiàn Cirac a don Josemaria, del 9-IV-1934 (in AGP, RHF, D-15225).228 Appunti, n. 1183.229 Lettera di don Sebastiàn Cirac a don Josemaria, del 18-V-1934 (in AGP, RHF, D-15225).230 Ibidem.231 Appunti, n. 1233; questa riflessione si legge in Cammino, n. 367, ma senza la frase: “esce dall’immondo animale, trasformato in escremento”.232 Cfr Appunti, nn. 530, 580, 674, 735, ecc. Il Quaderno V inizia il 3-XII- 1931 e termina il 12-VIII-1932.233 Considerazioni spirituali, p. 37. Circa il retto uso e l’esatto significato
641
della frase: “santa e apostolica facciatosta o santa facciatosta”, cfr Appunti, nn. 178, secondo paragrafo, e n. 1126.234 Lettera di don Sebastiàn Cirac a don Josemarìa, del 28-V-1934; originale in AGP, RHF, D-15225. Se con il Vescovo perse la battaglia della santa facciatosta, con don Sebastiàn perse quella “dei gerundi” . Don Josemarìa pensava di aver messo troppi gerundi, ma due di essi compaiono nella “avvertenza preliminare” di Considerazioni spirituali, nonostante le istruzioni che aveva dato a don Sebastiàn perché li eliminasse (cfr Appunti, n. 1298). (Le forme di gerundio a cui si riferiva erano: “rispondendo alle necessità di giovani laici” e “non pretendendo con questo di colmare innegabili lacune ed omissioni)” .235 «Considerazioni spirituali, di José Maria, Cuenca, Tipografia Moderna 1934». Questa edizione di Considerazioni spirituali fu pubblicata solo con il nome dell’autore, senza cognome. Mons. del Portillo, dopo aver detto che si trattava di un accorgimento dettato dall’umiltà, aggiunge: «Ma poco dopo, nel 1939, pubblicò Cammino con il proprio nome completo: “Mi ero già fatto esperto”, era solito dire il Padre» (Appunti, n. 190, nota 206). In una lettera del 6-V1I-1934, il Fondatore scriveva così al Vicario Generale di Madrid: “Accludo un esemplare del libretto che hanno stampato a Cuenca. Quello del Santo Rosario non è ancora stato stampato; quando lo sarà, gliene invierò due esemplari” (C 55, 6- VII-34).236 Cfr Cammino, nn. 387, 388, 389, 390, 391.237 Alvaro del Portillo, Sum. 559. Cfr anche Lettera 29-XII-l947/14-11- 1966, n. 84; Lettera 14-IX-1951, nn. 28, 65.238 C 48, 26-IV-34.239 Considerazioni spirituali, n. 14.240 Considerazioni spirituali, n. 34.Negli Appunti intimi troviamo le seguenti note: “Un’ora di studio è oggi - e per i nostri, sempre - un’ora di apostolato” (Appunti, n. 801); e: “Ogni ora di studio - per l’Opera, per Amore - sarà davanti a Dio un’ora di orazione” (ibidem, n. 1677).Cammino, al n. 335, ne darà una terza versione: “Un’ora di studio, per un apostolo moderno, è un’ora d’orazione” .Nella prima pagina di Notizie del settembre 1934, si legge:- “Piano del prossimo anno accademico: Fede - Perseveranza - Cocciutaggine! - e un comportamento coerente con la nostra fede.- Studiare, fin dal primo giorno, sapendo che adempiamo un obbligo grave.- Al di sopra dello studio: formarci spiritualmente, per vivere la vita interiore che deve avere un cattolico..., con tutte le conseguenze” (AGP, RHF, D-03696).241 Francisco Botella, AGP, RHF, T-00159/1, p. 5.242 Le tre “Istruzioni” scritte fino ad allora dal Fondatore erano: Istruzione sullo spirito soprannaturale delVOpera di Dio, 19-111-1934; Istruzione sul modo di fare il proselitismo, 1-IV-1934; Istruzione sull3opera di S. Raffaele, 9-1-1935.
642
243 Istruzione 19TII-1934, nn. 1 e 6.244 Ibidem, nn. 47-49.245 Francisco Botella, AGP, RHF, T-00159/1, p. 5; Ricardo Fernàndez Val- lespin, AGP, RHF, T-00162, p. 17.246 Cfr Istruzione l-IV-1934.247 Ibidem, n. 65.248 Istruzione 9-1-35, nn. 1 e 2249 Appunti, n. 1312. Subito dopo spiegava i motivi del trasferimento: “Il motivo di lasciare per un certo tempo il Convento (di Santa Isabel) è stato duplice: da una parte, per evitare i possibili disordini in vista delle elezioni; dall’altra, il fatto che la mamma esca per un po’ dalla casa di Santa Isabel, che si addice poco alla sua salute, perché è molto umida” (ibidem, n. 1313).250 Ibidem, n. 1317.251 Ibidem, n. 1320.252 Ibidem, nn. 1324-1325.253 Ibidem, nn. 1315 e 1318.254 C 146, 10-111-36. Del colloquio avuto con il Vicario, don Francisco Moràn, il 31 agosto 1934, il Fondatore scrisse una relazione, nella quale si dice fra l’altro: “Gli dissi anche che “questi ragazzi” cercano di aprire Accademie con Residenza presso i principali Centri universitari stranieri. Gli sembra ammirevole. Non ricordo che espressione usò” (AGP, RHF, AVF-0002, pp. 2-4).255 Appunti, n. 1322.256 Ibidem, n. 1295. Cfr anche Alvaro del Portillo, Sum. 593; Joaqum Alonso, Sum. 4627.E proseguiva: “In questi giorni, il Vescovo di Pamplona e l’Ausiliare di Valencia mi hanno dimostrato un affetto che non so come ricambiare. Ancheil Vicario di Madrid, Don Francisco Moràn, che è venuto giovedì scorso a celebrare la S. Messa nel nostro oratorio, è pieno di affetto per l’Opera” .257 C 145, 3-III-36.Mons. Marcelino Olaechea Loizaga nacque a Baracaldo (Vizcaya) il 9-1- 1889. Religioso salesiano, fu ordinato sacerdote nel 1912. Fu Provinciale di Castiglia e Tarragona. Nell’anno 1934-35 era Superiore del Collegio dei Salesiani de La Redonda de Atocha, a Madrid, molto vicino al Patronato di Santa Isabel. Nel 1935 fu nominato Vescovo di Pamplona e nel 1946 Arcivescovo di Valencia. Resse questa diocesi fino al 1966. Morì a Valencia il 21-X-1972.258 C 144, 3-III-36.Mons. Francisco Javier Lauzurica y Torralba nacque a Yurreta (Vizcaya) il 3-XII-1890. Ordinato sacerdote nel 1917, poco dopo fu canonico archivista della Collegiata di Logrono e professore di Cosmologia e Psicologia nel Seminario Maggiore della città. Nel 1931 fu nominato Vescovo ausiliare di Valencia e dal 1931 al 1936 fu Rettore del Seminario di Valencia. Nel
643
1937 Mons. Lauzurica fu nominato Amministratore Apostolico di Vitoria; nel 1947, Vescovo di Palencia e nel 1949 Arcivescovo di Oviedo, città nella quale morì il 12-IV-1964.259 Appunti, n. 1321.260 Cfr ibidem, nn. 1320 e 1323.261 Ibidem, n. 1304.262 Ibidem, n. 409.263 Ibidem, n. 144.264 Ibidem, n. 147.265 Ibidem, n. 158.266 Segreteria Generale dell’Arcivescovado di Madrid-Alcalà - Sezione Oratori (1931-1936). È pure sintomatico che il Fondatore, portando il Vicario Generale a conoscenza delle iniziative apostoliche, le presenti come sue o “di questi ragazzi, che cercano di aprire Accademie con Residenza presso i principali Centri universitari stranieri” (AGP, RHF, AVF-0002, pp. 2-4).267 Miguel Deàn Guelbenzu, AGP, RHF, T-04741/1, pp. 9-10.Nelle meditazioni il Padre era solito parlare loro di vocazione matrimoniale, alla quale erano chiamati e nella quale si dovevano santificare i giovani dell’opera di S. Gabriele, in maggioranza ancora celibi.Cfr Juan Jiménez Vargas, AGP, RHF, T-04152/1, p. 24; e Alvaro del Portillo, Sum. 1099.Miguel Deàn ricorda a questo proposito la conversazione che ebbe un suo amico, Angel Santos Ruiz, con il Padre: «Condussi Angel in via Ferraz. Parlò e si confessò con il Padre. So che questi gli disse: “Hai vocazione al matrimonio e ora vediamo se ti trovi una moglie buona, bella e ricca” . E soggiunse, con la sua caratteristica simpatia: “Ma te la devi cercare tu, perché io non sono un agente matrimoniale” » (Miguel Deàn Guelbenzu, AGP, RHF, T-04741/1, p. 8).268 C 145, 3-III-36.Nel ritiro del giugno 1933 il Fondatore considerò il lavoro apostolico dell’opera di S. Gabriele nella prospettiva di creare una “Società di Collaborazione Intellettuale” (So-Co-In), che sarebbe stato il germe del lavoro futuro, come scrisse negli Appunti intimi: “In questi giorni, in base a quanto ho visto nel mio ritiro di giugno, ho redatto Regolamenti e cerimoniale per la So-Co-In” (n. 1049).E in una nota per il suo confessore (del 26-X-1933) esponeva il desiderio di organizzare nell’Accademia DYA riunioni settimanali per professionisti: “un’altra riunione settimanale per i nostri amici (S. Gabriele) avvocati, medici, architetti, ingegneri, laureati in filosofia, lettere, storia, scienze, ecc., tutti giovani, allo scopo di avviarci alla fondazione della “So-Co-In” all’inizio dell’anno 1934” (ibidem, n. 1733).Cfr anche Miguel Deàn Guelbenzu, AGP, RHF, T-04741/1, p. 9.269 Appunti, n. 1290.270 C 141, 6-11-36.
644
271 Appunti, n. 1307.272 C 144, 3-111-36.273 Diario del viaggio a Valencia, dal 20 al 23 aprile 1936, scritto da don Josemaria e da Ricardo durante i giorni di permanenza a Valencia (originale in AGP, RHF, D-15346).274 Cfr Appunti, nn. 1323, 1331, 1332, 1347, 1351, 1357, ecc.275 C 162, 2-V-36.276 Appunti, n. 1334.277 La confisca del Patronato di Santa Isabel e l’espulsione delle religiose non furono immediati, per cui potè ancora celebrarvi la Messa per diverse settimane (cfr C 163, l-VI-36; Appunti, nn. 1334-1337).Sulle mormorazioni contro l’Opera: ibidem, nn. 1342, 1345. Una Caterina del 31-V-1936 dice: “In questi giorni, che io sappia, religiosi di tre diversi istituti se la sono presa con noi. Persecuzione dei buoni? Cose del demonio” (ibidem, n. 1346). Quanto alle facoltà, alla fine di maggio l’Arcive- scovo di Saragozza gliele concesse generali perpetue (ibidem, n. 1344).278 Ibidem, n. 1350.279 Ibidem, n. 1352.280 Ibidem, n. 1343.281 Istruzione 31-V-36, n. 2.282 Ibidem, n. 27.283 Appunti, n. 1356.284 Ibidem, n. 1361.285 C 165, 18-VI-36.286 Appunti, n. 1373.287 Ibidem, n. 1365.288 Ibidem, n. 1369.289 Ibidem, n. 1371.290 Ibidem, n. 432.291 Ibidem, n. 1369.292 Ibidem, 1372.293 Ibidem.294 Ibidem.295 Ibidem, n. 1371.296 C 168, l-VTI-36; C 169, 7-VII-36; C 170, 15-VTI-36.297 Cfr Francisco Botella, AGP, RHF, T-00159/1, p. 12; e Ricardo Fernàn- dez Vallespin, AGP, RHF, T-00162, pp. 31-32.
645
Appendice documentale
Indice dei documenti
I. Famiglia Escrivà de Balaguer-Albàs. Ascendenza recente.
II. Atto di Battesimo del padreIII. Atto di Battesimo della madreIV. Atto di Matrimonio dei genitoriV. Atto di Battesimo della sorella maggiore
VI. Atto di nascita di JosemariaVII. Atto di Battesimo di Josemaria
VIII. Studi di LiceoIX. Studi ecclesiastici nei Seminari di Logrono (1919-
1920) e Saragozza (1920-1925)X a). Dati che si riferiscono a Josemaria nel libro “De vita et
moribus”.X b). Testimonianza di don José Lopez Sierra, Rettore del
Seminario di S. Francesco di Paola, datata Saragozza, 26-1-1948.
XI. Certificazione della ricezione degli Ordini Sacri (1922- 1925)
XIL Pratica accademica degli studi nelle Facoltà di Diritto di Saragozza (Licenza) e Madrid (Dottorato)
XIII. Nota necrologica per José Maria SomoanoXIV. Nota necrologica per Luis GordonXV. Nota necrologica per Maria Ignacia Escobar
647
DOCUMENTO I Famiglia Escrivà de Balaguer-Albàs. Ascendenza recente
648
649
L’originale dell’atto di Battesimo si trova nell’archivio della parrocchia dell’Assunzione, di Fonz (Huesca), nel Libro dei Battesimi, IX, foglio 271. Contiene vari errori, fra i quali “Escribà”, “Zaidin” e “Perarruga”, al posto di “Escrivà”, “Zaydìn” e “Perarrua” .
Don Antonio Buil Salinas, Sacerdote Economo della Parrocchia di Nostra Signora e incaricato dell’Archivio parrocchiale di Fonz, diocesi di Barbastro, Provincia di Huesca,
CERTIFICO: Che nel foglio 271 del libro IX dei battesimi di questo archivio parrocchiale, si trova scritto un atto che, copiato alla lettera, dice così:
Sul margine: José Escribà
Al centro: Il giorno 15 ottobre del 1867, io Antonio Co- met parroco di questo paese di Fonz ho battezzato solennemente un bimbo nato alle dodici dello stesso giorno, figlio legittimo di José Escribà y Zaydin, originario di Perarrua, e Constancia Corzan Manzana, di Fonz: nonni paterni Don José, di Balaguer, e Donna Vitoriana Zaidin, di Perarruga; materni Don Antonio Corzan e Donna Nico- lasa Manzana, entrambi di Fonz; gli è stato messo il nome di José: ha fatto da madrina sua sorella Constancia, da avvertita della parentela e degli obblighi: e ho firmato. Antonio Comet Quintana
Quanto sopra è copia esatta dell’originale a cui si riferisce. E che sia così lo certifico, firmo e timbro con il timbro della parrocchia, in Fonz, il giorno 21 gennaio 1985.
don Antonio Buil
DOCUMENTO IIAtto di Battesimo del padre
650
L’originale dell’atto di battesimo si trova nell’archivio della parrocchia dell’Assunzione di Barbastro, Libro dei Battesimi, XXXVII, foglio 121.La bimba fu battezzata assieme alla sorella gemella, Maria Concepción, che morì due giorni dopo. L’atto contiene un errore: la nonna materna non si chiama Isidora Blanc, ma Isi- dora Barón Solsona.
Don Lino Rodrìguez Pelàez, incaricato dell’Archivio parrocchiale della parrocchia dell’Assunzione (Cattedrale), diocesi di Barbastro,
CERTIFICO: Che nel foglio 121 del libro XXXVII dei battesimi di questo archivio parrocchiale, si trova scritto un atto che, copiato alla lettera, dice così:
Sul margine: Maria de los Dolores (obiit.) Albàs. la di due gemelle
Al centro: In Barbastro, il ventitré marzo del 1877, io •Dott. don Teodoro Valdovinos, Parroco della stessa, ho battezzato solennemente una bimba nata alle due del pomeriggio dello stesso giorno, figlia legittima di Don Pa- scual Albàs e di Donna Florencia Blanc, originari e abitanti di questo paese, pasticceri. Nonni paterni i defunti Don Manuel, di Boltana, e Donna Simona Navarro, di questo paese; materni D. Joaquìn e Donna Isidora Blanc, defunta, di questo paese. Le si è imposto il nome di Maria de los Dolores. Madrina, sua zia Donna Dolores Blanc, sposata, di questo paese, da me avvertita di quanto abituale. Dott. Don Teodoro Valdovinos
Ciò che precede è copia esatta dell’originale. E perché così consti, firmo la presente, in Barbastro, il 21 gennaio 1985.
don Lino Rodrìguez
DOCUMENTO IIIAtto di Battesimo della madre
651
L’originale si trova nell’archivio della parrocchia dell’Assun- zione di Barbastro, libro XLII dei Sacramenti (Matrimoni), fogli 51v-52. La nota a margine introduce il cambio di cognome.
Anche se nell’atto si afferma che José Escrivà aveva 29 anni, ne aveva invece già compiuti 30.
DON LINO RODRIGUEZ PELAEZ, sacerdote incaricato della Parrocchia dell’Assunzione (Cattedrale) della diocesi di Barbastro,
CERTIFICO: che nei fogli 51v e 52 del libro XLII dei Sacramenti (Matrimoni) è scritto l’atto di matrimonio di don José Escrivà e di Donna Dolores Albàs che, copiato letteralmente, dice così:
«A Barbastro, il 19 settembre del 1898 io, don Maximino Lafita, Sacerdote economo di questa città, ho autorizzato l’HLmo signor don Alfredo Sevil, Giudice diocesano e Vicario Generale dell’Arcivescovado di Valladolid, Canonico e Arcidiacono eletto della stessa, il quale, alla presenza del signor Don Francisco Armisén, Giudice Municipale supplente, assistette al matrimonio che con espressioni legittime e di persona hanno contratto in facie Ecclesiae Don José Escrivà, celibe, originario di Fonz, abitante a Barbastro, commerciante di 29 anni di età, figlio legittimo di Don José, di Pe- rarrua e Donna Constancia Corzàn, di Fonz; e Donna Dolores Albàs, nubile, originaria e abitante di Barbastro, di 21 anni di età, figlia legittima del defunto Don Pascual, di Barbastro e di Donna Florencia Blanc, originaria e abitante nello stesso paese. Verificati tutti i requisiti necessari per la validità e legittimità di questo contratto sacramentale, di cui furono testimoni Don Mariano Romero e Don Luis Sambeat, sposati, possidenti e abitanti di questa città. I contraenti scambiarono reciprocamente il consiglio e assenso legale favorevole, e assistettero alla Messa nuziale.
Alfredo Sevil e Maximino Lafita.
DOCUMENTO IVAtto di Matrimonio dei genitori
652
E, perché consti, firmo il presente in Barbastro il 19 marzo 1981.
DON LINO RODRIGUEZ
Riconoscimento e legalizzazione di firma.Barbastro, 20 marzo 1981
Mons. RAIMUNDO MARTIN, Vicario Generale
Nota marginale
Don José Escrivà e Donna Dolores Albàs, 29 e 21 anni. Cat. la. Per ordine dell’Ill.mo Delegato Episcopale di questa diocesi di Barbastro, dettato il 27 maggio 1943, si cambia su questo atto il cognome Escrivà” in quello di “Escrivà de Balaguer” dovendosi leggere e scrivere d’ora in avanti “Don José Escrivà de Balaguer Corzàn”, figlio legittimo di Don José Escrivà de Balaguer e di Donna Constan- cia Corzàn. - Barbastro, 20 giugno 1943 - José Palacio
653
DOCUMENTO V Atto di Battesimo della sorella maggiore,
Carmen Escrivà de Balaguer
L’originale si trova nell’archivio della parrocchia dell’Assunzione, in Barbastro, Libro dei Battesimi, XLII, foglio 22. Riporta vari errori di ortografia sul cognome “Escrivà”.
Don José Palacio, canonico, sacerdote incaricato della parrocchia della città di Barbastro
Certifico: che nel foglio 22 del tomo 43 dei libri di questa parrocchia esiste un atto che dice così:
Sul margine: Maria del Carmen Constancia Florencia Escribà.
All’interno: In Barbastro, il giorno 18 luglio 1899, io, don Maximino Lafita, parroco di questa città, ho battezzato solennemente una bimba nata avantieri alle 7,15 della sera, figlia legittima di Don José Escrivà, di Fonz, e di Donna Dolores Albàs, di Barbastro, abitanti e commercianti di questa città. Nonni paterni Don José e Donna Constancia Corzàn di Fonz; materni Don Pascual e Donna Florencia Blanc, di Barbastro. Le furono imposti i nomi di Maria del Carmen, Constancia Florencia e i padrini furono suo zio Don Mariano Albàs, sposato e la nonna materna, vedova, originari e residenti di questa città, da me avvertiti secondo il Rituale.
Don Maximino Lafita
Perché consti, autorizzo il presente certificato in Barbastro il 24 marzo 1941
Don José Palacio
Nota a margineLa Direzione Generale dei Registri e Notariati ha consentito che si aggiungesse al primo cognome quello di “de Balaguer”, a formare il composto “Escrivà de Balaguer” che userà come unico e primo; conservando come secondo quello che ha attualmente.
654
DOCUMENTO VI Atto di nascita di Josemaria Escrivà de Balaguer
L’originale dell’atto di nascita non esiste più allo Stato civile di Barbastro, poiché gli archivi furono distrutti durante la guerra civile spagnola, nel 1936. Esiste tuttavia un certificato di nascita, steso il 26-IV-1912 da Joaqum Salcedo, Giudice Municipale incaricato dello Stato civile di Barbastro, per essere incluso nell’incartamento scolastico di Josemaria. Tale certificato si trova nell’archivio dell’istituto Generale e Tecnico di Huesca, nella Sezione: Incartamenti degli alunni. L’atto di nascita attualmente esistente allo Stato civile di Barbastro ne è una copia fededegna, fatta dopo la morte di Mons. Josemaria Escrivà.
Don Joaqum Salcedo y Tormo, Giudice Municipale Incaricato dello Stato civile di Barbastro.
Certifica: che nello Stato civile di mia competenza, sezione delle Nascite, tomo 25, foglio 81, si trova il seguente:
Atto di nascita. - Numero 9Don José Maria Julian, Mariano Escrivà y Albàs.
Nella città di Barbastro, provincia di Huesca, alle nove della mattina del giorno 10 gennaio del 1902, davanti a Don Francisco Armisen, Giudice municipale e Don Victo- riano Claver, segretario, comparve Don Manuel Claveria, originario di Barbastro, municipio di Barbastro, provincia di Huesca, maggiorenne, vedovo, di professione messo comunale, domiciliato in questa città in via Encomienda n. 7, presentatosi con la richiesta di iscrivere allo Stato civile un bimbo, in quanto incaricato a ciò dai genitori dello stesso,io dichiaro per scritto:
Che questo bimbo nacque alle 22 di ieri, al domicilio dei genitori, calle Mayor, n. 26.
Che è figlio legittimo di Don José Escrivà, commerciante, di 33 anni, e di Donna Dolores Albàs, di 23 anni, rispettivamente originari di Fonz e di Barbastro.
Che è nipote in linea paterna di Don José Escrivà, defun
655
to, e di Donna Constancia Cerzàn (sic), originari rispettivamente di Peralta de la Sai e di Fonz.
E in linea materna di Don Pascual Albàs, defunto, e di Donna Florencia Blanc, originari di Barbastro.
E che il succitato bimbo deve essere iscritto con i nomi di José Maria, Juliàn, Mariano.
A tutto ciò hanno presenziato come testimoni Don Ramon Meliz, militare in pensione, e Don Amado Beltran, barbiere, sposati, maggiorenni e quivi domiciliati.
Letto integralmente il presente atto e invitate le persone che devono firmarlo a leggerlo direttamente, se lo credevano opportuno, fu timbrato con il timbro del Tribunale municipale e lo firmarono il signor Giudice, il dichiarante e i testimoni, e di tutto questo do fede.
Firme: Francisco Armisen / Manuel Claveria / Ramón Meliz / Amado Beltran / Victoriano Claver.
Concorda fedelmente con l’originale a cui rimetto. E perché consti rilascio il presente certificato in Barbastro il27 aprile 1912.
Il Giudice municipale, Joaquxn SalcedoIl Segretario, Victoriano Claver.
656
DOCUMENTO VIIAtto di Battesimo di Josemaria Escrivà de Balaguer
L’originale si trova nell’archivio della parrocchia dell’Assunzione di Barbastro, foglio 115, Libro XLIII dei Sacramenti (Battesimi). Ha una nota marginale successiva sulla modifica del cognome Escrivà in “Escrivà de Balaguer”.L’atto ripete un errore del documento precedente: il nonno paterno del battezzato era nato a Perarrua, non a Peralta de la Sai.
DON LINO RODRIGUEZ PELAEZ, Sacerdote incaricato della parrocchia dell’Assunzione (Cattedrale) della diocesi di Barbastro,
CERTIFICO: che nel foglio 115 del libro XLIII dei Sacramenti (Battesimi) di questo archivio parrocchiale, si trova scritto l’atto relativo a Mons. Josemaria Escrivà de Balaguer y Albàs che, copiato alla lettera, dice così:
«In Barbastro, il 13 gennaio 1902 io, don Angel Malo Reggente della Vicaria Cattedralizia ho battezzato solennemente un bimbo nato alle 22 del giorno 9, figlio legittimo di Don José Escrivà originario di Fonz e di Donna Dolores Albàs, originaria di Barbastro, coniugi domiciliati e commercianti in questa città. Nonni paterni Don José, di Peralta de la Sai, defunto e Donna Constancia Corzan, di Fonz; materni, Don Pascual, defunto e Donna Florencia Blanc, di Barbastro. Gli furono imposti i nomi di José Maria Juliàn Mariano, essendo padrini Don Mariano Albàs e Donna Florencia Albàs, zii del battezzato, l’uno vedovo e l’altra sposata, domiciliata a Huesca e rappresentata legittima- mente da Donna Florencia Blanc, ai quali ho fatto gli avvertimenti di rito. Firmato: don Angel Malo».
E perché consti, rilascio il presente certificato in Barbastro, il 19 marzo 1981.
DON LINO RODRIGUEZ
Riconoscimento e legalizzazione della firma.Barbastro, 20 marzo 1981
MONS. RAIMUNDO MARTIN, Vicario generale
657
Nota a margine:
DON LINO RODRÌGUEZ PELAEZ, Sacerdote incaricato della parrocchia dell’Assunzione (Cattedrale) della diocesi di Barbastro,
CERTIFICO: che nel foglio 115 del Libro XLIII dei Sacramenti (Battesimi) di questo archivio parrocchiale, si trova trascritto l’atto relativo a Mons. Josemarìa Escrivà de Balaguer con una nota a margine che dice letteralmente:
«Per Ordine dell’Ill.mo Delegato episcopale di questa diocesi di Barbastro, dettato il 27 maggio 1943, si muta su questo atto il cognome “Escrivà” in “Escrivà de Balaguer”, dovendosi leggere e scrivere da qui in avanti “José Maria Juliàn Mariano Escrivà de Balaguer y Albàs”, figlio legittimo di Don José Escrivà de Balaguer e di Donna Dolores Albàs.
Barbastro, 20 giugno 1943. Firmato José Palacio.»
E perché consti, rilascio il presente certificato in Barbastro il 19 marzo 1981.
MONS. LINO RODRÌGUEZ
DOCUMENTO Vili Studi scolastici (1912-1918)
Gli originali delle pratiche sono archiviati nelle segreterie degli Istituti di Huesca e Lerida; nell’istituto “Prdxedes Mateo Sagasta” di Logrono, in cui concluse il curriculum, sì trova l’incartamento completo, protocollo n. 265/6935. A differenza di quanto fatto nel testo, qui si riporta soltanto la traduzione del titolo delle materie; i voti sono trascritti nell’originale spagnolo. L’ordine dei voti, in senso decrescente, è: SOBRESALIENTE (con o senza PREMIO), NOTABLE, APROBADO. La ginnastica non richiedeva voto, ma una semplice nota di capacità (GANADA).
PEDRO GARCIA SANTAMARIA, SEGRETARIO DELL’ISTITUTO
“PRAXEDES MATEO SAGASTA” DI LOGRONO .CERTIFICO: Che JOSÉ MARIA ESCRIVÀ Y ALBAS, ORIGINARIO DI BARBASTRO (HUESCA), ha svolto e superato i seguenti studi:
11 giugno 1912 (Huesca)SCUOLA ELEMENTARE: APPROVATO1912-1913 (Lerida) - Scuola superiore (come alunno libero)LINGUA CASTIGLIANA: SOBRESALIENTE GEOGRAFIA GENERALE DELLA SPAGNA: SOBRESALIENTEARITMETICA E GEOMETRIA: SOBRESALIENTE (PREMIO)RELIGIONE (I corso): SOBRESALIENTE CALLIGRAFIA: NOTABLE1913-1914 (Lerida) - Scuola superiore (come alunno libero)LINGUA LATINA (I corso): SOBRESALIENTE GEOGRAFIA GENERALE DELLA SPAGNA: NOTABLE ARITMETICA: SOBRESALIENTE (PREMIO) RELIGIONE (II corso): SOBRESALIENTE (GRAT.a) GINNASTICA (I corso): GANADA
659
1914-1915 (Lerida) - Scuola superiore (come alunno libero)LINGUA LATINA (II corso): APROBADO FRANCESE (I corso): NOTABLE STORIA DI SPAGNA: NOTABLE GEOMETRIA: SOBRESALIENTE (PREMIO) GINNASTICA (E corso): GANADA1915-1916 (Logrono) - Scuola superiore (come alunno libero)PRECETTISTICA LETT./COMPOSIZIONE: SÓBRESAL. (PREMIO)FRANCESE (II corso): SOBRESALIENTE STORIA UNIVERSALE: NOTABLE ALGEBRA E TRIGONOMETRIA: SOBRESALIENTE DISEGNO (I corso): SOBRESALIENTEPSICOLOGIA E LOGICA: NOTABLESTORIA DELLA LETTERATURA: SOBRESALIENTEFISICA: NOTABLEFISIOLOGIA E IGIENE: SOBRESALIENTE DISEGNO (II corso): SOBRESALIENTE
1917-1918 (Logrono) - Scuola superiore (come alunno ufficiale)ETICA E DIRITTO: SOBRESALIENTE (PREMIO) STORIA NATURALE: SOBRESALIENTE CHIMICA: NOTABLE AGRICOLTURA: SOBRESALIENTE
Gli è stato rilasciato il titolo di Bachiller Superior dal Rettore dell’Università di Saragozza, il 6-VIII-1923.
E perché consti dove convenga al richiedente e su sua richiesta, rilascio il presente certificato con il V.B. dell’Ill.mo Direttore di questo Centro e con il timbro dello stesso, in Logrono, il 10-1-1984.
Firme (illeggibili): IL DIRETTORE / IL SEGRETARIO L’UFFICIALE DI SEGRETERIA
660
DOCUMENTO IX Studi ecclesiastici nei Seminari di Logrono (1919-1920)
e di Saragozza (1920-1924)
I titoli delle materie, se in latino, e i voti sono trascritti in latino, secondo l’originale del documento. L’ordine dei voti, in senso decrescente, è: MERITISSIMUS, BENEMERITUS, MERITUS.
Don Julio Fleta Pou, docente e Segretario degli Studi del Seminario Metropolitano di Saragozza.
CERTIFICO: Che Don José Maria Escrivà, originario di Barbastro, diocesi di Barbastro, Provincia di Huesca, ha fatto e superato in questo Seminario Metropolitano di Saragozza, previ gli studi di Lettere, Filosofia e il I anno di Teologia a Logrono, le materie che, con i rispettivi voti, sono riportate qui di seguito:
Anno accademico 1920-1921II di Teologia:De Verbo Incarnato et Gratia: Meritissimus De Actibus et Virtutibus: Benemeritus Oratoria Sacra: Meritissimus Patrologia: Meritissimus Liturgia: MeritissimusDel I di Teologia:Introductio in S. Scriptum: Meritissimus Exegesis Novi Testamenti: MeritissimusDel IV di Latino:Lingua Graeca: Meritus Lingua Hebraica: Meritus
Anno accademico 1921-1922III di Teologia:De Deo Creante: Meritissimus Theologia Moralis: Meritissimus De re sacramentaria: Benemeritus Theologia Pastoralis: Meritissimus
661
Anno accademico 1922-1923IV di Teologia:Exegesis Veteris Testamenti: Meritissimus De Deo Uno et Trino: Meritissimus Theol. Moralis Sacramentalis: Meritissimus Paedadogia Catechetica: Meritissimus
Anno accademico 1923-1924V di Teologia:Disquisitiones Theologicae: Meritissimus Institutiones Canonicae: Meritissimus Casus Conscientiae: Meritissimus
N.B. Nel primo tomo del Libro dei Certificati, foglio 348, n. 693, si legge quanto segue in merito ai suoi studi precedenti.
«Previ quattro anni di Latino e tre di Filosofia nell’istituto Generale e Tecnico di Logrono, che convalidò in questo Seminario con il voto di Meritus, qui ha frequentato e sostenuto i seguenti esami:
Anno accademico 1919-1920I di Teologia:Luoghi teologici: Meritissimus Storia Ecclesiastica: Meritissimus Archeologia: Meritissimus Sociologia: Meritissimus Teologia Pastorale: Benemeritus Diritto spagnolo: Meritissimus Francese: Meritissimus»
Tanto risulta dai documenti che stanno nella Segreteria a mio carico a cui mi riferisco. E perché consti, rilascio la presente certificazione, vistata dallTll.mo Prefetto degli Studi e timbrata con il timbro del Seminario, in Saragozza, il 12-XI-1975.
V. B. Il Prefetto degli Studi (firma illeggibile) Don Julio Fleta Pou, Segretario.
662
DOCUMENTO X a)Dati riguardanti il seminarista José Maria Escrivà
nel Libro “De vita et moribus” degli alunni del Seminario di S. Francesco di Paola, 1920-1925.
L’originale si trova nell’archivio diocesano di Saragozza, proveniente dall’archivio del Reale Seminario di S. Carlo, nel quale era conservato fino a pochi anni fa. Nel certificato si ripete un errore dell’originale, per il quale il padre del seminarista è chiamato “José Maria” anziché “José” .
Don Agustin Pino Lancis, Canonico-arciprete del Salvatore del Capitolo Metropolitano di Saragozza, Vicario Episcopale della Curia e Presidente del Reale Seminario Sacerdotale di S. Carlo,
CERTIFICA:I.- Che fra i documenti esistenti nell’Archivio del Reale
Seminario Sacerdotale di S. Carlo c’è un libro intitolato “De vita et moribus” degli alunni del Seminario di S. Francesco di Paola, che comincia nel febbraio del 1913. E noto che il Seminario di S. Francesco di Paola ebbe la sede ai piani alti di questo edificio del S. Carlo dal 1866 al 1945.
II.- Che nella pag. I l i di tale libro De vita et moribus constano i dati riguardanti il seminarista José M. Escrivà, relativi ai cinque anni accademici che stette in questo Seminario e che vanno dal settembre 1920 fino al marzo 1925. Li trascrivo letteralmente qui di seguito:
1.- Nell’intestazione, sotto la dicitura a stampa “Seminario di S. Francesco di Paola”, appaiono i suoi dati personali:
«José Maria Escrivà Albàs, di anni 18, originario di Barbastro, diocesi di Barbastro, figlio legittimo di José Maria e Maria Dolores, residenti a Logrono. Suo protettore è don Carlo Albàs, domiciliato in via Espoz y Mina n. 9, terzo piano.
È entrato nel Seminario il 28 settembre 1920. Gode di mezza borsa. Ispettore».
663
2. Il foglio stampato reca subito dopo sette colonne così identificate:,
CORSI ACCADEMICI - PIETÀ’ - APPLICAZIONE - DISCIPLINA - CARATTERE - VOCAZIONE- OSSERVAZIONI GENERALI.
3. Nella colonna I sono elencati gli anni accademici: 1920/21, 1921/22,1922/23,1923/24,1924/25. Subito dopo, nello spazio riservato alle successive 5 colonne, sono trascritti i voti riportati nelle materie di ogni anno. Non trascrivo tali voti perché già riportati nel certificato di studi del Seminario di S. Valero e S. Braulio, dove i seminaristi ascoltavano le lezioni e sostenevano gli esami. Segnalo soltanto che ha riportato Meritissimus in tutte le materie teologiche tranne in due (una del II anno e una del III), in cui prese Benemeritus.
4. Nelle colonne dalla II alla V compaiono i giudizi dati su di lui nei primi quattro anni accademici (per l’anno 1924-25 non vi è alcuna annotazione).
PIETÀ’: «Bene / idem / idem / idem»APPLICAZIONE: «Regolare / bene / idem / idem»DISCIPLINA: «Regolare / bene / idem / idem»CARATTERE: «Incostante e altero, ma educato e atten
to / idem / idem / idem»VOCAZIONE: «Sembra averla / idem / idem / Ce l’ha»
5. Nella colonna OSSERVAZIONI GENERALI appaiono le seguenti annotazioni:
1920-21: «Viene dal Seminario di Logrono, dove ha fatto gli studi precedenti».
1922-23: «È nominato Ispettore nel settembre 1922 e ordinato con la Tonsura il 28 dello stesso mese».
1923-24: «Ordinato suddiacono nel giugno 1924». «Ebbe un alterco con Julio Cortés e gli fu imposto il relativo Castigo, la cui accettazione e il cui adempimento rappresenta per lui una gloria, essendo stato, a mio avviso il suo avversario che attaccò per primo e con più violenza, profferendo contro di lui parole grossolane e indegne di un
664
6. Alla fine del documento, è scritto:«Ordinato diacono nel Natale del 1924 e sacerdote il 29
marzo del 1925, smise di far parte del Seminario dall’ultimo giorno citato» (firma illeggibile).
Debbo dichiarare che quest’ultima annotazione ha un difetto di redazione che può confondere. L’ordinazione sacerdotale avvenne il 28 marzo e dal giorno 29 egli «smise di far parte del Seminario».
III. E perché consti agli effetti che si considerano opportuni, firmo e timbro il presente documento in Saragozza, il 28 marzo 1984.
MONS. AGUSTÌN PINA
chierico e alla mia presenza lo insultò nella Cattedrale della Seo».
665
1
DOCUMENTO Xb)Testimonianza di don José Lopez Sierra, Rettore
del Seminario di S. Francesco di Paola, datata Saragozza,26-1-1948 (AGP, RHF, D-03306).
JHS
Don José Maria Escrivà de Balaguer. Difficile impresa raccontare la sua vita da seminarista: entrò a studiare Sacra Teologia come alunno interno, proveniente dall’istituto di Logrono, culla della sua formazione scientifica, nel Seminario di S. Francesco di Paola, annesso a quello di S. Carlo, a Saragozza, mentre era Arcivescovo l’Em.mo Cardinale Soldevila e Rettore colui che firma queste righe: peraltro neppure è tanto difficile descriverne alcuni tratti salienti, fra i quali predomina il suo zelo per l’apostolato, la sua predilezione per i giovani: la sua operetta Cammino lo mette in evidenza: a chi è diretta, se non a loro?
Dapprima come seminarista, si distingue dagli altri del suo anno per la perfetta educazione; affabile e semplice nel tratto, di notoria modestia, rispettoso verso i superiori, compiacente e bonario con i compagni, era molto stimato dai primi e ammirato dai secondi. Qualità eminenti tali da far presagire il suo fecondo apostolato.
Direttore poi dei seminaristi, carica cui lo chiamò l’Em.mo Cardinale, ancor prima che ricevesse i Sacri Ordini, a motivo della sua esemplare condotta, non meno che della sua applicazione, poiché faceva assieme la carriera ecclesiastica e quella civile di Legge, a poco a poco si fu rivelando come l’incipiente Apostolo per il cui ministero lo stava preparando il Cielo con benedizioni di dolcezza.
Forgiatore di giovani aspiranti al sacerdozio, non c’è da stupirsi che dopo sia diventato forgiatore di giovani laici: li conosceva bene, con essi era stato assieme nelle aule dell’istituto e dell’Università e aveva potuto osservare il vuoto della formazione religiosa dei giovani intellettuali; le istituzioni esistenti non erano dunque in grado di albergare nel
666
loro seno questi giovani dei tempi moderni: è necessaria una nuova istituzione, che li sappia accogliere. Mi parlò varie volte di questo a motivo di un regolamento anonimo che ci capitò fra le mani casualmente e oggi posso dire provvidenzialmente, poiché la Provvidenza disponit omnia suaviter.
Nel Seminario dunque si iniziò la sua grande opera, che sta riempiendo di stupore non la Spagna cattolica, ma lo stesso centro della Cattolicità, la stessa Roma, dove oggi l’istituzione ha già qualche casa; sì, nel nostro Seminario di Saragozza si trova quasi il seme dell’Opus Dei, questa grande Opera di Dio, che doveva produrre grandi frutti; fuori del Seminario si è compiuta.
Il suo motto era guadagnare tutti a Cristo, che tutti fossero una sola cosa con Lui e ci riuscì, con il suo operare: non era favorevole ai castighi, sempre dolce e compassionevole, la sua semplice presenza sempre attraente e simpatica tratteneva i più indisciplinati, un lieve e accogliente sorriso gli si disegnava sulle labbra quando osservava nei suoi seminaristi un atto edificante; tuttavia uno sguardo discreto, penetrante, triste a volte e compassionevole, reprimeva i più ribelli. Con questa semplicità e soavità incantevole andava formando i suoi giovani seminaristi.
Si ordina sacerdote e si prepara a celebrare la sua prima Messa; allo stesso modo in cui il sole, più avanza il giorno, va aumentando la luce e il calore, così aumenta lo zelo che egli sente per l’Apostolato con i giovani. Arrivato il giorno, senza aver fatto inviti a motivo del lutto famigliare, celebra la sua prima messa nella Santa e Angelica cappella della Madonna del Pilar a Saragozza. Due sacerdoti, amici dei suoi genitori, gli fecero da padrini d’Altare: per il nuovo presbitero il primo sarebbe dovuto essere il suo Rettore ma come lasciare soli quella madre sciolta in un mare di lacrime e che a momenti sembrava sul punto di svenire, e quei due teneri giovani, il fratellino e la sorella che l’accompagnavano? Preferii declinare l’onore e noi quattro, in ginocchio, senza neppure muovere le ciglia, immobili per
667
tutta la Messa, contemplavamo i movimenti sacri di quell’angelo in terra, che per la prima volta offriva il suo sacrificio per il suo buon padre, che aveva perduto sulla terra e che lo stava contemplando dal Cielo.
Sacerdote, la sua sete d’Apostolato lo divora: è troppo piccolo per la sua opera il campo delle parrocchie che resse in questa diocesi di Saragozza: la Provvidenza, non senza averlo prima fatto passare per grandi tribolazioni, lo conduce a un campo ben più ampio, la popolosa Madrid, dove è più necessario stabilirla a causa della corruzione di molti giovani. E questo il suo campo: sembra risuonargli all’orecchio la sentenza del Divino Maestro: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi». Il forgiatore di seminaristi anela a essere forgiatore di giovani laici. È il suo ministero prediletto. Confessa, predica esercizi, pubblica vari scritti, sempre con lo sguardo rivolto ai giovani, pupilla dei suoi occhi. Per cause estranee alla mia volontà non sono in grado di indicare date, con mio grande dispiacere. Raccontare i particolari del suo lavoro a Madrid compete ai figli di un padre così buono.
José Lopez Sierra Saragozza, 26 gennaio 1948.
668
DOCUMENTO XI Certificazione della ricezione degli Ordini Sacri (1922-1925)
Gli originali sono raccolti nel Libro degli Ordini Sacri (dal27-V-1889 al 1947), nell’Archivio diocesano di Saragozza.
FERNANDO PÉREZ AYSA, sacerdote, Canonico di questa Santa Chiesa Metropolitana e NOTAIO MAGGIORE dell’Arcivescovado di Saragozza.
CERTIFICO: che nel Libro degli Ordini Sacri che si conserva nell’archivio del Notariato maggiore di mia competenza, figurano gli Atti relativi agli Ordini ricevuti dal futuro Mons. Josemarìa Escrivà de Balaguer y Albàs. Tutti gli Ordini, fino al presbiterato, furono da lui ricevuti fra gli anni 1922 e 1925 mentre risiedeva come seminarista nell’antico Seminario di S. Francesco di Paola.
L’elenco particolareggiato delle ordinazioni, per quanto consta dal citato Libro degli Atti, è qui di seguito trascritto:
1. PRIMA TONSURA CLERICALE, conferita dal- l’Em.mo e Rev.mo Mons. Juan Soldevila y Romero, Cardinale Arcivescovo di Saragozza, il 28 settembre 1922 nel- l’Oratorio della sua Residenza Arcivescovile di Saragozza.- Foglio 327, n. 4410.
2. OSTIARIATO E LETTORATO, conferiti dall’Em.mo e Rev.mo Mons. Juan Soldevila y Romero, Cardinale Arcivescovo di Saragozza, il 17 dicembre 1922, nell’Oratorio della sua Residenza Arcivescovile di Saragozza. - Foglio 329, n. 4423.
3. ESORCISTATO E ACCOLITATO, conferiti dall’Em.mo e Rev.mo Mons. Juan Soldevila y Romero, Cardinale Arcivescovo di Saragozza, il 21 dicembre 1922, nel- POratorio della sua Residenza Arcivescovile di Saragozza.- Foglio 329, n. 4426.
4. SUDDIACONATO, conferito dall’Ecc.mo e Rev.mo Mons. Miguel de los Santos y Diaz de Gómara, Vescovo titolare di Tagora, su licenza dellTll.mo Vicario Capitolare dell’Arcidiocesi di Saragozza, il 14 giugno 1924, nella chiesa del Seminario Sacerdotale di S. Carlo Borromeo, di
669
Saragozza, e a titolo di servizio di questa diocesi. - Foglio 350, n. 4580.
5. SACRO ORDINE DEL DIACONATO, conferito dal- l’Ecc.mo e Rev.mo Mons. Miguel de los Santos y Diaz de Gómara, Vescovo titolare di Tagora, su licenza dell’Ill.mo Vicario Capitolare dell’Arcidiocesi di Saragozza, il 20 dicembre 1924, nella chiesa del Seminario Sacerdotale di S. Carlo Borromeo, di Saragozza. - Foglio 358, n. 4644.
6. SACRO ORDINE DEL PRESBITERATO, conferito dall’Ecc.mo e Rev.mo Mons. Miguel de los Santos y Diaz de Gómara, Vescovo titolare di Tagora, su licenza del- Plll.mo Vicario Capitolare dell’Arcidiocesi di Saragozza, il28 marzo 1925, nella chiesa del Seminario Sacerdotale diS. Carlo Borromeo, di Saragozza. Aveva ottenuto Dispensa Pontificia di dieci mesi per difetto di età canonica-Foglio 363, n. 4685.
E perché consti, rilascio il presente documento, timbrato con il timbro dell’Arcivescovado, in Saragozza, il 26 marzo 1981.
Mons. FERNANDO PÉREZ AYSA
Saragozza, 27 marzo 1981/ Riconoscimento e legalizzazione della firma
AGUSTÌN PINA, Vicario Episcopale della Curia
670
DOCUMENTO XII Pratica accademica degli studi nelle Facoltà di Diritto
di Saragozza (Licenza) e Madrid (Dottorato).
A differenza di quanto fatto nel testo, anche qui si riporta soltanto la traduzione del titolo delle materie; i voti sono trascritti nell’originale spagnolo. L’ordine dei voti, in senso decrescente, è: MATRICULA DE HONOR, SOBRESALIENTE, NOTABLE, APROBADO.
Dati dall’archivio della Facoltà di Diritto di Saragozza.
UNIVERSITÀ’ DI SARAGOZZA FACOLTA’ DI DIRITTO Incartamento N. 886
JOSE ANTONIO IZUEL VERA, PROFESSORE ASSOCIATO E SEGRETARIO DELLA FACOLTA’ DI DIRITTO DELL’UNIVERSITÀ’ DI SARAGOZZA.CERTIFICO: Che DON JOSE MARIA ESCRIVÀ ALBAS, originario di Barbastro, provincia di Huesca, ha frequentato e superato le seguenti materie del curriculum della Licenza in Diritto, con i voti pure qui di seguito riportati:
STUDI PREPARATORILingua e Letteratura Spagnola 1922/23: Notable Logica fondamentale idem: Sobresaliente Storia di Spagna 1923/24: Aprobado
PERIODO DELLA LICENZAPRIMO GRUPPO (1923/24)Elementi di Diritto Naturale: Notable Istituz. di Diritto Romano: Matrfcula de Honor Economia Politica: SobresalienteSECONDO GRUPPO (1923/24)Storia gener. del Diritto spagnolo: Aprobado Istituzioni di Diritto canonico: Matrfcula de Honor Diritto politico spagnolo (1925/26): Notable
671
TERZO GRUPPODiritto civile spagnolo I (1923/24): Aprobado Diritto amministrativo (1925/26): Aprobado Diritto penale idem: AprobadoQUARTO GRUPPO (1925/26)Diritto civile spagnolo II (1924/25): Notable Procedure giudiziarie: Aprobado Diritto pubblico internazionale: Matrfcula de Honor Elem. di Amm.ne pubblica: AprobadoQUINTO GRUPPO Diritto mercantile di Spagna,Europa e America (1925/26): NotablePratica forense (1926/27): AprobadoDir. privato internazionale (1925/26): Notable
Trasferito a Madrid il 30 marzo 1927 con tutte le materie superate e il Grado di “Licenziato”, per frequentare il Dottorato.Titolo di “Licenziato” in Diritto rilasciato dalle Autorità competenti il 30 giugno 1934.
E perché consti, su richiesta della parte interessata, rilascio la presente certificazione, con il Nulla Osta del Preside e il timbro della facoltà, in Saragozza, il 30 aprile 1981.
Prof. José A. Izuel
Nulla Osta: IL DECANO
(firma illeggibile)
672
Dati dall’archivio della facoltà di Diritto dell’Università Complutense di Madrid
Certificazione accademica personale Tomo I, n. 03873
JUAN VIVANCOS GALLEGO, Professore Associato e Segretario di questa Facoltà.
CERTIFICO: Che Don José Maria ESCRIVÀ ALBAS, originario di Barbastro, provincia di Huesca, ha frequentato e superato tutte le materie della Licenza in Diritto, nell’Uni- versità di Saragozza, avendo ottenuto i voti che qui di seguito si trascrivono: (...)
PERIODO DEL DOTTORATO: Nell’Università di Madrid, anno accademico 1927/28: «Storia del Diritto internazionale»: APROBADO; «Filosofia del Diritto»: NOTA- BLE. Anno Accademico 1929/30: «Storia della Letteratura giuridica»: NOTABLE.
E perché consti dove convenga al richiedente e su sua richiesta, rilascio la presente certificazione, su ordine e con il Nulla Osta dell’Ecc.mo Preside di questa Facoltà, con il timbro della stessa.
Madrid, 21 maggio 1981
Nulla Osta FERNANDO SEQUEIRA DE FUENTES, Vicepreside
JUAN VIVANCOS, Segretario C. CABALLERO, Capo della Segreteria.
673
(originale in AGP, RHF, AVF-0098)
Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo e di Santa Maria.
José Maria Somoano, Sacerdote (+ 16 luglio 1932).
Sabato 16 luglio 1932, giorno di Nostra Signora del Carmine - della quale era devotissimo, - alle 11 della notte è morto, vittima della carità e forse dell’odio settario, nostro fratello José Maria.
Sacerdote ammirevole, la sua vita, breve e feconda, era un frutto maturo che il Signore volle cogliere per il cielo.
Il solo pensiero che ci fossero dei sacerdoti che osavano salire all’altare senza le dovute disposizioni, gli faceva versare lacrime di riparazione.
Prima di conoscere l’Opera di Dio, dopo gli incendi sacrileghi di maggio, quando iniziò la persecuzione mediante decreti ufficiali, fu sorpreso nella cappella dell’ospedale - del quale fu cappellano e apostolo sino alla fine, nonostante tutte le furie laiciste - mentre si offriva a Gesù, ad alta voce (credendosi solo) con un moto di preghiera, come vittima per questa povera Spagna.
Nostro Signore Gesù ne accettò l’olocausto e con una duplice predilezione - per l’Opera di Dio e per José Maria- ce lo inviò: affinché questo nostro fratello arricchisse la propria vita spirituale, accendendo sempre più il proprio cuore in incendi di Fede e di Amore; e affinché noi dell’Opera avessimo, accanto alla Trinità Beatissima e a Maria Immacolata, chi si occupa continuamente di noi.
Con quale entusiasmo ascoltò, nella nostra ultima riunione sacerdotale, il lunedì precedente alla sua morte, i progetti dell’inizio della nostra azione!
Io so che potranno molto le sue istanze presso il Cuore Misericordioso di Gesù, quando chiederà per noi, pazzi - pazzi come lui, e... come Lui! - e che otterremo le abbondanti grazie delle quali abbiamo bisogno per compiere la Volontà di Dio.
APPENDICE XIIINota necrologica per don José Maria Somoano
674
È giusto che lo piangiamo. E, benché la sua vita e le circostanze della sua morte ci diano la sicurezza che gode dell’eterno riposo di quanti vivono e muoiono nel Signore, è anche giusto che offriamo suffragi per l’anima del nostro fratello.
José Maria
675
(originale in AGP, RHF, AVF-0098).
Luis Gordon y Picardo (+ 5 novembre 1932)
Riposò nel Signore alle prime luci del 5 novembre 1932. Un altro!
Nostra Madre se lo è preso anche lui di sabato. Abbiamo già due santi: un sacerdote e un laico...
È un fatto che José Maria Somoano ci ha lasciato per iscritto la gradevole impressione che ebbe del carattere del nostro Luis.
Buon modello: obbediente, discretissimo, caritatevole fino allo sperpero, umile, mortificato e penitente..., uomo di Eucaristia e di orazione, devotissimo a Maria Santissima e a Santa Teresina..., un padre per gli operai della sua fabbrica, che lo hanno pianto sinceramente alla sua morte.
Il Signore ha voluto che, per consolarci della morte del nostro José Maria, parlando con Luis dicessimo: «Se Dio chiamasse te o me, che cosa faremmo, dal cielo o dal purgatorio, se non gridare ripetutamente, molte volte e sempre: Dio mio!... Loro!...i miei fratelli che stanno lottando sulla terra..., che compiano la tua volontà... appiana la strada, anticipa il momento, togli gli ostacoli... santificali!?
E Luis assentiva, perché questa considerazione è la necessaria conseguenza della reale e fortissima fraternità spirituale che unisce i membri dell’Opera, fraternità che tanto egli sapeva vivere nella pratica.
Con che entusiasmo ora starà compiendo questo suo dovere, degno di un fratello!
Ci serva di consolazione questa sicurezza, e amiamo la Croce, la Santa Croce che pesa sull’Opera di Dio. Il nostro
APPENDICE XIVNota necrologica per Luis Gordon y Picardo
676
gran Re, Cristo Gesù, ha voluto portarsi via i due meglio preparati, affinché non riponiamo le speranze in cose terrene, neppure nelle virtù personali di alcuno, ma solo ed esclusivamente nella sua Provvidenza amorosissima.
L’Amore Misericordioso ha gettato altro grano nel solco... e quanto ci attendiamo dalla sua fecondità!
José Maria
677
(originale in AGP, RHF, AVF-0098).
Maria Garcia Escobar (+ 13 settembre 1933)
La vigilia dell’Esaltazione della Santa Croce, il 13 settembre, si è addormentata nel Signore questa prima nostra sorella della nostra Casa del Cielo. Da tempo, su sua richiesta e a motivo della gravità del suo male, le avevamo amministrato il Santo Viatico.
Quanta pace la sua! Con che naturalezza parlava di andare presto da suo Padre-Dio... e come accoglieva gli incarichi che le davamo per la Patria... e le suppliche per l’Opera!
Un nostro fratello sacerdote fu lo strumento del Signore affinché Maria venisse all’Opera - vocazione di espiazione- ad offrirsi vittima volontaria per la santificazione degli altri... Ancor prima di conoscere l’Opera di Dio Maria offriva già per noi le terribili sofferenze della sua malattia. E Gesù riceveva quei dolori in odore di soavità..., premendo di più sulla vittima, caricando maggiormente la Croce..., tanto che la malata ebbe da dire a quel sacerdote santo - il nostro Josemaria Somoano «Don José Maria, penso che la sua intenzione debba valere molto, perché, da quando lei mi ha suggerito di pregare e di offrire, Gesù si sta comportando con me in modo splendido».
La preghiera e la sofferenza sono state le ruote del carro di trionfo di questa nostra sorella. Non l’abbiamo perduta: l’abbiamo guadagnata. Alla notizia della sua morte, vogliamo che la pena naturale si trasformi presto nella gioia soprannaturale di sapere con certezza che abbiamo ormai più potere in cielo.
José Maria
APPENDICE XVNota necrologica per Maria Ignacia Garcia Escobar
678
Indice dei nomi
Abramo: 543 Adamo ed Èva: 152 Aguirre Garcfa, OFM, Gregorio
Maria: 102 Albàs y Blanc, Maria de los Dolores,
madre di Josemaria: 12,16, 18, 21,23, 26, 34, 45, 70, 73, 75,81, 86, 89,185,193,221,225, 251, 355, 417, 420,421, 517, 540, 554, 564, 576, 592, 610
Albàs y Blanc, Candelaria: 111 Albàs y Blanc, Carlos: 18 Albàs y Blanc, Cruz: 17, 97 Albàs y Blanc, Mauricio: 48, 111,
137Albàs y Blanc, Pascuala: 17 Albàs y Blanc, Vicente: 17 Albàs y Linés, Manuel: 16 Albàs y Llanas, Pascual: 28, 50 Albàs y Navarro, Pascual: 16 Alcalà Zamora, Niceto: 569 Alcolea Felisa: 597, 600 Alessandro II, Papa: 18 Alfaro, Daniel: 184, 187 Alfonso X, il Saggio: 87 Alfonso XIII, Re di Spagna: 287,
379 .Alonso, Luis: 104Alvarado Coghem, Margarita: 300Amado Loriga, Santiago: 244
Angelo Custode: 24, 313, 424, 430, 485, 503, 506, 516, 549, 563
Anguera de Sojo, José Oriol: 569 Aquitania, Duca di: 19 Arcangeli, Patroni dell’Opus Dei
S. Michele, S. Gabriele e S. Raffaele: 496, 505, 539
Aristofane: 151 Arnaiz, Luis: 87 Artal, Francisco: 174 Arruga, Saturnino: 216, 221 Atalaya, Duca di: 19 Ayala, Joaqum Maria de: 283, 422 Ayala, Manuel: 326 Azana, Manuel: 611
Badia y Saradell, Isidro: 31 Balanzàtegui, Aurora: 284 Bartimeo, il cieco di Gerico: 98 Benàvides, Francisco de Paula:
133, 159 Berceo, Gonzalo de: 88 Bertràn, Leandro: 253 Blanc Fortacin, José: 274 Bianco, Amadeo: 103 Bordiu, Javier: 575, 585 Botella, Francisco: 593, 608, 624
Cavalieri Bianchi: 374
679
Cabeza, Modesta: 481 Calvo Serer, Rafael: 618, 624 Callejas, Agustin: 162, 258 Camps Valdovinos, Ignacio: 23 Canales Maeso, Tomàs: 474 Cancer, CMR, Prudencio: 246,
247, 284 Cantero, Pedro: 473, 485, 513,
574Caramazana, Emilio: 294 Carceller, Juan: 220 Carlo III: 132, 459 Casado Yagiie, Suor Benita: 511 Casciaro, Pedro: 593, 624 Castillón, Amparo: 193 Causapié, Juan: 398 Ceniceros, Manuel: 183 Cermeno, Sixta: 193, 224 Cervantes: 87, 512 “Chierico Cuore” : 258 Cicuéndez, José: 289, 291, 397 Cid, Rodriguez Diaz de Vivar: 88 Cirac, Sebastiàn: 481, 487, 604
Corzan Manzana, Constancia: 41, 44, 184
Cortés Cavanillas, Juan: 323 Cortés Zuazo, Julio: 174,175 Corrales, Adriana: 35, 48, 52 Corrales, Esperanza: 34, 70 Cuervo, Carmen: 481, 488
Dame Bianche: 374 Dean, Miguel: 616 Demonio (il tignoso): 436, 437,
500Diaz, Antonio: 460 Diaz Gómara, Miguel de los Santos:
136,151,159,163,179,183,191
Doménech, José Manuel: 464, 492 Doménech, Rigoberto: 223, 233,
570
Echevarrfa, Suor Engracia: 468, 469, 470
Eijo y Garay, Leopoldo: 279, 545, 569
Eli, Giudice e Sommo Sacerdote: 513
Enriqueta “la Tonta” : 392 Escanero, Prudencia: 216, 221 Escriche, Rafael: 79 Escrivà Corzan, José (padre di J.):
12, 16, 18 ,21,23,28,48,51, 69, 73, 74, 83, 92,110,111, 154, 183
Escrivà Corzan, Josef a: 41 Escrivà Corzan, Mosén Teodoro:
17, 41, 250, 547, 564, 576 Escrivà de Balaguer y Albàs,
Carmen (sorella di Josemaria): 14, 20, 22, 25, 36, 78, 83,183, 188, 224, 417, 420, 554, 564, 566
Escrivà de Balaguer y Albàs,Santiago (fratello di Josemaria): 104, 153, 154, 185, 189, 225, 241, 288, 303, 383, 417, 420, 514, 517, 552, 565
(Asunción, Dolores, Rosario: sorelline di Josemaria): 33, 35, 41, 45
Escrivà Manonelles, José Maria:15
Escrivà Zaydm, José: 15
Fernàndez Anguiano, Gregorio:175
Fernàndez Claros, Rafael: 326 Fernàndez Vallespin, Ricardo: 518,
548, 551, 562, 566, 575, 577, 583, 591,593, 609, 616, 618, 624
Ferrari, Andrea Carlo, card.: 334 Filippo II: 20, 273, 397, 459 Fumanal, Domingo: 237
Galbe Loshuertos, Pascual: 237 Garcia Escobar, Benilde: 471 Garcia Escobar, Braulia: 471 Garcia Escobar, Maria Ignacia:
471, 472, 476, 484
680
Appendice documentale, documento XV, 678
Garrido Làzaro, Ciriaco: 99 Garrigosa y Borrel, Antonio: 52,
73Gedeone, Giudice di Israele: 482 Ger Puyuelo, Elias: 172 Giacobbe, il Patriarca: 141 Giacomo I, il Conquistatore: 15 Gii, Eliodoro: 562 Giuda, il traditore: 513 Giulio Cesare: 18 Gómez Alonso, Manuel: 289 Gómez Colomo, Fidel: 277, 285,
286Gómez Lafarga, Santiago: 23 Gómez Ledo, Avelino: 277, 285,
327Gómez Ruiz, Adolfo: 464, 492 Gonzàlez Barredo, José Maria:
295, 516, 539, 562, 582, 583 Gonzàlez Fortun, Natividad: 596 Gordon, Luis: 462, 464, 483
Appendice documentale, documento XIV (676)
Gorriz, Arsenio: 138 Guallart, Santiago: 150 Gutiérrez Sanjuàn, Buenaventura:
398Guzmàn, Alejandrò: 395
Hernàn Cortés: 612 Hernàndez Gamica, José Maria:
567, 586 Herrera, Àngel: 513 Herrera, Juan de: 459 Herrero Fontana, José Ramon:
517Huertas Lancho, José: 568
Iranzo, Juan Antonio: 228, 237,239
Isabel Clara Eugenia: 397
Jiménez Arnau, José A. ed Enrique: 237,239
Jiménez Vargas, Juan: 472, 515, 517, 547, 562
Jiménez Vicente, Inocencio: 239,276
Jimeno, Juan José: 158 José Miguel de la Virgen del
Carmen: 93, 94, 547, 562 Juan e Àngel, quelli del
“Sotanillo” : 324 Juan, il lattaio: 544 Juan Vicente de Jesus Maria: 94 Juncosa, Juan: 16
Kosminski, OFM., Honorato: 334
Laborda, Manuel de la Virgen del Carmen: 40
Labrador, Enrique de Santa Lucia: 32
Lafuente, Manolita: 111 Laplana Laguna, Cruz: 422, 556,
605Larios, Pedro B.: 104 Latorre, Cirilo: 16 Latre, Luis: 275 Lauzurica, Xavier: 613, 618 Làzaro, Jenaro: 462, 484, 515,
517, 550 Leone XIII, Papa: 39 Lope De Vega: 273 Lopez Bello, Jesus: 137, 174 Lopez Ortiz, OSA, José: 228, 239 Lopez Sierra, José: 136, 144, 145,
146, 147, 193 Loza, Hilario: 92, 104, 154, 187 Lucus, Santiago: 145
Mainar, David: 237 Malo Arcas, Àngel: 12, 15 Margallo, José: 290 Maria, la cuoca: 34 Martin, Isabel: 468, 470, 473 Martinez de Velasco, José: 366 Medialdea, Antonio: 462 Mena, José Luis: 170 Merry del Val, Rafael: 32 Miguel, Amparo de: 386
681
Minguez, Tomàs: 465 Minguijón, Salvador: 239 Miravalles, Marchesi di: 396 Moctàdir, Re arabo: 19 Mosé: 403Moner, S.J., Celestino: 234 Moneva y Pujol, Juan: 171, 172,
180,229,237 Moràn Ramos, Francisco: 394,
546, 556, 558, 569, 581, 587, 612, 617
Mordilo, Casimiro: 327 Moreno Monforte, Antonio: 155 Moreno Monforte, Francisco: 155,
238Moreno Sànchez, Antonio: 136,
160Munoz Gonzàlez, Asunción: 295,
299, 301 Munoz, Jerónimo: 280 Mur, Jerónimo: 16, 48 Murillo, Teodoro: 216, 218 Murillo, Urbano: 216 Muzquiz, José Luis: 594
Napoleone: 135 Navarro, Antonio: 155 Navarro, Aurelio: 138 Navarro, Cristóbal: 155 Navarro Santias, Simona: 16 Noailles, Carmen: 156
Obregón, Bernardino de: 459 Olaechea Loizaga, SDB, Marcelino:
613,617 Onteiro, Marchesa di: 335 Onate, Antolm: 93, 99 Ordónez Bujanda, Valeriano-
Cruz: 105 Orozco, Alonso de: 397 Otal Marti, Carmen: 21, 45, 50
Pabloj Manuel de: 242 Paolo VI, Papa: 71 Pajares, Albino: 99,100 Palacios, José Antonio: 493, 511 Palmer, Gabriel: 398
Palos, Luis: 229, 237, 239 Pietro I di Aragona: 19 Pellicer, José: 233 Pensado, Antonio: 277, 284, 364 Pérez, Antonio: 397 Pérez Aznar, Manuel: 152 Petronilla, figlia di Ramiro “il
monaco” : 19 Plaza Garcia, Juan: 93 Portillo, Àlvaro del: 555, 586 Postius Sala, CMF, Juan: 542 Pou de Foxà, José: 238, 239, 243,
247, 290, 414, 491,571 Poveda, Pedro: 546, 559, 577,
579, 619 Primo de Rivera: 261
Raimondo Berengario IV: 19 Rettore di S. Michele: 250, 251,
273,281 “Residente” , il: 581 Reyero, Maria Vicenta: 295, 302 Reyna, Mercedes: 328, 385 Rocamora, Pedro: 294, 323, 367 Roda, Manuel de: 169 Rodriguez Casanova, Luz: 278,
293, 335, 546 Rodriguez Garcia, Norberto: 293,
422, 480, 484, 486, 517, 545 Romàn Cuartero, José Maria: 159 Romeo Rivera, José: 323 Romeo Rivera, Manuel: 323 Royo, Paula: 73, 81, 106,187 Rubio, Màximo: 105 Ruano y Martin, Juan Antonio: 22
Sàinz de los Terreros, Manolo:518, 555
Sambeat, Martin: 48 Sànchez del Rio, Carlos: 171, 326 Sànchez Ruiz, S.J., Valentin: 335,
361,367, 368, 384,388,417, 497, 542, 559, 576, 577, 579
Sancho Izquierdo, Miguel: 171 Sancho Seral, Luis: 245 Santa Engracia, Conte di: 280 Santos, Josefina: 358
682
Santos, Pilar: 296 Sanz, Ambrosio: 415 Sanz, Suor Maria Jesus: 468, 470 Saul, re di Giuda: 513 Se vii, Alfredo: 18 Sevilla, Maria del Pilar: 510 Sesto Pompeo: 18 Soldevila, Juan: 131, 149, 157,
161, 181,223, 233 Somoano, José Maria: 466, 448,
476, 484, 486, 572, Appendice documentale, documento XIII, 674
Suor Maria del Buen Consejo: 567 Suor Maria del Sagrario, Priora di
Santa Isabel: 553 Suor San Pablo Lemus: 510
Alcuni santi citati:La Santa Vergine: 23, 24, 43, 87,
92,137, 141, 148,163,166, 181,238, 299, 392,417, 424, 427, 428, 429, 431, 435, 497, 506, 584
Alfonso Maria de5 Liguori: 150 Caterina da Siena: 366 Domenico: 435 Francesco di Paola: 167 Francesco Saverio: 435 Ignazio di Loyola: 435 Giuseppe, sposo di Maria: 435,
575, 581 Giuseppe Calasanzio: 32, 435 Giovanni Bosco: 435 Giovanni della Croce: 494, 496,
500
Maria Maddalena: 107, 475 Nicola di Bari: 575 Paolo, Apostolo: 162, 403, 407 Pio V: 20 Pio X: 31,40 Giacomo, Apostolo: 148 Teresa d’Avila: 169, 177, 378, 425,
435, 495, 560 Teresa di Lisieux: 333, 424, 432,
435, 483
Tallada, Luis: 396 Tena, Nicolas: 244 Terés y Garrido, Calixto: 78 Teresa, la zingara: 28 Torres-Dulce, Antonio: 593 Trueba, Mariano: 289, 292
Val, Jesus: 162Valdeolivos, baronessa di (vedi
Otal Marti, Carmen): 21, 45,50
Vea-Murguia Lino: 467, 486, 487, 510, 596
Vegas, José Maria: 487 Verne, Giulio: 70 Vich, Vescovo di: 19 Villamariel, Justo: 277
“Zampe sporche” : 36 Zaydrn y Sarrado, Vittoriana: 15 Zorzano, Isidoro: 82, 487, 539,
562Zurita, Jerónimo: 19
683
Indice
5 PRESENTAZIONE
CAPITOLO I. - L’EPOCA DI BARBASTRO (1902-1915)11 1. L’ascendenza familiare 24 2. «Quei candidi giorni della mia fanciullezza»32 3. La prima Comunione41 4. Sventure familiari
CAPITOLO II - L’EPOCA DI LOGRONO (1915-1920)69 1. «La Gran Città di Londra»76 2. L’Istituto di Logroiio82 3. Maturità di un adolescente91 4. Orme sulla neve99 5. Nel Seminario di Logrono
104 6. Sacerdozio e carriera ecclesiastica
CAPITOLO III - SARAGOZZA (1920-1925)131 1. Il Seminario di S. Carlo136 2. Il libro «De vita et moribus»147 3. Studio e vacanze156 4. “Forgiatore” di futuri sacerdoti169 5. Un evento deplorevole176 6. «Domina, ut sit!»182 7. Morte di José Escrivà187 8. La prima Messa
CAPITOLO IV - GIOVANE SACERDOTE (1925-1927)215 1. La parrocchia di Perdiguera224 2. Gli studi di Legge
685
240245
273282287293306323329
355366378390401414423
459466476490503512
539549559571586595600610
647648650651
686
3. La cappellania di S. Pietro Nolasco4. Ingiustizie provvidenziali5. Da Saragozza a Madrid
CAPITOLO V - LA FONDAZIONE DELL’OPUS DEI 1. Madrid, città e capitale del Regno 2 .1 residenti di via Larra3. L’Accademia Cicuéndez4. Il “Patronato de Enfermos”5. Il 2 ottobre 19286. Una campagna di orazione e di mortificazione7. Il 14 febbraio 1930
CAPITOLO VI - GLI “APPUNTI INTIMI”1. Perché “Opera di Dio” ?2. Le “Caterine”3. La seconda Repubblica spagnola4. Dal “Patronato de Enfermos” al Patronato di Santa Isabel5. Nuove luci fondazionali6. Una croce senza Cirenei7. La via dell’infanzia spirituale
CAPITOLO VII - LA GESTAZIONE DELL’OPERA1. Tra gli ammalati: “sublime servizio”2. L’ospedale del Re3.‘I primi seguaci4. Un ritiro spirituale accanto a S. Giovanni della Croce5. Il lavoro di S. Raffaele6. Una disorganizzazione organizzata
CAPITOLO Vili - 1 PRIMI CENTRI DELL’OPERA1. Una “prova crudele”2. L’Accademia DYA3. Il Rettore di Santa Isabel4. L’Accademia-Residenza di via Ferraz5. “Padre, maestro e guida di santi”6. L’apostolato con le donne7. Scritti per la formazione8. Preparativi di espansione: Madrid, Valencia, Parigi
APPENDICE DOCUMENTALE Indice dei documentiI. Famiglia Escrivà de Balaguer-Albàs. Ascendenza recenteII. Atto di Battesimo del padreIII. Atto di Battesimo della madre
652 IV. Atto di Matrimonio dei genitori654 V. Atto di Battesimo della sorella maggiore655 VI. Atto di nascita di Josemaria 657 VII. Atto di Battesimo di Josemaria 659 Vili. Studi scolastici (1912-1918)661 IX. Studi ecclesiastici nei Seminari di Logrono (1919-1920) e di
Saragozza (1920-1924)663 Xa). Dati che si riferiscono a losemaria nel libro “De vita et mori-
bus”666 Xb). Testimonianza di don José Lopez Sierra, Rettore del Semina
rio di S. Francesco di Paola, datata Saragozza, 26-1-1948 669 XI. Certificazione della ricezione degli Ordini Sacri (1922-1925) 671 XII. Pratica accademica degli studi nelle Facoltà di Diritto di Sara
gozza (Licenza) e Madrid (Dottorato)674 XIII. Nota necrologica per José Maria Somoano676 XIV. Nota necrologica per Luis Gordon678 XV. Nota necrologica per Maria Ignacia Escobar
687