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DIRITTO DI STAMPA

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DIRITTO DI STAMPA

Il diritto di stampa era quello che, nell’università di un tempo, veniva a meritarel’elaborato scritto di uno studente, anzitutto la tesi di laurea, di cui fosse statadichiarata la dignità di stampa. Le spese di edizione erano, budget permettendo, acarico dell’istituzione accademica coinvolta. Conseguenze immediate: a parte lasoddisfazione personale dello studente, del relatore e del correlatore, un vantaggioper il curricolo professionale dell’autore, eventuali opportunità di carriera accade-mica e possibili ricadute positive d’immagine per tutti gli interessati. Universitàcompresa.

La dignità di stampa e, se possibile, il diritto di stampa erano quindi determi-nati dalla cura formale della trattazione, dalla relativa novità del tema di studio,dall’originalità del punto di vista e magari dai risultati “scientifici” della tesi: ecioè quel “vuoto” che, in via di ipotesi, si veniva a riempire in un determinato“stato dell’arte”, e dunque dal valore metodologico, anche in termini applicativi,della materia di studio e dei suoi risultati tra didattica e ricerca. Caratteristica deldiritto di stampa, in tale logica, la discrezionalità e l’eccezionalità. La prospettiva dicontribuire, così facendo, alla formazione di élites intellettuali. Sulla scia di questatradizione, e sul presupposto che anche l’università di oggi, per quanto variamenteriformata e aperta ad un’utenza di massa, sia pur sempre un luogo di ricerca,nasce questa collana Diritto di stampa. Sul presupposto, cioè, che la pubblicitàdei risultati migliori della didattica universitaria sia essa stessa parte organica emomento procedurale dello studio, dell’indagine: e che pertanto, ferme restandola responsabilità della scelta e la garanzia della qualità del prodotto editoriale, ildiritto di stampa debba essere esteso piuttosto che ridotto. Esteso, nel segno di unelevamento del potenziale euristico e della capacità critica del maggior numeropossibile di studenti. Un diritto di stampa, che però comporta precisi doveri per lastampa: il dovere di una selezione “mirata” del materiale didattico e scientifico adisposizione; il dovere di una cura redazionale e di un aggiornamento bibliograficoulteriori; il dovere della collegialità ed insieme dell’individuazione dei limiti e dellepossibilità dell’indagine: limiti e possibilità di contenuto, di ipotesi, di strumenti,di obiettivi scientifici e didattici, di interdisciplinarità. Un diritto di stampa, checioè collabori francamente, in qualche modo, ad una riflessione sulle peculiaritàistituzionali odierne del lavoro accademico e dei suoi esiti.

Questa Collana, dunque, prova a restituire l’immagine in movimento di unlaboratorio universitario di studenti e docenti. E l’idea che alcuni dei risultati piùapprezzabili, come le tesi di laurea prescelte, possano mettersi nuovamente indiscussione mediante i giudizi e gli stimoli di studiosi competenti.

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Stefano Pontiggia

Storie nascoste

Antropologia e memoria dell’esodo istriano a Trieste

Prefazione diTatjiana Sekulic

Vincenzo Matera

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Copyright © MMXIIIARACNE editrice S.r.l.

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con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: marzo

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Come il Carso è la dimensione dell’esi-stenza, così Trieste è la vita stessa.

Gennato Tallini, Ulisse ai confini

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Ringraziamenti Molte sono le persone che intendo ringraziare al termine di questo

percorso. Innanzitutto desidero dire grazie ai miei genitori e alla fami-glia, che mi hanno sempre supportato durante il lavoro. A loro il testo è dedicato.

Ringrazio poi la prof.ssa Tatjana Sekulić, che fu mia relatrice di te-si, per la fruttuosa collaborazione, l’amicizia e la costante apertura al dialogo che la contraddistinguono. Un ringraziamento rivolgo al prof. Vincenzo Matera, per i contatti suggeritimi, la lettura attenta del testo e i consigli sia durante il campo che in fase di scrittura.

Desidero ringraziare la prof.ssa Antonello Pocecco dell’Università di Udine, con cui ho condiviso interessi, riflessioni e analisi, e il prof. Giuseppe Scandurra dell’Università di Ferrara, per la sua attenta e me-ticolosa lettura del testo. Ringrazio tutti i docenti dell’Università di Trieste che hanno discusso con me l’argomento al centro di questo la-voro, e la prof.ssa Marina Cattaruzza dell’Università di Berna. Grazie all’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione del Friuli-Venezia Giulia e al Centro di Ricerche Storiche di Rovi-gno/Rovinj, che mi hanno consentito di effettuare ricerche bibliografi-che preziose.

Grazie alla giornalista Claudia Cernigoi e allo storico Sandi Volk per il tempo che hanno messo a mia disposizione. Grazie alla Lega dello SPI-CGIL del quartiere di San Giovanni, per l’accoglienza riser-vata. Ringrazio infine tutte le associazioni con cui mi sono intrattenu-to, i suoi responsabili e affiliati: chi compare tra le righe del testo e chi ha fornito, attraverso un’intervista, spunti per le mie intuizioni. Se la scrittura è responsabilità mia, e mie le conseguenze, la ricerca è stata, come dice Dennis Tedlock, uno “stare fianco a fianco” con le persone incontrate nel lavoro.

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Indice

13 Prefazione Storie nascoste di Stefano Pontiggia di Tatjana Sekulić

19 Prefazione

Il ricordo è del passato? di Vincenzo Matera

23 Introduzione 33 Capitolo I Trieste e le sue storie

1.1. Antefatto: scoprire un racconto, 33 – 1.2. Orientarsi nello spazio, 38 – 1.3. Fra cosmopolitismo e ideologie nazionali, 40 – 1.4. Nostalgia dell’impero, 43 – 1.5. Quaranta giorni, 47 – 1.6. Primi contatti, 53 – 1.7. Dialogare con le associazioni, 56

61 Capitolo II Un racconto in tre atti

2.1. Dare forma a una storia, 61 – 2.2. Paradiso perduto, 64 – 2.3. I parti-giani arrivano dal bosco, 70 – 2.4. Ritorno in Italia, 77 – 2.5. Allargare lo sguardo, 83

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Indice

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87 Capitolo III Fare memoria

3.1. Ricordare per gli altri, imparare a ricordare, 87 – 3.2. Ricordi indivi-duali e memoria collettiva, 92 – 3.3. Lasciare una traccia, 96 – 3.4. Oscilla-zioni identitarie, 99 – 3.5. Memoria, giustizia e riscatto morale, 112 – 3.6. Esuli e non, 118 – 3.7. Semantiche della diaspora, 125

127 Capitolo IV Definire il passato

4.1. Dare un nome, dire la verità, 127 – 4.2. La foiba di Basovizza, 128 – 4.3. Genocidio o bonifica nazionale? Definire l’esodo, 140

149 Capitolo V Quattro pensieri conclusivi

5.1. Il quotidiano lavoro della memoria, 150 – 5.2. Costruire l’identità, 152 – 5.3. Produrre lo spazio del ricordo, 154 – 5.4 Agire nell’arena, 157

163 Bibliografia

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Storie nascoste di Stefano Pontiggia

Prefazione di Tatjana Sekulić

Università di Milano - Bicocca

Qualche mese fa ho preso l’impegno di comporre una breve prefa-zione al testo scritto da Stefano Pontiggia su una storia complessa e ancora contemporanea che riguarda le faccende del confine orientale dell’Italia: la storia, o meglio dire le storie dell’esodo degli italiani i-striani e dalmati durante e dopo la II Guerra mondiale. Ho avuto il privilegio di seguire diversi passi della ricerca che sta all’origine di questo libro e di avvicinarmi attraverso un’esperienza mediata a que-sto tema specifico che mi incuriosiva profondamente da tanto tempo. Un tema inoltre che si connette e intreccia in molti punti con le mie ri-cerche sulla violenza politica alla base delle guerre jugoslave (1991-2001). Tuttavia, il compito che sto per affrontare continua a crearmi non poche difficoltà. La prima difficoltà potrebbe essere definita nei termini del metodo scientifico che esige il distacco e l’obiettività relativamente all’oggetto d’indagine. Nel caso della storia dell’esodo, diventa evidente la forza con cui la narrazione degli eventi concreti e delle sue cause, basata sulla contrapposizione ideologica tra fascismo e antifascismo, abbia operato nel rendere opache e in parte giustificabili le loro conseguenze – la migrazione forzata di alcune centinaia di migliaia di persone non-ché un numero ancora impreciso di chi vi ha perso la vita. La seconda difficoltà riguarda un desiderio, o addirittura un bisogno non scientifi-co di non recare neanche un minuscolo danno aggiuntivo a chi ha sof-ferto e soffre ancora una condizione di “esule” di cui la sofferenza in fondo non è mai stata sentita come riconosciuta. Le parole hanno peso e possono uccidere, come diceva l’ultimo verso del poeta Branko Mil-

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Prefazione

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jković1: «mi uccise una parola di troppo». Ciò diventa un ostacolo o-gni qualvolta quel che si presenta come un fatto suggerisce una zona d’ombra anche nelle narrazioni del popolo dell’esodo. Mentre cercavo una via d’uscita dall’intoppo appena descritto mi è capitato di rileggere il breve dialogo di un’altra poetessa, Anna A-khmatova, con una detenuta coinquilina della cella nella sua prigione sovietica, che introduce il suo poema Requiem:

Lei può descrivere tutto ciò? E io dissi: - Posso. Poi, un che di simile a un sorriso scivolò su quel che era stato il suo viso.

E Akhmatova continuò a descrivere e a raccontare, con la sua im-mensa capacità poetica, a dare la voce alle vittime del totalitarismo staliniano: «vorrei chiamarvi tutti per nome», diceva, poiché la parola possa anche resuscitare dalla morte. All’inizio del suo libro, Storie nascoste, l’autore ci prende per ma-no a passeggiare per le vie di Trieste che vi si apre davanti come se fosse la prima volta. È così che camminando si entra in una parte del suo passato cittadino il cui significato continua a destare contese, ri-flessioni e emozioni. Il lettore comincia a conoscere alcune persone al cui racconto si lascia ampio spazio. Da una storia all’altra l’etnografo che ci accompagna condivide a voce alta il proprio percorso riflessivo che lo porta di volta in volta a ri-disegnare l’impianto della ricerca. Pontiggia si mette continuamente in gioco, esponendo alla prova d’esperienza della ricerca sul campo le idee e gli argomenti dei testi storici, sociologici ed antropologici fondamentali per il tema. L’interesse da cui parte riguarda quel ‘carattere profondamente creati-vo e performativo del processo di ricordare’ sperimentato per via dell’intervista (p. 96), verso «gli effetti di realtà che le pratiche del ri-cordo producono» (p. 125). In ogni caso il suo è molto di più di un in-teresse storiografico o di una mera ricostruzione dei fatti; se mai, co-me sostiene nell’Introduzione, si tratta di un’attribuzione del valore storico a quei fatti, persone e luoghi (p. 26). L’enfasi è posta non tanto sulla ricerca della verità di un passato ormai remoto, ma sulle forme di agency che creano «un campo di partecipazione a quel passato». In tal senso una storia biografica viene raccontata «per una spinta etica a co-

1 Il poeta serbo Branko Miljkovic si è ucciso in febbraio 1961 all’età di 27 anni, lasciando dietro questo verso: «Mi uccise una parola di troppo» (Ubi me prejaka reč)

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Prefazione

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struire un ricordo pubblico attraverso la testimonianza» dove, secondo l’autore, più del per chi diventa importante con chi si racconta una sto-ria (p. 96). Così, come nel caso di Francesca, la scoperta identitaria si rivela nella sua forma storia e politica, più che in quella etnica. Il nesso fra la memoria e la costruzione identitaria individuale e collettiva, affrontato più specificatamente nel secondo capitolo, è con-tinuamente presente sullo sfondo della ricerca stessa e della sua elabo-razione. Attraverso la partecipazione associativa delle persone che si autodefiniscono “il popolo dell’esodo” o gli “esuli”, che garantisce l’istituzionalizzazione della loro esperienza personale, emergono alla luce numerose fratture (e ferite) definite in termini etnici, sociali, cul-turali e politici. A partire da quella relativa ai “diretti colpevoli” – che siano slavi, jugoslavi, sloveni e croati, ma anche comunisti (slavi o ita-liani), e che hanno inflitto una violenza inaudita contro la gente comu-ne, italiana ma non fascista: qui i confini tra le dimensioni etniche e nazionali e quelle ideologiche vengono continuamente mischiati fino a renderli opachi. Non meno forte appare il rammarico nei confronti del-lo stato e delle istituzioni italiane, che hanno tradito quelli che sono «più italiani degli altri italiani», rendendo il loro sacrificio vano. Più marginale rimane il distacco dai concittadini non-esuli, oppure dagli esuli che non partecipano al lavoro associativo; tra le comunità etniche triestine, in particolare con alcuni intellettuali di sinistra sloveni e cro-ati, ma anche con gli italiani “di dubbia italianità” che sono rimasti in Istria e Dalmazia. Alla fine affiora nelle testimonianze e nel racconto dell’antropologo anche la dimensione temporale di una memoria che rischia di svanire e che debba essere costruita e tramandata alle nuove generazioni «prima che sia troppo tardi, prima che la sua generazione sparisse» (p. 104). Nonostante una certa etnicizzazione del discorso compiuta politico sia degli associati sia delle rappresentanze dello stato, con cui nell’ultimo decennio si cerca di porre rimedio alle ingiustizie subite dagli esuli istriani e dalmati, da queste fratture individuate nella ricer-ca di Pontiggia la questione identitaria compare in tutta la sua com-plessità. La ridefinizione dell’evento dell’esodo in termini di “pulizia etnica” in seguito della “conferma della barbarie balcanica” nelle re-centi guerre jugoslave, oppure in termini di un genocidio culturale, rimanda ancora una volta alla terribile fatica di trovare ragione, al di là della dimensione antropologica e agonale umana, nella violenza si-stemica che percorre la storia del secolo breve. In tal senso l’esodo i-

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Prefazione

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striano e dalmata si inserisce nelle pratiche della violenza non solo dei totalitarismi che hanno portato alla II Guerra mondiale, ma anche del nazionalismo demografico inerente allo stato-nazione, che ha prodotto milioni di vittime sul suolo europeo nel corso del Novecento. L’oblio su una parte di queste storie, che Pamela Ballinger aveva espresso nel-la metafora della foiba dove anche i ricordi devono essere esumati e ricomposti, riguarda soprattutto quelle zone d’ombra non raggiunte dai sistemi della giustizia, dove un Tribunale, come quello dell’Aja per la ex Jugoslavia e quello per il Rwanda, e prima ancora quelli di Norimberga, Tokyo, Gerusalemme, avrebbe potuto diventare quell’arena pubblica autorevole e capace di attribuire legittimità alla testimonianza delle vittime e degli offensori.

L’esodo appare nei racconti degli esuli come un viaggio senza ri-torno: non si tratta solo dell’abbandono della propria casa e di un mondo vitale diventato ormai mitizzato, ma di subire il danno della di-struzione irreversibile di quel mondo. Il racconto dei “viaggi di me-moria” nelle città e nei villaggi di origine parla di un’esperienza in cui il luogo fisico rimane, ma è nello stesso tempo completamene estra-niato. La stessa esperienza viene raccontata anche dai profughi e dagli sfollati delle guerre jugoslave, dove la percentuale dei ritorni effettivi rimane molto bassa nonostante le formule politiche dei trattati di pace e le pressioni internazionali ed europee. Questa perdita si manifesta come una forma di labirintite, per cui la sensazione è quella di un mancato equilibrio, di un suolo mobile sotto i piedi. In effetti quello che manca è la verità dei fatti politicamente e giuridicamente ricono-sciuta, che corrode la veridicità delle narrazioni e delle testimonianze e impedisce una qualsiasi ricompensa. Sembra incredibile e assurdo che non sia ricostruibile la verità sulla foiba di Basovizza, per dare un esempio. Ma è solo un altro paradosso di quell’epoca di violenza da cui pare di non uscire mai.

Pontiggia pone la sua attenzione proprio sulla questione morale do-ve la giustizia viene affrontata su un duplice binario: da una parte co-me scelta strategica relativa al riscatto dei beni materiali, e dall’altra come strumento della riscoperta della verità. La lettura del terzo capi-tolo, “Fare memoria”, mi ha ispirato a riaprire il testo di Hannah A-rendt, Vita attiva. La condizione umana

2. L’autrice analizza questo a-gire in concerto come strumento contrastante la violenza muta:

2 Hannah Arendt, Vita attiva. La condizione umana, Bompiani, Milano 1999.

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l’inerente caratteristica dell’azione è quella di rivelare l’agente mentre agisce, ma per questa rivelazione, secondo lei, è necessaria «la luce splendente della sfera pubblica»3. Nella sua visione, il discorso, la ri-velazione, l’azione e il cominciamento sono i concetti fondamentali per la comprensione dell’intreccio tra la biografia e la dimensione sto-rica, dove sia la vita che la storia sono definiti prodotti dell’azione. Le associazioni degli esuli vengono descritti dall’etnografo come luoghi in cui diventa possibile questo “agire in concerto”; un habitus emotivo dove quella coralità emotiva trova il suo spazio, essendo il processo di ricordare doloroso e faticoso. Nell’agire degli associati, emozioni e sentimenti come vergogna, rabbia, orgoglio e riscatto, assumono, se-condo l’autore, la valenza politica che chiede un riconoscimento pub-blico. La memoria dell’esodo viene così interpretata come un campo di pratiche del ricordo capaci di produrre effetti significativi di realtà, sia sul piano individuale sia su quello sociale (p. 150). Infine pare che sia il compito e la sfida delle nuove generazioni sia cercare di abban-donare quella «rappresentazione vittimizzata del popolo dell’esodo» e aprire «alla possibilità di un incontro», alla «fusione degli orizzonti» (p.121).

Il libro Storie nascoste avrà la capacità di ispirare in modo diverso diversi lettori. Per me, la ricerca e la sua elaborazione scritta hanno aggiunto alcuni elementi preziosi relativi a quel processo estenuante definito in tedesco con una parola: Vergangenheitsbewältigung – veni-re a patti con il passato. La ricerca della verità fattuale e l’attribuzione e la presa di responsabilità per le violenze compiute per via dei molte-plici sistemi della giustizia rimane il presupposto sostanziale per una prospettiva di riconciliazione, dove il passato possa acquisire un nuo-vo senso, in una costellazione postnazionale e cosmopolita del nostro mondo. Come dice Pontiggia (p. 86):

Ricostruendo un significato a quanto accaduto, dando un nome a un’e-sperienza a cui erano stati esposti sovente in giovane età, i miei interlocutori potevano trovare uno spazio di senso per una definizione di sé strategica e plastica, in grado di produrre una certezza riguardo alla propria collocazione in un mondo differente da quello lasciato alle spalle.

3 Ivi, p. 131.

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Il ricordo è del passato?

Prefazione di Vincenzo Matera Università di Milano - Bicocca

Quello che segue è uno studio di antropologia della memoria. L’antropologia della memoria è antropologia del ricordo e antropolo-gia del passato (degli usi e degli abusi del passato). Il ricordo è, pre-sumibilmente, il passato, ciò che è stato, che si fa presente nelle nostre azioni, parole e, prima ancora, nelle nostre sensazioni, e nei nostri pensieri. Il farsi presente del passato non avviene secondo un mecca-nismo “naturale”, per così dire, ma secondo una cornice – nell’accezione di Goffman - che a sua volta si crea nell’interazione, pubblica e sociale, che abbiamo ogni giorno, faccia a faccia, e anche mediaticamente. Leggendo un libro, parlando con un amico, guardan-do un film, un monumento, ascoltando il discorso di un politico, pas-seggiando per le strade, leggendo un resoconto giornalistico, attingia-mo a significati culturali fatti di echi più o meno netti del passato, che sono prodotti, distribuiti, e circolano nello spazio sociale del presente, in modi estremamente diversi a seconda del contesto sociale e cultura-le in cui ci troviamo.

Quello triestino, sede fisica della ricerca empirica su cui il libro si basa, è “un passato che non passa”, come scrive l’autore; intendendo che il presente della città è ancora fortemente impregnato, sia negli spazi, sia nelle voci dei cittadini, sia nelle istituzioni locali, di ciò che è stato.

Nel corso della trattazione delle vicende legate all’esodo successivo alla fine della II Guerra, e alle molteplici prospettive da cui queste so-no ricordate e si modellano nell’agire di oggi, troviamo le principali problematiche in cui si articola il campo della riflessione sulla memo-ria come prodotto culturale, sociale e anche politico e linguistico, e i

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Prefazione

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principali problemi metodologici, prima, e di scrittura, poi, con cui l’autore del libro si è confrontato nel corso della ricerca.

Fra questi, c’è la questione della dispersione della memoria dell’esodo, che esprime con grande pregnanza il nucleo epistemologi-co centrale di un’antropologia della memoria: per ricordarci, abbiamo bisogno degli altri. Questo sancire il carattere inevitabilmente colletti-vo, culturale e linguistico del ricordo, apre la possibilità di un’antropologia della memoria, ma richiede una “audace” decisione di pensiero1 che consiste nell’attribuire la capacità di memoria a una so-cietà, comunità, collettività, e non in un modo astratto e nemmeno me-taforico perché, come affermò il fondatore della sociologia della me-moria Maurice Hallbwachs, ampiamente citato nel libro che segue, la memoria sociale non va intesa come una metafora. Benché abbia esi-stenza solo nella teoria sociologica, essa influenza concretamente, molto concretamente, il ricordo che ciascun singolo individuo, appar-tenente a quella collettività, si crea nella sua mente.

Tale è la prospettiva dell’antropologia della memoria che anima il libro. Appare subito primario infatti lo studio del rapporto fra ricordo individuale e memoria (meglio: memorie) collettiva che, in termini più ampi, corrisponde all’analisi delle forme e dei processi sociali attra-verso cui avviene – se avviene - il passaggio dal ricordo vissuto, basa-to su un’esperienza concreta, al ricordo raccontato, alla memoria isti-tuzionalizzata, commemorata, pubblica.

Per impostare un’antropologia della memoria bisogna far fronte (e correre, e l’autore del libro che segue ne è consapevole) un rischio e-pistemologico notevole, che deriva dal fatto che la sola nostra certezza è l’unicità e irripetibilità di ciascun individuo: il cervello di ciascun individuo è un’organizzazione unica di tracce; questa segna una rap-presentazione del mondo che lo circonda ed è frutto di una esistenza particolare. Una memoria individuale è la totalità delle connessioni neuronali, la cui somma e distribuzione – sempre in trasformazione – sono specifiche della persona data. Più esattamente, lo stato del mon-do trascorso o la condizione esistenziale precedente non possono mai essere esattamente gli stessi per ciascun individuo impegnato nel co-struirne una rappresentazione. Tuttavia, una volta riconosciuto come un dato di fatto l’unicità della nostra esperienza, è necessario oltrepas-sarlo, trovare una via di uscita, che non potrà che essere teorica. Fer-

1 P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003.

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Prefazione

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dinand de Saussure, il celebre linguista ginevrino, negli anni Venti e-laborò il concetto di “langue” per indicare quella rete di riferimenti stabili (il sistema linguistico) che tutti coloro che parlano una stessa lingua devono condividere e che ha una natura profondamente sociale e storica (culturale) grazie alla quale con una certa approssimazione è possibile annullare il senso (renderlo non pertinente per il buon esito della comunicazione) delle variazioni individuali. Maurice Hal-lbwachs, il sociologo francese allievo di Emile Durkheim, oltrepassò il soggettivismo filosofico allora dominante negli studi della memoria e ne indicò il carattere profondamente storico e sociale.

Entrambi corsero il rischio epistemologico, e affrontarono l’analisi dei meccanismi attraverso cui si formano i gruppi umani, si produco-no e riproducono le interdipendenze tra gli individui, si costruisce e si ricostruisce – nel segno della durata e della persistenza, che non signi-fica cristallizzazione - la struttura connettiva di una società.

Qui si inserisce la questione dell’identità, nel senso ovvio che un’antropologia della memoria è anche antropologia dell’identità. La memoria è al servizio dell’identità, e ciò spiega perché ci si accanisce a manipolare, a contendere, a contestare, a costruire e ricostruire il passato nel presente. Sembra allora che le due domande di base dell’esigenza identitaria, “chi sono io?”, “che cosa siamo noi?” debba-no trovare una risposta, o una molteplicità di risposte, nella dimensio-ne del passato, e negli sforzi con cui si cerca di proclamarlo nel pre-sente. Mai, o quasi, osserviamo un legame fra l’identità e una proie-zione nel futuro, per il quale entrerebbe in gioco la facoltà gemella, l’immaginazione, che si potrebbe delimitare in modo parallelo a quel-lo scelto per la memoria, come il farsi futuro del presente. Sono sforzi, quelli rivolti al passato, come del resto risulta anche nel caso esamina-to da vicino nel libro, destinati per lo più alla frustrazione, forse per via della fragilità insita nel legame tra l’identità e la memoria, tra il passato e il presente. Come ci ricorda Paul Ricoeur, questo legame è un legame fragile a causa del tempo trascorso, a causa della pluralità dei gruppi con cui si convive nello spazio sociale, e a causa della vio-lenza fondatrice di ogni comunità. Questi tre fattori di fragilità della relazione fra memoria e identità sono la matrice delle manipolazioni della memoria e generano le ideologie. Sarebbe molto interessante sot-toporre a una verifica etnografica quanto asserito dal filosofo sulla creazione delle ideologie, del resto una elaborazione dell’analisi del

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fenomeno ideologico fatta da Clifford Geertz2, ma non è questa la se-de per approfondire la questione.

2 Geertz C., Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987.