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Diritto Penale Elemento oggettivo del reato penale A cura di Roberto Garofoli

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Diritto Penale

Elemento oggettivo del reato

penale

A cura di

Roberto Garofoli

DIRITTO PENALE

Elemento oggettivo del reato

Dottrina

Il nesso di causalità

SOMMARIO

1. Le caratteristiche generali. – 2. La teoria condizionalistica secondo la formulazione tradizionale. – 3. La teoria

condizionalistica secondo il modello della «sussunzione sotto leggi scientifiche». – 4. La teoria della causalità

adeguata. – 5. La teoria della causalità umana – 6. L'equivalente normativo della causalità nei reati omissivi impropri. – 7.

Le concause. - 8. La sentenza “Franzese” e i principi da essa desumibili.

1. Le caratteristiche generali

La fattispecie oggettiva di un reato commissivo di evento

ricomprende, tra i suoi elementi costitutivi, il nesso di

casualità che lega l’azione all’evento medesimo: in un

diritto penale ispirato ai principi di materialità (art. 25,

comma 2, Cost.) e di personalità di responsabilità penale

(art. 27 Cost.), l’imputazione di un evento lesivo richiede

che il reo abbia materialmente causato il risultato dannoso

(Garofoli).

Diversamente da altri codici vigenti, il codice penale

italiano contiene una disciplina espressa del rapporto

causale (artt. 40 e 41 c.p.), ma soltanto apparentemente

gli artt. 40 e 41 c.p. hanno contribuito ad agevolare il

compito dell'interprete alle prese col concetto di causalità

penalmente rilevante.

L'art. 40 c.p. richiede che l'evento dannoso o pericoloso,

dal quale dipende l'esistenza del reato, sia

«conseguenza» dell'azione od omissione del reo. Il

problema si pone al momento di individuare i criteri atti a

stabilire le condizioni, in presenza delle quali è corretto

asserire che sussiste il richiesto nesso di

condizionamento: a questo proposito il codice tace,

finendo così con l'affidare al giudice la soluzione del nodo

decisivo.

L'art. 41 c.p. disciplina invece il fenomeno delle

«concause». In proposito, l'attenzione degli interpreti ha

finito col polarizzarsi sulla disposizione contenuta nel 2°

co., a tenore del quale le «cause sopravvenute escludono

il rapporto di causalità quando sono state da sole

sufficienti a determinare l'evento». Al riguardo, non è facile

scoprire — tra l'altro — quale tipo di nesso intercorra tra la

disciplina generale contenuta nell'art. 40, comma 1, c.p. e

la clausola delimitativa della responsabilità in tema di

cause sopravvenute. Il legislatore ha verosimilmente

inteso affermare il principio secondo cui in determinati

casi, malgrado l'esistenza di un nesso condizionalistico,

un'affermazione di responsabilità contrasterebbe con la

logica normativa dell'imputazione penale. Ma anche

questa volta la formula codicistica, lungi dal fungere da

idoneo criterio-guida per l'interprete, abbisogna essa

stessa di essere adeguatamente decifrata.

2. La teoria condizionalistica secondo la

formulazione tradizionale.

Con ogni probabilità i compilatori del codice, nell'affermare

il principio di cui all'art. 40, comma 1, c.p., hanno voluto

recepire una concezione della causalità che va

tradizionalmente sotto il nome di teoria «condizionalistica»

o della condicio sine qua non, elevando al rango di causa

ogni condizione indispensabile al verificarsi di un

determinato evento. Secondo la formulazione tradizionale,

la teoria della condizione sine qua non può essere così

espressa: è causa ogni condizione dell'evento, ogni

antecedente senza il quale l'evento non si sarebbe

verificato. In sostanza, perché la condotta umana funga da

causa, basta che essa integri una delle condizioni che

conducono al risultato preso in considerazione dalla

norma.

Al fine di accertare il richiesto nesso di condizionamento, il

criterio cui si ricorre è quello usualmente definito

«procedimento di eliminazione mentale»: applicando tale

criterio, un'azione è condicio sine qua non di un evento, se

non può essere mentalmente eliminata senza che l'evento

stesso venga meno.

3. La teoria condizionalistica secondo il modello

della «sussunzione sotto leggi scientifiche».

La tradizionale formula della condicio presta il fianco ad

obiezioni critiche. La prima obiezione fa leva sul rilievo che

la formula in esame — di per sé considerata — non

spiega perché, in assenza dell'azione, l'evento non si

sarebbe verificato: mentre proprio il ricorso al metodo

dell'eliminazione mentale presuppone che il soggetto

giudicante sappia in anticipo se in genere sussistano

rapporti di derivazione tra antecedenti e conseguenti di un

certo tipo.

La prima correzione da apportare alla teoria della condicio

deve rendere esplicito il fondamento sul quale poggia il

procedimento di eliminazione mentale: ma è a questo

punto che si prospetta in astratto la scelta tra modelli di

spiegazione causale potenzialmente alternativi.

Secondo un primo orientamento, il giudizio relativo

all'imputazione oggettiva di un determinato evento

resterebbe affidato all'«intuizione» del giudice: a seguire

questa impostazione, la ricostruzione giudiziale del nesso

di condizionamento potrebbe prescindere dalla ricerca di

leggi causali generali, sotto cui sussumere il rapporto tra i

singoli accadimenti oggetto di giudizio. Al fondo di un

simile atteggiamento mentale, sta il convincimento che il

giudice — a differenza dello scienziato — non deve

preoccuparsi di accertare successioni regolari tra

fenomeni concepiti, a loro volta, come accadimenti

ripetibili.

Alle esigenze di tassatività e certezza soddisfa la teoria

condizionalistica corretta secondo il modello della

sussunzione sotto leggi scientifiche. Alla stregua di questo

modello causale, un'azione può essere considerata come

condizione necessaria soltanto se essa rientri nel novero

di quelle azioni che, sulla base di una successione

regolare conforme ad una legge dotata di validità

scientifica (cosiddetta legge generale di copertura),

producono eventi del tipo di quello verificatosi in concreto

(Stella – Fiandaca, Musco). L'impiego del modello in

esame comporta la necessità di chiarire quali siano le

«leggi generali di copertura» accessibili all'organo

giudicante sul terreno del processo penale.

Ora, si distingue tra spiegazioni causali basate su «leggi

universali» e spiegazioni causali fondate su «leggi

statistiche. Le prime affermano che la verificazione di un

accadimento è invariabilmente accompagnata dal

verificarsi di un altro accadimento e, pertanto, soddisfano

nella misura più alta le esigenze di rigore scientifico e

certezza. La seconde asseriscono, invece, che il rapporto

di successione regolare tra due eventi esiste soltanto in

una certa percentuale di casi.

Sicuramente, se si vuole evitare di rendere aleatorio il

perseguimento degli scopi preventivo-repressivi del diritto

penale, è giocoforza ammettere che alle esigenze tipiche

del processo corrisponde anche un accertamento basato

su leggi statistiche.

Ma una spiegazione statistica del nesso causale deve, per

risultare veramente attendibile, obbedire a precise

condizioni. In sostanza, perché l'evento risulti attribuibile

all'agente, si deve essere in grado di asserire che, in

mancanza del comportamento dell'agente, l'evento stesso

con un alto grado di probabilità non si sarebbe verificato.

Ovviamente, la percentuale di probabilità, variando

necessariamente da caso a caso, potrà essere

determinata soltanto tenendo conto delle peculiarità dei

fenomeni di volta in volta considerati.

Un corretto impiego della teoria condizionalistica

presuppone, altresì, che si determini con sufficiente

precisione il concetto di «evento» come secondo termine

del nesso di condizionamento. Si tratta del problema della

cosiddetta descrizione dell'evento, il quale emerge con

particolare evidenza nei casi di causalità alternativa

ipotetica e di causalità addizionale.

È ormai acquisizione pressoché pacifica che l'evento,

quale secondo termine del nesso di condizionamento, va

concepito come evento concreto che si verifica hic et nunc

(Fiandaca, Musco): ne consegue che, se risulta provato

un nesso di reale condizionamento tra l'azione del reo e

questo evento concreto, a nulla rileva il giudizio ipotetico

che eventi dello stesso genere di quello verifìcatosi

avrebbero potuto prodursi per effetto di cause alternative.

Con particolare riguardo poi alle ipotesi di causalità

addizionale, occorre correggere la formula della condicio

nel senso di riconoscere come cause anche quelle

condizioni dell'evento che, cumulativamente considerate,

costituiscono un presupposto necessario dell'evento

spazio-temporalmente circoscritto, e che lo sarebbero

alternativamente, se l'altro presupposto non esistesse .

4. La teoria della causalità adeguata.

Un'altra concezione molto diffusa nell'ambito della scienza

penalistica è quella che va tradizionalmente sotto il nome

di teoria della causalità adeguata. Si tratta di un modello di

spiegazione causale sorto, in origine, come correttivo alla

teoria condizionalistica. Invero, una rigida applicazione

della teoria condizionalistica risulterebbe eccessivamente

rigorosa: si pensi al celebre esempio di scuola di A che,

con volontà diretta a provocare una lieve ferita, lancia un

sasso a B, emofiliaco, determinandone involontariamente

la morte; A dovrebbe rispondere di omicidio

preterintenzionale, per aver materialmente cagionato

l'evento letale, anche se ignorava del tutto la preesistente

condizione di particolare vulnerabilità di B.

La teoria dell'adeguatezza tende perciò a selezionare

come causali soltanto alcuni antecedenti: cioè è

considerata causa, nel senso del diritto penale, quella

condizione che è tipicamente idonea o adeguata a

produrre l'evento, secondo un criterio di prevedibilità

basato sull'id quod plerumque accidit.

Dal punto di vista dell'accertamento, si ritiene che esso

vada effettuato tenendo conto delle circostanze presenti al

momento del fatto e conoscibili ex ante da un osservatore

avveduto, con aggiunta di quelle conoscenze superiori

eventualmente possedute dall'agente concreto (criterio

della cosiddetta prognosi postuma o ex ante in concreto).

Nonostante sia stata fatta oggetto di progressivi

aggiustamenti, la teoria in esame presta il fianco a serie

obiezioni critiche.

Una prima obiezione fa leva sul rilievo che il ricorso al

criterio dell'adeguatezza non sempre risulta idoneo a

circoscrivere l'ambito della responsabilità penale. Cioè, si

danno ipotesi nelle quali l'azione appare ex ante idonea a

produrre l'evento lesivo, e tuttavia quest'ultimo si verifica in

conseguenza di circostanze imprevedibili (si pensi al noto

caso di scuola di Tizio che provoca una grave ferita a

Caio, il quale poi muore invece a causa di un incendio

dell'ospedale scoppiato per ragioni fortuite: qui, per quanto

la grave ferita appaia ex ante idonea a cagionare la morte

del soggetto passivo, sembra iniquo addossare al feritore

l'evento morte così come si è in concreto verificato).

Peraltro, la stessa idea di adeguatezza, proprio perché

ancorata ai giudizi di probabilità tipici della vita quotidiana,

presenta margini di elasticità suscettibili di dar luogo ad

incertezze applicative.

5. La teoria della causalità umana.

L'idea di fondo, che fa da premessa alla concezione della

causalità umana (Antolisei), è così riassumibile: sono

imputabili all'uomo soltanto gli eventi che egli può

«dominare in virtù dei suoi poteri conoscitivi e volitivi» e

che, perciò, rientrano nella sua «sfera di signoria»; per

contro, non possono ritenersi causati dall'uomo quei

risultati che egli non è in grado di padroneggiare. In

particolare, sfuggirebbero ai poteri di signoria dell'uomo —

per ripetere le parole dell'Antolisei — «non certo tutti gli

effetti anormali, o atipici (...) Ciò che sfugge veramente

alla signoria dell'uomo è il fatto che ha una probabilità

minima, insignificante di verificarsi, il fatto che si verifica

solo in casi rarissimi: in una parola, il fatto eccezionale».

Ai fini dell'accertamento di un rapporto di causalità

penalmente rilevante, pertanto, «occorrono due elementi:

uno positivo ed uno negativo. Il positivo è che l'uomo con

la sua azione abbia posto in essere una condizione

dell'evento, e cioè un antecedente senza il quale l'evento

stesso non si sarebbe verificato. Il negativo è che il

risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali».

Nonostante sia andata diffondendosi anche nella prassi

applicativa, la teoria in esame va incontro ad obiezioni.

Si è notato infatti che il riferimento al concetto di signoria o

dominabilità del fatto in virtù dei poteri conoscitivi e volitivi

dell'uomo, rimanda ad un tipo di valutazione che

caratterizza, più propriamente, la categoria della

colpevolezza. La teoria in esame finisce, dunque, col

sovrapporre tra loro causalità e colpevolezza.

6. L'equivalente normativo della causalità nei reati

omissivi impropri.

La causalità si atteggia in modo del tutto peculiare

nell'ambito dei reati omissivi cosiddetti impropri. Ciò che si

imputa all'omittente è non già di avere materialmente

cagionato un evento lesivo, bensì di non averne impedito

la verificazione. Appunto perché consapevole delle

peculiarità della condotta omissiva, il legislatore del '30 ha

sancito, al 2° co. dell'art. 40 c.p., il seguente principio:

«Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di

impedire, equivale a cagionarlo».

In sostanza, il giudice deve verificare in che modo

l'eventuale compimento dell'azione doverosa avrebbe

influenzato il corso degli accadimenti; e, più in particolare,

se sarebbe valso a impedire la verificazione dell'evento

lesivo — evento, a sua volta direttamente cagionato da un

accadimento naturale o dall'azione di un terzo.

L'accertamento del nesso omissione-evento poggia,

dunque, su di un giudizio ipotetico o prognostico: cioè,

supposta mentalmente come realizzata l'azione omessa,

ci si chiede se, in presenza di essa, l'evento lesivo si

sarebbe verificato ugualmente oppure sarebbe venuto

meno. Proprio al fine di accertare l'attitudine dell'azione

doverosa, di fatto non realizzata, a impedire l'evento

lesivo, il giudice dovrà rinvenire la legge scientifica o

regola di esperienza, in base alla quale sia giustificato

asserire che, ove ricorrano determinati antecedenti,

vengono meno effetti del tipo di quello verificatosi in

concreto (anche il giudizio ipotetico in questione va,

dunque, orientato secondo il modello della sussunzione).

Una volta rinvenuta la «legge di copertura» adatta ai casi

di specie, il giudice potrà procedere all'applicazione della

formula della condicio che, sul terreno dell'illecito omissivo

improprio, va articolata nel seguente modo: l'omissione è

causa dell'evento se non può essere mentalmente

sostituita dall'azione doverosa, senza che l'evento venga

meno (Pagliaro - Fiandaca, Musco).

A questo punto, rimane da accennare al problema del

«grado di certezza» raggiungibile in sede di accertamento

della causalità omissiva.

Invero, facendo leva sul rilievo che i giudizi ipotetici sono

per loro natura esposti ad inevitabili margini di incertezza,

la dottrina maggioritaria ritiene che, in sede di

accertamento del nesso di condizionamento tra la

condotta omissiva e l'evento, non si possa raggiungere lo

stesso livello di rigore esigibile nell'accertamento del

nesso di causalità inteso in senso stretto: per cui,

nell'applicare la formula della condicio, ci si accontenta di

esigere che l'azione doverosa, supposta come realizzata,

sarebbe valsa ad impedire l'evento con una probabilità

vicina alla certezza.

7. Le concause.

Il legislatore italiano disciplina espressamente il fenomeno

del convergere di più cause nella produzione di un

medesimo evento.

L'art. 41, comma 1, c.p. stabilisce al riguardo che il

«concorso di cause preesistenti o simultanee o

sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od

omissione del colpevole, non esclude il rapporto di

causalità fra l'azione od omissione e l'evento». Com'è

agevole osservare, il principio contenuto nella disposizione

testé richiamata non rappresenta altro, se non una logica

conseguenza dell'accoglimento della teoria

condizionalistica verosimilmente fatta propria dal nostro

legislatore nell'art. 40, comma 1, c.p.

Coerente con la recezione della teoria condizionalistica

risulta, altresì, la disposizione di cui al 3° co. dell'art. 41,

dove si afferma che la causa preesistente o simultanea o

sopravvenuta può anche consistere in un «fatto illecito

altrui»: invero, nell'ottica dell'equivalenza delle condizioni,

non fa alcuna differenza che la concausa sia

rappresentata da un accadimento naturale ovvero da una

azione umana.

Delle disposizioni contenute nell'art. 41 c.p., la più

controversa sul piano interpretativo è quella del 2° co., la

quale stabilisce che le «concause sopravvenute

escludono il rapporto di causalità quando sono state da

sole sufficienti a determinare l'evento».

Introducendo la disposizione in esame, il legislatore ha

inteso fare riferimento a fattori eziologici che intervengono

«congiuntamente» ad una precedente azione del soggetto

della cui responsabilità si discute: solo che si tratta di

fattori in grado di «interrompere» l'originario nesso

intercorrente tra questa precedente azione e l'evento

lesivo che si verifica. La formula di cui all'art. 41 cpv. è

stata dai compilatori del codice pensata con riferimento ai

casi di cosiddetto decorso causale atipico, cioè

caratterizzati da una evoluzione degli eventi non

riconducibile agli schemi di una ordinaria prevedibilità.

Basti ricordare il caso di scuola del ferito che muore per

l'incendio scoppiato nell'ospedale successivamente al

ricovero. Se così è, la ratio sottesa all'art. 41 cpv. va

evidentemente ravvisata nell'intento di introdurre un

temperamento volto a correggere l'eccessivo rigore di un

accertamento causale rigidamente ancorato alla formula

condizionalistica.

Secondo parte della dottrina (Antolisei-Mantovani), la

disciplina dell'interruzione del nesso causale contenuta

nell'art. 41 c.p.v. dovrebbe, per ragioni di giustizia

sostanziale, essere analogicamente estesa alle cause

«preesistenti» o «concomitanti» da sole sufficienti a

cagionare l'evento.

8. La sentenza “Franzese” e i principi da essa

desumibili

La sentenza n. 27 (relativa al caso Franzese) pronunciata

dalle Sezioni Unite il 10.7.2002 e depositata l'11.9.2002

(C., S.U., 10.7-11.9.2002), ha riordinato l’intera materia del

nesso di causalità, attraverso una lettura che:

1) fa leva sulla teoria condizionalistica ritenuta desumibile

dall'art. 40 c.p. e temperata dalla teoria della causalità

umana;

2) ammette l'impiego di frequenze probabilistiche (anche

medio-basse) solo se siano effettivamente pertinenti

all'accertamento concreto del fatto, ma ricolloca la

questione sul piano probatorio dei criteri di accertamento

degli elementi costitutivi del fatto, superando la

confusione, operata da alcune precedenti pronunce, fra

prova del fatto e qualificazione del fatto;

3) enfatizza la diversità fra certezza giuridica e certezza

scientifica;

3) riconosce che i requisiti di determinazione del rapporto

causale non sono diversi da quelli utilizzabili per la

determinazione di qualsiasi altro elemento di fattispecie,

incluse le generalizzazioni basate sull'esperienza del

senso comune.

Una serie di sentenze ha recepito, facendone

applicazione, i principi espressi dalla sentenza 27 del

2002. In particolare, la IV Sezione (C., Sez. IV, 3.10-

15.11.2002) ha precisato che la certezza predicata dalla

sentenza Franzese è la "certezza processuale", che il

giudice può conseguire, secondo un procedimento logico,

valorizzando tutte le circostanze del caso concreto, al pari

di tutti gli altri elementi della fattispecie sottoposti al suo

accertamento. Sotto questo profilo, la "certezza

processuale" non deve comunque coincidere con la

oggettiva e scientifica certezza (C., Sez. IV, 6.3.2012, n.

17758; C., Sez. IV, 9.2.2006; C., Sez. IV, 25.5-12.7.2005;

C., Sez. IV, 8.6.2005; C., Sez. IV, 2.3.2005; C., Sez. IV,

21.12.2004; C., Sez. IV, 18.3.2004; C., Sez. IV,

3.10.2002).

Si ricordi, infine, che secondo la più recente

giurisprudenza di legittimità, il giudizio di alta probabilità

logica non definisce il nesso causale in sé e per sé, ma

piuttosto il criterio con il quale procedere all'accertamento

probatorio di tale nesso, il quale, diversamente da quanto

accade per l'accertamento di ogni altro elemento

costitutivo del reato, deve consentire di fondare, all'esito di

un completo e attento vaglio critico di tutti gli elementi

disponibili, un convincimento sul punto, dotato di un

elevato grado di credibilità razionale (Cass. pen., sez. IV,

12 febbraio 2014, n. 9695).

Dottrina

Le scriminanti

SOMMARIO

1. Le caratteristiche generali. – 2. In particolare: la legittima difesa – 3. Segue: lo stato di necessità – 4. Scriminanti

tacite

1. Le caratteristiche generali.

Le c.d. cause di giustificazione (altrimenti definite con i

termini cause oggettive di esclusione del reato o

scriminanti o cause di liceità) possono in generale

essere definite come situazioni in presenza delle quali

una azione od omissione, di regola sanzionata dal

diritto penale, viene considerata lecita perché

autorizzata o addirittura imposta dall'ordinamento

giuridico.

Mentre una siffatta definizione generale risulta

essenzialmente condivisa in dottrina, risultano

controversi, all'opposto, due temi.

In primo luogo, appare controversa la posizione delle

cause di giustificazione nella struttura del reato.

Volendo semplificare al massimo, la questione è legata

alla presenza, nel dibattito dottrinale, di due

fondamentali opzioni dommatiche. Per i fautori della

c.d. concezione bipartita nel reato andrebbero

essenzialmente individuate due componenti: il fatto

oggettivo tipico e la colpevolezza. In quest'ambito

visuale, le cause di giustificazione assumerebbero il

ruolo di elementi negativi del fatto oggettivo tipico; per

l'integrazione di quest'ultimo sarebbero, di

conseguenza, altrettanto necessarie sia la presenza di

tutti gli elementi positivi richiesti dalla legge per la

esistenza del delitto, sia la mancanza di cause di

giustificazione.

Per i fautori della c.d. concezione tripartita l'analisi del

reato andrebbe scomposta nel graduale accertamento

di tre componenti rappresentate, innanzitutto, dalla

tipicità (intesa come mera conformità di un dato

comportamento e di una data situazione di fatto a

quanto vietato ai sensi di una disposizione

incriminatrice); in secondo luogo, dalla antigiuridicità

obiettiva considerata come una componente costitutiva

autonoma del reato, ed indicante un rapporto di

contraddizione tra il fatto e l'intero ordinamento

giuridico; in terzo luogo dalla colpevolezza formula con

la quale vengono designati tutti gli elementi che

caratterizzano il collegamento soggettivo fra fatto e suo

autore e dai quali dipende la possibilità di muovere

all'agente un rimprovero per aver commesso il fatto

antigiuridico. In questa prospettiva, la presenza delle

cause di giustificazione impedirebbe il giudizio di

antigiuridicità obiettiva; le cause di giustificazione

designerebbero, di conseguenza, l'insieme delle facoltà

o dei doveri derivanti da norme, situate in ogni luogo

dell'ordinamento, che autorizzano o impongono la

realizzazione di questo o quel fatto (v. Grosso, Cause di

giustificazione, in EG, VI, Roma, 1988; Romano,

Comm. Romano, PG, I, 520; De Francesco, Sulle

scriminanti, in SIur, 2000, 270).

La differenza fondamentale tra bipartizione e

tripartizione consiste quindi proprio nel posto

assegnato, nella struttura del reato, alle cause di

giustificazione.

Sotto un secondo profilo costituisce oggetto di

discussione il fondamento delle cause di giustificazione.

Al riguardo può dirsi che alla base delle cause di

giustificazione sembra stare una valutazione

comparativa di interessi: da un lato l'interesse tutelato

dalla norma penale, dall'altro l'interesse che sta alla

base dell'azione giustificata. La funzione politico

criminale delle cause di giustificazione sembra così

sintetizzabile: in certi casi, pure in presenza di un

comportamento in via astratta indicato come offensivo

di determinati beni, si potrebbe manifestare l'esigenza

di non applicare la sanzione penale proprio per la

presenza, alla base dell'azione giustificata, di un altro

interesse meritevole di tutela.

2. In particolare: la legittima difesa (art. 52 c.p.)

La legittima difesa si colloca fra le cause di

giustificazione che escludono, già su un piano obiettivo,

la configurabilità di un fatto di reato.

Per quanto riguarda il fondamento della scriminante si

ritiene che questo vada innanzitutto riconosciuto nella

insopprimibile esigenza di autotutela che si manifesta

nel momento in cui, in situazioni nelle quali lo Stato non

è in grado di assicurare una pronta ed efficace

protezione dei beni giuridici individuali, viene

riconosciuta, entro limiti ben precisi fissati dalla legge,

una deroga al monopolio statuale dell'uso della forza

(per tutti: Romano, Comm. Romano, PG, I, Milano,

2004, 534; Fiore, Diritto penale, parte gen., I, Torino,

1993, 320; Grosso, Difesa legittima e stato di necessità,

Milano, 1964, 308; Padovani, 497), con un conseguente

bilanciamento di interessi contrapposti (nella specie:

interesse minacciato dell'aggredito, da un lato, e

interesse leso dell'aggressore, dall'altro).

Il diritto proprio o altrui rappresenta, come è stato

efficacemente sottolineato (Padovani, Difesa legittima,

500), l'elemento di raccordo tra i due poli attorno ai

quali ruota il fatto tipico commesso dal soggetto che si

difende: la situazione aggressiva e la reazione

difensiva. Ed invero il «diritto proprio o altrui»

rappresenta, al contempo, l'oggetto contro cui si dirige

l'offesa ingiusta ed in favore del quale si esercita la

difesa.

A questo proposito è concordemente riconosciuto in

dottrina che l'espressione utilizzata dall'art. 52 sia

idonea a ricomprendere non soltanto diritti soggettivi in

senso stretto ma, più in generale, qualunque situazione

giuridica attiva avente ad oggetto beni non soltanto di

natura personale (vita, integrità fisica, libertà, onore

ecc.), ma anche patrimoniale (proprietà o altri diritti

reali, possesso, diritti di godimento) [per

esemplificazioni: Grosso, Legittima difesa (dir. pen.), in

ED, XXIV, Milano, 1974, 36; Padovani, Difesa legittima,

500]. Fra i diritti a carattere patrimoniale, peraltro,

sembrano potersi comprendere anche i diritti di credito

aventi ad oggetto prestazioni di dare quando vi sia il

concreto pericolo che il soddisfacimento del diritto di

credito venga definitivamente frustrato dalla condotta

del debitore. In ipotesi di questo tipo, nonostante

qualche perplessità avanzata in dottrina (Viganò, in

Comm. Dolcini, Marinucci, 792; sul punto v. anche

Padovani, La condotta omissiva nel quadro della difesa

legittima, in RIDPP, 1970, 675) è da riconoscere

(ovviamente a condizione che la condotta difensiva

appaia necessaria e proporzionata) la applicabilità della

scriminante, in quanto viene pur sempre in gioco una

condotta finalizzata a difendersi (attraverso il

conseguimento della prestazione dovuta) contro il

rischio di un definitivo pregiudizio del proprio

patrimonio. Per ipotesi di difesa di diritti a carattere

patrimoniale: C., Sez. V, 14.3.2003; C., Sez. I,

11.5.1981; C., 24.1.1967; C., Sez. I, 17.5.1954.

Nel senso che la scriminante in questione

riguarderebbe la tutela di un concreto diritto posto in

pericolo da un'offesa ingiusta, e che, pertanto, il

generico valore, costituito dalla famiglia (salvaguardare

l'unità della famiglia), rimarrebbe un'astrattezza ove non

si concretizzi in un diritto soggettivo e non risultino,

ancora, gli altri elementi del pericolo attuale e

dell'ingiustizia dell'offesa cfr. C., Sez. V, 2.12.2003 (nel

caso di specie la scriminante della legittima difesa era

invocata dal marito che aveva fatto installare un

apparecchio per intercettare le telefonate della moglie,

sospettata di una relazione extraconiugale).

Il riferimento legislativo a un diritto "proprio o altrui"

sembra postulare la riferibilità dell'interesse da

difendere a un soggetto determinato. Resterebbero, di

conseguenza, fuori dalla portata applicativa della

scriminante azioni finalizzate alla difesa di beni a

carattere collettivo o superindividuale riferibili in via

esclusiva allo Stato-ordinamento (ordine pubblico,

economia pubblica, ambiente, buon costume).

La aggressione nei confronti della quale viene

riconosciuta la legittimità di una condotta difensiva deve

concretizzarsi, per espressa statuizione normativa, nel

«pericolo attuale di una offesa ingiusta».

Per quanto riguarda il requisito del pericolo attuale, il

giudizio circa l'esistenza del pericolo va fatto su basi

rigorosamente oggettive e, quindi, tenendo in

considerazione tutte le circostanze del caso concreto

(anche se conosciute successivamente al fatto), purché

presenti al momento della condotta offensiva; queste

debbono apparire idonee, secondo la migliore scienza

ed esperienza, a provocare o ad aggravare quegli

eventi lesivi che si vogliono scongiurare attraverso

l'azione difensiva (in questo senso: Mantovani, PG,

258). In merito al requisito della attualità del pericolo

(che possiede indubbiamente una funzione selettiva

delle ipotesi di legittima difesa ammissibili) va

preliminarmente osservato che la reazione difensiva è

pacificamente da escludersi allorché il pericolo sia

ormai cessato senza tradursi in una effettiva lesione

ovvero si sia realizzato in una conseguenza lesiva non

più neutralizzabile o non più suscettibile di

approfondimento.

Allo stesso modo, la attualità del pericolo può essere

ritenuta presente nelle ipotesi in cui la lesione appaia

cronologicamente imminente, e nei casi in cui

l'aggressione, già iniziata, sia ancora in corso di

attuazione (in quanto in questo caso la legittima difesa

può consentire di scongiurare ulteriori eventi dannosi).

Secondo parte della dottrina e della giurisprudenza

deve ritenersi ammissibile la legittima difesa anche: 1)

nei casi in cui l'offesa non appaia ancora

cronologicamente vicina ma sia comunque necessario

agire, senza avere alcuna possibilità di rivolgersi

all'autorità, approfittando di una occasione favorevole

(che rischia di non più ripetersi), per evitare un danno

futuro ma certo (c.d. legittima difesa anticipata

sintetizzabile nell'espressione "ora o mai più": sul punto,

v. Marinucci, Cause, 141; Marinucci, Dolcini, PG, 256);

2) nell'ipotesi in cui l'offesa sia già realizzata ma

l'azione difensiva appaia necessaria per evitare il suo

definitivo consolidamento (v. Frosali, 306, contra,

Viganò, in Comm. Dolcini, Marinucci, 779).

Il pericolo attuale deve avere ad oggetto una offesa

ingiusta. L'espressione vale a sottolineare innanzitutto

che il pericolo di lesione deve derivare da una condotta

umana. Per quanto riguarda il requisito dell' ingiustizia è

pacifico, in dottrina, che questa non debba

necessariamente tradursi in un comportamento

costituente reato, mentre tale è sicuramente l'offesa

arrecata contra jus (cioè quella vietata e sanzionata,

non necessariamente con sanzione penale,

dall'ordinamento giuridico). All'opposto è

concordemente esclusa la legittima difesa nei confronti

delle offese arrecate jure cioè nell'esercizio di una

facoltà legittima o nell'adempimento di un dovere.

Fra questi due estremi si collocano quelle offese che

senza essere suscettibili di sanzione per chi le compie

non sono realizzate in adempimento di un comando

giuridico, né sono oggetto di una esplicita norma

autorizzativa. In questa categoria rientrano le

aggressioni non colpevoli perché realizzate da soggetti

privi di dolo o di colpa o da soggetti non imputabili, le

aggressioni realizzate da soggetti immuni (ma sul punto

v. le attente precisazioni di Padovani, Difesa legittima,

508) e, secondo taluni, anche le aggressioni realizzate

da chi agisce in stato di necessità o in esecuzione di un

ordine illegittimo vincolante. In questa costellazione di

casi, tutti accomunati da un'offesa arrecata non jure, la

dottrina che accoglie un concetto ristretto di "ingiustizia"

da limitare esclusivamente alle offese arrecate contra

jus ritiene che l'unica scriminante applicabile alla

condotta di autotutela possa essere lo stato di

necessità nei limiti assai più rigorosi che sono propri di

tale ipotesi (Manzini, II, 390). Chi ritiene, invece, di

ricondurre al concetto di ingiustizia anche le offese

arrecate non jure, nel senso al quale si è appena fatto

cenno, propone senza difficoltà l'applicabilità della

legittima difesa (Mantovani, PG, 258; a risultati analoghi

perviene, in tali ipotesi, Pagliaro, PG, 441).

In giurisprudenza, nel senso che non sarebbe ingiusta,

ma anzi sarebbe lodevole, la violenza esercitata da un

privato cittadino - pure in assenza dei presupposti che

legittimerebbero l'arresto da parte del privato in

flagranza di reato - per bloccare un borseggiatore in

fuga anche dopo che questi ha abbandonato la refurtiva

(con la conseguenza che la reazione violenta del

borseggiatore per riconquistare la libertà non sarebbe

legittima difesa ma integrerebbe il reato di rapina

impropria) v. C., Sez. II, 7.7.2004.

Perché l'offesa realizzata attraverso l'azione difensiva

possa essere giustificata sono necessari, accanto ai

caratteri dell'aggressione sopra esaminati, anche

precisi requisiti della reazione. Il tenore testuale dell'art.

52 impone, in proposito, di considerare attentamente tre

distinti requisiti: la "costrizione", la "necessità", la

"proporzione fra difesa e offesa".

Per quanto attiene al requisito della costrizione,

secondo la dottrina dominante la "costrizione" sarebbe

da intendere oggettivamente, come indicativa della

situazione in cui l'aggredito viene a trovarsi per la

sussistenza del pericolo, e la conseguente necessità di

evitare che esso si tramuti in danno; una tale situazione

sarebbe apprezzabile da un «osservatore esterno,

indipendentemente da ogni eventuale rappresentazione

della realtà materiale da parte dell'autore del fatto

tipico» (testualmente: Grosso, Difesa, 240. Nello stesso

senso: Romano, PG, I, 560; Padovani, Difesa legittima,

509).

Tuttavia, in più occasioni, la giurisprudenza ha

sottolineato la necessità di una componente soggettiva

nella condotta di chi si difende, caratterizzata dalla

consapevolezza della aggressione e dalla volontà di

reagire all'offesa: cfr. C., Sez. I, 24.11.1978; C., Sez. I,

23.11.1977; C., Sez. I, 16.11.1977.

Anche mantenendo un'interpretazione rigorosamente

obiettiva del termine "costrizione" è tuttavia possibile

attribuire ad esso un significato autonomo rispetto al

diverso requisito della "necessità". A questo proposito

va segnalata la presa di posizione di chi sottolinea

(Padovani, Difesa legittima, 510) che il requisito

esprimerebbe la necessità che l'alternativa conflittuale

fra l'offendere e l'essere offeso risulti "subita" dal

soggetto che si difende. Mentre il requisito della

"necessità" andrebbe valutato solo "dopo"

l'aggressione, il requisito della costrizione andrebbe

valutato nel momento, per così dire, "genetico" della

situazione scriminante.

Sulla base di questa interpretazione del requisito in

parola, la costrizione (e quindi la scriminante della

legittima difesa) andrebbe esclusa ogniqualvolta

l'alternativa conflittuale fra l'offendere e l'essere offeso

risulti intenzionalmente provocata dal soggetto che

invoca la scriminante o da lui consapevolmente

accettata. La legittima difesa va quindi esclusa, perché

il soggetto non è "costretto" a subire l'alternativa fra

difendersi o essere offeso, nei casi di provocazione

intenzionale, di volontaria partecipazione ad una rissa,

di accettazione di una sfida a battersi.

Nel caso di provocazione non intenzionale (cioè non

preordinata a scatenare l'aggressione del provocato

allo scopo di poterlo offendere invocando la legittima

difesa), invece, non vi sarebbero ragioni per negare la

possibilità di invocare la legittima difesa in presenza di

una aggressione da parte del provocato (Padovani,

Difesa legittima, 504; Grosso, Difesa, 79).

Per la esclusione della legittima difesa nei casi di

partecipazione ad una rissa cfr. C., Sez. I, 14.12.1992;

C., Sez. I, 24.9.1987; C., Sez. I, 14.1.1986. Per i casi di

sfida lanciata o accolta escludono l'applicabilità dell'art.

52: C., Sez. I, 27.11.2012-31.1.2013, n. 4874; C., Sez.

I, 31.10.1995; C., Sez. I, 10.10.1995; C., Sez. I,

4.5.1992. Per C., Sez. V, 24.6.2008, n. 31633, in caso

di lesioni volontarie reciproche non ricorre la legittima

difesa qualora i due contendenti si siano lanciati

contemporaneamente alla reciproca aggressione.

La legittima difesa viene invece riconosciuta quando

l'avversario, nel caso di una sfida che avrebbe dovuto

aver luogo senza armi, ne abbia improvvisamente fatto

uso (C., Sez. I, 19.10.1982), o in ipotesi in cui la

reazione del provocato appaia assolutamente

imprevedibile e sproporzionata (C., Sez. V, 20.12.1984;

C., Sez. I, 26.9.1984).

Nel senso invece che la configurabilità della legittima

difesa, a differenza di quanto avviene con riguardo allo

stato di necessità, non è di per sé esclusa dalla

volontaria accettazione di una situazione di pericolo ma

solo dalla già prevista necessità di dover fronteggiare

quel pericolo mediante la commissione di un reato cfr.

C., Sez. I, 9.1.2004.

Si può passare ora all'esame del requisito della

necessità. Come ritenuto dalla dottrina prevalente il

requisito in parola comporta che la applicazione della

scriminante deve essere esclusa innanzitutto allorché il

soggetto aggredito abbia la possibilità di difendersi

senza offendere l'aggressore oppure, ove ciò non sia

possibile, allorché la difesa possa essere realizzata con

una offesa meno grave di quella arrecata (per tutti:

Mantovani, PG, 260). Inoltre, la condotta difensiva, in

tanto può essere considerata necessaria, in quanto

appaia idonea a neutralizzare il pericolo (Grosso,

Difesa, 24; Padovani, Difesa legittima, 511. Contra,

Viganò, in Comm. Dolcini, Marinucci, 801).

Alla luce di queste premesse può essere affrontata la

questione della applicabilità della scriminante a chi,

potendo fuggire, si difende. Conformemente all'opinione

espressa dalla dottrina più recente (Mantovani, PG,

261; Romano, Comm. Romano, PG, I, 557; Pagliaro,

PG, 442; Fiandaca, Musco, PG, 288; Antolisei, PG,

304) ispirata anche alla logica del bilanciamento fra

interessi contrapposti sottesa all'intero settore delle

scriminanti, va accolta una soluzione intermedia che

escluda l'applicazione della scriminante allorché la fuga

appaia agevole, non rischiosa per l'aggredito o per i

terzi, non particolarmente vergognosa. Viceversa la

scriminante andrebbe riconosciuta allorché la fuga

esporrebbe l'aggredito o altri a probabili offese di una

certa gravità o possieda connotati particolarmente

negativi assumendo il valore di un deplorevole

cedimento alla delinquenza.

Per ipotesi in cui la legittima difesa è stata esclusa in

considerazione della possibilità di una fuga agevole e

non pregiudizievole verso beni dell'aggredito o di terzi

cfr. C., Sez. I, 10.2.1984; C., Sez. V, 28.5.1982. Per

ipotesi in cui la legittima difesa è stata esclusa in

considerazione della possibilità di realizzare una

efficace difesa con una condotta meno lesiva per

l'aggressore rispetto a quella realizzata cfr. C., Sez. I,

24.11.1978; C., Sez. I, 10.4.1978.

Oltre che necessaria la difesa deve risultare

proporzionata all'offesa.

Al riguardo la dottrina non ha mancato di sottolineare

l'autonomia di tale requisito rispetto a quello della

necessità e la sua funzione ulteriormente selettiva ai fini

della identificazione dei casi in cui la scriminante può

essere riconosciuta. Può essere, infatti, presente la

necessità senza la proporzione, e viceversa potrebbe

sussistere la proporzione ma non la necessità

(Mantovani, PG, 262).

Circa i criteri da utilizzare per formulare il giudizio di

proporzione, la dottrina dominante ha ormai da tempo

ripudiato quella interpretazione che desumeva la

proporzione dal rapporto fra i mezzi usati dall'aggredito

e quelli a sua disposizione. Una volta rifiutato il criterio

dei mezzi viene concordemente sottolineata in dottrina

l'importanza centrale che, ai fini del giudizio di

proporzione, assume la valutazione del confronto fra il

bene dell'aggredito (posto in pericolo dall'aggressore) e

quello dell'aggressore (sacrificato dalla reazione

difensiva).

Nel dare concreta attuazione a questa comparazione si

è, peraltro, sottolineato come non ci si possa limitare ad

un confronto astratto fra i beni (v. Grosso, 32; Fiore C.,

Fiore S., 314) ma occorra procedere ad un giudizio di

natura essenzialmente dinamica che tenga altresì

conto: 1) della circostanza che l'esigenza di autotutela

sulla quale si fonda la scriminante comporta,

inevitabilmente, che il bene dell' aggressore finisca con

l'apparire meno degno di tutela rispetto al bene

dell'aggredito ( v. Mantovani, PG, 263; Romano,

Comm. Romano, PG, I, 559); 2) di ogni circostanza

concreta che possa apprezzabilmente influenzare il

giudizio di proporzione come l’intensità del pericolo

minacciato nei confronti dell'aggredito; le caratteristiche

dell'aggredito stesso e rapporti di forza fra questo e

l'aggressore; il tempo e luogo dell'azione (per

approfondimenti ed esemplificazioni sul punto:

Fiandaca, Musco, PG, 289; Mantovani, PG, 263;

Romano, PG, 559; Padovani, Difesa legittima, 513); 3)

dei mezzi a disposizione della vittima (Romano, 524;

Contento, 345). In argomento v. anche Pierdonati, La

proporzione nella difesa legittima: il "momento" e la

"base" del giudizio, in IP, 2003, 587.

Per l'applicazione della regola di esperienza secondo

cui colui che è reiteratamente aggredito reagisce come

può, secondo la concitazione del momento, con la

conseguenza che non è tenuto a calibrare l'intensità

della reazione, finalizzata ad indurre la cessazione della

avversa condotta lesiva, salva l'ipotesi di eventuale

manifesta sproporzione della reazione cfr. C., Sez. V,

24.2-27.6.2011, n. 25608.

Il panorama dottrinario e giurisprudenziale appena

prospettato relativamente al requisito della proporzione,

sembra esigere una attenta riconsiderazione in

conseguenza della entrata in vigore della L. 13.2.2006,

n. 59 che, aggiungendo due commi all'art. 52, introduce

una sorta di «presunzione legale del requisito della

proporzione» che scatterebbe in presenza di talune

condizioni espressamente e tassativamente indicate.

Sennonché, nonostante lo scopo chiaramente

ricavabile dalla lettura della rubrica stessa dell'unico

articolo della legge («Diritto alla autotutela in un privato

domicilio»), non sembra che siano stati raggiunti

risultati particolarmente rivoluzionari rispetto al

precedente quadro normativo.

Fra i principali elementi di contraddittorietà della norma

va segnalato innanzitutto il fatto che i commi aggiunti

dalla riforma del 2006 sembrano, per un verso,

configurare una scriminante che sembra caratterizzata

da vistosi elementi di autonomia rispetto alla

tradizionale ipotesi di cui al primo comma. Ed invero, un

chiaro elemento di "rottura" rispetto alla logica propria

della tradizionale scriminante prevista dall'art. 52

sembra proprio rappresentato dalla «presunzione di

proporzione» che scatterebbe in presenza di taluni

requisiti tassativamente individuati:

a) nella commissione di una violazione di domicilio ai

sensi dell'art. 614 c.p. da parte dell'aggressore;

b) nella presenza legittima del domicilio da parte

dell'aggredito;

c) nell'uso di un'arma legittimamente detenuta o di altro

mezzo idoneo a fini difensivi;

d) nel fine di difendere la propria o altrui incolumità

ovvero i beni propri o altrui a condizione che, in questa

seconda ipotesi non vi sia desistenza e vi sia pericolo di

aggressione.

Sennonché è facile avvedersi che la pretesa di

superare, attraverso una presunzione legale, i rigorosi

limiti fissati dall'art. 52 c.p. nella sua versione originaria,

finisce con l'essere quasi completamente

ridimensionata. Per un verso, infatti, la presunzione di

cui al terzo e al quarto comma, incidendo soltanto sul

requisito della proporzione, non fa venir meno

l'esigenza di accertare, perché la scriminante sia

effettivamente operativa, la presenza di tutti gli altri

requisiti di liceità della condotta difensiva previsti

dall'art. 52, 1° co. e, in particolare, il requisito della

"necessità". Ma anche la stessa «presunzione di

proporzione» introdotta dalla nuova legge non sembra

possa mai legittimare la uccisione dell'aggressore o una

reazione difensiva che si risolva in una grave lesione

della sua incolumità fisica quando venga in gioco il

pericolo di una offesa al solo patrimonio dell'aggredito.

In giurisprudenza, per una applicazione della norma in

esame alla luce delle recenti modifiche cfr. C., Sez. V,

14.5.2008, n. 25653; C., Sez. I, 8.3.2007, n. 16677; C.,

Sez. IV, 29.9.2006; C., Sez. V, 28.6.2006 che

confermano come la nuova normativa non abbia, in

realtà, inciso in modo significativo sui tradizionali canoni

interpretativi e applicativi della scriminante.

Per l'affermazione che la presunzione di proporzionalità

tra offesa e difesa, stabilita al 2° co. dell'art. 52, si

applica anche nel caso di legittima difesa putativa cfr.

C., Sez. I, 9.2-23.3.2011, n. 11610.

Si segnala come, da ultimo, la Suprema corte, ha fatto il

punto sulla c.d. legittima difesa domiciliare, stabilendo

che, la causa di giustificazione prevista dall'art. 52,

comma secondo, cod. pen., così come modificato

dall'art. 1 della legge 13 febbraio 2006, n. 59, non

consente un'indiscriminata reazione nei confronti del

soggetto che si introduca fraudolentemente nella

dimora altrui ma presuppone un pericolo attuale per

l'incolumità fisica dell'aggredito o di altri (Cass. pen.,

sez. IV, 14 novembre 2013, n. 691).

Nel caso di specie la Corte ha escluso la configurabilità

della scriminante per essersi l'aggressore introdotto non

nell'abitazione ma in altro fabbricato in costruzione ad

essa attiguo, sempre di proprietà dell'aggredito, dal

quale, tuttavia, non sarebbe stato possibile raggiungere

con immediatezza la casa di quest'ultimo.

3. Segue: lo stato di necessità (art. 54 c.p.)

La scriminante dello stato di necessità ruota attorno al

requisito del pericolo, che esprime la seria possibilità

che si verifichi il danno grave alla persona contemplato

dall'art. 54. Fonte del pericolo può essere tanto un

evento naturale quanto un fatto dell'uomo, allorché la

reazione sia diretta non contro l'aggressore, ma contro

il terzo. La sussistenza della situazione di pericolo va

accertata riportandosi al momento del fatto e tenendo

conto di tutte le circostanze effettivamente esistenti,

anche se non conosciute dall'agente. Va, però,

osservato che, in virtù dell'art. 59, 4° co., l'erronea

opinione circa l'esistenza di una situazione di pericolo in

realtà insussistente esclude ugualmente la punibilità a

titolo di dolo, residuando la responsabilità per il delitto

colposo eventualmente previsto dalla legge, ove l'errore

sia determinato da colpa.

Il pericolo deve essere attuale. Secondo la lettura

restrittiva il pericolo postulerebbe l'imminenza del

verificarsi del danno. Secondo la lettura estensiva, più

ancorata alla lettura della legge, il pericolo attuale è il

pericolo semplicemente presente. Anche dal punto di

vista della ratio non vi sono ragioni di limitare la portata

della lettura. Pericolo attuale, dunque, è pericolo

attualmente presente, concetto intermedio tra i due

estremi dell'imminenza del danno e della mera

previsione circa il possibile futuro insorgere di una

situazione di pericolo (nel senso di cui al testo, Comm.

Romano, I, 571; Fiandaca, Musco, 306, che mettono in

evidenza come talora sia opportuno agire

anticipatamente per impedire l'aggravamento delle

potenzialità lesive insite nella situazione pericolosa; per

la nozione più restrittiva, Grosso, Difesa, 80).

A differenza della legittima difesa, riferibile alla tutela di

qualsiasi diritto, lo stato di necessità è contemplato

dalla legge esclusivamente per la salvaguardia di sé od

altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona.

Con interpretazione estensiva, la dottrina ha ammesso

la riferibilità dell'istituto alla tutela di altri beni personali,

come la libertà personale, fisica o morale, la libertà

sessuale, la riservatezza, il pudore, l'onore, da

considerarsi beni fondamentali della persona, alla luce

della tavola costituzionale dei valori (Comm. Romano, I,

570; nello stesso senso, Antolisei, 311; Fiandaca,

Musco, 309; Grosso, Difesa, 179; Pagliaro, PG, 447; in

senso contrario, Contento, 346; Nuvolone, Il sistema,

198). A partire dalla seconda metà degli anni '70,

comunque, è prevalso l'orientamento teso ad allargare

la sfera dei diritti personali suscettibili di tutela, sì che

hanno trovato ingresso nel sistema non soltanto il diritto

alla salute ex art. 32 Cost., bensì anche il diritto al

lavoro, all'abitazione, a una vita dignitosa, sul

fondamento del principio solidaristico statuito dall'art. 2

Cost.

Il termine cui relazionarsi per valutare il danno non è la

probabilità della lesione, ma l'intrinseca intensità

dell'offesa. È evidente che sussiste la gravità del danno

quando il bene in pericolo è di rango qualitativamente

elevato. (Mantovani, 269).

La giurisprudenza di legittimità, contemperando la tutela

dei diritti fondamentali della persona con il principio di

legalità, ha ammesso la riferibilità all'art. 54 c.p. di tutte

le situazioni che minacciano la complessa sfera dei

bisogni primari della persona, ivi compresa l'esigenza di

un alloggio. Per altro verso, però, ha ribadito che tale

interpretazione estensiva del danno grave alla persona

postula la rigorosa circoscrizione dell'esimente «ai soli

casi in cui siano indiscutibili gli altri elementi costitutivi

della stessa, in particolare la necessità e l'inevitabilità

tenuto conto delle complesse esigenze di tutela dei beni

dei terzi, che, coinvolti involontariamente dallo stato di

necessità, non possono essere compressi se non in

condizioni eccezionali, chiaramente comprovate». (C.,

Sez. III, 18.3.1983).

In tema di bisogno di alimenti, cure mediche,

abitazione, la Corte suprema circoscrive l'applicabilità

dell'esimente ai casi in cui la indilazionabilità e cogenza

del bisogno non lascia all'agente alternativa diversa da

quella di violare la legge (C., Sez. VI, 5.7.2012, n.

28115, che ha escluso l'esimente in un caso di illecita

occupazione di immobile da parte di una donna in stato

di gravidanza e con minacce di aborto e del di lei

coniuge, entrambi svolgenti regolare attività lavorativa;

cfr. anche C., Sez. II, 17.1.2008; C., Sez. II, 27.6.2007;

C., Sez. VI, 24.11.1993; C., Sez. I, 11.11.1986; C., Sez.

III, 7.10.1981; C., Sez. I, 9.3.1981; C., Sez. IV,

22.1.1976; C., Sez. VI, 12.12.1975; C., Sez. VI,

18.4.1967; C., Sez. VI, 30.1.1967).

L'esimente è esclusa quando l'agente abbia

volontariamente causato la situazione di pericolo che

costituisce il presupposto dello stato di necessità.

L'interpretazione del requisito relativo alla "non

volontarietà" della causazione è controversa. Secondo

la corrente maggioritaria, l'esimente esula quando

l'agente abbia dato causa al pericolo sia con dolo sia

con colpa (Grosso, Il requisito della produzione non

volontaria del pericolo nello stato di necessità e nella

difesa legittima, in Studi in onore di F. Antolisei, II,

Milano, 1965, 71; Fiandaca, Musco, 307; Mantovani,

268; Comm. Romano, I, 571). Altra corrente tende a

identificare causazione volontaria con causazione

dolosa del pericolo (Bettiol, Pettoello Mantovani, PG,

394; Pagliaro, 447; perplesso Molari, 62).

Sull'essenzialità nell'esimente di cui all'art. 54 del

requisito che il pericolo non sia stato causato

dall'agente cfr. C., Sez. VI, 3.3.2011, n. 11696, in tema

di violazione degli obblighi di assistenza familiare

quando l'indisponibilità dei mezzi necessari sia dovuta,

anche parzialmente, a colpa dell'obbligato.

Quanto all'interpretazione del requisito relativo

all'inevitabilità del pericolo, mentre non è controverso

che lo stato di necessità è escluso allorché il pericolo

possa essere sicuramente paralizzato attraverso il

compimento di altre condotte lecite, ovvero attraverso

rimedi civilistici o amministrativistici, v'è contrasto in

ordine alla ammissibilità dello stato di necessità quando

la condotta diversa da quella lesiva non sia valutabile

come certamente impeditiva, presentando minori

possibilità di salvaguardia del bene in pericolo rispetto

alla condotta lesiva del bene. Per risolvere il problema

si è ricostruito lo stato di necessità in modo elastico, a

seconda del rapporto di proporzione in concreto

esistente tra il bene sacrificato e il bene salvaguardato.

Se il primo è di rango modesto e il secondo ha grande

valore, lo stato di necessità dovrebbe essere

riconosciuto anche quando la condotta lesiva avrebbe

soltanto maggiori possibilità di salvaguardare il bene

rispetto alla condotta alternativa lecita (De Francesco,

238).

Sull'esclusione dell'inevitabilità in caso di sottrazione di

figlio minorenne da parte del padre, in rapporto

conflittuale con la madre, sull'asserita necessità di

evitare al figlio un intervento chirurgico ritenuto

pericoloso e superfluo, essendo sufficiente per evitare

tale operazione, per la semplice negazione del

consenso, richiesto dai medici a entrambi i genitori cfr.

C., Sez. VI, 16.3.2010, n. 12615.

Anche lo stato di necessità, come la legittima difesa,

contiene espressa menzione del requisito della

proporzione. La dottrina prevalente concepisce la

proporzione come relazione tra i beni in conflitto, nel

senso che il bene sacrificato dall'azione necessitata

non può mai essere superiore a quello salvaguardato.

Per rimarcare la differenza con la legittima difesa, si

aggiunge da taluno che nel raffronto tra beni equivalenti

la proporzione va apprezzata in modo più rigoroso che

nella legittima difesa (Antolisei, 313; Grosso, Necessità,

889; Pagliaro, 448).

L'art. 54, 2° cpv. precisa che l'esimente si applica anche

quando il pericolo deriva dall'altrui minaccia. La

disposizione si riferisce non alla violenza fisica o

assoluta, quando il soggetto diventa strumento

materiale di chi lo costringe, bensì alla costrizione

morale o relativa, quando il soggetto, pur costretto dalla

minaccia altrui, fruisce ancora di un margine di libertà.

Ora, nell'ampia gamma di condotte caratterizzate dalla

costrizione morale, la legge dichiara non punibili

soltanto quelle in cui l'intensità della costrizione abbia

determinato una situazione contrassegnata da tutti i

requisiti individuati nell'art. 54, 1° co. c.p. In questo

caso, la responsabilità si concentra in capo alle persone

che sono causa mediata dell'evento, con esclusione

della punibilità nei confronti dell'agente immediato. In

giurisprudenza, si evidenzia che il pericolo causato

dall'altrui minaccia deve avere a oggetto un danno

grave alla persona, e non un mero pregiudizio di tipo

patrimoniale (C., Sez. VI, 25.9.1987, in ipotesi in cui è

stata esclusa l'esimente in relazione a deposizione

compiacente per il datore di lavoro resa sotto minaccia

di licenziamento); non deve essere evitabile con il

compimento di un'azione diversa (C., Sez. V,

30.1.2004; C., Sez. II, 3.10.1978; C., Sez. VI,

12.6.1973; C., Sez. I, 29.9.1971, che escludono

l'esimente perché il soggetto avrebbe potuto rivolgersi

all'Autorità; in senso diverso C., Sez. VI, 10.11.2010, n.

42928; C., Sez. III, 12.5.1967, che riconosce lo stato di

necessità a favore di persona cui la mafia aveva già

amputato una mano).

Il fatto non è punibile a titolo di dolo, ai sensi dell'art. 59,

4° co. c.p. ove sia stato commesso nell'erronea

rappresentazione circa la sussistenza di una situazione

corrispondente allo stato di necessità. Oggetto

dell'errore possono essere soprattutto le condizioni di

attualità e inevitabilità del pericolo: in tali casi, quando

l'agente agisca nel ragionevole convincimento che un

grave pericolo, in realtà inesistente, lo sovrasti, ovvero

che egli non possa sfuggire a esso se non attraverso la

condotta lesiva, rappresentandosi come assolutamente

impraticabili altre vie di salvezza, va applicato l'art. 59,

4° co., c.p. che esclude il dolo, facendo salva la

punibilità a titolo di colpa, quando il fatto sia previsto

come reato colposo.

Molto vicina alla situazione di errore sulla sussistenza

degli estremi dell'esimente è la situazione contemplata

all'art. 55 c.p., relativa all'eccesso colposo. Qui pure v'è

divergenza tra la realtà effettiva e quella ritenuta dal

soggetto. Diversa è la causa dell'errore. Nel caso

dell'art. 59, 4° co., c.p. il soggetto erra sulla situazione

esterna; nel caso dell'art. 55 c.p. egli oltrepassa con il

suo agire colposo i confini del comportamento scusato.

In giurisprudenza, sulla esclusione dello stato di

necessità putativo in un caso di rifiuto di consegnare

una bambina bielorussa ai responsabili

dell'organizzazione che doveva curarne il rimpatrio, per

evitare alla minorenne un trauma psicologico nel timore

che, una volta tornata in Bielorussia, la stessa avrebbe

subito violenze di cui aveva già narrato di essere

restata vittima prima dell'affidamento temporaneo in

Italia cfr. C., Sez. VI, 21.3-16.5.2012, n. 18711.

4. Scriminanti tacite

La questione della configurabilità, nell'ambito del diritto

penale, delle scriminanti non codificate è emersa, in

particolar modo, con riferimento alle fattispecie relative

all'attività medico chirurgica ed alla violenza sportiva.

L'incertezza in ordine ai limiti d'applicazione delle cause

di giustificazione codificate e, segnatamente, di quelle

del consenso dell'avente diritto, dell'esercizio del diritto

e dello stato di necessità (quest'ultima solo con

riferimento all'attività medico chirurgica), nonché

l'apparente inidoneità delle menzionate scriminanti ad

escludere l'antigiuridicità di condotte socialmente

apprezzate ed incentivate ha condotto a teorizzare la

sussistenza di scriminanti tacite nel nostro ordinamento.

L'ammissibilità delle cause di giustificazione non

codificate è esclusa tuttavia da una parte della dottrina

che interpreta il principio di legalità in chiave

particolarmente rigorosa e come vertente su tutti gli

elementi della fattispecie penale.

In senso contrario, si è evidenziato come le cause di

giustificazione non costituiscano norme di rango

esclusivamente penale e che rappresentino dei principi

generali dell'ordinamento, con la conseguenza di non

incontrare, in ordine all'eventuale applicazione del

principio analogico, alcuno dei limiti di cui all'art. 14

delle preleggi.

Una dottrina particolarmente autorevole ha, poi,

sottolineato la concreta scarsa utilità della categoria

delle scriminanti non codificate in considerazione della

lata estensione di quelle codificate e della loro idoneità

a ricomprendere, nel loro alveo, tutte le fattispecie che,

comunemente, si usa risolvere mediante il ricorso alle

c.d. scriminanti tacite.

Per quel che concerne l'attività medico chirurgica,

occorre preliminarmente rilevare come, sia applicando

la tesi della scriminante non codificata, sia quella della

riconduzione del fatto legalmente tipico nell'ambito

operativo dell'esercizio del diritto o dello stato di

necessità è, pur sempre, necessario che non sussista,

salvo quanto previsto dall'art. 32 Cost in ordine ai

trattamenti sanitari obbligatori, un dissenso del

destinatario dell'attività medico chirurgica.

Il consenso dovrà, anzi, configurarsi come consenso

informato, salvi i casi di urgenza in cui il consenso sarà

considerato come presunto.

Secondo autorevole dottrina, tutti i casi relativi all'attività

medico chirurgica sarebbero scriminati dalla causa di

giustificazione dell'esercizio del diritto da parte del

medico in considerazione della rilievo e

dell'incentivazione sociale dell'attività medica

medesima.

Altra dottrina, ritiene che, invece, nei casi in cui il

destinatario dell'attività terapeutica non sia in grado di

manifestare il proprio consenso e vi sia l'urgente

necessità di intervenire o, addirittura, nel caso in cui

manifesti il proprio dissenso, il medico sia scriminato

dalla causa di giustificazione del soccorso di necessità.

In ogni caso occorre distinguere il caso in cui l'attività

medico-chirurgica abbia prodotto un esito fausto da

quello in cui abbia prodotto un esito infausto in quanto,

in caso di esito fausto e, cioè, di miglioramento

complessivo funzionale dello stato del soggetto,

secondo una parte della dottrina, sarebbe addirittura da

escludere la tipicità del fatto di reato di lesioni.

In caso di esito infausto, sempre che vi sia stato il

consenso del paziente, occorrerà distinguere se vi sia

stato il rispetto dei criteri di diligenza e correttezza

nell'effettuazione dell'intervento da quello in cui tali

criteri non siano stati rispettati; nel secondo caso, infatti,

sempre che il delitto sia punibile anche a titolo di colpa,

sarà configurabile la responsabilità colposa del medico.

Con riferimento alla violenza sportiva, ai fatti di

violenza, cioè, che si verifichino nel corso della pratica

sportiva, occorre distinguere quegli sport nei quali la

violenza costituisca una componente necessaria della

pratica medesima, da quegli sport nei quali il fatto

violento sia solo eventuale.

In questa ultima tipologia di sport, occorre ulteriormente

distinguere, secondo la giurisprudenza, il caso nel

quale l'evento lesivo si sia verificato nonostante il

rispetto delle regole del gioco, nel qual caso sarà da

escludere l'antigiuridicità in quanto il fatto si sarà

verificato per un caso fortuito, dal caso in cui l'evento

lesivo origini dalla violazione delle regole del gioco.

In tale ultima ipotesi, ove le regole del gioco siano

violate colposamente (nella concitazione dell'azione di

gioco e sotto l'effetto dell'agonismo e dell'ansia per il

risultato), l'autore della lesione non sarà punibile in

considerazione del mantenimento della condotta entro i

limiti del rischio consentito.

Ove, invece, la violazione delle regole del gioco sia

posta in essere consapevolmente, occorrerà

ulteriormente distinguere ai fini dell'individuazione del

titolo di responsabilità dell'autore del fatto; se, infatti, il

fatto venga commesso per finalità di gioco, il fatto tipico

sarà imputabile all'autore a titolo di colpa; se il fatto

venga commesso per finalità estranee al gioco, come,

ad esempio, per intimidire l'avversario preventivamente

o per reazione ad un precedente fallo di gioco, l'attività

sportiva si configurerà come un mero presupposto

occasionale per la commissione di un illecito doloso.

Vi è responsabilità a titolo di dolo, e va esclusa la

scriminante dell'esercizio di attività sportiva, per la

condotta volontariamente lesiva dell'incolumità

dell'avversario in relazione alla quale l'occasione del

gioco può dirsi solamente pretestuosa; la Suprema

corte ha recentemente confermato la responsabilità a

titolo di dolo di un giocatore che aveva colpito, in

maniera del tutto volontaria, un avversario con un

pugno allo zigomo (Cass. pen., sez. V, 13 febbraio

2013, n 11260).

Si è sostenuto che, anche nell'ipotesi della violenza

sportiva, per escludere l'antigiuridicità del fatto, sia

sufficiente ricorrere alla scriminante del consenso

dell'avente diritto o a quella dell'esercizio di un diritto

ma, con riferimento, alla prima si è rilevato che tale

consenso non sarebbe idoneo a scriminare fatti che

abbiano determinato diminuzioni permanenti

dell'integrità fisica o la morte e, con riferimento alla

seconda, che l'esercizio del diritto in relazione alla

rilevanza sociale della pratica sportiva sia ipotizzabile in

relazione alle competizioni professionistiche ma non in

relazione agli eventi di violenza sportiva che si

verifichino durante attività ludiche o dilettantistiche.

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