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1 DOSSIER NEUROSCIENZE IPNOSI EMOZIONI E DOLORE ANGELICO BRUGNOLI Definizione di ipnosi L'ipnosi è definita come uno stato di coscienza alterato, che comporta delle modificazioni fenomenologiche oggettive e soggettive distinguibili da quelle esperibili nello stato di veglia e durante il sonno. Più propriamente non può essere considerata uno stato stabile, ma un processo dinamico e mutevole dello stato di coscienza. Dal punto di vista psicoanalitico ortodosso è definita come una regressione adattativa al servizio dell'Io, in cui il soggetto ipnotizzato sottoporrebbe un sottosistema del suo Io al temporaneo controllo dell'ipnotista per un interesse terapeutico, pur mantenendo la capacità di riassumere al bisogno lo stato di veglia. Sarbin ed al. ritengono l'ipnosi una forma di "investimento in ruolo", quindi una forma di recitazione, nella quale l'attore può dimenticare la sua identità e il pubblico presente, immedesimandosi nella parte. Secondo la teoria neo-dissociativa elaborata da Hilgard nel 1977 è postulata la presenza di un sistema cognitivo multiplo coordinato da un Ego-Executive cui sarebbero subordinati dei sottosistemi di controllo cognitivo organizzati gerarchicamente. L'ipnosi, come da un altro punto di vista il sonno fisiologico, sarebbe in grado di modificare l'assetto gerarchico di questi sottosistemi, riducendo la dominanza dell'Ego-Executive e permettendo cosi il manifestarsi di una non ordinaria fenomenologia. Una definizione operativa di ipnosi è di uno stato di coscienza determinato da una particolare relazione che passa attraverso il corpo. IPNOSI = Stato / Relazione x corpo Nella clinica l'ipnosi è una relazione circolare tra terapeuta e paziente tramite una tecnica, si parla anche di sincronia interattiva fra soggetto e ipnotista. (vedi note introduttive) La parte che segue è stata tratta, modificata e adattata da: Antonelli C. , Luchetti M. DALLA LATERALITA' EMISFERICA AI NEURONI SPECCHIO, UN NUOVO PARADIGMA PER LA NUOVA IPNOSI ACTA ANAESTHESIOLOGICA ITALICA VOL.58 n. 4, 2007 editrice La Garangola - Padova (pag.376 - 400)

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DOSSIER

NEUROSCIENZE IPNOSI EMOZIONI E DOLORE

ANGELICO BRUGNOLI

Definizione di ipnosi

L'ipnosi è definita come uno stato di coscienza alterato, che comporta delle modificazioni fenomenologiche oggettive e soggettive distinguibili da quelle esperibili nello stato di veglia e durante il sonno. Più propriamente non può essere considerata uno stato stabile, ma un processo dinamico e mutevole

dello stato di coscienza. Dal punto di vista psicoanalitico ortodosso è definita come una regressione adattativa al servizio dell'Io, in cui il soggetto ipnotizzato sottoporrebbe un

sottosistema del suo Io al temporaneo controllo dell'ipnotista per un interesse terapeutico, pur mantenendo la capacità di riassumere al bisogno lo stato di

veglia. Sarbin ed al. ritengono l'ipnosi una forma di "investimento in ruolo", quindi una

forma di recitazione, nella quale l'attore può dimenticare la sua identità e il pubblico presente, immedesimandosi nella parte.

Secondo la teoria neo-dissociativa elaborata da Hilgard nel 1977 è postulata la presenza di un sistema cognitivo multiplo coordinato da un Ego-Executive cui

sarebbero subordinati dei sottosistemi di controllo cognitivo organizzati gerarchicamente. L'ipnosi, come da un altro punto di vista il sonno fisiologico,

sarebbe in grado di modificare l'assetto gerarchico di questi sottosistemi, riducendo la dominanza dell'Ego-Executive e permettendo cosi il manifestarsi

di una non ordinaria fenomenologia.

Una definizione operativa di ipnosi è di uno stato di coscienza determinato da una particolare relazione che passa attraverso il corpo.

IPNOSI = Stato / Relazione x corpo Nella clinica l'ipnosi è una relazione circolare tra terapeuta e paziente tramite una tecnica, si parla anche di sincronia interattiva fra soggetto e ipnotista.

(vedi note introduttive)

La parte che segue è stata tratta, modificata e adattata da: Antonelli C. , Luchetti M.

DALLA LATERALITA' EMISFERICA AI NEURONI SPECCHIO, UN NUOVO PARADIGMA PER LA NUOVA IPNOSI

ACTA ANAESTHESIOLOGICA ITALICA VOL.58 n. 4, 2007 editrice La Garangola - Padova (pag.376 - 400)

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Riassunto.

– Introduzione. Con la scoperta dei neuroni specchio si apre una forte evidenza su quanto l'ipnosi clinica moderna ha da tempo acquisito: l'importanza

terapeutica della relazione

- Scopo. La relazione terapeutica, mediata dall'osservazione e quindi dal rispetto si pone nella medicina moderna ed in particolare nella terapia del

dolore con un'evidenza di valore inconfutabile.

Per l'operatore può rappresentare il mezzo per riconcigliare le esigenze di attivismo, di tecnicismo ed efficienza con i valori profondi della cura, senza

ricorrere a complessi modelli teoretici applicabili solo da pochi scienziati della mente.

- Metodo. Analisi e commento dei lavori pubblicati sull'argomento (tratti da Medline, Pubmed, Embase), Testi monografici, Confronto fra esperti.

- Conclusioni. La scoperta dei neuroni specchio ci aiuta a comprendere oltre l'anedottico una possibilità di fare ed essere terapia attraverso la relazione. I

paradigmi dello stato speciale di coscienza ratificano in qualche misura l'esistenza dell'ipnosi stessa, il paradigma offertoci dal sistema specchio ci

fornisce il pieno diritto a riappropriarci di una forma di medicina antropologicamente più corretta, basata sulla mediazione di istanze umane prima che tecniche, mediazione che non si genera fuori dall'uomo secondo

definizioni astratte e generiche ma all'interno dell'uomo nel contesto relazionale con i suoi simili.

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INTRODUZIONE

In una precedente review (1) è stato sottolineato come l'ipnosi sia ormai accettata dalla medicina dell'evidenza come strumento utile in particolare nella

gestione e controllo del dolore sia degli adulti che dei bambini.

E' stata proposta una formula di sintesi: Ipnosi = Stato / Relazione x corpo

come costrutto unificante le varie teorie.

Recentemente Carnevale sottolinea che questo schema per dire ciò che dice, deve necessariamente non dire, implicare, omettere molti aspetti ai quali pure

allude, in particolare, quando si parla di ipnosi si fa riferimento tanto alle tecniche e alle procedure attraverso le quali si ottiene la condizione di trance,

quanto alla condizione stessa (2).

I differenti punti di vista o “lenti” che emergono dalla semplice lettura della formula, se assolutizzati possono portare a interpretazioni diverse dello stesso

fenomeno e della terapia con ricerca di autoconferma attraverso propri paradigmi.

Le neuroscienze hanno sviluppato negli ultimi anni una tecnologia sofisticata per lo studio dell'attività cerebrale che ha permesso di affrontare problemi considerati classicamente di pertinenza filosofica. Hanno consentito un

aumento delle conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso centrale in stati ordinari e speciali di coscienza fra cui l'ipnosi.

Sono un esempio la risonanza magnetica funzionale per immagini (fRMI) tecnica in grado di rilevare le aree cerebrali in attività e l'intensità del loro

lavoro in tempo reale, la stimolazione magnetica transcranica (TMS), metodica con la quale, posizionando una bobina in corrispondenza della corteccia

cerebrale, è possibile stimolare soprattutto i corpi cellulari dei neuroni corticali (Walsh e Cowey, 1998) e in senso opposto disattivare per un breve intervallo di tempo le funzioni cerebrali di specifiche aree, per verificare il ruolo di altre

parti della corteccia cerebrale.

Ovviamente le tecniche utilizzate nell'uomo e nell'animale sono diverse: mentre nell'animale è possibile effettuare una registrazione del singolo neurone tramite l'inserzione intracorticale di elettrodi, nei soggetti umani si utilizzano esclusivamente metodi non invasivi di imaging cerebrale come la fRMI o la

tomografia a emissione di positroni (PET).

Simmetricamente anche l'ipnosi viene sempre più impiegata quale strumento fisiologico appropriato per lo studio della coscienza, della percezione delle

emozioni, della motricità dell'attenzione e della memoria.

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PARADIGMI DI STATO

Ancora oggi molti medici sono portati a vedere l'ipnosi clinica come ad una anestesia: poniamo in essere alcune manovre, somministriamo alcuni principi terapeutici ed otteniamo un nuovo stato di coscienza: lo chiamiamo coma per la narcosi e trance per l'ipnosi. I paradigmi neurofisiologici volti a dimostrare l'esistenza di un diverso funzionamento del nostro cervello in trance, se da un

lato hanno permesso di evidenziare il fenomeno ipnosi e di obiettivarlo, dall'altro hanno lasciato in ombra altri aspetti non facilmente misurabili ma con

risvolti pragmatici sul paziente più importanti.

Queste brevi considerazioni sul concetto attuale di ipnosi, integrano come evidenziato nella formula punti di vista o lenti che se assolutizzati conducono a

interpretazioni diverse dello stesso fenomeno e della terapia con ricerca di autoconferma attraverso paradigmi neurofisiologici.

PARADIGMA DELLA LATERALITA' EMISFERICA

In tempi recenti sono stati sviluppati disegni sperimentali per identificare un correlato neurofisiologico dello stato di coscienza ipnotico o di trance, e sono stati proposti diversi modelli speculativi, ma persiste notevole difficoltà ad

ottenere elementi che evidenzino univocamente questo stato come caratteristico e specifico della condizione di trance. Il paradigma maggiormente

accreditato è quello dell'asimmetria funzionale degli emisferi cerebrali.

Sintetizzando le specializzazioni emisferiche, si possono individuare le seguenti caratteristiche per l'emisfero dominante (sinistro nel destrimane e in buona parte dei mancini): maggiore abilità per i compiti analitico verbali, analitico

spaziali e temporali, aritmetici, ideazionali, maggiore competenza a cogliere gli aspetti rilevanti degli stimoli elaborando l'informazione in modo sequenziale, attraverso l'analisi delle singole parti. Utilizzando un termine informatico possiamo definire la modalità di elaborazione come digitale. Essa risulta estremamente efficiente per operazioni matematiche, linguistiche e per la

formulazione di concetti astratti.

Lo stile cognitivo di questo emisfero coincide con i cosiddetti processi secondari della psicoanalisi. Esiste inoltre un collegamento con lo stato di coscienza

ordinario e una maggiore performance per le emozioni positive. L'emisfero non dominante (destro, nel destrimane) sembra specializzato per compiti visuo-

spaziali, musicali, geometrici, sintetici spaziali e temporali.

Lo stile cognitivo è in grado di integrare diversi stimoli simultaneamente con un comportamento analogico-sintetico, quasi non verbale, olistico, molto

efficace per le attività visivo-spaziali, la coordinazione motoria nello spazio, la comprensione della tonalità musicale. Il suo stile cognitivo coincide con i

"processi primari" della psicoanalisi. Non esiste un collegamento con lo stato di

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coscienza ordinario, la performance è maggiore per le emozioni negative e per quelle attività che richiedono una percezione simultanea del tutto (percezione olistica), per la creatività artistica e scientifica, quindi per le intuizioni. Esistono

evidenti analogie fra la fenomenologia della trance ipnotica e le funzioni dell'emisfero destro gia sottolineate da Erickson e Rossi.

In contrapposizione allo stato di veglia, nello stato di trance si svilupperebbe una prevalenza emisferica destra (nel destrimane).

Lo studio elettroencefalografico di soggetti in ipnosi comparato con quello di soggetti allo stato di veglia ha permesso di identificare e comprendere alcuni

meccanismi neurofisiologici sottesi allo stato ipnotico.

Già Hilgard nel 1970 sottolineava che una teoria esaustiva dell'ipnosi non poteva prescindere dalla comprensione di questi eventi interni al sistema

nervoso centrale.

Gran parte degli studi hanno focalizzato l'attenzione su una particolare onda dell'EEG: il ritmo alfa, questo ritmo (8-12 Hz), presenta un comportamento di tipo paradosso, in quanto tende a scomparire e desincronizzarsi nel soggetto sveglio ad occhi aperti, intento in attività cognitive, ma anche all'estremo opposto nel soggetto rilassato mentre tende a diventare più sonnolento. Un'elevata attività di fondo alfa è stata invece riscontrata nei soggetti in

condizioni di particolare rilassamento e in alcune forme di meditazione e perciò almeno storicamente questo ritmo è associato ad una condizione di relativa

inattività funzionale del sistema nervoso.

Attraverso analisi spettrale di frequenza dell' EEG, è stato evidenziato che nello stato di riposo vigile, la maggior parte dei soggetti destrimani presenta una maggior quantità di ritmo alfa nell'emisfero destro rispetto al sinistro. In

condizioni di trance ipnotica, almeno nei soggetti altamente ipnotizzabili si ha un'inversione del profilo spettrale del ritmo alfa con una sua predominanza

all'emisfero sinistro.

Con l'assunto che l'attività alfa sia inversamente proporzionale all'attivazione funzionale dell'emisfero si può concludere che durante la condizione ipnotica si assiste ad una riduzione relativa dell'attività funzionale emisferica sinistra e ad

una prevalenza emisferica destra.

Altri autori non hanno confermato questi risultati e tuttavia è stata evidenziata in ipnosi, a differenza di quanto si osserva allo stato di veglia, una attività EEGrafica apparentemente non congrua con il compito richiesto (ad es.

matematico o visuo-spaziale).

Questa incongruenza è attribuita all'azione inibitoria in ipnosi, di strutture sottocorticali diencefaliche sull'attivazione corticale compito specifica.

Studi di De Benedittis e Sironi in pazienti epilettici hanno dimostrato che la condizione ipnotica determina una riduzione dell'attività lenta patologica e

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dell'attività irritativa intercritica rispetto allo stato di veglia e a maggior ragione rispetto al sonno che in questi pazienti si comporta come un attivatore della

soglia epilettogena.

Studi elettrofisiologici hanno identificato due aree del sistema nervoso implicate nei fenomeni ipnotici, queste aree appartenenti al sistema limbico

sono l'ippocampo che sembra responsabile del mantenimento della condizione ipnotica e l'amigdala che sembra svolgere un ruolo primario nei meccanismi di

risveglio dall'ipnosi.

Lo stato ipnotico sarebbe mediato dall'attività combinata di queste due strutture, attraverso una inibizione funzionale dell'amigdala, responsabile del senso di calma, dell'ipoattività e dell'insensibilità all'ambiente e una attivazione

funzionale delle strutture ippocampali.

L'analisi dei potenziali evocati corticali somatosensoriali non ha rilevato significative differenze nella latenza e nell'ampiezza delle componenti nelle

condizioni di trance e di veglia, una diminuzione d'ampiezza della componente lenta è stata riferita in un esperimento di ipnoanalgesia.

Per quanto riguarda i potenziali evocati corticali visivi, uditivi e olfattori esistono risultati contraddittori.

Per confermare il paradigma dell'emisfericità destra sono state sviluppate altre metodiche come l'ascolto dicotico, che hanno permesso di accumulare una

notevole evidenza empirica.

E' stato sperimentalmente osservato che soggetti altamente ipnotizzabili a cui venivano somministrate suggestioni di analgesia durante la trance non

presentavano la risposta motoria tardiva a latenza più lunga (circa 120 msec) a seguito dello stimolo algico, mentre rimaneva inalterata la risposta motoria

precoce, a breve latenza (circa 70 msec).

L'abolizione del riflesso di difesa tardivo è espressione di una attività di modulazione sopraspinale.

Nel tentativo di identificare un diverso funzionamento del sistema nervoso centrale in ipnosi, Gruzelier ed al., in uno studio di imaging con la fRMI hanno evidenziato una attività neuronale quali-quantitativamente diversa in condizioni

di veglia e di trance ipnotica in soggetti altamente ipnotizzabili.

Un gruppo di volontari metà dei quali molto e metà poco suscettibili all'ipnosi sono stati sottoposti a un test cognitivo (Stroop test) in condizioni di veglia e

ipnosi. Tutti i volontari risolvevano l'esercizio e il loro cervello non mostrava

discrepanze di attività durante lo svolgimento della prova.

Durante l'ipnosi, invece, le persone più suscettibili mostravano un'intensa attività a livello della corteccia prefrontale sinistra nelle regioni del giro

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cingolato anteriore, regioni implicate nell'elaborazione di funzioni cognitive complesse e nella risposta agli errori e agli stimoli emotivi. Le persone poco

suscettibili all'ipnosi, invece, non mostravano differenze significative nell'attività cerebrale in questa seconda fase dell'esperimento.

Gli individui altamente ipnotizzabili presentano una abilità naturale nel focalizzare l'attenzione, ma il loro controllo attentivo risulta compromesso in

seguito all'ipnosi a causa di una dissociazione fra i processi di monitoraggio del conflitto e quelli cognitivi di controllo del lobo frontale. Secondo Gruzelier questo mostra che nello stato di ipnosi è richiesto uno sforzo notevolmente

superiore per risolvere compiti cognitivi.

Paradigma unificante della ipofrontalità transitoria degli stati speciali di coscienza

Questa teoria sebbene non esclusiva per la condizione d'ipnosi, identifica un nuovo assetto funzionale del sistema nervoso centrale che potrebbe

rappresentare il comune denominatore neurofisiologico di diversi stati alterati o speciali di coscienza.

La corteccia prefrontale costituisce più della metà del lobo frontale ed è particolarmente sviluppata nell'uomo. Ha connessioni reciproche con

virtualmente tutti i sistemi sensoriali e motori, sia corticali che sottocorticali. È connessa con le strutture mesencefaliche e limbiche. Non ha connessioni

dirette con le aree motorie e sensoriali primarie, ma solo con aree associative. In sintesi ha accesso ad una ampia varietà di informazioni interne ed esterne all'organismo ed opera una sintesi allo scopo di regolare numerosi processi

mentali e comportamentali. Dietrich A. nel 2003 ha sviluppato una ipotesi secondo cui gli stati mentali definiti comunemente come stati alterati di coscienza, fra cui l'ipnosi, sono

determinati principalmente da una disregolazione transitoria dell'attività della corteccia prefrontale.

L'evidenza appoggia su studi psicologici e neurofisiologici del sogno, della meditazione, dell' ipnosi e delle varie condizioni di trance naturalistica

quotidiana nonchè di alcuni stati indotti da farmaci. È proposto che la riduzione transitoria dell'attività corticale prefrontale sia la caratteristica che unifica tutti gli stati alterati (o speciali) di coscienza e che l'unicità fenomenologica di ogni

singolo stato sia il risultato dell'autosufficienza differenziale di vari circuiti frontali. Usando un approccio evolutivo, la coscienza è concettulizzata come

funzione conoscitiva e gerarchicamente ordinata.

Strutture di alto ordine compiono funzioni integrative in modo progressivamente crescente e così offrono un contenuto più sofisticato. Tale

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gerarchia funzionale circoscrive gli stati più sofisticati di coscienza nelle strutture di alto ordine.

GERARCHICA FUNZIONALE

corteccia prefrontale dorso laterale

Funzioni comportamentali e conoscitive: sede dei guardiani della coscienza:

IO - QUI - ORA

Avviene una rappresentazione dei contesti per i compiti cognitivi, ed i ruoli dell'inibizione e della memoria di lavoro sono fondamentali per il supporto di tale contesto, per la selezione dei processi più rilevanti, per il mantenimento

temporale dell'attenzione contro le inferenze esterne e la conseguente esecuzione di azioni complesse finalizzate ai compiti.

corteccia prefrontale ventro mediale o orbito mediale e altre aree della corteccia prefrontale

Livello limbico

Il Sistema Limbico è una formazione filogeneticamente antica. Pur essendo differente la sua estensione nelle varie specie dei mammiferi, il suo sviluppo e la sua organizzazione sono simili. Tali osservazioni fanno ritenere che le basi

fisiologiche dell'emotività e del comportamento siano simili in tutti i mammiferi (Valzelli 1970).

Il sistema limbico comprende una serie di formazioni nervose che influiscono sulla vita affettiva ed emozionale, sulla memoria a breve termine e sulla

regolazione di risposte viscerali, in particolare quelle immediate (da stress), modulazione delle risposte di aggressività e di riconoscimento della paura. In

parte interviene anche nei comportamenti più elaborati.

talamo

tronco cerebrale

In ipnosi si assisterebbe ad una specie di diaschisi (una alterazione cerebrale funzionale che può produrre cambiamenti in aree cerebrali distanti da quella di partenza) con emersione funzionale delle strutture gerarchicamente inferiori.

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I NEURONI SPECCHIO

La scoperta dei neuroni specchio si impone impetuosa nel mondo scientifico, ma come un valore aggiunto, non particolarmente interessato all'ipnosi e ai

suoi fenomeni. È il mondo dell'ipnosi che coglie dalle sorprendenti analogie con i riscontri neurofisiologici una possibilità di sviluppo dei suoi paradigmi.

Senza voler eccedere in un semplicistico riduzionismo, forse, il ponte offertoci da queste scoperte sembra più vicino all'aspetto relazionale di una ipnosi

naturalistica, proprio come vissuta e trasmessa da Erickson, in altre parole una ratifica scientifica della nuova ipnosi.

Introduzione

I primi studi a supporto dell'esistenza di un sistema specchio nell'uomo possono essere considerati quelli di Gastaut H. e Bert nella prima metà degli

anni cinquanta che analizzavano le modificazioni elettroencefalografiche durante una presentazione cinematografica, successivamente confermati da Cochin ed al. attraverso lavori sulla percezione del movimento con analisi

spettrale elettroencefalografica.

Le ricerche neurofisiologiche che hanno portato alla identificazione dei neuroni specchio iniziano però negli anni novanta, con una osservazione quasi casuale

sui macachi fatta dei ricercatori dell'Università di Parma diretti dal prof. Giacomo Rizzolatti.

Registrando l'attività di singoli neuroni nella corteccia premotoria del macaco, osservano come molte cellule di quest'area si attivavano non solo quando

l'animale esegue una determinata azione ma anche quando vede lo sperimentatore (o un'altra scimmia) compierla.

Inizialmente si ipotizza un artefatto motorio: in qualche modo la scimmia compie l'azione osservata per imitazione, ma esperimenti successivi

dimostrano che la scimmia resta perfettamente immobile, inoltre gli etologi confermano che i macachi non sanno imitare.

Successivamente si ipotizza che la scimmia possa prepararsi al movimento senza compierlo, ma in questo caso i neuroni implicati avrebbero dovuto

attivarsi anche quando la scimmia si prepara a compiere altri movimenti senza osservarli, ad esempio si prepara per avvicinarsi al cibo che le viene offerto.

All'inizio del 2000 le ricerche iniziano a pubblicarsi trasversalmente su numerose riviste scientifiche.

Lo stesso anno Vilyanur Ramachandran scriveva: - i neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia -.

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Prima di questa scoperta alle aree motorie della corteccia cerebrale veniva assegnato un ruolo essenzialmente esecutivo, quello di tradurre in movimenti le informazioni che il cervello elaborava, integrando gli stimoli sensoriali e le

rappresentazioni mentali. Ora percezione, azione e cognizione non possano più essere concepite come funzioni separate.

La scoperta dei neuroni specchio nella scimmia ha stimolato la ricerca di un meccanismo analogo nell'uomo.

Sono stati così identificati anche nel cervello umano questi neuroni, dotati di una gamma di funzioni ancora più ricca e diversificata.

Nella nostra specie il sistema dei neuroni specchio, oltre alla comprensione delle azioni e delle intenzioni degli altri, è anche alla base della capacità di replicare intenzionalmente le azioni osservate o di impararne di nuove. Si

tratta di una conoscenza sensoriale e motoria, diversa da quella concettuale e linguistica e tuttavia non meno importante, in quanto su di essa poggiano

molte delle nostre capacità cognitive.

Nell'animale i neuroni specchio potrebbero permettere di capire cosa fanno gli altri individui senza un complesso processo cognitivo, ma semplicemente

attraverso l'incontro tra azione osservata e azione codificata.

Quando si attivano passivamente segnalano all'organismo la stessa azione di quando la compiono permettendo così all'osservatore di ottenere una

esperienza analoga a quella dell'attore dell'azione.

Nell'uomo possono aiutare a comprendere le basi neuronali dell'empatia, dell'altruismo, dell'apprendimento, della comprensione dell'intenzionalità, della comunicazione e dello sviluppo del linguaggio, ponendosi come collegamento

fra scienze biologiche e psicologiche,

tra filosofia, sociologia, pedagogia e antropologia.

Aspetti anatomici

Gli studi di neuroscienze hanno stabilito che ogni comportamento è espressione di una funzione del cervello. Secondo questo principio la mente va

considerata come il prodotto di un gruppo di funzioni cerebrali.

L'attività elettrica e soprattutto l'attività chimica del cervello stanno quindi alla base anche di complesse manifestazioni cognitive e affettive come il pensiero,

la memoria, i sentimenti, il linguaggio, le emozioni, ecc..

All'inizio di questo secolo si svilupparono due teorie contrastanti: quella dei campi cerebrali associati e quella del connessionismo cellulare. La prima

sosteneva che non esiste una localizzazione precisa delle funzioni mentali nel

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cervello, ma che la corteccia determina in modo unitario le funzioni cerebrali e qualsiasi area corticale è in grado di eseguire ogni funzione.

L'altra teoria sosteneva che le manifestazioni del comportamento sono mediate da regioni cerebrali specifiche attraverso circuiti nervosi ben determinati. Nel suo insieme il lobo frontale è prevalentemente specializzato nella programmazione ed esecuzione dei movimenti, nella definizione della

personalità e del comportamento emozionale.

Si trovano: l'area motoria primaria, l'area premotoria e l'area motoria supplementare, i campi oculari frontali.

Oggi sembra sempre più evidente che ogni area del cervello è specifica per date funzioni, anche se ogni funzione motoria, sensitiva e mentale segue più di

una via nervosa. Possiamo dire approssimativamente che il lobo frontale è più specializzato per programmare ed eseguire il movimento, quello parietale per la percezione delle

sensazioni somatiche, quello occipitale per la visione, quello temporale per l'udito, l'apprendimento e la memoria.

Ogni emisfero è in rapporto con la metà controlaterale del corpo e i due emisferi non sono simmetrici e completamente equivalenti.

Penfied dimostrò che anche la stimolazione dell'area 6 provoca movimenti (aree premotorie). Le aree premotorie possono in prima istanza essere distinte

in area motoria supplementare SMA (dorsale a 6) e corteccia premotoria (laterale a 4). La loro stimolazione evoca movimenti più complessi, anche per

queste aree esiste una rappresentazione somatotopica.

All'inizio del secolo Brodman localizzò sulla superficie corticale circa 50 aree divise in tre grandi gruppi: motorie, sensitive, associative. Questa suddivisione classica anatomico funzionale dell'emisfero umano è ancora in uso. Il settore

caudale del lobo frontale era suddiviso classicamente in due aree citoarchitettoniche, area 4 ed area 6 di Brodmann, entrambe prive di cellule

granulari. L'area 4 e la maggior parte dell'area 6 localizzate sulla convessità laterale

erano considerate come una sola grande area funzionale: la corteccia motoria primaria o M1. L'area 6, mesiale, era considerata area motoria secondaria o

supplementare.

Studi di anatomici e funzionali hanno mostrato che questa visione è semplicistica e hanno suddiviso la corteccia agranulare frontale della scimmia

in base alle proprietà funzionali e ai dati istochimici e citoarchitettonici. La corteccia motoria è formata da un mosaico di aree indipendenti, implicate in specifici aspetti della pianificazione ed esecuzione motoria, caratterizzate da uno specifico gruppo di connessioni con la corteccia parietale, prefrontale e

cingolata.

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Organizzazione del sistema nervoso nella scimmia

F5: base anatomica per la codifica a singolo livello neuronale di specifici atti motori finalizzati in particolare eseguiti con mani e bocca, ad esempio

afferramento e prensione, strappamento o manipolazione di oggetti. La scarica dei neuroni è correlata con l'esecuzione dell'azione e non con i singoli

movimenti che la formano

F2 (parte ventrorostrale) e F4 : implicati nelle azioni motorie, movimenti prossimali delle braccia, ad esempio distensione delle braccia.

La trasformazione sensomotoria è il risultato di una stretta collaborazione tra le aree parietali e motorie legate da forti connessioni reciproche.

Ogni circuito è deputato ad uno specifico aspetto della trasformazione sensomotoria nel quale le informazioni motorie e sensoriali sono integrate ad

entrambi i livelli parietale e motorio e possono essere considerate unità funzionali del sistema motorio corticale.

Dal punto di vista citoarchitettonico l'area prefrontale F5 della scimmia sembra essere l'analogo umano dell'area 44 di Brodman. La parte dorso caudale di quest'ultima appartiene all'area di Broca, una regione tradizionalmente

implicata nel processamento del linguaggio

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Aree motorie frontali

Caudali: elaborano con le aree parietali l'informazione sensoriale e la trasformano in una rappresentazione motoria

Rostrali: Inviano gli input alle aree caudali stesse riguardanti motivazione, piano a lungo termine e memoria dell'azione passata.

Connessioni parieto frontali

- Intrinseche: connessioni con altre aree motorie

- Estrinseche: connessioni con aree corticali al di fuori della corteccia agranulare

- Connessioni discendenti: origine delle proiezioni ai centri sottocorticali e al midollo spinale

Sono altamente specifiche: ciascuna area motoria frontale è il bersaglio di differenti terminazioni di aree parietali e riceve tipicamente maggiori afferenze

da una sola. Viceversa ciascuna area parietale tende a inviare proiezioni massive a una singola area motoria.

Sembra quindi che ogni circuito sia dedicato ad una specifica trasformazione sensomotoria attraverso la quale le caratteristiche di uno stimolo sensoriale

vengono trasformate nel loro correlato descrittivo motorio.

Essendo stata evidenziata una attività neuronale associata all'azione motoria in molte aree della corteccia parietale posteriore, questa dovrebbe essere

considerata una parte del sistema motorio e di conseguenza l'intera unità che costituisce il circuito parieto-frontale dovrebbe essere considerata come una

unità funzionale del sistema motorio corticale.

Il tratto corticospinale

Il tratto corticospinale origina da un ampio territorio frontoparietale, comprendente nel lobo frontale l'area 4 e la parte caudale dell'area 6.

In particolare secondo le recenti rivisitazioni origina dalle aree motorie caudali F1, F2, F3 e parte di F4 e F5, per terminare in vari segmenti del midollo spinale

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La corteccia motoria controlla i motoneuroni direttamente attraverso il tratto corticospinale ed indirettamente attraverso vie che prendono origine dal tronco dell'encefalo. Tutti i movimenti fini e gli atti motori complessi dipendono dal controllo delle aree corticali attraverso i tratti corticobulbari e corticospinali.

Nella filogenesi il controllo corticale diretto del movimento si sviluppa solo tardivamente.

Nell'uomo esiste un rapporto privilegiato tra corteccia motoria e motoneurone, nei non primati nemmeno una fibra del fascio piramidale termina direttamente

su un motoneurone.

Proprietà dei neuroni specchio

il sistema specchio umano è molto più complesso rispetto al modello animale ed è maggiormente esteso. Codifica atti motori transitivi e intransitivi, codifica

la sequenza dei movimenti che compongono l'atto, si attiva anche quando l'azione è mimata e coinvolge molteplici regioni cerebrali, incluse le aree del linguaggio, e sembra intervenire, oltre che nella comprensione delle azioni e delle emozioni altrui, anche nella capacità di apprendimento per imitazione.

L'apprendimento comporta l'osservazione, la codifica dei gesti con il sistema specchio e poi una complessa rielaborazione, ancora sconosciuta, da parte del

lobo frontale.

Studi di imaging nell'uomo hanno mostrato che il sistema specchio è formato da una serie di circuiti parietali-premotori paralleli che mostrano una organizzazione di tipo somatotopico (Buccino, Binkofski ed al. 2001).

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Tecniche di analisi neurofisiolgica, fino a livello cellulare, hanno permesso di scoprire e studiare l'attività di questi neuroni negli animali.

Metodi di visualizzazione dell'attività cerebrale rendono possibili analoghe indagini nell'uomo. Si è osservato che questi gruppi di cellule si attivano

quando le scimmie compiono un'azione, ad esempio afferrare un oggetto e in maniera simile quando l'animale vede un altro individuo fare lo stesso gesto. Anche se c'è una induzione all'azione non segue movimento, in quanto esiste

un sistema di inibizione motoria che lo impedisce.

L'azione però può comparire in alcune patologie con un comportamento d'imitazione involontario.

Una semplice azione, come quella di prendere del cibo da un tavolo e portarlo alla bocca per mangiarlo, è una catena di atti semplici, ognuno comandato da

un neurone motorio nella corteccia del lobo parietale.

Nei macachi studiati, la catena di atti cambia, anche se poco dal primo gesto se l'intenzione dell'azione varia: il neurone motorio che per primo si accende è diverso se la scimmia afferra il cibo per mangiarlo o se lo afferra per posarlo in

un contenitore e diversa è la catena dei neuroni specchio che si attivano nell'osservatore di tali gesti. Il sistema specchio sembra possedere la capacità

di attribuire intenzioni anche prima che il gesto altrui sia messo completamente in atto.

Gallese, Rizzolati ed al. hanno proposto una teoria neurofisiologica unificante sulla capacità di comprensione delle emozioni e delle azioni altrui. Questa abilità presente nella nostra specie e in misura diversa in altri primati,

assolverebbe ad una funzione critica per la sopravvivenza dell'individuo e il suo successo in situazioni sociali complesse.

Il meccanismo fondamentale che consente di afferrare l'esperienza mentale dell'altro, non è un ragionamento concettuale mediato da una riflessione esplicita, ma una simulazione interna che riproduce attraverso il sistema specchio gli eventi osservati, in altre parole la capacità cerebrale di unire direttamente l'esperienza di questi fenomeni in prima e terza persona.

Maggiori evidenze sperimentali

Esperimento 1

- La scimmia osserva una azione finalizzata: afferrare un oggetto

- La scimmia osserva la stessa azione finalizzata precedente, ma non la parte finale dell'interazione con l'oggetto : uno schermo opaco nasconde la mano che

afferra l'oggetto, tuttavia la scimmia sa che dietro lo schermo era presente l'oggetto

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Risultato : I neuroni si attivano con l'osservazione del movimento finalizzato ad afferrare l'oggetto, ma oltre il 50% dei neuroni registrati risponde anche

quando la parte finale dell'azione non è più accessibile alla vista.

Esperimento 2

- La scimmia vedeva e sentiva eseguire una azione rumorosa da parte di un altro individuo (p.e. sgusciare una arachide)

- La scimmia poteva solo vedere la stessa azione

- La scimmia poteva solo ascoltare la stessa azione

Risultato: Circa il 15% dei neuroni specchio che rispondevano all'azione accompagnata dal suono rispondeva anche alla presentazione del solo suono. Questi neuroni specchio audiovisivi rappresentano l'azione indipendentemente

dal fatto che sia udita o vista.

Esperimento 3

- Azione simulata senza oggetto: L'azione di presa viene mimata, con l'esecuzione degli stessi movimenti di quando la mano afferra l'oggetto, che

tuttavia non è presente.

- L'azione viene mimata come sopra oscurando la parte finale del movimento

Risultato : Risposta virtualmente assente del sistema specchio nella scimmia

Conclusioni: L'attività dei neuroni specchio è correlata con la comprensione del significato dell'azione. Una azione vista parzialmente o solo udita, può attivare i neuroni specchio, attraverso l'innesco di una rappresentazione motoria delle

stesse azioni all'interno del cervello dell'osservatore o ascoltatore.

Il neurone motorio che si attiva per primo è diverso se la scimmia afferra il cibo per mangiarlo o per posarlo in un contenitore e anche nell'osservatore è

diversa fin dall'inizio la catena di neuroni specchio che si attiva.

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Evidenze nell'uomo

Dimostrazione dell'attivazione del sistema specchio con l'osservazione di azioni intransitive, cioè senza oggetto e azioni mimate.

I potenziali motori evocati registrati dalla muscolatura di un osservatore sono facilitati quando l'individuo osserva azioni intransitive senza senso con le mani

e le braccia così come quando osserva azioni transitive (con oggetto).

Nell'uomo il sistema di neuroni specchio risuona per una più ampia varietà di azioni ed inoltre le evidenze sperimentali dimostrano che il sistema motorio

umano codifica sia l'azione osservata finalizzata a un obiettivo, sia la modalità con la quale l'azione osservata è compiuta.

In uno studio sull'uomo con fMRI di Iacoboni, Galese ed al. sono stati sottoposti ai soggetti tre tipi di stimolo, attraverso l'osservazione di diverse

azioni:

Una mano che afferra un oggetto senza nessun contesto (senza nessuna scena di accompagnamento)

Solo un contesto (tavolo apparecchiato)

Una mano che afferra la tazza in due contesti diversi che suggeriscono le finalità dell'azione: bere o pulire la tazza.

I soggetti osservavano in sequenza i tre fotogrammi: contesto, azione, intenzione, intervallati da uno schermo bianco. Si assiste ad un notevole incremento di segnale, indice dell'attività neurale durante l'osservazione

dell'esecuzione dell'azione con il movimento delle dita (sistema dei neuroni specchio). L'immagine è organizzata in tre colonne, ciascuna delle quali

corrisponde ad una condizione sperimentale. L'osservazione delle immagini di contesto portava all'attivazione più uniforme

delle stesse aree corticali con eccezione delle regioni del solco temporale superiore e del lobo parietale inferiore.

I risultati sono stati rielaborati con tecniche di sottrazione di immagine e successivamente sono stati eseguiti test complementari con formulazione di

ipotesi che spiegano i risultati ottenuti:

- Presenza di neuroni che sono attivati durante l'osservazione di immagini motorie, ma scaricano non durante l'osservazione dello stesso atto motorio ma di un altro movimento funzionalmente correlato con quello osservato (neuroni

specchio logicamente correlati).

Questi studi mostrerebbero che l'intenzione sottostante l'azione di altre persone può essere riconosciuta dal sistema motorio usando un meccanismo a

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specchio, attraverso l'accoppiamento dell'azione osservata con la controparte motoria codificata negli stessi neuroni.

La codifica dell'intenzione associata con l'azione di altri dipende dall'attivazione di una catena neurale basata su neuroni specchio che codificano l'atto motorio osservato e dai neuroni specchio logicamente correlati che codificano per gli atti motori che più facilmente seguono l'osservazione in un dato contesto.

Crucialmente i circuiti fronto parietali sono attivati solo quando l'azione osservata appartiene al repertorio motorio dell'osservatore (per esempio

l'azione che l'osservatore stesso può eseguire)

L'azione osservata o il suono prodotto dalla stessa non sono le uniche condizioni in grado di avviare l'attivazione del sistema specchio nell'uomo, ma

anche l'ascolto di frasi correlate ad azioni.

L'ascolto di frasi legate ad una azione modula l'attività del sistema motorio

Uno studio con fMRI di Tettamanti, Buccino ed al. del 2005, dimostra una attivazione del sistema fronto-parieto-temporale lateralizzata a sinistra durante

l'ascolto di frasi contenenti azioni motorie così come durante l'esecuzione dell'azione o la sua osservazione.

L'ascolto di frasi descriventi azioni con le mani (afferro il coltello), con la bocca (mordo la mela), con i piedi (calcio il pallone), comparate con frasi astratte dalla sintassi simile (apprezzo la sincerità), mostra che l'ascolto di frasi

correlate a una azione attiva una rete neurale fronto-temporo-parietale sinistra inclusa la parte operculare del giro frontale inferiore (area di Broca), cioè quei settori della corteccia premotoria dove le azioni descritte sono codificate dal

punto di vista motorio (rappresentazione motoria), così come il lobulo parietale inferiore, il solco intraparietale e la parte mediale del giro temporale

posteriore.

L'area di Broca evidenzia un ruolo cruciale in quanto è la sola regione cerebrale attivata indipendentemente dalla parte del corpo interessata dall'azione. Essa sembra codificare per l'azione ad un livello astratto che risulta importante per

l'accesso a rappresentazioni di azioni astratte.

Il fatto che il sistema specchio può localizzarsi anche nell'area di Broca apre la possibilità che il sistema specchio medi la comprensione di azioni non solo

durante l'osservazione ma anche durante i compiti linguistici.

Questo studio fornisce la prima evidenza diretta che l'ascolto di frasi che descrivono azioni impegna i circuiti visuo-motori che sottostanno all'azione e all'esecuzione. La comprensione delle frasi dipenderebbe quindi dalle strutture

motorie implicate nell'esecuzione di azioni molto simili.

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Immaginazione

L'immaginazione motoria volontaria è caratterizzata dall'attivazione delle aree motorie primaria, premotoria, motoria mesiale (Ehrsson ed al. 2003, Gerardin ed al. 2000). Le strutture sottocorticali come i gangli della base e il cervelletto sono state trovate attivarsi in seguito a compiti di immaginazione volontaria.

Nello studio fMRI sopra riportato, la mancata attivazione della corteccia motoria primaria, motoria mesiale e delle aree sottocorticali, insieme

all'assenza di una richiesta a sviluppare una immaginazione motoria, permette di escludere la possibilità che i risultati ottenuti siano ascrivibili anche in parte

ad una immaginazione motoria volontaria.

Uno studio del 2005 di Buccino, Riggio ed al. con stimolazione magnetica transcranica e indagini complementari comportamentali, evidenzia chiaramente

la presenza di una modulazione dell'attività del sistema motorio durante l'ascolto di frasi contenenti azioni eseguite con piedi e gambe o con mani e

braccia.

è dimostrato che l'elaborazione di una azione presentata verbalmente attiva differenti settori del sistema nervoso motorio subordinati all'effettore usato

nell'azione ascoltata.

L'ascolto di una azione eseguita con le mani (cuciva la gonna, girava la chiave, lavava i vetri) portava a un riduzione dell'ampiezza dei potenziali motori

evocati registrati a livello della muscolatura delle mani.

Similmente l'ascolto di una frase con azione correlata ai piedi (marciava sul posto, calciava la palla, pestava l'erba) portava a una riduzione dell'ampiezza

dei potenziali evocati della muscolatura dei piedi.

L'ascolto di frasi a contenuto astratto (amava la moglie, amava la patria, gradiva la mela) portava a risultati simili a quelli ottenuti dall'ascolto di azioni riguardanti un effettore diverso da quello rappresentato nell'area stimolata.

Il processamento del linguaggio, almeno per quanto riguarda le espressioni concrete a contenuto motorio, modula l'attività del sistema motorio e questa modulazione interessa specificamente quei settori dove l'effettore impegnato

nell'elaborazione della frase è rappresentato dal punto di vista motorio.

Come negli studi con fMRI durante la lettura di testo riguardante azioni eseguite con il viso, le mani o i piedi, si evidenzia l'attivazione di diversi settori nelle aree premotorie dipendenti dal significato assegnato all'azione trovata nel

testo letto.

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Questi studi confermano che il sistema di neuroni specchio non è implicato solo nella comprensione dell'azione presentata visivamente, ma anche nella

codificazione di una presentazione acustica, di frasi correlate ad una azione.

Insula: selettività per particolari emozioni

Attraverso studi sui macachi sostanzialmente confermati per l'uomo è stato possibile dimostrare l'attivazione dell'insula anteriore in risposta a stimoli olfattivi e gustativi, in particolare un'area sembra essere selettivamente

attivata dalla esposizione a sostanze dall'odore disgustoso.

Studi di brain imaging dimostrano che lo stesso settore della parte anteriore dell'insula è attivato dalla vista di espressioni facciali di disgusto e che

l'ampiezza di tale attivazione dipende dall'intensità espressiva dell'espressione facciale osservata

In modo simile al sistema specchio motorio, anche l'insula contiene popolazioni neuronali che si attivano sia durante l'esperienza diretta di esposizione allo stimolo odoroso, sia quando capiscono il significato attraverso l'osservazione

dell'espressione facciale altrui.

Alcune strutture insuari sembrano anche responsabili attraverso un meccanismo specchio dell'empatia per il dolore osservato.

Riflesso spinale H

L'inibizione del riflesso H è stata descritta da Baldissera e al. come strumento per la valutazione della inibizione disinaptica e presinaptica nei muscoli rilassati

degli arti superiori.

Baldissera ha studiato l'eccitabilità del midollo spinale nell'uomo durante l'osservazione di una azione attraverso l'intensità del riflesso H registrato dai muscoli flessori delle dita. Esso rapidamente aumenta durante l'osservazione dell'estensione delle dita (apertura mano) e si riduce durante l'osservazione

della flessione delle dita (chiusura mano)

Siccome la modulazione dell'eccitabilità corticale varia in sintonia con il movimento osservato, l'eccitabilità del midollo spinale varia in direzione

opposta. L'assenza di ripetizione del movimento osservato potrebbe dipendere in parte da questo meccanismo inibitorio spinale.

Imitazione

Secondo queste ricerche il circuito fondamentale o nucleare dell'imitazione è costituito dalle aree del solco temporale superiore e dal sistema di neuroni specchio (Giro frontale infero posteriore, adiacente corteccia premotoria

ventrale e parte rostrale del lobo parietale inferiore).

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- L'apprendimento per imitazione avverrebbe attraverso connessioni di questo circuito nucleare con la corteccia prefrontale dorsolaterale e forse altre aree

premotorie.

- L'imitazione come forma di rispecchiamento sociale avverrebbe attraverso connessioni di questo circuito nucleare con il sistema limbico.

Simulazione

Aspetto cruciale per la comprensione in prima e terza persona del comportamento sociale è l'attivazione di centri motori o viscero motori

corticali.

Quando segue anche l'attivazione di centri a valle, si ha lo sviluppo di uno specifico comportamento che può essere una azione o uno stato emotivo.

Solo quando i centri corticali sono attivi ma disaccoppiati dai loro effetti periferici, l'azione o l'emozione osservata è simulata e con ciò compresa.

Gallese, Goldman ed al. definiscono quindi questa simulazione come la capacità cerebrale, basata sulle peculiarità del sistema dei neuroni specchio, di unire

direttamente l'esperienza personale e quella osservata

(prima e terza persona).

Azioni senza carica emotiva possono anche essere comprese senza elicitare la loro corrispettiva rappresentazione motoria, così come possono essere

riconosciute le emozioni.

Il riconoscimento dell'emozione altrui è fondamentalmente diverso da quello basato sulla simulazione interna, perché non genera una conoscenza

esperienziale.

Il senso di questa simulazione positiva è sicuramente più vicino al significato latino di simulare: come se, insieme, simile , e in un certo senso imitare,

rappresentare, darsi l'aspetto .

Può essere considerato un processo finalizzato alla conoscenza, attraverso la capacità di essere simili all'altro per ottenere una migliore comprensione di una

situazione o di uno stato di cose.

Risulta evidente il nesso con l'empatia.

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Neuroni specchio e autismo

Nei pazienti autistici, soprattutto nei bambini, il sistema specchio è ipofunzionante. Non si può ancora concludere se questa sia la base

fisiopatologica dell'autismo o se sia un correlato, come tanti altri disturbi presenti in questi pazienti.

Questa alterazione neurofisiologica potrebbe spiegare perché le persone autistiche non partecipino alla vita di tutti gli altri. Non riescono a entrare in sintonia con il mondo che le circonda, perché non capiscono i gesti altrui.

Secondo Rossi e Rossi Le basi neurologiche dell'empatia trovano riscontro proprio nelle ricerche sulle disfunzioni del sistema specchio nell'autismo.

Neuroni specchio ed empatia

L'empatia è il processo con cui rappresentiamo il comportamento degli altri dentro noi stessi, è uno strumento di comprensione del vissuto estraneo,

teoricamente anche a fini machiavellici di difesa.

Il concetto di empatia implica l'integrazione di diversi aspetti, quali percezioni, esperienze, emozioni, comunicazione non verbale e linguaggio, relazioni,

visione del mondo, storia ed è quindi molto più ampio del semplice concetto di simpatia che implica la capacità, come modo di vivere, di gioire e soffrire

insieme.

Secondo la definizione iniziale di Edith Stein, designa un genere di atti, nei quali si coglie l'esperienza vissuta altrui. l'em-patia (Ein- Fühlung ) indica un

atto conoscitivo oppure la somma di atti percettivi, che è rivolto alla percezione soggettiva dell'altro, alla sua esperienza interiore e perciò anche

alla sua stessa personalità .

"Sentire (fühlen), e in particolare em -patizzare ( ein -fühlen), è un altro particolare penetrare nel mondo che la persona si rappresenta come tale.

Principali componenti e sinonimi di empatia sono: condividere, partecipare, comprendere, immedesimarsi, identificarsi, entrare in contatto, comunicare. È evidente che la vera comunicazione esiste solo quando c'è volontà da parte del

soggetto di scambiare qualcosa ovvero mettere in comune qualcosa.

Empatia per il dolore

Uno studio sperimentale del 2004 con fMRI di Singer ed al. mostra come alcune strutture dell'insula anteriore e della parte rostrale della corteccia cingolata anteriore (strutture coinvolte anche nella percezione del dolore e

delle reazioni viscero motorie correlate) implicate nella esperienza e percezione del disgusto sembrano anche mediare l'empatia per il dolore.

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Il substrato neurale per l'esperienza empatica del dolore non coinvolge l'intera neuromatrice del dolore, ma solo una parte della rete neurale, quella associata

alle qualità affettive dell'esperienza, non alle qualità sensoriali.

Danziger ed al. nel 2006 hanno studiato pazienti con insensibilità congenita al dolore che sono privati dell'esperienza di una comune stimolazione dolorosa, per capire se queste persone sono in grado di accorgersi del dolore degli altri.

Il grado di immaginazione di situazioni dolorose presentato verbalmente da questi pazienti mostra che essi hanno una conoscenza semantica riguardo al

dolore delle altre persone che non differisce dai soggetti di controllo e anche la tendenza a dedurre il dolore dalle espressioni facciali è simile a quella dei

soggetti di controllo.

D'altra parte quando viene loro richiesto di valutare situazioni che inducono dolore attraverso immagini video prive di qualsiasi comportamento visibile o udibile correlato al dolore, mostrano una maggiore variabilità di risposta e un indice di stima del dolore significativamente più basso, così come una riduzione

delle risposte emozionali avverssative, rispetto ai soggetti di controllo.

Nei pazienti con insensibilità congenita al dolore il giudizio del dolore desunto sia dalle espressioni facciali che dagli eventi che possono causarlo è fortemente legato a differenze interindividuali nella sensibilità empatica, mentre questa correlazione fra giudizio del dolore ed empatia non era stata trovata nei

soggetti di controllo.

Il risultato suggerisce che una normale esperienza personale di dolore non è necessariamente richiesta per percepire e provare empatia per il dolore degli altri. In assenza di un meccanismo fisiologico di risonanza corporea formato

dalle precedenti esperienze algogene, il dolore di altri potrebbe essere fortemente sottostimato, specialmente quando i segni emotivi sono mancanti, tranne nel caso in cui l'osservatore è fornito di sufficiente abilità empatica per

riconoscere completamente negli altri l'esperienza di sofferenza.

Empatia secondo Erickson

Sembra di trovare in ogni aspetto principale del suo pensiero una connessione ormai non più metaforica con le evidenze neurofisiologiche del sistema a

specchio.

L'alleanza terapeutica che è il fattore aspecifico più importante per il risultato della terapia poggia sull'esperienza di essere pienamente visti e pienamente

compresi e questo da la percezione di appartenere.

L'osservazione dell'altro anche vista sotto il mero profilo neurologico attiva di per sè il sistema specchio

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Rispetto sia in senso etimologico come guardare e ri-guardare, sia nel senso di accettazione della natura del paziente al quale non viene chiesto di cambiare o

di inserire un nuovo programma neurobiologico.

In questa prospettiva l'empatia è già una terapia e analogamente l'ipnosi.

La vera empatia richiede in senso terapeutico solo interventi autentici (genuinità, onestà, sincerità) e usata consapevolmente è una operazione da adulto che permette di cogliere pienamente la presenza dello stato d'animo di

un altro e di stabilire un contatto.

L'osservazione dell'osservazione permette di immedesimarsi e differenziarsi per mantenere la propria identità. Richiede il superamento del narcisismo.

In senso opposto il sistema specchio potrebbe spiegare perché comportamenti di commiserazione, consolazione, incoraggiamento o stimolazione,

rassicurazione o una ridefinizione in positivo non sentita, non siano utili a fini terapeutici, se non francamente dannosi, in quanto risultano artefatti.

Altri aspetti correlati secondo la prospettiva ericksoniana sono: l'accettazione delle resistenze del soggetto come dono (scambio), utilizzo del vocabolario del paziente, attenzione ai minimal cues, ricalco, utilizzazione, rispecchiamento,

rapport, tailoring, attenzione focalizzata.

Anche la lettura del pensiero può trovare un substrato esplicativo nel sistema specchio.

CONCLUSIONI

Un paradigma non necessariamente sostituisce un altro e se la lateralità emisferica ha perso molta della sua importanza fornisce sempre una metafora

scientifica della mente conscia e inconscia.

In qualche modo un ponte verso lo stato, un riferimento rassicurante per chi, come me non si sarebbe mai accosto allo studio di una ipnosi che non esiste, di una ipnosi senza trance. E' facile comprendere, ora che disponiamo di analisi

più sofisticate, che un emisfero (mezzo cervello) è una unità troppo grande per poter assolvere ad un ruolo funzionale omogeneo, tuttavia resta valida la

dimostrazione che qualcosa cambia tra il prima e il dopo ed è proprio questa discontinuità che attualmente viene riconosciuta come elemento cruciale

dell'ipnosi.

Dei neuroni specchio si parla molto e l'importanza per il mondo dell' ipnosi è sicuramente grande. Si vedono ridurre progressivamente le distanze fra le

nostre certezze empiriche e le evidenze biologiche e si aprono nuove prospettive di comprensione dell'uomo e del pensiero.

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Probabilmente anche il problema della differenziazione dell'io nel bambino può trovare una ipotesi esplicativa nella risoluzione del quesito: agisco io o sono gli altri ad agire? In base al fatto che esistono due attività neuronali praticamente

identiche per l'azione in prima e in terza persona.

Il sistema specchio, infine, sembra unificare nello stesso meccanismo neuronale un ampia varietà di fenomeni, da comportamenti elementari come una risposta facilitatoria a funzioni cognitive alte come l'apprendimento per imitazione, la comprensione dell'azione o altre funzioni cognitive quali la

comprensione del linguaggio.

La domanda iniziale nel lavoro di Danziger: è il dolore il prezzo dell'empatia, si conclude con l'evidenza che è l'empatia il prezzo per accorgersi del dolore degli altri, ma questo lo aveva già dimostrato Erickson che con limitazioni fisiche e sensoriali poteva comprendere e aiutare a sviluppare negli altri ciò che lui

stesso non avrebbe potuto compiere.

Questi studi possono aprire un'opportunità a chi si occupa di ipnosi per riflettere insieme su un nuovo paradigma, forse più unificante dei precedenti,

basato sul naturale funzionamento dell'essere umano.

Una traccia non nuova ma fino ad ora di difficile obiettivazione, un paradigma che sottolinea la relazione e il movimento.

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n. 5661: 1157 - 1162, 2004

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Sono avvolto nel bozzolo di plastica di una macchina MRI, uno strumento che misura l’attività di diverse zone del cervello. Mentre provo a stare fermo, la rumorosa macchina effettua

una scansione strutturale per individuare la corteccia cingolata anteriore e l’insula, le aree cerebrali coinvolte nello

sviluppo del dolore.

Un computer trasforma il segnale MRI in tre piccoli fuochi animati, rappresentanti i livelli d’attività della corteccia cingolata e delle parti destra e sinistra dell’insula,

che vengono proiettati su uno schermo di fronte a me.

Io mi concentro per alimentare o far scemare questi fuochi, usando solo il mio pensiero. Mentre lo faccio, la MRI misura i cambiamenti del flusso sanguigno in determinate parti del mio

cervello. Gli schemi di flusso ematico dicono al computer come si modifica l’attività neurale.

Nel tentativo di controllare

le dimensioni dei fuochi sto in ogni caso cercando di condizionare l’attività cerebrale nella corteccia cingolata

anteriore e nell’insula e indirettamente di eliminare i continui dolori alla schiena che mi affliggono da diversi anni.

A verificare i miei progressi è presente Christopher

deCharms, neuroscienziato e fondatore di Omneuron, una startup di Menlo Park, in California. DeCharms ha trascorso gli ultimi cinque anni a sviluppare tecniche di imaging da

utilizzare per insegnare ai pazienti a tenere sotto controllo le loro attività cerebrali.

I cambiamenti dell’attività neurale in

genere avvengono in modo inconscio, mentre diverse aree del cervello sono impegnate a eseguire compiti o a elaborare stimoli. I neuroni nel circuito linguistico iniziano ad attivarsi, per esempio, quando si ha una conversazione con un amico.

Quando si guarda un film che mette paura, i neuroni

nell’amigdala, una zona coinvolta nelle emozioni, si attivano con maggiore frequenza.

In ogni caso riuscire a controllare

coscientemente questi cambiamenti – rallentando l’attività in specifiche aree cerebrali – potrebbe teoricamente rivelarsi utile per il trattamento non solo del dolore, ma anche di

malattie come la depressione o persino l’ictus.

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L’applicazione di questo tipo di controllo è complessa, anche se appare

un’alternativa ai farmaci più avanzata e meno legata a effetti collaterali.

Fino a qualche anno fa, il controllo selettivo dell’attività cerebrale era solo un’idea provocatoria. Ma la fMRI, una

nuova versione di risonanza magnetica funzionale, ha per la prima volta reso visibile in tempo reale l’attività cerebrale. La

tecnologia era esattamente ciò di cui aveva bisogno deCharms.

Il neuroscienziato e il suo collaboratore Sean Mackey, condirettore della Pain Management Division alla

Stanford University, hanno già dimostrato che la loro tecnica funziona, almeno nel breve periodo.

A dicembre del 2005,

hanno pubblicato i risultati del loro primo studio nella rivista ‹‹Proceedings of the National Academy of Sciences››, mostrando che soggetti sani e pazienti con dolori cronici possono imparare a controllare l’attività cerebrale – e il

dolore – usando la fMRI in tempo reale.

‹‹Esistono potenzialmente decine di malattie del cervello e del sistema nervoso provocate da un livello inappropriato di

attivazione cerebrale in aree differenti››, sostiene deCharms. Egli avverte che il feedback fMRI non è ancora pronto per

l’uso clinico, in quanto sono in attesa della conferma dei loro risultati nelle sperimentazioni a lungo termine.

Ma anche se il

suo obiettivo finale è una efficace terapia del dolore, deCharms sta applicando la sua tecnica a pazienti con disturbi

d’ansia. Altri scienziati hanno predisposto o stanno pianificando studi pilota di feedback fMRI per curare la

depressione, l’ictus, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD, attention deficit hyperactivity disorder) e i

disturbi da stress post traumatico.

La gestione del dolore Negli anni 1990 DeCharms era ancora uno studente

dell’Università della California, a San Francisco, quando cominciò a studiare come le connessioni neurali nel cervello crescessero e si modificassero con l’esperienza: un fenomeno

definito neuroplasticità.

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I neuroscienziati sapevano che allenando costantemente alcune aree cerebrali si potevano ottenere cambiamenti permanenti nei complessi circuiti

neurali responsabili, per esempio, dell’udito o della visione. DeCharms ha ipotizzato che rafforzando o rallentando coscientemente l’attività neurale in specifiche zone del cervello coinvolte nella malattia, i pazienti potrebbero controllare alcuni dei loro sintomi e forse introdurre

cambiamenti positivi nelle loro menti.

DeCharms ritiene che i pazienti che soffrono di depressione potrebbero, per esempio,

essere in grado di usare il feedback fMRI per imparare a controllare i neuroni che rilasciano la molecola segnale serotonina e probabilmente le cellule su cui agisce la

serotonina.

Si potrebbero conseguire gli stessi effetti di farmaci come il Prozac – l’aumento della quantità di

serotonina disponibile nel cervello – ma senza produrre effetti collaterali.

‹‹Se si sta imparando un nuovo tipo di danza, la prima cosa da fare è capire come muoversi nel modo migliore. Si utilizza

il sistema muscolare, che diventa man mano più forte››, afferma deCharms. ‹‹Infine il corpo subisce una modifica. Si tratta di un effetto che permane nel tempo, anche quando

non si sta provando coscientemente››.

Un elemento decisivo per rafforzare con accuratezza la muscolatura per la danza è, naturalmente, avere un feedback sulla propria prestazione: nei corsi di danza si trovano sempre specchi sulle pareti.

DeCharms ha ritenuto che lo stesso processo potesse funzionare nel cervello, nel caso egli avesse trovato un

sistema per misurare l’attività cerebrale in modi sufficientemente rapidi e precisi per permettere ai pazienti di

imparare a controllarla e ottenere i risultati desiderati.

L’idea di usare il feedback mentale non è nuova. Per 30 anni gli scienziati hanno usato gli elettroencefalogrammi (EEG) – una tecnologia che misura l’attività elettrica del cervello – per indurre le persone a eliminare o mantenere un particolare

tipo di schema elettrico.

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I risultati di alcuni studi preliminari indicano che questo allenamento è alquanto efficace per la

cura dell’ADHD e dell’abuso di sostanze, anche se sperimentazioni estese e placebo controllate non sono ancora

state completate.

Ma considerato che la tecnologia EEG raccoglie l’attività elettrica su diverse aree cerebrali, la sua utilità per il feedback specifico è limitata. DeCharms aveva come obiettivo quelle strutture cerebrali anatomicamente

minuscole coinvolte nella malattia e nelle sensazioni come il dolore.

A differenza dell’EEG, la fMRI misura il flusso ematico in precise aree del cervello, consentendo una risoluzione

spaziale molto più accurata.

La tecnologia di imaging mostra quali aree stanno lavorando maggiormente durante lo

svolgimento di un compito specifico e può anche evidenziare quali zone del cervello funzionano in modo anormale in

determinate malattie.

Ma per deCharms è stato lo sviluppo della fMRI in tempo reale a rappresentare il punto di svolta. La fMRI genera una quantità enorme di dati, che potevano richiedere giorni o settimane per l’analisi e l’interpretazione.

Nuovi algoritmi e una maggiore potenza di calcolo hanno

abbattuto i tempi di elaborazione a qualche millisecondo. Ciò significa che gli scienziati – e chi si sottopone all’analisi –

possono vedere l’attività cerebrale in tempo reale.

Per deCharms e i suoi collaboratori questo tipo di fMRI rappresenta uno strumento formidabile, in quanto hanno

teorizzato che le persone con disturbi psicologici o neurologici possono effettuare esercizi mentali per modulare l’attività in sistemi neurali specifici che non funzionano bene e ricevere un feedback immediato sulle strategie che si dimostrano più efficaci, utilizzandole successivamente per sentirsi meglio.

Le tigri e il dolore

Ho sofferto di dolori cronici alla schiena per cinque anni, con sintomi persistenti malgrado una serie di terapie: grandi

quantità di ibuprofen con rischio per lo stomaco, prescrizioni di antidolorifici che procuravano giramenti di testa e

stordimento, lunghi incontri di carattere ergonomico e mesi di terapia fisica e agopuntura.

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Il mio problema non è fuori del

comune. Circa 50 milioni di americani soffrono di dolori cronici e per una larga parte di questi pazienti le terapie

esistenti sono inadeguate.

Il dolore è un fenomeno complesso. Esso dipende sia da segnali neurali che si

generano durante il danneggiamento dei tessuti, come quando si impugna un piatto bollente, sia da un sistema di livello superiore che interpreta questi segnali sotto forma di

esperienza dolorosa; un’interpretazione che può essere alterata dalle emozioni e dal livello di attenzione.

Per

esempio, i soldati feriti sul campo di battaglia spesso non comprendono l’entità delle loro ferite fino a che non sono fuori pericolo. Pertanto, mentre il dolore è una forma di

adattamento che si è evoluta per aiutarci a evitare i danni fisici, le nostre menti hanno sviluppato un sistema sofisticato

per evitarlo. ‹‹È necessario saper sfuggire a una tigre, anche

se si è feriti››, spiega deCharms.

Il fondatore di Omneuron ha scelto il dolore per sperimentare la tecnologia fMRI in tempo reale, in parte perché è un tema di larga popolarità e in parte perché il circuito neurologico

sottostante è ben conosciuto.

I farmaci oppioidi, come la morfina, bersagliano chimicamente questi neuroni. Gli stimolatori impiantabili, che possono rappresentare una

barriera efficace per il dolore, prendono di mira il circuito con piccole scosse elettriche. In realtà deCharms voleva provare a intervenire sul sistema in modo cosciente, attraverso i

processi cognitivi.

In un articolo dello scorso dicembre apparso sulla rivista della National Academy, deCharms, Mackey e i loro collaboratori hanno descritto una sperimentazione in cui i partecipanti apprendevano una serie di esercizi mentali derivati da

strategie utilizzate nelle cliniche del dolore. Per esempio,

veniva chiesto loro di immaginare la sensazione del rilascio delle loro menti di composti analgesici nella area sofferente o di immaginare che i loro tessuti doloranti fossero sani come

una qualsiasi parte dell’organismo priva di dolore.

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I soggetti sottoposti agli scanner MRI indossavano occhiali speciali per la realtà virtuale che mostravano l’attività nella corteccia cingolata anteriore, la parte di cervello coinvolta nella sensazione dolorosa. Le istruzioni chiedevano loro di aumentare o diminuire l’attività eseguendo gli esercizi

previsti. I dati della MRI fornivano loro un feedback diretto sul livello di funzionamento delle loro strategie mentali,

consentendo ai soggetti di operare aggiustamenti progressivi della loro tecnica. Alcuni partecipanti hanno appreso

velocemente i ‹‹trucchi››, mentre altri hanno avuto bisogno di diverse sessioni per mettere a punto metodi di controllo

appropriati.

Otto pazienti con dolori cronici che non subivano miglioramenti con le terapie tradizionali hanno registrato,

dopo il periodo di formazione, una diminuzione del dolore dal 44 al 64 per cento, ossia tre volte la riduzione di dolore

conseguita dal gruppo di controllo.

Coloro che hanno esercitato il controllo maggiore sull’attività mentale hanno

ottenuto i vantaggi più grandi.

I ricercatori hanno anche previsto una elaborata serie di controlli per mostrare che i risultati non riflettevano

semplicemente l’effetto placebo o un sottoprodotto del processo sperimentale.

Per esempio, i soggetti che non utilizzavano il feedback fMRI, ma venivano istruiti a

concentrare (e a distogliere) la loro attenzione sui loro dolori non hanno provato alcuna sensazione di sollievo.

Né i pazienti

che hanno sperimentato il feedback fMRI in un'altra parte del cervello, né quelli che lo hanno esercitato sulla corteccia cingolata anteriore di un’altra persona hanno ottenuto vantaggi. ‹‹Se l’aspettativa o l’essere sottoposti a una

scansione esercitavano un condizionamento … allora i gruppi di controllo avrebbero dovuto mostrare un risultato simile››,

sostiene deCharms.

I ricercatori hanno anche condotto test in cui ai pazienti con dolori cronici venivano forniti dati di biofeedback più tradizionali, come il battito cardiaco o la pressione del sangue. Solo i pazienti che hanno ricevuto il feedback fMRI hanno avuto una riduzione significativa del

dolore.

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Comunque, alcuni scienziati dicono che non è ancora chiaro che tipo di ruolo giochi l’attenzione o persino

l’emozione. ‹‹L’esperienza ci insegna che le persone sono talmente coinvolte nel compito da non sapere neanche quanto tempo rimangono nella [MRI]››, spiega Seung-Schik Yoo, un neuroscienziato della Harvard University che si occupa della fMRI in tempo reale. ‹‹Se qualcuno è così assorbito in quello

che sta facendo, può anche dimenticare di prestare attenzione al dolore››. Inoltre, il successo nel controllo dei

livelli d’attività mostrati sugli schermi potrebbe ulteriormente distrarre il paziente dal dolore.

‹‹Se funziona bene, il tempo

vola››, continua Yoo. ‹‹Se non va bene, subentra un senso di frustrazione››.

Egli aggiunge che il modo migliore per stabilire se i soggetti del test stanno permanentemente agendo sulle

loro menti saranno le sperimentazioni cliniche a lungo termine, come quelle in svolgimento di deCharms e Mackey. In ogni caso, conclude Yoo, ‹‹il loro lavoro ha spianato la

strada al controllo del dolore con l’uso della nuova tecnica››.

Il potere è nella nostra mente Quando ho parlato a mio padre del mio viaggio a Omneuron, egli mi ha fatto una domanda che deCharms ha sempre avuto

ben chiara. Se la mente può esercitare un controllo sul dolore, che necessità c’è del feedback MRI?

Non dovrebbe la

presenza o l’assenza del dolore essere un feedback sufficiente?

La risposta più sintetica è no. ‹‹Nessuna altra tecnica che coinvolge il feedback è riuscita a fare bene questo tipo di

operazione››, sostiene Peter A. Bandettini, direttore dell’impianto centrale per l’fMRI ai National Institutes of Health, a Bethesda, in Maryland. Secondo Bandettini,

comprendere l’efficacia del feedback fMRI è uno dei grandi compiti da svolgere.

Egli ritiene che la risposta è parzialmente

legata al modo in cui l’fMRI individua alcune aree precise del cervello. Ma anche in questo caso rimane ugualmente aperto

un serio problema: come fa il paziente a manipolare realmente le attività di queste aree?

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Come controlla i livelli di attività? ‹‹Le persone riescono a intervenire sui meccanismi di

attivazione, ma non sanno esattamente cosa fanno››, egli spiega. ‹‹Credo che con una migliore comprensione del

funzionamento di questo tipo di controllo, la tecnica diventerà applicabile su larga scala››.

Mackey spera di scoprire i sistemi neurali responsabili degli

effetti antidolorifici. È possibile che l’attivazione della corteccia cingolata anteriore porti al rilascio di sostanze chimiche come le endorfine, un analgesico naturale prodotto dal cervello. In realtà il processo potrebbe essere simile a quello che causa

l’effetto placebo.

La somministrazione del placebo può avere un effetto profondo sul dolore e su determinate malattie,

particolarmente la depressione, arrivando a indurre cambiamenti nel cervello.

Alcuni studi recenti mostrano che

finti analgesici possono stimolare il rilascio di endorfine e attivare la corteccia cingolata anteriore, la stessa area cerebrale in esame nelle ricerche sul feedback. Secondo deCharms, il feedback fMRI è un modo per controllare

coscientemente questo processo.

Anche se sono incerti sui meccanismi che si celano dietro il feedback fMRI, i ricercatori biomedici sono decisamente

impegnati a esplorarne le potenzialità. ‹‹I risultati dell’esperimento di deCharms sono talmente incoraggianti che molti vorranno immediatamente unirsi al carro della

ricerca››, dice Bandettini.

Tom Wager, uno psicologi della Columbia University, aggiunge: ‹‹il settore del neurofeedback è aperto a tutti i contributi… abbiamo bisogno di più studi per esplorare fino a che punto le persone possono sfruttare le

loro potenzialità››. I possibili sviluppi subiranno un ulteriore

impulso quando i neuroscienziati si concentreranno sulle aree cerebrali responsabili delle diverse funzioni e delle anormalità

specifiche legate a malattie differenti.

Molti esperti sostengono comunque che è ancora troppo presto per stabilire il reale potenziale terapeutico. ‹‹Saranno gli studi a indicare se il feedback agisce positivamente››, afferma John Gabrieli, un neuroscienziato del MIT che ha collaborato con deCharms e sta ora pianificando alcune

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sperimentazioni del feedback fMRI per l’ADHD.

‹‹Dobbiamo definire quali malattie sono aggredibili con questa tecnica,

quanto a lungo durano gli effetti e il contesto che consente di agire nel modo migliore››. Ovviamente, come in qualsiasi sperimentazione di una nuova tecnologia, i risultati devono

essere replicati in altri laboratori.

È possibile che alcune parti del cervello siano più sensibili al controllo cosciente di altre e queste differenze potrebbero limitare il numero di aree che rispondono al feedback fMRI.

La corteccia cingolata anteriore, per esempio, potrebbe risultare più semplice da controllare perché è coinvolta nell’attenzione, un processo che moduliamo attivamente durante il giorno, quando lavoriamo o sogniamo a occhi

aperti, leggiamo o guardiamo la televisione.

Malattie come la depressione o le fobie sociali, che possono efficacemente essere curate con terapie comportamentali, si presentano come buoni candidati per il feedback fMRI, dice Gabrieli.

Yoo spera invece di dimostrare che il feedback fMRI favorisce

la riabilitazione in caso di ictus o altri danni cerebrali. I pazienti perdono spesso l’uso di una particolare funzione,

come il linguaggio o parte della visione, quando una lesione distrugge un gruppo di neuroni.

Qualche volta il cervello

rimedia da solo, spontaneamente o attraverso l’esercizio, sostituendo i neuroni mancanti con quelli vicini. In genere questo processo avviene in modo incosciente, ma Yoo

sostiene che il feedback fMRI potrebbe insegnare al paziente come attivare coscientemente le aree da rigenerare.

Tra le possibilità terapeutiche più stimolanti spicca la

combinazione del feedback fMRI con la terapia cognitiva comportamentale, una forma popolare di terapia colloquiale in cui il paziente apprende come modificare atteggiamenti di

pensiero negativi.

Durante una sessione standard, un paziente parla al terapista di un evento che gli provoca ansia e poi fa uso di esercizi mentali specifici per ritrovare la calma.

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Nella versione che deCharms e collaboratori stanno sperimentando, un paziente si ritrova nella macchina di

scansione e comunica con un terapista nella stanza accanto attraverso un microfono.

Durante l’incontro, il terapista e il

paziente possono entrambi vedere l’attività cerebrale del paziente. Usando questa informazione, il paziente può

provare coscientemente a intervenire sui picchi d’attività che subiscono i ‹‹fuochi› in presenza di crisi d’ansia.

Una lezione dolorosa

Prima di sottopormi alla fMRI nel laboratorio di deCharms, mi alleno con alcuni esercizi mentali che in genere egli insegna a

chi effettua la scansione.

Immagino il mio cervello che rilascia endorfine, i loro segnali antidolorifici che viaggiano lungo il

mio midollo spinale per raggiungere il fondo della mia schiena. Per aumentare il mio dolore, immagino di essermi

ustionato alla schiena (cercare di aumentare il proprio dolore può sembrare controproducente, ma deCharms teorizza che

riuscire a modulare il dolore in entrambe le direzioni garantisce ai pazienti un controllo maggiore sull’attività

mentale). Sono stupefatto di quanto rapidamente possa far

crescere le mie sensazioni dolorose.

Ora che sono all’interno dello scanner, lo schermo mi indica di provare ad aumentare o diminuire la grandezza dei fuochi

che rappresentano la mia attività cerebrale. Faccio quello che

mi viene detto, tentando di prestare contemporaneamente attenzione al mio dolore e allo schermo sulla mia testa.

I fuochi crescono e scemano leggermente, a volte covando sotto la cenere, a volte bruciando a un ritmo costante. Il mio

dolore è lieve e non è semplice dire se i fuochi guizzano casualmente o seguendo la mia volontà.

Per quanto mi sforzi

a spengere le fiamme o ad alimentarle, per la maggior parte del tempo il fuoco brucia lentamente.

Dopo circa 15 minuti, la voce del tecnico prorompe attraverso

l’altoparlante e mi comunica che la mia prima sessione è finita; con mia sorpresa, ho raggiunto una qualche forma di

controllo.

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Sullo schermo viene proiettato un semplice grafico che mette a confronto l’attività nella corteccia cingolata

anteriore nei periodi in cui ho cercato di alimentare il fuoco e di limitarlo. La differenza tra le linee appare evidente.

Quando il tecnico mi domanda se voglio partecipare a un’altra sessione, rispondo di sì, determinato a fare ancora meglio.

Durante questa prova adotto nuove strategie mentali, come suggerito da deCharms come metodo per scoprire la tecnica più funzionale. Invece di immaginare le endorfine rilasciate dal mio cervello, mi concentro sul tessuto sano della mia mano e provo a pensare che la mia schiena sia priva di

dolore. I fuochi sullo schermo tremolano e brillano, mentre io sono convinto di avere acquisito un maggior controllo sulla

mia attività neurale.

Qualche settimana dopo, alla vista dei risultati ufficiali ho scoperto che la mia sensazione era giusta.

Ho avuto una prestazione migliore nella seconda sessione, controllando con successo l’attività nelle regioni destra e

sinistra dell’insula.

DeCharms vuole ora mettere a punto i sistemi più avanzati per insegnare il feedback fMRI; se le sperimentazioni a lungo termine confermeranno i risultati iniziali del suo gruppo e la FDA statunitense approverà la terapia, egli prevede di aprire

delle cliniche apposite.

Come un ballo complesso, la tecnica non è facile da apprendere e alcune persone sono

naturalmente più predisposte di altre.

‹‹È importante capire chi ha questa predisposizione e come rendere tutto più

semplice››, sostiene deCharms. Il suo gruppo sta lavorando a nuovi sistemi per raffigurare l’attività mentale e rendere

quindi il feedback più efficace.

Il grafico dei fuochi utilizzato nella mia sessione, per esempio, è un’aggiunta relativamente

recente. I ricercatori stanno anche conducendo estesi screening psicologici per valutare se le persone che

apprendono facilmente come controllare la loro attività mentale possiedono caratteristiche particolari.

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Uno dei fattori principali sarà probabilmente la motivazione. Il feedback in qualche modo assomiglia a un esercizio, sebbene in una singolare versione mentale, e richiede pertanto volontà e

impegno.

Il mio esame è durato solo un pomeriggio e non sono in grado di dire se il mio dolore ne abbia tratto giovamento.

Ma ho avuto la sensazione di controllare alcune parti del mio

cervello. E al di là dei risultati più o meno positivi, dopo due

ore nello scanner, sono perfettamente cosciente della mia schiena.

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IL DOLORE

• Per cominciare

Il dolore viene definito come una spiacevole esperienza sensitiva o emotiva associata ad un danno tissutale attuale o potenziale o che può essere descritta in termini di tale danno.

Molto di ciò che si sa sui meccanismi del dolore deriva da ricerche effettuate su animali, dove le componenti affettive sono poco chiare; per questa ragione si preferisce, in fisiologia, parlare di nocicezione, che si definisce come il processo per cui le informazioni relative ad un danno tissutale vengono trattate dal sistema nervoso fino a raggiungere la coscienza, probabilmente a livello corticale.

Si tratta di una distinzione importante, in quanto il danno tissutale, almeno nell'uomo, non è inevitabilmente collegato a dolore, come si verifica quando esso si instaura in situazioni stressanti, come durante lo svolgimento di un'attività sportiva o in guerra.

Modificato da "Principi di Neuroscienze". Ambrosiana, 1994.

Il danno tissutale provoca la liberazione di varie molecole e ioni che attivano i nocicettori. Questi, tramite riflessi asso-assonici, determinano la liberazione di sostanza P. Questa provoca vasodilatazione ed edema e induce la liberazione di istamina da parte dei mastociti. L'istamina stimola i nocicettori creando, così, un circolo chiuso.

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Modificato da "Neuroscienze. Esplorando il Cervello". Zanichelli, 1999.

Meccanismo di controllo spinale della trasmissione delle informazioni nocicettive da parte di quelle somatiche non nocicettive.

Le fibre C (nocicettive) agiscono sul neurone di ritrasmissione talamica sia direttamente che inibendo un interneurone inibitorio, con la conseguente dis-inibizione del neurone spino-talamico ed incremento della sua scarica. Questo sistema amplifica la trasmissione dell'informazione nocicettiva.

Le fibre non nocicettive, invece, stimolano l'interneurone inibitorio che, così attivato, inibisce il neurone di ritrasmissione, che riduce la sua scarica. Questo sistema riduce l'entità della trasmissione spino-talamica.

Se l'attivazione delle fibre non nocicettive (stimoli meccanici, ad esempio: tatto, pressione, sfregamento, massaggio) avviene quando le fibre C sono attive, si può avere riduzione della trasmissione spino-talamica, con conseguente alleviamento della sensazione nocicettiva.

Modificato da "Fondamenti delle Neuroscienze e

Sindrome dell'arto fantasma.

A: sul volto di questo paziente cui è stata amputata una mano, sono stati riportati i siti cutanei la cui stimolazione evocava sensazioni localizzate ben delimitate che venivano riferite alle dita dell'arto mancante (fantasma). 4 settimane dopo l'amputazione.

B: in questo caso, le sensazioni riferite compongono due mappe distinte, una in corrispondenza della linea di amputazione e l'altra al di sopra della piega

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del Comportamento". Casa Editrice Ambrosiana, 1999

del gomito. Nella mappa superiore manca l'estremità delle dita.

Veduta d'insieme dei sistemi motori

• Organizzazione e ri-organizzazione corticale del movimento dopo lesioni spinali

La corteccia motoria primaria è la regione corticocerebrale attraverso la quale i sistemi sensoriali superiori e quelli "associativi" influenzano il movimento. I gangli della base ed il cervelletto sono le principali componenti dei due più importanti circuiti sottocorticali dei sistemi motori. Entrambi ricevono forti proiezioni dalla corteccia cerebrale e vi riproiettano attraverso il talamo.

Le due strutture, però, si differenziano sostanzialmente per: I gangli della base ricevono afferenze da tutta la corteccia cerebrale, mentre il cervelletto le riceve solo dalle regioni che svolgono funzioni sensitivo-motorie e ne riceve anche dalla periferia corporea. Il cervelletto proietta, tramite il talamo, alla corteccia premotoria ed alla corteccia motoria, mentre i gangli della base proiettano anche alla corteccia associativa prefrontale. Il cervelletto riceve informazioni somatosensitive direttamente dal midollo spinale ed ha connessioni con molti nuclei del tronco dell'encefalo, mentre i gangli della base non hanno connessioni col midollo spinale e ne hanno di molto scarse col tronco dell'encefalo.

Gangli della base

I Gangli della base sono un insieme di nuclei di sostanza grigia costituiti da: nucleo caudato e putamen (striato dorsale o neostriato -NS), il segmento interno e quello esterno del globus pallidus (GPi e GPe), la pars reticulata e quella compacta della substantia nigra (SNr e SNc) ed il nucleo subtalamico.

Il neostriato è la principale porta di ingresso dei gangli della base e riceve fibre da tutta la corteccia cerebrale e dai nuclei intralaminari del talamo. La principale uscita dai gangli della base si ha dal segmento interno del globus pallidus e dalla pars reticulata della substantia nigra verso i nucleo ventrale anteriore e ventrale laterale del talamo (VA e VL), che a loro volta proiettano alla corteccia premotoria (PMC), all'area motoria supplementare (SMA) ed alla corteccia prefrontale Vi è, inoltre, una proiezione al tronco dell'encefalo, specialmente al nucleo peduncolo-pontino (PPN), coinvolta nella locomozione ed al collicolo superiore, coinvolta nei movimenti oculari.

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I gangli della base hanno anche numerosi circuiti, al loro interno, che sono importanti per varie funzioni. Uno di questi è un circuito striato-nigro-striatale con l'ultimo segmento dopaminergico. Quando questa via degenera si ha il Morbo di Parkinson.

Modificato da "Fondamenti delle Neuroscienze e del Comportamento". Casa Editrice Ambrosiana, 1999

Principali circuiti cortico-striato-corticali ed intra-striatali.

Sistema Nervoso Autonomo

Il Sistema Nervoso Autonomo (SNA) comprende l'insieme di cellule e fibre che innervano gli organi interni e le ghiandole, svolgendo funzioni che generalmente sono al fuori del controllo volontario.

La vie efferente (dal Sistema Nervoso Centrale agli organi innervati) è sempre costituita da due neuroni (mentre quella del Sistema Nervoso Somatico è costituita da un neurone solo: il motoneurone): un neurone pregangliare con il corpo cellulare nel SIstema Nervoso Centrale ed un neurone postgangliare, con

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il corpo cellulare al di fuori di esso, in un ganglio o nella parete stessa del viscere innervato. Il Sistema Nervoso Autonomo è suddiviso in tre branche: ortosimpatico, parasimpatico ed enterico, e le ultime due hanno generalemte un'qazione antogonista rispetto alla prima, quando innervano lo stesso organo.

Il controllo che il Sistema Nervoso Centrale esercita su quello Autonomo è complesso e coinvolge numerose strutture troncoencefaliche e l'ipotalamo. Le principali regioni ipotalamiche coinvolte nel controllo del SNA sono l'area ventromediale perl l'ortisimpatico e quella laterale per il parasimpatico. Il controllo ipotalamico si esercita tramite diverse strutture troncoencefaliche tra cui la sostanza grigia periacqueduttale e parte della formazione reticolare.

Modificato da "Principi di Neuroscienze". Ambrosiana, 1994.

Organizzazione del Sistema Ortosimpatico

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Schema del Sis

Potenziamento a lungo termine (Long Term Potentiation: LTP)

Il potenziamento a lungo termine (Long Term Potentiation: LTP) è un aumento della forza della trasmissione sinaptica che si verifica con l'uso ripetitivo della stessa e che può durare fino ad alcuni minuti. Nell'ippocampo può essere attivata da meno di 1 secondo di intensa attività sinaptica e può durare ore o anche molto di più. Può essere indotta in vari luoghi del cervello, ma soprattutto nell'ippocampo ed è stato quindi suggerito che possa essere coinvolta nella memoria. Anche se meccanismi diversi possono essere responsabili della LTP in sinapsi diverse, la maggior parte del lavoro sperimentale è basato sulle sinapsi eccitatorie (glutammato) nel campo CA1 dell'ippocampo che contengono i recettori NMDA (N-metil-D-aspartato).

Il modello coorente della LTP prevede le seguenti fasi: 1) una scarica di potenziali d'azione porta a liberazione di glutammato dalla terminazione presinaptica

2) il glutammato liberato si lega a recettori sia NMDA che non-NMDA (AMPA: Alpha amino-3-hydroxy-5-Mehyl-4-isoxazole proprionic acid) della membrana postsinaptica. Questi ultimi determinano un ingresso di ioni Na

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3) che depolarizzano la membrana postsinaptica

4) la depolarizzazione della membrana post-sinaptica porta non solo ad un EPSP, ma anche ad una uscita degli ioni Mg attraverso i canali ionici associati ai recettori NMDA

5) Normalmente, gli ioni Mg bloccano i canali ionici associati ai recettori NMDA, così la loro rimozione consente un ulteriore ingresso di ioni Na e Ca nella terminazione post-sinaptica

6) l'ingresso di ioni Ca porta alla attivazione di una protein-chinasi postsinaptica, che è responsabile della induzione iniziale della LTP, che è quindi un evento post-sinaptico

7) Il mantenimento della LTP, oltre a richiedere la persistente attivazione della protein-chinasi, necessita probabilmente di una modifica della liberazione del neurotrasmettitore: cioè un aumento della sua liberazione in risposta ad un dato impulso afferente. Se si ammette l'esistenza di una modifica presinaptica, bisogna anche ammettere che la terminazione post-sinaptica produca un messaggero diffusibile che agisca sul terminale presinaptico. Candidati a svolgere questo ruolo sono i metaboliti dell'acido arachidonico, l'ossido nitrico, il monossido di carbonio ed il fattore di aggregazione piastrinica.

Il alcune circostanze è anche possibile evocare, nelle sinapsi delle fibre rampicanti del campo CA3 una depressione a lungo termine (Long Term Depression: LTD), probabilmente mediata da recettori metabotropici presinaptici del glutammato.

Plasticità e fattori neurotrofici: sistema nervoso periferico

Il danneggiamento di un nervo periferico, se sufficientemente grave, causa danni permanenti che consistono in perdita della sensibilità, ipotrofia e debolezza muscolare. In molti casi, però, il nervo è in grado di ripararsi, in quanto gli assoni periferici sono in grado di ricrescere, sotto l'influenza dell'ambiente favorfevole determinato dalla presenza delle cellule di Schwann.

Ciò non si verifica nel Sistema Nervoso Centrale dove la glia (astrociti e oligodendrociti) esercitano generalmente un'azione inibitoria sulla crescita assonica, pur se la maggior parte dei neuroni del Sistema Nervoso Centrale sarebbe capace di generare nuovi assoni.

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RIFLESSIONI SUL DOLORE

di Andrea Bolognesi

Come in altri casi anche nella definizione del DOLORE, i Greci hanno due "parole-chiave" che racchiudono mirabilmente il senso profondo di questo concetto,che è prima di tutto un'ESPERIENZA; le parole sono ALGOS e PATHOS.

La prima ci riporta a una dimensione fisica e percettiva del dolore e,sul piano neurologico,al sistema efferente e al concetto di SOGLIA ALGICA;la seconda invece allarga il senso alla sofferenza emotiva e psichica,rimandandoci alla neocorteccia e al talamo. Il dolore ci appare come "prezioso alleato" dell'uomo, in quanto meccanismo di difesa PRIMARIO nei confronti dell'ambiente interno/esterno.

Pensiamo al dramma dei bambini (fortunatamente rarissimi) che nascono con la Sindrome da Analgesia Congenita e quasi mai superano i 10 anni di vita,proprio perchè privati del meccanismo di Difesa/Dolore, e quanto invece sia meno grave la condizione opposta,cioè l'Iperalgesia o Allodinia, compatibile con la vita.

Dicevo il DOLORE come ESPERIENZA,che non si lascia facilmente DEFINIRE per le innumerevoli sfumature di carattere antropologico,socio-culturale,storico,religioso di cui questa esperienza si è andata arricchendo nelle varie epoche e nei vari popoli. Qualche esempio per chiarire:

-In certe popolazioni dell'India, quando una donna deve partorire, il suo uomo viene trattato come partoriente e la donna continua a lavorare nei campi, non sentendo alcun dolore.Ciò smentisce l'acquisizione del dolore da parto come il più intenso dei dolori possibili.

dolore del martire religioso che canta mentre è crocifisso o del torturato che non versa una lacrima,non sarebbero certo sopportati senza quell'anelito ideale che rende queste esperienze ESTREME di PATHOS come "DOLORE-PARTECIPAZIONE" o "DOLORE-COMUNIONE" nel sacrificio, sganciandole completamente da ogni meccanismo neurofisiologico.

Dolore come RITO DI INIZIAZIONE nel passaggio all'età adulta o in uno stato sociale particolare (la circoncisione negli ebrei, la castrazione per gli eunuchi dell'Impero Ottomano, i samurai giapponesi, i riti tribali africani).

Questa modalità esperienziale non può certo rientrare nel concetto di Dolore/Malattia,poichè è un dolore provocato e investito di potente pregnanza simbolica. Questi esempi, e se ne potrebbero citare tantissimi altri, bastano da soli a rendere malferme le strutture categoriali che l'Occidente si è dato per definire e classificare il dolore,e ci dimostrano quanto sia minoritario un approccio riduzionistico, se confrontato con l'estrema complessità di cui il tema del Dolore si arricchisce nel resto del pianeta.

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Il DOLORE/MALATTIA, di cui noi medici in definitiva ci occupiamo, tende invece, ad un primo approccio, ad azzerare le sfumature etniche o socio-culturali e non può essere affrontato se non da TECNICHE, che nella loro operatività saranno magiche, rituali, sciamaniche, farmacologiche o chirurgiche, riattingendo cos di nuovo a matrici culturali.

La STORIA del Dolore e della sua terapia nasce all'interno di concezioni MAGICHE (Egizi,Assiri,Babilonesi,Grecia Arcaica),secondo le quali ilDolore era dovuto alla penetrazione del corpo da parte di un demonio, un fluido o un oggetto malefico, che quindi andava estirpato praticando spesso delle piccole ferite al malato per far fuoriuscire lo "spirito maligno". Tali concezioni vennero messe in crisi intorno al 400 a.C. da IPPOCRATE, primo vero "desacralizzatore" della sofferenza. La sua interpretazione della MALATTIA in termini NATURALISTICI come SQUILIBRIO dovuto a fattori esterni (Clima, Regime Alimentare) e interni (i quattro Umori dell'organismo), sanciva di fatto la nascita della Medicina Occidentale.

Successivamente PLATONE e ancor più ARISTOTELE rafforzano e arricchiscono questo approccio razionalistico, cercando di spiegare i meccanismi del dolore per poterlo curare; si fermano comunque a considerarlo un'EMOZIONE percepita dal Cuore. Con GALENO si fa un primo salto qualitativo localizzando il dolore nel Cervello e "promuovendolo" dal rango di Emozione a quello di SENSAZIONE, trasmessa dal Sistema Nervoso. Contemporaneamente c'è una particolare attenzione alla ricerca di metodi medici e chirurgici per lenire il dolore.

Nel MEDIOEVO c'è un silenzio pressochè totale della Scienza e l'enfasi è tutta sulla dimensione Spirituale del Dolore, inteso come ESPIAZIONE, mutuata dalla tradizione Giudaico-Cristiana.

Solo in Oriente con AVICENNA il Dolore Fisico conserva dignità e importanza e compaiono le prime sostanze analgesiche (oppio, mandragora, edera,ecc..). Il RINASCIMENTO riporta prepotentemente l'attenzione sul CORPO e,sulla fervida scia degli studi anatomici di VESALIO e dello stesso LEONARDO, il Dolore viene fatto risiedere nel Sistema Nervoso e viene trasmesso al suo interno.

Contemporaneamente PARACELSO inizierà ad utilizzare,in modo empirico, l'Etere per le anestesie. CARTESIO e tutta la speculazione a lui succesiva, fino alla fine del XVIII Secolo, considerano il Dolore come una esacerbazione della Sensazione Tattile, dovuta alla circolazione dello "spirito" attraverso i nervi.

Solo nel XX secolo,con la scoperta della NATURA ELETTRICA della TRASMISSIONE NERVOSA, avremo il superamento di queste concezioni e la nascita della moderna NEUROFISIOLOGIA. Parallelamente assistiamo, sul piano della terapia, alla scoperta dell'Ipnosi(1810), dei vari ANESTETICI: Protossido d'azoto (1828), Cloroformio (1831), Etere (1864), e degli ANALGESICI: Aspirina (1894), BARBITURICI (1903), che modificheranno RADICALMENTE l'approccio al Dolore, sia chirurgico che medico.

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E' curioso notare come all'apparire di questi farmaci sia i chirurghi (con più veemenza) che i medici erano contrari e si opponevano alla loro diffusione, i primi perchè consideravano "innaturale" un intervento chirurgico senza dolore, i secondi temendo di veder scomparire uno dei più importanti segni diagnostici.

Nel corso del XX Secolo, accanto allo sviluppo della Neurofisiologia e della Neurochimica del Sistema nervoso Centrale, con l'identificazione dei NEUROTRASMETTITORI (molecole incaricate di trasferire gli impulsi elettrici da un neurone all'altro), si arriva nel 1974 alla scoperta più rivoluzionaria della Storia del Dolore, che segna realmente il nascere di un NUOVO PARADIGMA: LE ENDORFINE.

Tali sostanze naturali, col loro duplice ruolo antidolorifico e comportamentale/emozionale hanno permesso, in qualche modo, di "chiudere" la millenaria diatriba tra l'idea di ARISTOTELE del DOLORE COME EMOZIONE che invade la Coscienza e quella di GALENO, che lo considerava PURA SENSAZIONE trasmessa dal Sistema Nervoso.

In realtà l'una è inseparabile dall'altra e varia notevolmente da individuo a individuo,dando al Dolore quella connotazione di ESPERIENZA SOGGETTIVA non trasferibile nè comunicabile ad altri. Fondamentali sono anche la personalità premorbosa e il Temperamento del paziente nella manifestazione soggettiva del dolore, perchè "moduleranno" nettamente le reazioni sia al fenomeno stesso che alla terapia.

Tutti noi del settore sappiamo quanto sia difficile curare un dolore cronico in un depresso piuttosto che in un soggetto senza disturbi dell'umore; nel primo caso infatti riterremo necessari gli antidepressivi di cui sfrutteremo l'azione analgesica e modulatrice del vissuto psichico, nel secondo caso invece (come anche nel dolore acuto o subacuto), useremo solo analgesici.

A proposito della RISPOSTA alle terapie molto interessante è l'esperienza fatta dal Prof.Zucchi a Firenze con dei pazienti affetti da Dolore Cronico. I pazienti sono stati divisi in due gruppi: uno trattato con Terapia Farmacologica da sola, l'altro con Terapia Farmacologica + TERAPIA ETICA.

La TERAPIA ETICA consisteva nell'esperienza di LETTURA e COMMENTO di un Brano Evangelico e PREGHIERA.

Ebbene la risposta alle Terapie in termini di diminuzione del Dolore è stata nettamente superiore nel secondo gruppo e, cosa ancora più sorprendente, anche gli agnostici sottoposti a Terapia Etica hanno visto salire la loro Soglia Algica e aumentare il livello delle loro Endorfine!

Inutile sottolineare che nei Credenti la Soglia Algica è di per sè più elevata,e che le recenti acquisizioni scientifiche giunte dagli Stati Uniti sulla validità della PREGHIERA COME TERAPIA, sono state confermate dall'esperienza del Prof.Zucchi.

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Questo esempio ci deve far riflettere sulla COMPLESSITA' del fenomeno DOLORE simile alla COMPLESSITA' dell'UOMO.

Ho invece l'impressione che sia nella ricerca che nella terapia ci si occupi troppo dell'ALGOS, troppo poco del PATHOS e poco e male dell'UOMO.

Per concludere e onde evitare naufragi terapeutici noi medici, di qualunque disciplina o orientamento, abbiamo sì il dovere di curare il Dolore ma avendo sempre presente che davanti a noi c'è un UOMO CHE SOFFRE nella sua interezza e unicità di PERSONA.

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Basi neurofisiologiche della percezione

Andrea Peru

Medico Neurologo, Dottore di Ricerca in Neuroscienze Dipartimento di Scienze Neurologiche e della Visione - Sezione Fisiologia Umana Università di Verona

Riabilitazione Oggi, 10-1999

Pur senza abbracciare le posizioni degli empiristi, secondo cui il cervello alla nascita è una tabula rasa che si plasma via via sulla base delle esperienze sensoriali, non si può in alcun modo negare il contributo che queste arrecano alla conoscenza ed alla genesi del pensiero, come incisivamente sottolineato da San Tommaso: "Nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu".

Volendo ora analizzare i meccanismi ed i substrati neurofisiologici sottesi all'esperienza sensoriale, si deve innanzi tutto riconoscere che essa non costituisce un fenomeno semplice ed unitario, ma rappresenta il culmine di una serie di processi che, partendo dalla stimolazione recettoriale, si concludono a livello corticale, realizzando l'esperienza percettiva vera e propria secondo un processo di natura prettamente inferenziale.

La conoscenza dell'oggetto non rappresenta mai, infatti, la semplice registrazione delle sue proprietà fisiche, quanto, piuttosto, il prodotto dell'interazione tra le suddette proprietà e l'esperienza pregressa del soggetto, in un attivo, reiterato, processo di ipotesi e verifica.

I sistemi sensoriali sono, quindi, concepiti per analizzare le proprietà fondamentali degli stimoli (qualità, intensità, durata e posizione nello spazio) e sintetizzarle in una rappresentazione coerente che permetta, infine, una precisa conoscenza dello stimolo stesso. Stante la comune finalità, non deve stupire che tutti i sistemi sensoriali siano organizzati in maniera simile.

Elemento cardine e primo motore del processo percettivo, è il recettore, sia esso rappresentato dalle terminazioni periferiche dei neuroni sensoriali (recettori di I tipo, da essi origina il potenziale generatore, tipico potenziale post-sinaptico propagabile elettronicamente; se superiore ad una certa ampiezza soglia, determina la comparsa del potenziale d'azione nella fibra sensoriale) o da neuroni specificatamente differenziatisi (recettori di II e III tipo, da essi origina il potenziale dei recettori che determina la liberazione di un mediatore chimico, il quale, fondendosi con la membrana post-sinaptica dei terminali delle fibre afferenti, ne provoca la depolarizzazione, inducendo la comparsa di un potenziale post-sinaptico).

Indipendentemente dalla sua natura e dai meccanismi implicati, il recettore svolge la propria funzione trasducendo la forma di energia propria dello stimolo (meccanica, chimica, luminosa, etc.) in un segnale nervoso trasmissibile ai

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centri superiori. A loro volta, i centri nervosi preposti all'analisi sensoriale prevedono un'organizzazione in serie, per cui man mano che l'informazione procede nel suo percorso all'interno del Sistema Nervoso Centrale (SNC), è sottoposta ad un'elaborazione sempre più complessa ed un'organizzazione in parallelo, per cui le informazioni concernenti le varie proprietà dello stimolo viaggiano segregate per gran parte del loro percorso, per essere poi sintetizzate solo ai livelli più alti, dove la sorgente di stimolazione viene finalmente percepita come un tutt'uno.

Esaminando più in dettaglio gli elementi che partecipano al processo percettivo, lo stimolo da una parte, le strutture del sistema nervoso dall'altro, emerge chiaro il rapporto di complementarietà che intercorre tra di essi.

II concetto stesso di stimolo è chiarificatore in proposito: un quid energetico diventa stimolo solo in quanto capace di eccitare un recettore ed indurre la genesi di un potenziale d'azione nelle fibre nervose afferenti al SNC. In altre parole, è la percepibilità la connotazione essenziale di uno stimolo; una radiazione luminosa nella gamma dell'infrarosso, un suono della banda degli ultrasuoni, non essendo percepibili in quanto l'organismo umano non possiede recettori adatti alla loro detezione, non possono innescare alcun processo percettivo e, in definitiva, evocare alcuna esperienza cosciente. D'altra parte, la natura dello stimolo individua il recettore e la via nervosa deputati alla sua elaborazione.

Pur se è teoricamente possibile, e qualche volta avviene che un particolare recettore sia eccitato da uno stimolo improprio (si pensi alla tipica situazione vignettistica del pugno in un occhio che fa vedere le stelle), in linea di massima ogni tipo di stimolo eccita uno specifico recettore (che è poi quello più sensibile a quella forma di energia) ed una specifica via nervosa.

La legge delle energie specifiche di Muller, secondo cui "La modalità sensoriale non dipende dalla natura dello stimolo, ma dall'organo stimolato", ben illustra il concetto suddetto. In realtà, la qualità sensoriale di uno stimolo, la sua natura, sono determinate, più ancora che dall'organo recettoriale stimolato, dalle aree corticali attivate (codice della linea attivata). Se, per assurdo, la via gustativa raggiungesse le aree visive, e la via olfattiva le aree uditive, sarebbe possibile vedere i gusti e sentire gli odori in un'inebriante sinestesia psichedelica "...la nota nella gamma che è insieme di colore e sapore e odore e morbidezza...".

Del perchè e del come determinate aree corticali riescano ad evocare specifiche sensazioni sensoriali, è ancora lungi dall'essere compreso.

Altro parametro fondamentale dello stimolo è la sua intensità: pur di natura idonea, uno stimolo non induce risposta se al di sotto di una certa intensità, perciò detta soglia è definita statisticamente come l'intensità che evoca risposta nel 50% dei casi. L'intensità soglia è, dunque, l'intensità necessaria perchè una variazione di energia della gamma percepibile dai recettori venga effettivamente percepita. Pure al di sopra dell'intensità soglia, la capacità di risoluzione dei sistemi sensoriali ha limiti ben precisi: perchè due stimoli siano

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percepiti come differenti, occorre che presentino una minima differenza di intensità detta soglia differenziale e stimabile in una variazione, in più o in meno, di circa il 3% del valore originario.

L'intensità dello stimolo è codificata dal SNC in primis in termini di frequenza di scarica del recettore e dei neuroni ad esso collegati, ed in un secondo tempo come numero di neuroni attivati. Quindi, mentre la modalità sensoriale è indicata dal codice della linea attivata, l'intensità è definita dal codice della frequenza di scarica.

Terzo parametro fondamentale dello stimolo è la sua durata, indicata dal tempo di scarica dei recettori e delle strutture ad essi collegate. A tal proposito è cruciale una specifica proprietà delle cellule nervose: l'adattamento. Con questo termine si indica quel fenomeno per cui i neuroni, dopo un certo tempo dalla loro eccitazione, ritornano ad essere silenti o, comunque, ad un livello di attività propria dello stato di quiescienza.

Questa proprietà è particolarmente spiccata a livello recettoriale, distinguendo recettori a rapido adattamento, che si eccitano solo in corrispondenza delle fasi dinamiche, per cui segnalano i transienti dell'inizio e della fine della stimolazione (on ed off dello stimolo), e recettori a lento adattamento, deputati alla codifica della fase statica e, quindi, attivi per tutta la durata di applicazione dello stimolo.

Se ne deduce che i recettori a rapido adattamento sono particolarmente efficaci nel segnalare le proprietà temporali dello stimolo, mentre quelli a lento adattamento sono indicati all'estrazione delle caratteristiche spaziali, cioè all'identificazione della forma dello stimolo.

Una volta determinati il tipo, l'intensità e la durata della stimolazione, l'ultimo, ma non certo meno importante, parametro che resta da definire è la posizione dello spazio da cui detto stimolo proviene.

Per comprendere come tale parametro venga codificato, occorre far riferimento al concetto di campo recettivo: porzione di spazio, corporeo od extrapersonale, in cui l'applicazione di uno stimolo di qualità, intensità e durata sufficienti, determina l'eccitazione di una struttura nervosa sia essa un recettore od un altro neurone del SNC.

Sulla base dei campi recettivi si fonda l'organizzazione somato-topica del SNC: dalle radici del midollo spinale alle aree corticali, i neuroni che codificano porzioni di spazio adiacenti, occupano posizioni adiacenti nel tessuto nervoso. Tale è l'importanza ecologica del poter individuare con precisione la provenienza di uno stimolo, che i campi recettivi dei neuroni sensoriali presentano solitamente un centro eccitatorio (on) fiancheggiato da bande inibitorie (off), con il compito di dare maggiore contrasto e far meglio risaltare la porzione di spazio stimolato.

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D'altra parte, la dimensione e la forma dei campi recettivi dei neuroni posti lungo una determinata via sensoriale, assumono gradi sempre maggiori di complessità, per cui, ad ogni livello, ogni cellula ha una capacità di elaborazione maggiore di quella delle cellule dei livelli inferiori (si veda, in proposito, la descrizione delle proprietà dei neuroni delle aree visive corticali).

Avendo completato una sommaria disamina delle proprietà comuni ai diversi sistemi sensoriali, e volendo ora fare esclusivo riferimento al sistema somato-sensoriale, si deve per prima cosa rilevare la peculiarità della sua organizzazione recettoriale: i recettori non sono, infatti, raccolti in un unico organo, come avviene per le altre modalità sensoriali (retina per i fotocettori, coclea per i recettori uditivi, bulbo olfattivo per i recettori olfattivi, papille gustative per i recettori del gusto, glomo carotideo per i pressocettori, etc.), bensì distribuiti su tutta la superficie cutanea, seppur in maniera estremamente irregolare e disomogenea.

Accanto alle più evidenti funzioni di protezione e rivestimento, la cute assume, quindi, la funzione di organo recettoriale, primo per estensione e per varietà di modalità sensoriali rappresentate, così avvalorando l'aforisma di Oscar Wilde secondo cui "La cosa più profonda dell'uomo è l'epidermide.

Al suo interno, sparsi nei vari strati che la compongono, si trovano vari tipi di recettori: terminazioni libere e terminazioni avvolte da strutture accessorie di varia foggia e dimensione (corpuscoli di Pacini, dischi di Mekel, corpi di Ruffini, etc.).

Un primo elemento da mettere in chiaro è che, anche per questo tipo di recettori, il processo di trasduzione è svolto dalle terminazioni nervose, che rappresentano, pertanto, i recettori veri e propri; le strutture accessorie che le circondano ne condizionano le proprietà funzionali, ma non ne alterano la natura.

In particolare, la presenza di strutture accessorie influenza in maniera determinante la rapidità d'adattamento, trasformando le terminazioni libere, di per sè recettori a lento adattamento, in recettori a rapido adattamento, ognuno con proprietà peculiari a seconda della conformazione della struttura accessoria stessa.

La messe di recettori che ne risulta, trova la sua ragion d'essere nel fatto che il sistema somato-sensoriale non media un'unica modalità sensoriale, bensì una molteplicità di submodalità: tatto-pressione, temperatura, propriocezione (statica: senso di posizione e dinamica: cinestesia), dolore e prurito, ciascuna delle quali richiede recettori e vie nervose specifici.

Prescindendo dalla natura dei singoli recettori e dal tipo di submodalità sensoriale implicata, tutte le informazioni provenienti dalla periferia somatica sono veicolate dalle branche afferenti dei neuroni oppositopolari (cellule a T), il cui corpo cellulare si trova nei gangli spinali e la cui branca efferente costituisce le radici dorsali del midollo spinale. Da qui in avanti il percorso varia

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a seconda della modalità presa in esame e del distretto corporeo da cui l'informazione proviene. In altre parole, ogni submodalità si distingue dalle altre per le proprietà anatomo-funzionali delle fibre e dei nuclei di relais che compongono la sua via.

La prima distinzione riguarda il tipo di fibra che veicola l'informazione sensoriale dalla cute al midollo spinale. Secondo la classificazione di Lloyd e Hunt, si distinguono 4 gruppi di fibre nervose afferenti: gruppo I (diametro 12-20 µ, corrispondente all'Aa della classificazione di Erlanger e Gasser; assente nei nervi cutanei, si trova solo nei nervi muscolari, lungo cui veicola informazioni propriocettive originate dai recettori articolari e muscolari), gruppo II (diametro 6-12 µ, Aß di Erlanger e Gasser), gruppo III (diametro 1-6 µ, Aa di Erlanger e Gasser) ed, infine, gruppo IV, ben riconoscibile dai precedenti per l'assenza di guaina mielinica (gruppo C di Erlanger e Gasser).

A questa distinzione istologica corrispondono precise differenze funzionali: in particolare tanto più grande è il diametro, tanto più elevata la velocità di conduzione della fibra secondo un coefficiente variabile a seconda del tipo di fibra considerato (es. gruppo I -diametro 12 µ - coefficiente 6 - velocità = 72 m/sec.).

Se ne deduce che le fibre amieliniche, di per sè penalizzate dall'assenza della guaina mielinica che consente una conduzione saltatoria da un nodo di Ranvier all'altro, sono ulteriormente sfavorite dal loro minor diametro, risultando le più lente dell'intero lotto.

La presenza di una guaina mielinica più o meno spessa, non condiziona solo la velocità di conduzione delle fibre, ma anche la loro suscettibilità alle noxæ patogene.

In particolare, mentre l'iniezione di un anestetico locale blocca per prime le fibre amieliniche, meno protette, poi le mieliniche di piccolo calibro ed, infine, le mieliniche di calibro maggiore, la compressione ischemica paralizza prima le fibre più grandi, che hanno un metabolismo aerobico più elevato, e per ultime le fibre amieliniche.

Sfruttando le proprietà suddette, sono stati effettuati esperimenti di blocco selettivo delle fibre di vario diametro, i cui riscontri hanno permesso di stabilire una precisa correlazione tra tipo di fibra e modalità veicolata.

Si è così visto che le fibre mieliniche di diametro maggiore trasportano informazioni inerenti gli aspetti discriminativi del tatto (tatto epicritico) e del senso di posizione, mentre quelle di calibro minore mediano gli aspetti più grossolani del tatto (tatto protopatico), la sensibilità termica ed il dolore puntorio (dolore privo di coloritura emotiva) ed, infine, le fibre amieliniche permettono di percepire il dolore urente (dolore emozionale), il prurito ed i gradi estremi della temperatura.

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Così veicolate, le informazioni provenienti dalla periferia somatica raggiungono il midollo spinale per il tramite delle radici dorsali. Si noti che già a questo livello è presente una rigida organizzazione somatotopica, per cui le fibre mieliniche di calibro maggiore occupano la porzione mediale della radice, mentre le fibre mieliniche di piccolo calibro e quelle amieliniche sono disposte nella porzione laterale.

La dicotomia presente nelle radici dorsali è destinata a persistere per tutto il percorso dei due gruppi di fibre afferenti, dando origine ai due grandi sistemi della sensibilità somatica: sistema colonne dorsali - lemnisco mediale (d'ora in avanti sistema lemniscale, per brevità) e sistema anterolaterale (spino-talamico, nella vecchia definizione), chiaramente distinti sia sul piano delle connessioni anatomiche che su quello delle proprietà funzionali, tanto che, una volta penetrati nel midollo, il loro percorso diverge nettamente.

Per quanto attiene il sistema lemniscale, solo una quota minoritaria delle sue fibre contrae sinapsi con i neuroni di senso delle corna dorsali: la maggior parte, infatti, ascende senza interruzioni nei cordoni posteriori del midollo spinale fino ai nuclei bulbari gracile e cuneato (nuclei delle colonne dorsali) da cui prende poi origine il lemnisco mediale, che decussa la linea mediana e attraversa il tronco dell'encefalo per terminare nel talamo controlaterale.

Delle fibre di II ordine originate dai neuroni delle corna dorsali, la più parte segue lo stesso decorso nei cordoni posteriori, mentre una significativa eccezione è costituita dalle fibre deputate al trasporto del senso di posizione degli arti inferiori, che compiono il tragitto midollare nella porzione più dorsale dei cordoni laterali, per poi ricongiungersi con le loro omologhe solo a livello dei nuclei gracile e cuneato.

Riassumendo, i nuclei gracile e cuneato ricevono tre tipi di afferenze, tutte ipsilaterali: fibre dirette (assone centripeto delle cellule oppositopolari dei gangli spinali), che decorrono nei cordoni posteriori e fibre indirette di II ordine (originate dalle cellule delle corna dorsali) che ascendono in parte nei cordoni posteriori ed in parte in quelli dorsolaterali.

Esaminando le proprietà delle cellule dei nuclei delle colonne dorsali, emerge chiaramente il tipo di informazione veicolata dal sistema lemniscale e ben si comprende come, per il suo tramite, avvenga la mediazione degli aspetti discriminativi del tatto e del senso di posizione.

La maggior parte di questi neuroni sono, infatti, unimodali, rispondono cioè ad una sola modalità sensoriale ed in modo così selettivo che, se attivati da recettori della cute glabra, restano silenti alla stimolazione dei peli della zona adiacente, hanno una bassa soglia di attivazione e campi recettivi piccoli, soprattutto se localizzati nelle porzioni distali del corpo; inoltre, sono neuroni a lento adattamento, restando attivi per tutta la durata dell'applicazione dello stimolo.

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Queste proprietà sono riscontrabili anche nei nuclei talamici cui il lemnisco mediale afferisce e nelle aree corticali cui i nuclei talamici a loro volta proiettano, conferendo l'indispensabile coerenza al percorso dell'informazione sensoriale dalla periferia somatica ai vertici del SNC, dove avviene la percezione cosciente della forma e struttura de-gli stimoli e della posizione dei vari segmenti del corpo nello spazio.

II percorso delle fibre che costituiscono il sistema antero-laterale, è decisamente più semplice ed omogeneo. Innanzi tutto, nessuna fibra ascende direttamente lungo il midollo, ma tutte contraggono sinapsi con i neuroni di senso situati nelle lamine profonde (I e V soprattutto) delle corna dorsali.

In un secondo tempo, gli assoni di questi neuroni (fibre di II ordine) decussano la linea mediana all'interno dello stesso metamero midollare, per salire poi verso i centri superiori lungo la porzione anterolaterale del cordone laterale.

Sulla base delle stazioni di arrivo, si distinguono tre vie all'interno del sistema antero-laterale: tratto spinotalamico, spinoreticolare e spinomesencefalico.

II primo si suddivide a sua volta in una porzione filogeneticamente più recente (tratto neo-spino-talamico), che proietta ai nuclei sensoriali specifici del talamo ed interviene nell'elaborazione cosciente delle sensazioni termiche e dolorifiche, ed in una porzio-e più antica (tratto paleo-spino-talamico), afferente ai nuclei talamici aspecifici e, quindi, funzionalmente connessa al sistema reticolare. Lo stesso sistema comprende anche il tratto spinoreticolare, che contrae sinapsi con i neuroni della formazione reticolare del bulbo e del ponte, che poi ritrasmettono diffusamente al talamo ed alle altre strutture del mesencefalo.

Infine, il tratto spinomesencefalico termina per lo più nel tetto del mesencefalo e nella sostanza grigia periacqueduttale; dato che da quest'area discendono fibre del sistema antinocicettivo, si ritiene che anche il tratto spinomesencefalico intervenga nel trasporto delle informazioni dolorifiche, peraltro secondo meccanismi ancora da chiarire.

Stante la comune origine di tutte le fibre del sistema antero-laterale dalle corna grigie posteriori, le proprietà di questo sistema sono desumibili dallo studio di singole unità midollari.

E' stato così visto che, accanto a pochi neuroni unimodali con campi recettivi piccoli da cui prende probabilmente origine il tratto neo-spino-talamico, i neuroni sensoriali del midollo hanno per lo più campi recettivi di ampie dimensioni e sono spesso polimodali, vale a dire su di essi convergono più modalità sensoriali, per cui tali neuroni rispondono sia a stimoli tattili, che a stimoli termici e dolorifici.

Le proprietà testè descritte ben si addicono ad un sistema che, fatta eccezione per il tratto neo-spino-talamico, non è preposto alla fine analisi qualitativa

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degli stimoli, quanto, piuttosto, all'attivazione globale e, per certi versi aspecifica dei centri superiori.

In definitiva, indipendentemente dal livello della loro decussazione, esclusivamente midollare per il sistema antero-laterale, prevalentemente bulbare per il sistema lemniscale, tutte (quasi tutte: alcuni assoni del tratto spinoreticolare raggiungono il talamo ipsilaterale) le vie della sensibilità somatica terminano nel talamo controlaterale.

Struttura complessa dove trovano sede numerosi nuclei di sostanza grigia separati in tre gruppi principali (nuclei anteriori, mediali e laterali) da una lamina di sostanza bianca (lamina midollare interna) in cui, per complicare ancora un po' la faccenda, sono situati altri nuclei di sostanza grigia (nuclei intralaminari), il talamo rappresenta il principale nucleo di relais sensoriale delle sensibilità somatica, uditiva e visiva.

Su di esso convergono, infatti, la maggior parte delle afferenze sensoriali e da esso partono tutte le proiezioni dirette alle aree corticali primarie.

Considerando solo i nuclei talamici connessi alle vie della sensibilità somatica, va in primo luogo citato il nucleo ventro-postero-laterale (VPL), stazione di arrivo del lemnisco mediale e del tratto neo-spino-talamico.

Date queste afferenze, non deve stupire che anche i neuroni di questo nucleo presentino spiccate proprietà lemniscali (unimodalità, bassa soglia; lento adattamento, campi recettivi piccoli) e siano spazialmente segregati a seconda della submodalità sensoriale mediata.

Oltre al nucleo VPL, il tratto neo-spino-talamico proietta estesamente anche al gruppo nucleare posteriore, il quale riceve ulteriori afferenze di natura visiva ed uditiva per poi proiettare in corteccia nella profondità del solco di Silvio.

Molti neuroni di questo eterogeneo gruppo nucleare, in realtà composto da più nuclei distinti, rispondono a stimoli dolorifici; questa evidenza, unitamente alle sue connessioni anatomiche, suggerisce che il gruppo nucleare posteriore svolga un importante ruolo nella mediazione della sensibilità dolorifica. Infine, come già ricordato, un cospicuo contingente di fibre del sistema antero-laterale raggiunge i nuclei intralaminari del talamo, assolvendo a quelle funzioni di regolazione dell'attivazione corticale proprie del sistema reticolare.

Si noti che a livello del talamo, come già nel midollo spinale e nel tronco dell'encefalo, le informazioni inerenti le varie modalità somato-sensoriali sono rigidamente segregate le une dalle altre, ed è solo a livello delle aree corticali che avviene la sintesi tra le diverse modalità.

Le aree corticali preposte all'elaborazione delle informazioni somato-sensoriali sono essenzialmente due: la corteccia somatosensitiva primaria (S I) situata nel giro postcentrale e nella profondità del solco di Rolando, e la corteccia somatosensitiva secondaria (S II) indovata nel labbro superiore del solco di

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Silvio. Come indicato dal nome, la corteccia S I è la principale sede di arrivo delle proiezioni talamiche, mentre la corteccia SII, riceve la maggior parte delle sue afferenze dalla corteccia S I stessa. Le aree S I e S II non sono, tuttavia, le sole destinatarie delle informazioni somato-sensoriali; un nutrito contingente di afferenze somatiche raggiunge, infatti, la corteccia parietale posteriore, centro di integrazione sensoriale strettamente connesso con la programmazione motoria (vedi più avanti).

Esaminando più nel dettaglio l'organizzazione anatomo-funzionale delle aree corticali, il primo elemento che si deve notare è la presenza dei moduli colonnari: dalla superficie corticale alla sostanza bianca, i neuroni di tutti e 6 gli strati corticali hanno comuni proprietà funzionali, rispondono cioè allo stesso tipo di recettori e ricevono afferenze dalle stesse zone cutanee.

La colonna costituisce, quindi, il modulo elementare dell'organizzazione corticale. Al suo interno, poi, i neuroni dei vari strati presentano precise specializzazioni: il IV strato (strato dei granuli) riceve la maggior parte delle proiezioni talamo-corticali specifiche, mentre al I strato arrivano le afferenze dai nuclei talamici aspecifici; le fibre associative, che uniscono aree corticali di uno stesso emisfero, e commissurali, che connettono aree omologhe di emisferi differenti, nascono e terminano nel II e III strato; infine, le fibre efferenti originano principalmente dal V strato (strato piramidale esterno) se dirette ai gangli della base, al tronco dell'encefalo ed al midollo, e dal VI strato se dirette al talamo.

La corteccia cerebrale non presenta, tuttavia, una struttura omogenea per tutta la sua estensione; al contrario, i vari strati sono rappresentati in modo differente nelle diverse aree a seconda della funzione dell'area stessa. Pertanto, nella corteccia motoria è massimamente rappresentato lo strato V, strato efferente per eccellenza e, viceversa, manca lo strato IV, tanto che la corteccia è detta agranulare, mentre nelle aree sensoriali è proprio lo strato IV a presentare il maggiore sviluppo, per cui si parla di corteccia granulare o koniocortex.

Applicando i concetti funzionali e citoarchitettonici sopra descritti all'area S I, è possibile distinguere al suo interno 4 diverse aree, indicate, procedendo in senso rostro-caudale e seguendo la classificazione di Broadman, come aree 3a, 3b, 1 e 2.

In ognuna di queste aree è contenuta una rappresentazione completa dell'emisoma controlaterale, secondo una delle massime espressioni dell'organizzazione in parallelo.

Nell'area 3b, principale sede di terminazione delle proiezioni del nucleo VPL del talamo, predominano le afferenze dai recettori cutanei che veicolano informazioni circa la forma, la dimensione e la superficie degli oggetti, facendo di quest'area il centro dell'elaborazione degli aspetti discriminativi del tatto.

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L'altra principale afferenza delle fibre talamo-corticali è rappresentata dall'area 3a, i cui neuroni rispondono soprattutto alla stimolazione dei recettori di stiramento muscolari, contribuendo in maniera determinante alla percezione cosciente del senso di posizione.

Decisamente meno rilevanti sono le afferenze talamiche alle aree 2 e 1, ricevendo queste aree soprattutto dalle aree 3b e 3a. L'area 2 risponde a stimoli propriocettivi e può essere apparentata funzionalmente all'area 3a, mentre l'area 1 è attivata in maniera preferenziale dai recettori cutanei a rapido adattamento per cui si ritiene concorra, unitamente all'area 3b, all'analisi delle caratteristiche della superficie degli oggetti.

L'area S II, pur ricevendo un contingente di fibre talamo-corticali dirette, deve le sue principali afferenze all'area S I, ed in particolare all'area 3b, mentre meno rappresentate sono le afferenze propriocettive dalle aree 3a e 2. Nella S II sono numerosi i neuroni con proprietà complesse su cui convergono modalità diverse; si ritiene, quindi, che quest'area sia un centro di integrazione dell'informazione tattile che viene poi trasmessa al lobo limbico ed alle aree associative motorie.

La rappresentazione della superficie corporea contenuta nell'area S II, unita alle quattro della S I, porta a cinque il totale delle rappresentazioni corticali, della superficie corporea.

Questo apparente spreco di tessuto corticale, trova la sua principale giustificazione nelle necessità dell'organizzazione in parallelo che prevede la segregazione dei differenti attributi dello stimolo e la loro analisi in aree corticali diverse, ma risponde anche ad un ulteriore criterio che sovraintende all'ontogenesi del SNC: la ridondanza.

Con questo termine si indica la moltiplicazione di un determinato sistema funzionale ai fini di assicurarne l'attività anche quando l'integrità anatomica viene meno. II fatto che le quattro aree di S I presentino una specializzazione preferenziale, ma non esclusiva, per una determinata modalità, costituisce un emblematico esempio di ridondanza.

Allo stesso modo, la presenza di una seconda area somatosensoriale assicura un certo livello di elaborazione dell'informazione somato-sensoriale anche dopo la lesione completa dell'area primaria.

Un'ultima considerazione riguarda la distorsione delle dimensioni delle varie regioni somatiche nelle rappresentazioni corticali sopra citate.

In analogia con i dati ottenuti nella scimmia ed in altre specie animali, anche la mappatura della corteccia somatosensitiva nell'uomo, eseguita in corso di interventi neurochirurgici, ha dimostrato che la rappresentazione corticale della superficie corporea (homunculus) non è una copia fedele del soma, ma una sua distorsione caricaturale con la faccia, specie la zona orale, enorme rispetto al corpo e l'indice gigantesco in confronto al pollice.

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Tali distorsioni riflettono in modo coerente la relativa importanza delle varie regioni somatiche ai fini delle discriminazioni tattili e basta pensare alle capacità esplorative della mano e della lingua, confrontate con quelle di distretti corporei pure molto più estesi, per convincersi della logicità di una simile rappresentazione.

L'homunculus è, dunque, il risultato di quel processo di magnitudine corticale, per cui la quantità di tessuto nervoso corticale preposta a ricevere afferenze da un determinato distretto corporeo non è in relazione con l'estensione di tale distretto, bensì con la densità dei recettori ed, in ultima analisi, con la ricchezza e la complessità delle informazioni che quel determinato distretto è in grado di trasmettere.

Espressione fenomenica di tale processo è la diversa acuità tattile (minima distanza cui due punti sono percepiti come distinti) dei vari distretti somatici: massima sul volto e sui polpastrelli delle dita, minima su schiena e torace.

La rappresentazione cosciente delle varie forme di sensibilità somatica non esaurisce il ruolo funzionale del sistema somatosensoriale.

Oltre a portare un fondamentale contributo alla conoscenza dell'ambiente che ci circonda, i sistemi percettivi in generale ed il sistema somato-sensoriale in modo particolare, concorrono, infatti, a due altre funzioni estremamente importanti: il mantenimento di un adeguato livello di vigilanza e la programmazione e l'esecuzione dell'attività motoria.

Va da sè che per poter espletare le più elementari attività percettivo-motorie è necessario un minimo livello di vigilanza.

Non ci si deve, quindi, stupire del fatto che all'interno del SNC trovino ampio spazio sistemi a proiezione diffusa e scarsamente differenziata, genericamente accomunati sotto il nome di sistema reticolare, cui spetta il compito di assicurare, nel rispetto delle fluttuazioni circadiane, un adeguato livello di attivazione a tutte le strutture del SNC.

Se ne deduce che la corteccia cerebrale, vertice indiscusso nella gerarchia del sistema nervoso, può svolgere le sue meravigliose funzioni solo se opportunamente attivata dal meno nobile e raffinato sistema reticolare. Per altro, non sono mai state dimostrate connessioni dirette tra la Sostanza Reticolare Mesencefalica (SRM), principale struttura attivante, e la corteccia cerebrale.

L'attivazione della corteccia avviene, dunque, per via indiretta, tramite due vie a diversa mediazione neurotrasmettitoriale.

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La prima via, monoaminergica, prevede la proiezione eccitatoria dalla SRM ai nuclei aspecifici del talamo che, a loro volta, riproiettano diffusamente alla corteccia e pure al caudato.

La seconda via, colinergica, prevede, invece, la proiezione inibitoria della SRM sui nuclei reticolari del talamo con conseguente disinibizione dei nuclei sensoriali primari. In condizioni basali, infatti, i nuclei reticolari del talamo esercitano un'azione inibitoria, di filtro, sui nuclei sensoriali primari.

La SRM inibendo i nuclei reticolari inibitori finisce, pertanto, col facilitare il passaggio del messaggio attraverso i nuclei sensoriali primari del talamo, che a loro volta proiettano alle aree sensoriali primarie della corteccia cerebrale.

Si capisce, quindi, come l'aumento del livello di responsività generale del sistema nervoso (arousal secondo l'efficace dizione anglosassone) prodotto dalla SRM svolga un'azione facilitante sull'elaborazione percettiva delle aree sensoriali primarie, abbassando la soglia di detezione dello stimolo e addirittura modulando la dimensione dei campi recettivi di alcune popolazioni neuronali.

Per meglio rendersi conto di quanto sopra esposto, si pensi alle oscillazioni fisiologiche dell'arousal nell'arco della giornata, notte compresa, e alla gravità delle sue perturbazioni patologiche fimo allo stato di coma, in cui il soggetto diviene del tutto incapace di rispondere alle sollecitazioni esterne.

Se, da un lato, le fluttuazioni dell'arousal influenzano in maniera determinante l'accuratezza e la velocità dell'analisi sensoriale, è anche vero che, reciprocamente, la stimolazione sensoriale condiziona il livello di vigilanza. In effetti, qualsiasi stimolazione sensoriale, oltre ad attivare una via specifica deputata alla percezione cosciente dell'informazione, provoca anche, per il tramite delle sue connessioni con il sistema reticolare, un'attivazione aspecifica dell'intero SNC.

Si consideri, ad esempio, la "reazione di arresto" eseguita di routine in tutte le registrazioni elettroencefalografiche, ancor'oggi l'indice più sensibile del livello di arousal del cervello in toto: basta la semplice apertura degli occhi, con la stimolazione visiva che ne consegue, per provocare una clamorosa variazione del tracciato EEG in termini di aumento della frequenza e di riduzione dell'ampiezza delle onde.

Analogamente alla modalità visiva, anche le informazioni somato-sensoriali concorrono in modo determinante a tale funzione di attivazione per il tramite dei tratti spinoreticolare e paleo-spino-talamico e delle loro connessioni con le strutture del tronco dell'encefalo e del talamo.

Infine, si consideri il contributo che il sistema somato-sensoriale fornisce alla programmazione ed all'esecuzione dell'attività motoria, dalla semplice motilità riflessa propria del midollo spinale, ai più complessi atti motori volontari

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elaborati dalle aree corticali con la cooperazione del cervelletto e dei gangli della base.

Le informazioni provenienti dalla periferia somatica, da un lato innescano una serie di risposte riflesse che svolgono cruciali funzioni protettive e posturali, dall'altro, forniscono ai centri superiori un continuo aggiornamento sulla posizione degli arti, del corpo e sul grado di contrazione dei muscoli, indispensabile per l'esecuzione di una fine attività motoria, come dimostrato dai gravi deficit motori in corso di neuropatie sensoriali.

Per poter adeguare in modo ottimale i propri comportamenti motori alle mutevoli ed imprevedibili richieste ambientali, il SNC necessita, infatti, di un flusso costante di informazioni sensoriali.

Agli esterocettori cutanei ed ai telecettori (vista, udito, olfatto) spetta il compito di provvedere un dettagliato sistema di coordinate visuo-spaziali all'interno delle quali si esprimerà il movimento, mentre i propriocettori dei muscoli e delle articolazioni, unitamente al sistema vestibolare, forniscono continui ragguagli sullo stato del sistema effettore.

L'utilizzo delle informazioni sensoriali per gli aggiustamenti motori avviene secondo due meccanismi fondamentali definiti, rispettivamente, a feed-back ed a feed-forward. Il meccanismo a feed-back implica la presenza di un sistema comparatore che, previo confronto tra il valore di un parametro in uscita ed il valore di riferimento desiderato, agisce su un sistema operatore per modificare il valore del parametro in uscita fino a farlo coincidere con il valore desiderato.

Nell'ambito del sistema motorio, il meccanismo a feed-back interviene in tutti quei casi in cui bisogna mantenere una variabile (la posizione di un'articolazione o la forza di un muscolo) ad un valore prestabilito - processo di regolazione - come, ad esempio, nel mantenimento della postura e nel controllo dei movimenti lenti.

Se ne deduce che il sistema a feed-back richiede tempo per poter analizzare i vari segnali, per cui è inefficace quando le variabili ambientali mutano troppo velocemente (si pensi al gesto di afferrare una palla in corsa).

In questi casi le informazioni sensoriali devono essere utilizzate per programmare il movimento corretto prima che gli eventi che innescano il movimento stesso si realizzino (nell'esempio della palla, prima che essa attraversi lo spazio di afferramento); si parla, quindi, di controllo anticipatorio od a feed-forward.

Nel meccanismo a feed-forward, le informazioni sensoriali condizionano il programma motorio prevedendo una data successione di eventi (traiettoria e velocità della palla, per restare in argomento); ne consegue che tutto funziona fino a quando gli eventi si realizzano secondo la sequenza prevista, ma non quando interviene una variazione imprevista (si pensi alla più frustrante esperienza calcistica: l'autogol; per intervento del difensore, la palla subisce

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un'improvvisa deviazione e, per quanto agile, il portiere non riesce più a cambiare la direzione del proprio intervento restando mesta-mente impotente a guardare la palla che finisce in rete...).

Meccanismi a feed-back ed a feed-forward non sono mutualmente esclusivi; anzi, intervengono spesso in successione per assicurare la perfetta riuscita dell'atto motorio (dopo aver afferrato la palla grazie al meccanismo a feed-forward, si riesce a mantenere la presa grazie agli aggiustamenti della forza resi possibili dai meccanismi a feed-back).

Si comprende, quindi, come pazienti con deficit sensoriali presentino alterazioni di entrambi i tipi di meccanismi, con grave compromissione sulle loro capacità motorie.

Qualsiasi intervento riabilitativo non può, pertanto, prescindere dall'evidenza che il corretto funzionamento dei sistemi motori dipende dalla disponibilità di appropriate informazioni sensoriali, secondo un intimo rapporto di interconnessione che dimostra l'unitarietà del sistema nervoso.

RILASSAMENTO E IPNOSI NEL CONTROLLO

DELLA SOFFERENZA DEL PAZIENTE TERMINALE

(dott.ssa Maria Paola Brugnoli)

IL TRATTAMENTO DEL PAZIENTE TERMINALE

Hinton nella sua monografia sulla morte (Dying), sostiene che alla maggior parte delle persone non interessa tanto il momento della morte, quanto il modo, e che la paura le fa soffrire più della malattia stessa.

Il trattamento del paziente morente solleva molti problemi di carattere etico, che vengono affrontati da ciascuno attraverso il filtro del personale retroterra culturale e dell’atteggiamento verso la vita.

Il trattamento del paziente morente, oltre ad implicare una notevole dose di esperienza, abilità e giudizio, richiede da parte del medico anche una notevole dose di umanità, non solo nel rapporto con il malato, ma anche nella gestione dei rapporti umani con i parenti.

Dal punto di vista clinico e farmacologico, il medico deve a volte affrontare il dilemma dell’opportunità di trattare o non trattare del tutto una particolare malattia, in quanto le terapie non sempre prolungano la vita, ma a volte determinano solamente una morte più lenta.

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Si dovranno sempre e comunque attuare tutte le misure terapeutiche atte a limitare le sofferenze, sia esse fisiche che psichiche.

In un paziente cosciente e consapevole, lo staff assistenziale può fare molto per supportare ed alleviare le sofferenze fisiche e psichiche del malato terminale, non solo per mezzo di una terapia farmacologia, ma anche attraverso altri supporti terapeutici adeguati, offrendogli una migliore qualità di vita.

Generalmente la sofferenza del paziente terminale è data dal dolore fisico se non sufficientemente controllato farmacologicamente, unito all’ansia, fonte in questo caso di sofferenza psichica e spirituale.

Il dolore della fase terminale spesso riguarda un individuo già depresso, ansioso, spossato e debilitato e, a differenza del dolore delle malattie acute, di cui si intravede la conclusione, deve essere sopportato a lungo senza prospettiva di miglioramento. Pertanto il livello di soglia di questo tipo di paziente, quando egli giunge alla nostra osservazione, è in genere molto basso.

La depressione abbassa la soglia del dolore, e se l’individuo è turbato per la malattia o per cause non a essa direttamente connesse, risolvendo questi fattori di angustia, possiamo diminuire anche il bisogno di analgesici.

L’esigenza più pressante è quella di considerare il paziente nel contesto della sua situazione globale, fisica, mentale, sociale e spirituale e di individuare gli elementi di disturbo che possono essere risolti. Il sollievo psichico e spirituale spesso aumenta il grado di benessere fisico. E’ dunque fondamentale lottare in modo ragionato contro il dolore e l’ansia, e il paziente si trova rassicurato proprio dal fatto che si interviene a suo favore in modo positivo in tempi possibilmente brevi.

Fatte queste premesse vorrei entrare nel vivo dell’argomento ricordando le basi fisiopsicopatologiche dell’ansia e del dolore e come si possa aiutare il paziente terminale, quando cosciente, a gestirli anche con l’aiuto di tecniche di rilassamento in ipnosi.

Il dolore cronico è quasi sempre accompagnato da atteggiamenti esagerati nel campo della sensibilità somatica ed autonoma, con anomalie di sensibilità affettiva, le quali possono disorganizzare la personalità del paziente (Bonica J.J.).

Spesso il dolore è accompagnato segni di iperattività simpatica manifestata da vasocostrizione, ipotermia, sudorazione e lesioni trofiche nelle regioni del corpo colpite da dolore, in altri casi possono invece coesistere sintomi di iperfunzione parasimpatica, quali sudorazione, vasodilatazione, ipertermia cutanea (Bonica J.J.).

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Il dolore riveste uno speciale significato di grande importanza per il medico, in quanto è uno dei più comuni motivi di lamento per il paziente.

Nel problema dolore vanno valutate attentamente le componenti emozionali ed intellettuali, in quanto fattori capaci di modificare notevolmente l’interpretazione del dolore stesso.

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Il cervello esercita una considerevole azione integrativa nella

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interpretazioneppa corticale una immagine mentale del corpo; su di essa il cervello proietta i vari segnali che danno forma e consistenza al dolore. L’esperienza clinica ci insegna che la suscettibilità al dolore è un fenomeno altamente soggettivo, individuale, e va di pari passo con la labilità emotiva del

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singolo.

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Non solo esiste questa proporzionalità, ma anche un’interscambiabilità dei due

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fenomeni, per cui esperienze ansiose finiscono come per esempio nell’ipocondria, con l’essere scotomizzate dalla coscienza e trasposte in

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sensazioni dolorifiche. E’ questa un’esperienza comune non solo a psicologi e

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psicoterapeuti, ma anche a neurologi (Ritchie Russel: Brain, memory, learning. Oxford University Press,1961).

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Agli psicoterapeuti è poi noto un fenomeno particolare, che sfugge all’analisi clinica anche se accuratamente ripetuta, perché osservabile solo al “microscopio” della psicoterapia e nell’ambito particolare delle sue coordinate temporali: il fatto cioè che determinati dolori psicosomatici scompaiono attraverso una fase di transizione, in cui l’esperienza del dolore come tale non

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è più presente, o non lo è in misura simile alla precedente,, mentre una certa

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quantità di ansia prende il suo posto.

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Tale affinità tra i due fenomeni, è spiegabile neurofisiologicamente in maniera

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diversa: come parziale sovrapposizione delle aree centrali di proiezione, e

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come sensibilità della soglia dolorifica ad esperienze emotive, che regolano il flusso delle informazioni percepite. Solo così comprendiamo la teoria secondo

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la quale la sensibilità psichica al dolore è un fatto “aquisito” dall’individuo nel corso del suo sviluppo ontogenetico (Ritchie Russel: Brain,memory, learning. Oxford University Press,1961).

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Come accade che un fenomeno neurochimico come il dolore, si traduca in un

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fatto di coscienza? Qual è il ponte tra la percezione del dolore e l’esperienza dell’ansia? Anche se le nostre conoscenze neurofisiologiche dovessero un giorno progredire a tal punto da permetterci di stabilire l’esatto correlato neurochimico di un dato fenomeno psichico, rimarrà il fatto che la relazione tra questi due ordini di fenomeni, non��FVÂ�FöÆ÷&R�„ÖVǦ�6²Â�ÆöW6W"Ã�““’’â�ÔÉ&–çFW'�&WF�¦–

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APPROCCIO PSICOLOGICO AL MALATO TERMINALE

Il termine “approccio” esprime in se la profonda umanità che deve legare il medico all’ammalato: esso mentre permette al primo di svelare gli aspetti psicosomatici della malattia, rende il secondo più fiducioso nelle capacità diagnostiche e terapeutiche del medico che egli ha scelto (Melchionda).

Sostanzialmente, approccio significa cercare e sentire nel paziente un’entità umana e spirituale che si nasconde ma che mai scompare dietro l’aridità dei dati semeiologici e strumentali di una cartella clinica; significa inserire l’evento malattia nel contesto di un’esperienza, nell’economia di una vita, in un vissuto che ha dimensioni ben più vaste di quelle indicate dai sintomi obbiettivi o soggettivi; significa avvicinarsi al malato con un sentimento che non è solo l’umanitaria simpatia, ma che è empatia: con questo termine si intende un processo di immedesimazione o identificazione per cui un individuo si mette nello stesso angolo visuale per vivere determinate sue situazioni emotive o almeno per percepirle in maniera esatta (Antonelli F.).

E’ difficilissimo stabilire la normalità e la salute mentale. Il medico deve abolire ogni concetto di colpa, accettare il malato com’è senza nessuna pregiudiziale critica, ascoltarlo: qualità estremamente difficile, perché invece di ascoltare si è indotti ad interpretare le parole; capire, non giudicare.

Secondo Ippocrate il medico ha il dovere morale, non solo di essere sempre più capace come medico, ma di migliorare come persona; se non riesce a comunicare con l’ammalato, l’insufficienza è del medico.

Il problema del rapporto tra medico e paziente, e della sua rilevanza dal punto di vista diagnostico e soprattutto terapeutico, tende di diventare di competenza non più di una sola branca specialistica, ma di tutta la medicina.

Il medico d’oggi, se da un lato è portato ad avere interessi scientifici sempre più specialistici, dall’altro è costretto nell’interesse stesso del malato, a non perderne di vista l’unità psicosomatica che, se al limite in alcune forme

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morbose assume la prevalenza nel quadro clinico, in ogni caso fa sentire il suo peso come modo di reagire del paziente alla situazione di malattia con tutta la sua personalità (Balint M.: Medico, paziente e malattia. Ed. Feltrinelli,1961).

L’IPNOSI NEL DOLORE E NELL’ANSIA

L’ipnosi può essere considerata come un processo di apprendimento a sviluppare, in conformità con determinati principi e ad opera di adeguati stimoli ,molteplici capacità che ampliando le dimensioni dell’uomo concepito come inscindibile unità psicosomatica, in condizioni di salute o di malattia, sono variamente ed ampiamente utilizzabili a fini sperimentali, profilattici diagnostici e terapeutici (Guantieri G.: L’Ipnosi. Ed. Rizzoli, 1973).

Si è definita terapia ipnotica la possibilità di indurre in un soggetto un particolare stato psicofisico, che permette d’influire sulle condizioni psichiche, somatiche e viscerali del soggetto stesso per mezzo del rapporto interpersonale stabilitosi tra il paziente e il terapeuta. Nella terapia ipnotica si rilevano spontanee modificazioni neurovegetative diverse secondo i vari soggetti (Antonelli F.).

L’ipnoterapia è un metodo di indagine che permette di esplorare la possibilità di influire sulla patologia psicosomatica di un organo o apparato, per mezzo del rapporto interpersonale stabilitosi tra il paziente ed il terapeuta; ha la possibilità di servirsi dei comandi postipnotici per potenziare una eventuale psicoterapia di sostegno e rieducativa (Granone F.: Trattato di Ipnosi. Ed. UTET).

L’ipnoterapia agisce psicoterapeuticamente attraverso un duplice meccanismo: produzione di materiale psicodinamico significativo, e miglioramento (o almeno mutamento) immediato della cenestesi (Guantieri G.).

IPNOSI, RILASSAMENTO ED ANALGESIA DEL DOLORE

I meccanismi che stanno alla base dell’analgesia ipnotica, non appaiono ancora chiari, come d’altronde oscuri rimangono tutt’ora molti aspetti del processo che è alla base del dolore. Secondo Kroger con l’analgesia ipnotica, gli impulsi dolorosi, verrebbero effettivamente bloccati, quindi non avvertiti, a livello di determinate strutture (tratti corticospinotalamici); a tale blocco non sarebbero estranee anche altre formazioni:sistema limbico e reticolare attivatore. Si verificherebbe così una “ablazione sinaptica” o una “lobotomia psicologica” (Rosen): il soggetto è cioè cosciente dello stimolo, che però non raggiunge i recettori corticali.

Viene a mancare così l’effetto: il dolore non è così percepito come dolore, bensì come stimolo tattile o pressorio. Secondo Wall l’ipnosi può modificare la

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conduzione del dolore anche a livello spinale. Per Marmar l’ipnosi eleva la soglia del dolore e riduce la risposta allo stimolo algogeno, in quanto rende il soggetto indifferente ad esso.

Per Raginsky l’analgesia ipnotica sarebbe da riferire all’amnesia che segue spontaneamente all’ipnosi, o a specifici suggerimenti; per Shor alla riduzione o eliminazione dell’ansia che si accompagna al dolore, contribuendo generalmente a sostenerlo. Pinelli, il quale riferisce immodificata nell’analgesia ipnotica la soglia della sensibilità epicritica, prospetta come ipotesi di lavoro, che tale assenza di ansietà possa venire riferita ad una relativa esclusione della diffusione degli impulsi delle vie paleospinotalamiche.

Infine, considerando l’ipotesi di lavoro di Melzack e Loeser , detta della “neuromatrice” (Lancet,Sett.1999)

sulla percezione del dolore possiamo ulteriormente provare a dare una spiegazione all’analgesia in ipnosi: secondo gli Autori nella corteccia ha sede la neuromatrice, che dovrebbe essere composta da una fitta rete di neuroni, che genera nel corso del tempo autonomamente, in una mappa corticale, una immagine mentale del corpo.

Su di essa il cervello proietta i vari segnali che danno forma e consistenza al dolore; questo modello potrebbe spiegare perché la sensazione di dolore sia strettamente e squisitamente individuale e modificabile in ipnosi.

CONCLUSIONI

Davanti a certe sofferenze fisiche e psichiche, che nessuna terapia riesce a lenire completamente, o alla inesorabilità di alcune malattie delle quali rimangono ancora sconosciute le cause, l’uomo riconosce la propria fragilità e la propria incapacità a capire e a trovare un rimedio efficace.

In questo caso il medico oltre che a curare il corpo e la mente, deve anche saper lenire le sofferenze dello spirito del malato. Non esiste in questo caso una terapia farmacologica adeguata di supporto.

La malattia grave e terminale fa sperimentare, non solo al malato e ai suoi famigliari, ma anche al medico, con una intensità inesprimibile il dramma della rottura, dell’impotenza, e spesso della lontananza e della incomunicabilità.

Il dialogo con la persona sofferente può avere una forza effusiva, cioè spingere il malato ad espandere il proprio spirito in un desiderio di incontro con gli altri e quindi di consolazione.

Dialogare significa stabilire un rapporto con l’altra persona per conoscerla, comprenderla e poterla aiutare. La ricerca di dialogo tende a superare i limiti della solitudine e dell’individualismo nella malattia. Per fare un dialogo vero non basta parlare, occorre mettersi in ascolto dell’altro e che il medico sia

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convinto di poter essere interiormente arricchito dall’altro e quindi aperto ad accoglierlo spiritualmente.

Questa ricerca personale nasce dalla constatazione che spesso nel rapporto medico-paziente nonostante la frequenza delle relazioni e l’abuso della parola, ci si arresta ad un livello comunicativo di estrema superficialità, che nel caso del paziente terminale non porta quest’ultimo a nessun beneficio.

Dialogare insieme in questo caso è dunque un incontrarsi in profondità per aiutarsi a crescere umanamente e spiritualmente. Il medico dovrebbe quindi rinunciare a quelle forme e a quei mezzi che lo metterebbero in posizione di prestigio e di superiorità; sa quindi essere paziente di fronte alle difficoltà che via via si presentano nel rapporto con il malato, e sa incontrarsi fraternamente sullo stesso piano di colui che soffre.

Basandosi sulla sincerità, sulla semplicità e sull’umiltà vera, il medico attraverso il dialogo con il paziente, non può che produrre un frutto di serenità e pace interiore per il malato e per se stesso.

Il medico può arrivare a questo cammino attraverso la visione spirituale della vita, per mezzo di un percorso di sviluppo di una autocoscienza spirituale, data dalla osservazione attenta, disinteressata e rispettosa di tutta la vita in noi e negli altri.

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Il dolore nei bambini

C.Blengini Medico Generale - Dogliani (Cuneo)

E. Pugno Medico Chirurgo - Torino

Il dolore è un’esperienza frequente nella maggior parte dei bambini affetti da cancro. Esso è differente da quello degli adulti, come differente è in questi piccoli pazienti la progressione della malattia. In questi soggetti, infatti, la sua evoluzione dopo la diagnosi risponde spesso in breve tempo alla terapia, e il dolore legato alla malattia scompare frequentemente in modo rapido.

Se però la malattia recidiva e risulta resistente al trattamento, la progressione verso la morte è altrettanto rapida, e in questa fase il dolore ritorna a farsi sentire. Non bisogna dimenticare però che il dolore nei bambini è legato più di frequente al trattamento che alla malattia stessa.

I protocolli aggressivi, che coniugano trattamenti farmacologici e chirurgici con quelli strumentali, hanno notevolmente incrementato il tasso di sopravvivenza di questi pazienti, comportando però, come conseguenza, una tossicità maggiore legata al trattamento stesso.

Questa determina la comparsa di condizioni notevolmente dolorose (es: la comparsa di mucosite da raggi o da chemioterapia, di patologie infettive, o di neuropatie periferiche).

Questi piccoli soggetti sono spesso sottoposti a tecniche di trattamento altamente invasive e dolorose che vanno dalla "semplice" iniezione endovenosa, all’aspirato midollare fino alle biopsie. I protocolli aggressivi comportano spesso più iniezioni endovenose giornaliere, e sovente frequenti controlli midollari (agospirati con cadenza anche mensile).

Un fatto non secondario, che va qui sottolineato, è che i bambini, a differenza degli adulti, non danno il loro consenso all’attuazione di questi interventi, spesso non ne capiscono lo scopo, oppure pensano, almeno nella fase iniziale, che esse siano di breve durata.

C’è quindi la necessità per tutti i malati, ma in particolare per questi piccoli soggetti, di una preparazione adeguata alla comprensione di quanto dovrà avvenire, di un sostegno nei momenti difficili e di un trattamento efficace del dolore per tutte quelle procedure genericamente dette "invasive".

Tutto questo non accade nella maggioranza delle situazioni, nonostante sia sostanziale o, se accade, è frutto più del caso o di una attenzione squisitamente personale dovuta alla soggettiva sensibilità di alcuni curanti, che di una precisa strategia di approccio codificata per queste situazioni.

Il riuscire a fornire un trattamento ottimale del dolore nei bambini richiede a monte una comprensione di tutti i fattori che concorrono a dare forma

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all’esperienza dolore in questi pazienti. Tra questi sono essenziali il livello di sviluppo psicofisico del bambino, la sua capacità cognitiva ed emozionale, i tratti fondamentali della sua personalità e le sue passate esperienze che hanno informato la sua personale conoscenza del sintomo dolore.

Non meno importanti sono anche lo stadio della malattia, le paure e le preoccupazioni inerenti la patologia, il suo decorso e la morte, come pure i problemi, gli atteggiamenti e le reazioni della famiglia alla malattia, la situazione ambientale e il retroterra culturale.

I medici curanti devono essere coscienti che i bambini con neoplasia soffrono di molti sintomi spiacevoli oltre al dolore quali, ad esempio, ansia, paura, depressione, ma anche stanchezza, prurito, dispnea, insonnia e infine paura di abbandono e di morte.

La conoscenza del bambino, così come dei modelli di sviluppo e delle modalità di comportamento risultano elementi essenziali e irrinunciabili per valutare in modo adeguato e trattare efficacemente il dolore.

Il suo trattamento in questi soggetti deve essere altamente individualizzato. Le strategie messe in opera per gestirlo devono tenere conto del livello di sviluppo del bambino, delle sue capacità di comprensione, della sua sensibilità, delle caratteristiche di personalità e delle modalità con cui affronta le situazioni problematiche.

L’individualizzazione del trattamento diventa una risorsa indispensabile in caso di bambini con ritardo di sviluppo, difficoltà di apprendimento, disturbi emotivi o difficoltà di linguaggio.

Una valutazione approfondita del dolore è utile non solo per la diagnosi, ma anche per prendere decisioni sulle strategie di trattamento. Si deve definire quanto questo sintomo influisce sulle attività quotidiane e sull’umore, cercando di capire come esso viene vissuto dal piccolo paziente e dalla sua famiglia.

L’informarsi attentamente di tutto questo, esprime l’interesse del medico al problema, insieme alla sua volontà di "capire per porvi rimedio" e getta le basi per un’alleanza strategica, che risulta già di per sé terapeutica.

È evidente come sia più facile per il medico prefigurasi l’esperienza soggettiva del vissuto del dolore se il paziente è in grado di esprimersi, ma sono molte le difficoltà da affrontare per ottenere una comprensione adeguata del sintomo nei soggetti in cui ci siano difficoltà di verbalizzazione, dovute ad uno sviluppo ancora insufficiente, o per difficoltà o incapacità a comunicare.

I bambini più grandi hanno mezzi più efficaci per comunicare il dolore, mentre i più piccoli non hanno la memoria di esperienze precedenti e la capacità di capire il significato dell’esperienza dolorosa.

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C’è quindi la necessità, nel comprendere e trattare questi piccoli pazienti, di andare oltre alla mera apparenza (valutando a priori quelle situazioni che possono essere potenzialmente dolorose) e di osservare con attenzione segni e sintomi non usuali, che possono fungere da spia e da guida per la valutazione della presenza di un dolore o di una sofferenza inespressa.

C’è il bisogno di una comunicazione aperta e franca, con parole semplici e chiare sulla percezione del dolore, nei confronti del bambino e della sua famiglia, sia in ospedale che a casa del paziente.

Bisogna spendere del tempo per capire con quali gesti, parole o verbalizzazioni il bambino esprime il dolore e a quali persone della famiglia ne parli più facilmente. È necessario tenere conto delle esperienze precedenti e delle aspettative relative al trattamento di questo sintomo.

La valutazione dell’efficacia terapeutica deve essere fatta di frequente, ma deve tenere conto dei desideri del paziente e dalla famiglia a questo proposito.

È molto utile fare uso di scale visive per bambini al fine di indagare l’intensità del sintomo.

Queste riducono i tempi del colloquio su un argomento spiacevole e risentono meno dell’influenza più o meno conscia dei famigliari sulla percezione del sintomo.

Ci sono anche molto metodi non farmacologici per alleviare il dolore nei bambini, quali l’ipnosi, il massaggio terapeutico, la musica, la pittura, le immagini mentali; queste ultime sono una metodica dolce ma efficace per rendere meno angoscioso il dolore e l’approssimarsi della morte.

Queste tecniche possono essere di conforto e sostegno durante la malattia; sono anche utili per il senso di autocontrollo e sicurezza che infondono al bambino in un momento in cui il controllo e la sicurezza sono molto scarsi.

La valutazione del dolore deve essere fatta utilizzando strumenti adatti, preferibilmente direttamente con il piccolo paziente. In caso di mancata collaborazione, ci si può giovare, oltre che dell’osservazione comportamentale, della collaborazione dei familiari; deve essere chiaro, però, che la loro valutazione sarà sempre e comunque inesatta.

Anche indicatori indiretti quali la frequenza cardiaca o respiratoria, la pressione arteriosa o la sudorazione, devono essere valutati con cautela in questo contesto, in quanto sono molti gli elementi ambientali stressanti che possono concorrere a influenzarli. Essi vanno quindi impiegati in appoggio ad altre metodiche di valutazione o insieme ad altri indicatori clinici.

La valutazione del dolore dovrebbe avvenire, per quanto possibile in un ambiente familiare al bambino. E’ quindi preferibile che sia fatta, se la situazione lo consente, a casa e non in ospedale.

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Nessun metodo di indagine è di per sé in grado di fornire una valutazione completa del dolore. Il racconto fatto in prima persona dal piccolo paziente sembra essere tra tutti, per i bambini con età superiore a quattro anni e con capacità di verbalizzare, quello più efficace nel valutare l’intensità e la localizzazione.

Raramente i bambini con tumore inventano il proprio dolore.

È molto più frequente che essi tendano a ridurne l’entità o a rimuoverlo per paura di doversi sottoporre a trattamenti dolorosi per controllarlo.

La paura della terapia iniettiva, insieme alla convinzione che non ci sia niente fare, o l’intenzione di non procurare affanno ai genitori segnalando un’evoluzione della malattia, o il desiderio di comportarsi "bene" e di non "disturbare", sono alla base della minimizzazione o della negazione del dolore nel racconto di molti bambini.

L’osservazione del comportamento è un elemento fondamentale della valutazione del dolore nei bambini che non parlano ancora, o che non possono parlare ed una valutazione aggiuntiva da farsi anche per quelli in grado di comunicare.

Si deve prestare molta attenzione a grida, piagnucolii, lamenti, gemiti, come pure alla tensione muscolare, alla rigidità, alla possibilità di riuscire a consolare, ad atteggiamenti di "protezione-difesa" di determinate parti del corpo, al movimento e infine all’aspetto generale.

L’interpretazione di tutti questi atteggiamenti non può, per ora, che essere approssimativa (e di seconda mano) in quanto mancano modelli validati.

Molte risposte comportamentali, inoltre, non sono specifiche del dolore ma si manifestano anche in presenza, di ansia, paura, solitudine e disagio.

È quindi fondamentale porre molta attenzione al contesto in cui vengono rilevati questi dati.

La gestione del dolore in questi piccoli paziente è sempre il frutto di una alleanza terapeutica tra il bambino, la sua famiglia e l’équipe dei curanti.

I desideri e le preferenze del bambino e dei suoi familiari devono essere indagati, rispettati e valutati con attenzione.

La terapia antalgica è spesso sottovalutata negli adulti; lo stesso trattamento, purtroppo, è riservato ai bambini.

Tuttavia, nella maggior parte dei casi, i bambini ricevono nella pratica quotidiana dosi di analgesici proporzionalmente ancora più ridotte rispetto a quelle riservate agli adulti.

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Diversamente da quanto si pensa in genere, in base ad errate argomentazioni pseudoscientifiche, la percezione del dolore nel bambino è ben sviluppata, anzi amplificata a causa del rapido sviluppo delle vie sensitive eccitatorie: il bambino può essere troppo piccolo per lamentare dolore e per ribellarsi al suo stato di malessere.

A sei mesi, infatti, il feto presenta già le vie sensitive del dolore formate ed attive; queste vie sono funzionali anche nei nati prematuri.

La memoria conscia si sviluppa verso i due anni, ma ciò non implica che nei primi mesi di vita il neonato sia incapace di provare dolore.

Nelle terapie oncologiche, le numerose manovre invasive che si devono attuare, come punture lombari e biopsie ossee, dovrebbero essere accompagnate da adeguata terapia antalgica.

Per superare la paura delle iniezioni o di piccoli interventi chirurgici sono in commercio pomate anestetizzanti — (ndr: EMLA, Eutectic Mixture of Local Anesthetics, topical lidocain-prilocaine cream 5%) e sarebbe bene che venissero usate con maggiore frequenza visto la loro dimostrata efficacia analgesica.

La terapia antalgica è opportuna nella circoncisione, nel varicocele, nel risveglio post-operatorio, nella preparazione di un intervento chirurgico. Molto frequentemente invece, nel bambino non viene praticata.

Un recente editoriale apparso sul BMJ dal significativo titolo "Il controllo del dolore nel bambino. Fare le cose semplici meglio" sottolinea come, negli ultimi decenni, siano stati fatti notevoli passi per la comprensione e trattamento del dolore in età pediatrica, nonostante esista il problema di una rilevazione oggettiva dell’intensità del sintomo.

Una cosa però è certa, al di là di ogni ragionevole dubbio: gli operatori sanitari tendono a sottostimare in modo significativo il dolore in questi piccoli pazienti. Sono stati sperimentati e applicati metodi sofisticati per la gestione del dolore in questi soggetti, che sono risultati efficaci in ambiente specialistico.

L’obiettivo più importante, però, nella cura questi pazienti, è quello di ottimizzare l’uso di analgesici semplici che possano essere usati facilmente su larga scala da familiari e medici di famiglia.

Un passo avanti su questa strada è stato il recente riconoscimento che il più semplice e il più utile degli analgesici, il paracetamolo, è stato usato in passato a dosaggi subterapeutici.

Il dosaggio raccomandato in precedenza (10 mg/kg quattro volte al giorno) non permetteva di raggiungere concentrazioni ematiche terapeutiche. Dati recenti di farmacocinetica suggeriscono che può essere necessaria una dose iniziale di carico di 40 mg/kg per via rettale. Il dosaggio massimo giornaliero

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nel bambino rimane invece controverso. Sta diventando largamente accettata, come limite massimo, la dose di 90 mg/kg al giorno con una dose di carico di 30 mg/kg.

Invece dosi superiori a 150 mg/kg al dì causano tossicità epatica severa e vanno evitate. È evidente come anche per questi piccoli pazienti la limitazione imposta dal dosaggio massimo somministrabile di paracetamolo, senza incorrere in effetti tossici, ha stimolato l’attenzione al suo uso in associazione con oppiacei deboli quali la codeina, dimostrando una maggiore efficacia analgesica dell’associazione.

Parimenti si è data maggior attenzione all’impiego nel trattamento di FANS. L’ibuprofene e il diclofenac sono stati studiati nei bambini, in particolare dopo interventi chirurgici, e hanno dimostrato una buona efficacia analgesica e minori effetti collaterali di analgesici più potenti.

Anche nei bambini, quando è possibile, gli oppiacei impiegati per il controllo del dolore grave, andrebbero somministrati per via orale (vedi Tabella I).

Il trattamento del dolore severo in fase di acuzie necessita di una rapida titolazione dei dosaggi analgesici per ottenere un controllo del sintomo nel giro di poche ore.

Per fare questo bisogna eseguire frequenti aggiustamenti posologici. Poiché la morfina somministrata per via endovenosa ha un picco di efficacia a 15 minuti dalla sua iniezione in vena, per un paziente di cui non si conosce il dosaggio di farmaco necessario al controllo del dolore si può iniziare ad infondere morfina alla dose di 0,1 mg/kg e controllarne il risultato ogni 15 minuti.

Si potrà quindi incrementare il dosaggio di 0,05 mg/kg, ad intervalli regolari, in caso di mancata efficacia fino al raggiungimento di un buon controllo del dolore.

La morfina può anche essere somministrata a boli intermittenti secondo uno schema prefissato partendo da un dosaggio iniziale di 0,1 mg/kg. Anche l’infusione continua di morfina a dosi da 0,02 a 0,04 mg/kg all’ora, nei bambini sopra i 6 mesi di età, è stata ben studiata per il trattamento del dolore postoperatorio e descritta nel trattamento del dolore neoplastico.

È evidente che l’infusione continua del farmaco evita il rischio delle notevoli variazioni di concentrazione ematica e quindi di efficacia dovute alla sua somministrazione intermittente.

Il farmaco giusto è quello che controlla con dosi adeguate il dolore del paziente.

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Negli adolescenti, l’analgesia autocontrollata (PCA, patient controlled analgesia) sembra efficace nel controllo del dolore, in particolare quello postchirurgico.

Si utilizzano apparecchi specifici programmati per somministrare dosi prestabilite di analgesico richieste dallo stesso paziente e seguite da un periodo di blocco (lock-out), durante il quale la pompa per infusione non può essere riattivata.

È un metodo accettato dagli adolescenti, i quali, a quella età, aspirano alla propria indipendenza nella gestione della loro esistenza e della loro malattia. Si può associare l’uso della PCA alla neuromodulazione spinale epidurale.

È tempo quindi di modificare il luogo comune che la terapia antalgica, ed in particolare i farmaci ad azione centrale come gli oppiacei, possano rendere dipendenti dalla droga i bambini. Solo cambiando questa mentalità potremo essere sicuri che il dolore, in particolare quello severo, sarà trattato in modo efficace anche in questi piccoli pazienti.

Tabella 1. Dosi orali di morfina nel bambino Età (anni) mg pro dose mg pro die

2-5 2,5 – 5 mg 15-30 mg

6-12 5 – 10 30 – 60

13-16 10 - 20 60 – 120

> 16 10 – 60 fino a 360 mg

Se formulazione retard:

>16 anni 30 – 60 mg fino a 180 mg

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48° Congresso Nazionale della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria:

echi dal congresso

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L'analgesia nel paziente anziano

Sebastiano Mercadante

Direttore dell'Unità di Anestesia e Terapia Intensiva e dell'Unità di Terapia del Dolore e Cure Palliative Dipartimento Oncologico La Maddalena, Palermo

È noto tra gli epidemiologi come la prevalenza e le caratteristiche della popolazione con dolore siano molto difficili da accertare; inoltre spesso la comparazione di studi differenti vede risultare complicate valutazioni.

D'altra parte la maggior parte degli studi, per esempio di prevalenza cross-sectional, non è in grado di valutare tutti gli elementi che sono invece necessari per ottenere delle appropriate conclusioni che escludano eventi di rapida risoluzione o quelli legati alla mortalità a breve termine.

È noto, tuttavia, come il dolore nell'anziano presenti delle caratteristiche completamente differenti dal soggetto adulto giovane. Mancano, però, i dati che permettano di definire questa specifica esperienza di dolore cronico, individuando:

la sede del dolore

le caratteristiche temporali di continuità o intermittenza

la durata

la qualità e la severità

i fattori in grado di alleviare o indurre la sintomatologia

i trattamenti eseguiti e la loro efficacia

il livello di efficacia auspicabile in rapporto ai possibili effetti collaterali di una terapia farmacologica.

A questa mancanza d’informazioni si aggiungono i luoghi comuni sul dolore nell’anziano.

Luoghi comuni sul dolore nel paziente anziano

Il fatto che l’età avanzata venga troppo spesso considerata un analgesico naturale: l’anziano non avrebbe bisogno di analgesici per via di una stoica capacità di sopportare il dolore (diapositiva 10).

La sottostima della loro sensibilità al dolore.

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Le aspettative su un maggiore livello di tollerabilità del dolore dovuto all’età.

Il giudizio erroneo sulla capacità di trarre beneficio dall’impiego di una terapia analgesica a base di oppioidi (diapositiva 6).

La scarsa conoscenza di questo tipo di terapie.

Inoltre, si somma il fatto che l'età avanzata comporta alterazioni di ordine fisiologico che riguardano aspetti farmacocinetici e farmacodinamici in funzione dei quali si restringe l'indice terapeutico di ogni farmaco e aumenta il rischio di sviluppare tossicità, specialmente a fronte dei numerosi casi di multiterapia (diapositiva 46).

Nella maggior parte delle condizioni di dolore nel paziente geriatrico, dunque, l’inadeguatezza dell’assessment (diapositiva 11) si lega all’inadeguatezza del trattamento, con il risultato che questo tipo di pazienti è esposto ad un rischio alto di insufficiente trattamento del disturbo. Il risultato di una corretta valutazione (diapositiva 13) sarebbe, d’altro canto, un insieme di dati fondamentali per indurre un appropriato interesse socio-assistenziale e un'allocazione di risorse specifiche per un problema che rischia di rimanere un'epidemia silenziosa.

Barriere del paziente nei confronti del dolore

Le barriere (diapositiva 21) interposte da parte del paziente ad un adeguato controllo del dolore sono legate tra l’altro a fattori quali:

- senso di fatalismo e di negazione

- desiderio di essere un buon paziente

- problemi socio-culturali o finanziari

Numerose sono le evidenze disponibili per sfatare questa serie di luoghi comuni sul dolore e l’anziano. Non è vero, infatti, che il paziente anziano non ha percezione del dolore, piuttosto sono sufficienti in questo caso dosaggi farmacologici inferiori, in particolare nel caso degli oppioidi, per il controllo del dolore (diapositiva 7); dosaggi motivati anche da un'eliminazione ritardata dei farmaci.

Approfondimenti

Se il cancro è una delle cause principali di dolore nell'anziano; ad essa si affiancano un’altra serie di situazioni cliniche tipiche per le età più avanzate:

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- patologie articolari

- polimialgie

- neuropatie

- malattie vascolari periferiche e coronariche.

Situazioni di dolore cronico non controllato nell'anziano possono essere, altresì, fonte di alterazioni cognitive (diapositiva 27), depressione, alterazioni dell'umore e riduzione delle attività quotidiane; a cui si somma il fatto che le alterazioni cognitive eventualmente già presenti aumentano il rischio di delirium.

A questo proposito un recente studio di Manfredi e coll. rileva come, in situazioni di preesistente demenza, la mancata valutazione dell’entità del dolore, a causa dell’incapacità espressiva dei pazienti, può contribuire all’aumento degli stati di agitazione; in questi casi una terapia del dolore a basso dosaggio di oppioidi potrebbe contribuire a ridurre sia il dolore sia le situazioni di agitazione (diapositiva 28).

Tuttavia un’analisi della qualità, effettuata controllando indicatori quali la bassa utilizzazione di farmaci benefici, lo scarso monitoraggio e utilizzazione di farmaci non necessari, ha rilevato come il trattamento medico nelle strutture di lungo degenza risulti inadeguato.

Aspetti farmacologici

Naturalmente esistono dei principi di base per un adeguato trattamento:

è opportuno seguire la prescrizione di un farmaco alla volta

avere la consapevolezza dei possibili effetti additivi con una multiterapia

fare uso di dosi relativamente basse

perseverare nei tentativi farmacologici per un adeguato periodo di tempo con dosi basse e lentamente incrementate.

L’Oms suggerisce un approccio terapeutico di tipo sequenziale. Si parte scegliendo il farmaco più appropriato tra una prima fascia di farmaci, gli antiinfiammatori; nella scelta è necessario tenere presente la situazione specifica del paziente anziano, la relazione dose-risposta e la presenza di possibili effetti collaterali (diapositive 15-16-17-18) fattori che possono portare alla sostituzione del farmaco se inefficace. I passaggi successivi prevedono l’uso di oppioidi analgesici “deboli” (diapositiva 30) o “forti” (diapositiva 31), sottoponendo la terapia ad analoghi criteri di valutazione (diapositiva 19). Si

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tratta di una tipologia di farmaci meglio tollerati rispetto agli antiinfiammatori, nel lungo periodo, per le minori ripercussioni su sistemi ed apparati; dove gli effetti collaterali da oppioidi (diapositiva 29), comunque esistenti, possono essere sicuramente minimizzati, seguendo scrupolosamente i principi fondamentali di questo tipo di terapia nella situazione del paziente anziano (diapositiva 45).

Se l’uso degli oppioidi è diffuso nella terapia del dolore da cancro, più controverso è l’uso in altri casi. Risultati positivi, come mostrano numerosi studi (diapositive 34-35-36-37), possono essere ottenuti attraverso un uso corretto del farmaco, nella cura del dolore cronico nel paziente geriatrico (diapositiva 44).

In molti casi nella somministrazione opportuna di questo tipo di terapia sono stati ottenuti risultati positivi anche in relazione ad end-point diversi dal trattamento del dolore (diapositiva 27). Sia nel caso di prodotti a lento rilascio sia nel caso di prodotti a lentissimo rilascio.

La conoscenza delle dosi equi analgesiche è essenziale qualora si debba modificare il tipo di oppioide per una risposta sfavorevole in termini di bilancio analgesia-effetti collaterali. Tali effetti dovranno essere prevenuti e trattati.

Inoltre, se l’uso degli oppioidi è ritenuto un parametro fondamentale dall’Oms è molto importante che sia ben conosciuta la realtà intorno ad alcuni luoghi comuni quali le questioni relative alla dipendenza (diapositiva 23) da oppioidi, che difficilmente si collocano nel contesto del dolore cronico; così come la presunta influenza sulle capacità di guida (diapositive 26 e 40).

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Interviste ad esperti

"Analgesia del dolore acuto e persistente"

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Intervista a Sebastiano Mercadante (Unità di Terapia del Dolore e Cure Palliative Dipartimento Oncologico "La Maddalena", Palermo)

La maggior parte dei pazienti con cancro presentano sindromi dolorose che richiedono l'uso degli oppioidi.

Le linee-guida internazionali raccomandano un approccio farmacologico sequenziale, come quello a tre gradini proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Ritiene imprescindibile questa sequenzialità, o in taluni casi è possibile – per dir così – saltare il secondo gradino?

Sicuramente questa scala ha un carattere didattico-divulgativo ed è rivolta prevalentemente ai medici di medicina generale. In realtà, in un ambiente più specialistico e di fronte a situazioni cliniche complicate soprattutto per intensità di dolore, questa scala viene spesso sovvertita.

Questo significa che esistono delle emergenze dolorose che prevedono strategie terapeutiche diverse, attraverso l’utilizzo di farmaci molto forti, anche impiegati per vie di somministrazione più rapide, come quella endovenosa, fino a che il dolore non venga controllato.

Per esempio, nel nostro ospedale in alcuni casi si utilizza una titolazione rapida del dosaggio di morfina, per via endovenosa che permette di raggiungere nel giro di dieci minuti un controllo totale del dolore; poi si passa al dosaggio per via orale. Si tratta naturalmente di un uso clinico degli oppioidi, ma rimane senza dubbio importante il valore didattico-divulgativo dell’approccio dei tre gradini proposti dall’OMS che prevede l’uso sequenziale secondo rapporti di potenza di questi farmaci: FANS, Oppiodi deboli, Oppioidi forti.

Il dolore è una malattia, più che un sintomo, che però, del sintomo, mantiene tutta la soggettività. Esistono standard e scale efficaci ed universalmente riconosciuti per misurare il dolore?

È molto difficile classificare in maniera standardizzata il dolore. Basta pensare alla tipica soggettività dell’espressione stessa del dolore: stimoli di identica intensità che producono anche sperimentalmente risposte completamente differenti.

Se poi si aggiunge che, a sua volta, a parità di stimolo, una quantità di analgesico produce effetti completamente differenti in un soggetto piuttosto

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che un altro, è possibile capire come il fenomeno dolore sia soggettivo non solo nell’espressione, ma anche nella risposta ai farmaci analgesici.

Esistono, tuttavia, delle scale che consentono di misurare nello stesso soggetto i cambiamenti del dolore nel tempo o in seguito ad un trattamento.

Si va dalle scale verbali, in cui si adoperano aggettivi come lieve, moderato, forte, fortissimo, a scale più complicate come quelle numeriche o, ancora, a quelle analogico-visive in cui si localizza il dolore su una linea immaginaria che va dall’assenza di dolore al dolore acuto.

In quest’ultimo caso si tratta di scale molto più difficili da accettare, perché di più ostica comprensione, soprattutto, per i pazienti anziani. Nella misurazione del dolore si tratta soprattutto di individualizzare la scala secondo la tipologia di paziente e l’intensità di dolore a cui si fa riferimento.

Tornando al paziente anziano, che può avere dei problemi di tipo cognitivo o educazionale, si deve chiaramente adoperare una scala che sia il più semplice possibile, ad esempio, quella di tipo verbale.

La responsività agli oppiodi nei pazienti con sintomatologia dolorosa da cancro è una fenomenologia complessa ed individuale, variabile nel tempo, in ragione di fattori non sempre facilmente identificabili. Sembrerebbe però che dolore neuropatico e fenomeni della tolleranza abbiano meccanismi biochimici comuni. Ci sono prospettive al riguardo?

Il dolore da cancro evidentemente non può essere considerato come una forza che richiede un aumento del dosaggio proporzionale alla massa neoplastica: non si tratta, infatti, della quantità di massa che comprime un organo, provocando dolore.

Il problema cancro è molto più complesso, perché al di là degli aspetti psicologici, quindi, della soggettività, deve essere visto in relazione alla malattia stessa e alla tendenza che questa ha ad influenzare anche l’espressione di alcuni recettori.

I recettori degli oppioidi, ad esempio, sono essenziali al dolore. Infatti, gli stessi fattori neoplastici che sono presenti nel sangue del paziente, che ha il cancro, sono in grado di modificare l’espressione e la responsività di questi recettori. Ciò si traduce nella capacità d’indurre una tolleranza a questi farmaci, quindi, nel richiedere quantità maggiori di farmaci per ottenere lo stesso effetto.

È necessario ragionare al di là della quantità di malattia: modo in cui, invece, il tumore normalmente viene concepito dall’oncologo. Bisogna tenere presente, inoltre, un altro dato che emerge sia da studi sperimentali sia da osservazioni cliniche: la somministrazione di oppiodi di per se può produrre una strana sintomatologia ipereccitatoria. In alcuni casi, infatti, la somministrazione prolungata, soprattutto ad alte dosi, di oppioidi, in condizioni dove esistono

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fattori di base neoplastici favorenti, si produce un aumento del dolore che molto spesso è confuso con la tolleranza; da qui viene la necessità di aumentare il dosaggio.

Ci spieghi meglio…

Il tutto in realtà si traduce in un complesso meccanismo vizioso in base al quale è come se l’effetto producesse la causa. Un ulteriore incremento di dose, nel tentativo di ricomporre la situazione precedente di analgesia, alimenta un circolo in cui il dolore è trattato con la propria causa: si somministrano gli oppioidi perché è aumentata la necessità, ma lo stesso aumento del dosaggio si traduce nell’aumentare la necessità.

L’analgesico, invece di essere tale, diventa iperalgesico. È evidente come in questi casi sia necessario intervenire con un altro tipo di farmaci secondo strategie di tipo preventivo o di accompagnamento che possano ridurre i fenomeni di eccitazione neuronale indotti dagli stessi oppioidi che, contrariamente a quanto si ritiene, possono essi stessi causare il dolore. È fondamentale, quindi, identificare quello che sta accadendo perché altrimenti il trattamento stesso può diventare la causa.

D’altra parte però, purtroppo, la diffusione di numerosi preconcetti e la complessità delle normative che regolano la prescrizione degli oppioidi, fanno dell’Italia uno degli ultimi paesi al mondo per consumo di morfina nel controllo del dolore oncologico, ancora il 50% dei pazienti sofferenti non riceve un’adeguata e specifica terapia antalgica.

Come sfatare i preconcetti che ne condizionano l’uso? Cosa si può fare per diffondere una cultura del dolore e del suo trattamento in Italia?

Naturalmente le osservazioni precedenti non si devono tradurre nel limitare l’uso degli oppiodi in quanto si tratta di casi eccezionali: i fenomeni di ipereccitazione sono rarissimi.

Nella maggior parte delle situazioni cliniche, infatti, il dolore da cancro risponde molto bene agli oppioidi.

Al contrario altri preconcetti, come quelli della dipendenza, sono assolutamente fasulli. Gli oppiodi nella cura del dolore da cancro non producono dipendenza, perché la motivazione che è alla base dell’assunzione è completamente differente, non è la stessa cosa di ciò che accade nel tossicodipendente.

Molto spesso, infatti, se è stata rimossa la causa del dolore è possibile ridurre o addirittura interrompere la somministrazione degli oppioidi senza indurre alcun effetto particolare che invece si può osservare con i tossicodipendenti. Sono questi i preconcetti che vanno sfatati: l’uso clinico-medico degli oppioidi è abbastanza sicuro, più di quello degli antinfiammatori: un altro preconcetto.

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A proposito di antinfiammatori ed oppioidi, cosa emerge dal confronto tra gli effetti collaterali?

Siamo di fronte ad un dato molto semplice, cioè che gli effetti prodotti dagli oppiodi sono immediatamente visibili: sonnolenza, confusione, costipazione e vomito; al confronto, gli effetti degli antinfiammatori non sono immediatamente visibili, spesso si vedono quando il danno è già avvenuto, ad esempio, quando è avvenuto il decesso.

Di fronte ad un’emorragia gastrointestinale, ad esempio, non ci sono sintomi che permettono di prevederla, non c’è nessun segno correlato. Da questo punto di vista è molto più rischioso l’uso degli antinfiammatori.

E quali sono le evidenze disponibili?

L’uso centennale degli oppiodi ha permesso di dimostrare quali siano i rischi e gli effetti collaterali, e, soprattutto, di rendersi conto che sono tutti molto evidenti. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di segni controllabili non nascosti.

Gli effetti collaterali degli antinfiammatori, invece, purtroppo non sono visibili: il paziente svilupperà un’insufficienza renale; aumenterà l’ipertensione in pazienti che sono ipertesi; in alcuni soggetti provocheranno lesioni allo stomaco. Il tutto senza che sia possibile accorgersene. Il paziente arriverà al pronto soccorso quando la complicanza è già avvenuta, con delle lesioni gravi.

Con gli oppioidi è diverso perché ci si trova di fronte a segni premonitori chiari, come sonnolenza o confusione, che indicano il bisogno d’intervenire sul dosaggio.

Se la sospensione del farmaco oppioide non produce nessun danno - al più sono ben visibili, ma non distruttivi, degli effetti durante l’uso – diversa è la situazione con gli antinfiammatori dove possono verificarsi lesioni tessutali al rene, allo stomaco, etc …

Inoltre, non si può dimenticare che molti analgesici sono epatotossici. Ad esempio, il paracetamolo, notoriamente il più innocuo, è il farmaco più quotato nelle lesioni acute tossiche che portano al trapianto di fegato.

I ricoveri in rianimazione che richiedono trapianto di fegato urgente per necrosi acuta epatica, sono provocati, infatti, da funghi o paracetamolo, nonostante quest’ultimo sia ritenuto per altri versi - come per le lesioni allo stomaco - un farmaco più innocuo rispetto agli antinfiammatori.

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Fisiopatologia del dolore in età geriatrica

di Pierluigi Dal Santo

Definizione di dolore - Anatomia e fisiologia del sistema algico (pain system).

In termini fisiopatologici moderni il dolore corrisponde ad una "sensazione spiacevole e ad una esperienza emozionale ed affettiva associata a danno dei tessuti o descritto nei termini di tale danno" (1).

Non si tratta quindi solo della semplice attivazione di un sistema nervoso complesso, ma corrisponde sempre ad uno stato psicologico sul quale giocano le loro influenze lo stato emozionale e precedenti esperienze spiacevoli. Più precisamente, dal concetto di dolore (o meglio di nocicezione) andrebbe distinto quello di sofferenza che comprende soprattutto la risposta emotiva ed affettiva ad una stimolazione dolorosa o anche ad altri eventi quali paura, minaccia e presentimenti.

Da un punto di vista anatomo-fisiologico il sistema algico può essere definito come un sistema neuro-ormonale complesso, a proiezione diffusa, in cui si possono riconoscere tre sottosistemi (2-5):

1. un sistema afferenziale che conduce gli impulsi nocicettivi dalla periferia ai centri superiori;

2. un sistema di riconoscimento che "decodifica" e interpreta l'informazione valutandone la pericolosità e predisponendo la strategia della risposta motoria, neurovegetativa, endocrina e psicoemotiva;

3. un sistema di "modulazione" e controllo che provvede ad inviare impulsi inibitori al midollo spinale allo scopo di ridurre la potenza degli impulsi nocicettivi afferenti.

I sottosistemi 1 e 2 costituiscono il sistema "nocicettivo", il 3 il sistema antinocicettivo. Questa suddivisione funzionale trova una diretta corrispondenza nella terapia antalgica che può appunto realizzarsi in due modi fondamentali: interrompendo le vie del sistema nocicettivo ovvero rinforzando il sistema antinocicettivo

Le strutture nervose che costituiscono il sistema nocicettivo "afferente" comprendono:

� I recettori: terminazioni nervose libere in grado di rispondere a vari tipi di stimolazione: termica, pressoria, variazione di pH, riduzione della tensione di O2, contatto con sostanze algogene liberate da tessuti lesi (potassio, istamina, serotonina, prostaglandine), provenienti dal circolo sanguigno, (bradichinine) o dalle stesse terminazioni nervose, come la sostanza P che, possedendo varie attività biologiche (vasodilatazione, chemiotassi per i leucociti, degranulazione dei mastociti), trasforma i recettori in veri e propri "neuroeffettori".

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� Il neurone primario afferente sensoriale: ha la cellula di origine posta nel ganglio spinale e due assoni di cui uno si dirige in senso centrifugo terminando con un recettore nelle strutture tessutali periferiche (cute, strutture somatiche e viscerali) e uno si dirige in senso centripeto raggiungendo il corno posteriore del midollo spinale.

Le fibre afferenti primarie in grado di condurre lo stimolo dolorifico sono di due tipi: fibre mieliniche di piccolo diametro (A-d) che conducono ad una velocità di 10-30 m/sec. sensazioni dolorose di tipo puntorio, ben localizzate e con la stessa durata dello stimolo applicato (dolore "epicritico"), e fibre amieliniche di piccolo diametro ( C ), con velocità di conduzione di 1-10 m/sec. responsabili della trasmissione di dolore poco localizzato, di tipo "urente", e che ha una durata maggiore dell'applicazione dello stimolo stesso (dolore "protopatico"). Il dolore viscerale profondo e riferito ha caratteristiche simili a quelle del dolore "protopatico" piuttosto che di quello "epicritico".

� Le corna dorsali: i neuroni delle corna posteriori che contraggono sinapsi con gli assoni provenienti dai neuroni dei gangli spinali, si organizzano in una serie di "lamine" sulla base della morfologia e della disposizione delle cellule stesse: in tal modo l'informazione nocicettiva viene sottoposta ad una prima elaborazione grazie alla modulazione (equilibrio fra azione eccitatoria ed inibitoria) fornita dai vari neurotrasmettitori (sostanza P, colecistochinina, somatostatina).

E' importante ricordare che sui neuroni spinali convergono input provenienti sia dalla cute che dai visceri profondi, per cui, grazie tale convergenza, si realizza il cosiddetto "dolore riferito": in tal modo l'attività indotta nei neuroni spinali da stimoli provenienti da strutture profonde viene erroneamente riferita in un'area che è grossomodo sovrapponibile alla regione cutanea innervata dal medesimo segmento spinale.

� Il sistema spino-talamico e talamo-corticale: il sistema spino-talamico può essere concettualmente diviso in una parte diretta, che trasmette l'informazione sensitiva discriminativa del dolore a livelli talamici, e una parte spino-reticolo-talamica, filogeneticamente più antica, che termina più diffusamente nei nuclei reticolari del tronco encefalico. Il sistema spino-talamico diretto è importante per la percezione cosciente delle sensazioni nocicettive e termina ordinatamente entro il nucleo ventro-postero-laterale del talamo (VPL) ove afferiscono anche le vie nervose provenienti dalle colonne dorsali che trasmettono la sensibilità tattile superficiale e la sensazione articolare: ciò consente di discriminare aspetti sensitivi del dolore in merito alla sua localizzazione, natura ed intensità.

A loro volta le cellule del VPL proiettano alla corteccia somato-sensoriale primaria (1^ e 2^ area somato-sensitiva della corteccia parietale). Il sistema spino-reticolo-talamico lungo il suo decorso ascendente invia collaterali ai nuclei della sostanza reticolare bulbo-mesencefalica formando parte di un sistema polisinaptico che termina nei nuclei talamici mediali: questo sistema polisinaptico può mediare alcuni aspetti delle reazioni autonomiche e affettive

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del dolore (p. es. reazione di allerta e di orientamento agli stimoli dolorosi), mentre non sembra importante per la discriminazione e la localizzazione sensoriale. Ricordiamo infine che dal sistema limbico afferiscono al talamo neuroni provenienti dall'amigdala e dall'ippocampo: queste connessioni e le loro implicazioni funzionali sono importanti per il tono cognitivo e psicoemotivo che viene impresso all'evento dolore.

Il sistema di modulazione "antinocicettivo" comprende impulsi discendenti provenienti dalla corteccia frontale e dall'ipotalamo che vanno ad attivare neuroni mesencefalici e del bulbo.

Numerose prove testimoniano che questo sistema di modulazione contribuisce all'effetto analgesico dei farmaci oppioidi, in quanto sono presenti recettori per gli oppioidi stessi; inoltre, i nuclei che compongono il sistema di modulazione del dolore contengono peptidi endogeni, come le endorfine.

Le condizioni in grado di attivare questo sistema di modulazione in modo più costante sono il dolore e/o la paura che persistono per un periodo prolungato ed infatti è stato dimostrato che sostanze endogene analgesiche vengono rilasciate a seguito di interventi chirurgici.

La modulazione del dolore è a doppio senso e quindi si può avere sia produzione di analgesia, sia intensificazione della sensazione dolorosa; infatti è esperienza comune come stati psicologici particolari (stress e depressione) siano in grado di automantenere le sensazioni dolorose croniche.

Lo stress è un fattore di importante variazione della percezione del dolore secondo un processo "bifasico" che registra un innalzamento della soglia (Analgesia da Stress - Stress Induced Analgesia, SIA), seguito, con perdurare nel tempo della stimolazione, da un abbassamento a livello patologico, ovvero di gran lunga minore del livello primitivo o di controllo. In questa seconda fase possono essere coinvolti diversi peptidi come l'1-24 ACTH e la colecistochinina (CCK) che assume il ruolo di "naloxone endogeno" (6, 7).

Per quanto riguarda la depressione, è tuttora controverso il significato della sua concomitanza con il dolore, per cui se in alcuni pazienti i disturbi depressivi sembrano essere solo secondari all'insorgenza del dolore, in altri il dolore rappresenta una dei sintomi di depressione endogena.

Molti aspetti neurochimici sembrano comunque accomunare dolore e depressione: il sistema monoaminergico, nella sua componente serotoninergica, gioca un ruolo rilevante nella modulazione endogena del dolore in quanto una sua diminuzione (a vantaggio della componente noradrenergica), è in grado di aumentare la sensibilità e la reattività allo stimolo nocicettivo, di diminuire la risposta analgesica agli oppiacei esogeni e di evocare sintomi di tipo depressivo (4, 5, 8-11).

Gli antidepressivi triciclici, cui va riconosciuta una particolare efficacia teapeutica nei due quadri, agirebbero diminuendo l'attività noradrenergica ed

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aumentando quella serotoninergica. Nel paziente anziano tutta questa problematica appare ancor più importante, se si considera che fattori psico-sociali, con il conseguente stato di stress cronico, possono interagire con il processo di invecchiamento cerebrale che sembra alterare la trasmissione serotoninergica.

Classificazione del dolore

Una prima suddivisione del dolore (12, 13), tiene conto del tempo di insorgenza, per cui si riconosce un dolore acuto, che di solito ha una causa facilmente identificabile e che si associa ad uno stato emotivo di tipo ansioso con attivazione del sistema simpatico, e un dolore cronico, che ha durata maggiore di sei mesi. Diversamente da quello acuto, il dolore cronico perde la sua funzione biologica di adattamento e, specialmente in età geriatrica, si accompagna facilmente a depressione.

Il dolore cronico può essere suddiviso in nocicettivo (proporzionato alla continua attivazione delle fibre nervose della sensibilità dolorifica), neurogeno, (causato da un processo patologico organico interessante le vie nervose afferenti) e psicogeno.

Il dolore di tipo nocicettivo può essere sia somatico che viscerale e nel paziente anziano la maggior parte dei dolori cronici è di tipo nocicettivo somatico (p. es. artrite, cancro, dolore muscolo-fasciale): in questo caso per alleviare il dolore bisogno rimuovere la causa periferica (p. es. riduzione della flogosi), mentre solo in un secondo momento si potrà ricorrere all'interruzione delle vie nervose afferenti.

Il dolore da neuropatia deriva da un danno diretto alle vie nervose centrali e/o periferiche causato da patologie molto frequenti in età geriatrica come per esempio il diabete e l'herpes zoster.

Esso ha un carattere urente, tipo "scossa elettrica" o "formicolio" e può essere scatenato anche soltanto da una lieve stimolazione tattile. I meccanismi del dolore da neuropatia sono di vario tipo: le fibre afferenti primarie interessate da una lesione, inclusi i nocicettori, divengono estremamente sensibili alla stimolazione meccanica e iniziano a generare impulsi anche in assenza di stimolazione, attivandosi spontaneamente.

La successiva elaborazione delle informazioni a livello del SNC può persistere anche in assenza di un'attivazione continua delle fibre nervose sensitive e ciò sta alla base della cosiddetta sindrome da deafferentazione, tipica del dolore da arto fantasma. Le fibre nervose sensitive lese possono anche sviluppare una ipersensibilità alla noradrenalina rilasciata da neuroni simpatici post-gangliari e ciò determina un dolore urente o di tipo "bruciore" o "pugnalata" poco sensibile ai farmaci analgesici, ma che risponde elettivamente al blocco del sistema

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simpatico; questo dolore si manifesta con una latenza di ore, giorni o anche settimane rispetto all'applicazione del danno nervoso (causato da fratture ossee, traumi dei tessuti molli, infarto miocardico), e si accompagna a tumefazione delle estremità, osteoporosi nelle aree periarticolari e modificazioni artrosiche delle articolazioni distali (distrofia simpatica riflessa).

Il dolore psicogeno si presenta con intensità ed invalidità sproporzionate rispetto alla causa somatica identificabile ed è correlato ad una tendenza più profonda al comportamento anomalo da malattia (sindrome dolorosa cronica di origine non neoplastica). Alcuni di questi pazienti non presentano alcuna malattia organica ed i loro disturbi possono pertanto essere classificati fra le cosiddette forme di somatizzazione.

Le definizioni sopra riportate sono riassunte nella seguente tabella.

TABELLA - Classificazione del dolore.

Acuto: causa facilmente identificabile, stato ansioso associato, attivazione del sistema simpatico.

Cronico: durata maggiore di sei mesi, perdita della funzione biologica di adattamento, associato facilmente a depressione.

Nocicettivo: proporzionato alla continua attivazione delle fibre nervose della sensibilità

dolorifica, può essere somatico o viscerale.

Neurogeno: dovuto a processo patologico organico interessante le vie nervose afferenti.

Psicogeno: intensità e invalidità sproporzionate alla causa somatica supposta responsabile.

Le alterazioni della sensibilità dolorifica in età geriatrica: esiste una "presbialgia"?

Per capire se con l'invecchiamento si determinano delle alterazioni della percezione e dell'elaborazione del dolore, al pari di altre perdite di funzione, dobbiamo valutare i seguenti "punti focali":

1. effetti dell'invecchiamento sul dolore "acuto": analisi dei risultati sperimentali, aspetti fisiopatologici della percezione "atipica" di eventi dolorosi acuti di particolare rilevanza clinica;

2. effetti dell'invecchiamento sul dolore "cronico";

3. influenza del deficit cognitivo sulla percezione del dolore.

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1. Invecchiamento e dolore acuto

Il dolore acuto può essere sperimentalmente riprodotto e ciò comporta teoricamente un'oggettiva analisi dei rapporti tra la percezione del dolore e l'invecchiamento. Gli studi sperimentali che si sono succeduti fin dagli anni '40 si sono avvalsi per la maggior parte di stimolazioni termiche ed elettriche; in qualche caso si sono analizzate le sensazioni dolorose da pinzamento del tendine achilleo o da stimolazione elettrica dentaria.

I parametri presi in considerazione sono stati:

� la soglia del dolore, cioè la minima quantità di stimolazione per cui il soggetto dichiara verbalmente di provare dolore;

� la soglia comportamentale al dolore, definita come la minima stimolazione sufficiente a provocare la contrazione del muscolo orbicolare dell'occhio;

� la soglia della tolleranza al dolore, cioè la minima quantità di stimolazione che provoca nel soggetto un dolore di intensità tale da non poter essere più ulteriormente sopportato.

I risultati degli studi sperimentali che hanno valutato le variazioni età dipendenti della soglia del dolore sono contrastanti, in quanto sono stati riscontrati sia aumento (14-17) che assenza di modificazioni (18-19) dei parametri considerati.

Analoghi, contrastanti risultati si sono ottenuti analizzando la soglia comportamentale del dolore (15-18), mentre per quanto riguarda la soglia di tolleranza al dolore sembra esservi una diminuzione con l'avanzare dell'età accompagnata da un minimo aumento del tempo in cui si manifesta lo stesso fenomeno, rilevabile però solo nei soggetti di sesso femminile (20-21).

Questi dati sperimentali così contradditori possono essere stati determinati da varie condizioni. In primo luogo, la quasi totalità degli studi sperimentali analizzava il dolore superficiale evocato da brevi stimolazioni cutanee: non è chiaro come cambiamenti, correlati all'età, di questo tipo di dolore dovuto alla stimolazione di fibre afferenti di tipo A-d, correli con il dolore clinicamente più rilevante (viscerale e profondo), mediato da fibre amieliniche di tipo C.

In secondo luogo, mancano in letteratura studi longitudinali sull'effetto dell'età sulla percezione del dolore, per cui i dati disponibili derivano da studi trasversali che, come tali, introducono potenziali bias (drop out di selezione, effetto coorte, precedente storia di dolore). Dobbiamo infine tenere presente che i parametri "soglia del dolore" e "tolleranza" sono assai poco collegabili al dolore acuto della pratica clinica o al dolore cronico, tanto è vero che entrambi i parametri non sembrano essere influenzati dai trattamenti analgesici.

Rifacendoci alla definizione fisio-patologica di "dolore", è logico attendersi che sulla sua percezione vadano ad interagire fattori emozionali e cognitivi

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particolari: è esperienza comune il fatto che un intervento chirurgico d'urgenza (specie se seguito da prolungata immobilizzazione) determina un'apparente diminuzione della soglia del dolore negli anziani e contemporaneamente può causare episodi di "delirium".

E' stato dimostrato che nei soggetti anziani sottoposti ad intervento per frattura dell'anca il contesto e la natura dell'esperienza influenzano grandemente le percezioni dolorose, ed il dolore acuto ed il comportamento delirante sono molto meno frequenti nei soggetti che hanno potuto ricevere un'adeguata informazione sulle procedure, ovviamente a parità di condizioni cliniche pre- e post-operatorie (22).

Ciò che ha una particolare rilevanza nell'analisi della fisiopatologia del dolore acuto è invece la presentazione spesso atipica dello stesso in alcune gravi condizioni patologiche: è assodato che l'infarto miocardico silente è più frequente nei vecchi che nei giovani (23-25), e la malattia ulcerosa anche complicata è frequentemente priva di sintomatologia dolorosa nei pazienti di età geriatrica (26-27).

La sensazione dolorosa in queste patologie viscerali acute origina quando vengono raggiunti livelli sufficienti di impulsi afferenti e quando si ha un'appropriata attivazione delle vie centrali ascendenti (28).

Negli anziani asintomatici questi livelli di stimolazione potrebbero non essere raggiunti, a causa di una insufficiente stimolazione tessutale o di una diminuita capacità di trasmissione cefalica, e ciò può essere all'origine di una supposta "ipoalgesia" del paziente anziano (29).

Tuttavia questi dati non tengono conto del fatto che con l'invecchiamento si ha un aumento dell'incidenza e della prevalenza di angina da sforzo (30-31) e che in giovani adulti si verificano frequenti episodi di ischemia silente (con depressione del tratto ST) indotta da stress (32).

Una possibile conclusione è che l'invecchiamento "di per sé" non diminuisca o alteri il sistema complesso coinvolto nella trasmissione e nell'elaborazione del dolore acuto rilevabile clinicamente anche se, in mancanza di dati sperimentali che correlino

il dolore atipico con quello superficiale indotto sperimentalmente, è del tutto giustificato e prudente considerare la presentazione dolorosa atipica come manifestazione di malattia acuta dell'anziano.

2. Invecchiamento e dolore cronico.

Numerosi studi epidemiologici sembrano indicare che il dolore acuto, di recente insorgenza, diminuisca con l'avanzare dell'età mentre aumenti quello di non recente osservazione (11, 31).

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Più precisamente, le visite per dolore di recente insorgenza raggiungono un picco tra la prima e la seconda metà della 5^ decade di vita, mentre le visite ambulatoriali per dolore cronico aumentano linearmente fino ai 65 anni per poi decrescere leggermente dai 65 anni in avanti (32).

E' interessante notare come le condizioni cliniche che più frequentemente determinano dolore cronico nell'età giovane-adulta (emicrania, cefalea, cefalea muscolo-tensiva, malattia ulcerosa, dolore addominale, dolore dorsale) diminuiscano nell'età avanzata, mentre aumentino quelle associate a processi degenerativi muscolo-scheletrici, alle fratture ossee, al sistema cardiovascolare ed all'herpes zoster (11, 33).

Il dolore cronico e la disabilità conseguente sono fra le cause più importanti di scadente qualità di vita, ridotto benessere e depressione nei pazienti anziani (34, 35). Inoltre, in uno studio condotto su 1306 anziani istituzionalizzati, è stato condotto come il dolore cronico muscolo-scheletrico costituisca un importante fattore di disabilità (36).

Per quanto riguarda il dolore neoplastico, non sembrano emergere significative differenze per intensità e possibile presenza di dolore di tipo neuropatico o acuto incidentale nelle diverse classi d'età; gli anziani tuttavia, come recentemente messo in luce, sembrano richiedere minori quantitativi di oppioidi, definiti come MEDD, cioè [(parenteral) morphine equivalent daily dose (MEDD)], rispetto ai pazienti giovani-adulti per ottenere l'analgesia (37).

3. Influenza del deficit cognitivo sulla percezione del dolore.

I deficit cognitivi dipendenti da varie affezioni del SNC (demenza di Alzheimer, demenza multi-infartuale, morbo di Parkinson, ecc..), aumentano considerevolmente con l'avanzare dell'età (38), tanto che il rischio di sviluppare una demenza sembra raddoppiare ogni 5 anni dopo i 65 anni (39).

Nonostante che demenza e dolore cronico siano molto frequenti in età geriatrica, allo stato attuale non si hanno dati sufficienti in letteratura sulla prevalenza, la definizione delle caratteristiche peculiari ed il management del dolore negli anziani dementi.

Probabilmente, la causa di questa situazione è da ricercarsi nella difficoltà di valutare oggettivamente, con appropriati test, il dolore riportato dai pazienti con deficit cognitivo, per cui solo pochi studi in letteratura esaminano la prevalenza del dolore come funzione dello stato cognitivo.

Ferrel esaminò la prevalenza di sintomatologia dolorosa cronica in 217 pazienti istituzionalizzati con un punteggio medio al Mini Mental State Examination Test (MMSE), di 12.1 (indicativo di grave deterioramento cognitivo), registrando che circa il 60% dei pazienti accusavano dolore cronico di tipo osteo-articolare, in rapporto ad una diagnosi certa di osteoartrite nel 70% degli stessi (40). Marzinski riscontrò che il 43.3% dei ricoverati di uno speciale reparto per

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malati di Alzheimer riferivano ed avevano condizioni potenzialmente algogene (41).

Quindi, non v'è ragione per credere che con la demenza non si manifestino le condizioni dolorose e non si attivino conseguentemente le vie afferenti sensoriali.

Tuttavia, è stato chiaramente dimostrato che la percentuale di pazienti dementi che esprimono almeno un dolore cronico diminuisce con l'aumentare del deficit cognitivo, anche dopo avere controllato la disabilità fisica (42), per cui è più probabile che il dolore riferito da pazienti dementi sia in verità sottostimato.

E' ovvio che la principale difficoltà che si incontra nella valutazione della presenza di sintomatologia dolorosa nei pazienti con deficit cognitivo è rappresentata dal deficit di espressione verbale.

Quindi è necessario sostituire tale modalità espressiva con altre, altrettanto significative: per esempio, la presenza di un familiare attento può essere indispensabile per la registrazione di tutte le manifestazioni che siano potenziali indicatori di dolore fisico. Infatti la valutazione del dolore mediante indicatori non verbali (espressione del viso, atteggiamenti motori generali) è ben documentata per pazienti con stato cognitivo integro e sembra conservare la propria validità anche nei pazienti con grado molto avanzato di decadimento cognitivo e di immobilizzazione (43).

In tal senso altri Autori hanno concentrato i loro sforzi per la strutturazione di una scala di valutazione del disagio facilmente applicabile anche a pazienti affetti da demenza; tale scala potrebbe essere facilmente applicata dagli abituali "caregivers" e analizza varie aree: respirazione difficoltosa, assenza di reazione verbale, impossibilità di essere tranquillizzato, atteggiamento di paura o di tristezza, espressione corrucciata, ipertono muscolare in diverse posture, irrequietezza, tensione (44, 45).

Conclusioni

Da quanto sopra esposto possiamo trarre le seguenti conclusioni:

Ø i dati della letteratura non sembrano indicare un sicuro effetto dell'invecchiamento sulla percezione del dolore acuto, sperimentalmente indotto, almeno per quanto attiene al soggetto "young old", rispetto a quello di età giovane-adulta.

Non esistono allo stato attuale studi sistematici che affrontino il problema nel soggetto "old-old" o affetto da polipatologie ("frail elderly"). La mancanza di studi longitudinali limita ancor più le nostre consoscenze sull'argomento;

Ø le sensazioni nocicettive acute provenienti da strutture profonde sono ridotte nel paziente anziano, ma nel contempo appare aumentata la frequenza del

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dolore cronico proveniente dalle stesse strutture (per esempio alta frequenza di infarto miocardico acuto silente ed aumento dell'incidenza di angina da sforzo);

Ø l'intensità e la frequenza del dolore cronico sembrano aumentare con l'età;

Ø le differenze età dipendenti nella percezione del dolore non sono probabilmente espressione di un danno recettoriale (come nella presbiacusia), o di un'alterata accomodazione dello stimolo (presbiopia), ma sono conseguenza di un processo più complesso che coinvolge le vie nervose di trasmissione, le valutazioni e rappresentazioni cognitive, lo stato sociale e la storia stessa di dolore;

Ø non vi è ragione per ritenere che i soggetti anziani affetti da decadimento cognitivo siano meno a rischio di avere condizioni patologiche dolorose rispetto ai soggetti di pari età non dementi.

E' piuttosto da ritenere che i pazienti con demenza non siano in grado di esprimere le proprie sensazioni dolorose, per cui è necessario sostituire la registrazione delle modalità espressive verbali con altre, altrettanto significative (espressione del viso, respirazione difficoltosa, ipertono muscolare, irrequietezza, ecc..).

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EDITORIALE

Dolore cronico e psicogeriatria

Chronic pain and psychogeriatrics

Ennio Cocco

Servizio Universitario di Psicogeriatria, Losanna (CH)

Divisione di Psichiatria, Ospedale S. Gerardo, Monza

Introduzione

Le ragioni di un interesse per il problema del dolore cronico in psicogeriatria hanno a che vedere sia con dimensioni di tipo teorico e dottrinario sia con aspetti di tipo epidemiologico e medico-sociale.

Sul piano dottrinario, entrato definitivamente in crisi il pregiudizio di un declino "parafisiologico" della sensibilità nocicettiva nella tarda età, pregiudizio che si basava su una indebita analogia con quanto osservato per altre sensibilità (vista, udito, vibrestesia eccetera), ha acquisito rilevanza crescente per i ricercatori il problema - multidisciplinare - delle specifiche modalità di percezione e di integrazione del dolore nel paziente anziano, in relazione non solo con le differenti patologie, ma anche con gli specifici stati di disabilità funzionale che ne possono conseguire e con i possibili correlati di tipo psicosociale, tra i quali va sicuramente menzionato il contesto assistenziale di cura.

Se si vuole, il noto schema dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che invita a distinguere, per ogni entità nosografica, quattro differenti livelli di impatto con la salute della persona (malattia o disturbo, danno o menomazione, disabilità e handicap) trova nel campo del dolore in psicogeriatria un'applicazione particolarmente convincente.

D'altro lato, in una prospettiva di sanità pubblica (come usa dire oggigiorno con espressione forse un po' inflazionata) il fatto che il problema del dolore cronico giochi, come sarà detto oltre, un ruolo di rilievo nelle due principali patologie psicogeriatriche, la demenza e la depressione, comporta conseguentemente un suo impatto estremamente rilevante sul piano epidemiologico.

Si tenga conto del fatto che, non solo a causa del noto trend demografico, ma anche della differente velocità di progressione delle conoscenze in altri terreni

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della medicina (quali l'oncologia e la chirurgia vascolare) il peso della psicogeriatria, e della dementologia in particolare, nell'ambito delle cure palliative diventerà nel prossimo futuro preponderante.

Con dementologia non ci si vuole riferire tanto all'oggetto scientifico di -più o meno raffinate- diagnosi differenziali da parte dei cultori di neuroscienze, ma piuttosto a quella sorta di terra di nessuno rappresentata dalle diverse forme decadimento cognitivo (di "incompetenza ecologica") quali si incontrano nella every day life dei medici e degli operatori sanitari, ove il quadro clinico neuropsicologico "puro" è complicato molto spesso da sintomi strettamente psichiatrici, da episodi confusionali acuti intercorrenti, da comorbilità organica e da conseguente polifarmacoterapia, da problematiche sociali quasi sempre sottovalutate (i cosiddetti unreported needs della letteratura anglosassone), tra cui va menzionata innanzitutto la solitudine al domicilio.

Una terra di nessuno che perde via via i connotati rigorosi della scientificità per assumere quelli molto meno definiti del "declino di vita aspecifico medicalizzato" che nella storia della medicina geriatrica ha preso tanti nomi, dalle diagnosi-cestino (come sono state autorevolmente chiamate) quali marasma senile o arteriosclerosi cerebrale, a definizioni più recenti e più eleganti ma egualmente vaghe come quella di "sindrome di scivolamento - glissement" dei geriatri di scuola franco-svizzera.

Aspetti clinici

E nell'area psicogeriatrica o meglio nell'ambito delle due patologie chiave di questa area, la demenza e la depressione, il dolore cronico nonmalignant, quale che ne sia l'esatta origine (del resto non di rado poco definibile) rappresenta un elemento clinico di capitale importanza.

Per lungo tempo la attitudine rinunciataria nei confronti della demenza ha portato a trascurare una clinica adeguata al di là di specifici e isolati motivi di interesse scientifico neuropsicologico.

Ci si limitava ad assumere, abbastanza apoditticamente, che il demente, in quanto compromesso sul piano della capacità di integrare le informazioni, non fosse in grado di sperimentare il dolore.

Conseguenza ancora attuale di questa sottovalutazione del problema è che, come evidenziano diversi contributi della letteratura gerontologica, una elevata quota di anziani affetti da decadimento cognitivo sperimenta, in particolare nell'ultimo periodo di vita, una sintomatologia dolorosa che rimane non trattata (cfr. Moss MS. Powell Lawton M & Glicksman A. The Role of Pain in the Last Year of Life of Older Persons. Journal of Gerontology 1991; Vol. 46, P51-57).

Questa inadeguata gestione del problema è da ricondurre innanzitutto al mancato riconoscimento della sintomatologia dolorosa stessa, dovuto tanto alla

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incapacità del paziente demente a segnalarla quanto alla incapacità del medico e dello staff di cura a riconoscerla.

A tale insufficiente detection si aggiungono poi altri fattori quali la riluttanza a somministrare antidolorifici a soggetti spesso in precarie condizioni generali di salute e la insufficiente formazione degli operatori sanitari alla gestione del dolore cronico.

E' probabile che molti pazienti affetti da demenza in stadio molto avanzato (equivalente al grado 7d, 7e e 7f della scala FAST - Functional Assessment Staging- di Barry Reisberg) concludano la loro vita in condizioni di dyscomfort estremo, conseguente a una sintomatologia a tipo dolore cronico non oncologico importante che essi non sono in grado di segnalare (se non indirettamente attraverso manifestazioni di agitazione psicomotoria, grida, eccetera) e che perciò non viene adeguatamenta trattata. Per dare un'idea delle dimensioni epidemiologiche del problema, si consideri che nelle istituzioni geriatriche residenziali dal 50% al 75% degli anziani ricoverati è affetto da demenza.

Il discorso non perde certo di spessore passando alla seconda area cardine della psicogeriatria, e cioé la depressione, che interessa (includendo la famigerata distimia) circa il 10-15% della popolazione generale degli ultrasessantacinquenni. Se ci si concentra sugli anziani istituzionalizzati, tale percentuale sale, secondo le stime di prevalenza più prudenti, ad almeno il 30%.

La relazione dolore-depressione nell'anziano è complessa per almeno tre distinti motivi. Innanzitutto perché il depresso avverte di più il dolore. Occorre precisare che il depresso avverte di più il dolore reale, non si tratta di banale "lamentosità" come molti clinici psichiatri ancora oggi credono (cfr. Parmelee PA, Katz IR & Powell Lawton M. The relation of pain to depression among instituzionalized aged. Journal of Gerontology, 1991; Vol 46, 15-21).

In secondo luogo perché una depressione può manifestarsi, nell'adulto e ancora di più nell'anziano, esclusivamente attraverso una sintomatologia dolorosa, ciò che ha portato recentemente a rivalutare il vecchio concetto di depressione mascherata. Dunque un dolore cronico - da non ritenersi fittizio - può essere considerato l'espressione di una depressione altrimenti silente (alessitimia).

Infine, la presenza di una sintomatologia dolorosa cronica può indurre depressione.

Si tratta dell'inquadramento schematico proposto da Romano & Turner (Chronic pain and depression: does the evidence support a relationship? Psychological Bulletin, 1985; Vol. 97, 18-34) che individuano due grandi categorie di pazienti: coloro per i quali il dolore cronico va considerato un sintomo di depressione (talvolta il solo) e coloro che conseguentemente a un dolore cronico sviluppano una depressione.

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Un ulteriore elemento di complessità e di difficoltà nell'ambito della valutazione e della gestione del paziente anziano che soffre sul piano emotivo-affettivo e che lamenta una sintomatologia dolorosa è rappresentato dalla possibilità, paradossale, che il paziente non segnali o segnali insufficientemente la presenza di dolore a causa di sintomi depressivi quali l'apatia e la sfiducia nella possibilità di ricevere un aiuto (la cosiddetta helplessness), e questo indipendentemente dalla presenza di una comorbilità cognitiva.

Nuovi scenari...per vecchi problemi

Come si può vedere anche solo da questi sommari accenni, quello del dolore in psicogeriatria è un terreno di riflessione tanto complesso sul piano della pratica quanto stimolante sul piano della ricerca (e si sono tralasciati qui diversi altri aspetti clinici, meno rilevanti ma non secondari; tra i tanti, la correlazione tra trattamento analgesico e insorgenza di episodi confusionali acuti).

Terreno tuttavia abbastanza trascurato, se si tiene conto del fatto che, almeno fino all'epoca della review della Cook (Cook AKR, Niven CA & Downs MG.

Assessing the pain of people with cognitive impairment. International Journal of Geriatric Psychiatry 1999; Vol.14, 421-425) non erano disponibili in letteratura studi dedicati alla valutazione delle capacità dello staff di cura di riconoscere la presenza di sintomatologia dolorosa in pazienti deteriorati cognitivamente.

La sottovalutazione del problema sembra essere maggiore, secondo la stessa autrice, a livello dell'ospedale generale, dove la capacità di riconoscere e gestire il dolore è modesta, probabilmente inferiore a quella presente in altri contesti residenziali di cura di tipo lungo-degenziale, dove il contatto prolungato nel tempo con individui affetti da decadimento cognitivo renderebbe i curanti più allenati a riconoscere i pain behaviour.

Una constatazione particolarmente interessante qualora venga fatta cortocircuitare con quelle ricerche (Cocco E. et al, in preparazione) che segnalano come le divisioni di geriatria dell'ospedale generale rappresentino un contesto di elevata esposizione al burnout.

Queste evidenze supportano l'ipotesi di una possibile associazione tra sottoriconoscimento del dolore cronico nei pazienti geriatrici in ospedale generale e insorgenza di burnout negli operatori.

Conclusioni

Se questi dati sul burnout enfatizzano la necessità di prendersi cura di chi cura anche (e forse soprattutto) in geriatria e anche (e forse soprattutto) nell'ospedale generale, nondimeno è chiaro che la sfida del dolore cronico in psicogeriatria si gioca e si giocherà sempre di più sul terreno delle istituzioni lungo-degenziali, nell'ambito di quegli scenari che potremmo chiamare sulla

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scia di Nachemson i luoghi del welfare impossibile (Nachemson AL. Chronic pain: the end of the welfare state? Qual Life Res Supp 1994; 1, 11-117).

Ci si riferisce del tutto genericamente a reparti più o meno speciali di Case di Riposo e R.S.A., quale che ne sia lo statuto (Unità Alzheimer, I.D.R., N.A.P., hospices ecc.), a Istituti di lungodegenza e riabilitazione e ancora a reparti di degenza ospedaliera medica o psichiatrica più o meno surrettiziamente abilitati o autoabilitati ad accogliere cronici.

Si potrebbe dire a tutti quei luoghi deputati ad accogliere ciò che la onnipotenza della medicina scientifica, o se si preferisce la società dalle aspettative crescenti e del diritto alla salute, allontana da sé come ingestibile o antieconomico (assistenziale appunto).

Luoghi deputati a drenare un referral sempre più rappresentato dalla (sempre minore) soglia di tolleranza dei caregivers informali e formali per quanto si configura come "problema" sul piano del comportamento e della gestione del paziente.

In questa situazione di sfida tanto necessaria quanto impossibile (se si accetta, con Jaspers e Gadamer tra gli altri, che è impossibile - in ultima analisi - rispondere al bisogno di salute dell'uomo così come è impossibile fare della morte qualcosa di diverso dall'assoluto negativo del filosofo) la tolleranza e la accettazione del dolore passano (e neanche tanto paradossalmente) attraverso l'impegno a cercare di studiarlo, riconoscerlo e trattarlo adeguatamente.

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Una riflessione sul dolore…

Una riflessione sul dolore fisico prodotto dalla meditazione

Eric Rommeluère

L’apprendimento della meditazione riscopre uno spazio di libertà interiore. Ci si trova - ci si ritrova ? – in uno stato profondo di calma e di tranquillità. Questi stessi termini, infatti, non sono assolutamente adeguati, poiché parlare di calma o di tranquillità rimanda ancora a termini opposti come l’agitazione o la lotta. Nella meditazione si opera una trasformazione dove tutte le opposizioni diventano caduche: non ci si percepisce più come agitato o non agitato e si diventa completamente “a proprio agio”.

Coloro che praticano la meditazione, particolarmente i principianti, tuttavia spesso si confrontano con un altro modo di essere della meditazione dove non si trovano assolutamente a proprio agio. Voglio parlare del dolore. Il soggetto è poco trattato dai praticanti.

Per gli insegnanti, spesso discepoli di uno Zen giapponese dal temperamento marziale, la sofferenza fisica rimane percepita come normale, addirittura come necessaria.

Questa questione del dolore deve pertanto essere chiarita; perché io stesso sono convinto che lo stato di intensa sofferenza fisica che si può alle volte sperimentare ai corsi di meditazione rimane antinomica allo stato tranquillo del samadhi.

Sono stupito che non si parli quasi mai di questa esperienza del dolore.

La letteratura Zen oggi disponibile è immensa, si trovano numerosi manuali di meditazione ma nessuno tratta il vissuto dei praticanti con tutto il suo corteo di difficoltà.

Tutt’al più ci si sofferma sulle allucinazioni che, tutto sommato, non riguardano che poche persone. Ma niente sulla sofferenza fisica.

C’è quasi una disistima del vissuto interiore che non manca di stupirmi. Pertanto chiunque abbia sperimentato dei ritiri Zen nello stile giapponese, per esempio, sa che il dolore è un compagno abituale durante tutte le sedute di meditazione.

Nei numerosi centri Zen occidentali, i praticanti vivono spesso la meditazione come una prova, Per molti, le lunghe serie di meditazioni creano uno stato d’ipersensibilità e di invasione dolorosa dell’essere. Appena si domanda loro di non muoversi, i più fra loro devono venire a patti con la loro sofferenza: per uno, un leggero movimento del corpo, per l’altro un raschiamento di gola.

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Quando si fa troppo pressante, devono inventarsi degli stratagemmi e dei derivativi mentali per ornare il tempo (e smobilitare il dolore). Georges Frey (alias Taikan Jyoji) che visse molti anni nel monastero di Shofukuji a Kobe , lo spiega bene:”Ci sono due possibilità di fuggire le difficoltà durante lo zazen: la prima consiste nel concentrarsi sul koan o la respirazione.

Si dimentica la realtà, si oltrepassa il dolore. Così il tempo passa in fretta. Ma mi è impossibile rimanere concentrato più di una mezz’ora al giorno. Allora pratico la seconda possibilità, quella che consiste nel farsi del cinema mentale.” Lo spirito è allora sul chi vive, preso in un vai e vieni continuo tra posso resistere o non posso resistere?

Si spia il più piccolo rumore che indicherà l’approssimarsi della fine della meditazione. I previdenti prendono degli antidolorifici e altri dei balsami per le articolazioni. Perché ogni praticante lo sa: può fare male!

Non bisogna negoziare con il dolore, bisogna oltrepassarlo, si sente spesso dire. Un discorso ricorrente vuole in effetti che abbia un valore positivo.

Sarebbe addirittura necessario: il dolore permetterebbe una migliore concentrazione anche per eludere le trappole dell’”ego”. Discorso paradossale, poiché il fine del buddismo rimane pur lo sradicamento della sofferenza: soffrendo voi non soffrirete più. Leggiamo il diario di Georges Frey: “Io prendo, la prima sera, la ferma risoluzione di non muovermi più, qualsiasi cosa capiti.

Anche se le mie gambe dovessero staccarsi dal mio corpo, col rischio di crepare sul mio cuscino, io non cambierò di posizione. Così ho modificato il mio approccio al dolore. Non tento più di fuggirlo. Aspetto a piè fermo. E’ il solo mezzo perché la mia meditazione possa approfondirsi. Malgrado la sofferenza, inevitabile, io non mi muovo. Bisogna che io la oltrepassi, senza questo essa avrà sempre l’ultima parola. So che io devi dominare il dolore o restare dominato da lui. Non c’è altra scelta che mettermi in perpetua alta tensione spirituale, di dominare per non essere dominato”.

Dominare per non essere dominato: C’è nello Zen giapponese, una certa cultura della violenza e della virilità. I principianti ne fanno esperienza nei monasteri subendovi, non soltanto i dolori fisici della meditazione, ma anche la sofferenza morale, la frustrazione e l’umiliazione da parte degli anziani.

Se è vero che il dolore modifica il nostro rapporto con il mondo – si potrebbe qualificarlo di sottrazione, sottrazione al proprio essere, alle percezioni – non può condurre allo stato di samadhi. Parlo ben inteso di un dolore totale , invadente, non dei semplici crampi che si sentono talvolta.

La confusione psico-corporale (che cosa è il tempo, che cosa è lo spazio per l’uomo che soffre?) che induce un corpo dolorante è il contrario di uno stato di tranquillità e di appagamento.

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La meditazione ci introduce ad un nuovo rapporto con noi stessi, essenzialmente non violento.

Il dolore, invece, è interamente fatto di violenza. Violenza contro sé, violenza contro altri . Nei numerosi centri, è infatti segno di un obbligo, quello della sottomissione al gruppo.

Un obbligo che s’infligge ma soprattutto, poiché è accettato, che il gruppo infligge: implica il praticante in una relazione interattiva. Il dolore non è solo una sensazione, è prima di tutto significato.

Questo punto è raramente spiegato. Segnando la carne il dolore materializza l’appartenenza dei corpi.

Questa dimensione interpersonale del dolore si rivela nei sesshin (i ritiri Zen alla giapponese) dove di seduta in seduta, questa diventa poco a poco l’esperienza centrale della meditazione. Si dovrebbe scrivere una fenomenologia del sesshin.

Dopo otto –quattordici ore di meditazione quotidiana, per i corpi poco temprati, il sesshin si muta in prova dove il dolore prende quasi un valore iniziatico… La leggerezza o il brio descritti da quelli che escono da uno di tali ritiri sono misurati alle difficoltà che avranno incontrato.

Lo zendo, il dojo, diventano l’arena, il luogo recintato, dove ciascuno, nello stesso tempo testimone ed attore, partecipa ad un dolore collettivo. I limiti tra me e gli altri si dissolvono: Cosa ne può il mio vicino dell’irriducibilità della mia sofferenza, soffre anche lui?

Pertanto alle volte io arrivo a percepire un movimento impercettibile, il suo pianto silenzioso.

Così lontano e così vicino agli altri, ecco tutto il paradosso di questo luogo.

Questa esperienza è simile presso gli Orientali?

Non dimentichiamo che il dolore non è che una semplice reazione fisiologica. Le percezioni, le reazioni, le manifestazioni del dolore si modificano secondo la storia personale, relazionale e culturale.

“Anche se la soglia della sensibilità è simile per l’insieme della società umana, la soglia del dolore alla quale reagisce l’individuo e l’attitudine che adotta da quel momento sono legati essenzialmente al tessuto sociale e culturale”.

Che io sappia, non esiste uno studio comparato sull’esperienza meditativa degli orientali e degli occidentali, ma si può supporre che l’acutezza, la valutazione e l’integrazione del dolore in un contesto giapponese sia molto differente dal nostro.

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Ho citato, per esempio, Georges Frey, svizzero educato in una cultura europea. Se un giapponese soffre altrettanto, quale sarà la percezione del suo proprio dolore? Il fatto stesso che ne scriva (che non impregni semplicemente la sua carne ma ugualmente i suoi discorsi) è significativo, Un giapponese potrebbe solamente parlarne?

Nello Zen estremo-orientale, la rohatsu sesshin occupa una parte particolare. Commemora l’illuminazione del Buddha e dura dal 1° al 8 del dodicesimo mese lunare (oggi dal 1° al 8 di dicembre nel Giappone che adotta il nostro calendario).

E’ praticato in Giappone, in Cina e in Corea. Si tratta di meditare in una maniera quasi ininterrotta per una settimana. Tradizionalmente non si dorme seduti che qualche ora.

Questo sesshin è vissuto dai suoi stessi partecipanti, in base alle testimonianze che si possono leggere qui e là, come una prova fisica intensa dove la privazione del sonno si aggiunge al dolore….

Assomiglia ad un rito di iniziazione: si tratta di morire e di rinascere. Nel monastero giapponese di Tenryuji, il ritiro è spostato per farlo terminare simbolicamente al solstizio d’inverno.

Secondo le parole di Omori Sogen.”On crossing the threshold rebirth of the winter solstice, yin( darkness) turns into yang (light), symbolizing rebirth to one’s original self-nature after one’s experience of Great Death.”. La funzione del sesshin come rito di passaggio, dove la sofferenza fisica e psichica è centrale, appare particolarmente nella scuola Zen Sambo Kyodan fondata da Hakuun Yasutani (1885-1973) .

L’illuminazione sembra il prezzo di questa sofferenza. Del primo sesshin gestito da Yasutani ad Hawaii nel 1962, Eido Stimano, che insegna attualmente lo Zen negli Stati Uniti, riferisce che fu:”Tanto isterico che storico. Esso si caratterizzò per il fatto che Yasutani roshi lo considerò come cinque esperienze di kensho (illuminazione).”Non so da quando esista la pratica di questi ritiri intensivi che sembra tardiva nella storia dello Zen.

Non è menzionata, per esempio, da Dogen.( 1200-1253).

Allora,bisogna fare l’elogio del dolore?

Costringersi, soffrire? Bisogna credere che: ”il dolore non è un fine in sé, ma che obbliga a sforzi di oltrepassare i propri limiti: sforzi necessari per cogliere l’esperienza Zen”; che” le austerità ascetiche Zen sono sempre praticate nel limite delle possibilità umane.

Se dal 1°all’8 dicembre, durante rohatsu, si pratica zazen quasi senza interruzione, è la prova che l’essere umano può non dormire per otto giorni.”

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Non avendo sperimentato il satori, non so se il laceramento interiore provocato dal dolore si confonda o permetta il laceramento dell’illuminazione.

Tuttavia mi sembra chiaramente che ogni dolore grande paralizzi il samadhi.

Il dolore è chiusura.

Ci richiude su noi stessi.

Il corpo non è più quel compagno silenzioso, egli grida, e le sue grida coprono tutti i suoni del mondo. All’opposto la meditazione è tutta in apertura. Il dolore è una prigione, la meditazione è una liberazione.

Non voglio dire che bisogna essere lassisti o diminuire i tempi della meditazione. La vera domanda da porsi è questa: facciamo meditazione o facciamo finta di praticare?

Leggiamo ancora Georges Frey: ”Con la coda dell’’occhio, vedo entrare il Maestro. Ha un corto bastone piatto. Avanza, lentamente, scruta e misura ciascun bonzo come un colonnello che passi in rivista le sue truppe. Noi siamo sull’attenti, nella posizione seduta, facendo finta di essere in samadhi.” Il paragone è da sottolineare.

Per un giapponese, l’addestramento militare e l’addestramento Zen quasi si confondono. Si conoscono le influenze reciproche delle arti marziali e dello Zen. Il bushido, la via del guerriero, è stato considerato come uno Zen in azione. D’altronde lo Zen giapponese non è un’arte marziale dove si combatte, non un nemico esterno, ma un demone interiore: Mara.

In questo contesto, l’abnegazione fu reinterpretata in misura della vacuità. Vincere è essenziale: “Durante la meditazione della sera, ieri, soffrivo talmente da avere le lacrime agli occhi. Dolore, freddo e fatica sono le tre cose che mi prostrano.

Non sono ancora capace di superarle, malgrado i progressi che ho fatto nel mio zazen. Quanti sforzi per così poca realizzazione! Se il mio desiderio di vincere queste difficoltà è incrollabile, allora posso riuscire. Dare il meglio di me stesso tutto il tempo, ecco il mio scopo, ma come è difficile!

Non lasciarmi mai abbattere è essenziale, sempre volere vincere, senza pensare ad altra cosa che concentrarmi sul koan.”

E’ questo lo Zen che bisogna praticare? Io credo in un altro modo di imparare la meditazione, in una maniera non violenta, quasi femminile,rispettosa del proprio corpo, all’opposto della meditazione virile dello Zen giapponese. Non c’è niente da vincere nella meditazione.

I praticanti non hanno record da battere. In alcuni centri Zen, la meditazione diventa l’oggetto di una competizione invisibile (contro di sé, contro gli altri):

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bisogna resistere! Per molti disincrociare le gambe a pochi minuti dal fatidico gong, sarà vissuto come uno smacco.

Pertanto ogni persona ha la sua propria storia corporale. Io rimango persuaso che ognuno può e deve imparare a gestire la propria meditazione, non confondersi in un modello ieratico dove la serenità non sarà che apparente.

Ciò non vuole dire che bisogna smettere di meditare al minimo crampo, si tratta piuttosto di imparare a gestire le proprie difficoltà. Lo sforzo necessario deve trovare il suo giusto mezzo.

Lo Zen coreano propone un modello di gestione del dolore originale che potrebbe essere ripreso. Proprio come in Giappone, i monaci coreani meditano molto. Per loro, l’anno è diviso in quattro periodi di tre mesi, due ritiri formali e due periodi intermedi. Durante i ritiri, il programma quotidiano comprende generalmente 14 ore di meditazione in blocchi di 3 ore dove alternano 50 minuti di meditazione seduta seguita da 10 minuti di meditazione in piedi. Nei periodi intermedi si pratica un po’ meno “a piacere”.

Ciò significa che durante ogni blocco di tre ore, ciascuno è libero di gestire la propria meditazione a suo piacimento. Le tre ore non sono rigidamente codificate tutte le volte, ciascuno può praticare alternativamente le meditazione sedute e in piedi con il suo proprio ritmo.

Si può anche uscire dopo una mezz’ora di meditazione seduta e praticare un’ora di meditazione in piedi. Vi è là un’astuta combinazione tra una pratica rigorosa e ciò nonostante adattata alle possibilità di ognuno.

Non è neanche il caso di dirlo che questo metodo più flessibile ha la preferenza dei monaci. Esiste una tradizione orale nello Zen Soto giapponese: all’epoca di Dogen si poteva praticare la meditazione in piedi” a piacere “, quando lo si desiderava. Bastava alzarsi dal proprio posto di meditazione. Ma non ho trovato dei testi dell’epoca che confermino questa tradizione.

Nel mio gruppo ho scelto di diminuire la durata dei periodi di meditazione. Non più 40( come in Giappone ) ma 30 minuti.

Questo non è anodino. Per molti occidentali la soglia del difficilmente sopportabile o dell’insopportabile si colloca intorno ai 30 minuti.

E’ meglio fare una sequenza composta di tre volte 30 minuti di meditazione seduta intervallata da qualche minuto di meditazione “in cammino” che permette di entrare in uno stato di profonda concentrazione senza essere disturbato dai dolori fisici, piuttosto che fare due volte 40 o 45 minuti di meditazione seduta.

Le soglie del dolore non sono universali.

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In una stanza di meditazione, ogni violenza contro di sé o di un altro deve essere proibita. Ho scelto di animare le sedute di meditazione nel modo con cui praticava il monaco Ryotan Tokuda durante i primi anni del suo soggiorno in Francia: Sto faccia al muro come qualsiasi altro, non mi alzo, non utilizzo il bastone e non parlo.

Si tratta per me di rispettare totalmente lo spazio meditativo di ciascuno. Non imporre nulla,non sovrimporre nulla, non immischiarsi in questo spazio. In cinque anni di pratica quasi quotidiana con Ryotan Tokuda , io non l’ho visto forse alzarsi che tre o quattro volte durante la meditazione, il più sovente per osservare la postura.

Una volta l’ho sentito alzarsi vicino a me. Ma si era appena alzato che subito si è riseduto. Alla fine della seduta, gli ho chiesto il perché di questo suo comportamento. Egli mi diede questa disarmante risposta:” Quando mi sono alzato mi sono accorto che il pavimento scricchiolava. Ho avuto paura di disturbarvi.”

Queste semplici parole mi hanno sconvolto. Fino ad allora non avevo mai visto o sentito qualcuno reagire in questo modo. Esse mostrano il suo totale rispetto per la meditazione di ciascuno. Questa è diventata per me una linea di condotta . Ben inteso, non si può abbandonare totalmente le persone. Certune hanno delle difficoltà.

Ma bisogna spesso trovare il momento in cui queste potranno accettare e integrare delle osservazioni o delle correzioni. Questo non è per forza nel quadro della meditazione stessa. Correggerli perché corrispondano al modello di una postura ideale, senza tener conto della loro storia corporale o fisica è , al meglio inutile, al peggio nocivo.

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LE TERRIBILI CIFRE RELATIVE AL DOLORE CRONICO

IN EUROPA

Introduzione

Non sono oggi disponibili indagini epidemiologiche esaurienti a livello paneuropeo, in grado di definire la portata del problema del dolore. Un certo numero di ricerche più limitate è tuttavia sufficiente per dimostrare oltre ogni dubbio che in Europa il dolore è uno dei principali problemi sanitari. Benché tutti i tipi di dolore siano importanti, il presente sommario si concentra sul dolore cronico, che rimane uno dei problemi medici meno conosciuti e meno affrontati del ventesimo secolo.

Le statistiche dimostrano il terribile impatto negativo del dolore cronico, evidenziano le dimensioni del problema, compresi i relativi costi economici per la società, e identificano la grave riduzione della qualità della vita dei milioni di persone affette da dolore cronico. Dati i costi associati al dolore cronico e il diritto di chi ne soffre di godere di una qualità della vita ragionevole, è imperativo che la portata del problema del dolore venga riconosciuta e affrontata a livello più ampio.

Diffusione del dolore cronico

L'Associazione internazionale per lo studio del dolore ha definito quest'ultimo "un'esperienza sensoriale o emotiva spiacevole che deriva da un danno reale o potenziale a un tessuto...". Il dolore cronico può essere definito come un dolore che si protrae oltre il normale decorso di una malattia acuta o al di là del tempo di guarigione previsto. Tale dolore può perdurare indefinitamente. Il dolore che non scompare malgrado trattamenti adeguati viene detto dolore non trattabile.

Condizioni tipiche del dolore cronico

�Osteoartrite�

Artrite reumatoide �

Lombalgie e dolori delle spalle e del collo �

Cefalee, compresa l’emicrania �

Dolore neoplastico �

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Sindromi da dolore delle fasce muscolari �

Dolori post-toracotomici �

Dolore neuropatico �

Herpes zoster (fuoco di Sant’Antonio) e nevralgie poste-erpetiche �

Nevralgie del trigemino �

Neuropatia diabetica �

Disturbi dell’articolazione temporo-mandibolare �

Dolori post-mastectomia�

Angina pectoris�

Dolori da arto fantasma.

Incidenza e costi del dolore cronico

Oltre a causare indicibili sofferenze a milioni di pazienti di tutto il mondo, il dolore cronico lacera il tessuto sociale ed economico della nostra cultura. Non esistono a tutt'oggi cifre esaurienti a livello paneuropeo che delineino l'influenza delle varie sindromi da dolore cronico e il relativo costo per la società.

Ricercatori di vari paesi hanno tuttavia iniziato a raccolgiere informazioni sulla sua natura, illustrando l'entità della sofferenza dovuta al dolore cronico. Occorre notare che le cifre variano in funzione della definizione di dolore utilizzata e delle domande specifiche poste alle persone intervistate.

Quadro sinottico dei risultati degli studi disponibili

- In uno studio sulla diffusione del dolore persistente svolto in Danimarca, i ricercatori hanno riscontrato che il 38% circa della popolazione soffre di dolore cronico (Andersen e Worm-Pedersoen 1989).

- Nel 1995, uno studio mirato a quantificare il costo totale del dolore cronico non di origine tumorale per l'economia irlandese ha stimato che un campione di 95 pazienti aveva già comportato un onere di 1,9 milioni di sterline al momento dell'invio a una clinica multidisciplinare di trattamento del dolore (Sheenan et al.1996).

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- Un'indagine epidemiologica svolta in Svezia ha riscontrato che il 45% di tutti gli adulti ha provato forme di dolore ricorrente o persistente e l'8% dolore grave e persistente (von Korff et al. 1990).

- Un'indagine svolta in Gran Bretagna ha rilevato che il 7% di un vasto gruppo di adulti intervistati in un dato momento era soggetto a un livello di dolore rilevante (Bowsher et al. 1991).

- In una recente analisi dei pazienti indirizzati a un centro danese per il trattamento del dolore, quest'ultimo era pari in media a 7 su una scala fino a 10, la qualità della vita risultava gravemente ridotta, il 58% dei pazienti presentava depressione o disturbi ansiosi, il 63% era soggetto a dolori neuropatici e il 73% dei pazienti assumeva derivati dell'oppio al momento dell'ingresso nel centro, benché essi non fornissero un sollievo adeguato dal dolore. Lo studio ha mostrato che la qualità della vita dei pazienti affetti da dolore cronico non di origine tumorale è fra le più basse riscontrate in tutte le condizioni mediche.(Becker et al.1997)

- Il dolore neuropatico (definito in modo classico) affligge tra il 25 e il 50% dei pazienti della maggior parte delle cliniche di trattamento del dolore (Bowsher 1991).

- Nel Regno Unito, iI costi annuali relativi (soltanto) al male di schiena e alla sciatica ammontano attuallmente a 9 miliardi di Euro, mentre 1 miliardo di Euro viene speso ogni anno per l'assistenza sanitaria diretta (Waddell 1996).

- Uno studio svolto nei Paesi Bassi ha rilevato che le patologie muscolo-scheletriche rappresentano la quinta categoria in ordine di costo sotto il profilo dell'assistenza ospedaliera e la più costosa dal punto di vista dell'assenteismo e dell'invalidità lavorativi (1,7% del PIL) (van Tulder et al. 1995).

- Si riscontra dolore nel 50% dei pazienti affetti da tumori (a tutti gli stadi) e nel 75% dei pazienti con neoplasie avanzate. Ogni anno in Inghilterra e nel Galles oltre 100.000 provano dolore al momento del decesso (Higginson 1997).

- Uno studio condotto in Catalogna (Spagna) ha identificato una diffusione del dolore pari al 78,6% in risposta a un'intervista telefonica che richiedeva se si fossero lamentati dolori nei precedenti 6 mesi, indipendentemente dalla loro intensità e durata (Bassols et al. 1999).

- Si stima che nei Paesi Bassi il costo totale del dolore al collo nel 1996 sia stato pari a 686 milioni di dollari USA (Borghouts et al. 1999).

- Un sondaggio effettuato per posta in Svezia ha rilevato che riferiva di avere provato dolore o fastidio, compresi problemi di breve durata, il 66% delle persone coinvolte, mentre il 40% ha dichiarato di avere sofferto di 'chiari' dolori di durata superiore a 6 mesi. (Brattberg et al. 1989).

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Un vasto studio epidemiologico del dolore cronico svolto nella zona di Grampian, in Gran Bretagna, ha riscontrato che il 50% delle persone coinvolte ha dichiarato di provare dolore o fastidio cronici , per il 16% con male di schiena e per il 16% con artrite. Nel 16% dei casi oggetto dell'indagine, il dolore cronico era grave. (Elliott et al. 1999). Per lo studio della diffusione (o dell'incidenza) del male di schiena occorrono metodologie più rigorose, sistematiche e uniformi

- I dati di uno studio svolto in Svezia indicano che il dolore alla colonna vertebrale è molto comune fra gli uomini e le donne di età compresa fra 35 e 45 anni, e che esso è associato a marcate limitazioni dello stile di vita per circa un quarto di coloro che lo provano (Linton et al. 1998).

- Uno studio dei costi socioeconomici delle sindromi da dolore nel Regno Unito stima che il costo per l'assistenza sanitaria diretta sia stato pari nel 1998 a 1,6 miliardi di sterline. Tale costo diretto è tuttavia insignificante rispetto al costo delle cure informali e delle perdite di produzione ad esso associate, il cui ammontare totale è pari a 10,7 miliardi di sterline. Nel complesso, il male di schiena è una fra le condizioni mediche più costose (Maniadakis e Gray A2000).

- Uno studio condotto di recente in Finlandia ha riscontrato che, su un campione di 5646 visite di pazienti ai servizi sanitari di base , il dolore veniva identificato come ragione della visita nel 40% dei casi. Un quinto dei pazienti ha dichiarato di provare dolore da oltre sei mesi. Un quarto dei pazienti in età lavorativa affetti da dolore usufruiva di mutua pagata (Mãntyselk? et al. 2001).

- I risultati di uno studio svolto nei Paesi Bassi indicano che il dolore cronico è anche comune nell'infanzia e nell'adolescenza (Perquin et al. 2000).

L'impatto del dolore cronico, tuttavia, non deve essere esaminato soltanto in termini economici. In Europa, il dolore cronico presenta gravi effetti negativi sulla qualità della vita di milioni di persone che ne soffrono, nonché su quella dei loro familiari. In mancanza di trattamenti adeguati , coloro che soffrono di dolore cronico sono spesso inabili al lavoro o addirittura incapaci di svolgere i compiti più semplici. Di conseguenza, i pazienti affetti da dolore cronico sono spesso soggetti a privazioni psicosociali e fisiche, compresa una nutrizione inadeguata con perdita di peso, una riduzione dell'attività, disturbi del sonno, isolamento sociale, problemi coniugali, disoccupazione e problemi finanziari, ansia, paura e depressione.

Associazione Italiana per lo Studio del Dolore - Tutti i diritti riservati - Young Software 2005

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Friday, April 27, 2007

Controllare il dolore cronico

Promosso dalla sezione milanese di Donneuropee-Federcasalinghe, prenderà il via martedì 24 aprile il ciclo "Percorsi di consapevolezza", sei appuntamenti rivolti in particolare alle socie di Federcasalinghe, volti a sperimentare tecniche di auto-aiuto per controllare il dolore cronico.

L'iniziativa è un ulteriore momento del progetto avviato dall'Associazione nel 2005, quando si è tenuto il primo incontro sul tema del dolore cronico, che ha affrontato il significato di dolore, le dimensioni del problema, le terapie e avviato il dibattito sul diritto di vivere senza dolori inutili . Il secondo appuntamento, lo scorso anno, ha affrontato il tema emicrania, presentandone le diverse manifestazioni patologiche, la componente invalidante, le possibili cause e introducendo le diverse tecniche per sconfiggere o controllare il problema.

I due incontri sono stati condotti da Paolo Mariconti, Dirigente Medico di Anestesia e Terapia del Dolore presso la Fondazione Policlinico IRCCS di Milano, e hanno visto la partecipazione di un rappresentante del Tribunale per i Diritti del Malato, il primo anno, e di un rappresentante dell'Associazione Italiana per la Lotta contro le Cefalee, il secondo.

Anche i 'percorsi di consapevolezza' saranno coordinati e condotti da Paolo Mariconti che guiderà le partecipanti a cercare di aumentare sia la consapevolezza e la sensibilità del proprio corpo, sia quella della propria psiche, per imparare a controllare gli stati emotivi causa di stress (paura, rabbia, ansia, ecc.).

Le tecniche proposte durante gli incontri, inoltre, svolgono un ruolo importante anche per affrontare esigenze quali quella del recupero dopo esercizio fisico intenso e quella di condurre un allenamento mentale in situazioni di semi-immobilità (conseguenti, per esempio, a infortunio o malattia).

"Acquisire maggiore consapevolezza e superare disorientamento e rassegnazione di fronte ad un problema che affligge una gran parte della popolazione", ha affermato Liliana Merlo, Presidente regionale Lombardia di Donneuropee-Federcasalinghe, "è l'obiettivo della nostra iniziativa.

I dati sulla dimensione del problema nel nostro paese sono inquietanti: 12 milioni di pazienti soffrono ogni anno di dolore cronico e quindi occorre affrontare questo problema con un approccio diverso da quello che, fino a poco tempo fa, è stato adottato. Inoltre le donne, da sempre, sono le prime ad occuparsi della salute della famiglia, spesso trascurando la propria.

Oggi, poi, il ruolo sociale della donna è cambiato e sono molte le donne che devono fare i conti con ritmi frenetici derivanti da molteplici impegni, con la conseguenza di un aumento di ansia, di stress e di disturbi correlati. Per

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questo è necessario che i pazienti siano informati sia sulle modalità di manifestazione e trattamento del dolore, sia sul loro diritto ad essere curati per ridurre o controllare il dolore inutile".

Il dolore inutile è quel dolore che non svolge più il suo ruolo primario di campanello d'allarme - segnalando, con il suo manifestarsi, una patologia o avvertendo di un pericolo - ma diventa esso stesso malattia: in pratica, la patologia che colpisce la persona provoca un¹infiammazione che, sensibilizzando i recettori del dolore tanto da farli 'impazzire', arriva a generare automaticamente dolore.

Ed è proprio la sproporzione tra processo patologico e dolore generato che, coinvolgendo anche l¹emotività della persona, fa diventare il dolore talmente imponente da renderlo una malattia.

"Il problema del dolore cronico benigno ha davvero dimensioni preoccupanti: nei paesi occidentali investe almeno il 35,5 per cento della popolazione (fonte: IASP - Associazione internazionale per lo studio del dolore) e mostra una particolare inclinazione per il sesso femminile. I dati della IASP, infatti, evidenziano che il dolore cronico colpisce il 39,6 per cento delle donne contro il 31 per cento degli uomini.

Le stesse percentuali, applicate alla popolazione definiscono un fenomeno che colpisce più di 11 milioni e 600 mila donne, e "solo" 8 milioni e 500 mila uomini", sottolinea Paolo Mariconti.

"Nonostante negli ultimi anni si stia dedicando maggiore attenzione a questo problema sia da parte dei pazienti, sia da parte dei medici, occorre continuare a sensibilizzare medici, pazienti, istituzioni e opinione pubblica su questo problema: sulla formazione di medici del dolore, sulla creazione di reparti dedicati negli ospedali, sul rimborso delle terapie - anche quelle più innovative - e, non meno importante, sull'incidenza del dolore cronico nella popolazione femminile, un dato significativo che richiede una nuova attenzione da parte della ricerca medica e della medicina in generale".

Gli incontri sono aperti al pubblico e si svolgeranno presso il Centro Fitness American Contourella di via Sanzio. Per informazioni sulla partecipazione: Donneuropee Federcasalinghe, telefono 02 76 00 74 33 (lun-ven ore 15.00-18.00). Il numero dei posti disponibili per questo primo ciclo di incontri è limitato: si prega di chiamare per prenotazioni e informazioni.

Fonte: Ufficio stampa Donneuropee-Federcasalinghe 2007.

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Articoli di interesse generale > epidemiologia, statistica

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[23/07/2008]

Lotta al dolore: l'Italia è ultima

Rilanciamo un articolo tratto da “Corriere Salute” online: alcuni dati epidemiologici nazionali ed internazionali sul dolore cronico.

Se ogni anno in Italia 90 mila malati terminali non vengono curati, o lo sono parzialmente, per la sofferenza fisica (22 milioni di dosi di morfina annui bastano per curarne 60 mila su 150 mila), ancor peggio è la situazione per quei 10-15 milioni di italiani che soffrono di dolore cronico non causato da tumori.

Mal di schiena al primo posto. Un classico. La mattina ci si sveglia senza riuscire a muoversi, anzi a distendere la schiena. Fitte atroci, piegati dal dolore. Telefonata in ufficio per avvertire dell'assenza: «Colpo della strega». Poi al medico di base. Un antinfiammatorio prescritto al telefono. Poi tutto passa...

Le cause possono essere diverse, ma si calcola che almeno il 90 per cento della popolazione mondiale almeno una volta nella vita abbia provato questa lancinante sofferenza. E 9 volte su dieci passa da solo nel giro di qualche giorno.

Quindi niente esami, nessuna diagnosi, causa ignota. Un dato che, con la creazione di servizi multispecialistici (Pain center) in grado di affrontare il dolore come malattia, è subito sceso a circa il 70 per cento.

Almeno è questa l'esperienza di New York, dove il mal di schiena è nell'hit parade dei costi sociali come giorni di lavoro persi, costi sanitari, assistenza domiciliare.

E negli Stati Uniti il dolore cronico (mal di schiena al primo posto) non oncologico costa alla società circa 100 miliardi di dollari l'anno. Al secondo posto, come impatto nelle assenze dal lavoro e nei costi socio-sanitari, c'è il mal di testa, tante le classificazioni...

E anche in questo caso la terapia italiana è: anti-infiammatori. La pugnalata al centro del capo non passa. Non può passare. Chi ne soffre si chiude al silenzio, al buio (luce e suoni moltiplicano gli effetti)... A

ltro che andare al lavoro. Anche il mal di testa può trasformarsi in emergenza: basti pensare che il 2-7% degli europei che si rivolgono alle strutture di pronto soccorso si vede diagnosticare una cefalea acuta.

Lo ricorda Paolo Martelletti, responsabile del centro per le cefalee dell'università La Sapienza di Roma. In Europa si registra una crescita per questo tipo di disturbo e l'Italia non è da meno. «Il 51% degli italiani — spiega Martelletti — soffre di cefalea acuta, mentre il 14% soffre di emicrania e il 4%

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di cefalea cronica». Quei 10-15 milioni di italiani che soffrono di dolore cronico forse sono molti di più.

Siamo un popolo di doloranti, almeno una volta nella vita.

E la severità dei sintomi spesso è tale da rendere dipendenti dai farmaci. «La maggior parte dei pazienti con cefalea cronica — aggiunge Martelletti — abusa quotidianamente di analgesici, senza sapere però che questi possono solo peggiorare la situazione, scatenando una cefalea secondaria da abuso di farmaci».

«È ora di dichiarare, su un fronte internazionale, la guerra all'ignoranza sul dolore», ha detto Costantino Benedetti, terapista del dolore all'Ohio university, in un intervento all'ultimo Sanit a Roma. Parlava della sua amata Italia. E sì, perché nel nostro Paese è già complicato assicurare la terapia del dolore (è tra le cure palliative) ai malati di tumore.

Per tutto il resto, ecco il quadro. Gli ospedali senza dolore sono una realtà conquistata con difficoltà: tutti i degenti non dovrebbero nemmeno avvertire la pur minima sofferenza.

E tutte le mattine l'infermiera, oltre a pressione del sangue e temperatura, dovrebbe misurare il dolore e annotarlo in cartella clinica. Così è negli Stati Uniti dal 2001, così dovrebbe essere in Italia. Ma spesso è il paziente che deve chiederlo.

E la terapia? In ospedale c'è (anche se si eccede in dosi «rimbambenti» di oppioidi o morfina: il degente dorme e non dà fastidio), ma non multi farmaco e con dosaggi personalizzati come prescrivono le linee guida per un recupero fisico più rapido: senza dolore un operato si alza e riacquista prima le sue forze.

Fuori dell'ospedale, sul territorio, il nulla: fai da te o medici di famiglia impreparati. Nel 1944, il padre della moderna terapia del dolore, John Bonica (morto nel 1994, nato a Filicudi ma negli Stati Uniti dall'età di sette anni), oltre a mettere a punto la peridurale per il parto indolore, comincia proprio dai medici di famiglia e dagli infermieri a dare indicazioni su come curare il dolore.

In Italia però siamo sempre fermi all'epoca in cui Bonica cambiava le regole oltre Oceano. Non esiste un piano di Pain clinic territoriali che si occupino di diagnosi e cura di chi soffre, pur non avendo malattie terminali. Di chi ha una banale mal di schiena o una feroce emicrania, dolori mestruali o reumatismi vari, artrosi o psoriasi con complicanze dolorose, danni da diabete o neuropatie di varia origine.

Si parla di 10-15 milioni di italiani (25 per cento) e di 70-80 milioni di americani. Le poche realtà efficienti si sperdono nel vuoto. Ed è una delle priorità per il sottosegretario al Welfare Ferruccio Fazio, scienziato, figlio di un noto clinico, che per il 17 luglio ha convocato alcuni esperti per discutere di

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come dare all'Italia un'organizzazione anti-dolore. In particolare ha chiamato Guido Fanelli, terapista del dolore dell'università di Parma.

Qualcosa si deve fare.

Perché soffrire non è un obbligo, ma in Italia sembra che lo sia.

È l'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) a dirlo.

Con i numeri.

Uno degli indicatori della qualità della vita si basa sulle dosi annue di morfina (e farmaci oppioidi) pro capite per curare il dolore (tutti i tipi di dolore). L'Italia era, nel 2004, al pari dell'Etiopia e del Ruanda. Nel 2007 è salita in classifica, ma di poco: ultimi in Europa, dopo Malta. Al ventiseiesimo posto.

Il Centro Studi Mundipharma, al Sanit di Roma, ha rincarato le accuse: «Nonostante le raccomandazioni delle principali Linee guida internazionali, per quanto riguarda l'impiego dei farmaci oppioidi il nostro Paese rimane all'ultimo posto tra gli Stati dell'Ue, con una spesa media annua pro capite che non arriva a un euro». Il confronto: 0,63 euro contro i 7,66 della Danimarca; i 7,29 della Germania; i 4 del Regno Unito; i 2,88 della Spagna; i 2,61 della Francia e una media europea di 3,73 euro.

Aggiunge Benedetti: «Se il Canada usa 170 milligrammi di morfina ed ossicodone pro capite all'anno e l'Italia solo 4, l'aumento dovrebbe essere di circa 40 volte per andare alla pari dei Paesi più avanzati».

Il problema è soprattutto culturale: nel nostro Paese quando si parla di morfina si pensa alla droga, mentre all'estero si pensa a un farmaco.

E quando si parla di dolore si pensa a un sintomo, quasi sempre esagerato dai pazienti che soffrono...

Chissà poi perché?

Mario Pappagallo

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Sanità

malati terminali

Curare il dolore per dare dignità alla fine della vita

SERGIO CANZANELLA*

Si è concluso il 14 novembre a Roma il Convegno Mondiale sugli Hospice organizzato dall'Associazione Antea di Roma in collaborazione con l'Eapc, Ecpc, il Ministero della Salute, la Fondazione Floriani e l'Associazione House Hospital onlus.

Tra i temi discussi, la terapia del dolore, gli hospice, le cure palliative e l'assistenza domiciliare. La Iasp (International association for the study of Pain - 1986) definisce il dolore come un'esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno.

A livello clinico, il dolore è un sintomo trasversale e frequente: spesso segnale importante per la diagnosi iniziale di malattia, fattore sensibile nell'indicarne evoluzioni positive o negative durante il decorso, innegabile presenza in corso di molteplici procedure diagnostiche e/o terapeutiche e costante riflesso di paura e ansia per tutto quello che la malattia comporta.

E' fra tutti, il sintomo che più mina l'integrità fisica e psichica del paziente e più angoscia e preoccupa i suoi familiari, con un notevole impatto sulla qualità della vita.

In maniera molto sintetica, ma utile da un punto di vista clinico, si possono distinguere, tre tipologie diverse di dolore, con caratteristiche eziopatogenetiche, cliniche, di durata, e responsività terapeutica, specifiche.

Si parla infatti di Dolore acuto, Dolore cronico e Dolore procedurale.

Il dolore acuto ha la funzione di avvisare l'individuo della lesione tissutale in corso ed è normalmente localizzato, dura per alcuni giorni, tende a diminuire con la guarigione.

La sua causa è generalmente chiara: dolore legato all'intervento chirurgico, al trauma, alla patologia infettiva intercorrente. Attualmente le opzioni terapeutiche a disposizione per il controllo del dolore acuto, sono molteplici ed efficaci nella stragrande maggioranza dei casi.

Il dolore cronico, è duraturo, spesso determinato dal persistere dello stimolo dannoso e/o da fenomeni di automantenimento, che mantengono la

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stimolazione nocicettiva anche quanto la causa iniziale si è limitata. Si accompagna ad una importante componente emozionale e psicorelazionale, e limita la performance fisica e sociale del paziente.

E' rappresentato soprattutto dal dolore che accompagna malattie ad andamento cronico (reumatiche, ossee, oncologiche, metaboliche..). E' un dolore difficile da curare: richiede un approccio globale e, richiede non infrequentemente, interventi terapeutici multidisciplinari, gestiti con elevato livello di competenza e specializzazione.

Il dolore da procedura, che accompagna molteplici indagini diagnostiche/terapeutiche rappresenta in ogni setting, e situazione ed età, un evento particolarmente temuto e stressante.

Il dolore si associa ad ansia e paura, e non infrequentemente la sua presenza condiziona in maniera importante la qualità percepita di cura, nonché la qualità di vita.

Attualmente sono a disposizione numerose possibilità d'intervento (farmacologiche e non) e modelli organizzativi efficaci ed efficienti. Da un punto di vista eziopatogenetico, il dolore può essere classificato in: nocicettivo (attivazione diretta dei recettori della nocicezione), neuropatico (da interessamento del sistema nervoso centrale e/o periferico), psichico (attivato da stazioni psico-relazionali) e misto (con la presenza di tutte le componenti precedenti).

Valutazione

Il dolore è un' esperienza soggettiva ed individuale, e questo rende ragione della difficoltà che si incontrano nella definizione di metodiche di valutazione efficaci.

La letteratura pone diverse proposte: autovalutazione, parametri fisiologici, comportamentali e strumentali.

Una metodologia valida in assoluto non esiste, e i diversi metodi vengono attualmente declinati, in rapporto al tipo di dolore, alle condizioni cliniche del paziente, all'età ed alle possibilità di collaborazione. Il goal standard è la valutazione del paziente stesso della quantità e della qualità del dolore percepito (autovalutazione), ed attualmente molteplici sono le tecniche e gli strumenti a disposizione (Visual Analogic Scale di Scott Huskisson, Facial Scale, scala dei colori di Eland, Scala verbale..).

Terapia

Nella definizione di un programma antalgico , indipendentemente dal tipo e dalla causa del dolore, è necessario un intervento globale che preveda il ricorso a terapie farmacologiche e non.

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Terapia Farmacologica

Attualmente i farmaci indicati nella gestione del dolore appartengono alle seguenti categorie: analgesici non narcotici, analgesici narcotici, adiuvanti ed anestetici locali Studi di farmacocinetica e farmacodinamica hanno puntualizzato indicazioni e limiti di questi farmaci: l'OMS ha stabilito una scala graduata d'interventi in base alle caratteristiche e all'entità del dolore; le paure legate alla dipendenza ed alla tolleranza dei farmaci narcotici sono state ridimensionate; le indicazione all'uso dei FANS sono state puntualizzate e la positività dell'uso dei farmaci adiuvanti è stata confermata.

La strategia terapeutica utilizzata dipende da molti fattori, comprendenti l'eziologia e l'entità del dolore, la durata prevista della terapia, le condizioni cliniche generali del paziente e la sua capacità di adattamento ad un determinato programma terapeutico.

Terapia non farmacologica: La terapia antalgica non farmacologica comprende molti tipi d'intervento assai diversi fra loro.

Alcuni agiscono su altri sistemi sensitivi che bloccano la progressione dello stimolo doloroso, altre attivano i meccanismi nervosi centrali e/o periferici che inibiscono la nocicezione .In base alla metodologia d'intervento si possono suddividere in metodi psicologici (di supporto, cognitive, comportamentali) e fisici (agopuntura, massaggio, fisioterapia..).

Cure palliative

Nate circa 30 anni fa in Inghilterra, sono la cura globale e multidisciplinare per i pazienti affetti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici e di cui la morte è diretta conseguenza. Nelle cure palliative il controllo del dolore, degli altri sintomi e dei problemi psicologici, sociali e spirituali è di importanza fondamentale. Esse si propongono di migliorare il più possibile la qualità di vita sia per i pazienti che per le loro famiglie.

Le cure palliative:

• affermano la vita e considerano la morte come un evento naturale;

• non accelerano né ritardano la vita;

• provvedono al sollievo dal dolore e dagli altri sintomi;

• integrano gli aspetti psicologici, sociali e spirituali dell'assistenza;

• offrono un sistema di supporto per aiutare la famiglia durante la malattia e durante il lutto.

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Le cure palliative sono state definite dall'Organizzazione mondiale della sanità come "…un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie che si trovano ad affrontare le problematiche associate a malattie inguaribili, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza per mezzo di una identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicofisica e spirituale."

Le cure palliative si rivolgono a pazienti in fase terminale di ogni malattia cronica ed evolutiva, in primo luogo malattie oncologiche ma anche neurologiche, respiratorie, cardiologiche ed hanno lo scopo di dare al malato la massima qualità di vita possibile, nel rispetto della sua volontà, aiutandolo a vivere al meglio la fase terminale della malattia ed accompagnandolo verso una morte dignitosa.

La fase terminale è quella condizione non più reversibile con le cure che, nell'arco di poche settimane o qualche mese, evolve nella morte del paziente ed è caratterizzata da una progressiva perdita di autonomia, dal manifestarsi di sintomi fisici, come il dolore, e psichici che coinvolgono anche il nucleo familiare e delle relazioni sociali.

L'assistenza domiciliare sanitaria e socio-sanitaria ai pazienti terminali, l'assistenza territoriale residenziale e semi residenziale a favore dei pazienti terminali, i trattamenti erogati nel corso del ricovero ospedaliero (quindi anche per pazienti terminali) e gli interventi ospedalieri a domicilio costituiscono Livelli Essenziali di Assistenza (Lea).

La rete assistenziale deve essere composta da un sistema di offerta nel quale la persona malata e la sua famiglia, ove presente, possano essere guidati e coadiuvati nel percorso assistenziale tra il proprio domicilio, sede di intervento privilegiata ed in genere preferita dal malato e dal nucleo familiare nel 75-85 per cento dei casi e le strutture di degenza, specificamente dedicate al ricovero dei malati non assistibili presso la propria abitazione.

La rete sanitaria e socio-sanitaria dovrà essere strettamente integrata con quella socio-assistenziale, al fine di offrire un approccio completo alle esigenze della persona malata, alla quale dovrà essere garantito, se richiesto, un adeguato supporto religioso.

E' particolarmente stimolata e favorita l'integrazione nella rete delle numerose Organizzazioni Non Profit, in particolare di quelle del volontariato, attive da anni nel settore delle cure palliative, dell'assistenza domiciliare e negli hospice, nel rispetto di standard di autorizzazione/accreditamento tecnologici, strutturali e organizzativi precedentemente definiti a livello nazionale e regionale.

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Assistenza domiciliare

Il modello organizzativo delle cure palliative è strutturato a diversi livelli: ambulatoriale, domiciliare, residenziale. Nella seduta del 19 aprile 2001, la Conferenza Stato-Regioni ha approvato le "Linee guida sulla realizzazione delle attività assistenziali concernenti le cure palliative", pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale del 14 maggio 2001. La normativa citata definisce i requisiti strutturali, tecnici ed organizzativi minimi per i centri residenziali e la rete delle cure palliative.

L'attivazione del Servizio di cure domiciliari nelle Aziende sanitarie locali delle diverse Regioni risulta necessario per assicurare il coordinamento delle prestazioni erogate dal servizio di cure domiciliari con le prestazioni delle cure palliative e garantire, di conseguenza, una gestione efficiente delle attività sul territorio, fornendo risposte efficaci nei confronti delle persone malate, nella fase terminale della loro vita Le nuove linee guida sulle cure palliative, infatti, prevedono, nell'impostazione organizzativa, un'interazione costante con il servizio di cure domiciliari ed indicano modalità e procedure attuative all'interno del percorso tecnico-amministrativo delle cure domiciliari stesse.

Gli obiettivi che le linee-guida per lo sviluppo delle cure palliative si propongono, sono:

• garantire il diritto di ogni persona che affronta la fase terminale della vita a ricevere cure palliative appropriate, ovunque si trovi;

• promuovere l'attivazione di Reti locali di cure palliative, in grado di garantire tutti i livelli assistenziali necessari all'assistenza dei malati alla fine della vita;

• garantire una continuità assistenziale che possa migliorare la qualità di vita dei malati e fornire adeguato supporto psicologico e sociale ai familiari;

•?garantire la disponibilità di cure a domicilio di elevata qualità, che permettano a chi lo desidera di essere assistito a casa fino alla morte, con una riduzione significativa dei ricoveri ospedalieri impropri.

La complessità dei bisogni fisici, psicologici e sociali dei malati terminali, unita all'esigenza e alla volontà di cure palliative a domicilio, richiede l'organizzazione di risposte integrate, centrate sui bisogni dei pazienti e di chi li assiste, unitarie nel modo in cui vengono erogate.

L'integrazione delle responsabilità ed anche di tutte le risorse disponibili sul territorio, è la condizione essenziale per migliorare l'efficacia degli interventi, riducendo l'autoreferenzialità e abituando tutti gli operatori coinvolti a lavorare insieme, garantendo un'ottimale distribuzione delle risorse.

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Gli obiettivi specifici delle cure palliative domiciliari sono:

• garantire ai pazienti che lo desiderano cure a casa che assicurino la migliore qualità di vita possibile;

• realizzare un sistema integrato di risposte ai bisogni dei malati e dei loro familiari;

• garantire continuità terapeutica e assistenziale fra ospedale e territorio;

• attivare piani di cura e gestire percorsi assistenziali complessi anche a domicilio;

• monitorizzare i processi assistenziali e valutarne i risultati.

Le condizioni necessarie perché possano essere erogate le cure palliative a domicilio sono:

• consenso alle cure domiciliari;

• indicazioni, in pazienti in fase avanzata di malattia, al trattamento di tipo palliativo finalizzato al miglioramento della qualità di vita ed al controllo dei sintomi;

• ambiente abitativo e familiare idoneo;

• livello di complessità ed intensività delle cure compatibili con l'ambiente domestico;

• disponibilità della famiglia a collaborare.

*Manager European Cancer Patient Coalition

del 18-11-2008 num. 215

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08 marzo 2008

"INTERVENTI PSICOLOGICI E DOLORE CRONICO"-

Sara COSTANZO

A differenza di quanto accade con le patologie tumorali, degli interventi psicologici con pazienti non terminali affetti da dolore cronico si continua a parlare poco.

Possono essere considerati “cure palliative”?

Il concetto di cure palliative è oggi in costante evoluzione e non sempre è facile definirne i confini. In linea generale resta la centralità assegnata alle patologie oncologiche, posizione che rischia di mettere in ombra forme di dolore di diversa natura. E il cd criterio della terminalità (o comunque della inguaribilità in fase avanzata di malattia), da molti considerato essenziale.

In questi casi si preferisce parlare di terapia del dolore, una terapia cioè tesa a tenere sotto controllo il “dolore divenuto malattia”. In linea generale possiamo dire che l’intervento psicologico di cui parliamo è rivolto a soggetti affetti da una malattia organica (cronica o con prognosi incerta) in cui è predominante l’aspetto doloroso (rispetto ad esempio a sindromi in cui prevalgono condizioni di handicap o alcuni processi degenerativi) e relativamente alla quale la condizione intrapsichica e relazionale del soggetto ha un ruolo trascurabile nella genesi della condizione organica di base e - con intensità diversa da caso a caso- rilevante nella gestione della cura o nell’aggravamento della sintomatologia.

Restano dunque esclusi i cd disturbi somatoformi, condizione in cui i sintomi fisici lamentati dal paziente non sono giustificati ( o almeno adeguatamente giustificati rispetto alla intensità del dolore percepito) da una compromissione organica dimostrabile.

Ad ogni modo è comunque pacifica la necessità di un approccio “globale” al dolore , che tenga conto - tra l’altro- degli aspetti psicologici e relazionali della cura.

Di che tipo di interventi si tratta?

In un ambito diverso, il Ministero della Salute ha recentemente parlato di un “continuum assistenziale che si estende con una crescente intensità di necessità specifiche e di competenze professionali” in piu’ livelli assistenziali”. Volendo ripercorrere la precisazione relativamente alla tipologia di pazienti prima delineata, si potrebbero evidenziare tre diversi piani di intervento:

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1. primo livello assistenziale.

In questo caso la condizione intrapsichica e relazionale del soggetto/famiglia/ sistema allargato appare funzionale ad affrontare nel miglior modo possibile l’evento dolore e l’iter di cura. La eventuale richiesta di un sostegno riguarda pertanto aspetti di contenimento, condivisione, facilitazione di processi comunicativi o decisionali relativi a temi legati o interagenti con la malattia.

2. secondo livello assistenziale.

In questo caso la condizione intrapsichica e relazionale del soggetto/famiglia/sistema allargato appare poco funzionale ad una buona gestione della malattia.

Tali aspetti non soddisfano però i requisiti della gravità e della cronicità: si può cioè legittimamente supporre che tale impasse potrà essere affrontata con un intervento che, pur intervenendo sugli aspetti problematici, rimanga all’interno del problema malattia/gestione del dolore.

3. terzo livello assistenziale.

In tal caso la disfunzionalità di fattori psichici e relazionali interferisce con la gestione della malattia in modo grave e con i caratteri della cronicità/resistenza al cambiamento.

E’ pertanto lecito supporre che le difficoltà legate alla gestione dell’evento dolore non possano essere affrontate se non all’interno di un focus piu’ ampio. In tali casi è spesso necessario che il terapeuta “lavori”per una possibile ricontrattazione della domanda del paziente.

E’ solo all’interno di quest’ultimo livello che parliamo di psicoterapia vera e propria, potendo riservare agli altri casi interventi (psicologia di sostegno o counseling) di tipo diverso.

Come può essere organizzata in concreto l’assistenza?

L’assistenza ad un paziente affetto da dolore cronico avviene in genere all’interno di strutture (pubbliche o private) a ciò preposte.

Particolare importanza assume dunque la fase della accettazione: una diagnosi il piu’ possibile corretta consentirà infatti la scelta del livello e del professionista adeguato.

Ovviamente nulla esclude che nel tempo possano rendersi necessari interventi diversi o che una tipologia di intervento “apra la strada” ad un'altra.

Va a tal proposito ricordato che la psicologia di sostegno e il counseling sono per lo più condizionati dalla necessità del lavoro di equipe e dalle finalità della

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struttura all’interno della quale il professionista si trova ad operare. Essi inoltre -in linea di principio- si snodano in un arco di tempo e di incontri limitati.

Relativamente ai primi due livelli appare dunque necessario che i servizi psicologici siano forniti da personale inserito all’interno della struttura e dunque della equipe terapeutica.

Tale necessità non è invece determinante nel caso di una psicoterapia vera e propria: in tali situazioni il paziente può essere infatti preso in carico sia dall’ambulatorio eventualmente (ma purtroppo in rari casi) presente presso la struttura o da un professionista liberamente scelto.

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Contenuti speciali

Approcci non farmacologici contro ansia e dolore

GdO 2008; 14

Renato Torlaschi

L’approccio che la medicina, almeno quella occidentale, ha adottato per cercare di combattere il dolore è essenzialmente di tipo farmacologico.

I successi sono stati spettacolari in molti campi, basti citare i vari tipi di anestetici che rendono oggi indolori i più invasivi interventi chirurgici. Anche la sofferenza legata a molti trattamenti terapeutici nel campo della salute orale è stata ampiamente ridotta.

Permane tuttavia una percentuale di pazienti che affrontano con ansia le sedute negli studi dentistici o che addirittura le rifuggono, con gravi danni per la propria salute: studi mostrano incidenze variabili dal quattro al venti per cento della popolazione, piuttosto indipendenti dal contesto sociale e culturale, dall’etnia di provenienza e ben poco influenzate dai progressi ottenuti dalla medicina.

Ritorniamo dunque a parlare di aspetti psicologici connessi alla percezione del dolore, lo facciamo con l’aiuto della dottoressa Catherine Bushnell, professoressa di anestesia e odontoiatria alla McGill University di Montreal che, con la collaborazione dei colleghi Marco L. Loggia, Petra Schweinhardt e Chantal Villemure, ha approfondito l’analisi dei numerosi fattori collegati a un fenomeno molto significativo sia a livello sociale sia nel quotidiano incontro tra odontoiatri e pazienti.

I ricercatori hanno sintetizzato gli elementi emersi dai loro studi in un lavoro pubblicato sulle colonne del Journal of the Canadian Dental Association lo scorso settembre.

Empatia

Partiamo da un esperimento per certi versi commovente che, essendo stato condotto su animali, ha già in sé un elemento di ‘oggettivazione’ che è uno dei requisiti essenziali ma non sempre scontati in qualunque ricerca che prenda in esame aspetti di natura psicologica.

Il dottor Dale J. Langford, anch’egli in forze alla McGill University, presso il Dipartimento di psicologia e nel Centro per la ricerca sul dolore, ha riportato un

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aumento della sensibilità a stimoli dolorosi nei topi esposti alla sofferenza di altri topi, ma solo se gli animali erano già stati in contatto tra di loro, insomma se già si conoscevano.

Avendo escluso cause legate a forme di imitazione, gli autori parlano di empatia o almeno di una sua forma primordiale.

E lo stesso fenomeno è stato riscontrato – probabilmente con minore stupore – in altre ricerche che si sono focalizzate sul comportamento degli esseri umani. In questo caso sono stati utilizzati degli strumenti audiovisivi, dei filmati che inducevano stati di maggiore o minore empatia in gruppi di volontari. Il risultato è stato lo stesso: un più elevato grado di coinvolgimento empatico ha prodotto una reazione al dolore più intensa e spiacevole.

Un altro modo per facilitare un’analisi più ‘oggettiva’ di questo tipo di riscontri è a disposizione dei ricercatori solo da pochi anni: l’osservazione, tramite strumenti sofisticati di imaging, delle reazioni prodotte in certe aree cerebrali a fronte di stimoli esterni.

La risonanza magnetica funzionale e la tomografia a emissione di positroni forniscono entrambe ai ricercatori la possibilità di rilevare segnali che indicano, sia pur indirettamente, modificazioni nell’attività neurale: come nel caso della variazione dell’entità di flusso sanguigno in specifiche aree cerebrali.

Di queste tecnologie si è servito il gruppo di ricercatori coordinato dalla dottoressa Bushnell, producendo immagini di grande suggestione che fanno luce su alcuni tra i più intimi e sconosciuti meccanismi della fisiologia umana.

Placebo

Si potrebbe obiettare che si tratta soltanto di suggestione e magari tirare in ballo l’effetto placebo: l’obiezione sarebbe corretta, ma le immagini cerebrali mostrano che il placebo è ‘reale’.

Si è osservato che trattamenti placebo somministrati allo scopo di alleviare le percezioni di sofferenza sono effettivamente associati a una diminuzione dell’attività cerebrale in aree coinvolte con l’elaborazione degli stimoli dolorosi, come quella del talamo o della corteccia insulare.

Del resto, il primo tra gli studi condotti sull’argomento risale a trent’anni fa, quando il dottor Levine aveva evidenziato il ruolo degli oppioidi endogeni sull’anestesia indotta da sostanze placebo somministrate dopo operazioni di chirurgia odontoiatrica.

Oggi abbiamo a disposizione strumenti molto più evoluti per monitorare l’attività cerebrale e l’importanza di ricerche come quella della dottoressa Bushnell e dei suoi collaboratori sta nella documentazione del collegamento tra fattori psicologici con modifiche misurabili e fotografabili di parametri fisiologici. Ne esce rafforzato il ruolo del paziente nell’imparare a tenere questi

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fattori sotto controllo e quello del medico nel creare un ambiente che favorisca la riduzione dell’ansia e la distrazione dalle esperienze che possono generare dolore.

Informazione

Un effetto controverso sullo stato psichico del paziente è dato dalla conoscenza dettagliata di ciò che gli procura dolore. In alcuni casi, una comunicazione pacata da parte dell’odontoiatra delle procedure che si appresta a compiere unitamente a una descrizione delle sensazioni che il paziente potrà provare ha la capacità di favorire una maggiore tranquillità e di conseguenza una alleviata sensazione di dolore.

In altri casi, per esempio quando sono presenti delle fobie, una focalizzazione su certe attività chirurgiche può risultare del tutto controproducente e ottenere un aumento dello stato ansioso.

Le differenze individuali si evidenziano in modo molto più marcato rispetto all’azione esercitabile con un intervento farmacologico.

Attenzione e distrazione

Tra i vari elementi che entrano in gioco nell’esperienza della percezione del dolore, l’attenzione è uno tra i maggiormente studiati.

Alcune ricerche vanno in controtendenza e indicano che, in certi individui affetti da patologie dolorose croniche, un profondo ‘ascolto’ delle proprie sensazioni fisiche può indurre una trasformazione della percezione dolorosa, fino a trovarla ‘meno spiacevole’, ottenendo così una maggiore sopportazione e una diminuzione dell’ansia che ne deriva.

Ma la maggior parte degli studi evidenzia invece gli effetti positivi ottenuti distraendo l’attenzione dall’organo sofferente verso altre sensazioni che possono recare piacere o almeno sollievo: esempio tipico è l’ascolto di brani musicali.

Le immagini cerebrali di pazienti afflitti da sindromi dolorose e sottoposti a stimoli auditivi hanno mostrato segnali che si ritengono associati alla riduzione della percezione del dolore, sia nell’area sensoriale limbica che nella corteccia cerebrale.

Stati depressivi

Anche l’umore e lo stato emotivo hanno un’influenza sulla percezione degli stimoli dolorosi. In particolare sono stati segnalati in diversi contesti medici gli effetti negativi della depressione: sia in condizioni di sofferenze croniche sia in situazioni di dolori acuti.

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È stato dimostrato che livelli elevati di ansia manifestata prima di interventi di chirurgia orale corrispondono a una maggiore sofferenza provata immediatamente dopo l’operazione.

Se alcuni di questi fattori sono difficilmente migliorabili da un odontoiatra, in quanto elementi caratteristici della personalità o comunque delle condizioni psichiche di ogni individuo, altre volte può risultare relativamente semplice intervenire su elementi legati alla suggestione.

Alcune ricerche hanno fatto rilevare come l’odore di eugenolo, che spesso è impronta caratteristica degli ambulatori odontoiatrici, tende a indurre sensazioni di paura, disgusto o rabbia in quei pazienti che già temono gli interventi dentistici: un suo mascheramento con essenze rilassanti riesce spesso a influire sullo stato d’animo e a migliorare il loro approccio alle cure dentistiche.

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APPROCCIO ALL’ANSIA NEL DOLORE CRONICO

Il termine “approccio” esprime in se la profonda umanità

che deve legare il medico all’ammalato:

esso mentre permette al primo di svelare gli aspetti psicosomatici della

malattia, rende il secondo più fiducioso nelle capacità diagnostiche e

terapeutiche del medico che egli ha scelto

approccio significa cercare e sentire nel paziente un’entità

umana e psichica nell’economia di una vita, in un vissuto che

ha dimensioni ben più vaste di quelle indicate dai sintomi

clinici obbiettivi o soggettivi

Il rapporto interpersonale medico-paziente nel dolore cronico deve basarsi

sull’ empatia: con questo termine si intende un processo di immedesimazione

o identificazione per cui un individuo si mette nello stesso angolo visuale per

vivere determinate sue situazioni emotive o almeno per percepirle in maniera esatta

Per il medico empatia vuol dire accorgersi della sofferenza

e cercare di capirla, empatia vuol dire aiutare la persona sofferente a

costruire la pace interiore.

Nell’ottica occidentale il dolore viene trattato spesso separatamente come

dolore fisico o dolore psichico;

non bisogna però dimenticare che l’uomo è un tutt’uno inscindibile di

soma e psiche

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STRESS E ANSIA NELLA MALATTIA CRONICA

M. Paola Brugnoli

Il termine “ansia” ha la stessa radice latina di angere ed è espressivo del concetto “stringere con violenza”. Indica un certo aspetto del disagio fisico soggettivo che troviamo particolarmente nel paziente terminale.

E’ spesso secondaria ad uno stato di stress protratto.

Lo stress costituisce una delle più comuni componenti della reazione normale emozionale dell’uomo a svariate situazioni di malattia specialmente cronica.

Se adeguato alle caratteristiche oggettive delle varie situazioni- stimolo, come intensità e come durata, esso rappresenta un normale e fondamentale meccanismo di allerta dell’organismo, determinante per una migliore risposta sia sul piano biologico che comportamentale agli stimoli esterni, e quindi per la sopravvivenza.

Una situazione di stress protratto genera spesso uno stato d’allerta anche in assenza di uno stimolo presente: l’ansia.

Dell’ansia è caratteristico il timore di essere travolti da una situazione, verso la quale si è incapaci di far fronte.

Mentre la paura e lo stress acuto implicano un oggetto ben definito, l’ansia nasce dalla lotta interiore tra forze opposte ed incompatibili. L’ansia costituisce una delle più comuni componenti della normale reazione emozionale dell’uomo a svariate situazioni ambientali.

L’ansia è una condizione emozionale particolare caratterizzata da stato di apprensione, disagio, aumento della tensione fisica e o psichica, preoccupazione, stato di attesa, senso di anticipazione del pericolo, senso di paura e ridotto senso di controllo da parte del soggetto.

I sintomi fisici e o psichici sono soggettivi, e possono essere di intensità variabile da caso a caso.

E’ comune anche la presenza di sintomi somatici, che rappresentano in realtà normali correlati psicofisiologici dell’ansia: possono essere presenti cefalea da tensione, palpitazioni, tachiaritmie. Spesso questi sintomi sono vissuti con intensa, profonda angoscia da parte del soggetto.

Numerosi studi sperimentali di psicobiologia e psicofisiologia dello stress nell’uomo, hanno dimostrato che nella reazione d’ansia acuta esistono effettivamente varie e intense modificazioni dell’equilibrio somatico a numerosi livelli (Lader, 1972; Weiner,1985). Le conoscenze a questo riguardo, si sono

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via via sempre più estese ed allargate, permettendo di comprendere con maggiore chiarezza la globalità delle modificazioni somatiche indotte dalla reazione d’ansia acuta. Attualmente le principali modificazioni più estesamente documentate a livello sperimentale sia negli animali che nell’uomo riguardano il sistema muscolare-scheletrico, il sistema neurovegetativo, il sistema neuroendocrino, ed il sistema immunitario (Biondi e Pancheri,1987).

Alterazioni psicofisiologiche nella reazione d’ansia (Biondi M.,1988):

- alterazione dell’equilibrio neurovegetativo

- diminuzione dell’ampiezza e aumento della frequenza EEG

- aumento della tensione muscolare generale e/o distrettuale

- aumento della frequenza cardiaca

- possibile extrasistolia

- aumento della pressione arteriosa sistolica

- vasocostrizione periferica

- diminuzione della temperatura cutanea

- aumento della frequenza e irregolarità respiratorie

- modifica della secrezione e motilità gastrointestinale

- dilatazione pupillare

- aumento della sudorazione

- iperreflessia

- aumento del consumo di ossigeno

.

Alterazioni neuroendocrine nella reazione d’ansia (Biondi M.,1988):

- aumento dei livelli di adrenalina e noradrenalina

- aumento dei livelli di ACTH e di cortisolo

- aumento dell’ormone somatotropo

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- aumento della prolattina

- aumento di ormoni tiroidei

Gli studi sulla reazione allo stress di Seyle, evidenziano il ruolo dell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofiso-corticosurrenale, con il tipico massiccio aumento della liberazione di cortisolo che contraddistingue la reazione acuta di stress, e le tre successive fasi della sindrome generale di adattamento:

•Reazione d’allarme

•Stadio di resistenza

•Stadio di esaurimento

Le ricerche successive hanno permesso di chiarire come nella reazione acuta da stress esistano complesse modificazioni a carico dei principali sistemi endocrini, con elevazione non solo dei livelli plasmatici di catecolamine e corticosteroidi, ma anche a carico dell’ormone somatotropo, della prolattina, degli ormoni tiroidei e di svariati neurotrasmettitori tra cui beta-endorfine ed enkefaline (Pancheri 1984).

Nel loro complesso tali ricerche hanno offerto una visione completa e stimolante della reattività somatica dell’organismo in seguito a sollecitazioni protratte (Pancheri 1984; Biondi 1984).

IL MODELLO COGNITIVO DELL’ANSIA

La “valutazione cognitiva dell’ansia” è ciò che dipende strettamente dall’insieme delle aspettative, dei pensieri e delle convinzioni che il soggetto ha in una data situazione. Pertanto la valutazione cognitiva di uno stesso stimolo può essere assai differente da soggetto a soggetto e comportare risposte assai differenti (Lazarus 1966).

Nella sua formulazione più semplificata, il modello cognitivo sottolinea innanzitutto come il tipo e l’entità delle risposte affettivo-emozionali, e il comportamento in determinate situazioni,siano influenzati dal significato che il soggetto attribuisce alla situazione o allo stimolo.

La “valutazione cognitiva” dello stimolo è l’insieme delle aspettative, dei pensieri e delle convinzioni che il soggetto ha sulla situazione (Biondi M.,1988). Pertanto la valutazione cognitiva di uno stesso stimolo può essere assai differente da soggetto a soggetto e comportare risposte assai differenti.

Vari fattori, in particolare la personalità del paziente ed esperienze precedenti, giochino un ruolo molto importante sulla valutazione cognitiva dell’evento e condizionino quindi il grado di attivazione emozionale e la risposta allo stress.

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Vari studi hanno rilevato come, per l’innesco della reazione d’ansia, sia determinante la valutazione cognitiva relativa alla percezione di controllabilità o di incontrollabilità della situazione da parte del soggetto.

In pratica pertanto una ridotta possibilità di controllo determina un elevato livello di ansia, mentre una buona possibilità di controllo determina bassi livelli di ansia.

Quindi il livello d’ansia è la risultante di vari fattori: in primo luogo esso è influenzato dalle caratteristiche oggettive della situazione o dello stimolo; in secondo luogo dalla valutazione cognitiva personale della situazione.

Vedremo di seguito come un mezzo per aumentare il senso individuale di controllabilità siano le tecniche di rilassamento in ipnosi che mirano ad accrescere le risorse del soggetto per confrontarsi con la situazione, e ad aumentare il suo senso di controllo. Tali risorse sono definite con il termine tecnico di risorse di ”coping” cioè “affrontare con successo”.

Di fronte ad una stessa situazione un soggetto potrà reagire con:

1.normale ansia

2.ansia eccessiva

3.depressione

La reazione è personale a seconda della propria organizzazione cognitiva e del significato che la situazione assume per ognuno (valutazione cognitiva).

E’ probabile che il soggetto che prova un’ansia eccessiva abbia una visione di se come persona molto vulnerabile e avverta la prova come una situazione su cui non si ha controllo, imprevedibile.

Il soggetto che reagisce con depressione, potrebbe avere alla base una visione negativa di se, pensa di non farcela perché lo sforzo per lui è comunque troppo grande, che non è abbastanza preparato, e veda la prova come simbolo del proprio fallimento e scarso valore.

Infine la persona che prova una normale ansia non pensa di essere particolarmente vulnerabile, ha una visione di se particolarmente sicura,e percepisce un adeguato controllo della situazione; tuttavia considerando che ci sono anche aspetti imprevedibili, si rende conto che il successo o l’insuccesso non dipendono solo da lui, se andrà male ciò non metterà in discussione il suo valore globale come persona (Biondi,1988).

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Processi cognitivi che possono influenzare personalità e comportamento:

1.stimoli esterni ed interni

2.personalità

3.fattori inconsci

4.esperienze vissute

5.valutazione cognitiva dello stimolo

6.attivazione emozionale

7.grado di ansia

L’intervento terapeutico quindi delle tecniche di rilassamento e ipnosi è soprattutto finalizzato a mettere a fuoco e a ristrutturare, attraverso processi di autostima e di rinforzo dell’Io, le regole cognitive seguite dal soggetto alla base della risposta emozionale disturbata.

A seconda quindi della percezione soggettiva di controllabilità o incontrollabilità, viene innescata una attivazione emozionale caratterizzata da una reazione d’ansia più o meno marcata, più o meno patologica a seconda dei casi.Importante è anche il tipo di strutturazione cognitiva tipica di ogni individuo.

Il modello cognitivo permette di spiegare l’estrema variabilità di risposta psicologica, biologica o patologica di diversi individui esposti allo stesso tipo di stimoli e situazioni, ed ha avuto varie applicazioni in ricerche sperimentali di psicofisiologia e psicosomatica.

Tutto questo può comportare nuove prospettive per comprendere l’azione complementare di interventi terapeutici apparentemente diversi tra loro, quali gli interventi psicologici e gli interventi psicofarmacologici per il trattamento dell’ansia.

Attualmente le tecniche più diffuse sono le tecniche di rilassamento e ipnosi, interventi di psicoterapia, e la terapia farmacologia. Vari studi sperimentali che tutti questi tipi di intervento sono in grado di ridurre la reazione d’ansia, sia a livello psichico, che fisico. Questi tipi di interventi operano probabilmente attraverso un comune meccanismo biologico, rappresentato dal complesso recettoriale GABA-benzodiazepine (Biondi,1988). Le terapie di rilassamento soprattutto riducono a livello periferico le modificazioni somatiche indotte dalla reazione d’ansia, e secondariamente a livello del patterning cognitivo degli stimoli. L’azione sui meccanismi biochimici cerebrali dell’ansia è quindi indiretta (Biondi,1988); tuttavia nel caso di terapie condotte con successo è efficace sia nel ridurre il vissuto d’ansia che le sue manifestazioni somatiche

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Prospettive interculturali.

LA SOFFERENZA E LA MORTE:

ASPETTI ANTROPOLOGICI E RELIGIOSI

di Norsa Alessandro

Il tema della conclusione della vita, espressione di un momento di passaggio, è da sempre stato celebrato nelle diverse culture con la ritologia tipica della religione di appartenenza. Proponiamo diverse letture di questa tematica e di quella della sofferenza.

La cultura della società occidentale in cui siamo inseriti rende le problematiche della sofferenza e della morte difficilmente comprensibili.

Il progresso gode d’un ascendete tale sull’umanità da attribuirle la possibilità fantastica dell’onnipotenza.

I risultati raggiunti sono sconcertanti, tanto che non ci si meraviglia più di ciò che si è capaci, se mai ci si stupisce di ciò di cui non si è ancora capaci. Questo pensiero alimenta l’idea di una fiducia di ordine magico. L’incapacità di sopportare la sofferenza e la morte è collegata con la difficoltà di coglierne il senso. Tuttavia la possibilità di recuperarne il significato ci è offerta da un lato dalla religione, dall’altro dalla psicologia, quindi mediante la fede o mediante la comprensione.

A questo proposito, affronteremo di seguito la visione della sofferenza e della morte nella prospettiva di alcune delle religioni e culture più conosciute ed, infine, secondo una delle possibili spiegazioni psicologiche.

LA SOFFERENZA

LA PROSPETTIVA CRISTIANA CATTOLICA:

la sofferenza è essenziale alla natura dell’uomo ed è parte integrante della sua trascendenza. Attraverso essa l’uomo viene “destinato” a superare se stesso e a ciò viene chiamato in modo misterioso.

Per comprendere il “perché” della sofferenza è necessario volgere lo sguardo alla rivelazione dell’amore divino che trova la sua manifestazione nella croce di Gesù Cristo.

La vittoria sul peccato e sulla morte, riportata da Cristo con la sua croce e risurrezione, non abolisce le sofferenze temporali della vita umana, né libera dalla sofferenza l’intera dimensione storica dell’esistenza, tuttavia su tutta questa dimensione e su ogni sofferenza essa getta una nuova luce, che è la luce della salvezza. È questa la luce del Vangelo, cioè la Buona Novella

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(Salvifici Doloris, 15- 16). Così si può affermare che “Cristo allo stesso tempo ha insegnato a far del bene con la sofferenza e a far del bene a chi soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza”. (Salvifici Doloris, 30).

La sofferenza e la morte , allora, anche nelle esperienze che sono al di fuori di ogni orizzonte di umana comprensione, possono avere un senso, in una visione cristiana, in quanto possono divenire partecipazione alla sofferenza e morte di Cristo.

LA PROSPETTIVA EBRAICA:

la sofferenza ed il male hanno lo scopo di dare all’uomo il senso delle proprie limitazioni. L’ebreo, di fronte al male, riconosce la potenza di Dio e l’accetta; in lui coesiste anche il timore di essere messo di fronte a questa prova e di non riuscire a superarla; in questa concezione la preghiera è uno strumento per invocare Dio e potersi liberare dalla sofferenza.

Ad una piena risoluzione potrà arrivare tramite tre passaggi: l’esame di coscienza, per riconoscere le proprie colpe e tentare un riavvicinamento nel rapporto con Dio. Il prendere consapevolezza dei propri limiti e soggiacere alla volontà di Dio, continuando a credere, pregare e ringraziare per le prove a cui lo sottopone. Ed, infine, l’accettazione dell’insegnamento talmudico secondo il quale “si deve benedire l’Eterno per il male così come per il bene”. In questa concezione il male può essere visto come uno strumento per raggiungere il bene.

LA PROSPETTIVA ISLAMICA:

il musulmano crede che tutto ciò che gli succede, sia nella condizione di salute che di malattia, faccia parte del destino, che, nell’Islam, è il pilastro essenziale della fede.

Il musulmano è sempre contento di tutto ciò che gli accade e non protesta, consapevole che solo Dio concede la salute e che è l’uomo che provoca la malattia. Questo può avvenire in tre modi: non curando il proprio corpo; diminuendo la fede e, quindi, sottoponendosi al rischio di uno scompenso psicosomatico, che rende il corpo più vulnerabile alla malattia; creando disequilibri dannosi alla salute, in quanto essa viene considerata come l’espressione dell’equilibrio del corpo umano.

LA PROSPETTIVA BUDDHISTA:

la malattia e la sofferenza fanno parte integrante della vita dell'uomo, come viene anche definito nella prima Nobile Verità insegnata dal Buddha; esse devono quindi essere considerate realisticamente non una punizione per una colpa commessa, ma un dato di fatto insito nella nostra forma di esistenza e affrontato con attenzione dal punto di vista terapeutico e psicologico. Per il buddhismo, infatti, non c'è dicotomia tra corpo e mente; essi vengono sempre

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considerati un tutt'uno inscindibile. Quindi, anche nella malattia, gli aspetti più meramente fisici hanno un risvolto psichico. I due livelli si intrecciano, condizionandosi vicendevolmente, come anche la moderna medicina sostiene.

La ricerca della felicità e l'eliminazione della sofferenza è lo scopo dell'uomo. La sofferenza e la malattia devono essere accettate per quello che sono, ovvero un aspetto proprio dell'esistenza umana, da cui non si può sfuggire.

LA MORTE E LE PRATICHE RITUALI POST- MORTEM

LA PROSPETTIVA CRISTIANA CATTOLICA:

in questa ottica, la morte dell’uomo è fisica e rappresenta la possibilità di operare nel “suo tempo”, la “sua salvezza”.

Nella Bibbia è scritto che lo spirito attraverso la morte ritorna a Dio (Qo 12, 7) ed il corpo alla terra..

In tal modo, la morte allarga indefinitamente la condizione terrena dell’uomo, che di per sé è definita. Rappresenta così anche un passaggio: l’uomo abbandona il modo di esistere corporeo, dove predomina la legge biologica della carne, per una modalità esistenziale spirituale, nella forma di un corpo spiritualizzato.

LA PROSPETTIVA EBRAICA:

il tema della morte è affrontato dall’ebraismo da due diverse angolazioni. Da una parte si riconosce che la morte è la conclusione naturale di ogni processo vitale; dall’altra c’è chi sostiene che la morte sia una sorta di punizione conseguente ad una colpa : “Non c’è morte senza peccato”, affermano i Maestri (Vaikrà R. 37/1).

I rituali della sepoltura hanno un valore antropologico e normativo: avvenuta la morte, si chiudono gli occhi del cadavere, lo si depone a terra e gli si copre il viso (segno di rispetto).

Le motivazioni igieniche dettano, invece, le normative seguenti: nella casa del defunto, è tradizione antica versare dell’acqua a terra ed aprire le finestre.

Prima dell’inumazione, la salma va accuratamente lavata e avvolta in appositi abiti di tela bianca, che sono simboli di purità. Infine, è consuetudine che il cadavere venga seppellito al più presto possibile, evitando che trascorra una notte tra il decesso e l’inumazione.

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LA PROSPETTIVA MUSULMANA:

l’atteggiamento in cui il religioso si pone di fronte alla morte è razionale: “Noi siamo di Dio e a Lui ritorneremo”.

Di fronte alla conclusione della vita terrena, il musulmano sa che inizia la vita vera, per la quale si è preparato osservando i principi della sua religione.

Il corpo del defunto viene trattato con cura: lavato, profumato, pettinato ed avvolto in due lenzuoli bianchi. Le norme prevedono che venga seppellito lo stesso giorno della sua morte, per evitare che il cattivo odore o l’aspetto fisico non gradevole turbi i presenti.

La cerimonia che accompagna il defunto al cimitero è molto composta e silenziosa; durante il cammino vengono letti alcuni passi del Corano e viene invocato Allah.

Al ritorno dal cimitero i parenti del defunto sono invitati da un’altra famiglia a mangiare e per tre giorni ricevono le condoglianze di amici e conoscenti.

LA PROSPETTIVA INDUISTA:

la morte è in stretta relazione con la dottrina della reincarnazione.

La conclusione delle attività vitali rappresenta la morte del corpo, l’abbandono della spoglia, cioè di un contenitore di organi ben lontano dalla perfezione.

L’Induismo ritiene che l’esperienza della morte sia in realtà un passaggio ad un’altra forma di esistenza. La persona è ritenuta immortale, poiché ogni morte prepara all’ingresso in un'altra forma di vita, non sempre con sembianze umane, ma con apparenze che possono anche essere minerali, vegetali o animali.

L’essere è sottoposto ad innumerevoli morti, alcune quasi irrilevanti, altre più drammatiche, a seconda dell’importanza del cambiamento di condizione che si produce nel corso di un’esistenza.

I rituali variano molto in relazione alla regione di appartenenza o alla tradizione familiare. I seguenti rituali sono tipici dello Sri- Lanka.

Il morente viene sistemato nella sua camera con la testa rivolta verso nord e con una lampada accesa vicino al capo, mentre la famiglia recita inni sacri per agevolare il passaggio dell’anima del defunto.

Al momento del trapasso, il corpo del defunto viene ruotato verso sud ed ogni parente pone dell’olio di sesamo sul capo del deceduto. La testa è avvolta con un panno, che lega la mandibola al resto del capo. I pollici sono legati insieme, così come gli alluci.

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Il corpo viene cremato dopo che i parenti, guidati da un capo della cerimonia, hanno compiuto tre giri intorno alla pira e quello ha lasciato cadere a terra due brocche d’acqua.

Dopo dodici ore le ceneri vengono raccolte e portate al mare o al fiume e disperse in acqua.

LA PROSPETTIVA BUDDISTA:

la morte per i buddhisti è un fenomeno naturale, dove non è previsto un giudizio dell’anima per ciò che la persona ha fatto in vita, e perciò acquista connotazioni meno drammatiche rispetto ad altre religioni. Il morente, consapevole dell’ineluttabilità del Karma (il complesso delle azioni compiute nelle vite precedenti) viene invitato a prepararsi alla morte per favorire una buona rinascita e permettere a colui che seguirà di poter rinascere in condizioni favorevoli.

Il corpo del cadavere è curato, lavato e gli vengono apposti dei magneti per facilitare la fuoriuscita dell’anima; dopo settantadue ore viene cremato o seppellito.

LA PROSPETTIVA ANIMISTA DELL’ETNIA AFRICANA ASHANTI:

per gli ashanti la morte è la logica conseguenza dell’esistenza; l’anima dopo aver lasciato il corpo del defunto entra a far parte del modo degli antenati, un mondo privo di sofferenza e fame, che sono condizioni di vita terrena. Questo può avvenire purchè la vita sia stata condotta in modo degno, altrimenti l’anima non è ammessa ed è costretta a reincarnarsi per condurre una vita onorata.

La cerimonia funebre dura solo qualche ora ed i parenti pongono nella bara dei doni per aiutare il caro estinto nel viaggio verso Nanom, la terra degli antenati.

LA DIMENSIONE PSICOLOGICA

LA SOFFERENZA:

uno dei possibili significati che può assumere la sofferenza viene offerto dalla psicosomatica, che la considera come un sintomo, segnale d’allarme che qualche cosa nell’esistenza dell’individuo non sta percorrendo il corretto cammino. E’ compito della persona ascoltare questo segnale, interpretarlo e fare in modo che questo sia una risorsa e una possibilità per poter rientrare nella corretta traiettoria.

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LA MORTE:

può essere letta come un sinonimo di un processo di maturazione che coincide con la saggia valutazione del destino, dal quale non si attende più di quanto è possibile nella precarietà temporale.

Ne consegue che chi accetta la vita con tutte le sue tappe, che passano dalla maturazione all’invecchiamento, infine, accoglie la morte come uno dei momenti che la compongono.