GRADUATORIA
2 MARIA TERESA ASTI PROTEZIONE ANIMALI 1 9 MARINELLA CATALDI ALICE , GOKU E LA CODA. 2
12 MASSIMO LO GIUDICE ANGOLI 3
3 LUCIA VESPERTINO HO SCOPERTO … AMERICA 4
4 SILVIA SCHIAVO CALORE 5 5 ORNELLA PIERACCI EQUILIBRISMI 6
8 ADA DI PIETROANTONIO INFERNO E RITORNO 7
10 FRANCESCA MONTAGNANI L’OCCASIONE DI ESSERE OSPITE 8
11 DANIELA FARANO NELLA TERRA DI ARDA 9 7 SALINES MARGHERITA DIETRO LA PORTA 10
6 PANINI PAOLA IL RICORDO DI UNA EMOZIONE 11 1 TANIA RIVA SENZA TITOLO 12
MARIA TERESA ASTI
PROTEZIONE ANIMALI
SEZIONE NARRATIVA
Nella sua carriera, un’assistente sociale, riceve miriadi di segnalazioni ,da Tribunali,
Procura, Forze dell'Ordine, scuole, pediatri, medici di famiglia, farmacisti, reparti ospedalieri,
associazioni di volontariato, vicini di casa, amministratori di condominio per non parlare di quelle
anonime. Ed io non sono stata da meno, ma nel ricevere una segnalazione da parte dell’ ENPA (ente
nazionale protezione animali) devo ammettere essere rimasta stupita.
Il mittente era inequivocabile, la sezione Enpa della nostra città. La missiva segnalava la situazione
incresciosa di alcuni gatti che subivano angherie e violenze, da parte di una bambina bionda. In
calce alla segnalazione si riportava che gli atti di cui sopra erano comprovati da testimoni nonché da
foto, le quali, nel rispetto della privacy erano a disposizione presso l’ente. Il presidente oltre a
ribadire la necessità di protezione per i poveri animali, che comunque era l’obiettivo prioritario
perseguito dalla loro associazione, esprimeva preoccupazione anche per la bambina, che agiva
comportamenti sadici senza alcun richiamo da parte di adulti e spesso in orario mattutino, dubitava
dunque della regolare frequenza scolastica della stessa .
Come dargli torto, non mi sarei certo mossa per i gatti, ma se le informazioni contenute nella lettera
fossero state veritiere indubbiamente c’era di che preoccuparsi. La mattina seguente nella posta
trovai una segnalazione per evasione di obbligo scolastico, era la stessa bambina segnalata
dall'Enpa.
Recandomi presso l’associazione ascoltai i racconti accorati di alcuni volontari e osservai alcune
foto che ritraevano una terrazza nella quale alcuni gatti, legati con un guinzaglio ben stretto alla
ringhiera venivano a turno immersi in bacinelle d'acqua, i gatti erano spelacchiati e sembravano
poco reattivi alle angherie.
Quando vidi la bambina per la prima volta, capii che i gatti non erano per nulla sottomessi, né tanto
meno si erano arresi all’evidenza, anche lei aveva graffi e cicatrici un po’ dappertutto.
La madre, contattata per telefono aveva, stranamente, accettato di buon grado il mio intervento,
raccontandomi, con un accento ciancicato, di essere vedova e di avere una figlia di difficile
gestione che frequentava la quarta elementare.
Mi presento per la visita domiciliare, apre una signora bionda, che mi ricorda immediatamente Igor
di Frankenstein junior. Un occhio ad est ed uno ad ovest, un andamento dondolante, pareva gobba,
in realtà camminava di ¾, e per concludere aveva un ghigno che non sapevi se ti sorrideva o ti
prendeva in giro. Molto gentilmente mi informò che la figlia, saputo del mio arrivo,si era barricata
in bagno.
L’ appartamento era ampio e signorile, infissi di pregio, sufficientemente pulito ma un po’ carente
nella manutenzione, mentre ci dirigiamo in salotto noto, appoggiata al muro, un’enorme Barbie di
quelle a dimensione naturale, tutta nuda, scarmigliata nei capelli e con indosso soltanto un
pannolone. La Barbie non è cicciobello penso mmm…strano...ma è entrando in sala che sento odor
di pericolo. Erano i primi di maggio e in un angolo del salotto svettava stridente l’albero di Natale,
sofferente e senza stile, come il resto della casa. Leggermente inclinato a sinistra, gran parte degli
addobbi erano rotti, schiacciati, incrinati, mancanti di parti e comunque penzolanti senza un criterio,
un angioletto aveva il collo reciso e la testa inclinata in avanti, guardo meglio: gli angioletti
avevano TUTTI il collo reciso, parevano decapitati, un’esecuzione in piena regola. Guardo la
madre la quale con quel ghigno infernale con un occhio alla porta e l’altro al televisore mi dice: “
eehh Eleonora è strana, rompe tutto! Io sono disperata!!! eh eh anche la donna delle pulizie si
arrabbia, dice che l’albero gli fa paura!! eh eh” la strana risata e la battuta mi illuminano: non
ciancica, è ubriaca!
Qui è tutto STRANO Mi sento a disagio, sento un miagolio chiedo dove siano i gatti lei risponde “
chiusi in bagno con Eleonora “ “AH!”- Dico - io “ovvio”. Prendo informazioni, fratelli, amici
sport, parrocchia tutto negativo, due zii residenti in altra regione ed una nonna che abita poco
lontano. Chi è il pediatra: spara sette otto nomi diversi fra cui Rattazzi, “Ah -dico- il
neuropsichiatra?” - “Siii” - mi ghigna lei, - “ma Eleonora non ci vuol venire Ehhh io però ci vado”
- “dal neuropsichiatra infantile?” - “Si” . Mi dirigo verso il terrazzo, intravedo le famigerate
vaschette, mi ghigna “Eleonora ci fa il bagnetto ai gatti!” - potrei ringhiare - “lo so” - rispondo, -
“ma so anche che ai gatti non piace essere lavati” - lei – “Ehhhh” - poi - “ohhh” - e ghigna sempre
piegando in viso di tre quarti.
D’improvviso tre gatti si catapultano in sala, ne deduco che la porta del bagno deve essere stata
aperta. Mi giro e la intravedo, semi nascosta dallo stipite della porta. La curiosità ha vinto. La
madre “ Ele, vieni c’è l’assistente sociale, te l’avevo detto che veniva”. Una voce nasale e stridula
emette un “NO”, mi avvicino di qualche passo, intravedo una nuvola rosa ed una testa di capelli
biondi ancor più scarmigliata di quella della Barbie che nasconde gran parte del viso.
“ciao Eleonora” - le dico - “hai dei bellissimi gatti”.
E lei con quella voce nasale “A te piacciono i gatti?”
“Certo” le rispondo” ne ho uno grigio che si chiama Lucifero”
“che brutto nome, è cattivo?”
“no, ma è un po’ birichino, combina una sacco di guai”
“cosa fa?”
“Mi Graffia i cuscini delle sedie, ruba il cibo se lo trova sul tavolo”.
“Uh uh” se la ride di gusto.
Mentre Eleonora con la sua voce nasale e stridula, mi presenta Sissi, Franz e Ken e mi racconta la
storia della principessa-gatta e di Ken e Franz che rivaleggiano per il suo amore, osservo quella
bambina con gli occhi color turchese, deturpati da un forte strabismo, con indosso un baby-doll
rosa, stile anni ’60, vestaglia abbinata, ed un paio di ciabatte anch’esse rosa con un pon pon di
piume di struzzo. Quella mise, (probabilmente rispolverata da un armadio della madre), accentuava
l’impaccio dei suoi movimenti e rendeva i suoi passi instabili. Spesso inciampava, tirava una
parolaccia, starnutiva con una certa regolarità, ed ogni volta si puliva il viso con il voilant rosa
della manica e intanto mi chiedeva se il mio gatto era fidanzato, se gli piacevano più i croccantini o
i bocconcini e se avevo una foto da farle vedere. Le risposi di no, lei mi disse di aspettarla e si
allontanò dalla sala.
Nel giro di poco avevo cambiato film: dalla tensione alla Dario Argento nello specifico il gatto a
nove code, mi ritrovavo nell’atmosfera grottesca dell’Amarcord felliniana.
Ritornò con un enorme album sottobraccio, dondolando, inciampando, con una mano si tirava su la
vestaglia e con l’altra tentava di trattenere l' album che, sulla stoffa acrilica della mise, sgusciava
come fosse vivo, perse una pantofola, cadde l’album, ed alla fine cadde anche lei.
La madre per la centesima volta disse soavemente :”Ele!!!!!”
L’aiutai ad alzarsi lei accettò la mia mano, le dissi che il vestito era troppo scomodo per lei ma
rispose decisa “però è bello”. Ci sedemmo sul divano , la mamma mi chiese se “gradivo un caffè” “
No grazie non lo bevo mai”, insisteva pesantemente patteggiammo per un succo di frutta. Nello
stare seduta accanto a lei sentivo chiaramente un odore di feci, pensai che i gatti avessero defecato
sul divano. La relazione si fece rilassante mi mostrava le foto dei suoi gatti e di alcuni parenti: la
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nonna, il padre deceduto, la casa dove abitavano prima della separazione, la prima comunione.
Faceva battute che ricordavano più un adulto navigato che non una bambina delle elementari del
tipo “bella tua nonna “si, quella Stronza”. Oppure “Questo è tuo zio?”
“No è quello che frega tutti i soldi a mamma”
Alla fine feci la fatidica domanda:” Cos’è accaduto agli angioletti del tuo albero?”
e lei decisa “ Sono stati cattivi dovevano proteggere il mio babbo e invece l’hanno lasciato
morire”
“AH “ risposi ”erano angeli custodi”
lei - “custodi un cazzo” -
la madre “Eleeee, non si dicono quelle parole, che penserà la dottoressa?”
“Pensa a quelle che dici te” - poi rivolgendosi a me - “sentisse che dice quando si fa gli
aperitivi!!!!!!!”
La madre ebbe una reazione inaspettata, addosso alla bambina arrivò un oggetto non ben
identificato accompagnato da un urlo che quasi mi fece sobbalzare - “sei proprio una stronza, si una
stronza di figliola, ecco cosa sei”- la nuvola rosa balzò in piedi e, più o meno barcollante, si diresse
verso la madre, le due iniziarono ad accapigliarsi , letteralmente ognuna aveva le mani nei capelli
dell'altra, se li tiravano con forza tentando anche di pizzicottarsi e storgersi ora le guance, ora il
naso ora le labbra, quasi a volerle strappare una scena più ridicola che violenta. Naturalmente mi
intromisi cominciando a dire “su signora non faccia così”, ”dai Eleonora guardiamo le foto” – “ma
che fate”.
Non era il classico maltrattamento di minori, diciamo che ….si maltrattavano a vicenda.
Nella concitazione il vestito rosa si fece marrone e la provenienza dell'odore di feci diventò
inequivocabile. Mi rivolsi alla madre “penso che abbia avuto un problemino” ammiccando con gli
occhi la zona incriminata, lei riprendendo il suo ghigno naturale mi disse “no è la copresi”
“come scusi?”
“si la copresi quella che gliela fa venire piano piano”
“a quel punto la bambina urlò “mi faccio la cacca addosso”
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“AH !!!! -dissi io- “ soffri di encopresi!”-
lei mi fissò un'instante come a dire “ma te che ci fai qui? “-
invece disse - “tanto il pannolone non me lo metto e a scuola non ci vado”.
Così la baruffa tra loro, come d'improvviso si era scatenata, d'improvviso scemò.
Quanta infelicità, quando dolore, trasparivano da quella scena, una madre ed una figlia,
abbandonate alla loro imperfezione ed alle loro condotte inadeguate, accompagnate solo da
un’infinita solitudine, mi fu chiaro che avevano entrambe necessità di aiuto e che non sarebbe stato
facile riuscire a darglielo.
Approfittai di quella quiete ritrovata per concludere la visita, patteggiai con Eleonora che non
avrei insistito per la scuola se avesse accettato un appuntamento con me ed il Dr Rattazzi e con la
madre un bicchier d'acqua per interrompere la nuova pressante offerta di caffè. Non mi lasciavano
uscire, era tutto un “...senta, senti “...guardi, allora”, alla fine bevvi il bicchier d'acqua, abbracciai
Eleonora e me ne andai.
Quando chiusi il portone pensai a Dante Alighieri..”…..e quindi uscimmo a riveder le stelle…”
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LUCIA VESPERTINO
HO SCOPERTO …AMERICA
Il nostro rapporto non era iniziato nel migliore dei modi e d’altronde come poteva. Condannata,
eri al mio cospetto solo in virtù di un provvedimento giudiziario che obbligava te , recalcitrante, a
rendermi partecipe della tua vita ed impegnava me a restare dentro quella relazione difficile, ad
elaborare i tuoi umori neri , come nera era la tua pelle. A nulla sembravano servire gli sforzi per
sostenere le tue ferite , così tanto profonde da farmi sembrare di non vederne mai il fondo. Dietro
quella smorfia infastidita che mi proponevi all’inizio di ogni nostro incontro e che mi faceva
cascare in un iniziale sconforto , scorgevo sempre quella sofferenza muta, piena di silenzi , ma che
urlava dentro te così tanto da farti immergere in un pianto liberatorio ogni volta che giungevamo al
termine del colloquio. Con te mi sentivo sempre un’assistente sociale di prima leva, bisognosa di
attingere non soltanto a ciò che avevo appreso in tutti i miei anni di studio, ma anche e soprattutto a
ciò che ero diventata esercitando nel tempo questa professione. Dovevo fare appello a tutte le
risorse che pensavo di aver acquisito , prima tra tutte la capacità di ascolto! Eh si , perché quella
sofferenza sembrava trovare sfogo attraverso la tua corporeità solo perché nessuno ne ascoltava le
parole. Me ne sono resa conto il giorno in cui sono entrata nel tuo mondo : cara America.
Ricordo che il giorno prima eri tesa più che mai. A stento fornivi le informazioni per consentirmi
quella tanto agognata visita domiciliare che da tempo, con futili pretesti , continuavi a rimandare.
Non avevo mai fatto insistenza, volevo che ti sentissi pronta ad accogliermi al tuo domicilio , ma
quando mi sono accorta che non era mai il momento giusto , ho deciso che dovevo stanarti. C’era
una parte di te che mi sfuggiva, un pezzo che mancava al puzzle della tua vita e senza il quale non
riuscivo ancora ad orientare il mio lavoro con te. Eri in esecuzione penale ma sembrava già che le
limitazioni più grandi te le imponessi da sola! Non un accenno di entusiasmo , non un briciolo di
iniziativa, solo tanta sofferenza che trovava nella rabbia e nel pianto le sue più alte forme di
espressione.
Ricordo quel giorno come se fosse ieri! Alla fine ti ho sentita rassegnata e pronta ad incontrarmi in
quella che credevo fosse casa tua …non capendo invece che eri più ospite che padrona. Lontana
dal centro abitato ed in una posizione isolata si ergeva un piccolo podere in pietra , a prima vista
recentemente ristrutturato . Dentro però tutto sembrava profumare di vecchio, di stantio e rendeva
l’idea che quelle mura non conoscevano il trascorrere del tempo ; tutto sembra immobile! .
Quel giorno ti ho trovata sola in casa e questo mi ha dato modo di pensare , ancora una volta, che
il tuo compagno si era ben guardato dal presentarsi a quell’incontro o che tu avevi deciso
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deliberatamente di non farmelo incontrare. Seduta con il tuo Yorkshire sulle gambe, che trattavi
come fosse il tuo bambino, hai iniziato a rispondere alle mie domande , trasformando inizialmente
quel colloquio in un mezzo interrogatorio. Man mano però che mi guardavo attorno e scorgevo
tante cose di lui e poche di te, un sospetto dentro di me si faceva strada . Ho iniziato così a
chiederti sempre più cose sul tuo legame con quell’uomo che , superficialmente , continuavi a
ripetere che ti aveva salvata. Salvata da chi? Da cosa? Da lì mille idee hanno attraversato la mia
mente ed il tuo passato rimaneva ancora un terreno inesplorato. Sapevo che avevi conosciuto
quell’uomo facendo la badante per l’anziana madre , dopo il nulla. Solo poche informazioni sulla
tua vita in Colombia ed un racconto sterile sulla tua permanenza in Italia. Neanche gli atti
documentali mi chiarivano bene il perché ti eri macchiata di quel reato. Ma rispettavo la tua volontà
e nell’intuizione che tu non fossi una pericolosa sociale, mi rassegnai all’idea seguirti per ciò che ti
mostravi “Qui ed Ora” , con l’occhio rivolto al presente .
La casa risuonava di un silenzio assordante, in linea con il tuo umore . Una foto di lui con una
bottiglia in mano ed un atteggiamento goliardico mi ha portata a chiederti se era solito bere. Da lì
mi si è spalancata una finestra. In un serrato giro di domande che sgorgavano con la sete di
conoscenza, non ricordo come, ma è successo che hai iniziato a piangere come una bambina e
quell’uomo da “Salvatore” ha iniziato ad assumere le sembianze di un “tiranno”.
Da lì a poco mi hai rivelato che beveva ed anche tanto! A stento hai lasciato intendere di esser stata
vittima dei suoi maltrattamenti ma non riuscivi ancora a dichiararlo né tantomeno a denunciarlo.
Ho scoperto che eri la sua schiava. Una di quelle schiave alle quali si da un domicilio migliore di
quello che hanno sempre avuto, pochi euro in tasca , un vitto decente in cambio di servizi,
compagnia e silenzio.
Quello che a te sembrava e che forse era stato inizialmente un atto di benevolenza, si è trasformato
in un modo come un altro per comprare una vita umana, per intrappolarla in una gabbia
apparentemente dorata ma che rimaneva pur sempre : una gabbia.
Eri un ostaggio , senza tutto ciò che ti avrebbe potuto permettere la conquista della tua libertà. Ed io
capii che dovevo partire proprio da lì per aiutarti.
Per smorzare quel fiume di lacrime e quel racconto che sarebbe stato ormai inutilmente forzato, ti
ho chiesto di condurmi in giro per casa e per il giardino. Una, due battute sul disordine di casa mia,
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hanno acceso il tuo sorriso che fiera hai iniziato a mostrarmi con quale cura accudivi
quell’appartamento, che era e rimaneva il tuo rifugio ed al tempo stesso la tua prigione.
Lì , in quei metri quadrati si giocava la tua vita e tu cercavi di sopravvivere. E’ stato al termine della
visita domiciliare, dopo che quel giretto per il giardino sembrava averci regalato più fiducia, che ti
ho proposto un inserimento lavorativo . Mille dubbi, infinite paure hanno attraversato di colpo i tuoi
occhi nei quali, però, scorgevo finalmente una fioca luce di speranza.
Quel giorno , prima che rimontassi in auto, ci siamo lasciate con la promessa che ci avresti pensato .
E ci hai pensato difatti ed hai anche accettato quel piccolo lavoretto che ero riuscita a prospettarti e
che, per quasi sei mesi, ti ha vista rinascere, trasformarti in una donna capace di uscire dal suo
rifugio per esporsi e proporsi nuovamente al mondo.
Quando venivo a trovarti a lavoro vedevo un’altra America, sorridente, socievole, che si
organizzava con le colleghe per una passeggiata al parco .
Raccontavi che anche la relazione con il tuo uomo sembrava aver subito delle novità. Lui era andato
a vivere dall’anziana madre e tu dicevi che finalmente eri rimasta sola in casa.
E poi un giorno, lontano dalla conclusione della tua pena, quando ormai avevo perso le tue tracce
mi è giunta una telefonata. Eri scomparsa di nuovo, ma questa volta per sempre, passeggiando in
solitudine in una stradina vicino casa , colta da un malore ed in compagnia del tuo amato cagnolino.
Ti ho pensato tanto e continuo a pensarti ancora oggi e a chiedermi cosa avrei potuto fare di più per
te.
Non so darmi delle risposte. Mi limito soltanto a pensare che anch’io nella mia vita ho scoperto
l’“America” ; un mondo cioè pieno di contraddizioni, di bene e male, di dovere e diritto, di limiti
e possibilità, di fuga e di scelta, di luci e di ombre . A quel mondo vorrei aver regalato un piccolo
squarcio di libertà, in una cornice che profumava di aria di legalità
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SILVIA SCHIAVO
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ORNELLA PIERACCI
"EQUILIBRISMI"
SEZIONE NARRATIVA
Come ogni mattina entro in ufficio che già il telefono sta suonando, accendo il cellulare di
servizio e bip ripetuti segnalano chiamate e messaggi ricevuti, avvio il computer (sperando che
oggi il sistema non sia troppo affaticato già di prima mattina) e accedo alla posta elettronica fino
alla schermata di mail da leggere. Due appuntamenti, fuori la signora che aspetta. Un promemoria,
già, quella relazione da correggere e inviare. E l'urgenza di ieri, gli arretrati accumulati...
Con un po' di sconforto apro l'agenda e intanto valuto cosa lasciare indietro, quale impegno
ordinario far sfumare sullo sfondo per dare evidenza ai nuovi imprevisti e alle più recenti
incombenze: ecco, la visita domiciliare di verifica e monitoraggio da Lina, alle ore 11.00. Che
fare? Potrei rimandarla... Ma, nell'attimo stesso in cui mentalmente formulo quest'ipotesi, una
sensazione viscerale mi dice che invece andrò a trovare Lina e il suo amato Dante. Forse per
correttezza professionale, forse per un istinto di fuga per la sopravvivenza, chissà.
Così, a metà mattinata, evado dalla frenesia dell'ufficio e dalla schizofrenia del sistema per
tuffarmi nella follia più rassicurante e solida, inattaccabile, della signora Lina.
Come ogni volta, il mio frettoloso avanzare rallenta sul pianerottolo, per lasciare il tempo
ai pensieri, alle emozioni e al respiro di sintonizzarsi su una diversa lunghezza d'onda; come ogni
volta, all'ultima rampa di scale arriva quella consueta apprensione – che mi spinge ad entrare in
punta di piedi ogni volta che faccio una visita domiciliare -, il timore di profanare delle intimità
lentamente costruite, di intrusione in nidi che, quanto più sono malandati, tanto maggiori sono la
fatica e il dolore con cui sono stati costruiti.
L'attesa che mi aspetta è scandita, al di là del portone, dall'ispezionare di Lina attraverso lo
spioncino, dalle tre mandate di chiavistello, dal rumore di quel mobiletto spostato. Sì, Lina ha
dovuto imparare a proteggersi e a tutelarsi da sola,
"...è una donna che non ha più voglia di fare la guerra..."
e la strategia della barricata è la difesa a cui ancora si affida, lei che si è trovata qualche volta di
troppo davanti a facciate esterne di portoni che l'hanno chiusa al di fuori.
Poi Lina apre, mi sorride dolcemente e mi accoglie nel suo microcosmo.
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Ecco il consueto disordine dilagante, gli oggetti sparsi ovunque, le scorte accatastate, gli
scatoloni di troppo; un clima da costante sgombero in atto, come se la stabilità fosse un lusso da
non dare mai per scontato.
Con il tempo ho imparato che il disordine di Lina altro non è che un diverso ordine, perché
la sua casa è espressione intima e sincera del suo mondo interiore confuso e sofferto, pieno di
assenze o di lontane presenze ancora ingombranti, un mondo da difendere, da presidiare.
Ecco quei panni ammucchiati che mischiano le stagioni, ecco quel groviglio interiore di
emozioni che si spintonano e si intrecciano.
E quelle poche foto sbiadite di attimi e affetti lontani, ancora molto vividi e fissati nella
mente e nel cuore; e quell'unica foto a colori, che tenta di far emergere, attraverso il sorriso di un
nipotino, un presente ed una realtà che Lina fatica ad afferrare.
E ancora quella specchiera incrinata, che gioca con la tua immagine e si prende gioco del
tuo saldo senso di identità.
Dante, sempre un po' sospettoso e riservato, è nella sua poltrona, silenzioso,
apparentemente assopito e disinteressato, sempre imperscrutabile, ma so che non mi perderà di
vista neppure per un attimo. Lina e Dante, da alcuni anni, sono ormai inseparabili, e l'intesa che li
lega non ha bisogno di parole.
Oggi la persiana è aperta, segno di relativa tranquillità, e la luce del sole filtra su alcune
piantine. Già, le piante, l'impegno quotidiano di Lina, la sua passione... Piantine piccole, tirate su
a partire da rametti spezzati e malandati, che Lina riesce a curare e a nutrire come fossero figlie
fedeli e affezionate, a cui parlare e sorridere, a cui trasmettere l'amore necessario a farle crescere
forti e rigogliose.
Mi perdo nel mondo di Lina, questa funambola che faticosamente ha conquistato un
fragile e delicato equilibrio sul filo della follia; mi trovo assorbita in un'oasi dove finalmente
trovo un po' di pace e di quiete. Dove faccio rifornimento di significato e di relazione.
Lina ormai ha fiducia in me, io ho ormai imparato a stare nella sua follia e a non avere
paura dei suoi deliri. Mi racconta così di Dante, che ultimamente non ha appetito e dorme troppo;
si lamenta, come da copione, dell'operatrice domiciliare che si è dimenticata di comprarle
quell'indispensabile tubetto di crema, di cui una scorta fa mostra di sé sulla credenza; si indigna
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per quel vicino che immancabilmente riesce ad entrarle in casa e a farle sparire le cose a lei care.
Bene, va tutto bene...
"...forse qualcosa s'è salvato; forse davvero non è stato poi tutto sbagliato..."
Anche il tempo da Lina scorre secondo un diverso ordine, finché l'incantesimo non viene
interrotto dallo squillare improvviso e incalzante del cellulare di servizio che mi riporta ai tanti
pensieri e impegni ancora da districare.
Passo ai saluti un po' frettolosamente, Lina mi riempie di ringraziamenti immotivati, io
avrei più di un motivo per ringraziare lei; raccomandazioni reciproche, le mie raziocinanti, le sue,
probabilmente, sagge.
Ma, come sempre, il saluto finale è da parte di Dante che, fiutando l'imminente ripristino
dell'equilibrio e della pace da me interrotti, balza sul pavimento e mi fa strada verso il portone,
congedandomi con una elegante strusciata di coda sulla gamba.
Mentre torno verso la sede del Servizio Sociale con l'immagine della casa di Lina ancora
nei pensieri, improvvisamente si sovrappone a questa l'immagine del mio ufficio: le crepe sul
soffitto, le sedie malandate, la scrivania polverosa, sommersa di cartelle e di documenti che si
sovrastano l'un l'altro, decorata di appunti e di post it in ordine sparso, colma di lavori avviati e
da concludere. Mi domando quanto sia differente da quanto appena lasciato da Lina, quale esausto
ordine mentale esprima e che impatto abbia sulle persone che ne varcano la soglia e si siedono di
fronte a me. Nell'ordine folle della casa di Lina, c'è Lina che fa la differenza e che rende il suo
piccolo mondo comunque capace di accogliere. E mi chiedo se, tra le scrostate quattro mura del
mio ufficio, anch'io riesca come lei a fare la differenza.
Mi siedo alla scrivania. Il telefono ancora sta suonando. Altri promemoria... Nuove mail...
Ma, prima di tutto, devo ricordarmi di inserire la "prestazione" sul sistema informativo...
Altrimenti da Lina non ci sono mai stata!
"... è tutto un equilibrio sopra la follia..."
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PANNI PAOLA
Il ricordo di una emozione
Sezione Narrativa
Il sole era alto quel mattino di Luglio quando lasciai
l’ufficio per andare ad affrontare una visita domiciliare
che già immaginavo non facile. La mia Area di utenza era
l’Handicap adulto e già avevo un certo numero di persone
in carico e mi ero anche fatta una esperienza particolare
sulla psicologia delle persone affette da disabilità ma
ancora non avevo incontrato LEI. Luisa era particolare,
affetta dalla sindrome di Friedrich nata da una famiglia del
sud Italia dove anche le sorelle avevano ereditato la stessa
malattia chi in forma lieve chi come lei più grave , venuta
in Toscana per avere un’assistenza migliore, era una
ragazza intelligente e caparbia ed aveva deciso di farcela da
sola, pur consapevole del carattere degenerativo della sua
malattia.
Arrivo all’indirizzo datomi e rimango perplessa: mi appare
una saracinesca sollevata a metà da terra, penso di aver
sbagliato ma prima di andarmene decido di dare
un’occhiata all’interno di quell’ambiente che non aveva
l’aspetto di un negozio o di un magazzino. Nell’interno
scorgo una ragazza seduta su una carrozzina dall’aspetto
malinconico. Busso sul vetro della piccola porta che stava
dietro la saracinesca ed aspetto un segnale: una mano
volitiva mi fa segno di entrare in quella che poi Lei
definirà la sua casa . Io l’avrei chiamata poi “fondo di
bottega”. Ricordo ancora dopo tantissimi anni la tristezza
che mi pervase.
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“Buongiorno, mi chiamo Angela e sarò la sua nuova
assistente sociale”
“Buongiorno , vieni ed accomodati . Speriamo che tu non
vada via presto come fanno tutte”
Accomodarsi dove …non sapevo. L’ambiente era buio
ovviamente, prendeva luce solo dalla strada ,una di quelle
strette del Centro storico. Lo spazio era stato diviso in due
locali virtuali, da una parte un materasso gettato in terra le
faceva da camera da letto. Su un altro lato della stanza un
fornetto sistemato su un mobile vicino ad un frigorifero
rappresentava la sua cucina . Esisteva in un angolo anche
una specie di bagno che non saprei come definire:Luisa
poteva utilizzarlo solamente con l’aiuto di una signora che
abitava al piano soprastante che ad orari precisi scendeva
ad aiutarla! Non ricordo di aver trovato dove
accomodarmi . Iniziamo con le solite formalità.
“Luisa mi parli della sua giornata, come si svolge?”
“Al mattino una signora alza la saracinesca, viene ad
aiutarmi per l’igiene e la vestizione, mi aiuta a sedere sulla
carrozzina e poi con un taxi vado al lavoro. L’ambiente
viene pulito e quando torno trovo il pranzo pronto da
riscaldare. “
“Dove lavora e per quanti giorni?”
“Sono custode presso un Liceo scientifico dove vado tutti i
giorni e sono soddisfatta”
Ascoltavo con molto interesse questo suo racconto di vita
giornaliera ed ero sempre più colpita dalla sua voglia di
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essere autonoma . Ne ebbi prova ancora più convincente
quando nei mesi successivi provai a formulare delle ipotesi
di abitazione in ambienti con un minimo di controllo.
Avevamo più o meno la stessa età ed ero consapevole del
ruolo che stavo ricoprendo ma in quel momento le
emozioni più profonde scaturite da quella visione generale
e dai suoi racconti hanno preso il sopravvento . Ero
consapevole di provare qualcosa in più rispetto al dovere
professionale e Luisa stava diventando quel qualcosa in più
che ha messo in movimento tutte le capacità creative che
avevo a disposizione per cercare di offrirle una vita
dignitosa.
Ho parlato a lungo con questa ragazza , Luisa stimolava
molto le mie capacità di assistente sociale ed insieme nel
tempo siamo riuscite a fare progetti per rendere più facile
la sua vita indipendente.
Sono seguite molte altre visite domiciliari ma il ricordo
della prima è così ancora oggi limpido davanti ai miei occhi
come chiari sono gli insegnamenti che io ho avuto da Lei
che mi portano a dire: “grazie Luisa”.
La nostra conversazione diventò subito familiare e credo
di aver infranto qualche comportamento professionale .
Come poi ho sempre insegnato alle mie tirocinanti: è
impossibile non essere influenzati dalle nostre emozioni.
C’è sempre qualcosa nascosto dentro di noi che viene a
galla riportato in superficie dagli eventi esterni. Ed ancora
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dico loro: La nostra capacità sta nell’aver coscienza di ciò
che ci sta accadendo per poter agire possibilmente un
controllo.
Ricordo di essere uscita da quella visita fiera di essere
un’assistente sociale che grazie al proprio lavoro entra in
contatto con simili situazioni ,altrimenti non conosciute , se
non parzialmente e principalmente consapevole che avrei
potuto essere un punto di riferimento per la caparbia Luisa!
Sono trascorsi molti anni e la mia vita professionale è
andata avanti, ho cambiato varie posizioni lavorative e pure
città e… non so più nulla di Lei .Luisa non sa che sto
scrivendo della sua vita …forse sarebbe felice o…forse no.
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SALINES MARGHERITA
Dietro la porta SESSIONE NARRATIVA
Benedetta sbuffò. Gli occhi cadevano in modo automatico sulle lancette dell’orologio che si
inseguivano inesorabilmente come in una corsa olimpica; anche questa volta avrebbe chiesto scusa
per l’ennesimo ritardo.
“È fondamentale rispettare l’orario quando si fissa la visita domiciliare.”
Risuonava come un martello pneumatico la frase della docente la cui voce rimaneva sospesa a
mezz’aria come un ragno che dondola nel vuoto.
Benedetta saliva a fatica le scale, l’ascensore rappresentava per lei un pericolo, un’avversione
innata.
Sul pianerottolo l’aveva accolta un odore di fritto e un’attesa musicale di fronte a una porta
fatiscente che non voleva aprirsi. L’assistente sociale si era distratta a guardare la serratura che un
tempo doveva essere di marca, ma che la patina di sporco, incrostata negli anni, dava l’immagine di
ferraglia acquistata al mercato dell’usato. Dopo lo scatto metallico comparse una bambina con le
“code” allentate, aveva scostato l’anta per far entrare “l’intrusa” con la speranza che la mamma
l’avrebbe mandata via senza tanti preamboli ed evitare una lunga interruzione al suo gioco. Gli
adulti si sono scambiati uno sguardo formale accompagnato da una stretta di mano che sanciva
l’inizio della visita professionale.
Ognuno a modo suo aveva le parole fra i pensieri che come un sentiero ombroso si perdevano su
ciò che li avrebbe impegnate al termine del colloquio.
Giusy proruppe nel silenzio:“Desidera un caffè?” Si muoveva nella modesta cucina come un
automa obbligata come chi“doveva seguire un criminale”. L’odore del caffè si mescolava a quello
del detersivo che giungeva dal piccolo bagno adiacente. La bambina era entrata in cucina e dopo
una carezza distratta Giusy l’aveva allontanata nell’altra stanza portandosi a seguito i balocchi per
evitare che si affacciasse di nuovo col fare curioso.
Benedetta non ha mai capito di preciso come e quando è successo, ma quando le lacrime hanno
incominciato a rigare il volto della donna, solo allora l’ha vista con altri occhi, come la sua
situazione richiedeva.
Giusy insisteva a scrutarla da dietro il tavolo, le mani aperte, in attesa di capire se il divario fra lei e
l’operatore fosse superabile. Ridurre le distanze per potersi fidare.; poi come un uragano in piena
Giusy vomitava parole che si ripetevano senza un significato preciso, indispettita di un trattamento
ingiusto, ripeteva: “ieri l’ho visto!”
Si riferiva all’uomo che le aveva causato tante ferite insanabili.
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“Rivederlo è stato come la prima volta, l’incubo si ripete ancora: quel giorno ero in cucina a
pulire, spesso non andavo a scuola perché il compagno di mia mamma non mi mandava.
Avevo già la strana sensazione che poi “quella cosa” sarebbe successa. Quella mattina
girellava per la casa, di solito ci picchiava e basta. Lui è andato in camera della mamma, si è
seduto e mi ha chiamata. Mi ha fatta sedere sul letto, mi diceva che oramai ero cresciuta.
Avevo 8 anni. Avevo ancora il grembiulino addosso. Da quel momento ho cercato di pensare
di essere in un altro corpo, ho girato il viso. Guardavo quel copriletto (che odio!), ricordo che
dentro di me contavo, stringevo i denti, ho provato a dirgli che mi faceva male, ma lui diceva
“tranquilla, dai, non senti niente.” Poi finalmente finiva tutto! Sapevo che poi sarebbe
successo altre mille volte. Infatti poi è andata così. Appena eravamo soli in casa succedeva, di
mattina solo quella volta, poi la sera, dopo che avevo addormentato la mia sorellina e fratello.
Andavo in bagno spesso, aprivo la finestra, volevo scappare di lì, poi lui mi veniva a
chiamare “vieni?”, con quell’accento siciliano che odio. E poi vabbè, non è che mi chiamava
per nome, mi chiamava Mozzona. Diceva che ero scura come un mozzicone delle sigarette e
per questo lo odiavo ancora di più. Andavo in bagno, aprivo la finestra e pensavo a come
scappare. Ma non avevo il coraggio di farlo, avevo paura che mi avrebbe preso in tempo,
soprattutto per i miei fratelli, poi lui aveva i fucili in casa e ci minacciava, lo faceva con noi e
con la mamma, e noi non dovevamo dire niente. Poi uscivo dal bagno, ormai era un rito,
alzava il volume e succedeva di nuovo sul divano. Quando tutto finiva andavo in camera, e
mio fratello mi diceva “che ti ha fatto? Tanto io lo so che ti ha fatto” e io gli dicevo di stare
zitto, infatti con mio fratello ho un rapporto intenso.
Queste cose sono andate avanti per tanto tempo. Provavo tanto odio per questa persona, odio
profondo, ogni tanto cambiava canale quando c’erano certi film che trattavano questi
argomenti e io capivo che c’era qualcosa che non andava in lui, c’era qualcosa di malato. A
scuola le mie amiche mi chiedevano “perché hai tutti questi segni?”, ho iniziato a raccontarlo,
avevo paura non volevo più dire niente. La maestra mi prese da parte, ma io non volevo
raccontare più niente, avevo paura che avrebbero ucciso tutti, mia mamma, i miei fratelli. Nel
frattempo mi avevano chiesto di parlare con qualcuno al telefono, non ricordo chi……”
Alcune lacrime sono calate alla sprovvista, Benedetta le ha sentite arrivare e si è sentita in
imbarazzo; così non poteva esserle d’aiuto. Istintivamente si è avvicinata a Giusy
riconoscendole un’aria indifesa e rabbiosa. Salutandola dolcemente, Benedetta promise di
ritornare.
Con la consueta telefonata annunciava a Giusy che si sarebbe presentata verso le ore 12.
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Con la luce che si apriva sul pianerottolo, Benedetta suonò senza esitare con la curiosità di
conoscere le sorti che la vita aveva maledettamente riservato a Giusy.
Questa con fare esitante tuonò :“Ricordo che ero sulle scale e loro, gli affidatari, giù che mi
aspettavano. Con loro è iniziata la normalità. Ero finalmente tornata bambina. Ho provato
tante sensazioni belle, cantare a squarciagola le canzoni che ascoltavo in macchina,
impegnarmi nelle regole, sentire l’odore del pollo della rosticceria quando si tornava dal
mare, il profumo che emanava il lenzuolo che mi avvolgeva e mi “proteggeva”. A volte mi
prendeva la voglia di raccontarle tutto (all’affidataria), perché aveva un modo di fare che mi
faceva aprire, anche perché io avevo la chiara percezione che lei sapesse del mio passato.”
Come un lampo improvviso Benedetta si riscosse dal torpore, era diventato un chiodo fisso,
sentiva che oramai si era consolidato il legame con Giusy e meritava le sue confidenze
Solo più tardi, avrebbe scoperto le vicissitudini che hanno accompagnato Giusy nel
raccontare gli stessi episodi come una pellicola di un film vista più volte da uno spettatore,
mentre gli occhi le bruciavano nello sforzo di contenere le lacrime.
Parlava così, di poliziotti con sguardi interrogativi e curiosi nel cercare nelle parole di Giusy,
come in un sottobosco, elementi di accusa contro il carnefice. Giudici annoiati e autoritari con
l’intento di dispensare “la legge” più che a curare le ferite aperte di un cucciolo “umiliato”.
Questa è l’immagine che Giusy conserva di quei giorni.
A distanza di mesi Benedetta ripercorreva la strada con lieve trepidazione, poteva suggerire a
Giusy interventi che potevano offrirle la possibilità di ricucire i lembi di una vita strappata
dalle fauci di un’enorme bestia innominabile. Dalle scale, riflessi accecanti del sole si
stagliavano sul portone lasciando trasparire quanto di più c’era al’’interno. Il vecchio portone
aveva ceduto il posto ad uno di cristallo.
Per lo meno così era apparso a Benedetta.
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ADA DI PIETROANTONIO
INFERNO E RITORNO Una particolare visita domiciliare SEZIONE
NARRATIVA
“Inferno e ritorno”, potrebbe essere il titolo di un film o della copertina di
un CD musicale. Potrebbe anche essere il tema di una conferenza di natura
teologico spiritualistica. Ovvero, il titolo di prima pagina di un quotidiano,
riferito ad un traumatico e crudo evento.
“Inferno e ritorno” è il titolo che ho voluto dare ad un ricordo duro e lordo
di sporcizia vera e presumibile spazzatura politica. E’ il titolo che ho voluto dare
ad una particolare visita domiciliare. Un evento di anni or sono, ancora vivo e
scolpito a fuoco nella memoria lucida della mia coscienza e nei depositi pietosi
del cuore.
Era una bollente giornata di luglio e in pieno mezzogiorno, con la macchina
di servizio, insolitamente una panda nuova ed accessoriata, mi ritrovai circondata
da una decina di uomini per lo più con accenti dell’Europa est e con una
fisiognomica poco rassicurante, nel lercio e desertico slargo di una decrepita villa
dagli antichi splendori, invasa da centinaia di stranieri, immagino per lo più
clandestini.
Ero entrata in auto all’ingresso della villa, tra due balaustre diroccate, oltre
le quali si aveva l’impressione di varcare un fronte di guerra. Con apprensione
guidavo a passo d’uomo tra cumuli di pattume e vecchie carcasse di auto
bruciate, mucchi di pneumatici sberciati e in parte inceneriti. Chi abitava in quel
posto infernale? Sconcertata, mi guardavo intorno, temendo che qualche cecchino
sparasse dalle finestre sbrindellate della magione. La villa aveva un centinaio di
orecchie attaccate ai muri e sul tetto. Decine e decine di parabole che lasciavano
intendere che lì vi abitavano in molti. Quando alzai lo sguardo per vedere le
parabole sul tetto, spalancai la bocca dallo stupore. Il tetto era pieno di
immondizia. Ebbi il dubbio di aver sbagliato indirizzo e pensai che ero capitata
in una sorta di famigerata discarica abusiva.
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Seppi in seguito che era diventata davvero una discarica
abusiva a cielo aperto, dove si erano insediati centinaia di
stranieri, in parte con il consenso più o meno esplicito delle
autorità e degli enti locali.
Quando li vidi arrivare, in modo istintivo attivai la
chiusura centralizzata e aprii solo di un centimetro il
finestrino. Una decina di sguardi ostili mi incenerirono.
Io sorridevo, ma ero così terrorizzata che forse più che
un sorriso pareva un ghigno.
“Sono la dottoressa ...” e dissi il mio nome e cognome,
“Sono un’assistente sociale e ho un appuntamento con la
signora H. L. Ho parlato al telefono con suo marito il signor
H. M. Per favore, mi sapete dire se è questo il posto giusto?”
Una voce rassicurante, da dietro il drappello di biechi
figuri: “Si, si L. è qui è la mia mamma! Vieni! Vieni dietro a
me!”
Era un ragazzo di circa tredici anni. Si incamminò
davanti alla mia auto.
Andavamo così piano, che potei vedere cose
inimmaginabili, eppure quel che riuscii a fotografare con lo
sguardo, non esaurì la realtà.
Liquami di non ben chiara natura scorrevano per terra e
piccoli roditori si contendevano un boccone prelibato, da un
mucchio di pattume. Improvvisamente, lasciarono il pasto
conteso, che un grosso ratto ingoiò d’un botto.
Avevo l’impressione di essere entrata in un film
dell’orrore, e che niente di ciò che stavo guardando, fosse
reale o probabile qui, non così lontano da casa mia.
Mentre trattenevo conati di vomito e rabbia, lo sconcerto
cresceva.
Lasciai l’auto dove mi indicò il ragazzino e lo seguii.
C’erano molti bimbi che giocavano spensierati in quel
putridume ed era un’ora in cui sarebbero dovuti stare a scuola.
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Dopo un breve tragitto in un viottolo, in quel che restava
delle antiche vestigia del giardino della villa, arrivammo
all’abitacolo.
Un uomo a torso nudo si faceva inondare da un fascio di
acqua prorompente da un tubo di circa dieci centimetri di
diametro. Era il signor H.M. padre del ragazzino, nonché
marito della signora H.L. Mi invitò ad entrare.
All’interno c’era la signora di quarantasei anni, distesa
sul letto. La testa lucida e calva, era la prova della recente
chemioterapia. Pareva un’anziana in fin di vita.
Si sentiva un forte odore di candeggina e di vomito. La
famigliola abitava in due stanze, senza nessuna finestra e
senza bagno o acqua potabile in casa. La luce proveniva da
una lampadina appesa ad un filo che andava da parete a
parete. Allo stesso filo erano anche appesi dei panni.
Il ragazzo era l’unico che sapeva parlare bene l’italiano e
fece da interprete. Mi supplicò a nome della madre, di trovarle
una sistemazione in un posto più adatto. La madre, infatti,
aveva un tumore in fase terminale e necessitava di cure
palliative. Era stata segnalata dall’associazione che si
occupava delle cure palliative a domicilio. I medici, gli
infermieri e il personale OSS avevano serie difficoltà ad
attivare il servizio in quelle condizioni di grave degrado.
I grandi occhi azzurro-verde della signora, umidi di
disperazione e supplichevole speranza, imploravano pietà e
rispetto per quel che restava della sua vita incenerita dalla
malattia e da un destino perfido.
Non ricordo cosa dissi, né i miei gesti o espressioni.
Quando provo a ricordare, mi colpisce un pugno alla bocca
dello stomaco e mi esplode un petardo nel cervello.
So che la camminata di ritorno all’auto fu a passo svelto
e con il capo chino, nel terrore di assistere ad altre brutture e
nefandezze.
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Dopo aver sormontato non pochi intralci burocratici, la donna, morì di lì a
poco, in modo “decoroso” e con le dovute cure e attenzioni, in un Hospice.
Rientrata in ufficio, segnalai subito a chi di dovere, l’esistenza di quel posto
terrificante. Tutti lo conoscevano già, ma pochi vi erano entrati, giacché, come
venni a sapere in seguito, lì non entrava neppure la polizia. Lo facevano in gran
numero e in tenuta antisommossa.
Dalla segnalazione passarono alcuni anni prima che quel posto dannato
fosse sgomberato e bonificato.
Il ricordo scorda i dettagli, ma non gli odori, i colori, il senso di impotenza,
di disgusto e vergogna di fronte alle colpe altrui.
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MARINELLA CATALDI
Alice, Goku e la coda
Ambarabà cicì cocò, tre galline sul comò
No, no!
Tre civette sul comò!
Ricominciamo.
Ambarabà cicì cocò tre civette sul comò
che facevano all’amore con la figlia del dottore
il dottore s’ammalò
Ambarabà cicì cocò.
Il dolore alla testa però non passa.
Riproviamo
Ambarabà cicì cocò tre civette sul comò
che facevano all’amore con la figlia del dottore
il dottore s’ammalò
Ambarabà cicì cocò.
Niente da fare. Non funziona.
Ma quanto ci mette quella a venirmi a prendere. Aiuta così i bambini?
Le lancette lunghe della sveglia si sono spostate dal sei al nove. E’ passato tanto tempo, no?
Fuori c’è la neve e io sono in mutande e maglietta, con le ciabattine ai piedi.
Anche continuare a giocare a Dragon Ball non funziona. Ho provato a evocare le sette sfere
magiche, ma oggi Goku ha perso i superpoteri e non ha nessuna voglia di mettersi in azione.
Forse perché sono davvero il demonio, come dice nonna.
Una volta m’ha fatto vedere anche un disegno.
E’ tutto rosso con le corna sulla testa e i piedi da capra. E con la coda.
Se non smetto di fare il cattivo anche a me spunterà la coda, dice sempre. Per questo mi tocco
sempre il sedere.
“Smettila, non si fa”, dicono i grandi, ma è per via della coda che ho scelto Goku.
Per la coda e perché lui, anche se è nato per fare il cattivo, lui il buono con i superpoteri riesce a
farlo davvero, eccome.
E’l’Uomo Ragno che somiglia di più al diavolo. Ecco.
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Quando sono Goku non ho il dolore alla testa. Faccio i compiti da bravo e nonna mi fa mangiare da
lei in sala da pranzo, se mamma dorme.
Questa storia che sono indemoniato mi fa aumentare ancora di più il dolore alla testa, anche se i
grandi non capiscono che è proprio il dolore alla testa che mi fa fare il cattivo.
Guarda oggi.
Mamma dorme da tre giorni e nonna ci ha lasciato soli.
E’ andata a casa di zio, ma è da quando nonno è morto che non la guarda più come prima.
Mamma m’aveva detto di non fare la spia
Cosa dovevo fare?
Sono uscito e mi son messo a gridare aiuto a tutte le macchine che passavano.
Va bene, ero in mutande e maglietta, con le ciabattine ai piedi e a Febbraio fa ancora tanto freddo,
per questo a volte nevica.
La maestra ce l’ha spiegato bene proprio l’altro giorno.
Io ero così contento d’aver capito tutto che dopo sono riuscito a fare anche un bel disegno, con le
montagne e gli alberi bianchi.
Poi ho sbagliato a scrivere, è vero, ma perché sono un po’ imbranato, come dice la psicologa, mica
perché sono scemo.
Cosa dovevo fare se nonna se n’è andata e mamma dorme da tre giorni e non mi manda a scuola e
non mi fa da mangiare e qui è tutto sporco, i sacchi sono pieni di panni sporchi e di immondizia e
c’è la cacca di Rambo dappertutto e io per uscire di corsa mi sono smerdato anche tutti i piedi?
Cosa dovevo fare?
Tutti rallentavano, poi quando capivano che ero io, se ne andavano via e scuotevano la testa.
Uno l’ha anche detto. L’ho sentito. Ha detto:
“E’Maurino. Che sta combinando di nuovo quello scemo?”
Poi è passato Fernando e quando m’ha visto è stato lui che ha telefonato alla signora Caselli.
Fernando è il mio amico speciale. Dopo quella riunione a scuola mi fa dormire da lui e giocare con i
suoi figli il sabato e la domenica.
Ecco, Fernando gliel’ha proprio ordinato, l’ho sentito con le mie orecchie. Ha detto:
”Basta! Ora è davvero troppo. Lo venga a prendere subito e basta”.
Ha detto proprio così .
Lui sì che gridava al telefono, ma io non gliel’ho chiesto se era un indemoniato.
Lo so, mamma non vuole, ma adesso non vedo l’ora che arrivi e veda come dorme e veda cosa c’è a
casa e mi porti via per un po’.
Anche nonna l’ha detto.
Ha detto “Me ne vado. Non ce la faccio più con voi due disgraziati”.
Mamma allora ha preso la siringa e s’è fatta il buco per entrare come Alice nel paese delle
meraviglie.
Dice sempre così quando prende la siringa.
Prima di addormentarsi mi ha fatto una carezza sui capelli e bisbigliato che ce l’avremmo fatta
insieme anche stavolta.
Anche senza quella troia, che sarebbe nonna. Anche senza assistenti sociali del cazzo.
Ha detto proprio così.
Ma sono tre giorni che dorme e io ho freddo e ho anche tanta fame e allora sono uscito in maglietta
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e mutande, con le ciabattine ai piedi, a chiedere aiuto come avrebbe fatto Goku e ora che aspetto la
signora Caselli sono veramente convinto d’aver fatto una cosa buona, anche se non sento i
superpoteri e la filastrocca non funziona.
La signora Caselli lo sa di Goku, perché un giorno m’ha raccontato che anche lei ha un figlio che
gioca sempre a Dragon Ball.
Io l’ho conosciuta quando l’hanno fatta venire i nonni perché mamma dormiva sempre, dopo che
s’era fatta il buco di Alice.
Mamma però aveva deciso di guarire e così siamo andati in un posto lontano che si chiama Amelia.
Io la storia delle galline, che sono invece tre civette, e del dottore l’ho imparata lì.
Eravamo arrivati da due giorni, ma a me il dolore alla testa non passava, neanche con la camomilla.
Allora ho pensato che, se evocavo le sette sfere magiche e i superpoteri, riuscivo a farmelo passare
da solo.
Sono entrato nel pollaio e ho provato ad evocarli con le galline.
Quelle, invece di fermarsi immobili, hanno incominciato a gridare e a scappare da tutte le parti.
Io, siccome il dolore alla testa aumentava, per sfogarmi le ho strozzate tutte.
La signora Caselli è venuta a trovarci subito, anche se eravamo lontani lontani.
E’qui che mi ha detto che anche il figlio preferisce Dragon Ball all’Uomo Ragno e che Dragon Ball
e l’Uomo Ragno sono buoni e non ammazzano le galline e mi ha letto la filastrocca delle civette.
Ma adesso, anche se l’ho detta tante volte e lasciato in pace le galline, perché ancora non arriva e il
dolore alla testa non passa?
Lei è sempre arrivata puntuale a trovarci. Dopo Amelia non ha mai sgarrato di un minuto.
Ad Amelia mamma non dormiva più, allora i nonni, che erano contenti e hanno tanti soldi, hanno
preparato un appartamento tutto nuovo nella loro villa e così siamo tornati.
La signora Caselli, quando è entrata, ci ha fatto tanti complimenti, anche perché io avevo finalmente
una cameretta per me.
Mamma le ha fatto vedere che era tutto pulito, che il frigorifero era pieno di tante cose buone e che
aveva messo anche il mio pigiama con i personaggi di Dragon Ball sotto il cuscino.
Io ho cominciato ad andare subito a scuola, anche se non mi piace perché sono tornato in prima.
E questa cosa non chiedetela a me, ma alla signora Caselli, che dopo qualche settimana è arrivata a
casa con Valentina, una proprio antipatica, che mi doveva aiutare a fare i compiti.
Valentina non mi piaceva. Mica perché non riesco a scrivere e a leggere bene.
E’ che mamma, dopo un po’che Valentina è arrivata, ha incominciato a uscire e a tornare con le
siringhe.
Me ne sono accorto subito. Non riesco a leggere e scrivere bene, ma non sono mica scemo.
Quando gliele ho fatte vedere, mamma ha detto che erano per il suo amico Francesco.
La mattina dopo il dolore alla testa era così forte che io non mi sono ricordato per niente che potevo
evocare le sette sfere magiche e acquistare i superpoteri di Goku, per farmelo passare.
Non me lo sono ricordato per niente.
E’ per questo che ho preso la sedia di Sara che non voleva sedersi vicino e gliel’ho spaccata sulla
testa.
La signora Caselli però mi ha salvato.
Ha fatto tante riunioni con persone importanti e mi ha salvato. Ha mandato Valentina a scuola e a
casa è venuta Sara che finalmente è riuscita a farmi capire la storia del dolore alla testa e del
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demonio.
Dopo il fatto della scuola la signora Caselli è venuta a trovarci molto più di prima.
Mamma allora si metteva a pulire e a lavare tutti i panni e io andavo a buttare i sacchi
diimmondizie che avevamo in cucina.
La signora Caselli però non abboccava perché Sara faceva la spia e andava a spifferarle che a casa
era tutto sporco e rimanevo sempre solo.
Forse è per questo che le ultime volte è venuta senza avvisarci
Però, una settimana fa, è stata proprio lei che mi ha fatto venire il dolore alla testa.
Proprio lei che conosce i superpoteri di Goku.
Perché si è arrabbiata tanto quando io ho guidato al posto di mamma che si stava addormentando al
volante e quelli di dietro, quando hanno visto che ero solo un bambino piccolo, m’hanno fatto
accostare e io ci sono riuscito?
Perché a quel punto, anziché dirmi bravo che avevo salvato mamma con i superpoteri, quando è
venuta a casa ha detto che aveva scritto a un giudice e allora mamma sì che ha voluto dormire e ha
preso a uscire di notte e mi ha portato con sé e ha fatto salire in macchina tanti uomini e poi si è
fermata alla stazione e poi si è addormentata e da tre giorni non si sveglia più?
La signora Caselli è una strega, ha detto mamma.
E’ una strega e ci vuole separare per sempre.
Forse è vero.
Forse è lei che mi ha levato tutti i superpoteri e non mi fa salvare mamma.
Forse è per questo che quando sono uscito in maglietta e mutande, con le ciabattine ai piedi, ho fatto
come Goku, ma non mi sono sentito Goku.
Forse è davvero una strega.
Ma se è una strega, perché ancora non arriva a portarmi via?
Quanto tempo ci mette?
Ricominciamo. Ambarabà…Ambarab…Amba
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FRANCESCA MONTAGNINI
Titolo: l’occasione di essere ospite
SEZIONE NARRATIVA
Quando sono un ospite, non lo dimentico mai. Varco la soglia di ogni casa cercando, come sempre,
di rispettare quelle semplici regole che ho appreso nel corso della mia vita. Che sia lavoro o puro
piacere, chiedo ‘permesso’, dico ‘grazie’, entro in punta di piedi. Io sono l’ospite, io non controllo e
non pretendo. Sono forse si, in attesa di un qualcosa.
Nel mio lavoro, soprattutto essere ospite di qualcuno è spesso una grande occasione. Mi metto a
disposizione e all’ascolto di tante storie e di tanti perché. Cerco di ritagliarmi uno spazio tutto ‘suo’:
è un ‘suo’ diritto avermi li, per anche solo un’ora. Mi fermo anche io con i miei pensieri, metto da
parte le mie tensioni o almeno ci provo: è davvero una grande occasione, soprattutto per me. Ci
tengo sempre a chiarire però il motivo del mio esserci: quello non è il mio mondo, non è la mia
intimità, è uno spazio altro, privato, riservato, dove ci sono dei confini e io voglio essere sincera e
chiara fin da subito, sicura di non oltrepassarli.
Quel pomeriggio di settembre lei si trovava sola in casa: così aveva deciso di ricevermi e
accogliermi. Non voleva ingerenze, mi disse che voleva sentirsi libera di parlare. L’accoglienza fu
timida, in lei però il volto era disteso. Gli occhi erano diversi da come li visti in ufficio. Subito, un
pò per ‘rompere il ghiaccio’ ma anche per la mia innata spontaneità, le rivolgo alcune domande su
delle fotografie che all’ingresso avevano catturano la mia attenzione. Sono tutte foto di uomini: c’è
suo padre, suo marito, loro figlio. Ho fatto solo un pochi metri e già mille domande mi saltano nella
testa. E ancora, quella felpa piegata in cucina, quella cucina cosi in ordine, quei fiori freschi sul
tavolo: lei mi aspettava, voleva accogliermi nel suo mondo apparentemente ordinato. Freno il mio
entusiasmo, cerco di controllarmi, le siedo vicino: ora non ci sono scrivanie, non ci sono barriere.
Le chiedo senza filtri se ha voglia di raccontarmi cosa le passa per la mente in quel momento. Ci
tengo a restituirle che con sorpresa mi ha voluta da sola a casa sua. Lei inaspettatamente tira fuori
dalla camicetta un medaglione: qui inaspettatamente inizia il suo racconto. Ciò che fino a quel
momento era rimasto sommerso tra noi, ora emerge, diventa reale. Ed ecco, finalmente si sta
lasciando andare, si sta affidando. Nei nostri incontri precedenti ci eravamo solo sfiorate: ora no, ci
stiamo toccando. Sono emozionata, fremo dalla voglia di dirle che questa sua apertura era da me
tanto attesa e sperata ma aspetto ancora un po’ e mi mantengo da parte. La sua narrazione delinea
una strada lunga e tortuosa che ha radici lontane: un passato difficile, una famiglia poco presente,
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un padre lontano e una madre distratta. E poi ad un certo punto l’incontro con lui, sorridente,
attento, delicato: una luce nel buio. Le sue emozioni mi toccano nel profondo e, allo stesso tempo,
confermano tanti miei dubbi. Quelle parole raccontate in casa sua, nel suo mondo acquistano
un’importanza salvifica. Non lo nascondo, ho provato una soddisfazione incredibile: quel nostro
incontro gli ha permesso di ripensare il passato, ha voluto raccontare e raccontarsi. Ecco la mia
ricompensa: lei si è fidata di me ed è entrata in relazione. I suoi racconti intrisi di gioie, speranze,
amore e delusioni sono emersi e sono stati raccontati con coraggio. Ci siamo finalmente toccate.
Cerco di controllare le mie parole: non sono li per dare soluzioni o alternative. Non c’è fretta.
Il suo sguardo poi si sofferma su quella felpa stirata ed appoggiata sul divano. Un figlio, frutto di
quell’amore inizialmente delicato e attento, poi manipolatore e ossessivo. Un figlio che oggi la
mette a dura prova, perché non la riconosce come madre e non si sente da lei accolto. Ha voglia di
ricominciare mi dice. Oggi quel figlio ha 15 anni e non ha più voglia di aspettare. Questa è la luce,
la madre che riconosce i bisogni del figlio. Gli restituisco questo mio pensiero. Ha avuto la forza di
raccontarsi: non ci sono ora soluzioni precise e riposte puntuali. Nella sua narrazione lei troverà la
voglia reagire, di rimettersi in gioco.
Quel viaggio immaginario mi ha portato a varcare quei confini che pensavo inizialmente
invalicabili. Mi sento di lasciarla, come per concederle uno spazio per respirare. Ha davvero fatto
tanto. Ci diamo un altro appuntamento. Riparleremo la prossima settimana di tutto questo. Esco in
punta di piedi , le dico grazie e mi chiudo alle spalle la sua porta di casa.
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DANIELA FARANO
NELLA TERRA DI ARDA
SEZIONE NARRATIVA
Nel “Signore degli Anelli” di Tolkien, ambientato ad Arda,
Shagrat è un orco che ruba a Frodo la maglia di mithril, un
metallo magico indistruttibile e al tempo stesso leggerissimo.
Shagrat ruba a Frodo forza e leggerezza. Torrescura (Terra
Oscura) è una terra tetra, circondata da scure montagne e
abitata dai servi dell'Oscuro Signore. Penelope Cruz nel film
“Non ti muovere” è Italia, una donna albanese che ha
conosciuto miserie e violenza da parte degli uomini. Nella
mitologia greca è simbolo di fedeltà coniugale.
Un fascicolo qualunque quello di Shagrat. Posto sulla mia
scrivania in una mattina qualunque col consueto bigliettino
“assegnare a…”. Leggo svogliatamente che Shagrat è un
detenuto assegnato temporaneamente al carcere di Arda
proveniente dall’istituto di Torrescura per “avvicinamento
colloqui per motivi affettivi”; mi viene chiesto di esprimermi
sulla sua assegnazione definitiva ad Arda. Si profila un caso un
po’ noioso Shagrat, un caso “qualunque” dove la provenienza
dalla Romania fa si che almeno metà delle informazioni
“riferite” non siano verificabili. Shagrat ha vissuto ventotto dei
suoi quarant’anni in Romania; il padre cantava in un'orchestra
e la madre è morta a quarant’anni per un infarto. Sfido io,
Shagrat è il secondo di undici figli, sei maschi e cinque
femmine! In Romania, Shagrat e la moglie “Maria”, decidono di
costruire la loro casa e Shagrat sente dire che in Italia “si sta
bene”, che si possono fare tanti soldi e allora parte e in Italia
trova lavoro al nero. Ma la lontananza è come il vento, lontano
dagli occhi, lontano dal cuore e la moglie è gelosa, dice il
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Concorso di scrittura 2018
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povero Shagrat, così decide, per salvare il suo matrimonio, di
farsi raggiungere da Maria e dai loro tre figli. In Italia allaccia
una nuova relazione con una rumena che vive ad Arda,
Penelope, con cui effettua i colloqui in carcere per motivi
affettivi”. Ma Shagrat è condannato per sfruttamento della
prostituzione, riduzione in schiavitù e vendita di esseri umani,
dove la “schiava venduta” al miglior acquirente è proprio
Penelope, merce di scambio consenziente che non salta un
colloquio! Ma di quale affettività si fa portavoce l’istituzione
dietro lo scudo della tutela dei diritti del detenuto? Mi sento
tirata tra il rischio di cadere in pregiudizi e quello di accettare
passivamente quanto già deciso dall’istituzione, il tutto farcito
dal mio essere donna e dalle mie battaglie di femminista
mancata, ma soprattutto il pensiero ossessivo di Penelope… Nel
frattempo arriva la sentenza, cento pagine fitte fitte che
parlano di Shagrat, Penelope e Maria, delle loro storie di
miseria e brutalità che aprono lo scenario di una “Terra di
mezzo” dove “essere” non conta più, un luogo dove i tempi
sono scanditi dal gelo dell’inverno e nelle estati torride,
dall’odore forte dell’asfalto sulle strade della prostituzione.
Storie di imputati e testimoni che si leggono sui giornali,
magari dal parrucchiere, che sembra impossibile essere
tristemente “vere”: donne arrivate dalla Romania con la
promessa di un lavoro o di amore, poi violentate e buttate sulla
strada, malmenate selvaggiamente se provano a ribellarsi fino
a essere soggiogate e annullate. Storie in cui la violenza più
sottile e terribile è la sottomissione psicologica in cui vittima e
carnefice si fondono e si confondono, in cui la vittima diventa
carnefice di sé stessa o di altre donne che hanno avuto il loro
stesso destino, ritagliandosi magari uno spazio di “prestigio”
come amante del proprio protettore.
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Concorso di scrittura 2018
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Shagrat è condannato a otto anni “perché esercitava su
Penelope, poteri pari al diritto di proprietà dietro trattative che
prevedevano un periodo di “prova” e che si concludono per
trecento euro! E Penelope ne è addirittura partecipe, anzi
durante un’intercettazione telefonica scherza con Shagrat sulla
cifra pattuita! Si legge che Maria, selvaggiamente picchiata da
Shagrat “che non sopportava più la sua gelosia”, ”riportava
“una frattura escoriata alle ossa del naso, avulsione del primo
incisivo superiore destro, ecchimosi e tumefazioni in tutto il
corpo” con una prognosi di 47 giorni. Sarà Maria a testimoniare
contro Shagrat durante il processo. Il giorno dopo vado da
Penelope. Ad aprirmi è lei. La immaginavo ben curata, bella e
un po’ appariscente e invece mi trovo davanti una donna di
trentasei anni che ha le sembianze di un’adolescente
mingherlina, spettinata, trascurata e senza un incisivo, che mi
ricorda fisicamente Italia, la protagonista del film “Non ti
muovere”. Entro in una casa fredda e spoglia con un lungo
corridoio e delle camere ai lati. Penelope vive in una di queste
ma la casa non è sua, il padrone è un tunisino che però oggi
non c’è. Appena entro vedo due uomini, non capisco se arabi o
slavi che fumano e giocano a carte, un altro mi passa accanto,
abbassa lo sguardo e non risponde al mio saluto, di là la voce
di una donna e di un uomo che discutono e di un bambino che
gioca. Penelope mi accoglie nella sua umile stanza, due reti con
un materasso e mobili rotti, sopra i quali troneggiano fotografie
dei primi piani di Shagrat che mostra i muscoli. E seduto
svogliatamente su un materasso sporco c’è il figlio
diciassettenne di Shagrat e Maria, che quasi non parla italiano,
il labbro cadente, abiti unti e consunti, fuma come un turco e
tra una sigaretta e l’altra, mi
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Concorso di scrittura 2018
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dice che passa le giornate andando a trovare Penelope..
Penelope sembra incarnare perfettamente la descrizione di una
“persona povera di stimoli culturali” con capacità personali di
introspezione ridotte all’essenziale. Ha una postura rigida
Penelope, tiene gli occhi bassi ed è palesemente sospettosa,
sembra rifugiarsi nel figlio di Shagrat e spesso parlano tra loro
in rumeno, a volte mi sembra che abbia paura e a volte
assume un’aria di sfida che a dire la verità poco le si addice: a
nulla valgono i miei tentativi di creare un dialogo con lei più
rilassato, sereno e vero. Qualcuno le ha mai detto che può
imparare ad amarsi e pretendere rispetto, che è una persona?
Ripete sempre che le accuse contro Shagrat sono menzogne e
che se fosse stata veramente la vittima del reato non sarebbe
certo andata a trovarlo, ma sarebbe tornata in Romania. Le
chiedo cosa fa per vivere, lei mi dice che fa le pulizie al nero
per seicento euro al mese, duecento per l’affitto e il resto ai
suoi figli di sei e tre anni che vivono con la nonna in Romania.
Poi mi consegna un foglietto sgualcito dove c’è scritto “sono
disponibille aprendere la sua responsabilità del suo convivente
ospite acasa dove habita. Penelope”.
Finalmente conosco Shagrat in carcere. Lo immaginavo
imponente, con l’aria di sfida, il prototipo dello sfruttatore di
prostitute e invece mi appare un ometto alto circa un metro e
cinquanta, con i capelli unti, che parla una lingua indecifrabile,
mette in bella mostra i pettorali, ma piange come una vite
tagliata perché da due settimane non ha notizie della sua
Penelope e prima che io riesca a capire che fa,… mi acchiappa
“a tradimento” una mano e me la bacia. Shagrat dice che è
tutta colpa di Maria che è cattiva e gelosa, che voleva liberarsi
di lui perché lo tradiva. Lo saluto ed esco prima che mi baci la
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mano. Nella riunione di sezione al carcere di Arda anche
l’educatrice fa presente le sue perplessità: è bello avere
un’alleata! Responsabile dell’Area educativa: “ma se finora
Shagrat è già stato autorizzato, perché dovremmo essere noi a
cambiare le cose?”. Ispettore Polizia penitenziaria: “Shagrat è
un “lupo travestito da agnello, non avrà vita facile, è un vero
animale”. Mediatrice culturale rumena: “dobbiamo porci
nell’ottica della cultura femminile rumena rispetto
all’affettività”. Io azzardo: “Ci importa davvero se le decisioni
sono già prese da “altri” gerarchicamente superiori o possiamo
ancora dire la nostra visto che ci è stato chiesto?”. Sguardi
severi e scandalizzati si volgono all’unisono verso di me.
Tranne l’educatrice che mi strizza l’occhio complice.
Il giorno dopo nei freddi corridoi di Arda incontro l’educatrice e
incredula, apprendo che proprio ieri, mentre noi ci davamo a
disquisizioni, “bazzecole, quisquilie e pinzillacchere” è arrivata
l’assegnazione definitiva di Shagrat a Arda. Shagrat come
“nuovo giunto” deve richiedere nuovamente l’autorizzazione ai
colloqui e perciò minaccia atti di autolesionismo se non gli
facciamo vedere subito la sua Penelope. In realtà è Penelope a
non essersi più presentata e l’educatrice, che ritiene di dover
rispettare la sua scelta, viene “vivacemente” invitata dal
Direttore e dal Comandante a non farne una questione
“ideologica” e chiedere spiegazioni a Penelope.
Mi piace però immaginare Penelope su un treno, di ritorno a
casa dai suoi figli, stanca di questa vita e con la voglia di
ricominciare… ma so anche che il lieto fine esiste solo nelle
favole.
“Poiché siamo costretti tra le sbarre di una prigione, la nostra
non è la disdicevole fuga da parte del disertore di fronte al
nemico ma la legittima evasione del prigioniero” (Tolkien).
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MASSIMO LO GIUDICE
ANGOLI
(Sezione narrativa)
LATO A
Suonano.
Che cos’è sto puzzo che sento.Cristo, ieri sera non ho sparecchiato. Fosse solo quello il
problema. Ancora quel campanello di merda. Dio santo che ora sarà. Gli occhi. Non riesco ad
aprire gli occhi.
Ancora.
Chi ci viene di solito, in questa casa. Quello stronzo che mi porta la roba che ho buttato giù
ieri sera e chi altro. Nessuno. Un cazzo di nessuno.
Mi alzo, si, mi alzo.
Arrivo.
Un momento che arrivo.
Per modo di dire. I miei piedi li sento strisciare sul pavimento. Questo non è camminare.
Questo è fare due scie sull’unto che non pulisco da più di una vita. Da quant’è che non do una
lavata. Ma d’altronde, con cosa pago la bolletta dell’acqua.
Chi è.
Gesù sono tutta sudata. Se non cado a terra ora, lo farò al prossimo buco. È l’assistente sociale
e mi viene un colpo. Sono tre piani senza ascensore. Quanto durano tre piani senza ascensore.
Un secondo, la metà di un secondo. E io sono in piedi qui davanti al citofono, ma il mio
cervello sta mentendo al mio corpo, perché gli sta dicendo che è ancora sotto i buchi della mia
coperta. Lo sapevo. Lo sapevo che doveva venire. Gliel’ho chiesto io di venire, non è che sia
stata una sua idea. Mia, è stata l’idea.
Cioè, no.
Lui mi ha mandato per posta questa lettera in pompa magna. Mi dice che sono in regime di
detenzione domiciliare, come se non lo sapessi da sola che non posso uscire da questa cazzo
di casa neppure un minuto, e che lui è a disposizione per gli interventi di competenza. Cosa
vuol dire di competenza. Delle decine di bisogni che ho, quali gli competono. E però mi
interessa di più sapere quali non gli competono, perché saranno la maggior parte, lo so. E mi
verrà un’altra volta da ridere. Perché piangere non piango più. È una perdita di tempo. Anche
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Concorso di scrittura 2018
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se, a me del tempo non frega più da un sacco di tempo.
Perciò lo chiamo al telefono e gli chiedo. Mi risponde e mi rendo conto solo in quel momento che è
un uomo. Quasi tutti i miei fottuti anni, anche quando ero piccola, passati in compagnia di tutte
queste donne, giovani o anziane, fate o streghe, madri o matrigne, appassionate o senza cuore,
donne a destra e a manca che fanno un lavoro che ancora non ho capito, e ora questo qui cos’è. In
quale casella lo ficco. Ha la voce gentile e formale, la stessa che ha risposto al campanello. E mi
dice che mi può dare una mano a chiedere al giudice qualche ora per uscire di casa, sempre che ci
sia una buona motivazione. Gli dico che c’è ed è ottima e perciò gli chiedo di venire a casa.
E lui è venuto, qualche giorno dopo, come da accordi. Stranamente non dopo mesi. Forse l’ha
chiamato anche il mio avvocato. Guardo l’orologio in cucina con un occhio solo e mi ricordo
l’ora dell’appuntamento. È in ritardo,ma che differenza vuoi che faccia, per una che dormiva
fino a un minuto fa.
Sarà già al secondo piano.
E intanto io sono uno sfacelo. Tutto quello che è intorno a me è uno sfacelo. Tutto quello che
è dentro di me è uno sfacelo. Ma tanto loro ci sono abituati. Cosa avrei dovuto infiocchettare.
E come poi. Per la bella faccia di chi.
Perciò gli faccio trovare la porta aperta. Che non pensi che prendo tempo. Anzi, così come mi
sono infilata a letto, vestita di tutto punto dalla sera prima, e con i capelli che sento come se
fossero al vento, ma qui il vento tiepido che vorrei sentire non passa mai, scalza, scombinata,
lo aspetto sul pianerottolo.
Spunta da dietro l’angolo della penultima rampa di scale, tutto affannato, perché è luglio e fa
un caldo boia, non capisco se è giovane o di mezza età, però ansima e io penso che forse non
ho neppure un bicchiere pulito dove mettergli un po’ d’acqua di rubinetto. Poi lo guardo in
faccia e mi dico, non siamo qui per le gentilezze. Siamo qui per una lotta.
Buongiorno e buonasera. Non si capisce, visto che sono le due del pomeriggio. Salamelecchi
e convenevoli. Gentile è gentile. Ma è da certe assistenti sociali gentili che ho avuto le
fregature più grosse.
Ed è a questo punto che mi chiede di ricordargli il motivo della visita.
Non ci vedo più dagli occhi per la rabbia e gliene dico quattro. Ed ecco la lotta. Forse non
sono io, forse è il grumo di sonno che la ingaggia. Come può aver dimenticato perché è qui.
Siamo alle solite. Gliene frega qualcosa di me o no. Mi dice che non sono la sua unica utente,
che non è tenuto a ricordare a memoria tutti i particolari di ogni situazione. Sento crescere
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qualcosa di mostruoso dentro di me. Qualcosa che è lì da sempre e che si gonfia e si sgonfia,
occupa il dentro, a volte un pochino, a volte, come ora, tutto quanto. Gli dico che non ho
tempo da perdere. Risponde che lui sta lavorando. Ribatto che ne dubito e che dubito di come
se lo guadagni, lo stipendio. Perché quando voglio, tutti i peli che ho sulla lingua li cavo viain
un unico strappo. E cominciano i botti dell’artiglieria. Come mi permetto di trattare così un
funzionario che da anni fa onestamente il suo lavoro e che fa il possibile per dare un mano. Se
volesse potrebbe scrivere immediatamente al giudice del mio comportamento inaccettabile,
considerato che è venuto fino a casa a trovarmi coi soldi dei contribuenti, e la benzina, e
l’autista e tutto il resto. Ma non lo farà. Dice che non lo farà. Io mi calmo, capisco che mi sto
dando dieci zappe sui piedi e divento zuccherosa. Ho nausea di me stessa per questo. Capisco
che lui è sincero, capisco che forse sono stata ingiusta, ma non mi addolcisco per questo. Lo
faccio per non prendermela nel di dietro, e perché so che da lui dipende l’avere ciò che mi
serve. Sento che mi disprezza per questo. Ma sta al gioco. Perché pretende il mio rispetto.
Tanto il disprezzo altrui è un’erba amara che mangio tutti i giorni per penitenza e stranamente
sento che mi nutre.
Allora veniamo al dunque e parliamo della mia situazione economica. Tra un po’ mi staccano
la luce e ho il frigorifero vuoto da giorni. Ho bisogno di occuparmi di certe pratiche
burocratiche che mi servono per avere gli aiuti dalla Caritas, perciò mi serve qualche ora al
mattino, ma diciamolo sinceramente, ne vorrei anche qualcuna al pomeriggio per farmi un po’
di fatti miei. Lo vedo che lui lo capisce, vedo che mi vede dentro e lo odio per questo. Insiste
sulle sole ore motivate. E io insisto anche sulle altre. Dice che sono libera di fare come voglio
e che lui invierà al giudice la mia istanza così come intendo presentarla, ma che nella sua
relazione avallerà solo ciò che è motivato da bisogni reali. Quindi è vero che ha capito, lo
stronzo.
E si porta via le mie quattro ore d’aria. Che sicuramente saranno due. Buongiorno e
buonasera. E portati via pure la tua sincera gentilezza del cazzo.
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LATO B
Che caldo fa?
Ma davvero riteniamo accettabile andare in giro a spiare la vita delle persone fin dentro le
loro case, di luglio, con 35 gradi all’ombra? Sono fuori da stamattina, sono le due, la canicola
mi sta staccando di dosso un pezzetto di anima alla volta, nonostante l’aria condizionata
dell’auto di servizio che ci hanno rifilato, che sembra la macchinina della Lego, sono sfinito e
ho ancora il resto del pomeriggio davanti.
L’autista è allegro, perché non è lui a dover incontrare la gente nei propri tuguri, ma le sue
battutacce non mi aiutano. Vorrei solo un po’ di silenzio. Vorrei dormire. Ore e ore e ancora
altre ore. Vorrei essere al mare. Non qui. Sotto un albero, in alta montagna. E invece sono qui.
Sotto casa di quest’altra utente. E ci sto, sapendo che non si tratta di niente di piacevole.
Mi ha già contattato l’avvocato, dicendomi che lei non ha neppure i soldi per telefonarmi.
Invece lei l’ha fatto, quindi i soldi in qualche modo li ha trovati. E mi dice che è nella merda
fino al collo, e me lo dice con parole che infatti puzzano. Mentre mi parla, leggiucchio
qualcosa nel fascicolo e vedo che, nonostante la sua tossicodipendenza, si è sempre rifiutata di
farsi curare come si converrebbe. E penso, ti sei fottuta la vita, ora piangi perché nessuno
t’aiuta, e cerchi una speranza flebile nell’unico assistente sociale che di soldi per aiutarti non
ne ha, e che anzi è quello che deve controllarti. Certo, la legge mi impone anche di sostenerti,
ma di fatto io non posso fare altro che inviarti ai servizi preposti all’aiuto economico. E
scommetto che quelli ti conoscono da quando eri alta un metro. Mi dice due o tre cose su di sé
e appuro di aver vinto la scommessa. Spiego cosa posso fare per lei e le propongo una data
per una visita domiciliare.
Che è per l’appunto il motivo per cui mi trovo sotto questa palazzina scalcinata, col cicaleccio
dell’autista che guarda il culo a tutte quelle che passano e il sudore che mi cola dalla fronte a
rallentatore.
Esco dall’auto, vado al portone, con la stessa faccia di uno che sta per farsi togliere un
varicocele, e penso che se ora l’utente fosse affacciata alla sua finestra e potesse vedermi per
bene, non mi aprirebbe.
Infatti suono più volte e non mi apre.
Finché finalmente non sento il ronzio elettrico del citofono e una voce roca che sembra
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provenire da una dimensione sconosciuta dell’universo. Si apre il portone e ovviamente non
c’è l’ascensore. Insisto a guardarmi intorno, ma è inutile, non spunterà all’improvviso e non è
nascosto, piccolo piccolo, nel sottoscala. Perciò inizio a salire. E arrivo all’ultima rampa col
cuore in gola, sia per il caldo, sia per lei, che mi aspetta sul pianerottolo, dove sembra che stia
da sempre, arruffata, lercia e brutta, irrimediabilmente e angosciosamente brutta. Di una
bruttezza non preesistente, una bruttezza costruita pazientemente, nutrita dalla distruzione
della grazia e della leggerezza che si intravedono nei suoi occhi lucidi e senza colore e che
certamente hanno abitato quel corpo un tempo.
Mi sorride in modo incompleto. Non perché non ha tutti i denti, ma perché è incompleta lei. E
mi accorgo che, ogni tanto, ancora, posso provare compassione, perché la sento adesso,
montare con dolcezza e violenza dentro di me.
Mi fa entrare in casa e quello che ho visto su di lei è anche tutt’intorno, nelle cose, nei vuoti
tra le cose e nei vuoti tra i vuoti. E resto in piedi, perché sedersi è un rischio, in un interstizio
tra lei e un oggetto qualunque, forse un tavolo o una sedia.
Le chiedo di ricordarmi il motivo della visita, perché lo ammetto, non sono lucido, ho troppe
cose da fare, troppo poco tempo per farle e sempre meno pacche sulle spalle quando le faccio.
E lei cosa fa? Si incazza. E lo fa in un modo inatteso, spiazzante, aggressivo.
Quando l’ho messa in riga con l’arma quasi sempre utile dell’autorevolezza, è ridiventata un
agnellino, ma nel frattempo si è spinta pure a dubitare della legittimità del mio stipendio.
Non ci vedo più dagli occhi per la rabbia, visto che ho i rinnovi contrattuali bloccati da anni e
nel frattempo la vita, nello stesso paese di merda che ha prodotto la creatura che ho davanti, è
diventata sempre più dura. Perciò la concio per le feste e lei si acquieta. Non lo fa perché
crede nella sincerità della mia rabbia, lo fa perché le conviene, e tutta la mia compassione
torna nei recessi da cui, per un minuto, è stata sputata fuori.
Solo allora mi dice, con stupefacente gentilezza, della sua orribile condizione, e mentre lo
dice, mentre già mi sento in colpa per quello che il mio cervello sta per partorire, non posso
fare a meno di pensare che se l’è cercata e che ora questo è un problema per tutti gli altri, che
devono pagare le tasse anche per lei.
Vuole quattro ore per uscire da quella stamberga. E lo credo, se fossi in lei, tenterei di averne
il quadruplo. Ma il motivo per cui le chiede, le sue pratiche burocratiche per il sostegno della
Caritas, giustificano solo le due ore del mattino. E perché io so già cosa farebbe delle altre
due?
Libera di chiedere ciò che crede, le dico, ma io avallerò solo le ore giustificate da una reale
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motivazione. E sento chiaramente il sibilo del suo vaffanculo, tra le parole edulcorate dalla
sua rinnovata acquiescenza, e il duplice schizzo di veleno.
Le sorrido anch’io e porto via, tra distinti saluti e cordiali strette di mani, la mia pulita, la sua
velata da chissà cosa, le sue quattro ore d’aria.
Che saranno due.
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TANIA RIVA
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