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GIANCARLO VISSIO
Naufraghi, Barbari & Bar
Romanzo
" La têmpete a béni mes éveils maritimes
Plus léger qu'un bouchon j'ai dansé sur les flots
Qu'on appelle rouleurs éternels de victimes
Dix nuit, sans regretter l'oeil niais des falots... "
da " LE BATEAU IVRE"
A. Rimbaud
" La tempesta ha sorriso ai miei risvegli in mare
Più lieve di un turacciolo ho danzato sui flutti
Che eternamente spingono i corpi delle vittime
Dieci notti, e irridevo l'occhio insulso dei fari..."
I fatti e i personaggi, ma non i luoghi, raccontati in questa storia sono puramente immaginari.
Chi si riconoscesse in persone o vicende qui narrate lo dovrà unicamente ai capricci della vita, che nella sua imprevedibilità e bizzarria supera spesso di gran lunga la fervida fantasia di chi scrive.
PROLOGO
Sono stanco, disperatamente stanco.
Mi duole la schiena e la vista si sta affievolendo, ma forse mi sbaglio: quella
dissolvenza che tutto sfoca al di là dei vetri potrebbe essere nebbia. Nelle mattine
d'inverno non è raro che scenda improvvisa, avvolgendo dolcemente questa lembo di
campagna che tace.
Sono vecchio e sto morendo, lo so. Sento di non avere più molto tempo davanti.
Sento l'onda veemente dei ricordi infrangersi contro i miei ultimi progetti, le mie
sopravvissute speranze, e mi rimangono poche solitarie boe a cui affidare il mio
ormeggio.
Quand'ero giovane amavo passare le ore a oziare e a rivoltarmi fra le lenzuola;
adesso la polmonite mi costringe a letto e mi risparmia le forze solo per vagare con
lo sguardo per questa camera, troppo angusta per ospitare i miei ricordi. Mi rimane
un po' di lucidità solo per ripensare ai miei anni; questo giaciglio si sta
trasformando in un tavolo di tortura.
So che non rivedrò rifiorire quel nodoso castagno che ho piantato in fondo al
giardino, ormai più di cinquant'anni fa, quando nacque mio figlio, e questo mi
sprofonda in un devastante abbandono.
Credevo che sarebbe stato meno duro morire d'inverno, scivolare col freddo nel
sonno che accoglie le anime stanche. Concludere questa mia esistenza quando la
natura completa il suo ciclo, tutto si abbruna e si addormenta immemore di una
possibile rinascita. Ora che è giunto quel momento ho tanta malinconia di giorni
lontani, perché nessun uomo si sente mai così vecchio da non desiderare di vivere
almeno una stagione ancora.
Che ne è stato della mia vita? Dove sono finiti tutti i miei anni?
Parevano interminabili, inesauribili, come l'acqua di un fiume nel suo momento di
piena; ora che sono passati, se li ripenso tutti assieme, mi sfuggono come granelli di
sabbia tra le dita.
Ho sofferto, ho gioito, ho pianto e ho amato. Speravo di diventare vecchio e lo sono
diventato. Speravo di imparare a morire con serenità, o almeno con pacata
rassegnazione, e invece mi accorgo che nulla come la vita si ostina a impuntarsi e a
persistere; il desiderio di rivedere ancora una fioritura di primavera, di rifare un
bagno di sole seduto in giardino, fra le mie piante, di rileggere un libro troppo a
lungo dimenticato sullo scaffale, è inestinguibile.
Ho avuto l'avventura di vivere a cavallo fra due secoli.
Ne ho visto morire uno scalmanato, nel crepuscolo del quale ho vissuto gli anni
della mia giovinezza inquieta. Anni affollati, distratti, anni in cui non era chiaro
verso quale direzione ci stavamo incamminando.
Mio nonno nacque in un mondo povero e crebbe in una casa di campagna col
pavimento in terra battuta, senza bagno, senza acqua corrente né luce. Mio figlio
imparò prima a muovere un mouse che a scrivere con la penna.
E la mia generazione, come tutte le generazioni di mezzo, ha sofferto la recisione
improvvisa delle radici come non era mai successo prima. Troppo giovane per aver
conosciuto gli anni delle grandi guerre e della povertà e troppo vecchio per imparare
a godere dei mondi virtuali.
E ora, finché il tempo mi accompagna indulgente, ritorno a ricordare quel periodo
lontano, quando mi facevo uomo in città e muovevo i primi passi verso la vita;
tornano a trovarmi le anime inquiete che frequentavo allora. Compagni che ho perso
per strada, alcuni irrecuperabili, altri sempre uguali a sé stessi, forse mai cresciuti,
altri ancora usciti dal circolo vizioso di questa strano accidente che chiamiamo
esistenza.
Solo Lilly mi è rimasta vicina, sopportando con amore il mio caratteraccio, la mia
introversa inquietudine, cambiando con gli anni per non ritrovarsi cambiata dal
tempo, aiutandomi a crescere quand'era ora di farlo e impedendomi di buttare ciò
che meritava di essere conservato, non solo per me, ma anche per il nostro lungo
viaggio comune.
E di quel periodo serbo ancora, cara, come se fosse una fotografia dello spirito che
animava i miei vent'anni, questa sbiadita cartolina che ritrae il disco turchese di un
lago, contornato da pallide montagne lunari, alte forse più del cielo, così diverse
dalle mie, così lontane.
Alcuni particolari continuano a colpirmi: l’assenza di verde, di macchie di
vegetazione, nessun larice né abete, nessun cespuglio di rododendro, nessun tetto là
dove te lo aspetteresti, là dove le valli dolcemente declinano ammorbidendo lo sfondo
fatto di roccia levigata, di un colore che ricorda il pane troppo cotto; così come
continua a sbigottirmi l'azzurro intenso, l'atmosfera tersa che dà l’impressione che il
cielo voglia riversarsi prima o poi nell'immenso bacino.
E quando volto la cartolina per leggerla, mi commuovo ancora davanti a quella
scrittura delicata, arrotondata e grande come quella dei bambini...
1
Per la terza sera consecutiva il Silver Pub mi accoglieva nel suo ventre fumoso, sotto
la grande elica del ventilatore perennemente immobile, come un ragno imbalsamato
appeso al soffitto. Mi ero rassegnato a soffocare di nuovo senza scampo fra quella
folla eccitata di animali da bar.
Dalla cucina esalava il solito effluvio di patate fritte, di hot-dog e piadine, e
nell'angolo opposto, in fondo al lungo corridoio, si materializzava un suono sincopato
che aveva l’effetto di galvanizzare il mio compagno di bevute.
- Senti che forti! B.B. Band… Che fenomeni! Che fenomeni! - Continuava a
ripetermi Lucio, sghignazzando col risucchio nasale, in un modo che mi strappava
sempre un sorriso, tanto era buffa quella maniera di manifestare la sua gioia di essere
al mondo.
In effetti il trio sciorinava una buona musica, calda, da jazz club: basso, sax e
batteria. Musica da locale per bene, dove ti saresti aspettato di veder spolettare fra i
tavoli camerieri d'alta scuola, con papillon e fascia nera di seta attorno ai fianchi;
camerieri che scrutano dalla testa ai piedi per capire quanto potranno ricavare di
mancia e che servono tenendosi ad almeno un metro di distanza.
Invece il Silver Pub era un'altra cosa.
Era una bettola in fermento nel continuo fluttuare delle notti torinesi. Un porto in cui
un'umanità sempre stanca andava a parcheggiarsi tutte le sere, con la segreta speranza
di fare qualcosa di diverso, di vivere incontri straordinari, ma finendo
inesorabilmente per tracannare litri e litri di birra scolati finché il cervello non
andava in nebbia e i polmoni in cenere, con tutte quelle sigarette fumate ai tavoli tra
un boccale e l’altro.
Lì sgobbavano camerieri occasionali, ragazzi di passaggio che sfacchinavano un paio
di mesi come dei dannati danteschi in una bolgia fumosa, e poi via, sparivano,
consumati dalla città che inghiottiva e vomitava in continuazione uomini e cose.
Ma non noi, che ci passavamo le sere ancorati ai tavoli. Per noi il Silver
rappresentava un solido ormeggio nella burrasca continua di quelle notti insonni.
Era stato Lucio a farmelo conoscere, qualche mese prima.
-Vieni con me- Mi aveva detto -Ti porto in un posto speciale vicino a Piazza Vittorio
-.
Quella prima sera, prima di una lunga serie, ci eravamo sbronzati con birra corretta
con whisky alla pesca, un bicchierino dietro l’altro. Ci tenevano compagnia due
ragazze inglesi, di Brighton, che Lucio aveva conosciuto in discoteca qualche tempo
prima.
Erano svampite e bevevano come spugne, senza mai saltare un giro. Quella volta
terminammo la serata a casa di Lucio, a sentire musica e ad insegnare alle due suddite
di sua Maestà come si cucinavano gli spaghetti "aglio olio e peperoncino".
Gastronomicamente erano un disastro. Una delle due, una brunetta dalla faccina da
monella, caschetto corto e due occhi grigio-verdi luminosi come due gemme, propose
di guarnire quella delizia italica con marmellata di lamponi e solo dopo aver assistito
alla sceneggiata scomposta di Lucio, che minacciava di strozzarla se solo avesse
messo in pratica un simile proposito, desistette delusa. Quando più tardi, dalla cucina
passammo alla camera da letto, le due si riscattarono rivelando gusti più ortodossi.
Lucio mi stava ora seduto davanti e mi sembrava in grande forma. Radioso e
affabile, come nei suoi giorni migliori, si scolava il suo quarto o quinto boccale
guardandosi in giro con scatti nervosi:
- Di' un po', Vincenzino...- E quel “Vincenzino” tradiva il suo stato etilico, visto che
per tutti quelli che mi conoscevano io ero solo e sempre Vasco.
-Senti Vincenzino...- Replicò -Che ci facciamo qui? Sono tre sere di fila che veniamo
a posare le chiappe su queste sedie. Ormai mi chiedono se faccio parte
dell'arredamento. Non pensi che dovremmo cambiare un po' giro? ...Che ne so...
Andare in disco per esempio: il Charlie Five pullula sempre di belle figliole...-
-Ma piantala! - Lo ripresi serio, impietoso della sua radiosità etilica, disposto a non
cedere alla sua provocazione - Sei stato tu a telefonarmi. C’è la "B.B.Band": jazzisti
formidabili mi hai urlato al telefono, roba da far drizzare i peli delle orecchie, non
possiamo mancare. E poi la storia di Rosy che doveva venirci a trovare con la sua
amica bionda... Chi le ha viste? Adesso mi chiedi cosa ci facciamo qui? …
Ascoltiamo la "B.B.Band", beviamo, e apettiamo le due fighette ... non ti pare?-
Lucio mi guardò come un bimbo capriccioso dopo il rimprovero di un adulto. Fece
una smorfia nervosa, piegando il labbro inferiore verso il mento e socchiudendo gli
occhi. In fondo gli era piaciuto che fossi stato al gioco ed era quello che voleva
sentirsi dire. Purtroppo però, gli avevo anche ricordato Rosy la rossa, la bambina
dalle labbra tumide, come amava chiamarla.
E nella sua mente si materializzarono i suoi occhioni chiari, la sua chioma ribelle e
fulva e soprattutto quel suo grande seno, rigoglioso, sodo, tracimante, che catturava
senza scampo le nostre compiaciute debolezze. Una ragazza da capogiro, una che di
Lucio faceva un sol boccone, mentre lui non voleva credere di essere per lei solo
un’avventura fra tante, a volte solo un parcheggio.
-E sì, Rosy...- Disse modulando la voce su toni mielosi -Rosy, Rosy, bambina mia...
Che stronzetta. Mi aveva telefonato stamattina, sembrava tutto okay, invece guarda
come siamo ridotti: sembriamo i Re Magi in attesa della stella cometa. Sta a vedere
che lei e la sua amica bionda in questo momento si staranno divertendo come pazze
in qualche altro locale!-
- Non te la prendere, dai! Non puoi pretendere di essere l'unico fortunato a
spupazzartela. Quel diavoletto sa cosa vuole, non essere così egoista, Lucio, non è da
te-
-No, no!- Sbottò - Doveva parlarmene se non voleva più vedermi. Sai... Mercoledì
scorso siamo andati a cena insieme, in quel posto, qui vicino ,verso il Po... Com'è che
si chiama?-
-Il Brigante - Suggerii.
-Sì bravo, proprio “Il Brigante”. Gran locale, ottima pasta, vino di qualità, e con la
Rosy facevo un figurone! Abbiamo parlato tutta la sera ed è stato bellissimo; era così
tanto che non scambiavamo due chiacchiere. E' stato lì che mi ha detto della sua
amica bionda, bisognosa d'affetto, e che ci potevamo vedere qua al Silver... Vatti a
fidare...-.
Lo sconforto si impossessò del suo universo e mentre andava giocherellando con la
fiammella dell'accendino, soffocandola fra pollice ed indice, ripeteva a bassa voce:
-Stronzetta, piccola Rosy...Stronzetta!-
Cercai di distrarlo. Un gruppetto di ragazze sole bevevano schiamazzando ad un
tavolo poco distante dal nostro, gli toccai il gomito col mio ma era inutile: stava
cominciando ad affondare a poco a poco.
Ordinò un altro boccale di bionda e abbassò la testa appoggiandola sulle braccia
incrociate sul tavolo. Con quella mezza dozzina di bionde nello stomaco e una rossa
dalle grandi tette nella testa, il buon Lucio boccheggiava smarrendosi piano piano in
una molle, rassicurante, bolla euforica. A dire il vero anch'io incominciavo a perdere
colpi. Un ronzio fastidioso e sempre più irritante stava avendo il sopravvento su tutti
gli altri rumori del Pub, compresa la musica.
L'alcool mi stantuffava le meningi. Gli occhi, sempre più rossi come la Martin's che
mi circolava in corpo, non riuscivano più a mantenere a fuoco le cose che fissavo.
Aprii la bocca per chiedere qualcosa ma mi uscì solo una nota bassa, in sordina,
indecifrabile, distorta dallo spessore della lingua.
Al diavolo Lucio, pensai, al diavolo il Silver, questo fumo asfissiante e quella troietta
dalle grandi tette. Stavo dolcemente scivolando in una confortevole confusione
targata Martin's Pale Ale.
Il trio jazz si dissolse ma l'eco impazzito del basso continuò a ritmare lo stesso tempo,
un tam-tam primordiale, narcotizzante. Il sax taceva, agonizzava nell'abbraccio
ineluttabile di meduse giganti che ne succhiavano le ultime note lamentose. Il
musicista si contorceva sullo strumento accarezzandolo con le sue dita nodose che
faceva correre senza pausa su e giù per i tasti. A nulla valeva soffiare con forza, ag-
grapparsi al microfono, dilatare le guance fino a sfigurarsi il viso: le meduse stavano
vincendo.
Dal piano intanto, un'unica maniacale nota ritornava ad ogni accordo facendo il verso
alla battuta del tam-tam, e liberando fra una pausa e l'altra, illusorie speranze di
riscatto.
Avevo di nuovo fatto il pieno e Lucio era il mio degno compare.
In quello stato allucinato tirammo avanti fino alla chiusura finché Beppe, il mastro
birraio, non ci accompagnò a braccetto fuori dal locale a prendere aria, mentre i suoi
ragazzi finivano di pulire fra i tavoli, tiravano su le sedie e spegnevano le luci perché
il Silver aveva chiuso da un pezzo.
Il mio stomaco quella volta non fu molto contento di come lo avevo trattato perché si
vendicò facendomi vomitare un paio di volte prima che mi mettessi a dormire.
Quando trovai il letto sprofondai in un sonno di piombo, portandomi dietro la cattiva
coscienza di essermi di nuovo fatto del male.
2
Mi risvegliai nel pomeriggio con un forte mal di testa; pareva avessi una mongolfiera
piena di sabbia al posto della testa e mi sentivo di pessimo umore. Dovevo scendere,
fare quattro passi per prendere aria e ossigenarmi un po' la zucca.
Uscii e mi diressi verso il centro ma mi stufai subito di svetrinare in Via Roma e di
sbattere contro i passanti che non capivano che stavo ancora lottando contro la forza
di gravità. Mi diressi allora verso Corso Massimo per raggiungere poi i giardini del
Valentino: là doveva esserci meno confusione e avrei potuto passeggiare in pace in
compagnia dei miei pensieri.
Era ormai pomeriggio tardi ed il sole di novembre, grande e pallido come un'arancia
acerba, non aveva avuto il tempo di riscaldare quella giornata rattrappita che già i
lampioni si accendevano ad illuminare i vialetti del parco. La nebbia scendeva lenta
dalla collina, sfumando e dissolvendo le cime degli alberi più alti e i tetti delle case.
Avrei voluto immergermi in quella bruma avvolgente, perdermi in quel gelido vapo-
re, vagare per settimane nell'impalpabilità di quel lenzuolo protettivo, per uscirne un
giorno purificato e andare incontro alla luce di aprile, al sole tiepido della bella
stagione, rinato, rinvigorito, rilassato dal lungo letargo ristoratore.
Camminavo lentamente con le mani in tasca, il cappuccio del caldo Montgomery
sulla testa a ripararmi le orecchie dalle sferzate di vento, il capo chino come un
pellegrino penitente. Calpestavo foglie secche e di tanto in tanto scalciavo pacchetti
vuoti di sigarette abbandonati per terra o lattine di Coca-Cola. Vagavo senza meta,
non incontrando nessuno, perché nessuno volevo incontrare. Mi stavo piangendo
addosso e non cercavo angeli consolatori.
Uno spleen ricorrente mi veniva a trovare spesso, in genere il giorno dopo serate
incontinenti e inconcludenti, immergendomi in esplorazioni a volte fertili e a volte
frustranti, dell’intero creato e del mio microcosmo. Così quella volta, zigzagando fra
una panchina e un lampione, andavo speculando sui massimi sistemi, chiedendomi il
senso di tutto quello che stavo vivendo. Mi accadeva sempre più spesso di sentirmi
come una rotellina fuori posto di qualche complicata macchina di cui ignoravo il
funzionamento e lo scopo.
Perché tutto ciò?
Perché non riuscivo a lasciarmi vivere come facevano tanti? Come Lucio ad
esempio, che mai si chiedeva quale senso avesse il suo lavoro al negozio, quale
recondito significato assumesse quel passare la vita a vendere jeans e camicie, a
convincere clienti sempre più succubi delle mode che quei capi erano il meglio che si
potesse trovare, non solo a Torino, ma pure a Milano o a Roma.
Eppure Lucio non si era mai posto tali problemi e anche quando i problemi si
imponevano da sé, lui amava sentenziare -Take it easy- ci beveva su una birra o due,
ed il suo universo ricominciava a ruotare con tutte le sincronie.
Con me non funzionava. Non funzionava più. Ci voleva altro per farmi tornare a galla
non mi bastava qualche aforisma, qualche birra, o un’amica generosa che mi
lasciasse perdere tra le sue gambe. Da qualche mese a questa parte avevo imparato a
convivere in modo molto più discreto con il mio spleen ricorrente.
Purtroppo in quella situazione dovevo onorare impegni che non potevo trascurare:
stavo preparando un nuovo esame. Era il sesto, il conclusivo del semestre, e dovevo
assolutamente chiudere con profitto il primo anno di corso.
Da casa ricevevo un piccolo mensile: “ incentivo allo studio” lo chiamava mio padre,
“salario di sopravvivenza” pensavo io, impegnato com'ero a non affogare in quel
contorto rapporto di amore e odio con la città. A me, che arrivavo dalla provincia,
Torino dava la scossa. Ci sguazzavo oramai bene ma continuavo a soffrire la
mancanza di spazi aperti, di amici profondi. Avevo qualche nuovo compagno come
Lucio, o come Luca, ma non amici come l'intendevo io, quelli che hai conosciuto sui
banchi di scuola e con i quali cresci dividendo i giorni più belli della tua infanzia. Sì
certo, avevo un mucchio di conoscenti, gente con cui potevo fare le ore piccole in
birreria o in discoteca; conoscevo molte ragazze, molti compagni di corso
dell'Università mi invitavano alle feste, ma io ero cercavo rapporti più veri.
Così quel giorno, nel mio lento vagabondare, raggiunsi una certezza: c'era qualcosa
che non andava o qualcosa di nascosto che non vedevo ma che mandava all'aria il
mio modo di vivere e di pensare. Si insinuava nei miei pensieri e mi tormentava come
un tarlo nascosto. Ma qualunque cosa fosse a rodermi in quel modo, era qualcosa di
sfuggente, di impalpabile che non riuscivo ad acciuffare e che mi lasciava perplesso.
Si era fatto buio.
Stanco di camminare senza meta ritornai sui miei passi rincasando infreddolito.
Quella sera rimasi a casa e passai il tempo a sentire musica, a studiare
disordinatamente il giovane Ungaretti, aggrappato alla vita in una fangosa trincea sul
Carso. Mangiai poco e mi coricai presto perché mi sentivo molto stanco.
I giorni che seguirono si annegarono nella routine. Al mattino frequentavo qualche
lezione con Paolo, un ragazzo col quale condividevo un paio di corsi e al pomeriggio
mi rinchiudevo in casa, rifuggendo le tentazioni. Anche la sera mi mantenevo in
disparte, non rispondendo ai ripetuti inviti di Lucio che mi voleva suo compagno
d'avventura in qualche locale su in collina o ai Murazzi, lungo il Po. Ma io ero
ossessionato dal maledetto esame di Storia Moderna che mi assorbiva
completamente, mettendomi con le spalle al muro: non potevo più rinviarlo come
avevo fatto le ultime due volte.
A fine mese ricevetti la visita di mio padre. Era venuto in città a portarmi l'incentivo
allo studio con il quale, tra le altre cose, dovevo soddisfare le mensili richieste del
mio padrone di casa. Un vero furto, una cifra spropositata per una cucina, una camera
da letto e un bagno in un vecchio palazzo in via Principe Amedeo. Per mio padre era
una reggia e seduto in trono come un re in visita al suo vassallo, su una delle tre sedie
presenti in tutto l'appartamento, si guardava attorno compiaciuto della sistemazione
del figliolo.
Si comportò come se fosse la prima volta che vedeva dove abitavo e dovetti
ripetergli che nulla era cambiato dall'ultima sua visita, non le stampe appese alle
pareti, non le suppellettili, non il tavolo, o l’ armadio.
Quando fu rassicurato smise di guardarsi attorno e incominciò a guardare me: perché
questo ritardo nella preparazione dell'esame? Perché tutto questo tempo senza
neanche una visita a casa? Cosa facevo in città se non studiavo?
Non sapevo cosa rispondergli. Potevo forse raccontargli dello spleen che mi
accompagnava ormai troppo frequentemente? Potevo confessargli che da quando
Barbara mi aveva lasciato il cervello mi si era liquefatto, tracimando in centinaia di
piccoli rivoli, e che non ero più riuscito a combinare nulla con lo studio?
Ancora pativo quell’abbandono sentendomi morire dentro. Dopo nove mesi di
tenerezza mi aveva lasciato, scaricato come una vecchia valigia, un giocattolo rotto
ormai privo di interesse. Nove mesi, non giorni, un tempo infinito, una maternità. E
se ne era andata così, senza darmi un perché e senza chiedere scusa per il dolore che
mi infliggeva, quasi fosse normale girare le spalle e andarsene.
Ecco perché avevo trovato molto più interessante passare le sere al Silver in
compagnia di Lucio a parlare di musica, birre e grandi amori, finiti, piuttosto che
consumarmi sui testi sacri.
Ma potevo raccontarlo a mio padre? Potevo dirgli di come in città le persone si
incontravano e scontravano come atomi senza gravità e ad ogni contatto ognuno
perdeva qualcosa, piccoli elettroni di energia pura, piccole emozioni indicibili ,
mentre il tempo passava senza riguardo per nessuno? Mi avrebbe capito?
No di certo, lo conoscevo. Lui aveva bisogno di ragioni certe, concrete, doveva
avvertire seri e palpabili accidenti, facilmente riconoscibili e riconducibili alle sue
esperienze vissute. Tutto il resto erano balle.
E con le balle giocai, vergognosamente:
-...Complessità intrinseche alla materia...Incertezze di metodo, di approccio
filosofico, sai Pà, nella misura in cui...Tutto sommato…Cioè...-
Lo frastornai con uno scroscio di cazzate simili, senza rispettare il suo profondo
buonsenso di contadino della piana, penultimo erede di generazioni di servi della
terra, con le radici ben piantate nella Pianura e la testa ben orientata nelle sue qua-
drature, consolidate col lavoro delle braccia. Non ribatté alle mie stronzate ma
rimase in silenzio, pensieroso, annuendo ogni tanto con il capo.
Non volevo mancargli di rispetto. Gli volevo bene. Non volevo nemmeno ingannarlo
perché mi aveva dato, e mi stava dando, tantissimo. Ma avevo bisogno di tempo per
poter tirare qualche lungo respiro ed uscire dall’apnea senza rinunciare a vivere i miei
vent'anni.
Questo lui non poteva capirlo, lui che i suoi vent'anni li aveva spesi nei campi con la
schiena curva sotto le lame del sole, a lavorare con suo padre nelle terre del padrone
per poche lire, giusto per campare. Dopo la guerra il nonno aveva tentato l'azzardo e
coprendosi di debiti aveva acquistato il frutteto del padrone, che troppo compromesso
col fascismo si era trovato mezzo rovinato. Questa fu l'eredità che ricevette mio
padre: un sacco di debiti e giornate di dodici ore di lavoro.
Anni difficili, nei quali la paura di non farcela accompagnava le stagioni di magra,
anni di fatica che lo segnarono nel corpo e nello spirito e che ritornavano spesso nei
ricordi e nei discorsi di tutti noi e dei nostri parenti.
Ma il babbo vinse la scommessa del nonno. Dopo l'angoscia di quel brutto periodo
iniziale il frutteto incominciò a restituire qualcosa, qualche buona annata, qualche
buon contratto con i grassi commercianti che trattavano frutta all'ingrosso per i
mercati cittadini. In casa incominciò finalmente a circolare un po' di denaro e la vita
iniziò a cambiare a prezzo di tanto sudore e qualche lacrima amara.
Come potevo, quindi, rimanere insensibile al significato simbolico che la conquista
della laurea avrebbe significato anche per lui?
Sentivo ogni qualvolta entravo in Facoltà per dare un esame, una presenza
indefinibile, un soffio leggero sul viso, sulle spalle, percepivo quasi il vociare dei
miei avi, contadini di chissà quante generazioni, spariti, inghiottiti nel tempo senza
storia. Sentivo i loro canti ad ogni rito di stagione, vedevo i sogni e le speranze di
quella moltitudine di disgraziati passati sulla faccia della terra, senza lasciare tracce
in questo fazzoletto di pianura fra collina e montagna, estrema lembo geografico e
culturale di un centro sempre troppo lontano. Avevano infoltito le armate dei re
lasciando la vanga per imbracciare la spada o lo schioppo, e andare a morire in terre
di cui spesso nemmeno immaginavano l'esistenza. Loro stavano aspettando un
riscatto, che io qualche modo dovevo dargli. Non potevo tradirli. Dovevo farcela.
Laurearmi significava affrancare la razza mia dalla condanna del lavoro manuale.
Mio padre quel giorno se ne andò salutandomi con una pacca sulla spalla ma con la
preoccupazione disegnata sul viso. Non ero riuscito a convincerlo che niente e
nessuno avrebbe impedito a Vincenzo Martini, figlio di Giuseppe, figlio di Vincenzo,
di rompere le catene che da secoli legavano i Martini alla fatica della terra.
3
Il giorno dell'esame si stava avvicinando rapidamente. La tensione aumentava. Non
pensavo più agli amici e alle feste, non m'importava di rimanere solo in casa per
giorni, non c'era più tempo per il Silver o per spleen di alcun tipo: mi ero immerso
nello studio, mi nutrivo di libri.
Date, nomi, dinamiche, collegamenti, tutto indagato e digerito. Andavo a farmi una
doccia riepilogando la sconfitta della flotta turco-egiziana nella battaglia di Navarino
del luglio del 1827; accendevo il tostapane proclamando la Repubblica Colombiana
assieme a Simon Bolivar dopo la conquista di Bogotà nella fredda estate del 1819. Mi
telefonava Lucio proponendomi serate imperdibile in posti fuori dall'ordinario ma io
declinavo l'invito a causa dell'insanabile scontro fra Marx e Bakunin sulla forma più
adatta di potere: non potevo certo uscire e andare a divertirmi proprio ora che
Bakunin veniva espulso e l'Internazionale entrava in crisi. Così andavo a coricarmi e
mi addormentavo sorvolando come un gabbiano Omaha Beach il giugno del 1944,
poco prima dello sbarco alleato.
Ero completamente immerso nel più affascinante romanzo mai scritto: trama
imprevedibile, personaggi sorprendenti che costruivano, distruggevano,
proclamavano e abrogavano, firmavano trattati di pace e dichiarazioni di guerra senza
soluzione di continuità. E c'era chi soffriva, chi festeggiava, chi lavorava, chi vendeva
e comprava, qualcuno si rovinava, qualcun altro si arricchiva, qualcuno scriveva… E
intanto il tempo passava.
Finalmente, al limite delle mie capacità, giunse il giorno del giudizio, non ne potevo
più. Così, quando quel freddo mattino di dicembre mi sedetti davanti alla
commissione d'esame, guardai fisso nelle pupille il prof. Mazzetti e quasi lo implorai
di fare presto. Ora io ero il testimone, lui il giudice. Io testimoniavo gli ultimi due
secoli di avventura umana, lui era il grande controllore che sorvegliava e avvallava la
mia testimonianza. Sarebbe stato buffo rovesciare l'esito di qualche battaglia, far arre-
stare Garibaldi a Marsala o far trionfare Attilio ed Emilio Bandiera, condurli a
Cosenza fra due ali di folla festante dopo lo sbarco a Crotone quel giugno del 1844.
Se Bresci, l'anarchico Bresci, il regicida, avesse quel giorno sbagliato la mira? E così
pure Gavrilo Princip, a Sarajevo?
Ma non era possibile. Non potevo permettermi di cambiare nemmeno una virgola,
nemmeno una nota alla splendida partitura che stavo seguendo.
La mia non poteva essere un'interpretazione o una divagazione sul tema, un volo
sull'opera storica. Il direttore d'orchestra mi fissava, continuando a sfilarsi e a
rimettersi gli occhiali e mi controllava con i suoi pallidi occhi acquosi non
permettendomi di sgarrare.
Taceva, ma ogni qualvolta dicevo ciò che amava sentire, il suo viso di marmo si
tradiva e ritornava umano, abbozzava un sorriso, infrangeva la maschera.
L'esecuzione si protrasse per un'ora, quando all'improvviso una sentenza compiaciuta
mi interruppe:
-Va bene, va bene così, può andare-
Sobbalzai. A stento mi trattenni dal prendergli la testa fra le mani e dallo schioccargli
un bacio sull'ampia fronte di cera. Mi aspettavo un bel voto, sudato, meritato,
conquistato sul campo. Ma intervenne l'assistente, un’ insulsa arpia di mezz’età, muta
fino a quel momento, che mi puntò di sbieco attraverso le lenti, spesse come fondi di
boccali da birra. Contorse le labbra color mosto e sparò un'insinuazione:
- Ha prodotto un'esposizione prevalentemente descrittiva e troppo poco analitica-
Gracidò la zitellona mai stata giovane, mai stata bella.
- Ventotto!- Sentenziò ricercando consenso tra i colleghi taciturni.
Fortunatamente non ne trovò. Il prof. Mazzetti, dimostrandosi uomo tutto di un pezzo
non mollò:
-Sono soddisfatto del giovanotto... Penso che Trenta gli stia bene-.
Grazie prof…. grazie e un altro bacio in fronte.
Uscii dall'aula con la leggerezza di una libellula e lasciai la Facoltà, svolazzando
giulivo, sentendomi rinascere. Finalmente qualcosa di buono, di bello, un'emozione
positiva. Era un momento da godersi fino in fondo.
Quel mattino il freddo pungeva il viso ma era così piacevole starsene a bighellonare.
Saltai sul primo tram che passava e mi lasciai trasportare in giro per la città senza
meta, in uno stato di euforica beatitudine. Euforia, vertigine, vibrazioni di colori, tanti
colori per la città, colori degli addobbi natalizi che mi balenavano davanti e che solo
ora isolavo dal grigiore metropolitano.
Il tram sfrecciava come un siluro fra i palazzi di Via Po, incrociava le strade
fendendo il lungo serpentone di auto che si divideva e subito si ricomponeva al suo
passaggio. Si infilò nel budello di via Pietro Micca, scansato dalla folla che incurante
del freddo e della nuvola bassa di smog che ammorbava e stemperava le facciate dei
vecchi palazzi ottocenteschi, continuava a correre su e giù in preda a pura isteria.
Fra i vicoli la gente formicolava sfrecciando più forte del tram: ad ogni fermata
nuove orde si apprestavano a salire per nutrire il ventre della bestia. Giovani studenti
già vecchi nei loro gesti e discorsi, grasse signore con la borsa della spesa e i figli
piccoli per mano, immigrati di tutti i colori e di tutte le taglie, appoggiati stancamente
ai vetri con lo sguardo di chi guarda una gigantesca vetrina. Lavoratori già stanchi a
quell’ora del mattino, col viso scavato, le barbe lunghe e le pettorine sporche. Tutti si
alternavano salendo e scendendo, sempre più affannati ad ogni fermata, sempre più
decisi a non perdere tempo, a sparire, affogare nella folla senza lasciare traccia e
senza chiedere aiuto.
Mi lasciai trasportare per la città, verso la Crocetta, San Paolo, Santa Rita osservando
con occhi nuovi vecchi paesaggi. Che sorpresa quel mio risveglio. Davanti avevo la
vita fremente, ma quale vita mi domandavo perplesso. Era davvero vivere quella folle
rincorsa verso chissà quale traguardo, quelle file di formichine indaffarate a vendere,
comprare, barattare, costruire, demolire.
Il tram tornava verso il centro, dopo aver sfiorato il Lingotto. Ora percorreva
nuovamente via Roma con le sue vetrine colorate di Benetton, Yves Saint Laurent, le
abbaglianti esposizioni di Rolex, il lusso di Fendi; a poca distanza presenze
imbarazzanti di disgraziati incappucciati in logori cappotti, chi rannicchiato per il
freddo, chi disteso perché già ubriaco. Una nota stonata in tanto luccichio.
Sotto i portici eleganti di Piazza Castello un madonnaro con i suoi gessetti era
intento a tratteggiare i panni di una madonna. Attorno due mimi parlavano ai sordi.
Più in là un altro artista di strada indicava il modo sicuro per non perdere il senno e
liberarsi dal veleno che intossica i sogni degli uomini-bambini, ma nessuno stava ad
ascoltarlo.
Provai invidia verso quegli spiriti liberi che sapevano giocare con il tempo e con i
falsi idoli. Avrei voluto anch’io conoscere quell’arte, fuggire lontano dalle mie paure,
non mettere radici in nessun posto, sentirmi a casa solo nelle piazze più belle delle
più accoglienti città.
E così immerso nei miei pensieri sciolti mi ritrovai in Via Po, da dove ero partito.
Alla prima fermata abbandonai il mezzo. Percorsi un tratto di Via Accademia e
svoltai a sinistra in Via Maria Vittoria. La bottega di Lucio si trovava lì vicino, ad
angolo con Piazza Carlo Emanuele II, per tutti i torinesi Piazza Carlina.
Era una settimana che non uscivo di casa e quasi due che non incontravo amici. Mi
ero ripromesso come prima cosa, dopo quel maledetto esame, di riallacciare tutti i
contatti, a cominciare da Lucio, che proprio la sera prima mi aveva telefonato per
dirmi della festa di capodanno e di alcune novità sulla compagnia, non precisando
altro.
Gli avevo quasi chiuso il telefono in faccia, tagliando corto. Ora volevo chiedergli
scusa per essere stato così brusco.
Quando mi vide arrivare mi regalò un sorriso che gli tagliò in due il viso, abbandonò
il cliente che in quel momento stava servendo e mi si avvicinò saltellando:
-Ciao Vasco! Finalmente sei uscito dal letargo, come stai? Com’è andato l'esame?-.
-Bene, grazie. E' stata dura ma l'ho spuntata-
-Tu sì che hai la testa fine. Sono contento che tu ti sia tolto quello stress. Ora ritorni
fra i vivi. Mettiti comodo che di devo dire un paio di cosette interessanti...-
-Senti Lucio, devo chiederti scusa per ieri sera al telefono... sai ero un po' teso e...-
Mi interruppe con una risata:
-Ah, ah! Non si era mica capito. Sembravi una molla … sai quegli psicotici pronti a
schizzare. Non ti devi scusare, non fa niente, sta zitto e ascolta - E lentamente mi
spinse verso una poltroncina mettendomi a sedere in un angolo del negozio.
Si era completamente dimenticato del cliente, il quale indossata una camicia cercava
nel riflesso del grande specchio che aveva di fronte dove diavolo fosse finito il suo
venditore.
Feci un cenno a Lucio, con la testa, ricordandogli che stava lavorando. Mi rispose
battendomi la mano sulla spalla. Guardò il cliente attraverso lo specchio abbozzando
un sorriso innocente e lisciandosi per bene il codino che gli scendeva giù, sopra una
spalla. Ritornò tutto serio e compreso e andò a terminare quella vendita lasciata in
sospeso.
-Leggiti qualcosa Vasco, finisco il signore e sono subito da te- Disse voltandomi le
spalle ma giocando ancora con lo specchio e strizzandomi un occhio.
Lo assecondai e andai a sedermi sfogliando un paio di riviste patinate che teneva su
uno scaffale, vicino al bancone della cassa.
Lucio liquidò in fretta il suo uomo e balzò come un gatto sulla poltroncina vicina alla
mia. Mi strappò di mano una rivista proprio mentre stavo mettendo a fuoco una tale
Pamela, modella dominicana in posa su una spiaggia caraibica. Stavo facendo la sua
conoscenza apprezzandone gli hobby, i gusti gastronomici e culturali, quando
l’irruzione di Lucio me la face sparire dalle mani:
-Non chiudo più il negozio e non vado più in Perù!- Sentenziò.
-Oh bella questa! Sarebbe questa la notizia? Ormai non ci crede più nessuno che
chiudi- Gli risposi.
-Ecco… perché nessuno mi prende mai sul serio? Sono proprio incazzato; un giorno
o l'altro sparirò davvero e rimpiangerete di non avermi voluto credere. Vi manderò
una splendida cartolina dal lago Titicaca e allora mi invidierete da morire-.
Era un suo classico. Periodicamente annunciava al mondo la messa in vendita di tutti
i suoi beni: auto, appartamento, bottega. Poi informava della sua imminente partenza
per il Sud America. La prima volta che gli venne in mente organizzò persino una
festa d'addio, invitando un mare di conoscenti dopo aver venduto la vecchia Fiat 500
per poche lire. Girava con la prenotazione del volo per La Paz, via Miami, infilato nel
taschino della camicia. Il giorno dopo, commosso dalla celebrazione e dalle
manifestazioni d'affetto degli amici, si mangiò la prenotazione e riaprì il negozio.
Disse a tutti che rimandava la partenza di qualche mese per godersi ancora un'ultima
estate italiana. Da quell'episodio Lucio si guadagnò la fama di re sognatore.
-Non mi dire che sono tutte qui le novità?- Gli chiesi un po' deluso.
Lucio scosse la testa:
-No, certo. Questa, anche se non l'hai apprezzata è la più importante. Ma c'è dell’altro
che bolle in pentola-
-E cioè?- Lo incalzai
-Luca e Simona si sono lasciati. Così lui lo si rivede in giro come ai vecchi tempi. Ieri
sera, ad esempio, siamo andati al Charlie Five, sai quel locale nuovo, sulla collina.
C'erano anche le sorelle Moggi…
-Tina e Mara?- Lo interruppi
- Sì, bravo.. abbiamo fatto un casino incredibile-.
-Fra di voi o con le sorelle Moggi?-
-Beh... io non ho concluso granché - Confessò Lucio senza imbarazzo -Ma Luca si è
portato a casa Tina, e sicuramente non avrà passato la notte a piangerle sulla spalla
pensando al suo amore perduto-.
-Sono contento per lui- Dissi pensando in cuor mio all’ultima volta che l’avevo
incontrato -Non mi è mai piaciuta Simona. Lo mortificava, lo soffocava. Non lo
vedevi più in giro e se per caso ti capitava di incontrarlo stentavi a riconoscerlo,
tanto era sottomesso e goffo- Aggiunsi questo cercando in Lucio un cenno di
approvazione.
-Ma guarda che è stata lei a mollarlo- Mi sentii invece rispondere.
-Ma dai? Non è mai successo. E’ sempre lui che le lascia: da non crederci. Avevo
ragione allora quando ti dicevo che secondo me quella coppia non poteva durare -
-Già, troppo intelligente lui, troppo carina lei- Chiosò Lucio.
In effetti questa notizia era veramente importante. Voleva dire che avremmo potuto
ricominciare a far squadra: io, Lucio e Luca, come ai vecchi tempi. Come quando
eravamo sempre insieme e tutto filava liscio.
Poi le cose cambiarono: io conobbi Barbara e lui Simona e l'incantesimo si tramutò in
un altro tipo di magia. Non so bene cosa accadde a me, ma guardando Luca ebbi la
netta sensazione che si stesse appannando. Forse la forte personalità della sua
compagna, forse un momento difficile per lui, ancora oggi non so spiegarmi perché,
ma lo vedevo impoverirsi del suo estro.
Che pena. Luca era un artista come Lucio, ma possedeva un interruttore che sapeva
aprire o chiudere quando voleva o quando era necessario. Se lo incontravi al mattino
in ufficio lo trovavi in giacca e cravatta, serio, attento, scrupoloso. Sensibile a tutte le
esigenze dei clienti, premuroso, affidabile.
Se poi la sera tardi passavi al Silver, a stento lo riconoscevi perso dietro un treno di
boccali vuoti, sempre intento a filare le ragazze più carine del giro. Potevi anche
incontrarlo in discoteca che si dimenava come un pazzo in pista e anche lì faticavi a
riconoscere in lui il compassato agente assicurativo.
Mi affascinava.
Lucio non possedeva questa capacità: lui era il re sognatore in birreria, in disco, per
strada come in bottega. Una dolce e innocente follia lo cullava e un'incoscienza
puerile lo salvava dalla routine quotidiana. Quella sua rassicurante leggerezza, ne
faceva una tenera figura amato dagli amici e dai suoi non pochi clienti che si erano
affezionati a lui e alla sua bottega.
Intanto si era quasi fatto mezzogiorno. Lucio chiuse bottega e tirò giù la saracinesca:
-Per questa mattina basta. Non ho più voglia di lavorare. Incomincia la mia pausa
pranzo- E si sedette davanti allo specchio grande. Si prese il mento con la mano e se
lo spostò di qua e di là controllando la sua rasatura:
-Seentii Vuasco, devuo dirt' ancuora 'na coosa-
-Sentiamo, ma smettila di fare le boccacce che non capisco-
-Ok!- Si girò verso di me: - Stiamo organizzando la festa per la sera dell'ultimo
dell'anno. Andiamo in montagna nel villino di Tina e Mara, sei dei nostri vero?-
-Certo, che domanda. Chi c’è?-
-Tutta la banda. Quasi al completo come ai vecchi tempi. Ci sarà Rosy, Luca, Gianni,
Paolo e Laura. Laura ha detto che inviterà due sue cugine, o amiche non ricordo bene.
L'importate è che siano carine... He..He!- Ridacchiò malizioso.
-Gran bella notizia-
-Ci troviamo domani sera al Silver per organizzare i dettagli, ti va?-
-Perfetto. Il Natale lo passerò al paese dai miei, sai…ci tengono al pranzo
tradizionale. Ma poi rientrerò in città e l’ultimo dell’anno sarò con voi. Ho una voglia
matta di fare un po' di festa in compagnia-.
-Perfetto. Come ai vecchi tempi. Mi raccomando, in forma!-
-Certo- Confermai alzandomi -Ora devo andare. Ciao Lucio, buona giornata- E uscii
dalla porticina di servizio dalla bottega dirigendomi verso casa.
4
L'insegna verde fluorescente del Silver Pub baluginava come un faro nella notte su un
capo tempestoso e orientava i viaggiatori, da qualsiasi parte provenissero. La sua
posizione in Piazza Vittorio Veneto ne faceva il crocevia ideale per nottambuli,
artisti e vecchi stregoni, che si ostinavano a frequentarlo instancabilmente tutte le
sere, fino a tarda notte.
Quella volta non c'erano musici sul piccolo palco, perché Beppe, il birraio, non aveva
trovato nessuno disposto a suonare in quel periodo, per quelle poche lire che offriva.
-Fra Natale e Capodanno non trovi più un musicista in città- Si lamentava - Migrano
tutti in montagna nelle località sciistiche. Non rimedi uno strimpellatore di banjo
nemmeno a pagarlo come un professionista, e ad affogarlo nella birra -.
A lui non lo dissi, ma in cuor mio preferivo spesso la musica a basso volume del suo
impianto stereo alle cacofonie di certi suoi strimpellatori di banjo. Mi ero sempre
chiesto dove riuscisse a scovarla certa gente.
- Non ti affliggere, Beppe, finite le feste li avrai di nuovo alla porta che ti
chiederanno di poter suonare per un piatto di lenticchie. Ma dimmi un po', hai visto
Lucio o qualcun altro del giro?-
- Sono tutti nella saletta di sopra, ti stanno aspettando- Rispose spillandomi una
Martin's.
Col boccale tracimante di candida schiuma raggiunsi veloce il piano superiore dove
mi accolse la compagnia tutta riunita attorno a due tavoli accostati per l'occasione e
colmi di birre e di piatti.
-Ciao Vasco!...Chi si rivede...Ti credevamo emigrato in Patagonia...-
Era bello ritrovarli; c'erano proprio tutti, come ai vecchi tempi. In un angolo spiccava
Rosy, la rossa, in forma smagliante: fasciata in un corto vestitino cremisi, intonato al
rame dei suoi capelli, rispose al mio sguardo con uno dei suoi, avvolgenti. Lì vicino
Laura e Paolo, inseparabili piccioncini, sempre incollati, sempre innamorati. E poi
Lucio, che mi salutò con una strizzatina d'occhio, senza interrompere ciò che stava
raccontando a Tina e a Mara. Doveva essere qualcosa di molto interessante a
giudicare da come le aveva entrambe rapite .
Poco più in là Luca, che si alzò in piedi e venne a stringermi la mano battendomi
sulla spalla con l'altra:
- Hey, quant’è che non ci si ritrova?-
-E' parecchio, decisamente troppo. Un motivo in più per festeggiare- E sollevai il
boccale invitandolo ad un brindisi.
E fu in quel momento, nell’atto di portarmi alle labbra la birra, che vidi qualcosa di
assolutamente meraviglioso: vicina a Laura una stupenda creatura che chissà come,
notavo solo ora. Si accarezzava i capelli lunghi, nerissimi, un po' arricciati; il viso
dolcemente mediterraneo, abbronzato, o forse naturalmente olivastro, labbra carnose
e occhi scuri, come due olive nere, sorridenti, fieramente penetranti. Sembrava
un'araba, o una siciliana, piccolina di statura ma ben proporzionata.
-Lei si chiama Lilly- Disse Laura cogliendo al volo la scossa che la vista della dea mi
aveva provocato - E' mia cugina. La sto convincendo a venire anche lei alla festa di
domani -.
-Dai vieni, ci saranno anche Bobo e Gianni- Intervenne Paolo.
Non mi importava chi altri potesse venire a quella festa. In quel momento avevo
appena trovato la mia ragione d'esistere.
-Ciao. Mi chiamo Vincenzo, Vasco per gli amici-. Mi presentai di slancio non
badando a cosa dicessero o facessero gli altri.
-Ciao - Rispose freddina. Mostrò di non gradire la radiografia a cui la stavo
sottoponendo. Me la divoravo con gli occhi, mentre lei mi teneva a bada con un
sorriso educato ma molto esplicito.
Dal lato opposto del tavolo sedeva Rosy. Abituata com'era a ricevere sempre
attenzioni e ad essere al centro della scena, stava patendo la presenza di una rivale.
Era lei la femmina alfa del branco e il mio fremito per l’intrusa non le era piaciuto.
-Perché non vieni a sederti qui vicino? C'è una sedia libera- Mi disse con quel suo
richiamo da sirena a cui era difficile resistere. La nuova arrivata frustrava ogni mio
tentativo di interessarla, così raccolsi l’invito della rossa e mi avvicinai pur senza
molto entusiasmo.
"Breath, breath in the air, don't be afraid to care..."
Sul tavolo si ammucchiavano le bottiglie di Chimay e fra i boccali ci si poteva
giocare ai labirinti. I posacenere erano già pieni e alcuni pacchetti di sigarette gia-
cevano accartocciati fra le bottiglie.
"...Leave but don't leave me, look around, chose your own ground...".
Da una piccola cassa la colonna sonora dei Pink Floyd sosteneva quel gioco di
sguardi e richiami che stavamo creando. Il menestrello Waters sapeva così bene
distendere il suo tappeto acustico che emozioni, sogni e desideri si potevano
confondere.
"...For long you live and high you fly and smiles you'll give and tears you'll cry and
all you touch and all you see, is all your life will ever be...".
Nonostante un’apparente anarchia e molta confusione riuscimmo in poco tempo ad
organizzare la festa del giorno dopo: Tina e Mara si sarebbero preoccupate di
preparare la casa di montagna in modo da sopportare il nostro assalto. Le altre
ragazze avrebbero dato loro una mano raggiungendole sin dal pomeriggio, assieme a
Bobo e Gianni. Rosy, che lavorava fino a tardi, sarebbe venuta su dopo, con me e
Lucio, anche lui impegnato in bottega fino a sera. Luca aveva qualche impegno che
non ci rivelò, ma promise di unirsi a noi prima della mezzanotte.
Il villino di Tina e Mara distava circa un'ora d'auto dalla città, in un paesino
all’imbocco della valle d’Aosta. I genitori delle sorelle lo sfruttavano molto d'estate,
mentre d'inverno rimaneva vuoto a meno che le sorelline non pensassero bene di
organizzarci qualche festa, trasformandolo in un rifugio perfetto per scorribande e
bagordi notturni.
Sistemate le questioni logistiche, i discorsi presero nuovamente una deriva goliardica.
Ordinammo altre birre e Lucio, che aveva ancora fame, anche delle piadine, cosicché
l'animazione del gruppo riprese slancio.
Rosy non si era mossa e continuava a sedermi accanto. Cercava la mia attenzione,
forse perché quella di Lucio era irrimediabilmente rivolta altrove, Si informava su
come stessi, curiosando nei risvolti del mio umore e riversandomi addosso voluttuose
risate ogni qualvolta pronunciavo un'idiozia.
Le ricordai allora la sera in cui io e Lucio l'aspettammo per ore al Silver, lei e la sua
fantomatica amica bionda, raccontandole di come avevamo affogato la nostra
delusione in una robusta sbronza consolatoria.
- A volte si cambia programma, senza malizia - Disse - Mi dispiace che ci abbiate
aspettato. Ti prometto che ci sarà un’altra occasione - Si giustificò sbattendo
lentamente le palpebre come ali di una farfallina.
-Va bene, scuse accettate, ma potevi almeno farcelo sapere che avevi cambiato
programma. Un messaggio da un amico, una telefonata...- Replicai scrollando la testa
ma mantenendo fisso lo sguardo sul suo vestitino rosso, corto e aderente come una
pelle di serpente.
Capivo come Lucio perdesse regolarmente la testa per una tipa così e mi sforzavo di
resisterle per non cadere nella rete. Amava tentare chi si dimostrava sensibile al suo
richiamo malizioso, ma si divertiva anche spesso a farsi inseguire fin sulla soglia
della camera da letto per sbattere poi la porta in faccia all'ingenuo di turno. Qualche
sberla l’avevo presa anch’io, e mi ero ripromesso di non cascarci più.
Che se la godesse pure Lucio, pensavo, se ci riusciva era bravo, lui che adorava la
cucina orientale, piccante e preparata a fuoco lento: io preferivo le ebollizioni, le
eruzioni vulcaniche, ed era Lilly, quella sera, a rapire i miei pensieri anche se non
riuscivo scalfire quella sua corazza e ad attirare la sua attenzione.
Tentai un paio di volte di inserirmi nei suoi discorsi ma lei quasi non rispondeva o
mi sorrideva con quella fredda educazione che mi aveva già sufficientemente irritato.
Per di più le ero seduto troppo lontano, mentre Rosy incollata a me, continuava la
sua azione di disturbo.
Luca si era sostituito a Lucio e ora si filava le sorelle Moggi. Non si capiva quale
delle due potesse essere l'obiettivo: entrambe sembravano divertirsi un mondo anche
alle sue storielle e lui giocava a tutto campo. Lucio invece scherzava con tutti, meno
che con Rosy, a causa di quell'appuntamento mancato che ancora non aveva digerito.
La rossa disponeva così di due buoni motivi per starmi addosso: riconfermare il suo
ruolo di femmina sempre corteggiata da qualcuno, e rispondere a Lucio, alla sua
forzata indifferenza, con un messaggio ben preciso. Potevo stare al suo gioco?
Dovevo darle corda, prestarle il fianco? Con la birra che mi circolava in corpo non
potevo farmi troppe domande. Lei era seducente, io euforico: perché resisterle?
-Sei in forma smagliante stasera- Le sussurrai all'orecchio in un momento in cui
l'attenzione generale era rivolta a Lucio che mimava un suo cliente, pazzo forse
quanto lui.
-Grazie-. Mi rispose colpita da quel complimento improvviso -Ma anche tu non
scherzi… Caro!-.
Eh no, bambina mia, pensai, non ci casco mica. Ero ben deciso a tenere a freno la
fantasia. Lasciai passare qualche attimo ma non mi trattenni:
-Sei così eccitante...- Rilanciai
-Ma dai, non prendermi in giro-. E detto ciò, si sporse indietro cercando con la mano
la borsetta che teneva appesa allo schienale della sedia. Con la torsione del busto e
l'inarcarsi della schiena offrì al mondo l'incomparabile spettacolo di quel suo seno
prorompente, crudelmente prigioniero in un vestitino troppo stretto. Nello stesso
tempo aprì leggermente le gambe che fino a quel momento aveva accavallate,
mostrando, questa volta solo a me, il bordo di pizzo bianco delle calze autoreggenti,
velatissime, e il triangolino del perizoma, così stretto da non lasciare nulla
all’immaginazione.
Trovato l'accendino che cercava, ritornò composta e mi sorprese in estatica
contemplazione delle sue grazie. Scambiò le gambe accavallate, si accese la sigaretta
baciandola con fragilità e come se niente fosse, molto dolcemente, mi offrì da
fumare.
Io stavo già fumando.
Mi versai un bicchiere di Chimay e cercai di distrarmi scambiando qualche battuta
con Paolo. Lilly e Laura discutevano concitatamente, Luca continuava la corte alle
sorelle Moggi e da come gli sorrideva Tina, forse avevo scoperto quale delle due si
lasciava catturare. D'altronde con lei aveva già avuto una storia, come mi aveva
spettegolato Lucio, ed evidentemente c'era del feeling pregresso.
Intanto Rosy replicò lo spettacolo. Aprì nuovamente le gambe quel tanto da catturare
il mio sguardo e anche quella volta puntò lo sguardo su di me un istante dopo,
sorprendendomi di nuovo in contemplazione.
-Rosy, un'altra panoramica sulle tue grazie e mi sento autorizzato a rapirti-
-Scusami... Non posso farci nulla… E' questo vestito che è così corto- Rispose
sollevandone il lembo di alcuni centimetri, indugiando sul pizzo bianco delle calze.
Stavo esplodendo.
Mi alzai e portandomi dietro la sedia andai a sedermi vicino a Lilly. Chiodo scaccia
chiodo, pensai. La piccola questa volta sembrò accogliermi meglio, forse l’alcool
l’aveva addolcita, e non rispose col solito sorrisino irritante.
-Mi piacete. Sì, mi piace la vostra compagnia. Siete proprio come vi aveva descritti
Laura: un po' pazzi e un po' poeti. Elena sarà contenta di venire alla festa- Disse.
-E chi è Elena?-
-La mia compagna di studi-.
La sua voce mi giunse delicata come un arpeggio; nei tratti del suo viso scorgevo
riflessa l'armonia e la bellezza di una statua greca. Rapiva i miei sensi ormai
intorpiditi. Forse erano i suoi occhi scuri a farmi adagiare sul tappeto volante e a
farmi volare in alto, forse la mia dose d'alcool che cominciava a fare il suo effetto.
A interrompere l’incantesimo ci pensò Beppe, il birraio, che irruppe nella sala
canticchiando. Portava un vassoio colmo di focacce farcite e in una mano stringeva
due bottiglie di Chimay:
-Le bottiglie sono un omaggio della casa- Borbottò sbuffando il fumo di un sigarone
lungo due spanne, nero e puzzolente- Sono mesi che non vedevo tutta la banda riunita
al completo: auguri ragazzi, buone feste e buona serata!-
E posati i viveri, sparì nella sala di sotto portandosi appresso applausi, fischi e un
coro di “sei un mito!”.
Ricominciai a tessere la mia tela.
Ero a mio agio, attorno a me la vita palpitante. In un turbinio i compagni, i complici
di tante avventure, attori e comparse di un gioco antico e sempre nuovo al tempo
stesso. In giro angeli deliziosi, arrivati chissà da dove per portare soccorso ai
prigionieri della notte. Quanto avevamo bisogno di questi angeli. Creature che
dessero un senso al fuoco che ci avvampava dentro, che facessero pendant con l'estasi
della visione dell'eden, che rasserenassero il cielo quando le nubi troppo scure lo
soffocavano. Qualcuno che ci ricordasse la fragranza primaverile quando l'autunno
era oramai alle porte, qualcuno con cui litigare quando il senso del perfetto diventava
opprimente o peggio ancora, noioso…..