e book finale

74

Upload: liceo-attilio-bertolucci

Post on 05-Aug-2016

224 views

Category:

Documents


1 download

DESCRIPTION

"Raccontami la guerra è e-book creato dai ragazzi deche raccoglie le testimonianze del nonni che hanno vissuto la Seconda guerra mondiale di studenti italiani e tedeschi che hanno partecipato al progetto Erasmus KA2 Today we make tomorrow through yesterday".

TRANSCRIPT

Page 1: E book finale
Page 2: E book finale

1

Page 3: E book finale

INDICE•INTRODUZIONE:•SEZIONE CIVILI:•La mia guerra;•Per salvare gli ebrei;•Tornerò presto;•Rachele aveva solo tredici anni;•Napoli: il tunnel Borbonico;•Nonna  Bruna a Torrechiara;•Voleno governare tutto e tutti;•Ladri di biciclette;•Ricordi di Julius Gots;Johanna Kube, Johannes Kleiber

" SEZIONE PARTIGIANI:•Il carbonaio delle montagne;•Io, partigiano;•SEZIONE SOLDATI:•Soldato tra i tedeschi;•Nome in codice Orazio;•Alla signorina non facciamo niente;•Passaggio in India;•La ritirata di Russia di un soldato fornaio;•Lettere dal Don. Io e Tino salute ottima; •SEZIONE POESIE:•Salvatore Quasimodo;•Nazim Hikmet;•Primo Levi;•Scritte da noi:

2

Page 4: E book finale

INTRODUZIONEAbbiamo raccolto in questo e-book tutti i racconti che hanno visto protagonisti i nostri nonni e bisnonni durante il secondo conflitto mondiale. Attraverso le testimonianze dei nostri cari vogliamo ricordare non solo gli orrori e i crimini commessi, ma anche i quotidiani gesti di eroismo compiuti dalla gente comune.Il lavoro, iniziato come un semplice compito per casa e poi evoluto in un libro, rientra nel progetto "Erasmus Plus KA2" dal motto "Today we make Tomorrow through Yesterday" che ci vede coinvolti in prima persona in uno scambio interculturale con gli studenti dell'istituto JPRS di Friedberg.Lo scopo di tale iniziativa è quello di osservare il secondo conflitto mondiale da due punti di vista differenti: quello italiano e quello tedesco.Per costruire insieme una carta della Pace.

Classe 2ALiceo Attilio Bertolucci di Parmaas 2014-2015

JPRS Schule Friedberg.as 2015-2016

3

Page 5: E book finale

 

4

Page 6: E book finale

 

5

Page 7: E book finale

6

Page 8: E book finale

LA MIA GUERRA

Salve. Scusate, ma “salve” non mi piace. Ricomincio. Buongiorno.

Mi chiamo Liliana Terenziani e ho 76 anni. Sono nata il 28 ottobre 1938 a Beneceto, in una casa in campagna che contava ben diciotto componenti: noi eravamo in cinque, mio papà Domenico, mia mamma Maria (detta “Bice”), mio fratello Evio, mia sorella Dina e io, oltre a mio nonno, due miei zii e un altro mio zio con sua moglie e otto figli.

Sono venuta al mondo in prossimità della guerra, ma so ben poco su di essa, quello che ho imparato l’ho fatto e lo faccio tutt’ora attraverso il televisore e le riviste; quando andavo a scuola io non se ne parlava, era una cosa troppo recente e la ferita era ancora troppo aperta. Si cercava di dimenticare. A ogni modo, invecchiando, i miei ricordi sono sempre più nitidi e quindi qualcosa ve lo so dire.

A 4 anni noi abbiamo lasciato la nostra casa affollata e siamo andati ad abitare a Mezzani, i miei genitori erano mezzadri, lavoravano la terra del padrone, si alzavano la mattina presto e io, che non andavo ancora a scuola, alla mattina restavo con una mia vicina di casa. Evio aveva 10 anni e Dina 7. Spesso restavamo a casa da soli al pomeriggio e andavamo in cortile a giocare.

Di solito i giovani si scandalizzano pensando che durante la guerra dei bambini stiano in cortile da soli, ma per noi era normale… abbiamo sempre ubbidito a qualsiasi raccomandazione ci venisse fatta, senza chiedere molto di più, anche se noi non capivamo  il grosso rischio che stavamo correndo.

Nel nostro cortile avevano costruito un rifugio per i bombardamenti e quando la notte l’allarme ci avvertiva del pericolo imminente, correvamo lì sotto: c’eravamo noi, i nostri vicini di casa e mio zio con un suo amico. Quel rifugio era costituito da una buca ricoperta di frasche. Un altro modo per ripararci dalle mitragliatrici, quando eravamo in casa, era correre sulle scale  poiché erano situate in mezzo ad essa.

Devo ammettere che sono stata abbastanza fortunata, la mia famiglia è sempre rimasta al completo. Mio papà era stato scartato dal militare essendo troppo magro, l’unica volta in cui si era rivelata una fortuna. Mio zio Aldo e il suo amico Egidio, di cui ho parlato prima, erano scappati dal militare perché avevano la sciatica ed era molto dolorosa, soprattutto per i duri allenamenti ai quali erano

7

Page 9: E book finale

sottoposti. Certamente dovevano nascondersi perché erano ricercati. Di notte, quando le ricerche erano molto frequenti, stavano nel rifugio, e di giorno tornavano in casa a dormire.

Mi ricordo pochi episodi che avessero a che fare con la guerra, a parte i bombardamenti, ma ce li ho impressi nella memoria. Mi ricordo di ciò che ci raccontò mio padre: un giorno alle 4.00 del mattino si alzò, come tutti i giorni, ed entrarono in casa dei fascisti, dieci. Probabilmente pensavano nascondessimo dei partigiani e non erano soliti credere ai “no” di risposta. Per  fortuna, in mezzo a quel gruppo, c’era un amico di vecchia data di mio papà, ricordo ancora il suo nome, che disse di lasciarlo stare e allora se ne andarono. La cosa che più mi stranì fu il fatto che, avendo appena ucciso il maiale, avevamo tutti i salumi appesi per casa in modo da farli asciugare, e loro, uscendo, rubarono una pancetta. Fu la prima cosa che, a 5 anni, mi fece capire che non erano brave persone. Ah, vi ricordate il “salve” di prima? Ogni volta che quegli uomini salutavano lo facevano così. Ecco perché non mi piace.

Ora ricordo, un mio parente è morto. Mio cugino, Ettore, il più grande. Hanno raso al suolo  Cascina, ed è lì che è stato ucciso, aveva 18 anni.

Un vivido ricordo segue immediatamente l’armistizio, i partigiani spogliavano i tedeschi e li uccidevano. Alcuni di loro cercavano di attraversare il Po per fuggire, ma la maggior parte di loro moriva nello stesso atto.

Allora non sembrava così, ma un po’ di fortuna l’avevamo avuta, non eravamo né ricchi né benestanti, ma tutti vivi; il lavoro nei campi tante volte aiutava e anche la stalla del padrone. Noi non abbiamo avuto il problema del razionamento del pane o del poco cibo, certo, non ce n’era da buttare, c’era quello che era necessario, ma bastava. Tutte queste cose del cibo, dei “buoni” e dei “cattivi” in questa guerra le ho sapute dopo. Non sapevo niente di Hitler e degli ebrei, né dei vari patti di Mussolini. Durante la guerra si cercava di parlarne il meno possibile, soprattutto ai bambini, e dopo non ne ho sentito parlare per un bel po’. Adesso mi piace ascoltare cos’è successo nel resto del mondo e d’Italia, solo ora scopro tante cose, peggiori di quelle che sono successe a me.

Ero piccola e non percepivo la paura della guerra come lo faccio adesso.

Ma questa è stata la mia guerra e mi è bastata.

(Eugenia Minari)

8

Page 10: E book finale

  PER SALVARE GLI EBREI

 Mio nonno Giuseppe, quando iniziò la guerra, aveva tredici anni circa, viveva a Treviglio, sui monti, nella provincia di Bergamo, dove frequentava le scuole superiori. 

La cosa che più gli ha lasciato il segno di questo periodo è forse proprio questa: ogni giorno si svegliava, si preparava e andava alla stazione di Treviglio con gli altri studenti ad aspettare il treno che lo avrebbe portato a Bergamo.

Saliti sul treno, non iniziava a chiacchierare con gli amici e con i compagni, come si potrebbe pensare, ma al contrario ognuno si trovava un posto e si sedeva in silenzio a scongiurare la sfortuna.

“Ti starai chiedendo perché…” mi ha detto mio nonno mentre mi parlava: “Beh, devi sapere che i treni erano uno dei bersagli preferiti degli aerei nemici che sorvolavano la zona” e mi ha spiegato che frequentemente il treno veniva bucherellato da mitragliate dal cielo e talvolta saltava in aria anche qualche vagone, costringendo la locomotiva a fermarsi. Tutti i ragazzi, in preda al panico, si fiondavano fuori dal treno nascondendosi nei campi o in fossati circostanti nella speranza di non essere visti.

In poche parole mio nonno mi ha voluto comunicare che la bellezza dell’andare a scuola, il fascino della cultura, il piacere degli incontri, si contrapponeva nei loro cuori alla paura stessa della doverosa frequenza. Mi sono reso conto di quanto sono fortunato.

All’età di quindici anni prese conoscenza di quanto gli ideali nazisti e fascisti non gli appartenessero per cui, venuto a sapere (da un gruppo di amici) che nei dintorni del suo paese si nascondevano i partigiani, decise di iniziare a fare parte di quella piccola “elite” formata da ragazzi della sua età e poco più grandi che rifornivano di cibo i disertori e i partigiani stessi che si nascondevano sui monti in piccoli nascondigli naturali o talvolta nei granai delle fattorie.

Alla fine della nostra chiacchierata, intervallata da qualche piccola interruzione, mio nonno mi ha rivelato di essere stato alquanto fortunato poiché la guerra terminò proprio quando lui aveva diciassette anni; se fosse durata anche solo un anno di più sarebbe dovuto andare nell’esercito, e chissà quale sarebbe stata la sua sorte e, di conseguenza, anche la mia.

                                                              

9

Page 11: E book finale

Mia nonna Rosita

Allo scoppio della guerra mia nonna aveva solamente sette anni, viveva a Milano, più precisamente nel quartiere di San Siro (dove ora c’è lo stadio, ma prima vi era solo un ippodromo).

Più che una storia da raccontarmi, lei ricorda solo piccoli fatti della sua infanzia.

Di sicuro il ricordo che ha più impresso nella mente, di quel periodo, è il rumore assordante delle sirene che suonavano in piena notte e costringevano tutti a correre giù dalle scale del condominio e a raggiungere il rifugio che si trovava nel piano sotterraneo.

Nel sotterraneo vi erano delle cantine e, tra di queste, una con una porticina piccola alta circa poco più di un metro e mezzo ma larga abbastanza da permettere a tutti, anche ai più robusti, di entrare velocemente senza problemi. Dietro quella vi era un posto chiamato bunker, una stanza dalle pareti scure. All’interno c’era qualche scorta di cibo, ma il più delle volte ogni famiglia del condominio aveva in casa delle sacchette già pronte per queste occasioni, con tutti gli effetti personali tra cui anche del cibo, queste venivano portate di volta in volta nel rifugio.

Dal suo punto di vista le sirene, il rifugio, “Pippo”, l’aereo che mitragliava le strade, le sparizioni inspiegabili delle persone, non erano altro che un gioco o quanto meno cose che giorno dopo giorno assumevano la forma della normalità per lei.

Era piccola, non si poneva certe domande, a tal punto che un giorno -mi racconta lei- nonostante le sirene del cessato allarme non fossero ancora suonate e in lontananza si udissero rumori di bombe, lei, presa da una forte smania di scoprire cosa stava succedendo là fuori, uscì dal rifugio inseguita dalla madre e, arrivata sulla strada, si trovò davanti ad uno spettacolo sconcertante: lo stormo di aerei che ora si stavano allontanando aveva raso al suolo il palazzo che stava di fronte al loro, e migliaia di fogli, di ceneri e di ciò che rimaneva planavano verso terra in cerca di un approdo sicuro. “Era il palazzo degli uffici dell’Alfa Romeo e i bombardieri spesso puntavano alle fabbriche o ai centri dell’economia” mi spiega lei.

L’ultima cosa che mi ha raccontato, e forse la più interessante, ha bisogno di una piccola introduzione. Il mio bisnonno lavorava all’ippodromo di San Siro e allenava i fantini per le gare. Proprio lì all’ippodromo e nelle zone circostanti le S.S. decisero di stanziare il loro quartiere generale; di conseguenza suo padre trascorreva gran parte della giornata a stretto contatto con loro.

10

Page 12: E book finale

Ad un certo punto della guerra due ebrei si presentarono alla porta della mia bisnonna che li accettò in casa e li nascose per un anno circa.

Nessuno sospettava niente a parte uno degli ufficiali delle S.S. il quale raggiunse il mio bisnonno che era in procinto di allenare un nuovo fantino, lo prese in disparte e dopo una lunga discussione l’ufficiale accettò di non far parola degli ebrei che avevano in casa a patto che gli venisse impartita qualche lezione di cavallo. Con questo ricordo mia nonna mi ha voluto sottolineare come anche uno degli ufficiali, in fondo, non credesse a ciò a cui era costretto a credere, si ritiene fortunatissima poiché se quell’uomo non avesse fatto la sua offerta o avesse avvertito lo stesso i soldati, sarebbero periti gli ebrei e forse anche i miei nonni. 

Mia nonna mi racconta che questi due ebrei sono tutt’oggi vivi dimorano a Londra e costantemente le mandano ringraziamenti.

(Mio nonno paterno si era trasferito con la sua Famiglia in Etiopia)

(Mia nonna paterna era a Salerno e ha vissuto parecchi sfollamenti)

 (Davide Cattani) 

11

Page 13: E book finale

TORNERO' PRESTO

Abitavamo a San Michele Tiorre, in provincia di Felino, nella campagna parmense. Della seconda guerra mondiale non ricordo molto ma la cosa che mi è rimasta impressa più di tutte fu l’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia, fatto alla radio. Mio padre non fu fortunatamente chiamato al fronte perché reduce della prima guerra mondiale, ma mio zio fu costretto ad arruolarsi. Non volevo andasse via, ero molto legata a lui, ma mio padre mi disse che era obbligatorio presentarsi altrimenti sarebbe stato ucciso. Da allora, ogni giorno, appena mi svegliavo andavo a casa di mia zia, circa un kilometro dalla mia abitazione, per sapere se aveva notizie o se era arrivata qualche lettera. Nel ’41 arrivò una lettera nella quale ci rassicurava che sarebbe arrivato presto. Pochi mesi dopo, mentre ero alla finestra della casa di mia zia, vidi arrivare una macchina da cui scese un uomo in divisa; corsi verso la porta ma lei mi bloccò dicendomi di stare in casa; mia zia uscì, io dalla finestra sbirciavo fuori e vidi che non si abbracciavano ma parlavano e basta. Dopo qualche minuto l’uomo salì in macchina e se ne andò; rimasi molto confusa e mi chiedevo chi fosse quell’uomo e cosa avesse detto a mia zia. Poco dopo lei rientrò in lacrime. Cercai di capire. Chiesi alla zia che cosa era successo e mi disse che Domenico, mio zio, era morto. Mi misi a piangere, non capivo più niente, aveva mandato la lettera con scritto: «tornerò presto» poco prima, invece non tornò mai più. Questo episodio mi è rimasto conficcato nella testa ma il peggio doveva ancora venire. L’Italia stava iniziando a cedere, i bombardamenti divulgati alla radio erano all’ordine del giorno, fortunatamente da noi non ci furono ma eravamo comunque sempre in allerta e dormivamo completamente vestiti, anche con le scarpe così, se ci fosse stato un bombardamento, saremmo potuti correre nel bunker dei nostri vicini. Noi, però, eravamo spaventati molto di più dalle incursioni notturne dei partigiani i quali controllavano che non nascondessimo persone fasciste o naziste; essi entravano in casa con i fucili in mano imponendoci di svegliarci e di metterci in un angolo della casa. Andammo avanti così fino al primo maggio 1945 quando alla radio fu annunciato il ritiro delle truppe tedesche dall’Italia e pochi giorni dopo ci fu la conferma che la seconda guerra mondiale era definitivamente finita. Quel giorno eravamo tutti in silenzio ad ascoltare la radio; finita la trasmissione festeggiammo.

(Mattia Grassi)

12

Page 14: E book finale

 RACHELE AVEVA SOLO TREDICI ANNI

Le mani gelavano, gli occhi lacrimavano e i denti battevano fortissimo, era una gelida mattina d inverno e non avevo studiato per il compito di italiano. Entrai nell'istituto e di seguito nella mia classe. Scambiai qualche sguardo complice con i miei compagni poi mi sedetti al mio banco, lì ad aspettarmi c'era Rachele Demajo, mia vicina di banco e amica, lei era ancora più ansiosa di me. I ticchettii delle penne e i rumori delle pagine del libro di testo creavano un' atmosfera più rassicurante. La professoressa, unica insegnante donna in tutta la scuola, entró, chiuse la porta e senza molti giri di parole ci fece cenno di dividere i banchi e svolgere il compito assegnato. Il silenzio colmó l'aula quando, dopo qualche minuto, una voce maschile lo squarció. "La signorina Rachele Demajo è presente?" Dalle labra della ragazza uscì un sì sussurrato. Cercai subito di immaginare cosa le stesse passando  per la testa: magari pensava che i suoi genitori la fossero venuta a prendere, che l'avessero salvata da quel compito, ma non fu così.

 Quel giorno era il 16 gennaio del 1938, le leggi razziali erano appena entrate in vigore e a venire a prendere Rachele non erano i suoi genitori,  bensì due uomini in divisa, i quali le ordinarono serguirli. Rachele sistemó tutte le sue cose, matite, penne, libri. Chiuse la sua cartelletta e lasció la classe salutando con aria amareggiata, poi si girò verso di me, mi sorrise e disse:- Bruna, noi ci vediamo domani-.

 Fu l' ultima volta che la vidi.

 Fu l' ultima volta che mi sorrise.

 Aveva solo tredici anni.

(Sara Ollari)

13

Page 15: E book finale

  NAPOLI: IL TUNNEL BORBONICO

Prima di tutto molte delle persone che si salvarono durante la seconda guerra mondiale a Napoli devono ringraziare re Ferdinando II di Borbone che nel 1853 fece scavare con grossi rischi e costi un tunnel che va dal Palazzo Reale fino al mare così, se fosse scoppiata una guerra, lui avrebbe avuto una via di fuga veloce.Ti domanderai come riuscì a convincere il popolo.

Semplice: non lo fece, mentì proponendo posti di lavoro.

Il lavoro non fu portato a termine perché durante gli scavi l’architetto si trovò le cisterne dei palazzi sovrastanti. Fornì tuttavia a noi napoletani un ottimo rifugio dove ospitammo anche molti ebrei, infatti ne furono catturati solo quaranta in tutta Napoli.

Ma adesso torniamo a noi: il tunnel fu come una casa con ricordi tremendi e belli; ancora oggi mi sveglio la notte perché mi sembra di sentire quella tremenda sirena che ci svegliava quasi tutte le notti. Pensa: oggi ti svegli e a fatica ti alzi dal letto, ed ora immagina: a notte fonda senti questa sirena assordante, non riesci a pensare, la gente corre stordita da tutte le parti e poi…Capisci che stai rischiando la vita, senti le esplosioni e vedi il soffitto tremare; allora ti aggiungi alla folla che corre ai piani di sotto.

Ma il fatto più triste accadde quando una bomba aerea entrò dentro un’imboccatura e per soli due cm non toccò le mura, la bomba arrivò fino alla ‘’stanza’’, ovvero alle cisterne, dove stavano in molti ed esplose uccidendo più di cinquanta persone; si salvarono solo degli anziani e dei bambini che non erano riusciti a scendere le scale; io non ero lì fortunatamente. Però questo fatto salvò molte altre vite perché furono costruite delle mura più resistenti per cui quando i Tedeschi allarmati dalle urla dei bambini lanciavano delle granate le mura attutivano l’effetto delle esplosioni.

Ma, come ho detto prima, in quel tunnel successero pure lieti avvenimenti come il parto di una donna; tutta la folla era lì ad aspettare la bella notizia; come regalo la donna ricevette due patate e una cipolla.

Un altro piacevole imprevisto fu l’arrivo di un cane; ovviamente era vietato portare animali nel rifugio ma, non si sa come, lui riuscì ad entrare e divenne la mascotte del rifugio e anche una scusa per far scendere i bambini.

14

Page 16: E book finale

Lo spazio era molto ristretto, ognuno aveva mezzo mq in cui teneva i propri averi ma si facevano pure i “bisogni”: un bagno a ‘’5 stelle’’ era un vaso da notte bucato sul fondo e una lampadina da 25 watt. Per sopravvivere in quel posto era necessario una forte sanità fisica e mentale anche per la puzza che si sentiva perché, dal momento che non c’era lo scarico, tutti i rifiuti finivano in una stanza.

Riuscimmo a sopravvivere anche perché il tunnel passava molto vicino a delle cisterne dove prendevamo l’acqua potabile.

(Matteo Iaccarino)   

15

Page 17: E book finale

 NONNA BRUNA A TORRECHIARA

Nonna Bruna mi ha raccontato che, all’età di cinque anni, quando è scoppiata la guerra, è rimasta con la mamma e il fratello perché il papà era stato portato in Germania in un campo di lavoro poiché era un esperto muratore. La nonna viveva a Torrechiara e si ricorda che la vita era dura perché non c’era molto cibo a disposizione ma, a differenza del padre che in Germania si nutriva di bucce di patate, lei non soffriva la fame perché i suoi nonni, che abitavano in una delle ultime case del castello, possedevano animali tipo galline, oche, maiali che fornivano il cibo quotidiano.

La nonna si ricorda anche di “Pippo” un apparecchio che, volando sul paese, lanciava i bengala e le bombe. Era una grossa palla luminosa sospesa nell’ aria che illuminava ogni angolo tanto che nulla poteva passare inosservato e quindi bisognava stare al buio o nascondersi nelle cantine perché, se Pippo avesse notato delle luci, avrebbe bombardato e lasciato cadere degli spezzoni che andavano a colpire le case o i campi. La nonna si rifugiava con la mamma, il fratello e i nonni paterni in una cantina molto profonda che era di proprietà di questi ultimi e che andava  a sbucare fuori nel bosco. Si ricorda anche del bombardamento di Pannochia  che aveva provocato tanta sofferenza e dolore ai  famigliari delle persone morte; lì, inoltre, i Tedeschi avevano un campo per decollare; per fortuna Torrechiara non ha subito nessun bombardamento.

Il paese era anche oggetto di incursione dei cosiddetti “mongoli”, persone provenienti dalla Mongolia che, specialmente in inverno, entravano a forza nelle case razziando cibi, averi e maltrattando le persone, quindi  si viveva nella paura e nel terrore e, prevendendo il loro arrivo, ci si andava a nascondere nelle campagne o dai parenti. La mamma di mia nonna, dato che era inverno e che i figli erano piccoli, decise di rimanere in casa sperando di non cadere nelle mani di questi che per fortuna passarono senza fermarsi ma provò molta paura per il fracasso: alcuni erano a piedi, altri a cavallo e il silenzio era rotto dal rumore secco degli zoccoli dei cavalli e dal battere degli stivali sulla strada e perciò la nonna ricorda questo momento ancora con angoscia.

Sono molti gli episodi che nonna Bruna ha vissuto in questo periodo, un altro che ricorda è quello in cui i Tedeschi sono entrati in casa e, con il mitra puntato, hanno chiesto a sua madre  dove fosse suo marito, volevano sapere se era con i partigiani o in guerra. Lei ha risposto che il marito si trovava prigioniero in Germania però non ci credevano; hanno messo a soqquadro tutta la casa e cercato in ogni angolo; alla fine ha avuto l’idea di mostrare loro le lettere che il

16

Page 18: E book finale

marito le scriveva e quindi se ne sono andati lasciando l’intera famiglia sconvolta. Gli zii, cioè i fratelli del padre di mia nonna, ogni volta che giravano i Tedeschi si nascondevano.

La nonna mi ha raccontato anche che un giorno un gruppo di Tedeschi, circa una ventina, si erano accampati proprio nell’ingresso dell’edificio dove abitavano e lei doveva per forza passare davanti a loro per andare a prendere l’acqua alla fontana o andare a fare la spesa, aveva molto timore perché erano sempre “tedeschi” ma in fondo non le hanno mai fatto niente, anzi le davano, ogni tanto, caramelle e cioccolatini.

La nonna si ricorda anche episodi di morte che si verificarono nei paesi vicini, ad esempio ai primi di ottobre dell’anno 1944 fu ucciso un giovane agricoltore di Castrignano; il padre, quando lo seppe, si recò in mezzo ai soldati e offrì il petto scoperto perché uccidessero pure lui.

Mi ha raccontato anche della figura di un sacerdote di Langhirano che, con il suo intervento, riuscì a salvare l’intero paese dalla furia dei Tedeschi. Nel paese, infatti, un Tedesco si era innamorato di una ragazza langhiranese, ma era stato ucciso durante una cena in casa della ragazza e per questa morte ci sarebbe stata una vendetta atroce verso tutto il paese.

Finalmente giunse anche la fine della guerra , una guerra che aveva provocato terrore, fame, paura, umiliazioni e con la fine anche il rientro del papà della nonna dalla Germania a piedi con qualche mezzo di fortuna che gli procurava un passaggio; quando giunse casa era talmente dimagrito che lì per lì non si riconosceva.

(Leonardo Dall'Asta)

 

17

Page 19: E book finale

 VOLEVANO GOVERNARE TUTTO E TUTTI

Intervista a mia nonna Teresa, nata nel 1939

“Mi ricordo che c'erano i tedeschi e i fascisti che volevano governare tutto e tutti anche in queste zone dell'Italia. Vivevo a Cremona in quegli anni, vicino alla stazione. Bombardavano da tutte le parti e uccidevano tutti quelli che disobbedivano ai loro ordini. Portavano anche intere famiglie nei campi di concentramento del Reich, governato da Hitler. Molti sono riusciti a fuggire, negli ultimi anni della guerra come, ad esempio, mio fratello che, salito su un treno, aveva fatto il fuochista ed era saltato giù appena possibile. Si era addirittura “sporcato” con il carbone per non farsi riconoscere e noi lo avevamo trovato nella stalla. “Pippo” lo chiamavamo, l'aereo che bombardava qui a Cremona; in particolare, se uno dei piloti vedeva una luce in una casa, venivano subito sganciate le bombe. Mia zia aveva costruito un bunker in un campo, nel quale andavamo a rifugiarci in caso di allarme. Mia mamma non aveva paura e diceva:  “Se devo morire, morirò qui, in casa mia”. Era pieno di macerie di palazzi e strade distrutte. I bambini erano obbligati dai fascisti a mettersi le uniformi delle istituzioni Balilla (mio marito ne faceva parte). Venivano in squadra e si mettevano sotto i portici delle case e davano doni ai bambini; quando invece dovettero ritirarsi, portarono via tutto. Nel 1943 sono arrivati gli americani, il fascismo è caduto e le cose sono cambiate anche se Mussolini, il “duce”, era rimasto al potere nell'Italia del Nord. Quando la guerra era finita, si trovavano bombe, anche non esplose, lungo le strade”.

... Enzo, vicino di casa di mia nonna, partigiano, nato nel 1925

“Ero stato chiamato in guerra nel 1942, ormai a guerra inoltrata. Ero di leva a Cremona. Quando l'8 settembre del 1943 il fascismo cadde, fui chiamato in Germania, dove fui addestrato per un mese. Tornato in Italia, fui chiamato a fare da leva sulle montagne dove venne l'inverno con temperature bassissime. Dopo questo turno di leva, sono tornato nel parmense, precisamente qui dove sono tutt'oggi, a Monticelli Terme. Da questo paesino, un gruppo fascista stava partendo per Bologna, dove c'era la guerra. Stavano reclutando più persone possibili e colsero anche me. Un giorno, già tornato da Bologna, andai a Novara dove risiedevano alcuni dei miei compagni del fronte e decidemmo di “arruolarci” come partigiani. Siamo andati in guerra sulle montagne e ci siamo accampati. Durante la notte, vedemmo un carro fascista che si avvicinava che però non entrò nel nostro accampamento. Un giorno, però, fummo catturati e, mentre un carro ci

18

Page 20: E book finale

stava portando in un campo in Germania, siamo saltati giù, ancora in terra italiana, e ci siamo messi di guardia sulle Alpi, vicino alla Svizzera. Cosi' ci accampammo anche lì. Una notte alcuni nazisti fecero un rastrellamento nel nostro campo ma io riuscii a scappare insieme ad altri miei compagni, ma non erano tutti. Ne mancavano tre all'appello! Li abbiamo visti essere fucilati. Quando la guerra finì, ci fu un raduno di tutti i partigiani d'Italia a Milano, in piazzale Loreto. Lì i corpi, ormai senza vita, di alcuni tra i fascisti più noti, tra i quali quello di Mussolini e della sua amante, furono esposti ai partigiani, impiccati per i piedi.

La guerra finì, per noi, il 10 maggio 1945”.

(Cristiano Mori)

19

Page 21: E book finale

LADRI DI BICICLETTE

È un tranquillo pomeriggio primaverile nella campagna parmense, caldo e sereno.

Non si vedono tedeschi da giorni, i più sono già passati verso nord, verso Milano, tenendosi lontani dagli Appennini controllati dai partigiani.

Gli ultimi fascisti non si erano trattenuti per molto tempo, solo alcune ore. “Han paura ‘sti ragazzi qui, han paura” aveva detto papà.

Ed ecco che a smentire, o a confermare, i pensieri dell’uomo si vedono delle sagome di auto in lontananza, veicoli che si avvicinano.“Papà, papà, arrivano i soldati!” esclamiamo correndo verso la casa.A seguito dei nostri richiami, ecco spuntare la faccia di papà dalla finestra al primo piano che, sforzando gli occhi riesce ad individuare i mezzi che avanzano.La testa scompare e riappare dopo mezzo minuto sulla soglia dell’uscio di casa. “Non sono mezzi militari” dichiara dubbioso e, quando gli chiedo perché, lui risponde: “I militari non vanno i giro con le Alfa Romeo. A meno che…”, la sua faccia si rabbuia, ha il viso preoccupato, quasi spaventato, non l’avevo mai visto così.

“Entrate in casa, ragazzi, non discutete e state zitti”, dice con tono brusco spingendoci dentro casa. Le due Alfa Romeo si fermano davanti alla casa e ne escono dieci uomini armati, con normali vestiti da campagna. “Perché non hanno l’uniforme?” chiedo io “Zitta” mi risponde mio fratello serio in volto “Sono partigiani”.

Papà si avvicina agli uomini e comincia a parlare, ma si interrompe quando uno di loro gli punta il suo fucile.Papà rimane fermo. E zitto.Si muove solo quando uno dei partigiani gli fa il segno con l’arma di entrare in casa.Lui acconsente e loro lo seguono dentro. Vedendoci i partigiani ci prendono e ci spingono verso le scale chiedendo “C’è qualcun altro in casa?” Alla risposta negativa di papà ripropongono la domanda con l’aiuto del fucile.Papà chiama la mamma e lo zio che scendono in fretta e, rendendosi conto della situazione, si avvicinano a noi.

Si chiarisce il motivo della visita: “Dove sono i fascisti?”Papà calmo risponde: “A Milano, credo, a Torino, a Venezia, a…” “Basta!” scoppia il capo dei partigiani, un uomo incredibilmente magro, con la barba incolta e la cintura con appesi alcuni pacchetti di sigarette “Dove sono i fascisti! Dove li avete nascosti!”.

20

Page 22: E book finale

“Non ve ne sono più, sono tutti andati al nord, lo giuro” ribadisce papà.

Il capo ordina agli altri di setacciare la casa mentre lui ci punta il fucile. “Salite le scale. Fino in cima” ci ordina, visibilmente teso.

Noi cominciamo a salire la canna metallica dei mitra a pochi centimetri dalle nostre schiene, che non ci consente neppure per un attimo di allontanarci col pensiero dal pericolo.

Ogni gradino è un supplizio, potrebbe essere l’ultimo.

Nessuno sparo. Nessun rumore. Un altro partigiano arriva “Ci sono delle biciclette”, dice. Il capo gli dice di prenderle.

Arriviamo in soffitta.  So che il momento è giunto e non ho il coraggio di voltarmi. I secondi passano e i colpi non partono.

“State qui finché non ce ne saremo andati. Fermi” decreta il partigiano.  Voltatosi, scende le scale e raggiunge i suoi compagni in auto.Se ne vanno. E’ finita. Siamo salvi.

Le nostre bici; si sono presi le nostre bici.

(Marco Grossi)

21

Page 23: E book finale

I RICORDI DI  

Julius Götz, Johanna Kube, Johannes Kleiber

 

22

Page 24: E book finale

 Erinnerungen Julius GötzEin Opa(*1942) erinnert sich hauptsächlich nurnoch daran, als sie nachts immer in den Keller gegangen sind. An eine Situation konnte er sich noch besonders gut erinnern, als ihr Hausdach eines Tages gebrannt hat, wurde er mit seinem Bett an die offene Tür gestellt, damit er ruhig ist. Dort haben sich bei ihm die Frauen, welche das Wasser der Löscharbeiten auf der Treppe aufwischten, eingeprägt. Auch das Geräusch der Propeller von den Flugzeugen hat er noch gut im Gedächtnis. Nach Kriegsende wusste er noch, wie er mit seiner Mutter damals von Stuttgart nach Böblingen laufen musste, nur, um etwas zum Essen zu besorgen und dass sein Vater erst 1950/51 aus französischer Gefangenschaft zurückkehrte. Mein anderer Opa(*1936) erinnert sich auch noch sehr gut daran, wie oft sie früher wegen des Fliegeralarms in den Keller mussten. Auch wurde er sehr früh, zur Einschulung, zu seiner Oma geschickt, damit diese fünf Leute im Haushalt waren und ein Schwein schlachten durften. Gewohnt hatte er im Schulhaus, wo sich auf dem Hof ein Barren befand, bei dem der Holm abgebrochen war. Mit diesen spielten sie dann immer "Flak" und eines Tages spielten sie wieder und dann gab es einen riesen Knall, alle rannten in den Keller und sie begannen zu prahlen, dass sie ein Flugzeug abgeschossen hätten. Dann erinnert er sich noch daran, dass er oft die Straße auf und ab marschiert sei und gesungen hat. Einmal schlug ihm dabei ein alter Mann mit seinem Gehstock auf seinen nicht gepolsterten Kinderhelm, worauf er weinen musste und der Mann nur sagte: "Ein deutscher Soldat weint nicht". Auch war er als Kind eher traurig als der Krieg vorbei war, da er nun neun Jahre alt war und zum "Pimpf" ernannt worden und mit zehn in die Hitlerjugend gekommen wäre. Generell erwähnte er oft, dass sie als Kinder die eigentliche Gefahr nie wahrgenommen hätten und viel mehr auch nach dem Krieg in Schützengräben gespielt, auf Geschützrohren von kaputten Panzern geschaukelt oder in ausgebrannten Autos gespielt haben. An eine Sache noch konnte er sich erinnern und zwar, dass einmal ein Gefangenentransport der Amerikaner mit Deutschen vorbeikam und die Bäcker extra Brot für diese gebacken hatten, um es ihnen zuzuwerfen. Sie als Kinder nahmen das als eine große Veranstaltung wahr.

I RICORDI DI  JULIUS GötzUno dei miei nonni (nato nel 1942) si ricorda soprattutto che la notte dovevano sempre scendere in cantina. Ricorda chiaramentequella volta che il tetto di casa era in fiamme e, per farlo stare tranquillo, lo avevano portato col lettino vicino alla porta aperta. Gli sono rimaste impresse le donne, che spazzavano via delle scale l'acqua usata per spegnere l'incendio. Ricorda bene anche il rombo dei motori degli aeroplani. Non aveva dimenticato nemmeno come, a guerra conclusa, doveva andare a piedi con sua madre da Stoccarda a Böblingen,  per procurarsi qualcosa da mangiare, e che suo padre tornò dalla prigionia in Francia solo nel  1950/51. 

L'altro mio nonno (del 1936) ricorda benissimo che per via dell'allarme aereo spesso dovevano correre in cantina. Inoltre, quando doveva cominciare la scuola, lo avevano mandato dalla nonna, così che in famiglia diventavano cinque e perciò avevano il permesso di macellare un maiale. Abitava nella scuola, in cortile c'erano le parallele per la ginnastica, con una sbarra  rotta. Loro ci giocavano sempre alla „contraerea“, un giorno stavano giocando e si sentì un'esplosione tremenda e  tutti corsero giù in cantina e cominciarono a vantarsi di aver abbattuto un aereo. Poi si ricorda che era solito marciare su e giù per strada cantando e una volta un vecchio lo aveva colpito col bastone da passeggio sull'elmo che era per bambini, senza imbottitura, e allora si era messo a piangere e l'uomo gli aveva detto soltanto: „Un soldato tedesco non piange mai.“ Era un bambino e quando la guerra finì gli dispiaceva, perché adesso che aveva nove anni era diventato un „Pimpf“, un ragazzino, e a dieci anni sarebbe potuto entrare nella Hitlerjugend. In generale, diceva spesso che da bambini non si rendevano conto del pericolo e che anche dopo la guerra continuavano a giocare nelle trincee scavate per rifugio o nelle auto carbonizzate oppure si dondolavano sui fusti di cannone dei carri armati

23

Page 25: E book finale

rotti. E si ricordava anche un'altra cosa, cioè che una volta era passato un convoglio americano di prigionieri tedeschi e i fornai avevano cotto del pane apposta per loro, per lanciarglielo. Ai bambini quello era sembrato un fatto straordinario. 

JOHANNA KUBE Wie mein Opa den Krieg erlebt hat. Drei meiner Großeltern sind noch recht jung. Nur der Vater meiner Mutter als Kind hat den Krieg miterlebt.

Besonders in Erinnerung geblieben ist ihm die Zeit, in der er von seiner Familie getrennt und evakuiert wurde. Seine Familie lebte damals im Ruhrgebiet. Wie viele andere Kinder auch wurden er und sein älterer Bruder aus dem Ballungsgebiet fortgeschickt. Man hatte Sorge, dass aufgrund der dort ansässigen Industrie, die viel Kriegsmittel produzierte, diese Region im besonderen Maße von Bombenangriffen bedroht sei. Tausende Kinder wurden in ländliche Regionen gebracht. Dieses Vorgehen ist als „Erweiterte Kinderlandverschickung“ bekannt. Mein Opa und sein Bruder kamen nach Baden-Württemberg. Dort wurden sie in zwei verschiedenen Bauersfamilien untergebracht. Sie sahen sich nur in unregelmäßigen Abständen. Zudem vermisste er natürlich seine Eltern und sein Zuhause.

Das Leben in den Familien war nicht immer einfach, zumal es ihnen an vielem mangelte. Die Bauersfamilie hatte selbst Sorge über die Runden zu kommen. Das Essen war knapp und oft einseitig. Mein Opa hatte morgens und mittags einen weiten Weg über Felder und durch Wälder zur Schule zu laufen. Nach der Schule half er auf dem Hof mit, zum Beispiel ging er aufs Feld um Kartoffeln zu sammeln. Am Ende seiner Evakuierungszeit kamen die Amerikaner in die Gegend. Mein Opa erinnert sich noch gut, wie sie als Kinder Schokolade und Kaugummis zugesteckt bekommen haben. Das war ein ganz besonderer Augenblick in dieser sonst entbehrungsreichen Zeit. Die Amerikaner waren sehr freundlich zu den Kindern. Mit dem damals schon jungen erwachsenen Sohn seiner Gasteltern verband meinen Großvater später eine tiefe Freundschaft, bis zu dessen Tod. Insgesamt spricht er aber nicht gerne und viel über diese Jahre.

COSA HA VISSUTO MIO NONNO IN GUERRA

Tre dei miei nonni sono ancora molto giovani. Soltanto il padre di mia madre ha vissuto la guerra da bambino. Si ricorda soprattutto il tempo in cui fu separato dalla sua famiglia e portato lontano. Allora i suoi vivevano nella Ruhr. Lui e suo fratello maggiore, insieme a tantissimi altri bambini, furono allontanati da là, perché si temeva che quella regione fosse minacciata dagli attacchi aerei, per via delle tante fabbriche di materiali bellici che vi si trovavano. Migliaia di bambini furono deportati in regioni rurali. Questa azione veniva chiamata „evacuazione dei bambini“. Mio nonno e suo fratello finirono nel Baden-Württemberg e furono ospitati in due diverse famiglie. Potevano vedersi solo ogni tanto. Naturalmente gli mancavano tantissimo la sua casa e i suoi genitori. La vita nelle famiglie non era sempre facile, dato che mancava un po‘ di tutto. Perfino gli agricoltori facevano fatica a cavarsela. Il cibo era scarso e sempre uguale. Per arrivare a scuola, mio nonno doveva fare ogni giorno una lunga camminata attraverso la campagna e i boschi. Dopo la scuola aiutava nel lavoro dei campi, per esempio andava a raccogliere le patate. Quando stava per finire il periodo dell‘evacuazione, arrivarono gli americani. Mio nonno se li ricorda bene, perché davano ai bambini cioccolata e gomma da masticare. Fu un momento straordinario in quel tempo di privazioni. Gli americani erano gentili con i bambini.In seguito mio nonno strinse

24

Page 26: E book finale

con il figlio grande della famiglia che lo aveva ospitato un rapporto di amicizia che durò fino alla morte di costui. In generale, però, non gli piace parlare di quegli anni.

JOHANNES KLEIBER. Le menzogne del FührerMeine Oma (heute 86) war zum Beginn der 2. Weltkrieges 10 Jahre alt und machte folgende Erfahrungen.

Sie erinnert sich an die Grausamkeit zwischen den Menschen, nur weil sie einer anderen Nation angehörten.

Menschen wurden aufgehetzt (ermutigt) bestimmte Nationen/Volksgruppen zu vernichten durch Lügen, die der Führer über die feindliche Nation verbreitete.

Durch Lügen wurden die Soldaten bzw. das ganze Volk ermutigt, auf die Gegner zu schießen.

Man musste aufpassen, wem man was sagte. Der Widerstand gegen die Entscheidungen des Führers wurden oft mit dem Tode bestraft.

Durch Vertreibung flüchteten viele Menschen ins Inland ohne jeglichen Besitz.

Nachts kam ein Soldat und wollte sein Uniform ausziehen, damit er nicht als deutscher Soldat erkannt wurde. Daraufhin hat meine Uroma ihm einen alten Gartenmantel im Tausch zur Uniform gegeben. Später wurde die Uniform gefärbt und wurde zur Hochzeit meiner Großeltern getragen.

Das Warten in den Luftschutzkellern ist ein sehr schreckliches Gefühl (Fliegerangriffe)

Zum Teil kamen die feindlichen Flieger so tief zu den Menschen runter, dass sie den Menschen aus dem Flieger aus noch anschauen konnten, bevor sie erschossen wurden (auch Mütter und Kinder).

Tiere (Kühe auf den Weiden) wurden von den Feinden getötet/erschossen durch Tiefflieger, damit die Menschen keine Nahrung mehr hatten.

Meine Oma wohnte hier in Friedberg. Als Fliegerangriff war, rannte sie durch die „24 Hallen“ von Friedberg. Da kam auch ein Flieger und sie konnte ihm in die Augen schauen und er auch ihr. Er hat zum Glück nicht geschossen.

Ohne „Lebensmittelmarken“ gab es nichts zu essen.

Meine Oma arbeitete Im Krankenhaus mit 16 (gegen Ende des Krieges). Dorthin kamen viele Flüchtlinge und fragten nach Essen. Bei sterbenden Patienten, die kurz vor ihrem Tod nichts mehr essen wollten, bekamen die Flüchtlinge diese Portion Nahrung.

Die Menschen gingen aus Hunger auf die Felder vor und suchten dort nach Früchten und Gemüse nach der Ernte.

Oft starben die Menschen in den Luftschutzkellern, weil darüber das Haus eingestürzt ist und sie nicht mehr raus kamen.

Menschen wurden wegen ihrem anderen Glauben umgebracht (KZ).

Meine Oma wohnte in der Gebrüder-Lang-Straße hier in Friedberg als Kind und das Dach ihres Hauses wurde komplett zerstört. Alle Fenster waren kaputt , sodass meine Urgroßeltern Pappdeckel als Ersatz für die Fenster benutzten, um vor dem Wind geschützt zu sein. Sie froren sehr stark, da es sehr wenig Brennholz gab.

25

Page 27: E book finale

Meine Urgroßeltern mussten Menschen, die ihr zu Hause verloren hatten, in ihrem Haus aufnehmen, damit sie überleben konnten. Als es keine Häuser mehr für diese Menschen gab, wurden sie in Schulen untergebracht, weswegen oft Unterricht gar nicht stattfand, weil die Schulen von diesen Menschen belegt waren.

Während des Krieges half man sich gegenseitig sehr. Nachbarn meiner Urgroßeltern, die ihr Haus verloren hatten, wurden von meinen Urgroßeltern eingeladen, zu ihnen zu kommen. Ganz generell half man sich dort, wo man konnte. Als die feindlichen Soldaten zu meinen Großeltern kamen und sagten, dass sie in einer Stunde ihr Haus verlassen haben sollen, weil dort eine neue Familie (aus der „feindlichen“ Nation) einziehen soll, da halfen alle Nachbarn meinen Urgroßeltern, alles Porzellan und wertvolle aus dem Haus zu nehmen und in einem Gartenhaus zu verstecken. Als dann die Familie kam, die in das Haus meiner Urgroßeltern ziehen sollten, sagte die Familie, dass ihnen das Haus nicht gefällt und sie hier nicht wohnen möchten, weil keine Innenausstattung vorhanden ist. Dadurch konnten meine Urgroßeltern ihr Haus behalten. Das Zusammenhalten in schlechten Zeiten wie z.B. im Krieg ist etwas ganz wichtiges.

Quando la guerra cominciò, mia nonna aveva 10 anni (adesso ne ha 86) e ricorda alcune esperienze.

Ricorda le nefandezze commesse tra le persone, solo perché appartenevano a nazioni diverse.

Le persone venivano incitate dalle menzogne diffuse dal Führer ad annientare certi gruppi o nazioni. Le menzogne spingevano i soldati e tutta la popolazione a colpire i nemici.

Bisognava stare attenti a cosa si diceva e a chi lo si diceva. Le forme di resistenza contro gli ordini del Führer erano punite con la morte.

Moltissimi furono costretti a scappare, privati di ogni bene.

Una notte arrivò un soldato, voleva togliersi l‘uniforme, per non essere riconosciuto come soldato tedesco. La mia bisnonna gli diede una giubba da lavoro in cambio. In seguito quell‘uniforme venne tinta e indossata per il matrimonio dei nonni.

Una cosa terribile era aspettare nei rifugi antiaerei.

A volte gli aerei nemici scendevano così in basso che le vittime (tra cui donne e bambini) potevano guardare negli occhi i soldati prima di venire ammazzati.

Mia nonna viveva qui a Friedberg. Durante un allarme aereo, era sul ponte detto “24 Hallen”. Arrivò un aereo e lei vide il pilota in faccia e lui vide lei. Per fortuna non sparò.

Al di fuori del mercato nero non si trovava niente da mangiare.

26

Page 28: E book finale

Mia nonna a sedici anni andò a lavorare in ospedale, quando la guerra era alla fine. Arrivavano molti sfollati e chiedevano del cibo. Gli davano le razioni di quelli che stavano morendo, che non potevano più mangiare niente.

La gente affamata andava in giro per i campi e cercava frutta e verdura rimasti dopo il raccolto.

Capitava che le persone morissero nei rifugi antiaerei perché l‘edificio gli crollava sopra e loro non potevano più uscire.

Gli uomini venivano ammazzati perché avevano un altro credo (lager).

Mia nonna da piccola abitava qui a Friedberg nella Gebrüder-Lang-Straße e il tetto della sua casa venne completamente distrutto. Tutte le finestre erano rotte, i bisnonni le chiudevano col cartone, per ripararsi dal vento. Avevano molto freddo, perché la legna da ardere scarseggiava.

I miei bisnonni dovettero accogliere della gente che aveva perso la casa, altrimenti non sarebbero sopravvissuti. Quando le case non bastarono più, i senza tetto venivano ospitati nelle scuole, così spesso non c‘era lezione, perché le scuole erano occupate.

Durante la guerra la gente si aiutava. I miei bisnonni accolsero a casa loro i vicini che erano rimasti senza un posto dove andare. In generale tutti si aiutavano tra loro. Quando i soldati nemici arrivarono dai miei nonni e gli dissero che dovevano sgombrare la casa entro un‘ora, perché dovevano cederla a un‘altra famiglia (di una nazione nemica), tutti i vicini aiutarono i miei bisnonni a portare fuori le stoviglie e le cose che valevano qualcosa e a nasconderle in un capanno per attrezzi. Quando arrivò la nuova famiglia che doveva occupare la casa dei miei bisnonni, dissero che lì non gli piaceva e non volevano starci, perché mancavano tutti i mobili. Allora i miei bisnonni poterono continuare a starci. E‘ molto importante restare uniti nei tempi difficili come la guerra.

27

Page 29: E book finale

 

28

Page 30: E book finale

29

Page 31: E book finale

  IL CARBONAIO DELLE MONTAGNE Mio nonno mi ha spesso raccontato di suo padre, che visse la tragica esperienza della guerra. 

Si chiamava Antonio e viveva a Berceto, sull'Appennino Tosco-Emiliano. Faceva il carbonaio, un lavoro duro e pericoloso che lo teneva spesso lontano da casa per diversi giorni e lo costringeva a dormire all'aperto in mezzo ai boschi al fine di controllare la combustione della legna. Negli anni, il suo fisico, sottoposto alle intemperie della montagna, ne aveva risentito, la sua asma era peggiorata e Antonio respirava con difficoltà.

Le montagne, sulle quali lavorava, negli anni della guerra erano diventate un ottimo nascondiglio per i gruppi di oppositori al regime fascista e furono sede della banda partigiana detta “Comando Unico”. I tedeschi di questo erano ben consapevoli, così come sapevano che riuscire a districarsi tra i sentieri montani era impresa ardua. Per questo, quando una spedizione di duecento soldati tedeschi arrivò in paese con il chiaro obiettivo di stanare queste bande di oppositori al regime, Antonio fu visto come la guida perfetta.

Sotto la minaccia di uccidergli moglie e figli, gli fu intimato di guidarli fino al covo dei partigiani che, stando alle loro informazioni, doveva trovarsi tra i boschi del Monte Cirone. Così era e Antonio lo sapeva bene.

Partirono nella notte; il piano era quello di sorprendere i partigiani nel buio. Per una volta la sua salute precaria gli venne in aiuto e  Antonio non solo scelse il percorso più lungo ma, con la scusa di avere difficoltà di respirazione, rallentò più volte la marcia. Qualche volta riuscì persino a fermarla. Tra andata e ritorno la spedizione durò tre giorni e tre notti, nella nebbia e sotto la pioggia. L'intento era di permettere alla moglie di arrivare prima di lui e consentire così ai partigiani di scappare. Ci fu un momento in cui i tedeschi, sospettando l'inganno, minacciarono Antonio di fucilarlo. Lungo il percorso i militari uccisero chiunque incontrassero, incendiarono terreni, abitazioni e seminarono il terrore. Il carbonaio prese tempo ed eludendo la sorveglianza nemica riuscì a mandare la moglie ad avvisare i “compagni” del loro arrivo prima di mettersi in marcia con i tedeschi.

Arrivati al covo dei partigiani, lo trovarono vuoto, ma al carbonaio, racconta mio nonno, rimase sempre il rimorso per quelle vite spezzate lungo il tragitto. Antonio fu poi lasciato miracolosamente libero, ma questo fatto segnò profondamente la sua vita.

Se questo fu l'unico avvenimento che vide il mio bisnonno impegnato in prima persona, mio nonno racconta di aver più volte sentito parlare delle atrocità della

30

Page 32: E book finale

guerra che si erano consumate in quegli anni. Mi racconta che Berceto, nonostante la sua posizione vicina al valico della Cisa, non conobbe mai l'orrore dei bombardamenti, ma che fu sede di un robusto presidio militare tedesco che disseminò di posti di blocco la statale rendendola poco scorrevole. A capo del presidio, secondo i racconti, vi era la losca figura del sergente Jost. Il mio bisnonno lo definì un sanguinario e feroce torturatore di partigiani e civili. Costui, dopo essersi macchiato dei più atroci delitti, scappò all'indomani della fine della guerra senza lasciare tracce. Anche la fase della ritirata finale non conobbe spargimenti di sangue. La statale della Cisa pullulava di partigiani e i reparti militari tedeschi accelerarono il passaggio per evitare agguati.   

(Gianmarco Zambernardi)

31

Page 33: E book finale

IO, PARTIGIANO

Ricordo che da ragazzo ci obbligavano ad andare in palestra. Ci facevano fare ginnastica acrobatica. Certo non potevamo scegliere, ma a me e ai miei amici piaceva moltissimo fare sport e diventammo subito bravi. Una volta lasciata la scuola, ormai maggiorenni, non ci iscrivemmo al Partito Fascista; nessuno immaginava che fossimo partigiani, visto che avevamo appena raggiunto la maggiore età. Un giorno, girando per Brescia, capitammo per caso di fronte a una palestra. Era la stessa nella quale qualche anno prima ci destreggiavamo alla grande con gli attrezzi. Fummo catturati da una terribile voglia di entrare. Ci chiesero chi fossimo e noi rispondemmo con i nostri nomi: Minelli, Giudici e Baroni. Pensavamo che non si ricordassero di noi ma dopo qualche giorno scoprimmo che non era così. Due giorni dopo a casa di ognuno di noi arrivarono i fascisti. Ci dissero di seguirli in macchina; durante il viaggio mi assalirono i pensieri più terribili. Mi portarono in prefettura e fu lì che incontrai i miei due compagni Giudici e Baroni. Ci attendeva in una stanzetta Lombardi, il nostro vecchio istruttore di ginnastica. Ai tempi era sergente, ora capitano. Ci fece subito i complimenti per le nostre gesta passate e ci disse che era felicissimo di rivederci in palestra.   Ci chiese perché non fossimo iscritti al Partito Fascista e per non destare sospetti rispondemmo che avremmo fatto domanda nei   giorni seguenti. Ci fermammo in prefettura per due ore e mezza. Tuttavia eravamo amici del nostro nemico. Solo che lui non sapeva fossimo nemici. Nei giorni successivi ci fu un attacco partigiano nel centro di Brescia. Io, Giudici e Baroni eravamo presenti. Dall’altra parte era invece presente il capitano Lombardi. Lombardi non sopravvisse, ma probabilmente era già  morto prima che gli sparassero, ucciso dalla vista di quelli che erano stati i suoi allievi migliori, nelle schiere nemiche. Mi sento tuttora in colpa, ma al tempo il mio desiderio era liberare l’Italia e per farlo mi ero arruolato tra i Partigiani e ho sempre eseguito ogni ordine.

(Federico Gandini)

32

Page 34: E book finale

 

33

Page 35: E book finale

34

Page 36: E book finale

SOLDATO FRA I TEDESCHIUn giorno come tanti, mentre stavo parlando con mio papà della gioventù in generale, decisi insieme a lui di fare un salto indietro nel tempo. Nel 1942, quando aveva diciotto anni, stava nascosto nei boschi della Val di Non per non essere arruolato nell'esercito tedesco. Dopo l'otto settembre 1943 (giorno nel quale l'Italia chiese l'armistizio agli USA) i tedeschi si rivolsero al sindaco del paese di papà e chiesero una lista dei giovani presenti all'interno del villaggio. I tedeschi, dopo aver ricevuto la lista dal sindaco, la confrontarono con le liste del Distretto militare di Trento e videro che molti nomi di giovani mancavano. In seguito al controllo, i tedeschi tornarono al paese e arrestarono il sindaco. Trovarono e arruolarono tutti i ragazzi che si erano nascosti, compreso papà. Papà, dopo essersi arruolato, venne mandato a Laives (BZ) per aggiustare i muri che erano stati distrutti dai bombardamenti. Papà, poi, scappò e tornò a casa in Val di Non. Successivamente venne ripreso dai tedeschi e mandato a Brescia, dove i soldati trentini come lui avevano il compito di difendere i soldati tedeschi dai partigiani. A Brescia, papà rimase fino alla fine della guerra. Papà racconta di essere stato trattato bene dai tedeschi e, ancora oggi, ha stima per il suo comandante tedesco che sapeva bene l'italiano. Finita la guerra papà e altri giovani vennero dichiarati disertori perché non erano registrati sugli elenchi di leva. Per non dover fare nuovamente il militare papà e altri giovani si presentarono a Verona dove ritrovarono i loro documenti che dichiararono la loro presenza fra i militari tedeschi, così vennero rilasciati. Oggi papà ricorda la guerra come un fatto passeggero che non lo ha coinvolto più di tanto: egli non partecipò mai a un bombardamento direttamente, non ebbe problemi di alimentazione e andava d'accordo con i compagni di guerra, non si è mai trovato un fucile contro, ma io vi dico che quando chiama "ebreo" il muratore che ha lasciato un po' di polvere di troppo dopo i lavori, capisco l'influenza dell'esercito tedesco su di lui e sui suoi compagni. Una guerra mondiale , che riguarda tutta la popolazione, influenza ogni individuo con idee sbagliate o con idee giuste.

(Lucia Dindo)

35

Page 37: E book finale

NOME IN CODICE ORAZIOMio nonno materno Angelo mi ha raccontato, il 2 Gennaio 2015, alcuni avvenimenti che hanno caratterizzato la vita di suo padre Nello nato nel 1913 che abitava in Via Trieste a Salsomaggiore. Era un contadino e si era sposato nel 1938, un anno prima dello scoppio della guerra, infatti il 1° Gennaio 1939 Nello era stato chiamato alle armi, era stato mandato in Africa per combattere con i tedeschi come sergente maggiore nella fanteria, un ruolo molto importante nell’esercito a quel tempo.

 Nello era un grande uomo, aveva un cavallo bianco di nome Cirillo: tra i due si era creato un forte legame, al punto che il mio bisnonno pianse quando lo dovette abbandonare. Nello combatté con gli inglesi parecchie volte, ma non riportò nessuna ferita: era stato molto fortunato. Tornò a casa solo nel 1944 quando fu sostituito da un altro soldato e diventò partigiano; il suo nome in codice era ''ORAZIO'', per non farsi scoprire da nessuno. Ricevette in seguito una medaglia al valore; oltre a combattere però, provvedeva alla difesa della zona: i partigiani si nascondevano nelle case dei contadini e molte volte raccoglievano il cibo che trovavano o nelle case dei contadini o in giro per la strada.   Nello tornava dalla sua famiglia solo a notte fonda.

Il mio bisnonno morì nel 1997 il 26 di settembre nella sua casa: era felice perché sapeva che aveva fatto grandi cose nella vita, l’essere stato un partigiano lo

rendeva orgoglioso.

(Elena Gerra)

36

Page 38: E book finale

 ALLA SIGNORINA NON FACCIAMO NIENTEHo fatto l’intervista alla dottoressa Menoni, che è il nostro medico di famiglia. Per me è stato un grande piacere ascoltarla e, attraverso il suo racconto, mi ha fatto capire ancora di più di quanto sia crudele e orribile la guerra. Mi ha parlato di suo padre. Si chiamava Giuseppe Menoni. Era un militare e partì per la guerra nel gennaio del 1940 quando aveva solo 20 anni. Nel gennaio-aprile 1941 fece la guerra in Albania e andò a combattere anche in Africa. Nel 1943, quando aveva 23 anni tornò a casa in congedo a causa di un ascesso polmonare, altrimenti sarebbe andato in un campo di concentramento. Nel 1943-44 andò a studiare la facoltà di Lettere all’Università Cattolica a Milano, e dopo la laurea diventò insegnante di lettere. Amava molto la cultura greca ed è autore di alcuni libri, tra cui "La mia guerra col 63’, Diario 1940-43 e Postille 1990".

Sempre nel dopoguerra conobbe Don Gnocchi, che aiutò i bambini orfani e mutilati a causa delle bombe che venivano nascoste nel terreno.

 Il professor Menoni ebbe poi la possibilità di conoscere tutti coloro che fondarono l’ Università Cattolica.

Durante la guerra non era ancora sposato. Quando la guerra scoppiò, la madre della dottoressa aveva venti anni. La madre raccontò che un giorno dei partigiani entrarono in casa, rubarono tutto l’oro, portarono il padre (il nonno della dottoressa) nel solaio e lo presero a schiaffi. Uno di loro venne dalla madre e disse:-No, alla signorina non facciamo niente -. Dopo la guerra i genitori si sposarono.

Lo zio della dottoressa, Vincenzo Menoni, era un partigiano e fu ucciso a ventitré anni nell’Appennino. Lo zio raccontava che i vecchi stavano nelle stalle. Uno in particolare, che era un anziano molto povero (era un loro parente) si riscaldava con l’urina degli animali, perché non c’era il riscaldamento.

La dottoressa portò me e mia mamma a Poviglio, una regione di Reggio-Emilia, e ci spiegò che quando il fascismo cadde, i comunisti se la presero con le persone ricche innocenti: li seppellivano nelle terre della campagna. Ci raccontò che una signora del paese di sua madre aveva perso il marito e il figlio, perché seppelliti vivi dai comunisti. Questa signora andò con il prete a riprendere i corpi dei suoi cari. Quando c’erano i bombardamenti, il padre della dottoressa usciva fuori a fotografare le strade per documentare.

(Nur Al Dujelli)

37

Page 39: E book finale

PASSAGGIO IN INDIALuglio 1943

Caro papà,                                                                                                                                                                                                                                                                 

come stai? Qui a Filadelfia manchi un po’ a tutti e sempre, quando vado a comprare il latte o il pane, il signor Rizzo vuole avere tue notizie. All’ennesima sua richiesta mi sono deciso a scriverti questa lettera, anche se la mamma mi ha avvisato che probabilmente non ti arriverà. In quest’ultimo periodo gli americani hanno bombardato il paese “colpendo mirando alle sorgenti” ha detto mamma, cioè hanno distrutto le fontane per l’acqua al primo bombardamento: la Ficarazza è ormai inutilizzabile, la Brusella è in ricostruzione poiché l’acqua arriva ancora dalla montagna. Notti fa sono passati sulle case gli aerei e mi sono svegliato con il rombo nelle orecchie e l’urlo terrorizzato di mamma che mi diceva di scappare, abbiamo corso a perdifiato e siamo arrivati nel tunnel che io e Melina avevamo aiutato a scavare nell’orto. Con il bombardamento hanno fatto crollare i tralicci elettrici e telefonici. La mattina c’è arrivata notizia di alcune morti all’Angitola e ci siamo aggregati a un sostanzioso gruppo di paesani che aveva deciso di rifugiarsi nelle campagne e dormire nei campi per evitare di rischiare rimanendo in paese. La scorsa notte, mentre dormivamo sull’erba avvolti dalle copertine che mamma aveva portato per noi, improvvisamente si sono accesi degli enormi fari che illuminavano la campagna a giorno, sono come delle enormi candele che vengono lanciate dagli aerei per scoprire se ci sono movimenti di truppe sul territorio, mi ha spiegato Melina. Con questa lettera non voglio spaventarti perché ormai siamo tornati in paese e sono arrivati gli americani, anche se non capisco come mai adesso siamo alleati con i nostri recenti nemici. Devo ammettere però che questi soldati mi sono simpatici, un giorno sono venuti a casa e ci hanno dato della buonissima cioccolata in cambio di patate e carote, ci hanno regalato anche del cibo in scatola che abbiamo mangiato, non era male, ma ho la sensazione che ce l’abbiano dato perché erano stanchi di mangiare sempre scatolette.

Spero tanto che tu risponda a questa lettera.

E anche che tu stia bene, ti vogliamo bene

 FRANCESCO Melina                                                                                                                                                                                                 

   

 Settembre 1943

38

Page 40: E book finale

Cara famiglia,                                                                                                                                               

Contro ogni aspettativa riesco a scrivere e a spedire questa lettera che, spero, arriverà a breve, vorrei raccontarvi di persona ciò che ho vissuto in questi ultimi anni, ma non so ancora quando riuscirò a tornare a casa. Da quando nel ’40 mi hanno preso gli inglesi e mi hanno portato a Tobruk. Ho imparato molte cose sulla guerra, che è spietata e che è necessario aggrapparsi ai ricordi per non venire trascinati via dalla follia. Il ricordo al quale mi sono tenuto siete voi: la mia famiglia. Porto sempre con me la foto che mi avete regalato e mi aiuta sempre nei momenti difficili, al campo di Tobruk mi è servita davvero molto, lì la vita era dura e spaventose erano soprattutto le reazioni degli altri soldati, anche miei amici, che si abbandonavano alla pazzia arrivando a gesti estremi. Ma ormai quella è vita passata; dopo Tobruk ci hanno trasferito in India dove ho scoperto un nuovo frutto, la banana. Le guardie inglesi ci davano da mangiare praticamente soltanto questo alimento che cresceva in enormi caschi gialli che emanavano un fortissimo profumo dolciastro, mi piacerebbe farvele assaggiare e rimangiarle, ma purtroppo in Inghilterra, dove mi trovo ora, non si riescono a trovare. Sono qui perché gli inglesi ci hanno proposto di impiegare il nostro tempo, invece che nell’autocommiserarci, nel lavoro, o nei campi o a pulire e dipingere la mimetica sui treni dei rifornimenti per le truppe al fronte. Io ho scelto di andare a lavorare con altri nostri soldati, ma molti nostri compagni si sono rifiutati, esprimendo apertamente il loro disprezzo nei nostri confronti, chiamandoci traditori e disertori;  io ho come la sensazione, è più una speranza, che l’atto compiuto ci permetterà di rientrare in patria con un anticipo rispetto agli altri prigionieri. Il tempo che mi è stato concesso e anche lo spazio sul foglio è terminato.

Sapete che vi voglio bene. La mia speranza è quella di vederci al più presto. Un abbraccio                                               

Papà

Mario (papà) sarà prigioniero inglese fino al 1946

(Paolo Ventrice)

39

Page 41: E book finale

LA RITIRATA DI RUSSIA DI UN SOLDATO FORNAIO

     “Nel gennaio del 1941 venni chiamato a difendere la Patria. Avevo diciannove anni. Partii per Bolzano, dove aveva sede la caserma della “4^ Compagnia di Sussistenza”. Lì, dopo alcuni mesi, mi ammalai e mi rimandarono a casa, ma una volta guarito, dovetti ripartire e questa volta mi spedirono sul fronte russo. Era il maggio del 1942. A Stalino, a Rikovo, a Gorlovka lavoravamo giorno e notte per fare il pane. Stavamo fermi in questi luoghi quindici venti giorni fino a quando, nell’ottobre 1942, arrivammo al fiume Don dove ci fermammo per due mesi. Eravamo a due chilometri dal fronte. Era il 17 dicembre 1942 quando, verso le 8 di sera, dopo tre lunghi giorni di combattimento continuato, i Russi sfondarono il fronte: riuscirono ad attraversare il grande fiume Don. Questo diede inizio alla grande ritirata, compiuta da noi Italiani alleati con i Tedeschi.  

I Russi possedevano enormi cannoni e carri armati e noi, invece, eravamo rimasti con poche baionette e qualche bomba a mano. Eravamo privi di indumenti adatti per combattere ma soprattutto per ripararci dal freddo. I bombardamenti si facevano sempre più vicini ed eravamo in preda al panico. Anche le comunicazioni erano interrotte e nessuno sapeva cosa fare. Io, insieme ad altri settanta soldati, facevamo parte del reparto di sussistenza, eravamo panettieri e preparavamo il pane per tutta la divisione. Sedici prigionieri russi ci aiutavano a caricare la legna all’interno dei forni da campo per cuocere il pane. Dovendo ritirarci non potevamo però portarli con noi sui camion; uno di noi disse che anziché liberarli avrebbe lanciato una bomba contro di loro. Io, non potendo sentire queste parole, decisi che sarei andato a liberarli. Infatti a questo punto della guerra, eravamo noi a essere loro prigionieri! Il mio camion era pronto per partire, ma io prima ero deciso a liberare i sedici prigionieri e così mi avvicinai alla loro baracca e li feci uscire. Nel frattempo il mio camion se ne era andato: per fortuna trovai posto su di un altro. Senza avere nulla da mangiare, iniziammo la faticosa e tremenda ritirata e viaggiammo per alcuni giorni, un po’ a piedi e un po’ sul camion: non si poteva rimanere a lungo lì sopra perché si rischiava di rimanere congelati. La temperatura era di -40°. Lungo il percorso mi capitò di incontrare alcuni soldati che mi dissero che il camion partito davanti a noi aveva sbagliato strada e tutti i soldati erano morti: la fortuna ha voluto che, mentre liberavo i prigionieri russi, perdessi quel camion che mi avrebbe portato alla morte. Arrivò la Vigilia di Natale ed io insieme ad altri due soldati, ci trovammo alle porte di un paesino: faceva molto freddo ed eravamo in mezzo ad una bufera di neve. Iniziammo a bussare alle porte per chiedere di poterci riparare. I Russi hanno sempre aiutato i soldati italiani.  Quella sera all’interno di una casa c’erano degli ufficiali tedeschi, nostri alleati, che anziché farci entrare ci rinfacciarono di non essere al fronte a combattere. Infuriato da questa risposta presi la bomba a mano che avevo attaccato alla cintura deciso a lanciarla. Ma girando lo sguardo vidi alla finestra due bambini di circa sette-otto anni, ebbi compassione per loro e decisi di evitare la strage. Proseguimmo il

40

Page 42: E book finale

nostro cammino. Pensando alla Vigilia di Natale mi ricordai di Giuseppe e Maria: anche loro bussavano alle porte e nessuno era disposto ad aprirle. Eravamo quasi alla periferia del paese quando una signora ci fece entrare nella sua casa dicendoci però che non aveva letti e ci fece dormire per terra in mezzo a vasi di oleandri. Per noi era già molto aver un riparo e la possibilità di riscaldarci accanto ad un piccolo focolare. Qualche giorno dopo, l’ultimo dell’anno, i proprietari di un mulino ci regalarono una manciata di farina e con questa ci preparammo un pagnottina. Proseguendo il cammino, il 17 gennaio 1943, ci ritrovammo nella città di Nikolajewka, che era stata circondata dai Russi.  Per fortuna noi non siamo rimasti nella “sacca”. Riuscimmo a salire su un treno merci, dove eravamo tutti schiacciati, che ci portò fino a Gomel.   Qui ci trovammo in mezzo a un gigantesco bombardamento: riuscimmo a nasconderci in mezzo a una fitta pineta ma, finito il bombardamento, non ritrovai più i miei due compagni coi quali ero stato tanti mesi. Aggregandomi ad un'altra divisione giunsi fino a Bobrus. Rimasi in questa cittadina fino a marzo 1943. Poi, con la nuova divisione, partii per tornare in Italia. Arrivati in Patria ci portarono a Cattolica, al mare, dove trascorremmo 40 giorni per riabilitarci sia fisicamente che mentalmente. Poi ci concessero una licenza di convalescenza e la possibilità di tornare a casa.  Terminata la convalescenza ritornammo in caserma e io fui mandato a Verona. L’8 settembre 1943 si seppe che era stato firmato l’armistizio… pensavamo che la guerra fosse finita ed eravamo contenti, ma ci stavamo sbagliando. I Tedeschi ci disarmarono e in questo modo diventammo prigionieri dei nostri alleati. Nella caserma eravamo circa in 1500. Io, poiché facevo il panettiere rimasi lì con un altro centinaio di soldati mentre gli altri furono portati in Germania nei campi di concentramento dai quali era impossibile scappare.  Siccome non eravamo sufficienti per il grande lavoro che dovevamo fare, parecchi civili entravano in caserma a lavorare. Questo ci aveva dato la possibilità di escogitare un modo per fuggire: anch’io preparai la mia fuga insieme ad un altro compagno. Utilizzando un permesso di entrata e di uscita di uno dei ragazzi, una sera al cambio di turno, riuscii ad uscire mostrando il permesso che non era mio (il mio compagno all’ultimo momento in preda alla paura e disperazione non se la sentì di rischiare e mi lasciò andare da solo). Se mi avessero scoperto mi avrebbero fucilato all’istante, ma piuttosto che andare in Germania preferivo quella soluzione. Attraversai momenti di panico e solo dopo aver svoltato l’angolo e lasciata la caserma alle spalle, mi resi conto che forse ero riuscito a scappare; ma non era ancora finita. Mi tolsi la divisa a casa di una persona a cui mio padre aveva portato i miei vestiti e un po’ di soldi. Arrivato alla stazione mi misi in coda per fare il biglietto, sempre con il cuore in gola. Ad un tratto sentii qualcuno che mi toccava una spalla, mi sentii gelare. Pensavo fosse la ronda dei soldati che controllava i documenti e mi dissi:” Non può finire proprio adesso” ma, comunque andasse, ero convinto di avere fatto la scelta giusta. Tremando mi girai e con mia grande gioia vidi un volto già conosciuto che mi sussurrò all’orecchio di comprare un biglietto anche per lui. Con i biglietti in mano ci dirigemmo svelti sul treno e in lontananza vedemmo che anche la ronda stava salendo. Nello scompartimento alcune donne, avendo capito che stavamo scappando, ci fecero nascondere sotto i loro sedili e ci ricoprirono con le loro lunghe “sottanone”.  Arrivammo così fino a Piadena dove scendemmo dal treno: la

41

Page 43: E book finale

coincidenza per Parma sarebbe partita solo la mattina dopo e così, io e il mio compagno, passammo la notte chiusi nel gabinetto della stazione. Il mattino salimmo sul treno ma prima di arrivare alla stazione di Parma, mentre rallentava la corsa, saltammo dal treno per non imbatterci nella ronda.Lì ci salutammo e io proseguii a piedi verso Miano, dove viveva la mia famiglia.  

Non ho mai voluto raccontare queste cosa a nessuno, perché sembrano “frottole” e chi non le ha vissute sicuramente non le può comprendere ma vi garantisco che è verità. Nei sessanta mesi trascorsi in guerra, quello che mi ha salvato è stato soprattutto il fatto di non avere paura perché nella mia testa c’erano sempre le parole di mia mamma che mi diceva: “Non avere paura perché io pregherò sempre per te e il Signore ti accompagnerà e ti proteggerà”. E così è stato.                

Eravamo in 10 fratelli, 7 maschi e 3 femmine, siamo partiti per la guerra in 4. Paride, il più vecchio ha combattuto in Grecia e poi è stato prigioniero in Egitto. Primo e Secondo, gemelli, erano a Cassino e usavano armi contro aeree, ed infine io, in Russia.                         Siamo tutti tornati a casa sani e salvi. Paride nel 1946, Primo, Secondo e io nel 1944.                                                                 

 A voi giovani lascio questo messaggio: sappiate che la guerra è inutile e non vince mai nessuno.”             

                                                                                                                                      (Maddalena Vicari) 

                                                                              

                                                                                                                                          

                                                                                                                                                  

                                                                                                                                                                                                                                                                  

                                                                                                                                           

                                                                                                                         

42

Page 44: E book finale

LETTERE DAL DON. IO E TINO SALUTE OTTIMA

Il 12 gennaio 1943 le forze sovietiche diedero inizio sull’alto Don ad una nuova offensiva che coinvolse il Corpo d'armata alpino il quale, dopo la disfatta di dicembre, aveva mantenuto le sue posizioni sul fiume affiancato dalla debole 2ª Armata ungherese e da un precario schieramento tedesco. L'attacco sovietico, sferrato con il concorso di un numero molto elevato di unità corazzate, scardinò rapidamente le difese dell'Asse sui fianchi del corpo alpino che quindi venne aggirato. Dopo alcune controversie sulla ritirata, gli alpini iniziarono a ripiegare: i carri armati sovietici avevano travolto il quartier generale tedesco e avevano occupato di sorpresa il quartier generale del corpo alpino. Ebbe quindi inizio una nuova drammatica ritirata nell'inverno russo in condizioni difficilissime. Le unità alpine, frammischiate a reparti sbandati ungheresi e ad alcuni reparti tedeschi, si aprirono la strada verso ovest con continui combattimenti che costarono pesanti perdite. Ma dopo stenti e battaglie nel gran inverno russo, i resti della 2ª Divisione alpina "Tridentina della Juvia" sfondarono l'ultimo sbarramento sovietico a Nikolaevka il 26 gennaio e giunsero in salvo. Questa seconda fase della battaglia del Don costò oltre 35.000 perdite definitive e 10.000 casi di congelamento e decretò il definitivo ritiro delle residue truppe italiane dal fronte russo.

Facevano parte del gruppo alpini della tridentina della Juvia tre miei avi: Sonzogni Costantino (detto Tino), Sonzogni Stelio e Torricella Renzo: tre ragazzi poco più che ventenni.

I due fratelli Tino (1922) e Stelio (1916) parteciparono a diverse guerre come quelle in Albania, in Grecia, ma quella più significativa fu quella in Russia, nel 1943, durante il fatidico inverno, che provocò un’immane tragedia. I due fratelli erano molto uniti e mandavano almeno una lettera alla settimana ai loro genitori. Tutta la posta veniva censurata dal Comando; sia quella scritta dai familiari, sia quella scritta dai soldati.

  

Fronte del Don, 13 dicembre 1942

43

Page 45: E book finale

“Cara mamma,                                       

Io e Tino salute ottima; siamo vicini. Qui tanto freddo e neve e

tormenta continua. Attenzione a ciò che scrivete perché ho

ricevuto una lettera (l’ultima), mezza annullata dalla censura […]”

 

Dopo la ritirata del Don la madre riceve un lettera da Tino dove egli dice di aver perso i contatti col fratello, ma di non preoccuparsi perché si farà rivedere.

Il 17 novembre del 43 la madre, presso l’ufficio prigionieri di guerra della croce Rossa Italiana, inoltra domanda di ricerca del figlio del quale non sa più nulla da circa un anno.

“la sottoscritta …  madre dell’alpino Sonzogni Stelio. Inoltra calda preghiera a questa umanissima organizzazione perché possa con le sue laboriose ricerche, raccogliere notizie precise del proprio figlio disperso in Russia sin dal dicembre del 1942 […]”

 Infine tornarono dalla guerra solo Tino e Renzo. Di Stelio non si ebbero più notizie.

Carissima mamma,                                 18-11-42-XXI

[…]sono contento che hai accettato la mia offerta di accettare i debiti.

Non pensare a me, paga tutto col denaro, che quando torneremo

pagheremo con le mani. […] mi fai il favore di pagare subito il Ventura,

 darai £80 al … e gli pagherai anche la tua legna e poi il resto lo darai in

acconto al fornaio […]”

 

Mia carissima mamma,                                                                             fronte del Don, 8 gennaio 1943 XXI

44

Page 46: E book finale

eccomi di nuovo a te con 2 righe per non farti stare in pensiero. Salute ottima e così ti posso assicurare di Tino che è stato qui ieri da me a fare un po’ di festa. Sai, io ho ucciso

un bel gatto selvatico e l’ho fatto arrostire così abbiamo mangiato insieme proprio di gusto. Qui tutto bene il freddo si è calmato però nevica ancora e chissà quando

smetterà. Oggi sono andato a trovare ancora il Pierini Massis e ci siamo visti col piacere che puoi immaginare se vedi il sagrestà digli che sta bene e è in gamba e vi saluta tutti. Quando mi scrivi ti raccomando di mettere tre sigarette popolari nella lettera perché qui non le danno più […] Il vaglia di lire 671 non ti sarà arrivato perché ne hanno fatti due,

uno di £330 e uno di £311.60 in tutto £641.60 perché ho tenuto io £30. Ora deve arrivarti quello di dicembre di £321 e uno di £100 che è un premio che ho preso dal comando di battaglione; di queste 100 lire ti ho già detto cosa devi fare. Cara perdonami se ti chiedo un favore e cioè i soldi di gennaio, febbraio e marzo mettermeli tutti alla banca ti chiedo

per favore perché se non puoi ti dico di adoperarli pure. Sai perché? Quando tornerò vorrei comperare un vestito e un paltò che o non ho. Come vedi non ho più carta,

scusami anche di questo ma non posso farne a meno, anche per la fidanzata uso la stessa carta. Ora termino perché devo andare a riposarmi che è già tardi . Ti scriverò ancora presto a lungo. Tino ti ha già scritto e poi scriverà ancora presto anche lui. Vi

saluto e vi abbraccio tutti. A te un bacio e un abbraccio  speciale e così pure Mariagrazia salutami Lidia e dalle un bacio per me.

Vi abbraccio, con affetto il tuo affezionatissimo figlio Stelio, mandami un calendarietto tascabile. 

 

 

Preghiera dei reduci di Nikolajewka

O Signore che lungo il calvario della

steppa sconfinata accompagnasti di

battaglia in battaglia questi reduci che,

allo stremo delle forze e attanagliati

dal gelo, dalla fame e dalla miseria,

45

Page 47: E book finale

ci guidasti in quella distesa di neve

verso la salvezza, verso l’Italia, noi

umilmente Ti preghiamo: fa che tutta

quella sofferenza che ha stigmatizzato

le nostre carni in un’inenarrabile

odissea di dolore, non sia stata vana

e che questi flagelli umani, mai più

abbiano a bagnare di sangue i popoli

della terra!

Ricordati o Signore dei compagni che ci

hanno preceduto, e, per quello che hanno

sofferto, noi ti preghiamo: accoglili nel

Tuo regno!

O Vergine Santa del Don che ci fosti

accanto nell’ora del sacrificio e del

dolore fa che l’umanità si redima e

rinasca nei cuori la gioia fraterna e

incommensurabile dell’amore: e così sia!

(Davide Olivieri)

46

Page 48: E book finale

 

47

Page 49: E book finale

 

48

Page 50: E book finale

49

Page 51: E book finale

 

50

Page 52: E book finale

51

Page 53: E book finale

ALLE FRONDE DEI SALICI

E come potevamo noi cantare

Con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.

 La poesia è tratta dalla raccolta di poesie "Giorno dopo giorno". Questa raccolta collega il cammino dell’autore alla nuova situazione storica, quella del dopoguerra che è il momento della ricostruzione non solo materiale, ma anche morale e civile del Paese. La poesia ha il compito di contribuire a ricreare un uomo e una conoscenza nuovi; per questa ragione l’autore adotta un’espressione più discorsiva e accessibile, capace di comunicare col lettore in modo chiaro e diretto.

52

Page 54: E book finale

Quasimodo nella poesia cerca di spiegare le ragioni che hanno spinto i poeti al silenzio, cioè a non comporre più nel tragico periodo della guerra e dell’occupazione nazista. Per descrivere questi periodi sceglie immagini agghiaccianti che lui stesso vede, come i morti abbandonati nelle piazze o le persone crocifisse sul palo del telegrafo, o sente, come il pianto dei fanciulli e il grido straziante delle madri. La poesia, non potendo consolare questo dolore, resta muta, come accadde agli Ebrei, prigionieri in Babilonia, che appesero le loro cetre ai rami dei salici. Il non comporre dei poeti può essere considerato come un atto di pietà e di rispetto nei confronti della sofferenza, ma può anche rappresentare una protesta contro la tragedia della guerra.  

Salvatore Quasimodo tratta anche il tema del silenzio dei poeti, che non scrissero più per denunciare e condannare tutto l’orrore che li circondava, comportamento che a mio parere non fu affatto eccessivo, poiché non sarebbe stato giusto continuare a scrivere nuove poesie, come se nulla stesse accadendo.  

Tutte le scene di cui parla Quasimodo sono  raccapriccianti, ma secondo me la più crudele è la crocefissione del giovane sul palo del telegrafo davanti agli occhi della madre urlante, come avvenne con la crocifissione di Cristo davanti alla Vergine; io penso che non ci sia cosa più crudele che uccidere un giovane, per di più davanti alla sua stessa madre, azione che solo un uomo privo di cuore potrebbe compiere.

Questa poesia mi ha sempre molto affascinata perché, pur non avendo mai visto una guerra, per mia fortuna, riesce a trasportarmi in quegli anni dove la tristezza, la sofferenza e l’oscurità regnavano sovrane.

53

Page 55: E book finale

      UOMO DEL MIO TEMPO

Sei ancora quello della pietra e della fionda,

uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,

con le ali maligne, le meridiane di morte,

t'ho visto dentro il carro di fuoco, alle forche,

alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,

come sempre, come uccisero i padri, come uccisero,

gli animali che ti videro la prima volta.

E questo sangue odora come nel giorno

54

Page 56: E book finale

quando il fratello disse all'altro fratello:

“Andiamo ai campi”. E quell'eco fredda, tenace,

è giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue

salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore

                             

 Il tema della poesia è l’immutabilità della natura umana, rimasta uguale a quella dell’uomo preistorico, «della pietra e della fionda», fatta di istinti, di pulsioni, di sentimenti e di egoismo. La scienza ha perfezionato le armi che portano la morte di innumerevoli uomini, loro pari. Alcuni, presi dalla volontà di potenza, ancora oggi scatenano guerre che portano lutti e sofferenza alle popolazioni civili. La

55

Page 57: E book finale

civiltà ha solo mutato le condizioni di guerra: dalla fionda si è passati ai carri armati, agli aerei che attraverso bombe seminano la morte. L’uomo del nostro tempo ha perduto ogni considerazione dei  propri fratelli, portandoli  alla morte solo per il potere o a causa di differenze fisiche e morali e ha dimenticato la solidarietà. E’ rimasto uguale all’uomo che, come Caino, ha tratto il fratello in un campo e lo ha ucciso. Di nuovo l’uomo del nostro tempo tradisce oggi il fratello. Di fronte alla menzogna e all'inganno i giovani di oggi, i figli, farebbero bene a rinnegare i padri che portano la guerra: le loro tombe giacciono in una terra desolata, gli avvoltoi rodono il loro cuore e il vento sparge nell’aria l’odore dei loro cadaveri.

L’ autore di questa poesia ha voluto, con una certa risolutezza, mettere in guardia i figli dai loro padri; quello che è successo non deve ricapitare più. Con un linguaggio semplice riesce a far arrivare il suo messaggio.

56

Page 58: E book finale

57

Page 59: E book finale

58

Page 60: E book finale

 NASCERANNO UOMINI MIGLIORI

Nasceranno da noi uomini migliori!

La generazione che verrà

sarà migliore di chi è nato dalla terra,

dal ferro e dal fuoco.

Senza paura e senza troppo riflettere,

i nostri nipoti si daranno la mano e rimirando le stelle del cielo diranno:

“Com’è bella la vita!”

intoneranno una canzone nuovissima,

profonda come gli occhi dell’uomo,

fresca come un grappolo d’uva,

una canzone gioiosa.

Nessun albero ha mai dato frutti così 

belli.

59

Page 61: E book finale

E nemmeno la più bella delle notti di

primavera

Ha mai conosciuto questi suoni, questi

colori.

Nasceranno da noi uomini migliori.

La generazione che dovrà venire sarà

meglio

di chi è nato dalla terra,

dal ferro e dal fuoco.

 La speranza del poeta, vissuto in un lungo periodo di dittatura, è che il mondo di domani sia migliore del presente. Questo augurio ce lo facciamo anche noi (la nostra generazione) anche se, per fortuna, non abbiamo visto la guerra né la dittatura nel nostro Paese. Sppiamo però che oggi nel mondo esistono ancora moltissimi conflitti irrisolti, molte persone che soffrono per mancanza di libertà, di giustizia, di corretta distribuzione delle risorse economiche. Tutto questo accade perché non è ancora nata quella generazione di persone che il poeta chiama “migliore”. Ma quando nascerà? Secondo me, gli uomini saranno migliori quando ciascuno di noi sarà migliore! Quando il cuore di ciascuno saprà aprirsi al cuore dell’altro riconoscendolo fratello, quando ci comporteremo verso l’altro come desideriamo che gli altri facciano con noi, quando parleremo tutti lo stesso linguaggio dell’amore, della giustizia, senza compromessi. Ma allora quando? Sarà mai possibile raggiungere questo obiettivo?

60

Page 62: E book finale

61

Page 63: E book finale

62

Page 64: E book finale

63

Page 65: E book finale

SE QUESTO E’ UN UOMO

Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case ,

voi che trovate tornando a sera

il cibo caldo e visi amici :

Considerate se questo è un uomo

che lavora nel fango

che non conosce pace

che lotta per mezzo pane

che muore per un sì e per un no .

Considerate se questa è una donna ,

senza capelli e senza nome,

senza più forza di ricordare

vuoti gli occhi e freddo il grembo

come una rana d’inverno.64

Page 66: E book finale

Meditate che questo è stato :

vi comando queste parole .

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via ,

coricandovi , alzandovi .

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

 la malattia vi impedisca,

i vostri nati torcano il viso a voi .

 "Se questo è un uomo" è un romanzo di Primo Levi sopravissuto ad Auschwitz. Una delle parti che più enfatizza il dolore provato dal suo popolo è una poesia che

introduce e dò il titolo al libro. Nonostante non sia molto lungo, questo testo riesce a trasmetterci con le sue forti e dirette parole le sofferenze passate dal

popolo ebreo mei campi di sterminio.  

 

65

Page 67: E book finale

66

Page 68: E book finale

67

Page 69: E book finale

L'INFERNO E' ADESSO

Mi circondano fiumi di sangue in piena,

ribolle la Sprea di corpi mutilati,

cadaveri stesi  ovunque sul marmoreo selciato.

La morte non è mai stata così presente,

non è mai stata così richiesta.

Il suono delle sirene mi invade le orecchie,

il freddo mi si insinua nelle vene,

la fame mi offusca la vista.

Le bombe continuano a sibilare,

fuoco amico che sembra immortale.

La mia testa è piena,

piena di sciocca propaganda

con cui hanno alimentato i nostri pensieri sfibrati.

La mia voce è ormai muta,

68

Page 70: E book finale

ridotta ad un flebile sussurro

Condannata a tacere per sempre.

Spalanco gli occhi e guardo in alto

come a voler sfidare il cielo.

Frecce alleate squarciano l’orizzonte

e io rimango fermo qui,

in attesa che la morte mi sfiori con le dita

e mi porti via,

poiché l’inferno lo sto già vivendo ora.

"L’unica causa delle numerosissime morti è riconducibile alla sete di potere di un dittatore in grado di manipolare le coscienze e le volontà di un popolo intero".

"Lo sconforto del protagonista ha la meglio. Lui stesso spera di porre fine alla sua sofferenza lasciandosi avvolgere dall’abbraccio della Morte".

(Valentina Berti)

69

Page 71: E book finale

L'INIZIO DELLA FINE

Fuori il vento continua a sibilare,

flebili lamenti provengono da ogni parte.

La guerra è iniziata.

Per noi ora non ci saranno che la fame,

il freddo,

le malattie

e il dolore.

Abbiamo finito di vivere.

''Avanti, avanti... Presto''

è ciò che ci sentiamo dire più spesso.

E' tragico quel rapido passaggio

70

Page 72: E book finale

dalla libertà alla schiavitù.

''Meglio morto che ferito,

ma meglio ferito che prigioniero''

in ricordo di quanto disse Napoleone.

Il gelo ci opprime,

le ferite si fanno gravi.

Ogni metro che conquistiamo

ci mostra la faccia della realtà:

corpi dilaniati,

raffiche di pallottole che ci sfiorano.

71

Page 73: E book finale

Ormai non conosciamo più pace.

Abbiamo finito di vivere.

Restare in vita è un privilegio

per testimoniare un domani.

Pochi sono i sopravvissuti,

pochi sono i ricordati.

Ma tu Amore ricordami,

ricordami sempre.

Anche quando gli altri mi avranno dimenticato.

"Noi, ora che viviamo in quest'epoca moderna in cui nulla ci manca, non potremo mai comprendere appieno la sofferenza di quegli anni".

72

Page 74: E book finale

 " Ciò non vuol dire che dobbiamo dimenticare  tutte le persone che hanno lottato per la libertà e per la nostra patria; devono rimanere impressi come eroi nella mente di tutti i giovani"

(Federica Marchesi)

73