equipèco 16

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CARTE ARTE ARCHITETTURA MUSICA POESIA ESOTERISMO FOTOGRAFIA LETTERATURA & PROGETTI CINEMA ARTE RIVISTA di Anno V n.16 Estate 2008 - .10,00 EQUIPèCO trimestrale di ricerca e documentazione artistica e culturale_www.rivistadiequipeco.it L ’ A R T E D E N T R O - D E N T R O L ’ A R T E MOSTRE

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Carmine Mario Muliere Editore

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Page 1: EQUIPèCO 16

CARTE

ARTE ARCHITETTURA MUSICA POESIA ESOTERISMO

FOTOGRAFIALETTERATURA

&

PROGETTICINEMA

ARTE

RRIIVVIISSTTAA ddii AAnnnnoo VV nn..1166 EEssttaattee 22000088 -- €..1100,,0000

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L ’ A R T E D E N T R O - D E N T R O L ’ A R T E

MOSTRE

Page 2: EQUIPèCO 16

Ecco un altro libro straordinario per me eche voglio condividere con coloro

che lo conoscono e con chi lo vogliaconoscere.l’ho ricevuto in dono per una col-laborazione alla Radio vaticananel 1985.per com-prenderlo occorretracciare un’area che uniscal’essenza dell’infanzia bilan-ciata al proprio momentoattuale: «l’infanzia –scrivel’autore– è un’autentica ini-ziazione al mondo occulto.Jean piaget ha definito conprecisione i quattro gruppi diazioni magiche operate dalbambino e le diverse formedell’«animismo infantile», fra cuile «abitudini magiche del coman-do alle cose». Ha inoltre individua-to un «periodo di artificialismo mito-logico», in cui ogni bambino si spiegal’origine del mondo in termini puramentefantastici e attribuisce agli oggetti una coscienza.piaget ha dimostrato come questo comportamen-to non sia affatto una fuga nell’immaginario ma,al contrario, l’inizio della partecipazione almondo esterno, il primo contatto con la realtà:«Lo stadio magico, in contrapposizione con glistadi successivi, rivela la caratteristica, assoluta-mente peculiare, di concepire e sperimentare i

simboli come ancora partecipi, inerenti allecose. La magia è quindi lo stadio presim-

bolico del pensiero».2

alexandrian afferma che anche nel-l’adulto «mentre dorme e sogna, ladimensione magica riemerge intutta la sua intensità» e che «intutte le epoche e presso tutti ipopoli, il sonno è sempre statoconsiderato come un contattocon il mondo soprannaturale,[...], esattamente come il bam-bino quando gioca e si sentepadrone dell’universo, perliberarsi dall’angoscia in cui latotale dipendenza dagli adultilo getta. in condizioni normali,uomini con una mente ben strut-

turata reagiscono in manieraanaloga per difendersi da istanze

superiori e indefinibili, grazie a cre-denze e schemi simbolici, nel tentati-

vo di padroneggiarle. il pensiero magi-co svolge quindi una funzione compensa-

trice nei confronti dell’io...». illuminanti risultanole parole di antonin artaud che accusa i suoi per-secutori: «cercano di farmi passare per pazzo, perdelirante perché credo nella magia e ripetoinstancabilmente che pratiche magiche di unanatura molto particolare vengono operate controdi me. [...] La terra diventa, in certe ore dellanotte, in certi giorni dell’anno, del mese o della

immagine della copertina: Ernst Fuchs, Il re Salomone (part., 2001).1– alexandrian, Histoire de la philosophie occulte, éditions seghers, paris 1983. Storia della Filosofia Occulta,a cura di doretta chioatto, arnoldo Mondadori Editore, Milano 1984.2– J. piaget, La Représentation du monde chez l’enfant, presses universitaires de France, paris, 1947.

a l E X a N d R i a NstoRia dElla FilosoFia occulta1

«Personalmente ritengo [...] che la filosofia occulta corrisponda a un’esigenzainsita nella natura stessa dell’animo e della mente dell’uomo, che implicanecessariamente sia il pensiero magico che il pensiero pragmatico. Il pensieromagico è inerente all’inconscio, mentre il pensiero pragmatico è frutto dell’atti-vità cosciente della mente.La filosofia occulta è eterna, atemporale, in quanto elabora organicamente ilpensiero magico che ognuno di noi porta in sé, che lo accetti o lo neghi, che locoltivi o lo reprima.»

di carmine Mario Muliere

EditoRialE

Rivista di Equipèco_EstatE 2008 - 5

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aRtE

Rivista di Equipèco_EstatE 2008 - 19

il film segue le ricerche di una stu-dentessa di storia dell’arte, inter-

pretata da sylvie testud, (L'Héritage,La môme, La France) che svelano undipinto inedito di antoine Watteau. ilquadro che appare sotto gli occhidell’attore Jean-pierre Marielle, (IlCodice da Vinci, La petite Lili,Quattro mosche di velluto grigio) erala scommessa plastica piú ambiziosadel film, poiché si trattava di ricreareun Watteau inedito assemblandopersonaggi prelevati da diversi suoidipinti. per esigenze di narrazione,l’opera doveva fare riferimento alteatro della commedia dell’arte ita-liana.la prima tappa di assemblaggio gra-fico ha richiesto tra il graficogédéon Rudrauf, il pittore e me stes-so un importante lavoro di determi-nazione della fattibilità e della veridi-cità del progetto, quindi di scelta dipersonaggi, composizione e am-bientazione. abbiamo prodotto unaquarantina di abbozzi virtuali cheabbiamo presentato a pierre Rosen-berg (storico ex direttore del louvre) che ha accettato di illu-minarci con i suoi preziosi consigli. Ma l’esecuzione del qua-dro restava da fare. per questo delicato lavoro ho scelto ilpittore e restauratore italiano valerio Fasciani che aveva giàrealizzato copie di opere di g. Bellini, vermeer, Mantegna,Bocklin. abbiamo definito insieme lo spessore della tela, lasua preparazione, il tipo di tocco, i pigmenti, la luce, le cret-tature. la tela e il telaio utilizzati sono, peraltro, dell’epoca.tutto è stato fatto per aderire al formato e allo stile de«L’amour au théâtre Français», piccolo grande capolavorodel Maestro francese. valerio attacca in seguito la prepara-zione della tela all’antica, gesso di Bologna e colla di coni-glio, e decide per una base rosso-arancio poi avallata dapierre Rosenberg. dopo aver riportato il disegno, comincia aposare i colori e incontra le prime difficoltà: 12 personaggi,12 piccoli ritratti quasi tutti presi da quadri differenti o daincisioni in bianco e nero, con luminosità diverse e da rein-quadrare coerentemente su un piccolo formato (l49 × H38cm). certi personaggi, come quelli del pierrot e dell’attricecharlotte desmarres che è al suo fianco, sono stati realizza-ti miscelando differenti versioni dello stesso personaggio,mentre certi altri, poco illuminati, obbligano il pittore a recar-

si al Museo di Berlino, per verificarne i dettagli. al di là delledifficoltà tecniche, valerio è disorientato per l’interpretazionedel disegno, per la luce, il rispetto dello stile, il tocco diWatteau: al contempo spontaneo ed estremamente preciso.si sa che Watteau dipingeva come eccitato, alla ricerca di unrisultato rapido. E quando non era soddisfatto riprendeva lasua composizione imbevendola di essiccante, ciò che fu delresto la causa della degradazione di numerose sue opere.cosí, quando il nostro copista cerca la precisione del segno,perde in nervosità del tocco. quando cerca la rapidità e laspontaneità, perde in definizione e intensità: un vero rompi-capo.dopo sei mesi di lavoro accanito, il quadro è risolto. valerioFasciani lo ricopre di una ridipintura assai grossolana cheraffigura «l’allontanamento dei commedianti» e che nascon-derà il nostro dipinto per tutta la durata del film. Bisogneràattendere le riprese della scena finale per veder riapparire lacomposizione sotto l’obiettivo della camera, in una solaripresa ad alto rischio.

LauRent De BaRtILLat, regista.

WattEau o i sEgREti di coMposizioNE di uNa tEla iNEdita

testimonianza del pittore e del regista del film«Ce que mes yeux ont vu»

(Quello che hanno visto i miei occhi)

di valerio Fasciani e laurent de Bartillat

Valerio Fasciani. Nouvelle image, cm 49×38.

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uscita caverna di un Mogotes.

lucE E coloRi di cuBa

Mi Cubita bella

di timoteo salomone

FotogRaFia

Rivista di Equipèco_EstatE 2008 - 31

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il giardino giapponese, i cui stili variano secondo le diverseepoche, è una riproduzione della forma della grande

Natura, come è vista e sentita dal popolo giapponese, moltosensibile ad osservare le stagioni e il cambiamento del pae-saggio, traendo la massima informazione dai cinque sensi. igiapponesi colgono l’esprimersi dei fenomeni non solo conla percezione visiva e uditiva –preminenti nelle culture occi-dentali– ma anche attraverso il senso della tattilità, delleolfattività e dei sapori delle cose finemente differenziati. sipuò supporre che essi guardano la grande Natura con tuttii sensi molto sviluppati poiché sono rimasti per molto temposenza la cultura dello scrivere, introdotta nel paese dallacina solo alla metà del sesto secolo.già all’inizio di febbraio, ancora sotto la neve, i giapponesisono in grado e abituati ad apprezzare l’apparire della pri-mavera, seguendo i mutamenti dell’aria e della natura, iprimi fiori di prugna, il lieve allungarsi della giornata e il lievevariare delle gemmazioni. analogamente in prima estate,all’inizio di agosto, pongono attenzione e colgono già l’at-mosfera dell’autunno: alcuni momenti dell’aria fresca delmattino e della sera, l’acqua alta del mare, i cirrocumuli, ilcanto nuovo dei grilli e il riso di nuova raccolta fanno capi-re la forma fluida della Natura. Nei campi coltivati anche frale periferie delle città essi sanno apprezzare bene non soltan-to la bellezza e beneficenza della Natura, ma anche la suafugacità, fragilità ed eventualmente minacciosità, comeimportante capacità di cogliere anche quello che ancora nonsi può accertare con i cinque sensi.

la diMoRa dElla diviNità

secondo la credenza indigena giapponese la divinità o lospirito della grande Natura si sente e si può percepire nei

punti di riferimento che si sono formati sul territorio, qualiuna sorgente d’acqua, un albero colossale, una montagna,

una roccia gigantesca, una configurazione enigmatica delterreno. il popolo fin dall’antichità marca questi luoghi conshimenawa2 e torii 3 che indicano il confine tra il mondo pro-fano e quello sacro, dove vengono fondati i templi shintoisti.

la diMoRa dEllE aNiME dEi dEFuNticome nell’area monsonica asiatica anche in giappone c’èuna credenza indigena secondo cui l’anima del defunto va atrovare nuova casa sulla montagna, in vicinanza del villag-gio, ad una distanza tale che essa e l’uomo si possono in-contrare facilmente e subitaneamente: essa non va né lonta-no nel cielo, né profonda nella terra: va sulla montagna, ladimora delle anime dei defunti. le persone vedono nel pae-saggio intorno a sé il mondo fisico profano simultaneamen-te al mondo altro al di là del fisico, e quindi venerano l’ani-ma dei loro antenati rivolgendosi verso la montagna.intuiscono che nella vita quotidiana degli uomini vivi ognitanto si intravvede il mondo di quelli defunti, che tuttavia èdelimitato chiaramente dalla linea sacra, che crea il divietodi passaggio fra i due mondi. sembra come se i giapponesivedessero quella linea psicologica che divide tali spazi nelpaesaggio: tale confine viene chiamato Kekkai.anche dopo l’introduzione del Buddismo, presumibilmentenel 539 d.c., in giappone questa credenza è viva nei ritua-li delle religioni dal Medio Evo fino ad oggi. la parola Kekkaisignifica la divisione del territorio sacro da quello profano,per mantenere l’ordine. secondo una narrazione buddistadopo cinquant’anni di spola fra i due spazi-mondi, l’animadel defunto va definitivamente nell’al di là e diventa antena-to. Forse potrebbe essere logico interpretare che dopo cin-quant’anni dalla morte probabilmente non ci sarebbe piúnessuna persona viva di sua conoscenza neanche nella suafamiglia d’origine. in questa maniera le anime dei defuntisono alfine assimilate alle divinità della grande Natura.

lE cosE NascostE dEl giaRdiNo giappoNEsE

Kekkai1 / confini e sacralità

di Yoshiko takama

Miyajima, ItsukusimaJinja in pref. Hiroshima, Shintoista.

Rivista di Equipèco_EstatE 2008 - 86

Ecologia

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lEttERatuRa

l’interesse per il tibet da parte degli occidentali a partiredal ‘900 è da sempre stato vario quanto superficiale, ridu-

cendo la cultura e il misticismo del Paese delle nevi a ungusto per le «dottrine buddiste da salotto» che dipinge come«un pó naif i lama tibetani»1 condito da qualche sorrisettolicenzioso quando si parla di tantra. si mescolano cosí nelcalderone della New age riti, filosofie e modelli di vita voltia un contatto costante con una spiritualità non divisa dalconcetto dualistico occidentale corpo-mente, natura-cultura,bene-male.varrebbe, oggi in maniera particolare, riscoprire la figuradi alexandra david Neel, una scrittrice ribelle, un’esplora-trice e un avventuriera che visse la sua vita come unromanzo, scrivendo di quel tibet, praticamente inac-cessibile agli occidentali, fatto di paesaggi interiori edi monumentali arcaismi.louise Eugenie alexandrine Marie david, nasce il24 luglio del 1868 a saint-Mandè, nei dintornidi parigi. all’età di solo diciotto anni il suoprimo viaggio, una sorta di fuga che parte daBruxels in sella ad una bicicletta. abbando-nando la casa dei suoi genitori, a causa diquello che considera un clima familiare perlei troppo restrittivo, raggiunge dapprimala spagna e poi la Francia.Nei caffè letterari di parigi entra in con-tatto con il mondo dell’esoterismo eu-ropeo. pur essendo un promettentesoprano l’interesse per la musicacede il passo a quello per le scienzemistiche. in particolare frequenta lasocietà teosofica della Blavatsky,approfondendo lo studio sulle civiltà orientali la cui passionele era stata trasmessa già in tenera età da un amico delpadre Elisèe Reclus, scrittore e geografo nonché anarchico.Nel 1888 alla luce di un ritorno dell’interesse per l’occulti-smo, l’occidente è pronto ad affascinarsi seguendo gli arca-ni riti egiziani della golden dawn e le dottrine teosofiche cheidentificano in shamballa il regno del Re del Mondo, il cuimitico portale sarebbe situato in un luogo segreto nei pressidella catena montuosa dell’Himalaya.sarà comunque davanti alla sacralità dell’effige del Buddagigante del Musèe Guimet a parigi, che la david capiscecome colta da un’illuminazione che spenderà il resto dellasua vita viaggiando nei luoghi della trascendenza seguendola dottrina Buddista.a distanza di poco tempo da quella vertigine ispirante pro-vata al museo parigino, il destino dà una mano ad alexan-dra: una improvvisa e fortuita eredità permette alla david diintraprendere il primo dei suoi viaggi verso oriente. la metanon è scelta a caso si tratta di ceylon, dove assiste allo svol-gersi dei riti, scanditi dalle fasi lunari, praticati dai fedeli delBudda.durante uno dei suoi tanti viaggi conosce quello che diven-

terà suo marito philippe Néel, facoltoso ingegnere delle fer-rovie allora in costruzione tra tunisi e l’algeria, di cui ne as-sumerà il cognome completando lo pseudonimo alexandradavid Nèel con il quale firmerà tutti i suoi scritti di matriceorientalista.è proprio a tunisi dove la coppia risiede che alexandra sfrut-ta la sua cultura musicale e diventa direttrice del teatro dellacittà, non trascurando al contempo la sua passione per l’eso-terismo. continua lo studio del sanscrito appoggiandosi alla

societa teosofica e approfondisce lo studio della filosofiamassonica.la parentesi tunisina per la donna, ormai quarantenne,sembra essere una preparazione al grande salto, nel1911 con la pubblicazione del suo libro Bouddhisme duBouddha che coincide con la partenza per l’oriente allaricerca delle varie forme del buddismo tradizionale e

della via del sé.la prima tappa del suo viaggio è la già conosciuta

ceylon. questa volta per alexandra non è unameta, piuttosto un punto di partenza per prose-guire il suo viaggio verso l’india. qui questadonna del vecchio continente che frequenta gliindù indigeni e si intende di testi sacri orientaliviene accolta con stupore e curiosità dagliinglesi colonialisti.Nel 1912 è già un orientalista affermata

quando si reca a darjeeling dove, oltre asperimentare il samadhi meditando in un

antico monastero, fa la conoscenza del prin-cipe ereditario del sikkim divenendone unaprotetta ed eccezionalmente riesce anche

ad incontrare il dalai lama in esilio.tre anni dopo, ancora una volta il sikkim sarà il teatro di unincontro straordinario destinato a influire in modo profondosulla sua vita.è il 1914 quando madame Nèel ingaggia come assistente diviaggio aphur Yongden, un giovane di quattordici anni con-siderato la reincarnazione di un capo tibetano e, cosa nonmeno affascinante per la viaggiatrice europea, nipote diquello che era un potente lama Mago in grado di placare oscatenare a suo piacimento la pioggia e la grandine.Yongden è l’esempio di come nel Nepal quanto in tibet siaforte la tradizione magico esoterica che fonde, piú spesso diquanto si creda, elementi di stregoneria tradizionale (Bon pa)al buddismo storico e all’eremitaggio.Yongden, il cui unico desiderio è viaggiare, ben si adatta allostile di vita di alexandra con la quale passerà venti mesi pres-so la caverna di un gomchen2 situata a 3600 m tra i montiche separano il confine del tibet da quello del sikkim.presso l’eremita madame Nèel studia la lingua, la gramma-tica, i riti magici e le dottrine esoteriche tibetane.la studiosa trova nel tibet quello che considera l’essenza piúpura della filosofia Buddista e sogna di raggiungere lhasa,la capitale. è il luglio del 1916 quando si trova nella terra

alEXaNdRa david NEEl:daMa d’oRiENtE E occidENtE

di amedeo longobardi

aphur Yongden.

Rivista di Equipèco_EstatE 2008 - 89

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l’Etiopia meridionale è caratterizzata da società fortementestratificate e gerarchizzate. la principale distinzione si ha tra

contadini e non, dunque tra chi possiede e coltiva la terra e chiricava i propri mezzi di sostentamento da altre fonti, in primoluogo dal lavoro artigianale. i contadini, costituiscono la classedominante che detiene dal punto di vista pratico il potere poli-tico, economico e sociale. gli artigiani e laddove ancora esisto-no i cacciatori, sono soggetti seppur in gradi diversi, a forme distigmatizzazione ed esclusione dal resto della società.di questa vasta area, definita dallo studioso italiano carlo contiRossini «un mosaico di etnie» proprio per l’estrema varietà dipopolamento, è stata la regione del Dawro ad essere meta eoggetto di studio della settima spedizione organizzata dallasocietà Naturalistica speleologica Maremmana di grosseto.Nel Dawro la maggior parte della popolazione è costituita daicontadini chiamati Malla, gli unici ad avere un accesso privile-giato alle risorse economiche (in primo luogo la terra) e politi-che. al di sotto di essi troviamo gruppi di artigiani, in particola-re fabbri, vasai, conciatori di pelle, che godono di un basso sta-tus sociale. Ma sono i Manja a costituire il gruppo piú emargi-nato del Dawro.provenienti dalla regione del Kafa, i Manja erano fino a pochianni fa dei cacciatori; oggi a causa della deforestazione, e quin-di alla conseguente diminuizione della selvaggina disponibile eall’istituzione da parte del governo etiope del loro habitat aparco nazionale, si sono avvicinati all’agricoltura. Estremamen-te poveri, pochissimi sono i Manja che posseggono armenti e

terra sufficiente per garantirsi la sopravvivenza; la maggior partedi loro lavora negli appezzamenti dei Malla. questi ultimi pro-prietari della maggior parte della terra coltivabile, provvedonoa fornire semenze, bovini e strumenti agricoli, mentre i Manjamettono a disposizione le loro braccia, la loro forza lavoro. incambio ricevono la quarta parte dei prodotti coltivati, cibo ovestiti usati.a differenza delle altre minoranze che abitano nella regione, iManja sono soggetti a maggiori e piú pesanti restrizioni nell’am-bito economico, sociale, politico e spaziale. per fare qualcheesempio, sono costretti a vivere in luoghi distanti dai villaggi,spesso nelle aree piú impervie e aride, vicine alla foresta.collocati in zone cuscinetto, hanno l’importante funzione dibloccare gli animali selvatici prima che questi riescano a rag-giungere le terre coltivate dei Malla. pur lavorando per quest’ul-timi ai Manja è proibito entrare nelle case dei Malla, partecipa-re alle loro associazioni (chiamate Idirea) e frequentare gli stes-si luoghi di ritrovo. i confini tra i due gruppi sono mantenuti erafforzati da meccanismi sociali, quali le regole endogamiche(un uomo Manja può sposare solo e soltanto donne Manja1) egli stereotipi che ormai dominano l’immaginario collettivo ecomune della società dominante.le ragioni principali dell’emarginazione a cui sono soggettisembrano dovute alle loro abitudini alimentari e al fatto di nonpossedere la terra (almeno questa è la motivazione data daicontadini). per quanto riguarda il primo aspetto, sono accusatidi mangiare gli animali selavatici2 da loro cacciati e ritenuti

un momento della danza tradizione con cui i Manja del villaggio di Dodi (Dawro) hanno accolto il nostro arrivo. Igonnellini fatti di fibra di ensete costituivano fino a pochi anni fa l’unico indumento indossato da questa gente.

i MaNJauN popolo diMENticato dEll’Etiopia

di valentina Radi

1– l’uso del plurale non è casuale in quanto tra i Manja è assai diffusa la pratica della poligamia. un uomo ha spesso due o tre moglie una media di dodici-quindici figli.2– anche se oggi organizzano solo occasionalmente battute di caccia, nella mentalità della gente comune sono ancora vive antiche con-vinzioni e pregiudizi formulati sulla base dello stile di vita e delle abitudini dei Manja ancora cacciatori.

aNtRopologia

Rivista di Equipèco_EstatE 2008 - 93

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le due forme di pensiero della tradizione occidentale, lasapienziale e la religiosa, sono quanto a contenuti, tutt’al-

tro che irriducibili e rigidamente distinte, permane invece tradi loro una sostanziale differenza che si riflette sulla strutturastessa del pensiero, determinandone atteggiamento e moda-lità sicuramente divergenti. E se ad entrambe è comune laricerca di una chiave di comprensione della realtà, unanecessità logica di ordinare e unificare ciò che è sparso ediviso, il pensiero religioso sembra incline a sviluppare e adapprofondire il proprio patrimonio sapienziale unicamente infunzione di una fede e di una verità rivelata.il pensiero religioso procede per identificazioni e riconosci-menti, adeguando costantemente il proprio sapere ad unarivelazione originaria, in forza e per necessità di una alethe-ia, una verità che non è dato discutere. il pensiero sapienzia-le, al contrario, non si preoccupa del confronto con la Cosa,non conosce, per cosí dire, l’angoscia dell’adaequatio rei etintellectus, giacché il vero di cui va in cerca è suscettibileogni volta di essere variamente interpretato in funzione dellaconsapevolezza acquisita.Nei Discorsi sulla religione della fine del ‘700, il filosoforomantico Friedrich daniel Ernst schleiermacher, rivolgendo-si agli spiriti colti e illuminati del suo tempo, taccia di Ûbrij(ubris) di tracotanza e di presuntuosa inimicizia verso gli dei,chiunque pretenda di detenere un sapere e praticare un’eti-ca senza osservare una religione. è la colpa antica diprometeo che, riconosciuto di vitale importanza per l’uomo ilfuoco degli dei, lo ruba anziché domandarlo con la necessa-ria umiltà. Ma nel pensiero di schleiermacher c’è una fonda-mentale esigenza: arte e intuizione senza che le accompagniil sentimento dell’infinito sono inadeguate ad esprimere tuttala complessa potenzialità del sapere umano. è questo ilsenso dell’appello che, proprio ad apertura di libro, eglirivolge agli uomini colti dell’epoca sua:«… oggi particolarmente la vita degli uomini colti è lontanada tutto ciò che potrebbe essere sia pure semplicementesimile alla religione. lo so che voi tanto meno adorate insacro segreto la divinità quanto piú frequentate gli abbando-nati templi; so che nelle vostre eleganti dimore non ci sonoaltri dei domestici se non i detti dei savi e i canti dei poeti; soche l’umanità e la patria, l’arte e la scienza, poiché credetedi poter abbracciare interamente tutte queste cose, hannopreso sí pieno possesso del vostro animo che non vi restanulla per l’Essere santo ed eterno, il quale, per voi, è di làdal mondo, e che non avete nessun sentimento per lui e incomune con lui. siete riusciti a far sí ricca e sí varia la vitaterrena che non sentite piú alcun bisogno dell’eternità; edopoché avete creato a voi stessi un universo, vi sentitedispensati dal pensare a colui che vi ha creato. voi sieted’accordo, lo so, che nulla di nuovo e nulla di convincentesi può piú dire di questo argomento che è stato trattato

abbastanza da tutti i lati, da filosofi e da profeti e, potessi sol-tanto non aggiungere, anche da dileggiatori e da preti.soprattutto dai preti voi non siete minimamente disposti –ciònon può sfuggire a nessuno– ad ascoltare qualcosa su que-sto argomento, perché essi si sono resi, già da gran tempoindegni della vostra fiducia, in quanto dimorano piú volen-tieri solo nelle rovine del santuario, devastate dal tempo edalle intemperie, e non possono vivere neanche lí senzadeturparle e senza corromperle maggiormente. so tutto que-sto, e, tuttavia, sono spinto a parlarvi da una necessità inter-na ed irresistibile che mi domina divinamente…»1

E questa «necessità interna» è certamente per schleiermacherquel sentimento dell’infinito che in lui sembra inspirato da undio e in cui, a suo giudizio, principalmente risiede il sensostesso della religione. Ma il sentimento dell’infinito, accom-pagnato o meno dalla consapevolezza di un divino ispirato-re, bene appartiene al pensiero sapienziale come al pensie-ro religioso, entrambi infatti fanno parte della sfera del sacrocome esperienza fondamentale e strutturale della menteumana. giacché il sacro non è degli dei piuttosto che degliuomini, perché –come osserva Heidegger interprete diHölderlin– «è piuttosto il sacro a decidere inizialmente intor-no agli uomini e agli dei, se siano, chi siano e quandosiano.»2

sentimento dell’infinito, senso del sacro. Non è su questoterreno che si decide propriamente la differenza tra pen-

siero sapienziale e pensiero religioso. il sapiente è comesocrate, egli sa di non sapere o di non sapere abbastanza equesta consapevolezza lo spinge con fede alla ricerca e aldialogo con gli altri. in questo percorso egli non disdegna diutilizzare la tradizione degli antichi, il patrimonio acquisitodell’umanità cui aggiunge la consapevolezza che gli derivadal continuo confronto con gli altri, da quell’arte sottile checonsiste nel domandare e rispondere nel tentativo improba-bile di conoscere il tì estì, il che cos’è di cui si parla. E se conqueste procedure egli si colloca sempre di là della verità,questa nondimeno gli si offre in infiniti adombramenti ed egliprende coscienza che la verità una e indefettibile è per prin-cipio fuori portata della mente umana e che l‘«unico vero»che gli riuscirà di scoprire sarà quello che faticosamente saràriuscito a costruire e a condividere con gli altri che, come lui,siano guidati dallo stesso intendimento e che come lui sianodisposti, mutando per cosí dire il quadro di riferimento in cuiquel «vero» era nato, a riconsiderare nuovamente la questio-ne.Ma questa, si dirà, non è altro che la verità della scienza chesi trasforma col mutare del tempo, delle risorse, del metodo,delle intuizioni e in funzione delle accresciute necessità.c’è di piú e di diverso. il pensiero sapienziale funziona allastregua del pensiero scientifico ma se ne discosta perché ilsuo intento non è meramente strumentale e innovativo e il

pENsiERo sapiENzialE E pENsiERo REligiosoNElla tRadizioNE occidENtalE

«signore perché dai importanza all’uomo?perché lo controlli ogni giorno e ogni momento lo metti alla prova?»

(Giobbe, 7, 18)

di sergio Magaldi

FilosoFia

Rivista di Equipèco_EstatE 2008 - 97