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ESAME CINEMA

NASCITA DEL CINEMA

La cinematografia intesa come la proiezione in sala di una pellicola stampata, di fronte ad un pubblico pagante, è nata il 28 dicembre 1895, grazie ad un'invenzione dei fratelli Louis e Auguste Lumière, i quali mostrarono per la prima volta, al pubblico del Gran Cafè del Boulevard des Capucines a Parigi, un apparecchio da loro brevettato, chiamato cinématographe (cinematografo)

Tale apparecchio era in grado di proiettare su uno schermo bianco una sequenza di immagini distinte, impresse su una pellicola stampata con un processo fotografico, in modo da creare l'effetto del movimento. Thomas Edison nel 1889 realizzò una cinepresa (detta Kinetograph) ed una macchina da visione (Kinetoscopio): la prima era destinata a scattare in rapida successione una serie di fotografie su una pellicola 35mm; la seconda consentiva ad un solo spettatore per volta di osservare, tramite un visore, l'alternanza delle immagini impresse sulla pellicola. Ai fratelli Lumière si deve comunque l'idea di proiettare la pellicola, così da consentire la visione dello spettacolo ad una moltitudine di spettatori.

Essi non intuirono il potenziale di questo strumento come mezzo per fare spettacolo, considerandolo esclusivamente a fini documentaristici, senza per questo sminuirne l'importanza, tentarono di vendere le loro macchine, limitandosi a darle in locazione. Ciò determinò la nascita di molte imitazioni. Nello stesso periodo, Edison (negli USA) iniziò un'aspra battaglia giudiziaria per impedire l'uso, sul territorio americano, degli apparecchi francesi, rivendicando il diritto esclusivo all'uso dell'invenzione.

Dopo circa 500 cause in tribunale, il mercato sarà comunque liberalizzato. Nel 1900 i fratelli Lumière cedettero i diritti di sfruttamento della loro invenzione a Charles Pathé. Il cinematografo si diffuse così immediatamente in Europa e poi nel resto del mondo.

Nel frattempo il cinema registrò alcuni clamorosi successi di pubblico: The Great Train Robbery (1903) dell'americano Edwin Porter spopolò in tutti gli Stati Uniti, mentre il Viaggio nella luna (1902) del francese Georges Méliès, ebbe un successo planetario. Vennero sperimentati i primi effetti speciali prettamente "cinematografici", cioè i trucchi di montaggio (da Méliès, che faceva apparire e sparire personaggi, oggetti e sfondi), le sovrimpressioni (dai registi della scuola di Brighton, ripreso dalla fotografia), lo scatto singolo (dallo spagnolo Segundo de Chomón, per animare i semplici oggetti), ecc. Si delinearono inoltre le prime tecniche rudimentali del linguaggio cinematografico: la soggettiva (George Albert Smith), il montaggio lineare (James Williamson), il raccordo sull'asse, i movimenti di camera.

Nel 1908 in Italia, sul “Nuovo giornale” di Firenze, Ricciotto Canudo scrive un manifesto in cui il cinema si presenta come sintesi di tutte le arti, apparendo come l’arte suprema e totale. Nel 1919, Canudo stesso gli attribuirà la qualifica di Settima Arte.

CINEMA NARRATIVO

Il cinema delle origini, detto "delle attrazioni mostrative", serviva per mostrare una storia che veniva necessariamente spiegata da un narratore o imbonitore presente in sala. Inoltre le storie erano spesso disorganizzate, anarchiche, più interessate a mostrare il movimento e gli effetti speciali che a narrare qualcosa. Solo il cinema inglese, legato alla tradizione del romanzo vittoriano, era più accurato nelle storie narrate, prive di salti temporali e di grosse incongruenze.

La nascita di un cinema che raccontasse storie da solo è strettamente legata ai cambiamenti sociali dei primi anni del Novecento: verso il 1906 il cinema viveva la sua prima crisi, per il calo di interesse del pubblico. La riscossa però fu possibile grazie alla creazione di grandi sale di proiezione a prezzi molto

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contenuti rivolte alla classe operaia, come svago economico e divertente: nacquero i "nickelodeon", dove era impensabile usare una persona per spiegare le vicende del film, per questo i film iniziarono ad essere intelligibili automaticamente, con contenuti più semplici ed espliciti e con le prime didascalie.

Nascita di una nazione (1915) dell'americano David W. Griffith è da molti considerato il primo vero film in senso moderno in quanto tenta di codificare una nuova "grammatica". Secondo altri critici (soprattutto europei) è Cabiria, Colossal italiano del 1914 diretto da Giovanni Pastrone ad essere considerato il punto più alto di quegli anni e un modello di narrazione, fotografia, scenografia, effetti speciali e durata. Va in quegli anni anche a delinearsi una corrente, fino alla fine del cinema muto, che vede nell'inserimento delle didascalie una "sporcatura". L'arte del cinema narrativo pura è spesso rapportata al numero di inserti testuali; meno sono, più il film è intelligibile e ben costruito.

[La nascita di un cinema che raccontasse storie da solo è strettamente legata ai cambiamenti sociali dei primi anni del Novecento: verso il 1906 il cinema viveva la sua prima crisi, per il calo di interesse del pubblico. La perdita di interesse verso un'attrazione ormai divenuta consueta spazzò tutto il mercato degli ambulanti e dei tendoni che giravano per le fiere e le feste di paese con il cinematografo. Ci fu una dura crisi che portò il costo del biglietto del cinema in America da 20/25 centesimi di dollaro a 5.

La riscossa però fu possibile grazie alla creazione di grandi sale di proiezione a prezzi molto contenuti rivolte alla classe operaia, come svago economico e divertente. Le lotte operaie avevano infatti portato alcuni miglioramenti alla classe dei lavoratori, come una certa sicurezza economica e la possibilità di qualche distrazione magari la domenica: il teatro divenne anche popolare (con gli spettacoli di varietà e i melodrammi) e nacquero i "nickelodeon" (dai nickelini, le monete da 5 centesimi di dollaro), dove era impensabile usare una persona per spiegare le vicende del film; per questo le pellicole iniziarono ad essere intelligibili automaticamente, con contenuti più semplici e espliciti e con le prime didascalie.]

CINEMA MUTO

Per film muto si intende un film senza traccia sonora, storicamente riconducibile al periodo antecedente l'avvento del sonoro, vale a dire dal 1895 fino al 1927, anno in cui venne distribuito il primo film sonoro, Il cantante di jazz. Il completo e definitivo passaggio al sonoro, tuttavia, non avvenne prima del 1930.

Tra gli storici e gli studiosi della settima arte, il periodo precedente l'avvento del sonoro nel cinema, è indicato come la silent era. In realtà i film non erano del tutto "muti", quantomeno la fruizione: era infatti costume, dal grande teatro di città a quello di periferia, accompagnare le proiezioni con musica dal vivo, che fungeva da colonna sonora, eseguita solitamente da un pianista o organista, o addirittura da un'orchestra per i teatri che se lo potevano permettere.

Il teatro fu il luogo deputato alla proiezione del film muto, non necessitando altro che un semplice schermo piuttosto che di apparecchiature tecnologiche. Era usanza accompagnare la proiezione con spiegazioni chiarificatrici delle scene proiettate, lettura delle didascalie da parte di un commentatore, aggiungere commenti scritti. Fu però subito evidente quanto la musica fosse la componente essenziale dell'immagine, rafforzandone, anticipandone, predisponendo emozionalmente lo spettatore alla scena proiettata.

Il primo film (muto) della storia del cinema è variamente considerato Roundhay Garden Scene del 1888.

Il film Don Giovanni e Lucrezia Borgia di Alan Crosland del 1926 fu il primo film con la colonna sonora e quindi non aveva bisogno di un pianista, un organista o un'orchestra per accompagnare la proiezione del film.

Il film Il cantante di jazz di Alan Crosland con Al Jolson del 1927, primo film sonoro, viene detto aver segnato la fine del cinema muto; in realtà, alcuni attori recitarono film muti ancora per qualche anno e

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anche Charlie Chaplin, strenuo difensore del cinema muto, recitò il suo primo film sonoro solo nel 1940 con Il grande dittatore.

CINEMA MUTO HOLLYWOODIANO

Nel 1908 alcuni produttori, registi e artisti newyorkesi avevano messo su degli studios nei pressi di Los Angeles, all'estremo opposto della nazione, dove la costante illuminazione solare nell'arco dell'anno poteva garantire le condizioni di illuminazione ideali per impressionare le pellicole cinematografiche, con costi di produzione più economici. Il sobborgo del "bosco di agrifogli" (Hollywood) divenne presto un centro di importanza crescente, anche grazie alla vicinanza con la frontiera messicana, che permetteva una facile scappatoia ai problemi col fisco in caso di fallimenti[1].

Iniziò presto a delinearsi anche il cosiddetto producer system, un sistema industriale dove il produttore imponeva le sue scelte mirando a un controllo assoluto del film a discapito del regista. Le prime tre grandi case di produzione cinematografica, tutte nate con capitali della East Coast, erano la Paramount, la MGM e la First National.

[Negli anni Venti maturò anche il fenomeno del divismo, nato dall'intensa collaborazione tra cinema e gli altri mass media (giornali, riviste, rotocalchi, radio, industria musicale). Il divismo è un processo di "divinizzazione" di un individuo, nel senso il cui la sua immagine diventa un'icona onnipresente nella vita della gente comune, al pari di quello che era stato per le icone religiose del passato. I divi suscitavano deliri di folla feticista (come ben descritto nel film Il giorno della locusta del 1939, ambientato alla fine degli anni '20), diventando presto uno dei principali fattori dell'alienazione di massa della società moderna. Il divo sullo schermo, etereo e soprannaturale, era un'immagine del tutto separata dalla persona in carne ed ossa, che recitava e lavorava come le persone normali.

Tra i primi divi, sia maschili che femminili, ci furono Gloria Swanson o l'efebico Rodolfo Valentino, dalla sensualità del meticcio tenebroso. I divi degli anni '20 sono molto trasgressivi, seduttori e seduttrici ambigui, mentre negli anni '30 il sistema hollywoodiano cercò di addomesticare queste figure, rendendole più conformiste, legate più a un casto amore che al sesso.] – Star System

Le comiche di Sennett furono popolari e carnevalesche, ma anche ripetitive. I suoi eredi migliori raffinarono lo stile, sviluppando la capacità di rovesciare con padronanza improvvisamente il senso delle immagini, creando situazioni paradossali e divertenti, sfruttando le isotopie (analogie formali) che creano equivoci e giochi, ma anche nobilitando le proprie pellicole giocando sulla linea tra ridicolo e tragico, come solo i migliori comici sanno fare.

(Tra le maschere dei film di Sennett c'era anche il cattivo Chas, un gentiluomo elegante ma dispettoso, che metteva nei guai chiunque incontrasse, interpretato da un attore di origine inglese, Charlie Chaplin. Da questo personaggio si sviluppò in seguito quello universalmente noto di Charlot (da come veniva chiamato in Francia), un vagabondo povero ma battagliero, adorato dal pubblico e dai critici. Nelle sue avventure Charlot vendicava i deboli e gli oppressi, e pur essendo a sua volta una vittima indifesa, riusciva sempre a vincere, secondo un modello narrativo molto antico. Nei suoi film il materiale comico della scuderia Sennett divenne estremamente raffinato, con le singole azioni che sono state paragonate a una danza. La sua formazione artistica aveva attinto alla pantomima, all'arte della parodia, al mondo dei clown del circo, in particolare al personaggio piccolo e goffo che diventa l'eroe della rappresentazione, con il quale i bambini si identificavano. Questa sorta di risarcimento simbolico dei deboli, preso dal mondo del circo popolare e trasportato su un piano universale, fu il tema principale dei capolavori di Chaplin. Ma nei suoi film il debole veniva premiato solo sul piano immaginario e sempre sconfitto nella vita reale, lasciando intravedere i risvolti tragici dell'esistenza.

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Nel primo film che si possa considerare maturo, La cura miracolosa del 1917, viene narrata la storia rocambolesca di un alcolista che va alle acque termali per disintossicarsi per poi riuscire a far ubriacare tutto l'albergo, signore comprese, e uscirne, quando tutto va a rotoli, con una nuova fidanzata. Il film dura 19 minuti e presenta ben 181 inquadrature, con una velocità che è paragonabile al montaggio brevissimo di Ėjzenštejn ne La corazzata Potemkin, che a lui si ispirò. La cinepresa per Chaplin si sposta quindi con rapidità incredibile, ma con la bellezza e la precisione della danza. Nei film di quegli anni l'impianto narrativo è per lo più un pretesto (Charlot soldato, 1918, Il monello, 1921, Il pellegrino, 1923) poi, con il passaggio alla United Artists, dal 1923 si dedicò al melodramma sentimentale e sociale, dove perse una parte della vitalità primitiva, mantenendo però un immenso successo popolare. Nelle sequenze più famose restano però i suoi "balletti" di perfezione formale, come ne La febbre dell'oro (1925) con le scene della capanna inclinata sul burrone o della lotta contro il vento.) – Importanza Chaplin! -

I maggiori rappresentanti della gag comica slapstick dagli anni '20 ai '30 furono la coppia di Stan Laurel e Oliver Hardy. Come coppia di Stanlio e Ollio operarono dal 1927 al 1951, benché il pubblico e la critica riconoscano il meglio della loro carriera il periodo fino al 1940, prima del periodo della Fox. La mimica dei due personaggi consiste nell'invenzione di un personaggio magrolino, piagnucolone e isterico di nome Stanlio, e il compagno corpulento e saccente di nome Ollio, che pensa sempre di essere migliore di lui, finendo ovviamente in disavventure maggiori. Piccoli giochi di parole e di prestigio aiutarono molto la coppia a superare la prova del sonoro nel 1929, fino alla realizzazione dei lungometraggi dal 1931

INTRODUZIONE DEL SONORO

La possibilità di sincronizzare dei suoni alle immagini è vecchia come il cinema stesso: lo stesso Thomas Edison aveva brevettato una maniera per aggiungere il sonoro alle sue brevi pellicole (Dickson Experimental Sound Film, 1895). Ma quando i vari esperimenti raggiunsero un livello qualitativo accettabile, ormai gli studios e la distribuzione nelle sale erano organizzati al meglio per la produzione muta, per cui l'avvento del sonoro venne giudicato non necessario e a lungo rimandato. Lo stato delle cose cambiò di colpo quando la Warner, sull'orlo della bancarotta, giudicò di non avere ormai niente da perdere e rischiò, lanciando il primo film sonoro. Fu Il cantante di jazz nel 1927, e fu un successo ben oltre le aspettative (Il cantante di jazz era, però, un film perlopiù muto, accompagnato da didascalie, mentre le scene dialogate si riducevano ad una manciata di minuti. Il successo del film fu comunque fondamentale per il definitivo passaggio al sonoro. Già l'anno seguente la Warner produceva Lights of New York di Brian Foy, primo film interamente parlato). Nel giro di un paio di anni la nuova tecnologia si impose prima a tutte le altre case di produzione americane, e poi a quelle del resto del mondo. La tecnica venne perfezionata ulteriormente nel 1930, creando due nuove attività, il doppiaggio e la sonorizzazione.

Questa novità provocò un terremoto nel mondo del cinema: nacquero nuovi contenuti adatti a valorizzare il sonoro (come i film musicali) e nuove tecniche (mancando ormai il sipario della didascalia). Con il sonoro e la musica, la recitazione teatrale a cui si affidavano gli attori del cinema muto risultava esagerata e ridicola: così, dopo alcuni fiaschi le stelle del cinema muto scomparvero in massa dalle scene, e salì alla ribalta una intera nuova generazione di interpreti, dotati di voci più gradevoli e di una tecnica di recitazione più adatta al nuovo cinema.

La prima a scommettere sul sonoro sincronizzato con le immagini cinematografiche fu la Warner Bros. la quale nel 1925 acquisì dalla Western Electric il Vitaphone, un sistema per il sonoro sincronizzato con le immagini cinematografiche nel quale il sonoro era registrato su disco fonografico (disco in bachelite da 16 pollici con velocità angolare di 33⅓ giri al minuto).

Il primo film con sonoro prodotto a fini commerciali fu quindi un film della Warner Bros., Don Giovanni e Lucrezia Borgia, del 1926. La prima proiezione pubblica a pagamento avvenne nel Warner Teather di New York, il 6 agosto 1926. Per la prima volta il pubblico pagante poteva sentire effetti sonori come il cozzare delle spade durante i duelli e una musica sincronizzata con le immagini cinematografiche, quindi una

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musica scritta per commentare precise sequenze cinematografiche. In Italia, il primo film sonoro e parlato fu La canzone dell'amore, realizzato nel 1930 da Gennaro Righelli

AVANGUARDIA DEL CINEMA EUROPEO (MUTO)

Il periodo del cinema muto d'avanguardia è una fase della storia del cinema che va grossomodo dal 1909 fino circa all'avvento del sonoro (1929) e che riguarda il cinema europeo. Gli artisti delle avanguardie italiane, russe, francesi, tedesche e scandinave usarono il cinema per creare spettacoli visivi che si allontanavano dall'allora dominante cinema narrativo-commerciale, per creare uno spettacolo visivo nuovo. Il cinema d'avanguardia fu un cinema ribelle, sovversivo e dissacrante, che non produsse molte opere, ma che ebbe un fondamentale impatto sugli sviluppi successivi della settima arte.

Il cinema, in quanto mezzo giovane e "senza passato", fu scelto dagli artisti come mezzo privilegiato per scoprire nuovi orizzonti. In questo senso il cinema d'avanguardia non fu una forma di spettacolo, ma una vera e propria arte visuale, più simile al cinema delle attrazioni che al cinema narrativo.

Le avanguardie dei primi decenni del Novecento ebbero un forte impatto in tutte le arti figurative e performative. I cambiamenti riguardarono innanzitutto la vita e la cultura dell'epoca, grazie alle novità tecnologiche, tra le quali grandissimo impatto ebbero i mezzi di trasporto meccanici: treno, automobile e aeroplano. Si può immaginare quanto stimolante dovesse apparire la visione che si può avere da un finestrino di uno di questi mezzi dove il paesaggio cambia veloce e continuo, come su una sorta di schermo cinematografico. Il tema del sogno della macchina fu uno dei temi basilari dell'epoca, dove tutta la città appariva come una grande macchina vivente, alimentata dalla grande promessa dell'elettricità, che poteva liberare l'uomo dal peso del lavoro.

I primi a sognare una rivoluzione attraverso le macchine furono i futuristi italiani, seguiti dalle avanguardie francesi (cubismo e dadaismo), russe (che legavano le nuove tecnologie alla nuova società socialista dopo la rivoluzione), tedesche (dove il tema della macchina assunse toni più tenebrosi) e scandinave.

Il cinema in particolare godette di una speciale attenzione da parte degli artisti d'avanguardia, per la sua relativa giovinezza, per la velocità e la duttilità del suo linguaggio e per la straordinaria presa sugli spettatori. I primi film d'avanguardia però non potevano rifarsi al modello narrativo-commerciale dell'industria cinematografica che proprio in quegli anni andava consolidandosi: essi cercavano anzi di frantumare i modelli noti, cercando la trasgressione, lo scandalo, la rottura degli stereotipi e del perbenismo

CINEMA NARRATIVO CLASSICO

Il cinema narrativo classico (o età d'oro di Hollywood) è un periodo della storia del cinema, soprattutto americano, databile tra il 1917 e il 1963 circa. In questo lasso di tempo venne messo a punto e perfezionata una sorta di grammatica cinematografica che è quella ancora alla base del linguaggio filmico moderno. Si trattava essenzialmente di creare pellicole dove lo spettatore si trovasse "al centro del mondo"[1]: la storia è creata su misura in maniera da risultare piacevole, gratificante; la tecnica è la più chiara possibile; le trasgressioni poetiche o le distrazioni dalla storia principale sono ridotte al minimo, in maniera da non rallentare la narrazione e non complicare la fruizione cinematografica.

La nozione di cinema "classico" è piuttosto recente e sottintende, come in altre discipline, la presenza di un periodo storico concluso, caratterizzato da una produzione esemplare, che veicola valori fuori dal tempo che continuano ancora oggi ad essere presi a modello. Nel periodo del cinema classico si sfruttarono tutte le invenzioni linguistiche precedenti, scegliendole e dando a ognuna un preciso ruolo, ben riconoscibile.

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L'impegno sociale di Hollywood nel diffondere un messaggio di fiducia e di ottimismo andò ben oltre il New Deal. Con New Deal («nuovo corso») s'intende il piano di riforme economiche e sociali promosso dal presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt fra il 1933 e il 1937, allo scopo di risollevare il Paese dalla grande depressione che aveva travolto gli USA a partire dal 1929. Anche durante la seconda guerra mondiale alcuni importanti registi di Hollywood vennero chiamati in causa per fare propaganda bellica e far conoscere alla popolazione americana le imprese dei soldati al fronte. Tra questi vi furono Frank Capra, John Huston o John Ford, che perse un occhio mentre riprendeva la battaglia di Midway. I documentari dal fronte seguono ancora le regole della finzione e della narrazione, tanto che è difficile distinguere questi morti veri da quelli che si filmavano negli studios per i normali film.

Alcuni avvenimenti, fin dagli anni quaranta, iniziarono a mettere in crisi il sistema che aveva permesso la nascita e l'affermazione del cinema classico. Il momento più grave fu quello all'inizio della Guerra Fredda quando, secondo il maccartismo, si fece una "lista nera" di simpatizzanti (veri, presunti o del passato) verso il comunismo. I sospettati vennero allontanati da Hollywood facendo loro perdere il lavoro e dando il via alle denunce reciproche e alla "caccia alle streghe". Questa ondata persecutoria mise per la prima volta in dubbio i pilastri della democrazia americana, facendo serpeggiare nella società incertezze fino ad allora sconosciute. Queste nuove inquietudini non potevano non raggiungere il mondo del cinema, infatti già dalla fine degli anni quaranta iniziarono a venire prodotte storie dove l'ottimismo è ormai ben lontano: storie di abbandono, di solitudine, di anti-eroi.

Il pubblico stava cambiando e anche il cinema stava prendendo una nuova strada: un cinema di esseri umani, invece di divi-simulacro, e un cinema dello sguardo. Le intuizioni di Kazan e Ray vennero poi accolte e sviluppate dai cineasti francesi della Nouvelle Vague e tedeschi come Wim Wenders. In America il periodo dopo il 1960 si indica come New Hollywood.

CINEMA ESPRESSIONISTA TEDESCO

Il cinema espressionista è una delle avanguardie del cinema tedesco degli anni dieci e venti del XX secolo.

Espressionismo è un termine che può essere usato con vari significati. Nel senso più generico indica una tendenza dell'arte che porta a forzare parole o immagini verso un'espressività molto intensa, maggiore di quella naturale: in questo senso ogni forma artistica, in quanto interpretazione della realtà, può essere "espressionista"[1].

Con Espressionismo si intende anche un movimento artistico ben preciso, quello fiorito in Germania all'inizio del Novecento, che trovò un grande riscontro inizialmente nella pittura, poi anche nella letteratura, nel teatro, nella musica e nel cinema. Il movimento assunse una sua fisionomia precisa tra il 1910 ed il 1924. Le sue caratteristiche essenziali erano una forte distorsione del segno (sia esso la frase poetica, la linea pittorica, il gesto teatrale o l'inquadratura cinematografica), un "grido anarchico" (Unschrei[2]) che rompeva gli schemi dell'arte tradizionale. Mentre le altre forme d'arte furono tra loro coeve, per motivi sia tecnici che storici, l'Espressionismo cinematografico si affermò con circa un decennio di scarto rispetto alle altre manifestazioni artistiche, soprattutto per lo sviluppo della casa di produzione cinematografica tedesca U.F.A., che produsse quasi l'intera totalità dei film espressionisti

Nel cinema i confini dell'espressionismo sono molto controversi: alcuni indicano come espressionista tutta la cinematografia tedesca non tradizionale fino al 1933 (escluso il cinema astratto).

Altri, come la storica Lotte Eisner, hanno scavato più in profondità schematizzando con più accuratezza le numerose tendenze cinematografiche di quel periodo, arrivando a individuare almeno tre tipologie principali: l'espressionismo vero e proprio, il Kammerspiel e la Nuova oggettività. Secondo questa impostazione arriva a esistere un solo film espressionista puro, vero e proprio manifesto paradigmatico, Il

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gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene (1919). Tratti espressionisti si ritroverebbero poi, più o meno evidenti, in una serie di altri film.

Secondo altri[3] invece l'espressionismo è uno stile più diffuso, che caratterizza film molto diversi tra loro, come anche le opere di Murnau, Lang, Pabst, Paul Leni ecc.

Per operare distorsioni "espressioniste" nel cinema, che sostituivano alla descrizione oggettiva della realtà una percezione soggettiva, si dovettero recuperare tutti quei trucchi speciali del vecchio cinema delle attrazioni, in modo da ricreare mondi irreali, distorti, allucinatori. Anche il contenuto si adattava a temi misteriosi e soprannaturali, prese dal regno delle ombre e dall'universo delle creature del male, potenziate dalle possibilità del cinema. L'uso di modalità stilistiche esasperate e deformate suscitava nel pubblico sensazioni ed emozioni forti.

Grande importanza nella creazione di questi mondi irreali ebbe la scoperta del cosiddetto effetto Schüfftan, dal nome del grande fotografo Eugen Schüfftan, che permetteva la creazione di mondi virtuali a costi molto bassi rispetto alle scenografie. Esso consisteva nell'uso di cartoni disegnati che venivano proiettati e ingigantiti con un gioco di specchi, fino a divenire sfondo di una parte dell'inquadratura, mentre in un'altra si muovevano gli attori in carne ed ossa, magari inquadrati da lontano. Nacquero così intere città fantasma e architetture vertiginose, vere e proprie antenate del blue screen contemporaneo. L'esempio più evidente dell'utilizzo di tale metodo nel cinema espressionista tedesco è costituito dall'imponente e moderna città che dà il nome al film Metropolis (1927), resa gigante proprio dall'impiego del metodo Schüfftan.

Un'altra caratteristica che fece la forza del cinema tedesco di quegli anni è l'uso del primo piano con effetti demoniaci e persecutori o, viceversa, vittimistici e perseguitati[4]. Il grande valore espressivo dei volti tenebrosi, truccati pesantemente o dalle espressioni sovraccariche, venne sfruttato in maniera coerente per la prima volta proprio nella Germania di questo periodo.

Prominente fu l'uso di fondali dipinti (di derivazione teatrale), che portò ad una subordinazione dei personaggi, che alle scenografie dovevano adattarsi. Angoli acuti, ombre marcate e recitazione spigolosa sono comunque i capisaldi dell'espressionismo.

NEOREALISMO

L'inizio del fenomeno del neorealismo propriamente detto si fa canonicamente risalire al 1943, allorquando venne presentato al pubblico italiano il capolavoro di Visconti Ossessione. Le certezze vengono però meno al momento di stabilirne la durata. Il celebre critico francese Georges Sadoul, ad esempio, lo fa dilatare cronologicamente fino alle soglie degli anni sessanta e cita a tale proposito Rocco e i suoi fratelli che egli definisce «une grande tragédie néo-réaliste». Cfr. George Sadoul, Histoire du Cinema Mondial, des Origines à nos Jours, ottava edizione, rivista e ampliata, Parigi, Flammarion, 1966, p. 333.). In ambito cinematografico i maggiori esponenti del movimento, sorto spontaneamente e non codificato, furono, negli anni quaranta, i registi Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Giuseppe De Santis, Pietro Germi, Alberto Lattuada, Renato Castellani, Luigi Zampa, Alessandro Blasetti e gli sceneggiatori Cesare Zavattini e Sergio Amidei, cui si affiancheranno, nel decennio successivo, Luciano Emmer, Luigi Comencini, Gianni Puccini, Antonio Pietrangeli, Francesco Maselli, Carlo Lizzani e Francesco Rosi. In una posizione a sé stante si collocano Federico Fellini (per la cui cinematografia si conierà il termine di realismo magico e, successivamente, fantarealismo[1]) e Michelangelo Antonioni, che inizialmente aderì al neorealismo con alcuni celebri documentari (fra cui Gente del Po del 1943/1947 e N. U. - Nettezza urbana, del 1948) e, in qualche misura, con il film Cronaca di un amore (1950), per poi prenderne le distanze nel corso degli anni cinquanta (il suo neorealismo venne inizialmente definito esistenzialismo dell'anima o anche esistenzialismo interiore)

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Il cinema neorealista è caratterizzato da trame ambientate in massima parte fra le classi disagiate e lavoratrici, con lunghe riprese all'aperto, e utilizza spesso attori non professionisti per le parti secondarie e a volte anche per quelle primarie. I film trattano soprattutto la situazione economica e morale del dopoguerra italiano, e riflettono i cambiamenti nei sentimenti e le condizioni di vita: speranza, riscatto, desiderio di lasciarsi il passato alle spalle e di cominciare una nuova vita, frustrazione, povertà, disperazione. Per una maggiore fedeltà alla realtà quotidiana, nei primi anni di sviluppo e di diffusione del neorealismo i film vennero spesso girati in esterno, sullo sfondo delle devastazioni belliche; d'altra parte, il complesso di studi cinematografici che era stato, dall'aprile del 1937, il centro della produzione cinematografica italiana, ossia Cinecittà, fu occupato nell'immediato dopoguerra dagli sfollati, risultando quindi temporaneamente indisponibile ai registi. Il movimento si sviluppò intorno a un circolo di critici cinematografici che ruotavano attorno alla rivista Cinema, fra cui Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, Gianni Puccini, Giuseppe De Santis, e Pietro Ingrao. Lungi dal trattare temi politici (il direttore della rivista era Vittorio Mussolini, figlio di Benito Mussolini), i critici attaccavano i film ascrivibili al genere dei telefoni bianchi, che al tempo dominavano l'industria cinematografica italiana. In opposizione alla scarsa qualità dei film commerciali, alcuni critici ritenevano che il cinema dovesse rivolgersi agli scrittori veristi di inizio secolo.

I neorealisti furono molto influenzati dal realismo poetico francese. Di fatto, sia Michelangelo Antonioni che Luchino Visconti lavorarono in stretta collaborazione con Jean Renoir. Inoltre molti registi neorealisti erano maturati lavorando su film calligrafisti, sebbene questo breve movimento fosse notevolmente diverso dal neorealismo. Elementi di neorealismo sono rintracciabili anche in alcune opere di Alessandro Blasetti e nei film - documentari di Francesco De Robertis. Secondo alcuni critici, i due più significativi lungometraggi che negli anni trenta anticiparono alcuni aspetti del neorealismo, furono Toni (Renoir, 1935) e 1860 (Blasetti, 1934) cui seguirono, all'inizio del decennio successivo, Uomini sul fondo (Francesco De Robertis, 1941), Quattro passi fra le nuvole (Blasetti, 1942), I bambini ci guardano (Vittorio De Sica, 1943, primo di una serie di film realizzati in collaborazione con lo sceneggiatore Cesarte Zavattini). Il primo film che viene considerato dalla maggior parte dei critici pienamente ascrivibile al genere è tuttavia Ossessione (1943),di Luchino Visconti[2]. Il Neorealismo acquistò però risonanza mondiale nel 1945, con Roma, città aperta, primo importante film uscito in Italia nell'immediato dopoguerra. Il lungometraggio narra, con accenti fortemente drammatici, la resistenza della popolazione contro l'occupazione tedesca di Roma (anche i bambini, nel film, prendono parte a tale lotta con azioni di sabotaggio).

Altro film importante dell'epoca fu Sciuscià (1946) di Vittorio De Sica, primo di una serie di film neorealisti realizzati dal regista, fra cui spiccheranno, poi, Ladri di Biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951) e Umberto D (1952).

Al culmine del neorealismo, nel 1948, Luchino Visconti adattò I Malavoglia, il celeberrimo romanzo di Giovanni Verga scritto nel pieno del verismo, il movimento del XIX secolo che fu per tanti aspetti la base del neorealismo. Ne ammodernò il soggetto, apportando modifiche straordinariamente piccole alla trama o allo stile originale. Il film che ne risultò, La terra trema, fu interpretato solo da attori non professionisti e fu girato nel medesimo paese, Aci Trezza, frazione di Aci Castello (Catania), dove il romanzo era ambientato. Poiché il film venne girato in Lingua siciliana, esso fu sottotitolato anche nella versione originale italiana.

Il neorealismo propriamente detto si esaurì attorno alla metà degli anni cinquanta, tuttavia influenzò sensibilmente alcuni registi successivi, fra cui Pier Paolo Pasolini, che nei primi anni sessanta diresse alcuni film apparentemente ascrivibili al genere, anche se l'attenzione al picaresco in quel momento era evidente e apertamente dichiarata. Il contenuto neorealista fu allora nella rappresentazione, spettacolare e forse documentaria, ma comunque accessoria, di alcuni elementi della vera vita comune in Italia dopo il cosiddetto "boom" degli anni sessanta.

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L'eredità del neorealismo fu raccolta, durante gli anni '80, anche dai registi Claudio Caligari in Amore tossico[3] del 1983 e Nico D'Alessandria ne L'imperatore di Roma[4] del 1987. Entrambi i registi realizzarono dei film sulla tossicodipendenza nel contesto romano avvalendosi di attori non professionisti, persone che erano tossicodipendenti durante la lavorazione dei film o che lo erano state. Ci sono vari aspetti che caratterizzano il neorealismo: i film neorealisti sono generalmente girati con attori non professionisti; le scene sono girate quasi esclusivamente in esterno, per lo più in periferia e in campagna; il soggetto rappresenta la vita di lavoratori e di indigenti, impoveriti dalla guerra. È sempre enfatizzata l'immobilità, le trame sono costruite soprattutto su scene di gente normale impegnata in normali attività quotidiane, completamente prive di consapevolezza come normalmente accade con attori dilettanti. I bambini occupano ruoli di grande importanza ma non solo di partecipazione, perché essi riflettono ciò che "dovrebbero fare i grandi".

I film neorealisti proponevano storie contemporanee ispirate a eventi reali e spesso raccontavano la storia recente come Roma città aperta di Roberto Rossellini. Questo film è l'epopea della Resistenza, messa in pratica grazie all'alleanza tra comunisti e taluni cattolici a fianco della popolazione. Ben presto però l'attenzione fu rivolta ai problemi sociali contemporanei, fra questi emerge Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, nel film è raccontato il dramma di un operaio, nella narrazione si rappresenta la durezza della vita nel dopoguerra. La denuncia del disagio sociale è ancora più forte nei film Riso amaro di Giuseppe De Santis e La terra trema di Visconti.

Tuttavia l'immagine dell'Italia, un paese povero e desolato, che traspariva da questi film infastidiva una certa classe politica. A questo proposito è emblematico l'episodio di Vittorio Mussolini che, dopo aver visto Ossessione di Visconti, era uscito dalla sala urlando Questa non è l'Italia!. Anche la chiesa cattolica condannò molti film per l'anticlericalismo e per come venivano trattati argomenti come il sesso, mentre la sinistra non accettava la visione pessimistica e la mancanza di un'esplicita dichiarazione di fede politica.

Nel 1949 fu emanata una legge, presentata dall'allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti, che doveva sostenere e promuovere la crescita del cinema italiano e al contempo frenare l'avanzata dei film americani ma anche gli imbarazzanti eccessi del neorealismo. A seguito di questa norma, prima di poter ricevere finanziamenti pubblici, la sceneggiatura doveva essere approvata da una commissione statale.[5] Inoltre se si riteneva che un film diffamava l'Italia poteva essere negata la licenza di esportazione, insomma era nata una sorta di censura preventiva.[6]

NOUVELLE VAGUE

La Nouvelle vague è un movimento cinematografico francese nato sul finire degli anni cinquanta. Il termine Nouvelle vague ("nuova onda" in francese) apparve per la prima volta sul settimanale francese L'Express il 3 ottobre 1957, in un'inchiesta sui giovani francesi a firma di Françoise Giroud[1], e venne ripreso da Pierre Billard nel febbraio 1958 sulla rivista Cinéma 58[2]. Con questa espressione si fa riferimento ai nuovi film distribuiti a partire dal 1958 e in particolare a quelli presentati al festival di Cannes l'anno successivo.

Alla fine degli anni cinquanta la Francia vive una profonda crisi politica, contraddistinta dai sussulti della guerra fredda e dai contrasti della guerra d'Algeria; il cinema francese tradizionale del tempo aveva assunto una connotazione quasi documentaristica nel testimoniare questa crisi interna, i film erano diventati mezzi attraverso i quali rifondare una sorta di morale nazionale, i cui dialoghi e personaggi erano spesso frutto di idealizzazione.

Proprio la tendenza idealistica e moralizzante facevano di questo cinema qualcosa di totalmente distaccato dalla realtà quotidiana delle strade francesi. Fuori dalle finestre c'era una nuova generazione che stava cambiando, che parlava, amava, lavorava, faceva politica in modo diverso ed inconsueto. Una nuova generazione che esigeva un cinema in grado di rispecchiare fedelmente questo nuovo modo di vivere. Così

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una nuova gioventù, designata dai giornali come “Nouvelle vague” si ritrova in sincronia con una nuova idea di cinema denominata a sua volta Nouvelle vague.

La Nouvelle Vague è il primo movimento cinematografico a testimoniare in tempo reale l'immediatezza del divenire, la realtà in cui esso stesso prende vita. I film che ne fanno parte sono girati con mezzi di fortuna, nelle strade, in appartamenti, ma proprio per la loro singolarità, hanno la sincerità di un diario intimo di una generazione nuova, disinvolta, inquieta. Una sincerità nata dal fatto che gli stessi registi che si sono riconosciuti in questo movimento, tutti poco più che ventenni, fanno anche loro parte di quella nuova generazione, di quel nuovo modo di pensare, di leggere, di vivere il cinema che fu chiamato Nouvelle vague. I primi registi a riconoscersi nel movimento sono François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol e Éric Rohmer, un gruppo di amici con alle spalle migliaia di ore passate al cinema, la conoscenza profonda di centinaia di film, la stesura di decine di articoli, e l'articolazione di centinaia di dibattiti alle porte della Cinémathèque Française. Proprio la Cinémathèque Française fu una tappa fondamentale per la formazione di questi giovani cinefili; fondata nel 1936 da Henri Langlois e Georges Franju, la Cinémathèque era un luogo dove venivano proiettati quei “film maledetti”, secondo la definizione di Jean Cocteau, che per il fatto di disprezzare ogni regola, di essere “uno sgambetto al dogma”, erano diventati letteralmente invisibili. Si trattava per lo più di film di grandi cineasti europei allora largamente incompresi, Jean Renoir, Roberto Rossellini, Jacques Becker, Alfred Hitchcock e di registi americani del dopoguerra, Howard Hawks su tutti. Alcuni cineasti come Jacques Demy, Jean-Pierre Melville, Jean Rouch, Roger Vadim, pur non essendosi formati nell'ambiente della critica cinematografica, condivideranno gli stessi valori, così come farà Alain Resnais, che firmerà il suo celebre Hiroshima mon amour solo dopo 10 anni di cortometraggi. A questi vanno sicuramente aggiunti Louis Malle, che non si definirà mai un appartenente al movimento ma piuttosto si riterrà emarginato dai registi aderenti al movimento, e Maurice Pialat, troppo individualista per riconoscersi in un qualche movimento.

Lo scopo cinematografico della Nouvelle Vague era catturare "lo splendore del vero", come disse Jean-Luc Godard nel periodo di critico ai "Cahiers du Cinéma". A tale scopo nella realizzazione delle pellicole veniva eliminato ogni sorta di artificio che potesse compromettere la realtà: niente proiettori, niente costose attrezzature, niente complesse scenografie; i film vengono girati alla luce naturale del giorno, per strada o negli appartamenti degli stessi registi, con attori poco noti, se non addirittura amici del regista, e le riprese vengono effettuate con una camera a mano, accompagnata da una troupe tecnica essenziale costituita per lo più da conoscenti.

In questo avvicinarsi sempre maggiormente alla realtà, i giovani registi furono avvantaggiati anche dai progressi tecnologici: in particolare dall'avvento del Nagra, un registratore portatile, quello della cinepresa 16mm, leggera e silenziosa. Questa rottura tra riprese in studio e riprese in esterni è illustrata soprattutto in Effetto notte di François Truffaut (1973): in una doppia finzione cinematografica, il film ci mostra la realizzazione di un altro film, evidenziando le finzioni tecniche tipiche del cinema classico (scene invernali girate in piena estate, o scene notturne girate, con il famoso "effetto notte" appunto, in pieno giorno); Ferrand, il regista (interpretato dallo stesso Truffaut), ammette che questo film sarà senza dubbio l'ultimo girato in questo modo: una sorta di testamento del "vecchio" cinema e manifesto della Nouvelle Vague.

Inoltre i registi seguaci del movimento rompono alcune convenzioni, ed in particolare quelle di continuità. È così che in Fino all'ultimo respiro, Godard taglia i silenzi da un dialogo, o ancora in la Jetée (cortometraggio che ispirerà L'esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam), Chris Marker presenta una sorta di diaporama: una successione d'immagini statiche, con un narratore unico e un lieve sottofondo sonoro. Non si tratta solamente di rompere con la tradizione per provocazione, ma piuttosto di trasmettere allo spettatore qualcosa di nuovo, o ancora di rappresentare un aspetto della realtà: i ricordi che ognuno di noi ha dei vari momenti della propria vita sono parziali, tronchi, e quando si guarda un album fotografico i ricordi riaffiorano in modo disordinato e confuso, con dei salti temporali. Questo aspetto sarà ripreso da Abel

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Ferrara in alcuni film come Blackout e New Rose Hotel, in cui le scene sono montate in modo da riprodurre l'intreccio confuso e disordinato tipico dei pensieri.

Il costo di queste pellicole era molto basso, per cui ogni regista era capace di auto-finanziare la sua opera, invece di affidarsi alle grandi società di distribuzione, sempre restie nel dare fiducia ad autori che non avevano affrontato un lungo periodo di apprendistato come assistenti sui set di registi internazionalmente noti.

FELLINI

Un maestro del cinema, fra realismo e fantasia, memoria e sogno (1920 – 1993)

Tra i più grandi registi della storia del cinema, Federico Fellini si è imposto, in una lunga carriera che ha attraversato tutta la seconda metà del Novecento, con numerosi film di successo internazionale. Fellini ha saputo recuperare la tradizione del Neorealismo italiano e inventare un suo universo fantastico, in cui i ricordi autobiografici si fondono in un mondo fatto di sogni. Pochi mesi prima di morire, nel 1993, gli fu assegnato l'Oscar alla carriera

Federico Fellini non è stato soltanto un grande regista, che ha saputo convogliare nella sua opera multiforme i vari e diversi elementi della cultura popolare e di massa, dal fumetto al circo equestre, dalla caricatura alla vignetta umoristica, dal romanzo d'appendice al teatro di varietà, ma è riuscito a trasformare questa materia spesso dozzinale, ripetitiva e infarcita di luoghi comuni, in uno stile cinematografico inimitabile, in una serie di film che hanno ottenuto un successo di critica e di pubblico internazionale. Non solo, ma alcune sue immagini (Anita Ekberg che si tuffa vestita nella Fontana di Trevi in La dolce vita) e certi suoi personaggi (Gelsomina in La strada) sono diventati simboli della cultura contemporanea: icone e metafore della vita d'oggi, con le sue contraddizioni e i suoi problemi esistenziali. Un regista che si è imposto al mondo come pochi altri, non solo italiani, recuperando, da un lato, la grande lezione del Neorealismo di Roberto Rossellini e inventando, dall'altro, un suo universo fantastico che attingeva spesso alla propria autobiografia e la stravolgeva nelle storie e nei personaggi che creava.

SCUOLA DI BRIGHTON

La scuola di Brighton è considerata la prima importante epoca del cinema inglese, attiva nella località costiera dal 1896 fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Ai maestri della scuola di Brighton è attribuita la messa a punto di numerosi effetti e soluzioni cinematografiche, che ampliarono le possibilità espressive del cinema e verranno ampiamente riprese in seguito, in particolare da David Wark Griffith che li combinò ad arte nel primo film narrativo "moderno", Nascita di una nazione (Birth of a Nation) del 1915.

Il cinema inglese delle origini venne a lungo occultato dall'importanza riservata ai francesi ed agli americani, ma fu ricchissimo e portatore di grandi innovazioni. Già nel precinema ci furono numerosi inglesi protagonisti: Edward Muybridge, fotografo del movimento, Louis Aimé Augustin Le Prince, che con un apparecchio a sedici obbiettivi ottenne nel 1888 immagini animate di persone in un giardino (Roundhay Garden Scene) e del Ponte di Leeds, o William Friese-Greene, che filmò Hyde Park a Londra con dieci immagini al secondo.

Nel 1895 Birt Acres brevettò una macchina da presa appena sei settimane dopo la registrazione del brevetto dei Fratelli Lumière e presentò a Londra il suo primo film, Derby at Epsom, agli inizi del 1896, appena due settimane dopo la storica proiezione parigina dei Lumière (del 28 dicembre 1895). Nel febbraio 1896 Robert William Paul presentò Rough Sea at Dover (Tempesta a Dover) e Brighton Beach (Spiaggia di Brighton).

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Robert William Paul è considerato il padre del cinema inglese. Lui ed altri cineasti creativi (William Friese-Greene, George Albert Smith e James Williamson) erano soliti riunirsi allo Hove Camera Club di Brighton, località balneare poco distante da Londra. Essi erano dotati di un kinetoscopio di fabbricazione Edison.

Essi sperimentarono alcune forme narrative ed effetti speciali che ebbero un'importanza fondamentale nello sviluppo del cinema successivo:

-La sovrimpressione (The Corsican Brothers, di Smith, 1898), già usata in fotografia.

-Il montaggio narrativo, ovvero la frammentazione della scena in più inquadrature (le regate di Henley del 1899 e Attack on a Chinese Mission - Bluejackets to the Rescue di Williamson, 1901).

-Il primo piano, detto "magnificent view" (Comic Face, 1897, The Big Swallow, 1901, di Williamson).

-Il raccordo sull'asse (The Little Doctor, 1901, e Mary Jane's Mishap, 1903, tutti di Smith).

-Il raccordo tra le inquadrature con la soggettiva (Grandma's Reading Glass, 1900, e As Seen Through a Telescope, 1900, tutti di Smith).

-La linearizzazione del racconto, senza salti di tempo (gli overlap)

Vennero praticati numerosi generi, dal documentario (Funeral of Queen Victoria di Cecil Hepworth, 1901), alla fiaba (The Magic Sword di Paul, 1902), al comico, al fantastico, alla suspense e all'inseguimento. Pionieristica fu anche l'attenzione verso il reale ed i problemi sociali.

Queste ricerche furono fondamentali per ampliare la gamma delle possibilità espressive del nascente linguaggio cinematografico.

La scuola di Brighton ebbe notevole importanza per la scoperta del montaggio "narrativo", cioè con un'azione che continuava da un'inquadratura all'altra. Per Méliès, infatti, nel montaggio tra una scena e l'altra c'era sempre un salto temporale (un'"ellisse"): ad esempio anche quando un mezzo precipitava dalla luna al mare (Viaggio nella luna, 1902), tre scene mostravano tre fasi diverse della caduta (partenza, metà percorso, arrivo) e mai un'azione continua.

Gli inglesi invece iniziarono a sviluppare un'azione su più inquadrature. Esempio tipico è il film Extraordinary Cab Accident di William Paul (1903), dove un pedone passeggia da una strada all'altra, poi viene investito da un'automobile in corsa, vola in aria e ricade in terra senza farsi niente. Le inquadrature erano girate separatamente e poi raccordate in modo piuttosto goffo e confuso, però sono i primi esempi dell'insorgere del problema della continuità dell'azione, la "linearizzazione temporale"[1].

Il primo piano non aveva dimostrato di essere gradito dal pubblico, che già con l'Irwing-Rice Kiss di William Dickson per Thomas Edison (1896) era stato ampiamente criticato per la visione troppo ravvicinata, che evidenziava dettagli non piacevoli.

Gli inglesi però ripresero la tecnica già nel 1897 (Comic Face). Williamson usò il primissimo piano per un effetto pauroso, in The Big Swallow del 1901, dove un passante arrabbiato contro l'operatore, si avvicina all'obiettivo fino a coprirlo con la sua bocca: a quel punto si vede un enorme buco nero dove cadono la cinepresa e l'operatore, divorati dal passante, che dopo si riallontana, masticando sereno.

Un primissimo esempio di raccordo sull'asse, cioè quel tipo di montaggio che passa dalla figura intera al dettaglio e viceversa restando sullo stesso asse visivo, si trova nel film di George Albert Smith Mary Jane's Mishap: si tratta della storia di una domestica pasticciona e un po' pigra, che si macchia il viso col lucido da scarpe e che per accendere il fuoco riempie i fornelli di petrolio, saltando in aria; per far vedere la faccia macchiata o per far leggere la parola "paraffin" sulla tanica usata, la cinepresa si avvicina con uno stacco, inserendo primi piani, e poi torna indietro, sempre con uno stacco: si rompe così l'inquadratura statica della

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stanza dove è ambientata la storia, la visione cinematografica diventa qualcosa di diverso da quella dello spettatore davanti al palcoscenico teatrale.

Un'altra novità è data dalla mescolanza di scene prese dal vero e scene di finzione. James Williamson in Fire! (1901) filmò un vero carro dei pompieri in corsa e un fittizio incendio in una casa.

Nacque in Inghilterra anche uno dei temi più classici della storia del cinema, quello della fuga-inseguimento (in inglese "chase"), come nei film Daring Daylight Burglary (1903) e Rescued by Rover di Hepworth (1905). L'inseguimento, che è un genere popolare ancora ai giorni nostri, ha successo perché sfrutta a pieno quello che è da sempre il migliore effetto del cinema, cioè il movimento.

Entro la prima guerra mondiale Francia, Italia e Stati Uniti si preoccuparono molto dell'aspetto industriale del cinema, tagliando fuori altri paesi quali la stessa Gran Bretagna.

Alla vigilia del conflitto mondiale i produttori inglesi si limitavano ad adattare i grandi classici teatrali e letterari per il cinema (Shakespeare, Dickens o Walter Scott). La guerra diede il colpo di grazia anche a questa produzione e nel 1920 il paese era già il miglior cliente delle produzioni americane. Gli stessi talenti inglesi migrarono rapidamente a Hollywood (come l'attore Victor McLaglen) e fino al 1925 non ci fu alcuna ripresa del cinema inglese.

Il cinema inglese delle origini fu molto diverso dal coevo cinema francese, dominato da Georges Méliès. Per Méliès il mondo cinematografico era il teatro dell'impossibile, dell'anarchia, della sovversione giocosa delle leggi della fisica, della logica e della quotidianità. Per gli inglesi invece, influenzati dalla morale vittoriana, il cinema è sostanzialmente votato all'educazione ed al moralismo, una caratteristica che si trasmetterà al cinema americano classico. Le pellicole, per quanto apparentemente utili al solo svago, insegnano a fare attenzione per la strada, mostrano i danni dell'alcolismo, fa vedere i cani che salvano i bambini e i poliziotti che arrestano i ladri.

Il principio mutuato dalla letteratura di Dickens e dalla stessa fiabistica è quelle della lotta contro il male, dell'ordine contro il caos. Si tratta di uno schema elementare a tre fasi (ordine, trasgressione e ripristino dell'ordine) che sta alla base del cinema narrativo.

PASSAGGIO DA BIANCO A NERO

La pellicola cinematografica a colori indica un particolare tipo di pellicola cinematografica, ed in particolar modo sia la pellicola vergine a colori, in formato compatibile con l'uso in una cinepresa che al prodotto finito, pronto per la proiezione. Le prime pellicole erano costituite da un'emulsione fotografica a base di alogenuri d'argento e consentivano solo riprese in bianco e nero. L'immagine risultante era formata da una gamma di toni grigi che andava dal nero al bianco, a seconda dell'intensità luminosa dei vari punti del soggetto ripreso.

Con la pellicola a colori, è registrata non solo la luminanza del soggetto ma anche il suo colore. Questo comporta la necessità di analizzare i colori presenti nella scena ripresa e collocarli in regioni predefinite dello spettro luminoso, (normalmente tre: rosso, verde, blu). Le pellicole attuali sono costituite da strati di emulsione sensibili ognuno a una di queste tre regioni dello spettro luminoso, in modo da utilizzare sia in ripresa che in proiezione una singola striscia di pellicola. Nella storia sono stati utilizzati anche altri sistemi, (es. il sistema Tecnicolor, prevedeva nella sua ultima evoluzione, l'uso di tre pellicole in bianco e nero e di filtri prismatici atti a separare le varie componenti colore; il Dufaycolor utilizzava filtri colorati posizionati come un mosaico, direttamente sulla pellicola; il Kinemacolor prevedeva la registrazione e la proiezione a velocità doppia di fotogrammi sottoposti alternativamente a un filtro rotante colorato in verde e rosso).

La moderna pellicola a colori è composta da molti e diversi strati che interagiscono per riprodurre l'immagine a colori. Nei negativi delle pellicole a colori ci sono tre principali strati colorati dedicati

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rispettivamente alla registrazione blu, a quella verde e a quella rossa; ciascuna è costituita da due strati separati che contengono cristalli di alogenuro d'argento e copulanti cromogeni. Una rappresentazione a sezione trasversale di un pezzo del negativo sviluppato di una pellicola a colori è mostrato nella figura a destra. Ciascuno strato della pellicola è così sottile che l'insieme di tutti gli strati, compresi la base di triacetato e il supporto anti-alonatura, è spesso meno di 8 µm.[17]

I tre strati colorati sono sovrapposti come mostrato a destra, con anteposto un filtro UV per impedire di esporre i cristalli di alogenuro d'argento alla radiazione ultravioletta invisibile, alla quale sono naturalmente sensibili. Poi ci sono gli strati sensibili al blu (veloce e lento), i quali, una volta sviluppati, formano l'immagine latente relativa a questo colore. Quando il cristallo di alogenuro d'argento esposto viene sviluppato, è sostituito da un colorante granulare del suo colore complementare. Questo forma una macchia di colorante (come una goccia d'acqua su un tovagliolo di carta) la cui espansione è limitata dai copulanti cromogeni, tecnicamente DIR (development-inhibitor-releasing), che hanno anche la funzione di

perfezionare la nitidezza dell'immagine processata limitando l'espansione di colorante. Le macchie di colorante che si formano nello strato sensibile al blu sono in realtà gialle (colore complementare al blu).[18] Per ciascun colore ci sono due strati; uno "veloce" e uno "lento". Lo strato veloce è caratterizzato da granuli più grandi che sono più sensibili alla luce rispetto allo strato lento, il quale ha granuli più fini ed è meno sensibile alla luce. I cristalli di alogenuro d'argento sono tutti normalmente sensibili alla luce blu, così gli strati che riproducono tale banda luminosa si trovano nella parte superiore della pellicola e sono immediatamente seguiti da un flitro giallo, che previene l'esposizione degli strati sensibili al verde e al rosso. Successivamente ci sono gli strati sensibili al rosso (che diventano color ciano quando sviluppati) e, alla fine, gli strati sensibili al verde (che diventano magenta quando sviluppati). fra i vari strati sensibile ai colori è interposto uno strato separatore gelatinoso al fine di evitare che gli strati sensibili si influenzino fra loro. Sotto all'intera struttura (la cosiddetta film base) è posto uno strato anti-alonatura il quale evita che la luce intensa possa essere riflessa dalla base chiara della pellicola e possa quindi tornare indietro attraverso il negativo con l'effetto di esporre due volte i cristalli e di creare aloni di luce attorno ai punti luminosi. Nella pellicola a colori, questo strato è detto rem-jet, ed è uno strato non gelatinoso, pigmentato di nero, posizionato sul retro della base della pellicola e che viene rimosso nel processo di sviluppo.[17]

Eastman Kodak produce pellicola in rotoli larghi 54 pollici (1.372 mm). Questi rotoli vengono quindi tagliati in varie misure (65 mm, 35 mm, 16 mm, super8) secondo il bisogno.

LE MAJOR

Per rientrare nella categoria dei maggiori studi di produzione cinematografica (in inglese major film studio o semplicemente major), un'azienda di produzione e di distribuzione di film deve realizzare annualmente un notevole numero di film e controllare costantemente una significativa percentuale degli incassi al botteghino in un dato mercato.

Nei mercati nordamericani, occidentali e globali, i maggiori studi di produzione cinematografica, sono spesso conosciuti con il soprannome di majors. Oggi esistono sei grandi conglomerati dei media che tramite le varie majors, controllano approssimativamente il 90% dei ricavi al botteghino negli Stati Uniti e in Canada.

Le cinque majors

-Warner Bros.

-Metro-Goldwyn-Mayer

-Paramount Pictures

-20th Century Fox

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-RKO Pictures

Le tre minors

-United Artists

-Universal Studios

-Columbia Pictures