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FANTASIA DELLA GRAMMATICA
SPIEGARE O CERCARE?
“ La scuola, lo ridico, è questo: l’insegnante spiega, l’allievo studia, l’insegnante interroga,
l’alunno ripete”. Può sembrare che niente più della grammatica risponda meglio alla lapidaria
concezione dell’insegnamento scolpita da Paola Mastrocola in un libro di grande successo. In effetti
molto spesso l’insegnamento della grammatica si riduce allo studio passivo di nozioni e regole da
memorizzare, ripetute nelle interrogazioni o trascritte in esercizi interminabili sui quaderni;
gratificanti questi ultimi per certi genitori che pensano a quante cose imparano i loro figli scrivendo
così tanto. L’insegnante che “spiega” adopera l’insieme pieno dove sono inscritte tutte le
conoscenze grammaticali, procede a dispensarle attraverso modelli descrittivi consolidati e non
suscettibili di problematizzazione. L’allievo che “studia” deve applicarsi per far proprie senza
discutere le conoscenze trasmesse, in modo da usare correttamente le regole negli esercizi che gli
verranno assegnati e prendere un bel voto. Alla base di questo modo di insegnare la grammatica c’è
un approccio astratto e tecnicistico che privilegia gli elementi morfologici e sintattici e li propone
senza tener conto della motivazione ad apprendere da parte degli alunni. Non viene attuata nessuna
selezione fra gli argomenti per individuare quelli più funzionali allo sviluppo delle capacità
comunicative ed espressive; di conseguenza vengono ammannite nozioni spesso astruse e pedanti
che non hanno alcuna relazione con l’educazione linguistica e formano un corpo separato.
Nell’ansia di travasare nelle teste dei bambini tutti i contenuti dell’insieme pieno di cui sopra,
spesso non si considera lo sviluppo cognitivo dell’età a cui ci si rivolge e vengono “spiegate”
nozioni incomprensibili. Talvolta nella prima classe si parla già di articoli determinativi o
indeterminativi, di grado degli aggettivi e addirittura ( verificato de visu in un cartellone esposto in
una classe) di pronomi relativi. Nella scuola elementare esiste, anche se minoritaria, una concezione
opposta a quella dell’insegnamento tradizionale della grammatica: non si insegna la grammatica.
Questa posizione viene motivata con diverse argomentazioni che a volte possono, almeno in parte,
coesistere. Una prima argomentazione è quella che, partendo da un ripudio comprensibile di una
grammatica meccanica e arida che conduce all’aberrazione delle pagine piene di esercizi noiosi e
ripetitivi, sostiene di non imbrigliare la spontaneità dei bambini e lasciarli liberi di scrivere senza un
riferimento esplicito alle regole grammaticali. Una seconda privilegia la funzione espressiva e
comunicativa della lingua e ritiene che a quello scopo la grammatica serva poco. Un’altra ancora
considera l’infanzia non pronta per uno studio che richiede capacità di ragionamento e di astrazione
e quindi, non volendo ricorrere, giustamente, ad uno studio mnemonico e meccanicistico, trae la
conseguenza estrema che sia meglio trascurare l’insegnamento della grammatica.
Queste posizioni contengono anche elementi condivisibili nella loro pars destruens; ma in esse si
manifesta principalmente la rinuncia ad una critica argomentata dell’ insegnamento corrente della
grammatica e alla ricerca delle vie che possono portare ad un altro insegnamento possibile. La via
alternativa non si trova in un inesistente luogo di mezzo fra le due concezioni brevemente illustrate
sopra, abita un altrove che vive nella fitta rete in cui si incontrano le “azioni del cercare”. La
grammatica fondata sulla ricerca scarta innanzitutto l’insieme pieno con tutto quel che ne consegue
e assume come punto di partenza l’insieme vuoto. L’insegnante sa che cosa ci dovrà essere in
quell’insieme, ma effettua una voluta sospensione dei suoi saperi in materia, in modo da guidare le
scolare e gli scolari a riempire, loro, il vuoto. Quando si mettono in movimento le menti dei
bambini possono accadere cose non prevedibili, può capitare che l’operazione di riempimento
avvenga talvolta in modi imprevisti dall’insegnante stesso: si tratta di un’esperienza veramente
gratificante. Contrariamente alla concezione che sta tornando di moda, per cui non si impara se non
ci si sforza e si soffre, anche il motore dell’apprendimento della grammatica deve essere alimentato
dal desiderio della ricerca e dal piacere della scoperta.
LA VIA DELLA GRAMMATICA
Va da sé che il percorso per arrivare ad acquisire una conoscenza grammaticale non è una
passeggiata allegra e divertente che porta tranquillamente alla meta. Al contrario è un sentiero
accidentato con ostacoli e indicazioni sbagliate che possono portare fuori strada, ma proprio per
questo rappresenta una sfida eccitante che porta a misurarsi con se stessi e a confrontarsi con gli
altri. La natura del percorso comprende spesso momenti di sofferenza quando non si riesce ad
andare avanti e richiede uno sforzo per non arrendersi e superare l’impasse. L’uso dei termini
“sofferenza” e “sforzo” potrebbe sembrare in contraddizione con l’osservazione critica accennata
sopra; in realtà si tratta di una contraddizione solo apparente, se si pone attenzione ai diversi
contesti in cui si svolge l’apprendimento della grammatica. ( Il discorso vale anche per altri tipi di
apprendimento ) In un contesto che possiamo chiamare “mastrocoliano”, i due termini rimandano
ad un piegarsi di fronte alla parola unilaterale di un emittente, rispetto al quale l’alunno è un
semplice ricevente che deve soffrire e sforzarsi per riuscire ad acquisire delle nozioni per saperle
ripetere in una interrogazione. In quel contesto la sofferenza e lo sforzo derivano da una modalità di
apprendimento etero diretta, vengono accettati come inevitabili ai fini di una prestazione che sarà
sanzionata da un voto. In un contesto che si ispira all’ “azione del cercare” i due termini rimandano
ad una modalità di apprendimento interattiva, caratterizzata da un linguaggio circolare che non
prevede meri emittenti e riceventi, ma soggetti e parlanti che, con diversi ruoli e pari dignità, si
impegnano per costruire insieme le conoscenze. L’alunno vuol dare il suo contributo ed è disposto
ad accettare l’eventuale sofferto sforzo che è richiesto a tale scopo: la sofferenza e lo sforzo sono
interni ad una dinamica didattica e relazionale in cui il soggetto si sente coinvolto in prima persona
e non sono quindi vissuti come imposizioni esterne, ma come esperienze interiorizzate che
convivono con quelle del desiderio e del piacere. Si potrà obiettare che per i bambini non è facile
partecipare attivamente a una modalità di apprendimento così impegnativa e l’obiezione è giusta;
ma solo chi è promotore o succube di una visione caricaturale di una “certa scuola post –
sessantottina”, può pensare che l’ obiettivo del movimento che ha profondamente mutato la teoria e
la pratica educativa in Italia sia stato quello di promuovere una scuola “ facile”. In realtà, a parte
qualche caso di pressapochismo pedagogico sciocco e sconsiderato che può essersi verificato, chi ha
operato secondo un diverso pensiero educativo e didattico si è posto un obiettivo alto e “difficile”,
coerente con il dettato costituzionale: includere e coinvolgere tutti i soggetti - cercando di
rimuovere i condizionamenti negativi sociali, economici e culturali - in un processo formativo
finalizzato al maggior dispiegamento possibile delle potenzialità intellettuali e relazionali di
ognuno. Per contrasto viene da pensare al bestseller “ Io speriamo che me la cavo” che ha permesso
a centinaia di migliaia di lettori di ridere delle sgrammaticature dei bambini, di apprezzare in
maniera paternalistica la “ spontaneità e l’ingenuità” di quegli scolari destinati a restare in una
condizione di disagio sociale ed emarginazione culturale. Non sappiamo se e come il maestro abbia
insegnato la grammatica, ma ci sono forti dubbi che essa abbia svolto un ruolo importante come
fonte di arricchimento e approfondimento della varietà dei mezzi linguistici, di sviluppo di una
maggiore capacità verbale e logica, necessaria per inserirsi in modo consapevole e critico nella
trama dei rapporti con il mondo. Dalla grammatica così intesa nasce anche l’esigenza di superare il
formalismo asettico che riduce la complessità alla semplice memorizzazione e applicazione di
regole date, senza contestualizzare la grammatica in rapporto agli altri aspetti dell’educazione
linguistica e ai riferimenti culturali più ampi, espressi anche con codici non linguistici, con i quali
interagisce. Da qui la priorità della semantica rispetto alla morfo – sintassi, perché è essa che tocca
i sentimenti e i pensieri e conferisce senso alla lingua come strumento per orientarsi e comunicare
col mondo. Gli elementi morfologici e sintattici non devono essere trascurati, ma studiati a partire
da testi e contesti significativi legati a produzioni scritte, ascolti e letture, conversazioni.
( Alcuni esempi di attività svolte a tale proposito verranno illustrati in seguito) Se si riesce a
promuovere, anche in questo campo, una modalità di ricerca che conti sempre di più per i bambini e
consenta loro di attendere qualcosa da conoscere, ma che soprattutto li renda coscienti di avere
qualcosa da dare e da dire, lo studio della grammatica diserta la landa della noia e dell’aridità e si
inoltra anch’esso nel “ sentiero per teste colorate”. Nel confronto fra compagne e compagni di
classe nascono domande che cercano risposte non nei manuali o nella parole definitive
dell’insegnante, ma nella riflessione individuale che si fa compartecipe in un processo di scambio e
interazione con le riflessioni degli altri in vista del fine comune: “arrivare a scoprire”. In questa
situazione di ricerca, l’insegnante che coordina deve valorizzare il contributo di tutti, anche quello
di coloro che dicono cose sbagliate, facendo notare che l’errore può servire per dire qualcosa di
meno sbagliato che strada facendo si avvicina al giusto. La scoperta progressiva richiede
generalmente il concorso di più scolari, ma può anche accadere che, ripensando all’errore di
partenza, uno scolaro riesca a farcela anche da solo.
IL PIACERE DEL CLASSIFICARE
I bambini che riflettono sulle conoscenze grammaticali avvertono due esigenze senza aver bisogno
che vengano indotte o imposte dall’esterno: classificare e sistematizzare. Certamente la
classificazione non è quella che si trova già predisposta nei libri e nemmeno quella dettata
dall’insegnante. Si tratta piuttosto di quella tendenza a mettere ordine, a distinguere e collegare che,
al contrario di ciò che si pensa comunemente, i bambini praticano anche prima di frequentare la
scuola attraverso operazioni di insiemistica inconsapevole sperimentate nel gioco. Già verso i tre
anni - come mi è accaduto personalmente di constatare, non come insegnante, ma come padre in
passato e attualmente come nonno - il bambino classifica seguendo vari criteri i suoi giocattoli, per
esempio modellini di automobili o gli animaletti di plastica, componendo, scomponendo e
ricomponendo insiemi. Ecco allora che le “macchinine” trasmigrano fra gli insiemi a seconda che
vengano classificate in macchine da corsa e non da corsa, italiane o straniere, “normali” o
fuoristrada. Lo stesso accade con gli animali che possono essere selvatici o domestici, a due o a
quattro zampe, acquatici o terrestri… Questa abilità nella scuola elementare viene coltivata non solo
con l’insegnamento dell’insiemistica nell’ambito dell’educazione matematica, ma anche attraverso
la classificazione delle parole secondo criteri morfologici e semantici. A volte i criteri possono
essere molto soggettivi, rimandare al mondo della vita dei vari alunni e abbiamo allora, per
esempio, parole che si riferiscono ai sensi: cibi che piacciono o non piacciono. Ai sentimenti: azioni
che si amano o non si amano. Alla razionalità: affermazioni vere o false. Ma l’attività di
classificazione non si limita ad inserire parole in un insieme in base ad un determinato criterio; da
essa scaturiscono collegamenti, confronti, considerazioni, a volte dispute, che favoriscono la
crescita intellettuale e umana individuale e la formazione di un patrimonio comune di conoscenze
che viene vissuto quasi come una propria creazione dalla comunità classe. Per quanto riguarda il
bisogno di sistematizzare non è necessario dilungarsi, basta solo ricordare il significato metaforico
attribuito al sasso come momento in cui si fa il punto rispetto a quanto scoperto insieme, per
“sistemare quello che abbiamo imparato” e poi ripartire in cerca di nuove conoscenze che avranno
bisogno di un altro sasso e ancora ripartire lungo una strada senza fine.
ARCHITETTURA CREATIVA
Fra un sasso e l’altro il filo conduttore è quello di un metodo induttivo che coinvolge il bambino nel
riconoscimento delle regole estrapolate a partire da esempi particolari, valorizzando le sue capacità
di autonomia, riflessione e comunicazione. Si tratta senza dubbio di un metodo che richiede grande
impegno sia da parte degli alunni, sia da parte dell’ insegnante, anche perché comporta spesso la
possibilità di ritrovarsi di fronte a situazioni impreviste che bisogna saper affrontare; ma è anche il
metodo che permette, attraverso la elaborazione e il confronto di varie ipotesi, di sviluppare le
attitudini fantastiche e logiche che possono e devono convivere in un procedimento scientifico di
studio. Il metodo deduttivo è invece centrato sulla figura dell’insegnante che spiega le regole, le fa
riconoscere e applicare in esercizi e testi di diverso tipo. Sicuramente esso è più facilmente gestibile
e più rapido, ma sottovaluta la motivazione ad apprendere e il coinvolgimento attivo dell’alunno.
Pur privilegiando l’induzione, la deduzione non deve essere comunque esclusa: ci sono certe
conoscenze grammaticali a cui gli alunni difficilmente riescono a giungere da soli. Inoltre, quando
insieme ad essi si è attuata la sistematizzazione grazie alle loro capacità di ragionamento ed
astrazione, è opportuno dedurre casi particolari relativi alle conoscenze sistematizzate. Ad esempio,
una volta scoperto il pronome con il metodo induttivo, si può ricorrere a quello deduttivo
analizzandone i vari tipi. Lo studio della grammatica effettuato secondo i contenuti e soprattutto i
modi qui delineati, a mio parere è necessario, oltre che per quelli già citati, per almeno altri tre
motivi: 1) Serve per elaborare un ordine interiore che trascende la sfera delle parole e permette di
rapportarsi alla realtà senza farsene travolgere. 2) Fornisce un metodo di studio che aiuta
nell’approccio a vari saperi disciplinari. 3) Costituisce un antidoto rispetto alle sgrammaticature
verbali imperanti nello spettacolo televisivo, quello di molti politici in primis, rivelatrici di un certo
retroterra culturale che ha prodotto una devastazione della grammatica della cultura: il “chi parla
male, pensa male e vive male” di Michele Apicella, alias Moretti. Prima di riferire su attività
grammaticali svolte in varie classi e delle loro connessioni con altri aspetti dell’educazione
linguistica, è opportuno spendere due parole su “fantasia della grammatica “ e “grammatica della
fantasia”. Quest’ultima espressione rimanda ovviamente al celebre libro di Gianni Rodari, che ha
rappresentato e rappresenta tuttora una preziosa miniera di idee e suggerimenti per tutti gli
insegnanti che intendono adoperare in modo creativo e divergente le conoscenze grammaticali. Si
pone però un problema: quando entra in gioco la fantasia? In teoria si può insegnare la grammatica
in modo tradizionale, magari usando bene il metodo deduttivo, per acquisire le nozioni e
promuovere ex post attività creative. Senz’altro questo approccio è migliore di quello che riduce la
grammatica ad un corpo separato rispetto al complesso dell’educazione linguistica; ma la fantasia
non può limitarsi ad abitare in un edificio già costruito, deve anch’essa partecipare alla sua
costruzione, contribuire alla scelta dei materiali e al loro montaggio. Se la fantasia entra in gioco
nella fase di progettazione, l’edificio non sarà il prodotto di un’architettura seriale, ripetitiva e
asettica; sarà piuttosto il frutto di una architettura creativa e partecipata che lo rende vivo e
significativo e permetterà di abitarlo non come semplici inquilini stanziali, ma come nomadi
intellettuali che da esso partono in cerca di avventure e vi fanno ritorno quando è necessario. Per
dirla sotto forma di slogan: la fantasia della grammatica preceda e origini la grammatica della
fantasia!
LA GRAMMATICA NARRATA
Le esperienze che verranno raccontate si ispirano alla concezione dell’insegnamento della
grammatica illustrata nelle pagine precedenti. Il termine “raccontate” non è usato a caso: sarebbe
fatica vana cercare nelle pagine che seguiranno un’esposizione sistematica finalizzata alla fornitura
di un ricettario grammaticale e nemmeno vi è la pretesa di insegnare come si insegna. Si tratta,
appunto, di raccontare, senza pretendere di esporle in maniera strutturata e organica, alcune delle
esperienze realizzate in varie classi nel corso degli anni.
LA PIPA DI MAGRITTE
In una classe prima le scolare e gli scolari avevano ascoltato con molto divertimento la storia del
raccontino “ L’acca in fuga” di Gianni Rodari. Esso non era stato letto, ma drammatizzato dal
maestro, rielaborato con l’allungamento del filo conduttore del testo: i guai che accadono quando le
lettere spocchiose costringono l’acca disprezzata come “mutina” a fuggire. Per le parole contenenti
“chi” e “che” le conseguenze sono drammatiche: le “ciavi” non aprono, le “citarre” non suonano, le
“ciese” crollano. Particolare successo aveva riscontrato una variazione del maestro sulla “maccina”
di Schumacher. Il racconto era stato improvvisato usando un “tedesco” alla “Sturmtruppen” di
Bonvi e trattava della sfida impossibile fra il campione e un bambino in triciclo.
Il povero Schumacher, ignaro della fuga dell’acca, prende in giro lo sfidante che, edotto sulla
sparizione della letterina maltrattata, attende tranquillo la partenza. Al momento del via il piccolo
triciclista si mette in moto a modesta andatura, il grande pilota rimane immobile sulla sua
“maccina” e comincia ad imprecare con parolacce “tedesche” e gestualità latina. Come accade in
tutte le fiabe David batte Golia con piena gioia degli ascoltatori. I bambini, a loro volta, inventarono
vicende simili e le drammatizzarono. Gli stessi bambini in classe seconda vollero ascoltare per
l’ennesima volta la storia dell’ “Acca in fuga” e riproporre ulteriori rielaborazioni. Dopo essersi
“sfogati” nella drammatizzazione, gli scolari vennero invitati ad ascoltare alcune variazioni. Le
panche diventavano pance, i ricchi si trasformavano in ricci e così via. Fu poi posta una questione:
che differenza c’è fra le panche che diventano pance e le macchine che diventano “maccine”?
Qualcuno osservò che le pance ci sono davvero e le “maccine” non esistono. Qualcun altro aggiunse
che, passando da macchine a “maccine, una parola si trasforma in una “non parola” perché “indica
qualcosa che non esiste”. Una scolara disse che però le “non parole”, anche se indicano cose
inesistenti, possono essere usate in storie fantastiche. Invece, per quanto riguarda panche e pance, fu
osservato che da una parola si passava ad un'altra che nella forma assomigliava alla prima, “ anche
se voleva dire una cosa diversa”. A quel punto, non limitandosi al riferimento alla famosa lettera
“h”, furono cercate altre coppie di parole caratterizzate da somiglianza morfologica e differenza
semantica e, a partire da esse, i bambini si inoltrarono nell’affascinate territorio della poesia e della
narrazione. Furono scritte brevi poesie un po’ assurde, caratterizzate da immagini surreali e dallo
spirito del nonsense e brevi racconti. Uno di questi ultimi aveva come argomento la metamorfosi
da “ricchi” a “ricci” ed è stato pubblicato nel volume “ Marinai dell’ immaginario”. (
Manifestolibri, 2008 ) Dopo l’esplosione della fantasia, gli scolari furono riportati sul terreno della
logica e venne loro chiesto che cosa fosse il “voler dire una cosa”. Ci furono varie risposte : “ dire
quello che uno pensa”, “un insieme di lettere”… e, finalmente, “dire quello che una cosa significa”.
Osservai che l’ultima osservazione era giusta, ma che sarebbe stato meglio esprimerla con una sola
parola e alcuni risposero all’unisono: significato. Feci notare che l’espressione “ un insieme di
lettere” non andava bene per “ significato”, ma serviva per dire un’altra cosa: uno scolaro disse che
andava bene per “ dire come una parola è scritta”. Era stato scoperto il concetto di significante,
anche se il termine fu introdotto dal maestro. Per sviluppare il concetto di significato fu chiesto in
che cosa consistesse il significato di una parola e la risposta prevalente fu: “ Quello che la parola
è”. A quel punto, con una mossa spiazzante, mostrai una riproduzione del famoso quadro di
Magritte in cui compare una pipa. I bambini osservarono che quella pipa era proprio bella e
sembrava vera e, quando dissi che quella non era una pipa, fui subissato da grida e vidi molte
smorfie. Feci allora notare che nel quadro compariva una scritta “ Ceci n’est pas une pipe”. Una
scolara di madre francese fu invitata a tradurre la frase e un grande sconcerto invase la classe.
Qualcuno si domandò se il pittore e il maestro che gli dava ragione fossero matti; in tanti provarono,
arrampicandosi sugli specchi, a dire che cosa poteva essere quella cosa se non era una pipa. Tutte le
strampalate ipotesi furono bocciate dai bambini stessi e allo sconcerto subentrò lo sconforto causato
dal non riuscire a capire ma, all’improvviso, squillò la voce trionfante di una bambina che esclamò:
“ Ma quella non è una pipa! E’ un quadro che rappresenta una pipa”. Molti si domandarono come
avevano fatto a non pensarci ma un’altra bambina, invece di recriminare, precisò il pensiero della
compagna: “ Ma allora il significato di una parola non è una cosa, indica una cosa”. Osservai
scherzosamente che il nonno che vuole fumare la pipa non si accontenta di quella di Magritte, ha
bisogno di una vera pipa da accendere. La parola “indica” non è esatta per esprimere il concetto di
“significato”, ma il concetto, insieme a quello correlato di significante, era stato scoperto grazie alla
formulazione di ipotesi, al confronto delle opinioni, al concatenamento delle varie osservazioni.
LA NEVE CATTIVA
Fin dalla classe prima i bambini erano stati guidati ad associare aggettivi a sostantivi, pur ignorando
quei termini, partendo da un nome dato e rispondendo alla domanda: com’è? In classe seconda
cominciò la scoperta delle nozioni di sostantivo e aggettivo, anche se quei termini furono adoperati
solo in classe terza quando iniziò uno studio più sistematico della grammatica. Era una bella
giornata serena e, senza nessun discorso introduttivo, scrissi sulla lavagna la parola “calmo”.
Avendo già scoperto gli scolari il concetto di significato come sopra raccontato, chiesi (rifacendomi
alla definizione di “significato” che avevano formulato) che cosa indicasse quella parola e le
risposte furono svariate: un carattere, un bambino, un tono di voce…. Osservai che le risposte
potevano essere tutte vere, ma anche non vere, poi cancellai la parola “calmo” e scrissi “mare”.
Senza attendere la domanda, la classe in coro rispose che era facile sapere che cosa indicava quella
parola. Qualcuno osservò che “mare” poteva “andar bene” insieme a “calmo”, e infatti quella
mattina il mare vicino alla scuola era calmo. Altre voci si levarono per affermare che il termine
“calmo” poteva ” andar d’accordo” anche con le parole che avevano detto prima; dissi che
l’osservazione era giusta e li invitai a riflettere su quello che avevano capito. A quel punto entrò in
azione l’immagine metaforica del sasso come momento per la sistemazione delle conoscenze che
gli scolari avrebbero espresso in classe quarta e sulla lavagna la scoperta fu sintetizzata con le loro
parole. “ La parola “mare” indica qualcosa di preciso e ha il suo significato in se stessa: è un
nome. La parola “calmo” non indica una cosa, ma dice come può essere una cosa e si aggiunge al
nome: è una qualità”
Dopo la scoperta, i bambini scrissero vari binomi nei quali associavano una qualità a un nome; in
seguito, come quasi sempre accadeva, vollero giocare con le parole e produssero “ coppie non vere
ma divertenti”: maiale-volante, alligatore-chiacchierone, topo-ruggente, leone-miagolante….Quegli
strani accoppiamenti destarono il desiderio di uscire dall’edificio delle conoscenze grammaticali e
di avviarsi per le vie della narrazione che furono percorse con la scrittura di brevi storie surreali. I
raccontini si rivelarono molto più “strani” degli accoppiamenti da cui derivavano e, dopo lo sforzo
della ricerca, i bambini si abbandonarono al più puro divertimento man mano che si procedeva nella
lettura a voce alta dei loro testi. Quella mattina come compito a casa gli scolari vollero scrivere
delle coppie “serie” e “scherzose” di nomi e qualità. La mattina seguente lessero il compito che
avevano svolto e uno di loro lesse la coppia “ seria” neve-cattiva, suscitando qualche perplessità fra
le compagne e i compagni. Quando gli fu chiesto il perché di quella scelta, rispose: “ Perché ieri ha
fatto morire tre persone sotto una valanga!”. Una bambina insorse e affermò: “ Ma la neve non
l’ha fatto mica apposta, le valanghe vengono da sole”. Un’altra scolara osservò che cattivi possono
essere solo i viventi, le fu obiettato però che gli alberi non fanno male a nessuno. Alcune voci
esclamarono in coro che cattivi potrebbero essere gli animali che sbranano. Uno scolaro rispose
citando ciò che aveva visto in un documentario televisivo: un leone aveva già mangiato ed era
sazio, vide passare davanti a sé una gazzella e non le fece niente. La considerazione che ne aveva
tratto era che gli animali uccidono non per malvagità, ma per il bisogno naturale di mangiare.
A quel punto intervenni nella discussione chiedendo chi allora poteva essere “cattivo” e in parecchi
risposero: gli umani! Poi spiegarono che il male tante volte gli uomini lo fanno “apposta” e che
potrebbero anche pensare diversamente e scegliere di non farlo. Furono poi citati molti casi di
azioni cattivissime o buonissime compiute dagli uomini; si manifestò il manicheismo inconsapevole
a proposito del bene e del male che è caratteristico dell’infanzia. I bambini avevano comunque
scoperto che l’uomo può comportarsi in maniere diverse a seconda di quello che sente e pensa. Ci
vorrà tempo perché capiscano che la questione è un po’ più complessa ma, inconsapevolmente,
dopo la strada della narrazione, avevano intrapreso un viaggio sulla strada della filosofia.
I TRE LEONI
Contando sull’interesse sempre vivo per gli animali che contraddistingue i bambini, una mattina in
una classe terza scrissi sulla lavagna per tre volte la parola “leone”, subito gli scolari chiesero che
senso avesse ripetere la stessa parola. Risposi con una domanda: perché non provate a cercarlo voi?
Come sempre la voglia di capire mise in moto la ridda delle ipotesi, alcune delle quali risultarono
piuttosto strampalate: per esempio quella che sosteneva che avevo scritto tre volte la parola perché i
leoni mi piacevano tanto. Ma ne emerse una molto interessante : forse erano tre leoni diversi.
Incoraggiai gli scolari a lavorare su quell’ipotesi e qualcuno pose la questione: come si fa a capire
che sono diversi se il nome è lo stesso? Finalmente un bambino disse che si poteva capire se non ci
si fermava al nome “leone” e “ci si metteva qualche altra parola insieme”. Notai che l’osservazione
era giusta e invitai a scrivere tre frasi che avessero come soggetto “leone”. Le frasi proposte furono
le seguenti : 1) Un leone si aggira per la savana in cerca di una preda. 2)Il leone che ho visto allo
zoo era triste. 3) Il leone è un felino.
Innanzitutto chiesi a che cosa servissero le tre paroline che avevano messo davanti al nome e un
coro di voci rispose che servivano per capire di quale leone si parlava. Invitati a farlo a capire anche
a me, gli scolari spiegarono ogni frase. Nella prima “un” indicava un leone che faceva un’azione.
Chiesi chi fosse quel leone e mi fu risposto che non potevano saperlo: era un leone qualsiasi
impegnato in quello che facevano anche gli altri leoni. Nella seconda frase “il” indicava proprio
quel leone che uno di loro aveva visto nella gabbia di uno zoo, si sapeva “di preciso” che era
proprio quel leone lì. Nella terza frase la funzione di “il” non era tanto chiara: il leone non faceva
un’azione, non manifestava uno stato d’animo e non capivano di quale leone si trattasse. A quel
punto dissi ai bambini che, spiegando le paroline all’inizio delle prime due frasi, avevano
cominciato a fare una scoperta. Essi erano molto curiosi di sapere che cosa avevano cominciato a
scoprire, perché non se ne erano accorti. Sapendo che non potevano arrivare a individuare il termine
da soli, dissi che quelle paroline si chiamavano articoli e che loro avevano capito a che cosa
servivano spiegando le prime due frasi. L’articolo “un” non indica di “preciso” di quale leone si
parla, ci dice di uno “qualsiasi” in un modo – e qui introdussi una parola difficile – indeterminato, si
chiama allora articolo indeterminativo. I bambini dissero che non occorreva che spiegassi la
differenza con “il” della seconda frase: era il contrario di “un”, perché parlava di un leone preciso in
modo determinato e allora era un articolo determinativo. Mi complimentai perché avevano scoperto
da soli il termine adatto per il secondo tipo di articolo, ma posi di nuovo la questione di “il” nella
terza frase. Qualcuno notò che era uguale a quello della seconda frase perché tutti e due erano
singolari. Osservai che era fin troppo facile e sollecitai una riflessione sul significato complessivo
delle due frasi, perché lì stava la differenza fra i due articoli uguali. Gli scolari non riuscivano a
venire a capo della questione, ma non volevano arrendersi; allora decisi di aiutarli con una domanda
esplicita, chiedendo loro a chi pensassero nella seconda frase. La risposta fu unanime: ad un leone
solo, in particolare quello visto rinchiuso in gabbia. E la terza a chi li faceva pensare? Qualcuno
rispose non a uno particolare come quello della gabbia. Trovai ottima la riflessione e chiesi chi
veniva loro in mente pensando al fatto che il leone è un felino. Finalmente si accese la lampada dell’
Archimede Pitagorico di Topolino e la risposta fu pressoché corale: tutti i leoni! Il leone libero nella
savana, il leone prigioniero allo zoo, il cucciolo, il maschio e la femmina, il leone addormentato e il
leone affamato…. hanno in comune l’appartenenza ai felini. Chiesi allora come si poteva chiamare
un “il” che, a differenza del primo, non indicava un singolo leone particolare, ma non era facile
trovare il termine opposto a particolare; ricorsi allora ad una specie di indovinello, chiedendo come
si chiamava ciò che comprende tutto e tutti. Qualcuno rispose il mondo, ma qualcun altro obiettò
che gli altri pianeti non facevano parte del mondo e un’ altra voce esclamò: ma è l’universo! Allora
l’articolo “il” nella terza frase era singolare nella forma, ma universale nel significato,u perché ogni
leone è un felino. Senza saperlo i bambini avevano effettuato un percorso di astrazione che li aveva
portati a scoprire il concetto, seguendo il metodo socratico sistematizzato da Aristotele. A quel
punto accadde un imprevisto: fino ad allora si era incentrata l’attenzione sugli articoli, una bambina
invece la spostò sui verbi. Osservò che in classe prima e seconda i verbi erano stati chiamati
“azioni”, ma il leone che “ era triste” non faceva un’azione, esprimeva un sentimento. L’occasione
fu colta al volo e si procedette alla ricerca di verbi che non indicavano azioni e si scoprì che
esistono verbi che si riferiscono ad uno stato d’animo, ad una condizione… Il giorno seguente
tornammo sulle frasi che avevano come soggetto la parola “leone”, proposi un’altra uscita
dall’ambito grammaticale e chiesi quali tipi di testo si potevano scrivere partendo dalle tre frasi. Per
quanto riguarda la prima si disse che si prestava ad un testo narrativo fantastico che poteva essere
verosimile se si raccontava un episodio di caccia alla preda, ma anche assurdo e inverosimile se il
leone avesse, per esempio, avuto paura della preda. La seconda invece era adatta ad un testo
narrativo realistico in cui si raccontava un’ esperienza vissuta in prima persona. La terza non poteva
ispirare un testo narrativo, ma un testo espositivo di tipo scientifico, per scrivere il quale si poteva
chiedere un aiuto al “ maestro Massimo”. ( Si tratta del collega che insegnava l’educazione
scientifica). Una volta individuate le varie tipologie testuali, ogni alunno scelse liberamente quella
in cui voleva cimentarsi e alla fine i testi prodotti vennero letti e commentati in classe.
LA SELLA ANTONELLA, L’OROLOGIO AMBROGIO…
In classe terza le scolari e gli scolari, procedendo nell’opera di classificazione dei nomi, si erano
accorti che quelli di cosa non erano mai accompagnati da un nome proprio, a meno che non si
trattasse di indicare la marca di un determinato prodotto. Ma per i bambini una sedia o una matita
non sono solo semplici nomi che indicano due oggetti di cui ci serviamo nella vita quotidiana; se
entra in scena il gioco si produce un’esperienza di magia che trasfigura le cose, le fa diventare
protagoniste di una storia o di una poesia, in un’atmosfera ricca di affettività e di invenzioni
linguistiche. Questo modo di vedere le cose con occhi diversi da quelli del mondo adulto, porta
spesso a dare loro un nome proprio, per sottrarle alla cosalità asettica e oggettiva e farle entrare,
attraverso l’immaginazione, nella dimensione della vita vissuta. In questa ottica i bambini vollero
dare nomi propri a cose presenti nella loro vita quotidiana e così, attraverso i binomi fantastici
formati da un nome comune e un nome proprio, nacquero alla vita fra gli altri: la matita Margherita,
il diario Dario, il telecomando Orlando, la barchetta Gigetta, la sella Antonella, il violino
Giacomino, la cartella Gabriella, la canna da pesca Francesca, la bicicletta Carletta, l’orologio
Ambrogio… Si intervenne poi sui binomi inventati per scrivere delle brevi storie molto fantasiose o
poesiole in rima baciata, nelle quali era presente una vasta gamma di sentimenti e di comportamenti
che ogni bambino manifestava attraverso di esse. Come si potrà notare leggendo alcune delle
poesiole, ( i racconti non vengono riportati per ragioni di spazio) non si ha un mero rifugio in un
mondo fantastico dove tutto è meraviglioso e animato da buoni sentimenti, ma emergono anche
desideri di trasgressione dispettosa o di libertà, situazioni di sofferenza e disagio che spesso si tende
a rimuovere quando ci si esprime nel registro realistico.
La casetta Rosetta/ va in giro in bicicletta,/ regala le rose qua e là/ portando a tutti la felicità.
La matita Margherita/ ama la bellezza infinita,/ disegna un mondo fiorito/ bello, accogliente e
pulito.
Il telecomando Orlando/ arrabbiato sta girando,/ bei programmi non trova mai/ e per lui sono
brutti guai.
La sella Antonella/ e la sorella Gabriella/ non vogliono sopra i soldati/ ma giovani innamorati.
Il violino Giacomino/ è assai birichino,/ quando lo suona un innamorato/ sembra un gatto
stonato.
Il coltello Marcello/taglia la coda ad un porcello/ che,triste e sconsolato,/ piange da tutti
isolato.
La pallina Carolina/ rimbalza dalla sera alla mattina,/ nessuno la può acchiappare:/ libera e
sola vuol giocare.
L’orologio Ambrogio/ se ne sta mogio ,/ senza pile sono guai:/ per lui il tempo non scorre mai.
Il martello Marcello/ va a passeggio col cappello,/ quando incontra un chiodino/ se lo toglie e fa
un inchino.
La bicicletta Carletta/ con affanno scala una vetta,/ ma lassù vuole arrivare/ per ammirare il
lontano mare.
La canna da pesca Francesca/ getta sempre l’esca,/ vorrebbe pescare carpe/ ma tira su solo
carpe.
L’anno seguente in una sera di fine estate mi ritrovai ad assistere alla presentazione del libro LA
VITA DELLE COSE (Laterza) del filosofo Remo Bodei; le parole dell’autore e la lettura del libro
mi rimandarono all’attività svolta in classe terza sui nomi delle cose e decisi di proporre brevi passi
del libro agli scolari. Naturalmente la scelta si orientò su alcuni che con l’aiuto del maestro
potevano essere in qualche modo compresi da bambini di quarta elementare; per far intendere ciò
che ne seguì, i brevi brani scelti vengono qui riportati.
Nelle cose si depositano affetti, idee e simboli…
Le cose non sono soltanto cose, recano tracce umane, sono il nostro prolungamento.
Le cose ci fanno compagnia quanto gli animali e le piante che ci circondano.
Le cose rappresentano nodi di relazioni con la vita degli altri anelli di continuità fra le generazioni.
Nella rappresentazione pittorica (ma anche nella fotografia e nel cinema) le cose vengono
trasportate in un altro spazio, sospese nel tempo e messe, per quanto è possibile, al riparo
dall’oblio, dal decadimento,dalla morte.
La lettura dei brani affascinò molto e fu caratterizzata dal buon silenzio non imposto che
accompagna l’ascolto di parole significative e coinvolgenti. Gli scolari stessi chiesero che fossero
dettate per leggerle e poterci riflettere. Di seguito alla lettura iniziò una lunga conversazione
informale di cui vengono qui sintetizzati gli esiti più rilevanti. La prima osservazione si rifaceva alle
poesiole scritte un anno prima e consisteva nella scoperta che le cose come le intendeva il filosofo
erano vive anche se non avevano un nome proprio. Di rincalzo qualcuno affermò che “Noi le cose
le avevamo trasformate in viventi con la nostra fantasia, il filosofo invece parla delle cose vere
come sono”. Fu anche detto che in quel modo le cose non erano più semplici oggetti, perché
costituivano “ qualcosa a cui uno teneva molto”. ( Tutte e tutti cominciarono ad elencare oggetti,
giocattoli ma non solo, che per loro rappresentavano “cose come aveva detto il filosofo”. E’ da
notare che la distinzione fra oggetti e cose era stata individuata senza aver letto le pagine piuttosto
complesse scritte a proposito da Bodei. A qualcuno venne anche in mente quello che era stato detto
nei pensieri sui contrari filosofici a proposito della coppia oggettivo/soggettivo; in particolare un
bambino ricordò che quello che oggettivamente era un cuscino, per lui diventava, soggettivamente,
un’ auto con cui viaggiare per gioco. Un altro riferimento citato da molti fu quello delle cose come
anelli di congiungimento con le generazioni precedenti; ci furono momenti di intensa commozione
nel ricordare cose appartenute ai nonni morti o giocattoli avuti in dono dagli stessi. Uscendo dalla
sfera più propriamente personale, venne ricordata la visita al “ Museo della cultura e delle tradizioni
popolari” di Seravezza (Lucca): le bambine e i bambini si resero conto di quanto gli strumenti di
lavoro e gli oggetti legati alla vita quotidiana ci parlassero del modo di vivere dei nonni e dei
bisnonni. Un’altra riflessione riguardò il rapido consumo delle cose che quando non servono più o
si pensa che “non siano più di moda”, vengono buttate via. Qualcuno riferì di tante cose quasi
nuove che aveva visto accanto ai cassonetti, qualcun altro disse che lui mandava i giocattoli che non
usava più ai “ bambini poveri”. Ma soprattutto, dopo la lettura delle parole di Bodei, erano
dispiaciuti del fatto che le cose fossero prima o poi gettate via e dimenticate. Infine fu detto a
proposito dell’ultimo pensiero del filosofo che loro, anche senza averlo letto, tante volte usando la
fantasia avevano trasportato le cose in un’altra dimensione con i loro disegni e le storie fantastiche.
Alla fine della giornata si autoassegnarono come compito di casa un testo, non fantastico come
quello “ delle poesie e dei racconti di terza”, ma realistico, in cui parlare in modo più approfondito
di oggetti che rappresentavano cose di grande importanza per la loro vita.
Grazie alla grammatica contestualizzata, quanti passi in avanti erano stati fatti rispetto alla pura e
semplice classificazione dei “ nomi di cosa”!
VILLANUS NON E’ VILLANO
Contando sull’effetto che sempre viene suscitato dalle mosse spiazzanti, una mattina in una classe
quarta con voce alterata e senza alcun motivo cominciai ad apostrofrare col termine “villano” o
“villana” qualche scolaro o scolara presi a caso. I bambini, anche se non conoscevano esattamente il
significato del termine, rimasero sbigottiti e dissero che “ c’erano rimasti male”. Per far capire che il
maestro non voleva offendere ma solo scherzare per imparare una cosa nuova insieme, dissi loro
che se avessi detto in latino “ villanus” ad un loro coetaneo dell’antica Roma non si sarebbe per
niente sentito offeso. Una bambina allora osservò che forse “villanus” aveva un significato diverso
da “villano”. Quando spiegai il significato del termine latino che indicava semplicemente chi viveva
nella “villa” latina, in una casa fattoria, fu notato che il sostantivo latino in italiano era diventato un
aggettivo con significato offensivo che riuscirono a mettere a fuoco parlando di persona
maleducata, rozza e volgare. Nel passaggio dal latino all’italiano, al mutamento morfologico se ne
era accompagnato anche uno semantico. Tutti in classe erano curiosi di sapere come era avvenuto il
passaggio al significato oggi corrente di “villano”; la domanda consentì un breve excursus storico
grazie al quale gli alunni vennero informati che la connotazione spregiativa del termine era
intervenuta allorché i signori erano andati a viverre in città e consideravano gli abitanti della
campagna rozzi e volgari. A quel punto qualcuno osservò che nella parola “villano” usata in quel
senso c’era del razzismo e cominciò una discussione sulle varie forme di razzismo e sui soggetti
che ne possono essere vittime. Tornando sul piano linguistico, alcuni bambini chiesero se ci fossero
delle parole latine diventate italiane che avevano conservato lo stesso significato. Per rispondere
alla domanda disegnai alla lavagna un semplice schema composto da tre caselle: latino antico,
latino medievale, italiano. In esse venne tracciata l’evoluzione di alcune parole latine: columna –
colomna – colonna, aures – oricla – orecchia, coelum – celum – cielo, vetulus – veclus – vecchio,
oculus – oclus – occhio…Alcuni termini italiani furono individuati a partire dal più antico, altri
richiesero la lettura della versione medievale. I bambini erano galvanizzati per il fatto di “ saper
leggere il latino”, ma per far loro capire che la cosa non era così semplice come sembrava, proposi
un brano dell’ amato Lucrezio come esempio di latino classico: si resero conto che non era tanto
facile “leggere il latino”. Poi passammo alla lettura di un brano tratto dai “ Carmina burana”
medievali, il celebre canto di taverna “ Bibit ille, bibit illa, bibit servus cum ancilla…” Chiesi di
fare delle considerazioni sui due testi che vengono qui trascritte. Nel brano di Lucrezio qualche
parola l’abbiamo capita, ma non basta per capire il significato del testo. Invece nel “canto di
taverna” abbiamo capito tante parole “al volo” come “servus”, “velox” “niger”. Altre come
“bibit” e “albus” le abbiamo capite partendo dalle parole italiane “bibita” e “albume”. Alla fine
siamo stati capaci di tradurre in italiano il canto quasi tutto da soli. Tutto questo è stato possibile
perché la canzone è scritta nel latino che parlava il popolo: una lingua che veniva dal latino antico
e preparava quella italiana. La nostra lingua viene dal latino. Leggendo il latino ci siamo anche
accorti che in quella lingua non esistono gli articoli, quindi nemmeno le preposizioni articolate”.
La provocazione iniziale aveva funzionato: da una situazione connotata emotivamente erano
scaturite conoscenze grammaticali e linguistiche, ma anche storiche e sociologiche. Proprio poco
dopo aver scritto il racconto di questa esperienza, ho incontrato un ex alunno che frequenta la prima
media e, come avvenne quella lontana mattina, gli ho dato del “villano”. Come aveva detto una sua
compagna nel dibattito su Barthes,”… le cose scoperte da noi si ricordano meglio”, infatti la
risposta pronta è stata: “Questa volta non ci casco”.
LE PAROLE PER PENSARE
All’inizio dell’anno scolastico di una classe terza le scolare e gli scolari avevano ascoltato una
canzone di Gianni Rodari e Sergio Endrigo che invitava ad “ andare a cercare insieme le parole per
pensare”. Approfittai dell’occasione per cominciare ad affrontare il passaggio dalla nozione
imprecisa di “ azione” a quella di verbo, chiesi dunque di proporre non generiche parole riguardanti
l’argomento del pensiero, ma di dire che cosa si poteva fare per pensare. Sulla lavagna venne
tracciato un insieme vuoto che rappresentava il pensare e gli scolari dovevano riempirlo con
“azioni” secondo loro adatte. Le stesse furono scritte in ordine sparso man mano che venivano
pronunciate e risultarono le seguenti: discutere, capire, leggere, scrivere, ascoltare, sognare,
immaginare, ricordare, meravigliarsi, studiare, domandarsi , riflettere, guardare, collaborare.
Quando gli scolari ebbero appreso che le “azioni” avrebbero dovuto imparare a chiamarle “verbi”,
dissero subito che si trattava di “verbi pensatori”; poi, come altre volte avevano fatto, pensarono di
fare ordine individuando dei sottoinsiemi, in quel caso formati da “ verbi parenti” e così nacquero
le seguenti “ famiglie pensose”: parlare, ascoltare, discutere, collaborare. Leggere, scrivere,
studiare, riflettere, capire. Sognare, immaginare, ricordare. Guardare, meravigliarsi, domandarsi.
L’ultimo sottoinsieme mi lasciò esterrefatto e lo stesso effetto produsse nel mio amico filosofo
Maurizio Iacono quando gliene parlai: in maniera inconsapevole in quel bisogno di conoscenza che
nasce dalla meraviglia i bambini avevano scoperto la concezione dell’origine della filosofia che, al
di là di tante differenze, accomunava Platone e Aristotele. Mi ritrovai, grazie ai bambini, su una via,
quella della filosofia, che in quel caso non avevo pensato di percorrere; ma colsi volentieri
l’occasione di fare qualche tratto insieme a loro. In quella direzione assegnai come compito a casa
la scrittura di domande ispirate da ciò che in essi destava meraviglia e delle eventuali risposte che
pensavano di poter dare alle domande stesse. Quando leggemmo in classe i brevi testi, scoprii che la
stragrande maggioranza delle domande riguardava temi cosmologici e naturalistici che rimandavano
a quelli caratteristici dei filosofi detti “presocratici”: l’infanzia viva e pensante si era immedesimata,
senza conoscerla, nella grande “infanzia” della filosofia che ancora oggi ci parla e ci interroga.
Dopo la lettura parlammo insieme delle risposte che ciascuno si era dato e ci fu un lungo scambio di
pensieri dei bambini fra di loro e con l’insegnante che non approdò a risposte definitive ed
esaurienti su quelle tematiche, ma certamente alimentò il desiderio di conoscere e comprendere.
TENIAMOCI STRETTI AI PENSIERI
Fra i verbi che servono a pensare compare anche “ sognare”. La presenza di questo verbo può forse
sconcertare i razionalisti duri e puri; ma i bambini sono, come sempre, meno schematici e rigidi di
noi adulti e il sogno, particolarmente il blochiano “ sogno ad occhi aperti” che sa prefigurare un
diverso possibile, diventa per loro parte integrante del pensiero. In seguito gli scolari hanno avuto
modo di collegare i sogni ai pensieri grazie alla poesia. In una attività di laboratorio poetico era
stata proposta una poesia del poeta nero statunitense Langston Hughes che così recitava:
Tenetevi stretti i sogni/ perché se i sogni muoiono/ la vita è un uccello con le ali spezzate / che non
può volare. La metafora dell’uccello piacque molto, allora proposi di scrivere brevi poesie sulla
scorta di quella di Hughes, aggiungendo però che cosa può accadere se i sogni vivono. Vengono qui
riportate solo tre poesie per lasciare più spazio a quelle che seguiranno.
Se i sogni muoiono/ la vita è un violino/ con le corde spezzate/ in un palcoscenico vuoto
e muto.
Se i sogni vivono/ la vita è una barca/ che naviga nel mare aperto. LORENZO
Se i sogni muoiono/ la vita è Arlecchino/ vestito di nero/.
Se i sogni vivono/ la vita ritrova i suoi colori. STEFANO
Se i sogni muoiono/ la vita è un occhio senza vista,/ un orecchio senza udito/.
Se i sogni vivono/ la vita è un occhio che si meraviglia,/ un orecchio che ascolta/ il canto
dell’universo. SACHA
Nell’ultima poesia ritorna la meraviglia che era stata citata a proposito del pensare, perciò -
ricordando le riflessioni che avevano scritto a proposito - chiesi agli scolari se volevano esprimersi
anche in modo poetico a proposito del pensare. La risposta fu positiva e così le vie della poesia e
della filosofia si intrecciarono: sostituendo la parola “ pensieri” alla parola “ sogni”, furono scritte
altre poesie seguendo l’esempio di Hughes, a partire da un titolo uguale per tutti. Eccone qua alcune
non accompagnate da inutili commenti.
TENIAMOCI STRETTI AI PENSIERI PERCHE’….
Se i pensieri muoiono/ la vita è una domanda/ a cui non si può rispondere/.
Se i pensieri vivono/ la vita è un cerchio di parole/ che gira intorno alle risposte.
CARLOTTA
Se i pensieri muoiono/la vita è un cervello/che rimpicciolisce, rinsecchisce, appassisce/.
Se i pensieri vivono/ la vita è un uovo che si schiude/ e fa risuscitare nuove parole/. ELVIS
Se i pensieri muoiono/ la vita è un deserto percorso/ da burattini telecomandati.
Se i pensieri vivono/ la vita è una strada da scoprire/ percorsa da persone intelligenti.
LUIGI
Se i pensieri muoiono/ la vita è un uomo/ che diventa un pezzo di ghiaccio/.
Se i pensieri vivono/ la vita è un uomo che si meraviglia/ e non si accartoccia. PAOLO
Se i pensieri muoiono/ la vita è una strada senza domande/ dove diventeremo marionette/.
Se i pensieri vivono/ la vita è un fiume di domande/ dove navighiamo con le menti. MATTEO
Se i pensieri muoiono/ la vita è un uomo/ che sta sempre alla televisione/ e non respira aria
pura.
Se i pensieri vivono/ la vita è una luce accesa/ che ti fa venire la testa/ di tanti colori.
FRANCESCO T
Se i pensieri vivono/la vita è un cielo oscuro/ che non ci dà più luce.
Se i pensieri vivono/ la vita è una storia/ che ci fa entrare nel suo libro. FRANCESCA B.
Se i pensieri muoiono/ la vita è un cimitero/ con tombe che rinchiudono/ solo i cervelli/.
Se i pensieri vivono/ la vita è un fiume/ che ci scorre dentro/ dove gocce d’acqua,/ come stelle
del cielo, / ci illuminano la mente. LEONARDO
Se i pensieri muoiono/ la vita è un fiume nero/ che trasporta cose inutili/.
Se i pensieri vivono/ la vita è un fiume trasparente/ dove guizzano le nostre anime.
ALESSANDRO
I MODI DI GATTO PASTROCCHIO
In tempi carnevaleschi tutto può essere strano e bizzarro, anche la matematica e uno meno uno può
fare tre, come ci dice una delle poesie del “Quaderno di matematica di gatto Pastrocchio” di
Giovanni Raboni.
“ Un gatto meno un gatto fa tre topi/ che ballano nella dispensa/…
Dallo stesso quaderno trassi anche un’altra poesia e la proposi come occasione giocosa per
affrontare conoscenze grammaticali relativi ai verbi.
“Un gatto più un gatto fa due gatti/ un gatto meno un gatto fa un gatto andato via/.
Speriamo che torni presto/ che non si perda/ che non si faccia male….
I bambini trovarono le poesie molto divertenti e scrissero anch’essi brevi testi poetico – matematici,
accompagnati da disegni spiritosi e surreali. Alla fase creativa subentrò quella riflessiva e chiesi agli
scolari se trovavano qualcosa di particolare nei verbi del terzo, quarto e quinto verso, la risposta
immediata fu: “ A parte speriamo, c’è un “che” davanti a tutti gli altri”. In seguito a quella
osservazione invitai gli scolari a suggerirmi delle frasi con “ il che davanti” da scrivere alla lavagna.
Fra le altre furono scritte le seguenti: 1) Noi speriamo che domani brilli di nuovo il sole.
2)Vogliamo che sparisca l’inquinamento. 3) Pensiamo che il nostro giornalino sia stato
apprezzato.4) Temiamo che domenica prossima piova. Quando chiesi quale differenza c’era fra il
primo e il secondo verbo di ogni frase, un po’ tutti ribadirono la presenza del “che” davanti al
secondo. Osservai che era vero, ma c’era anche altro da scoprire. Furono formulate varie ipotesi su
differenze di tipo morfologico più o meno pregnanti, ma non risultarono soddisfacenti; invitai allora
a spostare l’attenzione dal piano morfologico a quello semantico. Finalmente uno scolaro disse che
la prima frase assomigliava a quelle di gatto Pastrocchio, perché in tutte e due c’era un sentimento
di speranza: la via era stata aperta e fu abbastanza agevole a quel punto scoprire che la seconda
esprimeva un desiderio, la terza un’opinione e la quarta un timore. Ma che cosa avevano in comune
i verbi preceduti da “che”, pur esprimendo sentimenti o pensieri diversi? La risposta fu che erano
tutti “ insicuri”, perché non si poteva sapere se quello che esprimevano si sarebbe avverato oppure
no: era possibile ma non certo. Chiesi allora in che cosa fossero diversi i verbi che non erano
preceduti da “che”; la risposta pressoché corale fu che erano “sicuri” perché indicavano delle “ cose
certe”: ad esempio non sappiamo se domani il sole brillerà di nuovo o se il cielo sarà nuvoloso, ma
siamo certi di sperare che brilli. Qualcuno, con mia grande sorpresa, osservò che “c’ erano due
modi diversi di usare i verbi”. Colsi al volo l’occasione per arrivare a scoprire l’esistenza dei modi
verbali. ( Non avevo ancora parlato del modo indicativo, perché ritenevo che fosse più agevole
comprenderlo non considerato da solo, ma in relazione ad un altro modo). L’ “ indicare” attribuito
come funzione ai verbi “sicuri”, costituì la parola chiave per comprendere non solo il concetto di
modo della “ realtà e della certezza”, ma anche per scoprire il termine “ modo indicativo”. Gli
scolari, nonostante la quasi impossibilità di trovare il termine da soli da me prospettata, vollero
provare a trovare anche il termine adatto per il modo che chiamarono “ dell’ incertezza e della
possibilità” e così suggerirono “ possibilista” , “incertivo”, “insicuro”… Alla fine quella volta
dovettero arrendersi e accettarono che fosse il maestro a dire che si trattava del “ modo
congiuntivo”. A quel punto una bambina chiese se i verbi al congiuntivo “ dovevano per forza avere
“che” davanti a loro”. Invece di rispondere sì o no, dissi loro che il modo congiuntivo, oltre a
quello che avevano già scoperto, poteva esprimere anche un dubbio, così li invitai a formulare una
frase “ dubbiosa”. Ne furono formulate due: “Non so se la mia amica abbia voglia di venire da me”
e “Non sappiamo se sia prudente fare il bagno in mare appena mangiato”. Fu facile scoprire che
quando esprime un dubbio il verbo al congiuntivo è preceduto da “se”. All’ improvviso un bambino
riportò il discorso sul piano semantico ed espresse una considerazione alla quale io non avevo mai
pensato : “Nel modo congiuntivo c’è sempre una domanda sottintesa”. Si trattava di una di quelle
classiche affermazioni che ti fanno esclamare: “ Come ho fatto a non pensarci?”. Superata la fase
dello sbigottimento di fronte a quella osservazione tanto acuta, chiesi agli scolari di riflettere sulla
scoperta del loro compagno, sul modo indicativo e sul congiuntivo. Iniziò una discussione da cui
emersero alcune considerazioni condivise che vengono qui sintetizzate con le parole degli scolari.
1) Il modo indicativo è importante perché ci fa conoscere la realtà ma, se sapessimo tutto, non ci
sarebbe più niente da scoprire e il mondo diventerebbe noioso”. 2) Il modo congiuntivo ci piace
perché, anche se non sempre si avverano, è bello avere desideri e speranze.3) E’ importante anche
avere dei dubbi, perché fanno venire in mente delle domande che aiutano a capire.4) E’ bello che
nella vita accanto alla realtà ci sia anche la possibilità, perché se no non cambieremmo mai. Come
sempre accadeva dopo aver scoperto insieme una nuova conoscenza grammaticale, gli alunni
vollero un compito a casa che riguardasse l’argomento, perciò stabilirono di scrivere brevi pensieri
che esprimessero speranze, desideri, opinioni, timori, dubbi. Il modo congiuntivo non fu coniugato
in tutti i tempi e tutte le persone, ma rappresentò una modalità significativa di espressione del
vissuto. La mattina seguente, dopo la lettura dei testi e i commenti da essa ispirati, si procedette
naturalmente anche a raggruppare i vari verbi usati individuandone tempi e persone.
UN MODO TIRA L’ALTRO
Siccome un modo verbale tira l’altro, qualche tempo dopo avere scoperto i modi indicativo e
congiuntivo, scrissi alla lavagna una frase:” Sarei contento se tutti venissero volentieri a scuola”.
Poi invitai le scolare e gli scolari a scrivere frasi simili a quella, alcune vengono qui trascritte.
Sarei felice se diventassi un’attrice. Mi piacerebbe che mi spuntassero le ali. Andrei su Marte se vi
si potesse respirare. Se non bucassi sempre la bicicletta sarei contento. Se morissero le mie
tartarughe sarei triste. Vorrei avere un Lamborghini se potessi. Sarebbe bello se tutti rispettassero
l’ambiente naturale. Piangerei se “ mi morisse” il nonno. Vorrei fare il giro del mondo
Vennero sottolineati i verbi “sarei”, “piacerebbe”, “andrei”… e chiesi di fare osservazioni su di essi
che vengono qui sintetizzate con la “sistemazione” fatta dagli scolari al temine della discussione.
I verbi sottolineati assomigliano a quelli del modo congiuntivo. Parlano di qualcosa che vorremmo
o non vorremmo e sono “insicuri” e incerti perché non sappiamo se si verificheranno o no. Questi
verbi sono “limitati” perché sono accompagnati da verbi al modo congiuntivo preceduti da “se”.
La limitazione consiste in qualcosa che deve realizzarsi perché ciò che è espresso nei verbi
sottolineati avvenga, cioè si realizzano a condizione che… Allora questi verbi rappresentano un
altro modo che, pensando alla parola “condizione”, possiamo chiamare condizionale. Provando a
metterli in difficoltà, domandai perché anche nella seconda e nell’ultima frase il verbo era al
condizionale, visto che la congiunzione “se” non compariva. Qualcuno si premette con forza la
fronte cercando la risposta, qualcun altro la cercava sopra di sé guardando il soffitto; ma lo stesso
bambino che aveva scoperto l’esistenza di una domanda sottintesa nel modo congiuntivo fece il bis
ed esclamò trionfante: “ Anche la condizione a volte può essere sottintesa!”. A differenza della
scoperta del modo congiuntivo, in questo caso gli scolari erano riusciti anche ad individuare il
termine proprio del nuovo modo verbale conosciuto. Seguì una discussione sul carattere delle
condizioni ed emerse una classificazione che viene trascritta con le parole degli scolari : possibili,
difficili, impossibili. Ognuno scrisse varie frasi e piccoli racconti ispirati alle tre categorie di
condizioni individuate. Il giorno seguente, mosso da un duplice intento lessi il sonetto scritto nella
lingua italiana che gli scolari chiamavano “ appena nata” da Cecco Angiolieri. “ S’i’ fosse fuoco,
arderei ‘l mondo; /s’i’ fosse vento, lo tempestarei /…Il primo intento era ovviamente quello che loro
chiamarono “ far andare d’accordo il congiuntivo imperfetto con il condizionale presente”, tenuto
conto del fatto che ormai in pochi, anche fra le persone colte, riescono in quell’ardua impresa. Il
secondo, senz’altro più importante, era quello di far esprimere attraverso poesie modellate su quella
dell’Angiolieri, proiezioni fantastiche sul vissuto alle bambine e ai bambini che nel 2010 hanno
condiviso con me il mio ultimo anno di ricerca e di insegnamento. Non potendo trascrivere tutte le
poesie per esteso, da ognuna verranno tratti alcuni versi.
Se fossi una Ferrari/ supererei le altre macchine. SERGIO
Se fossi erba/ mi diffonderei sulla terra/. Se fossi sporcizia/ mi eliminerei. IRIS
Se fossi scuola/ andrei nei paesi più poveri/. Se fossi rosa/ creerei profumi. MARGHERITA
Se fossi spazio/ leverei i buchi neri/. Se fossi storia/ racconterei. ANDREA B.
Se fossi pioggia/ andrei nei paesi aridi/ Se fossi guerra/ sparirei per sempre. SOFIA
Se fossi arcobaleno/ regalerei i colori/ al mondo che non li ha. GIADA
Se fossi mare sarei sempre calmo/. Se fossi gomma/ cancellerei i cattivi. DENISE
Se fossi cibo/ sfamerei i poveri/. Se fossi sole illuminerei di speranza. NICOLA L.
Se fossi morte/ falcerei l’inquinamento./ Se fossi soldi/ mi eliminerei. BEATRICE C.
Se fossi stalla/ospiterei gli animali/. Se fossi stella/ illuminerei i cuori. ADRIANO
Se fossi stanza/ mi muoverei/. Se fossi aria/ accarezzerei gli alberi. BRENDA
Se fossi acqua/ abbevererei gli assetati/. Se fossi vento/ rinfrescherei gli accaldati. ANDREA P.
Se fossi vento/ farei da autobus alle foglie./ Se fossi onda/ morirei e rinascerei CHIARA
Se fossi neve/ imbiancherei il mondo/. Se fossi lava/ lo distruggerei. MANUEL
Se fossi inquinamento/ sparirei dalla Terra/. Se fossi gelato/ non mi farei mangiare. SARA
Se fossi matita/ scriverei molto/. Se fossi cuore/ batterei a mille. SILVIA
Se fossi il nulla/ annullerei i serpenti// Se fossi aria/ toglierei il respiro/ a chi non lo merita.
GINEVRA
Se fossi nave/ porterei su di me gli amici/. Se fossi aquila/ mi farei cavalcare. ANTONIO
Se fossi fulmine/ incenerirei l’inquinamento. TOMMASO
Se fossi pesce/ esplorerei gli abissi/. Se fossi fantasia/ illuminerei le menti. LUCA
Se fossi luna/ andrei in un’altra orbita/ Se fossi fiume/ scorrerei senza fine. PAOLO
Se fossi pensiero/ darei idee positive/. Se fossi fucile/ sparerei felicità pura. REBECCA
Se fossi casa/ inviterei le persone/. Se fossi stella cadente/ mi innalzerei. GIACOMO
Se fossi stella cadente/ realizzerei i desideri/. Se fossi fiume/ annegherei la pianura. VIRGINIA
Se fossi natura/ fiorirei/. Se fossi mare/ mi calmerei nell’azzurro. JASMIN
Se fossi falegname/ costruirei su un albero/ una casa tutta per me. ILYA
Se fossi bicicletta/ porterei a spasso/. Se fossi luna/ regalerei groviera. NICOLA P.
Se fossi pensiero/ andrei nelle menti dei bambini/. Se fossi punta/ arrotonderei la cima. MEGAN
Se fossi luna/ illuminerei/ le notti buie/ degli innamorati. BEATRICE B.
Se fossi libro/ prenderei le parole belle/. Se fossi amore/ mi diffonderei. LISA
Se fossi tigre/ sarei vegetariana/ Se fossi vulcano/ erutterei di rabbia. CRISTIAN
Se fossi luna/ mi specchierei/ nella mia luce/. Se fossi pupazzo/ prenderei vita. MATTEO
Se fossi demolitore/ distruggerei le scuole/. Se fossi lago/ annegherei chi m’inquina. JASON