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BREVI OSSERVAZIONI SULLONERE DI SPECIFICA CONTESTAZIONE E IL DIVIETO DI NOVA IN APPELLO NEL RITO DEL LAVORO: LA CORRELAZIONE TRA ONERE DI CONTESTAZIONE E PRECLUSIONI ISTRUTTORIE di FEDERICO RUSSO Approfondimento del 24 marzo 2015 ISSN 2420-9651 Utente: GIUSTIZIA CIVILE UTENZA EDITOR giustiziacivile.com - n. 3/2015 © Copyright Giuffrè 2015. Tutti i diritti riservati. P.IVA 00829840156

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BREVI OSSERVAZIONI SULL’ONERE DISPECIFICA CONTESTAZIONE E IL DIVIETO

DI NOVA IN APPELLO NEL RITO DELLAVORO: LA CORRELAZIONE TRA ONERE

DI CONTESTAZIONE E PRECLUSIONIISTRUTTORIE

di FEDERICO RUSSO

Approfondimento del 24 marzo 2015

ISSN 2420-9651

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Oggetto dell'indagine è la non contestazione nel processo del lavoro e nelprocesso in generale, nell'ambito delle possibili difese della parte. Lasentenza della Suprema Corte 28 febbraio 2014, n. 4854, che si colloca nelsolco di un diffuso orientamento giurisprudenziale in materia di c.d. ritodel lavoro, offre lo spunto per una riflessione di ordine generale sui limitidella specifica contestazione e delle conseguenze della sua omissione, nelgenerale sistema di preclusioni del processo civile. Essa offre, inoltre,l’occasione per una ricollocazione in chiave sistematica della noncontestazione nell’ambito delle c.d. eccezioni, e nella sistematica deldiritto processuale. SOMMARIO: 1. Oggetto della presente indagine: la non contestazione nel processo dellavoro e nel processo in generale, nell'ambito delle possibili difese della parte. - 2. Ilnodo della correlazione tra onere di contestazione e preclusioni istruttorie. I possibilimodelli di interconnessione nel processo. - 3. I fatti primari e secondari: una distinzionetralaticia?

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1. Oggetto della presente indagine: la non contestazione nel processo del lavoro enel processo in generale, nell'ambito delle possibili difese della parte. Oggetto della presente indagine: la non contestazione nel processo del lavoro e nelprocesso in generale, nell'ambito delle possibili difese della parte. La sentenza dellaSuprema Corte 28 febbraio 2014, n. 4854, che si colloca nel solco di un diffusoorientamento giurisprudenziale in materia di c.d. rito del lavoro, offre lo spunto per unariflessione di ordine generale sui limiti della specifica contestazione e delle conseguenzedella sua omissione, nel generale sistema di preclusioni del processo civile. Essa offre,inoltre, l’occasione per una ricollocazione in chiave sistematica della non contestazionenell’ambito delle c.d. eccezioni [1], e nella sistematica del diritto processuale.Su un piano concettuale, a fronte delle pretese azionate dall’attore o dal ricorrente, ilconvenuto ha una pluralità di opzioni difensive. Può, innanzitutto, limitarsi a contestareil fondamento della domanda. Questo tipo di condotta, che viene tradizionalmenteinquadrata tra le c.d. mere difese, può essere idealmente suddivisa in due possibilitipologie di contestazioni, apparentemente simili ma in realtà molto diverse quanto afondamento.La prima eventualità è che, innanzitutto, il convenuto contesti il fondamento in punto didiritto della domanda. Che contesti, in altri termini, l’applicabilità o il significato di unafattispecie normativa invocata ex adverso, ovvero le conseguenze che la controparte dadetta norma intende far discendere nel caso concreto.Una seconda possibilità per il convenuto che si difende dalle pretese dell’attore, ècontestare il fondamento in punto di fatto della domanda.A fronte di una domanda dell’attore di pagamento di una somma di denaro, ilconvenuto potrà contestare l’esistenza del debito, affermando che non è mai sorto, oche è sorto in capo ad un soggetto diverso.Questo tipo di condotta è affine alla precedente, nel senso che si riduce ad una meracontestazione, senza aggiungere alcun fatto nuovo. Al contrario della precedente ipotesi,però, la contestazione qui non attiene alla qualificazione giuridica del fatto, o alle sueconseguenze in punto di diritto, ma proprio alla sua esistenza storica, o alla circostanzache esso si sia realizzato con le modalità descritte dalla controparte. Nella prima il fattonon è controverso, ma se ne deducono diverse conseguenze in punto di diritto. Nellaseconda è proprio il fatto ad essere oggetto di contestazione.La dottrina e la giurisprudenza talvolta denominano tali condotte mere difese, talvoltale

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accomunano, insieme alle contestazioni del fatto, riconducendole alle eccezioni in sensolato [2].L’uso del termine eccezione, anche se in senso lato, è qui conseguenza della polisemiagiuridica del vocabolo, come a noi tramandato nella bimillenaria tradizione giuridica edè, ovviamente, convenzionale. Non si tratta, evidentemente, di un errore concettuale, madi una ambiguità insita nel termine eccezione, che non può essere evitata senza unadeliberata scelta terminologica discrezionale: distinguendo, come già il diritto francese,ope legis o per scelta dogmatica, le eccezioni, anche in senso lato dalle difese [3].Preme sottolineare, comunque, che – questione terminologica a parte – l’inesistenza delfatto come del diritto è rilevabile d’ufficio nei limiti di cui si dirà a breve. Laratio sottesa alla medesima disciplina processuale è, tuttavia, differente nelle dueipotesi. Diverse, sono del pari, le conseguenze di tale differente logica sottostante, e –conseguentemente – differente è la portata, nelle due fattispecie, della rilevabilitàd’ufficio.Nel caso delle contestazioni in punto di diritto il regime della rilevabilità d’ufficio trovafondamento nel principio iura novit curia,che impone al giudice il potere-doverediindividuare, anche nell’inerzia o nella contumacia delle parti, la norma applicabile alcaso concreto e di fornirne la corretta interpretazione. Esse sono rilevabili d’ufficio enon potrebbero non esserlo, senza rendere intrinsecamente ingiusta la sentenza [4]. Larilevabilità d’ufficio – seppure, come detto, tale concetto non debba essere inteso insenso stretto [5] – è, dunque, massima quanto ad estensione. Il giudice dovrà semprericercare la norma applicabile al caso concreto, quali che siano le deduzioni,contestazioni o ammissioni delle parti.Nel caso dell’inesistenza del fatto costitutivo, il fondamento della rilevabilità d’ufficioè, invece, diverso; da qui l’opportunità di distinguere le due ipotesi anche sul pianoconcettuale.La contestazione del fatto è, in particolare, rilevabile d’ufficio perché è obbligo delgiudice pronunciarsi su tutta la domanda, e dunque accertare i fatti che ne costituisconoil fondamento.Se il locatore che agisce per la risoluzione del contratto non ne dimostra la suaesistenza, il giudice, anche se il conduttore resta contumace, dovrà rigettare la domanda.Anche in questa ipotesi non si tratta di un vero e proprio rilievo di ufficio di unaeccezione, ma di una logica e – a nostro avviso strettamente consequenziale –

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applicazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112c.p.c. e del generale riparto dell’onere della prova, di cui all’art. 2697 c.c. [6]. Chi vuolfar valere un proprio diritto in giudizio ha sempre l’onere di provare i fatti che necostituiscono il fondamento, anche in caso di contumacia del convenuto; cosicché chiagisce in forza di un contratto ha, come è naturale, l’obbligo di dimostrarne l’esistenza.A seguito della novella del 2009, però, questo potere generalizzato del giudice dirilevare le eccezioni in senso lato, nel senso qui inteso, trova un limite nell’obbligo peril giudice, sancito all’art. 115 c.p.c., di porre a fondamento della domanda i fatti nonspecificamente contestati dalla parte costituita [7].Sebbene sia stato dubitato, in dottrina e nella prima giurisprudenza di merito, che lanorma abbia una reale portata innovativa [8], e sembri prevalere, allo stato,un’interpretazione restrittiva [9], a noi pare che la formulazione perentoria del datonormativo dovrà indurre, prima o poi, a rivedere l’esegesi della disposizione.Riteniamo che la mancata contestazione si ponga come limite al potere di accertamentodei fatti riservato al giudice, nel senso che se un fatto non viene specificamentecontestato questo dovrà essere considerato provato.Naturalmente, non di prova legale si tratta, sicché la mancata contestazione potrà benessere smentita da altre prove acquisite al processo [10]. Riteniamo, però, che al di fuoridi questa ipotesi – silenzio del convenuto smentito, e.g., da una prova documentale –non sussista neppure un potere di prudente apprezzamento del giudice circa la mancatacontestazione. Il giudice, in particolare, potrà e dovrà valutare, questo sì secondo il suoprudente apprezzamento, se il fatto sia stato o meno specificamente contestato, ma unavolta risolta positivamente questa indagine, il suo sindacato non potrà spingersi al puntodi negare rilevanza al carattere non controverso del fatto e pretendere una provaulteriore [11].Ciò si deduce, a nostro avviso, dall’analisi sistematica dell’art. 115 citato con ilsuccessivo art. 116. L’art. 115 pare distinguere sul piano sistematico le “prove”proposte dalle parti e dal pubblico ministero dalle altre fattispecie previste dalla norma,i.e., il fatto notorio, le massime di esperienza, e i fatti non controversi.L’art. 116 c.p.c., per converso, circoscrive il prudente apprezzamento del giudice allesole “prove” e non anche alle altre, richiamate, ipotesi previste dall’art. 115 citato.Dunque, se appare coerente con il sistema normativo affermare che il prudenteapprezzamento del giudice debba riguardare l’esistenza o meno della (non)

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contestazione, non appare altrettanto corretto concludere che il giudice, una voltaappurato il carattere non controverso di un fatto, abbia un ulteriore potere discrezionalesul punto, in merito al significato da attribuire alla non contestazione, ed alla possibilitàdi decidere la causa in modo difforme.La formulazione dell’art. 115, inoltre, appare – come detto – perentoria, attribuendo algiudice non il semplice “potere” di porre a fondamento della decisione i fatti nonspecificamente contestati, ma un suo preciso dovere, espressamente sottratto ad ognidiscrezionalità.In conclusione, a noi pare che la mancata contestazione non vada inquadrata come unaprova in senso stretto, ma una deroga all’onere della prova, previsto dall’art. 2697 c.c.Riteniamo, altresì, che la sua espressa menzione nel codice di rito, specialmente neitermini in cui essa è posta, non possa essere considerata meramente pleonastica, nelsenso che essa debba, necessariamente, voler dire qualcosa.La non contestazione rientra, a nostro parere, in quelle che sono state qualificate comec.d. prove negoziali, definite da parte della dottrina come relevationes ab onereprobandi [12].Non una vera prova, ma un suo surrogato, avente fondamentosull’autonomia negoziale e sul potere dispositivo delle parti, il cui scopo è quello diconsentire ad una di esse di sfuggire all’onere probatorio da assolversi di norma conquei mezzi soggetti al prudente apprezzamento del giudice. Essa è sottratta al potere diprudente apprezzamento del giudice per il semplice fatto che esclude in radice il poteredi questo, di decidere diversamente sull’esistenza o inesistenza del fatto [13].Molteplici sono, ovviamente, le problematiche ulteriori connesse all’istituto della noncontestazione [14]. Esse esulano, probabilmente, dal campo di questa indagine. è pernoi essenziale precisare, semplicemente, che:- oggetto di un onere di contestazione sono esclusivamente i fatti, e non anche leargomentazioni giuridiche sostenute dalla parte, né la qualificazione giuridica dei fattimedesimi o tutto quanto implichi un’attività valutativa della parte e, dunque, delgiudice;- per converso il novellato art. 115 c.p.c. non deroga in alcun modo al principio iuranovit curia,sicché il giudice non è, ovviamente, vincolato alla ricostruzione indiritto della fattispecie offerta dalle parti;- alla non contestazione è equiparata la contestazione meramente generica, daintendersi, a nostro avviso, come quella meramente di stile, riferita al complesso delle

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affermazioni avversarie e non puntuale [15].A conclusione del presente paragrafo e prima di addentrarci sulle peculiarità dellamancata contestazione nel rito del lavoro, è opportuno un breve cenno alle ulterioripossibilità difensive delle parti nel gioco del processo, scil. le c.d. eccezioni.Questa riflessione viene suggerita dalla precisazione, contenuta nella motivazione diCass. 28 febbraio 2014, n. 4854, che la contestazione, pur non integrando eccezione insenso proprio, sarebbe preclusa in appello «ostandovi il divieto di nova sancito dall’art.437 c.p.c.».Il convenuto (o l’attore a fronte della riconvenzionale del convenuto) potrebbe nonlimitarsi a contestare il fondamento in fatto o in diritto della domanda, ma decidere diallegare un fatto nuovo che pur non negando (ma, anzi, implicitamente confermando) laregula espressa dalla domanda avversaria (e.g. il contratto di vendita obbliga ilcompratore a pagare il prezzo; le parti stipularono un contratto che obbligava Caio apagare a Tizio una determinata somma di denaro), postuli la sua disapplicazione nelcaso concreto (e.g., ma nel caso di specie, il venditore è a sua volta inadempiente; nellafattispecie il credito è prescritto). Tali attività difensive vengono definite eccezioni esono dirette a contrastare – al contrario delle contestazioni del fatto e diritto – unadomanda, di per sé, fondata [16].Non è, ovviamente, questa la sede per una disamina del contenuto dell’eccezione. Ci silimita a segnalare che il nucleo caratterizzante della condotta è dato, appunto,dall’introduzione di un fatto nuovo, dedotto non in chiave meramente probatoria, maidoneo ad impedire, modificare o estinguere il diritto fatto valere ex adverso.Nell’ambito delle eccezioni-deduzioni di un fatto nuovo, occorre poi distinguere traquelle deduzioni che mirino a neutralizzare una domanda già di per sé infondata [17] daquelle che mirino invece a neutralizzare una domanda di per sé fondata, recte: di unadomanda che resta fondata finché la controparte non eserciti un suo potere di impugnareil diritto o l’azione avversaria, ovvero di rifiutare l’adempimento di un contratto o diuna obbligazione[18].Queste due fattispecie, pur avendo in comune il medesimo presupposto, i.e., l’ingresso,nel processo e nella cognizione del giudice, di un fatto nuovo (come il pagamento,l’errore, il dolo, l’inadempimento della controparte, etc.) sono molto differenti sul pianodel loro regime processuale.Entrambe possono essere chiamate eccezioni, se con tale locuzione sottendiamo

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all’introduzione nel processo di un fatto nuovo. Con l’importante precisazione, però,che questa introduzione del fatto è di per sé idonea ad impedire, modificare, estinguereil diritto nelle eccezioni che definiamo in senso lato (la semplice prova del fatto delpagamento comporta l’infondatezza della domanda avversaria). Di contro in quelle chedefiniamo eccezioni c.d. in senso stretto sostanziale, perché si verifichi tale effettol’ingresso del fatto del processo dovrà essere accompagnato da un’ulteriore ed esplicitamanifestazione di volontà della parte di impugnare il diritto o la domanda, ovvero disottrarsi all’adempimento, proprio in forza della deduzione de qua.Come conseguenza, nelle eccezioni in senso lato, ove l’ingresso del fatto nuovo nelprocesso è sufficiente a paralizzare la domanda (purché, ovviamente il fatto èdimostrato), diviene irrilevante come tale ingresso sia avvenuto. Il giudice dovrà tenereconto dell’avvenuto pagamento anche se esso non sia stato dedotto dalla parte ma risulticomunque dalle prove assunte, ovvero sia stato ammesso dalla controparte o da questanon contestato (giusta il disposto dell’art. 115 c.p.c.). L’eccezione in senso lato è,dunque, rilevabile d’ufficio, nel rispetto, ovviamente, delle regole in materia dipreclusioni istruttorie (il giudice non potrà tenere conto di una quietanza di pagamento,se questa è stata prodotta fuori dai termini di decadenza) e del divieto di scienza privata.Una volta che il fatto sia stato comunque provato o ammesso dalla controparte, però,diviene irrilevante stabilire chi avesse l’onere di provarlo; come pure diviene irrilevantel’assenza di una manifestazione di volontà del convenuto di avvalersi di tale specificofatto per ottenere il rigetto della domanda avversaria. Il pagamento, così, estingueràl’obbligazione dal suo interno, anche se il debitore non abbia formulato una esplicitarichiesta in tal senso.Diversamente, nel caso dell’eccezione di prescrizione, di dolo, di inadempimento,diviene irrilevante che il fatto sia comunque giunto alla cognizione del giudice sullabase delle prove assunte, o sia stato esplicitamente ammesso dalla controparte. In questeipotesi, su può dire, il fatto rileva solamente se e in quanto viene dedotto dalla parte alfine di paralizzare, proprio attraverso la sua deduzione, la domanda avversaria. Se ciònon accade, la domanda resta fondata, e il giudice non può rilevare d’ufficiol’eccezione, senza violare l’art. 112 c.p.c.Ambedue le eccezioni di cui sopra, in senso stretto e il senso lato, sono comunqueaccomunate, come detto, dal fatto che presuppongono l’ingresso nel processo di unfatto nuovo. Diversamente la contestazione del fatto presuppone che si continui, per

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così dire, a giocare con le stesse carte scartate da chi ha proposto ladomanda. L’attività difensiva consiste, appunto, nel negare l’esistenza del fattoallegato ex adverso.

2. Il nodo della correlazione tra onere di contestazione e preclusioni istruttorie. Ipossibili modelli di interconnessione nel processo. Tanto premesso è opportuno soffermarsi su alcuni principi giurisprudenziali affermatida Cass. civ. 28 febbraio 2014, n. 4854.La prima questione riguarda l’esistenza di uno specifico onere di contestazione nelprocesso del lavoro, antecedentemente alla novella dell’art. 115 c.p.c.La Giurisprudenza [19], innanzitutto, ha affermato l’esistenza di tale onere, muovendodall’esegesi dell’art. 416 c.p.c., che imporrebbe al convenuto di prendere posizione, findalla costituzione in giudizio, «in maniera precisa e non limitata ad una genericacontestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda».Affermache tale obbligo sarebbe sancito a pena di decadenza.Per la verità, su un piano letterale, la locuzione “a pena di decadenza” appare riferita alsecondo comma dell’art.416 c.p.c. (a proposito delle domande riconvenzionali e delleeccezioni non rilevabili d’ufficio) e al terzo comma, limitatamente all’indicazionedei “mezzi di prova” e delle produzioni documentale; non anche all’onere di specificacontestazione ove, appunto, la locuzione non è ripetuta.Il principio, comunque, può considerarsi abbastanza consolidato nella giurisprudenzalavoristica [20]. Particolarmente interessante appare, a questo riguardo, la correlazionetra onere di contestazione tentata dalla sentenza annotata e le preclusioni istruttorie,sancite sempre dal terzo comma dell’art. 416 c.p.c. e dal successivo art. 420 c.p.c.Nella richiamata decisione n. 4854 del 2014, la Corte di legittimità, al riguardo,ricollegandosi ad un diffuso orientamento giurisprudenziale (ma in verità alla funzionestessa dell’accertamento giurisdizionale), osserva che, anche anteriormente alla novelladell’art. 115 c.p.c., dovevano essere oggetto di prova solamente i fatti controversi.Correlativamente, il termine per l’assolvimento dell’onere di contestazione va correlatoalle preclusioni, a carico della controparte, relative, appunto, alla prova dei fatticontroversi e dunque contestati.Orbene, a ben vedere il principio in esame – i.e., l’ampiezza della correlazione trapreclusioni istruttorie e mancata contestazione del fatto – potrebbe essere letto secondodue chiavi di lettura assai diverse.

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Secondo una prima ricostruzione sistematica, la contestazione finirebbe con l’integrarel’onere della prova, delineandone, ex ante e dal punto di vista delle parti, il contenuto: laparte avrebbe l’onere di provare solamente quei fatti che l’altra parte abbia ritualmentecontestato. Conseguentemente l’onere di provare un determinato fatto sorgerebbesolamente nel momento in cui questo sia stato contestato. La sequenza processuale chepotrebbe derivare da questo principio dovrebbe essere:a) affermazione del fatto,==> b) sua contestazione,==> c) richiesta di prova del fattomedesimo, ==> d) ammissione delle prove sui fatti contestati.Un simile modello processuale appare ravvisabile, a nostro avviso, nella vecchiasuccessione di termini ex art. 183 e 184 c.p.c. del processo di cognizione ordinario antenovella 2006-2009 (e in misura minore anche oggi, nello schema di cui all’attuale art.183 c.p.c.) corrispondente al percorso processuale: fissazione del themadecidendum (con conseguente cristallizzazione dei fatti controversi e bisognosi diprova), fissazione del thema probandum (diretto a provare, appunto, tali fatti).Esso appare, tuttavia, non del tutto coerente con la ratio – talvolta ricondotta al vecchioprincipio della eventualità [21] – che, condivisibile o meno, sembra permeare il ritolavoristico, né con la decadenza esplicitamente sancita, quanto a preclusioni istruttorie,dall’art. 416 c.p.c.Applicando, comunque, la logica suddetta al processo del lavoro – i.e. interpretando inquesta chiave il dato normativo – potrebbe giungersi ad una lettura estensiva dell’art.420 c.p.c., a norma del quale il giudice all’udienza di discussione ed al netto dei suoipoteri d’ufficio, potrà ancora ammettere quei nuovi mezzi di prova «che le parti nonabbiano potuto proporre prima» [22]. Tra questi, appunto, potrebbero rientrare anchequei mezzi di prova che si rendono necessari solo a seguito dell’avvenuta contestazionedella controparte. In definitiva, all’udienza ex art. 420 c.p.c., le parti potrebberoarticolare quei mezzi di prova che non avevano potuto richiedere prima, ivicompresi quelli che non avevano avuto ragione di richiedere, perché la relativa esigenzaè sorta solo successivamente, nel momento in cui la controparte ha contestatoespressamente i fatti relativi.Nel senso qui proposto si segnalano alcune aperture della giurisprudenza, che haammesso, ad esempio, la produzione di nuovi documenti all’udienza di discussione,alternativi a quelli già prodotti con il ricorso, proprio a seguito dell’avvenutacontestazione da parte del convenuto dei fatti dedotti a sostegno della domanda (e

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qualora i documenti originariamente prodotti siano stati impugnati dall’attore) [23], oaddirittura ha affermato che non incorrerebbe in decadenze (e potrebbe, dunque,integrare le prove all’udienza ex art. 420 c.p.c.) la parte che abbia omesso di dedurre ilmezzo di prova riguardante una circostanza, anche se di valore determinante, che laparte stessa era tenuta a provare, nell'ipotesi in cui la deduzione del suddetto mezzo diprova fosse, al momento del deposito dei suddetti atti, da ritenere «superflua sulla basedi una ragionevole presunzione di non contestazione del fatto» [24].Si tratta, comunque, di aperture – per così dire – sempre a livello di eccezione, che nonhanno mai messo seriamente in crisi la regula della decadenza della parte che non abbiaarticolato mezzi istruttori negli atti introduttivi.Secondo una diversa lettura, invece, occorre dare risalto non alla contestazione comeelemento determinativo del sorgere dell’onere della prova, ma alla mancatacontestazione,come elemento che rende superflua (risolutivo, per così dire, mutuandol’espressione dal diritto civile) la prova medesima.La non contestazione, in questa prospettiva, non opererebbe tanto – come affermatonella sentenza annotata – nel senso di determinare una corretta delineazione dell’oneredella prova, quantopiuttosto come semplice limite negativo ed esterno ad esso, nelsenso che, se un fatto non è contestato non occorre provarlo.Seguendo, allora, una tale visione, la regola del non contestato uguale provato, inparticolare, non sarebbe rivolta alle parti, esonerandole dal provare ciò che non è statocontestato o rimettendole in termini per provare ciò che, invece, è diventato controverso(a seguito della fisiologica difesa della controparte); essa sarebbe, invece, diretta algiudice. Costituirebbe, in particolare, una sorta di criterio guida, nel momento in cui eglideve ammettere i mezzi di prova richiesti dalle parti (rigettando le istanze superflue,perché relative a fatti non contestati) o al momento della decisione (considerandoprovato un fatto che, pur non essendo stato provato in giudizio, non è stato contestatotra le parti).Seguendo lo schema ideale di sopra, la sequenza processuale dovrebbe essere:a) affermazione del fatto e richiesta di prova, ==> b) contestazione, ==> c)ammissione delle prove originariamente richieste ma limitatamente ai fatti contestati. Sotto tale diversa prospettiva, l’art. 420 c.p.c. sembra consentire, più che altro, quelleprove che oggettivamente non fu possibile articolare prima, o per circostanze fortuite (ein ciò la norma si sovrapporrebbe al novellato art. 153 c.p.c., in precedenza art. 184-bis

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c.p.c. [25]) ovvero perché l’esigenza della prova fosse sorta solo successivamente, aseguito delle modifiche alle domande intervenute, a norma del medesimo art. 420 c.p.c.[26], alla stessa udienza. La parte, di contro, dovrà chiedere sin dal principio la prova ditutte le circostanze che afferma, senza potersi riservare di articolarle in futuro, sulla basedell’eventuale contestazione avversaria; sarà compito del giudice, nell’ambito dei suoipoteri di direzione e nel rispetto dell’economia dei tempi processuali, a dovereselezionare tra le prove tutte richieste, solamente quelle necessarie perché relative a fattirealmente controversi. È questa, probabilmente, la scelta ermeneutica più aderente aldato normativo ed alla ratio legis del processo del lavoro.Preme sottolineare che, ai fini della tempestività della contestazione, l’adesione all’unoo all’altro modello avrà conseguenze assai diverse. è proprio – a nostro avviso – ilmodo con cui viene concepita la contestazione che porterà legislatore e interprete adanticipare o posticipare il termine ultimo per il compimento di tale attività.Frutto di un errore di prospettiva appare al riguardo, l’affermazione giurisprudenziale[27] che la contestazione, pur non integrando eccezione in senso proprio, sarebbepreclusa in appello «ostandovi il divieto di nova sancito dall’art. 437 c.p.c. cheriguarda non soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto ma anche lecontestazioni nuove, ossia non esplicate in primo grado».A nostro avviso, il nodo della questione non sta tanto nel carattere di revisio priorisinstantiae anziché di novum iudicium dell’appello; questo carattere, parafrasandoquanto è stato giustamente osservato in passato, non costituisce un postulatoaprioristicamente esistente, sulla base del quale interpretare le norme di diritto esistenti,ma – al contrario – una conclusione da dimostrare proprio all’esito di tale attività [28].Piuttosto, il vero fulcro della questione sta, anche in questo caso, nella strettacorrelazione tra prova e contestazione e nella funzione che si vuole dare alla seconda, alfine di determinare il thema probandum.Seguendo il primo modo di pensare,la formazione del thema decidendum e del themaprobandum sonoconcepite come una realtà dinamica e in divenire nel corso delprocesso, strettamente intercorrelate dalla sequenza di mosse di attore /ricorrente econvenuto. Esse, anzi, divengono assolutamente centrali con riguardo alla lorocollocazione nella logica e nei tempi processuali. I principali protagonisti di tale attivitàsono le parti, che hanno il compito di chiedere di provare solo ciò che è controverso. Inquest’ottica ben si potrebbe concepire la contestazione di un fatto per la prima volta in

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appello: solo ciò comporterebbe la necessità di ridefinire il thema probandum,consentendo l’ingresso di nuovi mezzi di prova in appello.Se si accoglie un modello di contestazione come limite positivo interno all’onere dellaprova (l’onere di provare sorge solamente su ciò che è già stato contestato), puòragionevolmente accogliersi la possibilità di una contestazione tardiva, anche in appello.Comunque la si voglia mettere la contestazione non è un’eccezione in senso stretto(anzi, per come dimostrato, l’accertamento dell’inesistenza del fatto costituisce unanormale estrinsecazione del dovere del giudice di pronunciare su tutta la domanda), né,a maggior ragione, una domanda nuova. L’aver mosso in avanti nel percorsoprocessuale la facoltà di contestare, però, comporterà la necessità, a questo punto, che lacontroparte venga rimessa in termini per provare i fatti contestati; risultato che, nelprocesso del lavoro, potrebbe comunque essere raggiunto, attraverso un ponderatoutilizzo dei poteri istruttori d’ufficio del giudice, proprio per dimostrare tali fatti,ovvero autorizzando i nuovi mezzi di prova, anche in appello, perché indispensabili, oprevia rimessione in termini ex art. 153 c.p.c.Se, di contro, si accoglie l’idea della non contestazione come semplice limite esterno enegativo al thema probandum,essenzialmente al fine di consentire al giudice diindividuare le prove da ammettere e poter decidere la causa, il suo limite ultimo sarà,necessariamente, anticipato alla fase della fissazione del thema decidendum. L’eserciziodel potere di contestazione dovrà piuttosto essere collocato nella fase iniziale, se nonproprio preliminare del processo. Le parti hanno fin da subito il compito di affermare eprovare tutto, non sapendo se sarà o meno controverso; sarà poi il giudice a dovereammettere solo quelle prove relative a fatti che sono stati, successivamente,effettivamente contestati.Più che un divenire dinamico, un simile modello processuale appare come un albero icui rami crescono in direzioni molteplici e caotiche, mentre sarà compito del giudiceselezionare solamente quelli che ritiene adatti alla sua visione della causa, tagliandoquelli inutili. Il vantaggio di tale modello è che, comprimendo la fase dinamica, puòconsentire una riduzione dei termini di durata del processo; lo svantaggio è che talecelerità può essere solamente apparente, dal momento che sia le parti che il giudicesaranno sovraccaricate di un maggio lavoro. Le prime, invero, dovranno, nelle fasiiniziali, ricercare le prove anche di quei fatti che potrebbero non essere controversi; ilsecondo si troverà di fronte un materiale molto più complesso e disorganico (con

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richieste di prove, col senno di poi, superflue) e scritti difensivi prevedibilmente piùlunghi, etc. Inutile aggiungere altresì che tale seconda concezione del processopresuppone un’idea di centralità maggiormente spostata sul giudice, piuttosto che sulleparti [29].Con un simile modello processuale ben difficilmente si potrebbe conciliare una nuovacontestazione in grado di appello; e ciò in quanto il vero destinatario della regola nonsarebbe la parte che ha affermato un fatto (che sarebbe esonerata dall’onere diprovarlo), ma semplicemente il giudice (che sarebbe esonerato dall’ammettere le provegià richieste, relative a fatti pacifici).

3. I fatti primari e secondari: una distinzione tralaticia?Va a questo punto esaminata l’affermazione giurisprudenziale [30] che l’onere diimmediata contestazione riguarderebbe i soli «fatti primari (cioè costitutivi,modificativi, impeditivi od estintivi del diritto fatto valere in giudizio dall’attore o dalconvenuto che agisca in riconvenzionale)»e non anche i «fatti secondari – vale a direquelli dedotti in mera funzione probatoria»i quali potrebbero «contestarsi in ognimomento»e dunque anche in appello. La distinzione in questione, recentemente messa in discussione dalla giurisprudenza dilegittimità proprio a seguito della novella dell’art. 115 c.p.c. [31], non appare del tuttocondivisibile, proprio sulla base delle premesse concettuali che appaiono ispirare ladecisione della stessa Cass. civ. n. 4854 del 2014.L’aver correlato la contestazione alla corretta delimitazione dell’attivitàistruttoria avrebbe dovuto comportare, a nostro avviso, il venir meno di ogni differenza– ai nostri fini – tra fatti primari e secondari (distinzione che pare afferente, più chealtro, al rapporto tra contestazione ed emendatio libelli).Se una simile distinzione può avere una certa coerenza intrinseca, in relazione alsistema delle preclusioni c.d. assertive, ed in particolare al divieto di nova in appello,tale coerenza appare molto meno solida e dai confini meno certi, appena la si devecoordinare alle altrettanto accentuate preclusioni istruttorie.Consentire alla parte una contestazione tardiva anche di un fatto dedotto ex adverso afini istruttori, vuol dire ribaltare sulla controparte l’onere di dimostrare la contrappostaaffermazione. Per tornare agli schemi e modelli processuali, cui si è fatto cenno alprecedente paragrafo, ciò ha una sua coerenza se si accoglie la concezione della

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contestazione come elemento intrinseco alla formazione del thema decidendum e delthema probandum; e non anche – come sembra aver fatto, invece, il legislatore attuale,specie nel processo del lavoro – la contrapposta visione della non contestazione comelimite estrinseco all’onere della prova.Ad ogni modo, ribadiamo, qualora dovesse ammettere la contestazione tardiva, ilgiudice dovrebbe utilizzare i suoi poteri istruttori d’ufficio o rimettere quantomeno intermini la parte, perché possa articolare tutti quei mezzi di prova necessari a vincere lanuova contestazione avversaria.

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Riferimenti bibliografici[1] Tra i tanti Autori che hanno affrontato la tematica: G. BALENA, Istituzioni didiritto processuale civile, II ed. , Bari, 2012, 87 ss.; P. CALAMANDREI, Istituzioni didiritto processuale civile secondo il nuovo codice. Parte prima, Disposizioni Generali(le persone del processo), Padova, 1943, 114 ss.; M. CAPPELLETTI, L’eccezionecome controdiritto del convenuto, in Riv. dir. proc., 1961, 266 ss.; G. CHIOVENDA,Principii di diritto processuale civile - Le azioni. Il processo di cognizione, Napoli,1965 (rist. an.), 264 ss.; G. CHIOVENDA, Sulla eccezione, in Saggi, I, 149 ss.; L.CIFFO BONACCORSO, L’eccezione nel sistema della difesa del convenuto, in Giur.it., 1959, I, I, 1193 ss.; V. COLESANTI, Eccezione (dir. proc. civ. ), in Enc. dir., vol.XV, 1965, 172 ss.; C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, vol. I, Letutele: di merito, sommarie ed esecutive, II ed., Torino, 2012, 219 ss.; E. CORTESE,Eccezione (dir. intermedio), in Enc. dir., vol. XV, 1965, 139; S. COSTA, Eccezione(diritto vigente), in Nuovo D.I., 1957, vol. VI, 349 ss.; G. FABBRINI, Eccezione, inEnc. giur., vol. XII, 1989, 1 ss.; V. DENTI, L’eccezione del processo civile,in Riv. trim.dir. proc., 1961, 22 ss.; F. ESCOBEDO, L’eccezione in senso sostanziale,Milano, 1927,3 ss; G. FABBRINI, L’eccezione di merito nello svolgimento del processo dicognizione,in Studi in memoria di C. Furno, Milano, 1973, 247;E.T. LIEBMAN,Intorno ai rapporti tra azione ed eccezione, in Riv. dir. proc., 1960, 446 ss.; E.T.LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile. Principi, VII ed., a cura di V.COLESANTI-E. MERLIN-E. F. RICCI, Milano, 2007, 157 ss.; F.P. LUISO, Dirittoprocessuale civile, I, Principi generali, VI ed., Milano, 2011, 249 ss.; G.I. LUZZATTO,Eccezione (dir. romano), in Enc. dir., vol. XV, 1965, 135 ss.; C. MANDRIOLI, Dirittoprocessuale civile, I, Nozioni introduttive e disposizioni generali, XXII ed., a cura di A.CARRATTA, 149 ss.; A. MOTTO, Poteri giurisdizionali e tutela sostanziale, Torino,2012, 203 ss.; R. ORIANI, Postilla di aggiornamento, in Enc. giur., vol. XII, 2000, 1ss.; R. ORIANI, Eccezione, in Dig. civ., vol. VII, 1991, 262 ss; S. PUGLIATTI,Eccezione (teoria generale), in Enc. dir., vol. XV, 1965, 151 ss.; E. REDENTI, Dirittoprocessuale civile, I, Nozioni e regole generali, Milano, 1957, 55 ss.; S. SATTA, Deipoteri del giudice (sub art. 112),in Commentario al codice di procedura civile,I, disposizioni generali, 1966, 429 ss.; F. RUSSO, Contributo allo studio dell’eccezionenel processo civile I) - Concetti generali, Roma, 2013, 5 ss; G. VERDE, Dirittoprocessuale civile, 1. Parte generale, III ed., Bologna, 2012, 112 ss.; M. T.

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ZANZUCCHI, Diritto processuale civile, I, 1964, 196 ss.[2] Distinguono, sul piano terminologico, eccezioni in senso lato e mere difese, tra glialtri: R. ORIANI, Eccezione, Postilla di aggiornamento, in Enc. giur., vol. XII, 2000, 1ss.; R. ORIANI, Eccezione, in Dig. civ., vol. VII, 1991, 262 ss.; E. T. LIEBMAN,Manuale di diritto processuale civile. Principi, VII ed., a cura di V. COLESANTI-E.MERLIN-E. F. RICCI, Milano, 2007, 157 ss. Riconducono, invece, ad un’unicamacrocategoria difese ed eccezioni in senso lato, tra gli altri: G. CHIOVENDA,Principii di diritto processuale civile - Le azioni. Il processo di cognizione,Napoli, 1965(rist. an.), 264 ss.; G. CHIOVENDA, Sulla eccezione, in Saggi, I, 149 ss.; G.CHIOVENDA, Prefazione a F. ESCOBEDO, L’eccezione in senso sostanziale, Milano,1927, IV; E. REDENTI, Diritto processuale civile, I Nozioni e regole generali, Milano,1957, 55 ss.; S. SATTA, Diritto processuale civile, Padova, 1967, 148-150; E.REDENTI, Diritto processuale civile, I Nozioni e regole generali, Milano, 1957, 55 ss.V. anche le disamine di C. PUNZI, Il processo civile, Sistema e problematiche,Torino,2010, 221 ss.; V. COLESANTI, Eccezione (dir. proc. civ.),in Enc. dir., vol. XV, 1965,172 ss., nonché le recentissime osservazioni di A. Motto, Poteri giurisdizionali e tutelasostanziale, Torino, 2012, 203 ss. La giurisprudenza, normalmente, propende per uncriterio meramente formale e funzionale della classificazione delle difese del convenuto,considerando sinonimi le locuzioni eccezioni in senso lato e mere difese (collegate dalcomune denominatore di essere rilevabili d’ufficio) ed eccezioni in senso stretto quellededucibili a sola istanza di parte. Ciò, del resto, appare del tutto coerente, dal momentoche non è compito della giurisprudenza definire categorie dogmatiche, ma risolvereproblemi pratici e concreti, quale è quello della rilevabilità o meno d’ufficio di unaeccezione. Definiamo questo criterio come procedurale, come si è visto supra al par.III. 1. Cass. civ. 10 ottobre 2013, n. 414; Cass. civ. 9 gennaio 2013, n. 350; Cass. civ. 24ottobre 2012, n. 18195; Cass. civ. 19 ottobre 2012, n. 18068; Cass. civ. 13 gennaio 2012, n. 409.[3] Sul punto v. F. Russo, Contributo allo studio dell’eccezione, cit.,cap. II, III, IV.[4] Cfr. G. CHIOVENDA, Prefazione a F. ESCOBEDO, L’eccezione in sensosostanziale, cit., VI.[5] Non di rilievo d’ufficio si tratta, ma della piena estrinsecazione della funzionegiurisdizionale dello ius dicere. [6] È pur vero che non è operazione concettualmente impossibile ricondurre anche il

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potere-dovere del giudice di accertare i fatti alla regola iura novit curia. Il giudice,proprio perché può e deve applicare d’ufficio la regula iuris, dovrà applicare d’ufficio,anche in caso di contumacia del convenuto, l’art. 2697 c.c., che fissa, appunto, l’oneredella prova. Tuttavia tale reconductio apparirebbe, a nostro avviso, forzata, dalmomento che la regola dell’onere della prova è stata consacrata in una norma di legge,proprio in applicazione dell’obbligo del giudice di accertare i fatti. L’operazione inparola dimostrerebbe, a ben vedere, semplicemente che il nostro è un ordinamento dicivil law, in cui è la legge a dettare le regole e fissare i principii. Del resto, su questopiano, anche l’inesistenza in punto di fatto potrebbe essere ricondotta alla violazione diuna norma giuridica, e precisamente di quella che definisce l’istituto exadverso invocato. Riteniamo, come detto, l’operazione artificiosa e non utile.[7] La norma in esame ha avuto, come noto, un iter particolarmente travagliato.Originariamente (stando a quanto si legge dalla relazione illustrativa) la modificadell’art. 115 era correlata a quella dell'art. 88, che avrebbe dovuto introdurre un obbligodella parte di chiarire i fatti in modo veritiero e corretto, analogamente a quanto previstodal § 138 ZPO tedesca. Nella relazione illustrativa si legge che le surrichiamentemodifiche sono tra le più significative e “sommamente importanti”. Esse, nelleintenzioni dei conditores, si sarebbero ispirate alla «valorizzazione del comportamentoprocessuale delle parti, alle quali si chiede – nell’ottica dei principi costituzionali delgiusto processo e della ragionevole durata dello stesso – di consentire chel’accertamento dei fatti di causa venga compiuto senza inutili dilazioni e senzaricorrere all’abuso degli strumenti processuali messi a disposizione dall’ordinamento.In quest’ottica si è ritenuto opportuno aggiungere, all’articolo 88 del codice, unanorma di principio che obbliga le parti – non solo a prendere posizione sui fatti allegatidall’altra parte, come già previsto ad es. dall’articolo 167, 1° co. c.p.c. – ma a chiarirele circostanze di fatto rilevanti ai fini della decisione in modo leale e veritiero. Ladisposizione non è destinata a rimanere una mera norma di principio, in quanto ilgiudice terrà conto dell’inosservanza del dovere di lealtà e correttezza non solo ai finidella condanna alle spese (già prevista dall’articolo 92, 1° co. c.p.c. ), ma anche ai finidell’accertamento della responsabilità processuale aggravata (articolo 96 c. p. c. ) edeventualmente anche ai fini dell’accertamento dei fatti (secondo il principio, contenutonell’articolo 116, 2° co. c.p.c., per cui il giudice può desumere argomenti di prova dalcontegno tenuto dalle parti durante il processo). In ogni caso, questa disposizione

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(tratta dal codice di procedura civile tedesco) è sommamente importante perchécostituisce specificazione e rafforzamento dell’obbligo di leale collaborazione».Cfr. Relazione alla legge 69 del 18 giugno 2009, pubblicata in G.U. 19 giugno 2009, n.140. Per una specifica trattazione sull’argomento v. G. BALENA, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile (un primo commento della legge n. 18 giugno 2009, n. 69),in www. judicium. it,2009, ed in part. . 776; G. BALENA, in G. BALENA-R. CAPONI-A. CHIZZINI-S. MENCHINI, La riforma della giustizia civile, Torino 2009, 32 ss.; V.BATTAGLIA, Le preclusioni nel processo ordinario di cognizione in Tribunale,Torino, 2012, 282 ss.; S. BOCCAGNA, Le modifiche al primo libro del c.p.c., inAA.VV., Le norme sul processo civile nella legge per lo sviluppo economico, lasemplificazione e la competitività, Napoli, 2009, 35; C. CAVALLINI, La noncontestazione nell’arbitrato, in Riv. arb., 2009, 55 ss.; C.M. CEA, La modificadell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio di non contestazione, in Foro it.,2009, V, 268 ss.; C. CONSOLO-M. DE CRISTOFARO, Codice di procedura civile, Lariforma del 2009, Milano, 2009, sub art. 115; G.F. RICCI, La riforma del processocivile, Torino, 2009, 39 ss.; B. SASSANI, Commento all’art. 115, in A. SALETTI-B.SASSANI, Commentario alla riforma del codice di procedura civile, Torino, 2009, 66ss.; B. SASSANI, L’onere della contestazione, in www. judicium. it, 2010.[8] V. le convincenti osservazioni di G. MONTELEONE, Manuale di dirittoprocessuale civile, vol. I, Padova, 2012, 266 ss. e 421 ss.; in giurisprudenza un primoorientamento dei tribunali di merito pare indirizzato nel negare portata innovativa allanorma, considerandola la mera enunciazione di un principio già esistente. Ne è stataconseguentemente affermata l’applicabilità anche alle controversie sorte anteriormentealla riforma del 2009: Trib. Piacenza, 23 febbraio 2012, n. 114; T.A.R. Catanzaro(Calabria), 8 aprile 2011, n. 498, in Foro amm.-TAR, 2011, 4, 1400 (s.m.); Trib.Piacenza, 2 febbraio 2010, n. 81 in Giur. mer., 2010, 5, 1322 (s. m.), con nota diPAPAGNI; contra: Trib. Catanzaro, 18 gennaio 2011, in Giur. mer., 2012, 3, 590 (s.m.). Per una disamina v. V. anche G. BALENA, La nuova pseudo-riforma dellagiustizia civile (un primo commento della legge n. 18 giugno 2009, n. 69), cit., ibidem;G. BALENA, in G. BALENA-R. CAPONI-A. CHIZZINI-S. MENCHINI, La riformadella giustizia civile, cit., ibidem; V. BATTAGLIA, Sull’onere del convenuto di“prendere posizione” in ordine ai fatti posti a fondamento della domanda (riflessionisull’onere della prova),in Riv. dir. proc., 2009, 1512 ss.; S. BOCCAGNA, Le modifiche

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al primo libro del c.p.c., cit., ibidem; C. CAVALLINI, La non contestazionenell’arbitrato, cit., ibidem; C.M. CEA, La modifica dell’art. 115 c. p. c. e le nuovefrontiere del principio di non contestazione, cit., ibidem; C. CONSOLO-M. DECRISTOFARO, Codice di procedura civile, La riforma del 2009, cit., ibidem; G.F.RICCI, La riforma del processo civile, cit., ibidem; F. SANTANGELI, La noncontestazione come prova liberamente valutabile,in www. judicium. it, 2010; B.SASSANI, Commento all’art. 115, cit., ibidem; B. SASSANI, L’onere dellacontestazione, cit., ibidem;M. TARUFFO, I fatti non contestati e il nuovo art. 115 c.p.c., in ID. (a cura di), Il processo civile riformato, Bologna, 2010, 183 ss.; A. TEDOLDI,La non contestazione nel nuovo art. 115 c.p.c., in Riv. dir. proc.,2011, 76 ss.; Circa ilvalore della non contestazione,anteriormente alla riforma del 2009 cfr. Cass. civ. 23gennaio 2002, n. 761, in Giust. civ., I, 2002, 1245, con nota di M. FABIANI, Il valoreprobatorio della non contestazione del fatto allegato; C. DI IASI, La mancatacontestazione dei fatti nella ricostruzione della giurisprudenza di legittimità ed alla lucedei principi costituzionali in materia processuale, in Giur. mer., 2008, 23 ss.; A.PROTO PISANI, Ancora sulla allegazione dei fatti e sul principio di non contestazionenei processi a cognizione piena, in Foro it., I, 2006, 3143 ss.[9] Quasi, si fas est, una vischiosità dell’interpretazione preesistente, che ha portato aduna interpretazione pressoché abrogatrice del dato normativo. Cfr. Trib. Catanzaro, 18gennaio 2011, in Giur. mer., 2012, 3, 590 (s.m.), secondo cui il difetto di contestazioneimplicherebbe l'ammissione dei fatti dedotti in giudizio solo relativamente ai fatti cd.principali, ossia costitutivi del diritto azionato, mentre per i fatti cd. secondari, ossiadedotti in esclusiva funzione probatoria, la non contestazione costituirebbe argomentodi prova ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c.[10] Va da sé che, in linea teorica, il giudice non dovrebbe ammettere provetestimoniali, necessarie per dimostrare fatti non specificamente contestati dalle parti.[11] In termini sostanzialmente analoghi: Trib. Bergamo 19 ottobre 2011.[12] In termini sostanzialmente analoghi v. Trib. Monza, 29 settembre 2010, in Giur.mer., 2011, 12, 3115 (s. m.), con nota di: PAPAGNI, con l’importante e condivisibileprecisazione che tale relevatio,fondandosi sulla disponibilità dei diritti, potrà operaresolamente per quanto concerne i diritti disponibili, mentre per i diritti indisponibili lanon contestazione potrà essere valutata come mero argomento di prova, ai sensidell’art. 116 c.p.c. In termini sostanzialmente analoghi v. V. BATTAGLIA, Le

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preclusioni nel processo ordinario di cognizione in Tribunale, cit., 285.[13] G. MONTELEONE, Manuale di diritto processuale civile, cit., 461; S. SATTA,Commentario al codice di procedura civile, II, 1, 1966, 212 ss.; F. CARNELUTTI, LaProva civile, Milano, 1992, 44 ss.[14] Prima fra tutte: quale è il termine ultimo per potere contestare il fatto: la primamemoria successiva? O – come a noi sembra più corretto – l’udienza ex art. 183 c.p.c., ola sua appendice scritta, data dal secondo termine di cui al sesto comma (ultimomomento, salva rimessione in termini, per potere precisare i fatti). Sui termini entro iquali è possibile contestare i fatti e sui limiti circa l’ammissibilità di una contestazionetardiva v. Trib. Varese, 14 ottobre 2011 in Giur. mer., 2012, 1, 94 (secondo cui, esauritala fase dell’ammissione delle prove, sarebbe consentita la contestazione solo il presenzadei presupposti per la rimessione in termini). Si rinvia per una trattazione alla dottrinasopra citata, ed in particolare: Per una specifica trattazione sull’argomento v. G.BALENA, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile (un primo commentodella legge n. 18 giugno 2009, n. 69), cit., ibidem; G. BALENA, in G. BALENA-R.CAPONI-A. CHIZZINI-S. MENCHINI, La riforma della giustizia civile, cit., ibidem;S. BOCCAGNA, Le modifiche al primo libro del c.p.c., cit., ibidem; C.CAVALLINI, La non contestazione nell’arbitrato, cit., ibidem; C. M. CEA, Lamodifica dell’art. 115 c.p.c. e le nuove frontiere del principio di non contestazione,cit., ibidem; C. CONSOLO-M. DE CRISTOFARO, Codice di procedura civile, Lariforma del 2009, cit., ibidem; G.F. RICCI, La riforma del processo civile, cit., ibidem;B. SASSANI, Commento all’art. 115., cit., ibidem; B. SASSANI, L’onere dellacontestazione, cit., ibidem. [15]Si pensi all’utilizzo, assai invalso nella prassi forense specie nei decenni scorsi, diformule del tipo: “ritenuto impugnativamente tutto quanto dedotto ex adverso”,o “sicontesta tutto quanto dedotto da controparte”, etc. Non pare, invece, che la leggerichieda anche che la contestazione sia argomentata, i. e. che la parte spieghi per qualemotivo contesta la prospettazione avversaria, né la lingua italiana autorizza aconsiderare come non specifica una contestazione esplicita di un fatto (“non mi trovavoa Roma il giorno 20 agosto 2013”, sol perché non motivata). La contestazione, inoltre,può mantenere il carattere di specificità, anche se formulata in modo indiretto, i. e. se laparte, pur non contestando esplicitamente il fatto allegato ex adverso,deduca a sua voltal’esistenza di un fatto incompatibile col primo (e.g., seguendo l’esempio precedente, il

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convenuto pur non negando esplicitamente la sua presenza a Roma il giorno 20 agosto,affermi che quel giorno si trovava a Napoli). La specificità della contestazione va, poi,ovviamente valutata in ragione alla natura del fatto dedotto, e della sua effettivaconoscenza o conoscibilità in capo alla controparte. Si pensi a queste due differentiipotesi: a) l’attore afferma che il convenuto ha danneggiato la vetrina del suo negozio.Si tratta di un fatto che il convenuto deve necessariamente conoscere. Il grado dispecificità richiesto alla contestazione sarà, in questo caso, massimo. Si pensi, però, aquesto differente caso: b) Tizio, passeggero di un volo con il vettore Caio, allega che lacompagnia gli ha smarrito il bagaglio contenente gli oggetti x, y e z. Il vettore,ovviamente, non può avere esatta conoscenza del contenuto del bagaglio di Tizio,sicché – per evitare la relevatio ab onere probandi, nel senso da noi suggerito –saràsufficiente una sua generica contestazione circa l’effettivo contenuto del bagaglio, o– a nostro avviso –, anche la semplice affermazione che il contenuto del bagaglio nonpuò considerarsi provato.[16] F. RUSSO, Contributo allo studio dell’eccezione, cit., ibidem. L’originedell’eccezione viene fatta risalire – in accordo ai principali studi in materia – al dirittopretorio ed al processo formulare. Le exceptiones si configuravano allora come rimedispecifici introdotti dal pretore per correggere la rigidità del diritto civile, che avrebbeportato – in ipotesi particolari – a decisioni inique. Così, sulla base del diritto civile, ilcontraente il cui consenso fosse stato carpito con dolo avrebbe dovuto adempiere alnegozio giuridico. L’exceptio doli fu introdotta dal pretore per evitare, appunto, unasimile conseguenza. Sul piano formale le exceptiones venivano inserite nella fase in iuredopo l’intentio e prima della condemnatio e costituivano condizioni negative dellacondanna: il giudice avrebbe assolto se esse fossero risultate vere, condannato nel casocontrario. Il concetto di eccezione subì poi una evoluzione parallela alla trasformazionedel sistema romano che lo aveva concepito. Nell’età tardo-imperiale e giustinianea essoperse buona parte della sua connotazione originaria, parallelamente alla scomparsa delpretore ed alla progressiva osmosi tra ius civile e ius honorarium. Probabilmente èproprio a queste evoluzioni e reinterpretazioni che si deve, secondo l’autore, laprogressiva polisemia del vocabolo eccezione, cui ha fatto correlato riscontro una certaambiguità concettuale dell’istituto a partire dalla compilazione giustinianea (che eperché accorpava fonti diverse generate in diversi secoli) e dal diritto medievale (cheproprio la compilazione giustinianea tentava di interpretare ed armonizzare). Si deve,

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poi, probabilmente ai giuristi medievali avere delineato, per coordinare l’ampiezzasemantica che il vocabolo eccezione aveva assunto con l’individuazione del concetto, ladistinzione tra exceptio quandoque pointer large et quandoque pointer stricte (oltre allaulteriore distinzione tra exceptiones facti o intentionis ed exceptiones iuris o actionis)distinzione che è sopravvissuta ancor oggi nella dicotomia tra eccezioni in senso strettoe in senso lato.[17] Si pensi alla deduzione dell’avvenuto pagamento a fronte di una pretesa creditoria:nessuno può dubitare che un credito già estinto sia un non credito.[18] Per una disamina e una analisi della distinzione tra eccezioni–mere deduzioni di unfatto, eccezioni-impugnazioni ed eccezioni-facoltà di rifiutare l’adempimento, v. F.RUSSO, Contributo allo studio dell’eccezione, cit., ibidem. [19] Cass. civ. 28 febbraio 2014, n. 4854.[20] Cass. civ., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761; Cass. civ. 15 gennaio 2003, n. 535;Cass. civ. 15 maggio 2007, n. 11108; Cass. civ. 28 maggio 2007, n. 12363. In sensoparzialmente diverso Cass. civ., sez. lav., 16 novembre 2012, n. 20157, nella cuimassima ufficiale si legge che la contestazione sfugge alle preclusioni di cui all’art. 416c.p.c. e potrebbe essere svolta anche per la prima volta in appello; l’affermazione,tuttavia, non trova puntuale riscontro nella motivazione della sentenza (ove si affermasemplicemente il principio, assolutamente condivisibile, che la deduzione dell’avvenutarisoluzione del contratto, in forza di una clausola risolutiva già verificatasi, noncostituisce eccezione in senso stretto, e può essere rilevata anche d’ufficio. Per unadisamina sulla questione: F. RUSSO, Contributo allo studio dell’eccezione, cit., 141 e142). Sul punto cfr. C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, III, I procedimentispeciali l’arbitrato e la mediazione, Torino, 2012, 235 ss.[21] Cfr. G. MONTELEONE, Manuale di diritto processuale civile, cit., 751 ss.[22] Pleonastica (se non proprio offensiva nei confronti della magistratura italiana)l’ulteriore precisazione contenuta nell’art. 420 c.p.c., comma 5 (e reiterata, per quantoconcerne l’appello nel c.d. processo sommario di cognizione, dall’art. 702-quater c.p.c.,nel testo antecedente la riforma del 2012) «se ritiene che siano rilevanti»; come se vifosse un reale pericolo che i giudici italiani potessero ammettere prove irrilevanti ai finidel decidere, al solo fine di dilatare i tempi del processo.[23] Cass. civ. 21 agosto 2006, n. 18206.[24] Cass. civ. 30 agosto 2005, n. 17513.

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[25] C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, III, cit., I procedimenti specialil’arbitrato e la mediazione, Torino, 2012, 245 ss.[26] Cass. civ. 5 settembre 1985, n. 4638[27] Cass. civ. 28 febbraio 2014, n. 4854.[28] G. MONTELEONE, Limiti alla proponibilità di nuove eccezioni in appello, in Riv.dir. civ., I, 1983, 714-715.[29] In tale prospettiva, la tardiva contestazione di un fatto, tanto primario chesecondario, si porrebbe in contrasto con la ragionevole durata del processo (art. 111Cost.), dal momento che costringerebbe il giudice a riaprire l’istruttoria, ammettendonuovi mezzi di prova che – fino a quel momento – il silenzio della parte aveva resosuperflui.[30] Cass. civ. 28 febbraio 2014, n. 4854.[31] Cass. civ., sez. un., 29 maggio 2014, n. 12065.

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