forum 2018: il valore sociale nell’era della rivoluzione ... · ripensare il modello di...

57
1 Fondazione EY Italia Onlus Forum 2018: Il valore sociale nell’era della rivoluzione digitale: innovazione, responsabilità, competenza e rete "Fatigate per il vostro interesse; niuno uomo potrebbe operare altrimenti, che per la sua felicità; sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l’altrui miseria; e se potete, e quanto potete, studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse, tanto più, purché non si sia pazzi, si debb’esser virtuosi. È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri" Antonio Genovesi

Upload: vuongtuyen

Post on 16-Feb-2019

212 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

1

Fondazione EY Italia Onlus

Forum 2018: Il valore sociale nell’era della rivoluzione digitale: innovazione, responsabilità, competenza e rete

"Fatigate per il vostro interesse; niuno uomo potrebbe operare altrimenti, che per la sua felicità; sarebbe un uomo meno uomo: ma non

vogliate fare l’altrui miseria; e se potete, e quanto potete, studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse, tanto più,

purché non si sia pazzi, si debb’esser virtuosi. È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri"

Antonio Genovesi

2

CONTENUTI

PREFAZIONE .................................................................................................................................................................................. 4

DONATO IACOVONE, AMMINISTRATORE DELEGATO DI EY IN ITALIA E MANAGING PARTNER DELL’AREA MEDITERRANEA ...............................................4

INTRODUZIONE.............................................................................................................................................................................. 5

L'IMPROROGABILITÀ DI UN CAMBIO CULTURALE DEL TERZO SETTORE E LA NECESSITÀ DI DEFINIRE UN NUOVO PARADIGMA PER MIGLIORARE LA CATENA DEL VALORE ............................................................................................................................................ 5

I WORKSHOP ................................................................................................................................................................................. 7

LA PRIMA LEVA PER LO SVILUPPO: FARE SISTEMA E COSTRUIRE ALLEANZE DI SUCCESSO, CON UNA GOVERNANCE IN GRADO DI METTERE INSIEME DIVERSI ATTORI: IMPRESE, REALTÀ DEL TERZO SETTORE, P.A., UNIVERSITÀ ..................................................................................................................................7

Il rapporto profit-non profit: il valore della contaminazione. Ripensare il modello di collaborazione e co-progettazione ..............................................................................................................................................................................7 Il ruolo imprescindibile della PA nella governance di interventi sui territori e nel coordinamento delle attività .11

LA SECONDA LEVA: PENSARE DIGITALE ..........................................................................................................................................................12 Analizzare e sistematizzare la moltitudine di dati, organizzare le banche dati e le piattaforme di collaborazione ......................................................................................................................................................................................................12 Formulare previsioni accurate circa l’impatto sociale e la redditività dell’investimento, progettare attività e servizi utili, efficaci e innovativi a costi competitivi ..........................................................................................................14 Migliorare le competenze, l’organizzazione e la gestione delle risorse interne per rinforzare l’identità e per facilitare, attraverso la comunicazione, il proprio posizionamento e la propria immagine .......................................15 Gestire in modo organizzato e strategico la rete dei donatori, divulgare i risultati raggiunti, facilitare le interazioni al fine di ampliare i contatti. Il fundraising attraverso l’analisi dei donatori può divenire più mirato ed efficace ..................................................................................................................................................................................17 Il digitale, asset chiave per fare sistema e condividere le best practice .......................................................................18

LA TERZA LEVA: L’IMPATTO COME CRUSCOTTO DI GUIDA...................................................................................................................................19 L'impatto come cruscotto di guida per il Terzo Settore per valutare le attività, migliorare le performance, verificare l'efficacia delle azioni ............................................................................................................................................19 La sostenibilità, concetto chiave nella valutazione degli investimenti ..........................................................................21

LA QUARTA LEVA: FORMAZIONE E SVILUPPO DELLE COMPETENZE ........................................................................................................................23 Rafforzare le competenze necessarie per la nuova era digitale e per la gestione d’impresa, con particolare attenzione alle competenze soft, tipiche del Terzo Settore, e i "mestieri tradizionali" del Made in Italy .............23 Le competenze come conoscenze in azione: il valore dell’esperienza sul campo e dell’attenzione ai bisogni. "Saper fare per saper dare" ...................................................................................................................................................25 Il Terzo Settore laboratorio di innovazione, anche in ambito lavoristico ......................................................................26 Le nuove figure necessarie e le opportunità di lavoro per i giovani nate dal cambio generazionale .......................26

IL FORUM .................................................................................................................................................................................... 27

MASSIMILIANO TARANTINO, CEO FONDAZIONE FELTRINELLI ..........................................................................................................................27 PAOLO VENTURI, DIRETTORE DI AICCON, UNIVERSITÀ DI BOLOGNA - ‘IL SOCIALE COME RIGENERATORE DI VALORE: OPPORTUNITÀ E SFIDE PER BANCHE, IMPACT INVESTORS E FILANTROPI’ ..............................................................................................................................................................28 PRIMA TAVOLA ROTONDA: AUMENTARE L’IMPATTO SOCIALE DI ORGANIZZAZIONI NON PROFIT, IMPRESE, AMMINISTRAZIONI: IL DIGITALE E LA FINANZA SOCIALE

COME LEVE STRATEGICHE ..........................................................................................................................................................................32 Luca De Biase, Nova 24 - Il Sole 24 ore ...............................................................................................................................32 Vincenzo Algeri, Responsabile Area UBI Comunità ...........................................................................................................32 Luciano Balbo, Fondatore Oltre Venture, prima società di venture capital sociale in Italia .....................................34 Carola Carazzone, Segretario Generale Assifero ...............................................................................................................34 Marco Gerevini, Consigliere Fondazione Social Venture Giordano dell’Amore ............................................................35

3

Federico Mento, Segretario Generale Social Value Italia e Direttore Human Foundation .........................................36 Marco Morganti, CEO Banca Prossima .................................................................................................................................37 Carlo Segni, Lead Financial Officer The World Bank (da luglio 2018 Cassa Depositi e Prestiti) ..............................38 Cristina Tajani, Assessore a Politiche del lavoro, Attività produttive, Commercio e Risorse umane, Comune di Milano ..........................................................................................................................................................................................39

ENRICO GIOVANNINI, PORTAVOCE DELL'ALLEANZA ITALIANA PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE..................................................................................41 SECONDA TAVOLA ROTONDA: LA SOSTENIBILITÀ COME OPPORTUNITÀ DI INCREMENTO OCCUPAZIONALE DI QUALITÀ, DI SVILUPPO DI NUOVE COMPETENZE E

NUOVE FORME DI LAVORO PER PRODURRE PIÙ VALORE ECONOMICO E SOCIALE ......................................................................................................43 Nicola Saldutti, Corriere della Sera, Buone Notizie ...........................................................................................................43 Alessandro Beda, Consigliere Delegato Fondazione Sodalitas ........................................................................................43 Giuseppe Bruno, Vice Presidente Gruppo Cooperativo CGM ...........................................................................................44 Marzia Masiello, in sostituzione di Claudia Fiaschi Portavoce del Forum Nazionale Terzo Settore ........................45 Serena Porcari, Presidente Dynamo Academy Impresa Sociale .....................................................................................45 Fabrizio Sammarco, Amministratore Delegato ItaliaCamp ..............................................................................................47 Rossella Sobrero, Professore di Comunicazione sociale all’Università degli Studi di Milano ...................................48

MARIO CALDERINI, PROFESSORE ORDINARIO E DIRETTORE DEL CENTRO DI RICERCA TIRESIA PRESSO LA SCHOOL OF MANAGEMENT DEL POLITECNICO DI

MILANO ...............................................................................................................................................................................................49 RICCARDO PATERNÒ, PRESIDENTE FONDAZIONE EY ......................................................................................................................................51 MESSAGGIO ISTITUZIONALE .................................................................................................................................................................51

Claudio Cominardi, Sottosegretario di Stato per il Lavoro e le Politiche Sociali .........................................................51

UNA LETTURA DI SINTESI ............................................................................................................................................................. 53

HANNO PARTECIPATO ................................................................................................................................................................. 55

I RELATORI ................................................................................................................................................................................... 57

4

PREFAZIONE

Donato Iacovone, Amministratore Delegato di EY in Italia e Managing partner dell’area Mediterranea

Buongiorno a tutti e benvenuti a questo Forum nel quale approfondiremo alcuni temi emersi nel corso dei sette workshop e le due tavole rotonde (una sulla finanza sociale, l'altra sul digitale nel settore del sociale), temi che sostanzialmente attengono ai profondi cambiamenti che stanno impattando il Terzo Settore. Come tutti sanno, in Italia il Terzo Settore svolge un ruolo chiave nella costruzione culturale ed economica del Paese: le iniziative sono numerosissime e altrettante lo sono le Associazioni che sono protagoniste del mondo non profit. Parliamo di più di sei milioni di persone, tra volontari e dipendenti, una realtà enorme che è presente a macchia di leopardo, coerentemente con gli altri elementi del quadro economico generale e con la situazione delle diverse aree territoriali nazionali. Ciononostante, si ha sempre la sensazione che bisognerebbe fare di più, e purtroppo con risorse che sembrano sempre essere insufficienti, perché da un lato emergono sempre nuovi bisogni, e dall’altro le risorse messe in campo non sempre riescono a tenere il passo di queste nuove esigenze e sensibilità culturali ed etiche. E non a caso parlo di “nuove” sensibilità, perché in EY abbiamo un punto di osservazione privilegiato che ciò ci conferma. Ogni anno, infatti, assumiamo in Italia poco meno di 1.500 persone, e da questa vastissima platea di giovani emerge che in cima ai loro interessi, vi è sempre più l’attenzione al sociale e alla sostenibilità. Passando al tema più concreto di ciò che noi facciamo, la Fondazione EY ha creato diversi anni fa un’orchestra giovanile che si esibisce varie volte l’anno in giro per l’Italia: l’ultimo concerto è stato a Napoli a Giugno, ed il prossimo sarà a Brescia a Dicembre. Ogni concerto ha due distinti, ma correlati scopi. Il primo, è quello di far suonare questi ragazzi che, grazie al nostro contributo, possono acquisire esperienze, farsi conoscere, migliorare e crescere. Il secondo, è quello di raccogliere, grazie a questi concerti, dei fondi che vanno a beneficio di altri giovani che hanno avuto problemi di qualsiasi tipo, dall'abbandono scolastico, a qualsiasi altra difficoltà. In particolare, noi selezioniamo dei progetti che altre Fondazioni o Associazioni portano avanti, e li finanziamo. Quindi diamo una opportunità ai ragazzi che suonano, e tramite loro, diamo una altra opportunità a altri ragazzi che o hanno avuto problemi che il nostro aiuto può aiutare a risolvere, o hanno semplicemente voglia di misurarsi con il mondo per far valere le loro qualità e sperare di emergere. E noi li aiutiamo a realizzare il loro sogno. Ciò detto, portando avanti la nostra Fondazione, ci siamo sempre più resi conto che l’impatto dell’insieme di tutti gli Attori che operano nel Terzo Settore e che si muovono sul territorio nazionale, sarebbe molto maggiore se si riuscisse a fare sistema. Viceversa, fare sistema è un fenomeno abbastanza raro perché le Fondazioni e le Associazioni si parlano poco, come d'altronde accade per le aziende. Questo è il Paese del ‘piccolo è bello’ e soprattutto ‘faccio io tutto in casa’. Ma è difficile fare progetti significativi - anche nel sociale - senza fare sistema. Le sfide di questo settore, quindi, sono anche le sfide che tutto il Paese deve affrontare in tutti i campi delle attività economiche e sociali. Da una parte, bisogna fare sistema perché mettersi insieme dà la possibilità di predisporre progetti che hanno un impatto sul territorio, sul sociale, sulle persone, molto più grande di quello che può avere un'unica iniziativa. Dall’altra parte, bisogna abbracciare le nuove tecnologie, perché non solo il fundraising del domani passerà sempre più per il web, ma se si vogliono intercettare tutti i giovani di questa generazione, è grazie al web che si potrà carpire la loro attenzione e ottenere il loro contributo, magari attraverso il volontariato. Il web è quindi un passaggio fondamentale anche per questo settore: per le risorse finanziarie, per svolgere le varie attività e per comunicare. Ed a questo proposito, vorrei aggiungere che i numeri del Terzo Settore sono una sorpresa perché questo è un settore che comunica molto alla comunità a cui appartiene e in cui opera, ma comunica poco alla popolazione. Ed invece, quello della comunicazione è un tema chiave, perché bisogna coinvolgere di più le persone e far sì che chi è coinvolto sia a sua volta anche comunicatore che porti in giro per l’Italia il messaggio di quello che si sta realizzando.

5

In conclusione, bisogna recuperare efficienza, direi che bisogna puntare a tre “più”: più “fare sistema”, più comunicazione, più utilizzo delle tecnologie, anche di quelle che sembrano più lontane, come la robotica, l'Artificial Intelligence, gli analytics e la lettura dei dati. Tutto ciò, semplicemente, aiuterà a fare meglio di oggi, quello che già oggi facciamo. E questi Workshop lo hanno fatto emergere.

INTRODUZIONE

L'IMPROROGABILITÀ DI UN CAMBIO CULTURALE DEL TERZO SETTORE E LA NECESSITÀ DI DEFINIRE UN NUOVO PARADIGMA PER MIGLIORARE LA CATENA DEL VALORE Se nel passato, “un futuro sostenibile” rappresentava una priorità esclusivamente per il Terzo Settore, di recente esso è entrato nelle agende di tutti. Integrare la “sostenibilità” nel core business di un'azienda, infatti, si rivela sempre più spesso un fattore chiave per un successo duraturo, e per farlo è necessario orientare la propria visione temporale verso una dimensione più ampia: le imprese devono concentrarsi sul valore sociale prodotto dalle loro azioni con maggiore continuità e non più con una logica strumentale, e casomai solo in fase di report finale. Oggi si assiste a un rinascimento di temi e valori che purtroppo nella storia economica sono stati spesso accantonati: il sociale, ad esempio, non è più considerato effetto o esternalità della produzione, ma una sua premessa irrinunciabile. Esso sta diventando un elemento che entra a far parte della catena del valore delle imprese, ed è perciò l’esito di un dialogo fra la dimensione economica e quella etica. L’avvicinamento del sociale alla dimensione imprenditoriale sta creando, quindi, una nuova generazione di Istituzioni, ovvero imprese “intenzionalmente sociali” e organizzazioni non profit “intenzionalmente imprenditoriali”. Questo evidenzia che, oltre al rischio e al rendimento, ci sia una terza dimensione, quella etica, che diventa elemento fondante della nuova razionalità economico-finanziaria. Sta crescendo, in breve, la consapevolezza che le aziende possono contribuire in modo significativo al benessere dei propri lavoratori e, in alcuni casi, sopperire alle necessità che lo Stato non riesce a coprire, giocando nel welfare un ruolo di primo piano che viene ormai percepito come naturale dai cittadini e dalle aziende stesse perché considerato obiettivo complementare a quello di generare un profitto. L’impresa, insomma, non vuole più ‘fare beneficenza’, ma vuole realizzare interventi incisivi, che diano risposte a bisogni esistenti. In questo quadro si inserisce la nascita di nuovi modelli di relazione tra le imprese e le realtà in grado di farsi carico dei bisogni del territorio, organizzazioni che rappresentano il trait d'union tra i cittadini e i finanziatori. Costruire relazioni più strette fra le Imprese, la Pubblica Amministrazione e il Terzo Settore, tradizionalmente focalizzati sui bisogni dei più deboli, è dunque la chiave per generare insieme impatto sociale e valore condiviso. Allo stesso tempo, le realtà del Terzo Settore sono chiamate, anche a seguito della riforma, a pensare i loro interventi in termini diversi e a sviluppare una nuova progettualità. In uno scenario nel quale le risorse pubbliche sono sempre più ridotte, Imprese, Terzo Settore e Pubblica Amministrazione devono riorganizzarsi per fornire al welfare un supporto integrato ed efficace e produrre un impatto sociale misurabile che può avere, e di fatto ha, grandi potenzialità. A tal proposito, basti pensare che secondo il primo censimento delle istituzioni effettuato dall’ISTAT, le organizzazioni del Terzo Settore attive in Italia sono oltre 336.000 e complessivamente impiegano 5 milioni 529 mila volontari e quasi 800 mila dipendenti. Numeri che aumentano ogni anno nel nostro Paese, così come, ad esempio, in Regno Unito, Spagna, Francia, Germania. Si tratta quindi di un'occasione che non può essere sprecata, ma che deve essere messa a frutto per produrre valore. Un obiettivo, questo, cui le organizzazioni del Terzo Settore stanno puntando, viaggiando verso una contaminazione virtuosa tra profit e non profit. Al confine, sempre più sottile, fra questi due mondi, stanno nascendo perciò nuove realtà e nuove modalità di operare, ma tutto questo implica un cambio radicale di cultura e la definizione di nuovi

6

paradigmi, alcuni dei quali passano anche dalla valorizzazione delle opportunità offerte dal digitale. Il cambiamento disorienta sia le imprese sia il Terzo Settore ma, se affrontato con un approccio adeguato, può diventare una preziosa chance. Occorre, dunque, colmare prima di tutto un gap culturale per trarre opportunità dai cambiamenti. Uno degli elementi cruciali che contraddistinguono il concetto di sostenibilità, è che i pilastri della società - l'economia, le istituzioni, il sociale, l'ambiente - sono strettamente connessi e la contaminazione, nel bene e nel male, è già in atto. La sostenibilità espressa nell’Agenda 2030 può cambiare la cultura della società in meglio e i suoi obiettivi chiamano a raccolta non solo gli individui, ma anche le imprese, il mondo del sociale, la finanza. Un investitore è una persona che crede nel domani e la sostenibilità è la chiave attraverso cui possiamo immaginare un futuro migliore e, quindi, investire su di esso. Uno dei compiti chiave del Terzo Settore è quindi unire e mettere insieme diversi attori sociali per creare valore per la comunità. Poi, tutto ciò deve essere anche comunicato efficacemente, non fosse altro che per chiedere finanziamenti. Questo, però, è’ un approccio funzionale perché non si tratta più di chiedere dei fondi per un progetto più o meno importante, ma di innescare un processo che dia vita a nuovi approcci, culture e generazioni dal forte impatto. L'impresa sociale, oggi ancora di più, è il soggetto economico che non solo ha un'attenzione alle persone, alle fasce sociali deboli, ai servizi alla persona, ma ridistribuisce le economie utili a sostenere quel territorio. E dove c'è un'evoluzione che va nella direzione del cambiamento culturale nel fare impresa, aumenta il senso di responsabilità, e aumenta ancor più l'opportunità - anche e soprattutto per i giovani - di potersi avvicinare a un nuovo modello che diventa comune. Ciò significa, altresì, responsabilizzare i giovani a una nuova forma d'impresa che abbraccia gli interessi del Paese.

7

I WORKSHOP

LA PRIMA LEVA PER LO SVILUPPO: FARE SISTEMA E COSTRUIRE ALLEANZE DI SUCCESSO, CON UNA GOVERNANCE IN GRADO DI METTERE INSIEME DIVERSI ATTORI: IMPRESE, REALTÀ DEL TERZO SETTORE, P.A., UNIVERSITÀ

Il rapporto profit-non profit: il valore della contaminazione. Ripensare il modello di collaborazione e co-progettazione Sebbene la riforma del Terzo Settore sia in una situazione di stallo legata alle evoluzioni del nuovo Governo, e alcuni punti non siano ancora del tutto chiari, è possibile delineare alcune azioni necessarie per integrare in modo significativo le organizzazioni profit con quelle non profit. Occorre promuovere partnership e nuove modalità di collaborazione, adottando una modalità di co-progettazione utile per conoscersi e per capire i punti di forza sui quali si può essere reciprocamente utili per sviluppare progetti sostenibili che abbiano come obiettivo il ‘prendersi cura insieme’. Ovviamente, la strada non è facile perché, come afferma Guido Calvi, Fondazione AVSI: “non c’è ancora chiarezza sulle modalità di collaborazione attivabili tra Ong e imprese: fino a oggi abbiamo assistito ad attività di pura donazione dalle imprese, mentre è mancato un sistema integrato di sviluppo”. Tuttavia, ‘Creare una cultura di sinergie tra profit e non profit è fondamentale', ci ricorda Silvia Collazuol, CasaOz. "La nostra organizzazione è nata da persone del mondo profit che hanno voluto dar vita e gestire una casa di accoglienza per famiglie che vivono situazioni di malattia. Usiamo criteri profit nella scelta delle competenze professionali quali fundraising, segreteria, fiscalità e aspetti educativi. Per realizzare progetti di successo', conclude: “è fondamentale co-progettare tra profit e non profit, in modo da capire cosa si può fare e come farlo nel modo migliore' Se da un lato esempi come CasaOz concretizzano una piena integrazione fra i due sistemi, altri casi testimoniano viceversa una distanza del mondo profit dai bisogni del sociale. Il progetto Garanzia Giovani, ad esempio, non ha sviluppato appieno le sue potenzialità perché penalizzato da uno scollamento tra i grandi investitori e i millennials, che erano i target del progetto. Infatti, le procedure complesse e il linguaggio poco comprensibile hanno fatto sì che aderissero al programma, paradossalmente, ragazzi appartenenti a fasce di istruzione più alta, quelli cioè che ne avevano meno bisogno. Tuttavia, e se prescindiamo da questo o quell’esempio meno fortunato, la partnership tra il mondo giovanile coinvolto nel Terzo Settore e quello delle imprese, può dirsi nel complesso positivo, soprattutto per quanto riguarda il sistema educativo. Negli ultimi anni, infatti, sono stati numerosi i corsi organizzati (ad esempio presso le Università Bocconi e Cattolica) per far crescere le competenze e formare specialisti del Terzo Settore, tanto è che, come ricorda Elisa Rotta, Fondazione Sodalitas: ‘Sulla sostenibilità sono nati diversi master nelle università, segno di attenzione crescente anche da parte del mondo dell’istruzione…. Oggi la collaborazione tra chi opera nel sociale e le imprese è cruciale, fin dal percorso formativo. Noi da qualche anno stiamo portando avanti l’European Pact for Youth affinché i giovani possano entrare nel mondo del lavoro più agevolmente. Dal punto di vista educativo sarebbe davvero una svolta’. Ciò detto, sono molti oggi a sostenere che sia necessario e urgente ripensare ai possibili modelli di collaborazione, realizzare delle co-progettazioni di interventi mirati ai bisogni emersi ed avvicinare i diversi linguaggi. Innanzitutto, c’è una nuova attenzione ai temi della sostenibilità e del sociale, cosa che si vede anche nella rinnovata attenzione dei media: “Se il primo quotidiano d’Italia, il Corriere della Sera con Buone Notizie, decide di investire e creare un settimanale dedicato a sociale e sostenibilità, vuol dire che quest’argomento è di grande interesse, anche per il mondo delle imprese”, afferma a questo proposito Mariachiara Rota, Fondazione Rava cui fa eco Pietro Ferrari

8

Bravo, Assifero che collega questo “nuovo interesse” anche alle vicende economiche generali: “Il periodo di instabilità, provocato da eventi come l'attacco alle Torri Gemelle e la crisi economica, ha riportato l'attenzione sul lavoro come il miglior ammortizzatore sociale e sul grande ruolo sociale delle aziende. In quest'ottica è certamente importante l'allineamento degli obiettivi aziendali con quelli delle iniziative di responsabilità sociale delle aziende stesse. E così conclude Ferrari Bravo, “Il Terzo Settore, a sua volta, ha la capacità di creare e realizzare progetti al di fuori dello schema usuale del profitto, e gli Enti filantropici in particolare possono sperimentare soluzioni innovative con maggiore libertà rispetto ad altri attori sociali. Per raggiungere risultati duraturi e ampi è necessario che i vari attori sociali sappiano fare sistema. Certamente la capacità di collaborazione, soprattutto nel campo sociale, dipende dalle persone, non si tratta di processi meccanici’. Fare rete, dunque, è la parola chiave, “per includere, per contaminare, per far incontrare realtà che non si conoscono”, come osserva a tal proposito Giulia Minoli, CO2, che così aggiunge: “Sul fronte culturale, la co-progettazione dovrebbe essere ulteriormente incentivata, ma non sempre ciò accade. Un esempio di successo è stata la capacità di fare rete sul tema dell'antimafia con il progetto Palcoscenico della Legalità, che da quattro anni gira in tutta Italia rappresentando “10 storie proprio così”, che raccontano la seconda vita di associazioni poco conosciute, ma che sono in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata. Il teatro diventa, dunque, uno strumento per far conoscere storie positive, così come per denunciare le problematiche legate alla mafia. Il progetto teatrale è accompagnato da un percorso educativo, perché il cambiamento culturale deve partire soprattutto dalla scuola: è necessario offrire ai giovani, fin da piccoli, gli strumenti per avere una coscienza critica. Altro esempio di best practice è il progetto avviato con le carceri minorili, progetto che offre corsi per formare macchinisti ed elettricisti per il teatro. Di tale progetto fanno parte non solo varie associazioni, ma anche imprese, tra cui Poste Italiane e SIAE’. L’education, dunque, si conferma ancora una volta uno straordinario strumento di inclusione, tema da sempre al centro delle iniziative della Comunità di Sant'Egidio, anche se questa education ha come premessa essenziale il “fare sistema”, base e premessa di questa nostra riflessione. ‘In 50 anni di storia abbiamo visto che le iniziative di successo sono tali quando si lavora a sistema con le istituzioni private e pubbliche”, dice Silvia Tassarotti, “un caso ben riuscito, ad esempio, è il progetto "Viva gli anziani", nato nel 2004 per contrastare l’isolamento e la fragilità delle persone anziane dopo quell’estate che fra l’altro fu anche particolarmente calda. In collaborazione con il Ministero della Salute fu realizzato un monitoraggio attivo per supportare questa fascia di popolazione nelle loro case, attraverso la creazione di reti sociali nelle città. E questa può essere considerata effettivamente una best practice di eccellenza, il piano Marshall per gli anziani! Solo a Roma in questi anni sono stati seguiti oltre 15.000 anziani over 80’ Comunque, è anche fondamentale, quando si realizzano dei casi di successo, darne buona visibilità e comunicarne i risultati”. Ed un altro felice esempio di “fare sistema” e cioè di integrazione fra Imprese, Terzo Settore e istituzioni, è stato il processo che ha portato alla nascita della rete ONDS (Osservatorio Nazionale sul Disagio e la Solidarietà nelle Stazioni Italiane). Questo Osservatorio è il frutto di un partenariato tra Ferrovie dello Stato Italiane, ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e la Europe Consulting Onlus come capofila di una rete più ampia di cooperative e associazioni italiane per la gestione degli Help Center, sportelli di orientamento sociale presenti oggi in 18 stazioni italiane. Ebbene, in questi sportelli (spazi concessi in comodato gratuito da FS), gli enti del Terzo Settore erogano servizi in favore delle persone emarginate grazie ai finanziamenti delle istituzioni locali. Inoltre, da una sperimentazione avviata proprio all'interno di questo partenariato, è nata anche la piattaforma informatica Anthology, un sistema che permette agli operatori sociali di registrare le azioni di sostegno e supporto erogate in favore delle persone che si rivolgono agli sportelli e, al contempo, di mappare le evoluzioni del disagio sociale presente nelle stazioni. Oggi quella piattaforma è diventata il software ufficiale utilizzato anche dal Comune di Roma per gestire i servizi di supporto alle persone senza fissa dimora e ai migranti della Capitale. ‘Il progetto nasce dall’esigenza dei servizi di fare rete, di raccogliere e condividere dati e di mettere a sistema le storie delle persone prese in carico, per aiutarle al meglio e con più consapevolezza; ma al contempo rispondere alla necessità del Comune di Roma di monitorare e rendicontare in tempo reale le sue attività sociali’, chiarisce Alessandro Radicchi, Binario 95. ‘Oggi nella sezione dedicata a Roma Capitale della piattaforma Anthology sono registrate con nome e cognome oltre 200.000 schede di persone bisognose, per circa 800 account operatori

9

appartenenti a un centinaio di servizi territoriali; ed è proprio grazie ad Anthology che questi servizi riescono a coordinarsi meglio e a integrare le proprie responsabilità, permettendo anche di mettere in luce alcune informazioni prima nascoste, quali ad esempio gli spazi di sovrapposizione dei bisogni tra le persone senza fissa dimora e le persone migranti o titolari di protezione umanitaria, e quindi la necessità di coordinare e distribuire le risorse sulla base di dati più accurati rispetto a quanto fatto finora’. Ed a proposito di “dati più accurati”, Radicchi ricorda che dalle ricerche realizzate con Anthology è emerso che nel 2016 a Roma oltre 15.000 persone senza dimora hanno chiesto assistenza ai servizi del Dipartimento Politiche Sociali, a fronte delle 7.700 persone stimate, nella stessa città, dall’indagine ISTAT del 2014. ‘Questo non significa che un metodo sia migliore o contrapposto all’altro, quanto piuttosto che al fine di ottenere un’immagine chiara e sempre aggiornata delle problematiche di una città, sia necessario contaminare gli strumenti di ricerca istituzionali con le innovazioni messe a disposizione nei territori proprio da chi vi opera ogni giorno. Risultati come questi, infatti, sono particolarmente importanti non solo per fini di ricerca, ma anche per permettere un migliore equilibrio delle risorse messe a disposizione dal Governo, che in genere prende come riferimento, per la suddivisione dei fondi, i dati disponibili in letteratura che, nel caso di fenomeni così difficilmente tracciabili come quello delle persone senza dimora, se non monitorati costantemente da antenne “vive e attive” presenti sul territorio, rischiano di essere inesatti, producendo misure inadeguate alle vere esigenze dei cittadini. È quindi fondamentale sensibilizzare la PA in tema di innovazione e opportunità offerte dalle tecnologie digitali e farlo in fretta”, continua Radicchi, “nella prossima generazione non si porrà il problema del "se" transitare nel digitale, ma del "come". Potrebbe essere interessante costruire un test tecnologico per le aziende e in base al risultato, fornire la soluzione adeguata. Quesiti come "hai internet?", "hai la banda ultralarga o un modem a 56K?", "come gestisci il tuo protocollo?", "usi il cloud?" aiuterebbero a comprendere il livello di avanzamento tecnologico di ciascuna realtà. Chi sta tra il sociale e il tecnico ha il dovere di favorire la digitalizzazione: è necessario supportare le amministrazioni e le organizzazioni, e poi metterle a sistema'. Dunque, “fare sistema” fra realtà del mondo non profit, fare sistema fra profit e non profit, e infine approfittare dei nuovi mezzi tecnologici che la rivoluzione digitale mette a disposizione. Queste le prime ricette utili allo sviluppo delle attività del non profit. E non a caso, Maurizio Ferrari, Fondazione Renato Piatti, così afferma: “le potenzialità del digitale non sono sfruttate appieno nella PA perché la logica del controllo prevale su quella dello sviluppo e della sperimentazione. Noi siamo un ente gestore che si prende cura di persone con disabilità intellettiva in un contesto di accreditamento e contratto con il servizio pubblico lombardo e, per quanti sforzi possiamo fare, ci confrontiamo con un committente che non è ancora completamente digitalizzato'. Altro tema, in questo quadro, è il volontariato aziendale che rappresenta un modello particolarmente adatto per le imprese che hanno una presenza capillare sul territorio nazionale. In termini più chiari, è condivisa l’idea che in questo cammino di trasformazione per realizzare progetti efficaci sul territorio, è fondamentale il ruolo del volontariato d’impresa che può divenire “antenna” per captare i bisogni e proporre soluzioni. ‘Il volontariato d’impresa,” ricorda non a caso Gian Paolo Montini, Associazione Peter Pan, “può essere adottato dall’azienda come leva strategica per impegnarsi in modo proattivo sul territorio, ottenendo al contempo una serie di benefici, sia a favore delle non profit supportate, sia a favore dei propri rapporti con i collaboratori”. E così egli conclude: “è dal volontariato che partono i primi segnali dei bisogni e dei desideri della comunità”. E come sottolinea anche Massimiliano Monnanni, Fondazione Poste Italiane, le imprese che si dotano di tali “volontari” 'possono contribuire ad apportare un valore economico e sociale in aree marginali dove ci sono minori risposte rispetto al fabbisogno del volontariato; possono dare quell'input iniziale che stimolerebbe una risposta a livello locale. Ad esempio, Poste ha fatto un esperimento di engagement di più di 1.200 dipendenti, a supporto dei progetti sociali finanziati dalla Fondazione, con l’obiettivo di contribuire con le proprie competenze, abbassando quindi i costi di gestione delle non profit con cui collabora. Per il nuovo piano di sostenibilità aziendale 2019-2020, è in programma la creazione di un piano di volontariato strutturato a favore di associazioni che abbiano la capacità di fare rete, proprio per promuoverne la collaborazione’.

10

D’altro canto, la questione de “territorio” è un tema ricorrente, tanto è vero che secondo Elisa Rotta, Fondazione Sodalitas: “Il welfare aziendale, inteso come welfare territoriale, va oltre il perimetro dell’impresa: il Terzo Settore si può porre come interlocutore privilegiato per un welfare nell’azienda aperto al territorio e come conoscitore e fornitore di servizi utili per l’impresa e i cittadini’. Dopo questo breve excursus, la domanda finale, tuttavia, è più profonda. Stabilito che per impattare sul territorio di riferimento, sia necessario dotarsi di moderne tecnologie digitali, di utilizzare figure come il volontariato d’impresa, e che alla base di tutto ci sia fare sistema, a che livello di profondità bisogna arrivare per fare davvero “sistema”? In realtà, oltre alle partnership e alle co-progettazioni, alcuni auspicano un'integrazione ancora più profonda fra profit e non profit, sottolineando l'obsolescenza di questa distinzione, come appunto sostiene Gianmarco Luggeri, Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte che afferma: “pur considerando la differente gestione delle risorse', credo che 'in fase progettuale andrebbe superata la separazione troppo rigida tra aziende profit e organizzazioni non profit. Ad esempio, per entrambe è utile redigere un business plan chiaro e completo, per valutare l’impatto di un progetto e la sua sostenibilità economica. Ma spesso la sua utilità viene sottovalutata nel Terzo Settore’. Ma ciò non basta. Nel grande tema del “fare sistema”, importanza cruciale assumono poi i dipendenti, 'non solo come anello di congiunzione tra onlus e impresa attraverso il welfare aziendale, ma anche come attivatori di iniziative', specialmente nel caso di piccole e medie imprese. 'Vi è la necessità di responsabilizzare le reti che già esistono e di coinvolgere le PMI', afferma Claudia Giorgio, Anima per il sociale nei valori d’impresa, 'in questo senso Confindustria si è già attivata, creando un gruppo di lavoro sulla responsabilità sociale d’impresa, che ha fra i suoi obiettivi quello di avvicinarle sempre più alla sostenibilità’. Ma Claudia Giorgio, aggiunge anche che sarebbe tuttavia necessario 'da parte delle aziende, di dare il proprio contributo a progetti che siano pienamente allineati alla propria missione, anche se questo limita il numero e la tipologia di associazioni che l’azienda può sostenere'. Nel confronto tra questi due mondi profit-non profit, persiste ancora però, come ricorda Elena Avanati, Save the Children 'il luogo comune, non sempre giustificato, secondo cui il profit sia professionalizzato e il non profit no”. Ma, ella conclude, “Se noi stessi non ci sentiamo dei professionisti, come facciamo ad essere percepiti come tali? E’ un processo complesso, che dovrebbe essere affrontato’. Il fatto è che la vera differenza fra Profit e non Profit, non risiede tanto in ciò che sembra essere un luogo comune, ma nel fatto, del tutto reale, che le realtà non profit hanno l'impossibilità di compiere errori e, molto collegato a questo tema, sono per esse più limitate le possibilità di investimento in genere e, in particolare, nel digitale che, come da tutti sostenuto, è una nuova potentissima leva in mano al ondo del non profit. Il ragionamento di Stefano Malfatti, Istituto Serafico Assisi, parte infatti da lontano: “Di fronte alla sfida verso il digitale 4.0, è utile ricordare il valore dello 0.0, che rappresenta non tanto il tornare indietro ma “andare dentro”, capire cosa possiamo fare e in che modo il mondo non profit possa arricchire con i suoi valori e le sue istanze lo slancio digitale….Lo stimolo deve essere anche culturale, ma è importante che le persone abbiano le competenze, le risorse e il tempo per farlo”.E poi chiarisce: “Purtroppo il mondo del non profit, a differenza del profit, non può sbagliare: non possiamo testare diversi tools ad esempio, perché non abbiamo le risorse per farlo; non possiamo attrarre le professionalità migliori perché non possiamo investire in questa direzione. Immaginate però le potenzialità, se potessimo capire che tipo di donatore abbiamo davanti (cosa fa, chi è) anche e soprattutto attraverso gli strumenti che il digitale offre’. E così continua: “Il budget: questa è l'unica vera differenza tra mondo profit e non profit, e cioè il livello di investimenti possibili nel digitale”, opinione per altro confermata da Gianmarco Luggeri, Fondazione Cologni che afferma: 'Certi processi del profit possono essere applicati anche nel non profit e viceversa', dice, 'c’è solo un problema economico. Spesso servono livelli molto bassi di digitalizzazione, senza bisogno di grandi investimenti, e a volte non serve troppa specializzazione, ma basta avere la visione di una persona più giovane e curiosa’.

11

Il ruolo imprescindibile della PA nella governance di interventi sui territori e nel coordinamento delle attività

Innanzitutto, una premessa. La PA è indispensabile come coordinatrice degli interventi e come stimolo per le realtà non profit, ma questo ruolo va definito e qualificato. E non a caso Maurizio Ferrari Responsabile Comunicazione e Fund Raising Fondazione Renato Piatti Onlus, sottolinea questo “dovere” della PA “di rispondere pienamente e coerentemente ai bisogni sociali.”, ma aggiunge: ‘Oggi la PA, lungo tutta la sua filiera, demanda ruoli e responsabilità al Terzo Settore fissando regole, esercitando controlli e soprattutto prescrivendo tariffe sempre più al ribasso. Il diritto alla salute, costituzionalmente garantito, può essere molto indebolito da questo orientamento. Se per contenere i costi si favorisce, ad esempio, l'assistenza domiciliare in luogo della presa in carico in centri specializzati, non è detto che i risultati siano migliori o quanto meno paragonabili: una persona con disabilità ha bisogno di cura, ma altrettanto di inclusione sociale, non certo di chiudersi tra le mura domestiche’. Quindi, aggiungono Pietro Ferrari Bravo di Assifero e Aldo Cavadini di Fondazione Sodalitas bisogna porre molta attenzione all'intervento da parte delle Istituzioni, e bisognerebbe anche esaminare le prospettive, ancora poco esplorate, che aprono alcuni appositi strumenti finanziari: ‘Il Terzo Settore necessita di un "parco frecce” differenziate a disposizione del proprio arco', spiega Ferrari Bravo, 'non tutte le iniziative promosse dagli ETS sono economicamente sostenibili con il solo contributo del privato e l’intervento del settore pubblico è spesso imprescindibile. In questo contesto gli strumenti di finanza sociale (titoli di solidarietà e social lending) previsti dal Codice del Terzo Settore possono costituire un'importante opportunità di cui andrebbero approfondite le potenzialità'. 'Ed è fondamentale', rinforza Cavadini, 'far comprendere gli strumenti a disposizione per investire nel sociale, per far conoscere e moltiplicare gli esempi positivi’. Tuttavia, molti degli strumenti finanziari presentati non solo sono complessi perché richiedono la collaborazione di più soggetti (gli utenti, la Pubblica Amministrazione, gli investitori, gli ETS), ma necessiterebbero anche, per un loro corretto utilizzo, di strumenti di misurazione degli impatti che gli interventi così finanziati possono avere. E’ opportuno quindi il richiamo di Maria Elena Vivaldi di Dynamo Camp che sottolinea come ‘la sinergia tra questi soggetti sia necessaria, anche coinvolgendo l’ente pubblico che non è avvezzo alla cultura della misurazione dell’impatto sociale degli interventi che sostiene… Il ruolo di Social Value Italia al quale ci siamo associati come Dynamo Academy, è quello di promuovere nel nostro Paese la pratica della misurazione del valore sociale a livello di PA, ETS, soggetti filantropici e operatori economici e finanziari. L’obiettivo per il futuro è fornire alla PA degli strumenti, ma prima ancora formazione e cultura’. Altro elemento considerato un asset decisivo per il successo dei progetti, è la continuità di relazione: l’intervento spot non funziona, mentre la stabilità in una collaborazione garantisce risultati positivi e la definizione di modelli replicabili. ‘Occorre creare le condizioni per cui le associazioni non profit diventino capofila delle politiche territoriali e facilitino la creazione di un modello per cui i contributi delle non profit siano esperienze non episodiche ma costanti", dichiara Maurizio Vannini, Associazione Andrea Tudisco. 'La PA e le aziende devono trovare nella collaborazione con il Terzo Settore una continuità rispetto alla propria visione del mondo. Bisogna superare cioè la logica del progetto fine a sé stesso e adottare un approccio indirizzato verso una collaborazione di default: l'ente pubblico, che pianifica le risposte attraverso le risorse disponibili e le realtà non profit, che offrono soluzioni ai bisogni espressi dalle comunità'. “Per giungere a quest'obiettivo è necessaria però, ed ancora una volta, una regia unica nazionale, che individui 'modalità concrete per replicare i progetti che hanno raggiunto il successo, attraverso sinergie tra i diversi attori. E’ importante garantire una sinergia di competenze, per ottenere un maggiore impatto ad ampia scala. Ad esempio Goel, partita dal volontariato, oggi rappresenta un'impresa che è riuscita a coinvolgere altre realtà e, nello stesso tempo, svolge un ruolo sociale importante di lotta alla mafia’, dice Gianpaolo Montini, Associazione Peter Pan. Per creare un effetto a lungo termine sono necessarie tuttavia maggiori occasioni di incontro (nelle quali l'ente locale giochi un ruolo attivo) che siano finalizzati a intercettare dei punti di sintesi tra gli enti coinvolti: 'Ad esempio”, dice appunto Massimiliano Monnanni, Fondazione Poste Insieme “è grazie alla collaborazione fra pubblico, privato e non profit che Poste si è impegnata ad apportare il proprio contributo per il superamento della situazione di degrado nel quartiere di Corviale, nel Municipio XI di Roma, contribuendo alle attività dell’associazione Calcio Sociale. Il Comune di Roma si è impegnato in un percorso virtuoso affiancato da diversi enti, nel rispetto dei ruoli e dell’autonomia di

12

ogni attore coinvolto. Il sostegno economico, svincolato da una strategia chiara, è cioè inefficace. L’approccio di Poste, in questo senso, è cambiato radicalmente: se nel 2014 ci limitavamo ad aprire un ufficio postale, ora abbiamo preso consapevolezza che l’ufficio postale è diventato uno strumento per ricostruire il tessuto sociale, un elemento di inclusione sociale all’interno di una strategia sistemica, non solo un intervento commerciale. Questo significa che per ogni nuova apertura mettiamo intorno al tavolo tutti gli attori, nel rispetto di ogni specifico ruolo”. Il progetto di Corviale è quindi la dimostrazione di come sia fondamentale, da parte di aziende, non profit e PA, trovare visioni e obiettivi convergenti, con il Terzo Settore a giocare il ruolo di ente propulsivo. A raccontarlo è Massimo Vallati, Calciosociale: 'E' stato necessario l’intervento dei cittadini per ristrutturare un bene pubblico che era stato sequestrato a causa di infiltrazioni mafiose. In un contesto in cui la presenza della mafia è ancora dominante e la PA è ancora assente (non sono presenti scuole pubbliche e fino poco tempo fa vi era un solo ufficio postale), tale edificio ristrutturato e adibito a luogo di incontro non può essere un’oasi nel deserto: è fondamentale mettere attorno a un tavolo tutti gli attori coinvolti, stimolare e attrezzare il pubblico e porre degli obiettivi anche a lungo termine. Aziende e non profit possono cioè fungere da stimoli nei confronti della PA, definendo dei macro-obiettivi comuni a cui si legano gli obiettivi specifici di ogni realtà coinvolta’. Obiettivi comuni e piani a lungo termine, dunque. In una parola, alleanze di successo. Un'abitudine che occorre però ancora costruire, 'perché ci sia vantaggio reciproco. Noi sicuramente offriamo un modello positivo per quanto riguarda le metodologie di superamento dei conflitti', dice Ida Linzalone, Rondine. E per fare ciò, ella aggiunge: “Dobbiamo uscire dalla logica del sostegno esclusivamente economico e pensare a differenziare i nostri target; le associazioni devono maturare una consapevolezza diversa delle metodologie a disposizione e ragionare in termini di impatto, senza perdere il focus sul proprio obiettivo: questo per me rappresenta il vero salto di qualità che consente un respiro, una visione lungimirante, necessaria per la sopravvivenza di qualsiasi realtà di impresa, che sia pubblica, privata o non profit’. Dare vita a partnership di successo, però, non è un percorso sempre in discesa: ‘Nella PA ci sono vincoli forti a prendere competenze dall’esterno, anche per ragioni economiche. La Fondazione Opera di Roma aveva un buco di bilancio e debiti molto alti, quindi il primo obiettivo che ci siamo posti è stato quello del risanamento, rimandando i propositi di innovazione. La chiusura del sistema non ne favorisce l’evoluzione e diventa difficile fare innovazione non potendo sempre attingere al meglio', racconta Francesca Chialà, Teatro dell’Opera di Roma. 'Nel mondo culturale spesso si procede per compartimenti stagni, quando invece si dovrebbe poter fare sistema tra innovatori, incubatori, mondo artistico-culturale e mondo non profit, ma spesso gli attori non si riconoscono reciprocamente e non c’è scambio di esperienze. Occorre ripensare le strategie di fundraising, inventare modalità nuove per attrarre investimenti e attingere a competenze innovative. Creiamo momenti di interscambio con interlocutori nuovi, anche per coinvolgere target diversi. Occorre sviluppare partnership strategiche che mettano a fattor comune le competenze. C’è anche un tema rilevante di linguaggio, se non si conosce il linguaggio delle imprese non si riesce ad instaurare una relazione. Spesso, per esempio, chi desidera chiedere un investimento, non sa come farlo’.

LA SECONDA LEVA: PENSARE DIGITALE

Analizzare e sistematizzare la moltitudine di dati, organizzare le banche dati e le piattaforme di collaborazione "Troppa informazione, nessuna informazione", diceva Umberto Eco a proposito dell'enorme quantità di notizie che i nuovi media e quelli tradizionali immettono senza sosta nel ciclo comunicativo. Questa massima, tuttavia, è quanto mai adatta anche ai Big Data: una pioggia di numeri che bisogna saper selezionare e che nascondono indicazioni preziose. Per ottimizzare tali indicazioni, tuttavia, occorrono competenze, risorse e metodologie innovative.

13

Organizzarne la gestione è il primo passo, estrarne valore e significato, è l'obiettivo finale. Grazie ad essi, infatti, si possono trovare strumenti di gestione più economici, scovare i dati sommersi, e soprattutto condividere strumenti analitici e piattaforme. Ciò detto, il punto critico per quanto attiene il Terzo Settore in particolare, è la mancanza di dati affidabili e ufficiali che riguardino il territorio le cui esigenze, per svolgere un buon lavoro di supporto, devono essere preventivamente interpretate. E’ proprio la mancanza di uno scenario affidabile, infatti, che determina un’oggettiva difficoltà nella pianificazione e nella realizzazione di interventi che rispondano ai bisogni concreti dello specifico territorio. Sarebbe quindi innanzitutto necessario che, in collaborazione con l’ISTAT, tutti gli uffici statistici regionali lavorino sugli stessi dati e che venga centralizzato il processo di reperimento. E sempre a questo riguardo, Filippo Ravoni e Angela Voce, Fondazione ENI Enrico Mattei (FEEM) ricordano che occorrerebbe anche creare banche dati efficienti a livello locale. In particolare essi sostengono che: ‘Per individuare i bisogni del territorio e per operare in modo efficace, occorrerebbe una banca dati che oggi c’è solo a livello nazionale. A livello territoriale non esistono dati aggregati o sono molto difficili da reperire’. E su un tema correlato, Paolo Nardi, Associazione Amici di Cometa Onlus, attira l'attenzione anche su una maggiore consapevolezza e sulla formazione: ‘Avremmo bisogno di competenze, non solo per gestire opportunamente i nuovi strumenti, ma innanzitutto per individuare lo strumento più adatto ai nostri bisogni. Questo ci aiuterebbe anche a governare la consueta resistenza al cambiamento di chi, per non affrontare il nuovo, si arrende all’analogico’. Ma ciò non basta perché quel che precede attiene alle difficoltà del reperimento e della elaborazione del dato. E’ anche necessario, tuttavia, che i dati diventino fruibili a tutti gli attori coinvolti, per cui sarebbe altresì importante sviluppare un supporto tecnologico adeguato, con strumenti in grado di esercitare una potenza computazionale proporzionata all'aumento esponenziale dei dati da raccogliere. L’adozione di una piattaforma comune di condivisione dei dati consentirebbe infatti di ridurre le distanze, non solo geografiche, ma anche metodologiche, nel senso che avvicinerebbe le varie associazioni con i beneficiari distribuiti sul territorio e gli attori appartenenti a organizzazioni diverse. 'Come aggregatori di grandi aziende noi vediamo quanti fenomeni di collaborazione tra profit e non profit esistono e non vengono condivisi’, afferma appunto Elisa Rotta, Fondazione Sodalitas, 'ma creare piattaforme comuni è un passo fondamentale per risolvere il punto critico e per tradurre tutti i dati di cui disponiamo in progetti e azioni mirate'. Una piattaforma comune, dunque, 'di conoscenza e di scambio' come ricorda Maria Leddi, CasaOz, 'al fine di comprendere meglio i bisogni di una comunità e di rispondere così in modo efficace, misurando e verificando l'efficacia delle azioni messe in campo per risolvere un problema concreto”. Tuttavia, questo obiettivo di una piattaforme comune non solo è complesso dal punto di vista tecnologico, ma anche finanziario perché, oltre ai vari e molteplici costi, si sono aggiunti quelli scaturiti dalle decisioni della GDPR. La General Data Protection Regulation (il regolamento generale dell'Unione europea pensato per garantire i dati personali degli utenti nell'ambiente digitale) ha definito infatti una nuova normativa sulla privacy che implica dei costi legati alla fruizione del dato che non tutti potranno sostenere, tanto è che Alessandro Betti, Fondazione Telethon, opportunamente ricorda: ‘c’è un rischio forte di dispersione dei dati che sono a disposizione, sia perché non disponiamo della potenza di calcolo necessaria per gestirli, sia perché spesso mancano analyst di livello perché non tutti possono permetterseli. La GDPR introduce infatti un ulteriore elemento di complessità’. Il fatto è che il processo che parte dall’elaborazione dell’informazione per trasformarla in un’azione incisiva, può diventare molto più veloce e impattante con una profilazione più precisa del proprio target. Tracciando gli interlocutori, sotto il profilo socio-demografico e sulla base degli stili di consumo dei contenuti online, monitorando il "sentiment" degli utenti nei confronti della propria organizzazione e individuando gli influencer, è possibile non solo realizzare attività mirate di comunicazione e di engagement, ma anche orientare gli interventi in base ai topic emersi con più forza. Tuttavia, le difficoltà nel reperire dati lavorabili, dall'ambiente digitale o dal territorio, si fanno più difficili in contesti emergenziali, quelli in cui le Ong si trovano più di frequente a operare. Inoltre, nelle aree di crisi, i dati sono spesso ancora analogici e non sussistono le condizioni, anche infrastrutturali, per passare al digitale.

14

Grandi difficoltà, dunque, anche se non mancano naturalmente casi virtuosi in cui gli investimenti hanno avuto un riscontro immediato sui risultati raggiunti dalle organizzazioni: ‘Abbiamo avviato un progetto pilota in collaborazione con UNHCR in 5 Paesi: una piattaforma web di digitalizzazione del dato in ambito sanitario, a supporto delle ONG e del Terzo Settore, il cui primo passo è stato digitalizzare il dato e creare dei report basici che permettessero l’analisi dei dati relativamente ai rifugiati. E’ una sfida continua, perché in contesti di emergenza è molto complicato adottare anche tecnologie molto semplici’, racconta infatti Andrea Bertolazzi, GnuCoop. Inoltre, in questo panorama pieno di problematiche, arriva da Alessandro Radicchi, Europe Consulting, una proposta concreta per superare alcune delle difficoltà in cui le Associazioni si imbattono quando occorre raccogliere, gestire e analizzare i dati, ovvero un CRM (Custom Relationship Management) dedicato: ‘Nel sociale c’è effettivamente un problema di raccolta e condivisione dei dati, non solo degli utenti, ma anche dei donatori. La realizzazione di un CRM comune che possa raccogliere tutte queste funzionalità potrebbe aiutare le onlus a identificare e condividere utenti, ma anche sostenitori, dai singoli donatori alle fondazioni. Sarebbe interessante avere un pacchetto digitale per le onlus. Un pezzo di lavoro è stato fatto sul versante degli utenti, ma ora servirebbe un grande finanziatore che creda in questa idea per poterla estendere e condividere'.

Formulare previsioni accurate circa l’impatto sociale e la redditività dell’investimento, progettare attività e servizi utili, efficaci e innovativi a costi competitivi Lo sviluppo di una finanza innovativa che abbia nell’inclusione sociale e nella sostenibilità ambientale i suoi obiettivi fondamentali, può essere fortemente supportata dalle evoluzioni tecnologiche e digitali che stanno caratterizzando la nostra epoca. La conoscenza degli scenari, la possibilità di un accesso sempre più capillare e strutturato ai prodotti finanziari e l’opportunità di formulare previsioni accurate circa l’impatto che una scelta può avere, sia in termini di redditività dell’investimento sia di impatto sociale o ambientale, sono oggi abilitati dalla possibilità di ricorrere a modelli di analisi di dati sempre più sofisticati. L’avvento di tecnologie come la blockchain sta ridisegnando le modalità operative e i processi della partecipazione al mercato finanziario, incidendo talvolta sullo sviluppo di nuovi prodotti nati da un processo di ibridazione. Sullo scenario globale esistono ormai numerose realtà che interpretano le principali direttrici di innovazione esistenti e ne fanno propri core business. Alludiamo agli open data e ai marketplace come spazi di condivisione dei dati e delle informazioni; ai modelli di advanced analytics come strumenti per una previsione accurata degli scenari di evoluzione ed infine alla blockchain, tecnologia potenzialmente rivoluzionaria nell’ottica della ridefinizione dei modelli di accesso ai sistemi finanziari. Perché questa premessa? Perché sul tema investimenti, il Terzo Settore riscontra una maggiore complessità rispetto alle imprese, perché deve ottemperare varie istanze: tener conto di più stakeholder, massimizzare le risorse per produrre risultati tangibili e pianificare con accuratezza gli investimenti in base alle priorità. Per il Terzo Settore, inoltre, il margine di errore è più ridotto rispetto a quello consentito al profit che prima di lanciare un nuovo servizio, grazie ai suoi maggiori mezzi, può anche effettuare un periodo di testing. Quindi, per il Terzo settore il tema della redditività dell’investimento e la progettazione di attività che siano utili, m anche realizzate a costi competitivi, diventa obbligatorio, con l’aggiunta che si deve scegliere lo strumento digitale ottimale. Per poter applicare delle soluzioni ad hoc, infatti, bisogna avere degli strumenti adeguati a supporto, analizzare il bisogno e identificare la soluzione migliore in funzione delle esigenze e dei possibili investimenti. Ed il caso di Medici Senza Frontiere Italia, raccontato da Annalaura Anselmi, è in tal senso emblematico: ‘La collaborazione con IBM nel 2015 e nel 2016 ci ha permesso di applicare il tema della co-progettazione ed innovazione digitale a due linee di lavoro. La prima riguarda il software statistico Spss, uno strumento flessibile che è stato personalizzato e ottimizzato da IBM per migliorare le previsioni di raccolta fondi della sezione italiana di Medici Senza Frontiere, ottimizzandone le performance e gli investimenti, con una pianificazione delle azioni più mirata. Uno strumento che nel 2017 è stato personalizzato da IBM anche per il nostro centro operativo internazionale a Bruxelles, per garantire la massima rispondenza tra costi operazionali dei progetti medico-umanitari e previsioni di raccolta a

15

sostegno di quegli stessi progetti. La seconda linea si inserisce nel lavoro di Msf lungo le rotte migratorie tra il Mediterraneo, la Grecia e i Balcani nel 2016 e ha visto lo sviluppo e l'implementazione di una applicazione innovativa - “People on the move” - per la raccolta digitale, elaborazione ed analisi di big data sullo stato di salute e vulnerabilità delle persone soccorse da Msf. Uno strumento progettato ad hoc che ci ha permesso di rendere la pianificazione dei nostri interventi medico-umanitari più aderente e vicina ai bisogni clinici dei nostri beneficiari, una efficace integrazione tra analisi dati e scelte operazionali di Msf’. Quindi fare del bene analizzando, progettando e 'pianificando in modo consapevole', conclude Gianmarco Luggeri, Fondazione Cologni, 'ascoltando i nostri utenti e recependo i loro spunti: un conto è implementare i processi, un altro creare nuovi servizi per gli utenti che siano allo stesso tempo utili, innovativi e facili da utilizzare’.

Migliorare le competenze, l’organizzazione e la gestione delle risorse interne per rinforzare l’identità e per facilitare, attraverso la comunicazione, il proprio posizionamento e la propria immagine

Tutto quanto precede, ci riporta al tema trasversale delle competenze digitali, competenze che il Terzo Settore non ha a pieno, anche se negli ultimi anni esso è stato protagonista di una rapida evoluzione. Rimane tuttavia un gap importante di conoscenze digitali, e poiché il digital management riveste un particolare rilievo, una opportuna attenzione deve essere riservata a questo argomento. Giusto per fare un esempio, le organizzazioni del Terzo Settore non sanno come utilizzare al meglio i nuovi media e non ne sfruttano appieno le potenzialità, ma anche se la gestione dei social network, è problematica in termini di tempi, risorse e competenze, sappiamo che non si può ignorare questa realtà. In Italia, 43 milioni di persone utilizzano la rete (quasi tre quarti della popolazione) e 34 milioni sono gli utenti attivi sui social media (Report Global Digital 2018), per cui non bisogna spendere molte parole per sottolineare l'importanza strategica di costruirsi una forte identità online e di raggiungere un preciso posizionamento. Molte realtà del terzo Settore, ma non solo, ancora oggi non hanno invece competenze sufficienti né specifiche, né nell'ambito della comunicazione, per cui è indispensabile educare gli operatori, anche per non restare indietro rispetto agli altri paesi. I nuovi consumatori e i millennials hanno esigenze del tutto nuove a cui la comunicazione deve adeguarsi, e la comunicazione online è lo strumento più potente per farlo, sia con l'obiettivo di comunicare il prodotto (B2C), sia per dialogare con gli stakeholders (B2B). 'Il Terzo Settore deve impegnarsi per cambiare il paradigma: i problemi principali sono la mentalità, la cultura delle persone e le competenze’, dice Paola Mercante, Fondazione Sodalitas. ‘Prima ancora di progettare dobbiamo pensare in digitale. Il digitale può aiutarci a fare cose nuove (si pensi ad esempio alle app per il monitoraggio delle persone anziane parzialmente abili attraverso sensori posizionati in casa) e per questo deve diventare parte del dna delle organizzazioni e stimolare una risposta innovativa e l’individuazione di nuovi bisogni non osservati prima'. Ebbene, malgrado queste evidenze e vari concordi pareri, accade che, soprattutto nel Terzo Settore, la comunicazione online venga invece vista come una criticità, anziché come un’opportunità. Il timore, anche ragionevole, è che gli utenti con un semplice click, like e commento, possono elevare o abbattere la reputazione di chiunque, di un personaggio pubblico, di un brand, o di una Associazione operante nel Terzo Settore. E quindi si preferisce evitare il rischio anziché domarlo. Per andare incontro al cambiamento e non subirlo, è invece indispensabile sviluppare competenze mirate, schierare in campo meccanismi di marketing sano, instaurare un dialogo autentico con gli utenti, abbandonare l'approccio "broadcasting" tipico dei vecchi media, privilegiando l'interazione. E ancora, bisogna evitare dinamiche di greenwashing. Gli utenti della rete riconoscono e premiano l'autorevolezza e le chiavi per raggiungerla sono saper fare e saperlo comunicare. Il valore del digitale è dunque fondamentale per ridefinire il proprio modello e comunicarlo. E ciò vale anche nelle realtà non profit, specialmente perché il digitale è anche in grado di dar vita a nuovi modelli di business che producono inclusione sociale.

16

E non a caso, ed in termini ancora più generali, Roberto Bonifazi, Rete Ribes afferma: ‘Il Terzo Settore è caratterizzato da soggetti completamente diversi, ma accomunati da un obiettivo: ridurre il gap tra chi è escluso e chi è incluso. E la sfida, se il Terzo Settore vuole essere più inclusivo, è quella di diventare produttivo. Occorre far percepire che la filiera del valore è cambiata, poiché il digitale può amplificare il valore sociale e può aiutare a sviluppare un modello di business autosostenibile. Non dobbiamo pensare al digitale solo come a uno strumento di comunicazione in più, ma come a una leva per ripensare il modello. Grazie al digitale è possibile fare impresa’. Tanto è che esso, seguendo Ida Linzalone, Rondine, garantisce anche un impatto più veloce e incisivo: ‘Da pochi mesi abbiamo rivisto il posizionamento strategico dell’Associazione: Rondine esiste da 20 anni ma soprattutto negli ultimi 5, il digitale sta trasformando le nostre modalità di comunicazione e Rondine deve adeguarsi, non subendo, ma cercando di guidare questa evoluzione. Questo si ripercuote sia nei contenuti formativi, sia nella modalità di assunzione e fruizione dei medesimi. E' cambiata anche la velocità con cui possiamo avere un impatto e incidere. Rondine accoglie ogni anno 28/30 ragazzi dello studentato internazionale (provenienti da Paesi in conflitto e post-conflitto) e 28 ragazzi, provenienti da tutta Italia. Parliamo di dimensioni piccole, ma il digitale rappresenta uno strumento straordinario in grado di potenziare enormemente la nostra capacità di parlare a dimensioni immense e quindi di avere un oggettivo e più ampio impatto. La scelta di strumenti digitali adeguati ai vari target di riferimento, consente ad esempio di diffondere il metodo Rondine al mondo delle imprese, della politica, della scuola, della religione, della famiglia. Su questo ci stiamo muovendo per trovare gli investitori’. E le concordi testimonianze in tale direzione, si moltiplicano. Per Marco Girolami, Touring Club Italiano, la Rete rappresenta una straordinaria opportunità per trovare risorse, economiche e di volontariato: ‘Il binomio identità-reputazione è fondamentale. Noi godiamo di un’ottima reputazione, ma nessuno ci percepisce come un’organizzazione di promozione sociale, è difficile raccogliere donazioni se si viene percepiti “solo” come una casa editrice. Il digitale accelera anche l'entropia, sicuramente aiuta per promuovere azioni di fundraising, ma è essenziale avere un posizionamento preciso e non generalista. Per noi ora, per crescere, è determinante capire qual è il nostro nuovo posizionamento, perché siamo una non profit a tutti gli effetti (e non abbiamo investitori). Possiamo farlo anche andando sul territorio, assaggiando la diversità straordinaria del nostro paese, creando sinergie con realtà che operano attraverso una cultura del territorio. Il nostro nuovo approccio è: siamo una piattaforma che fa volontariato e cerca volontari, l’investimento principale è in attività di volontariato. Da un punto di vista tecnologico siamo in divenire. Stiamo lavorando molto ora per mettere in relazione le persone, e in questo il digitale ha un ruolo dirimente’. Per Sebastiano Pagani, che su questo ha basato la nuova comunicazione di Actionaid Italia, la rete rappresenta probabilmente un ottimo modo per mettere in relazione le persone e “scaldare” la comunicazione via web, è suscitare un sorriso: ‘Credo si debba uscire dal pregiudizio che dietro i social ci siano solo haters. In Actionaid abbiamo scelto, per esempio, di rispondere con ironia e abbiamo definito nuovi modelli di promozione attraverso il digitale‘. Per Fulvio Sperduto, Talento Dinamico, infine, il web è un eccezionale mezzo di interazione con gli utenti, che permette loro di approfondire e meglio comprendere le iniziative di rilevanza sociale, come il progetto, creato da Talento Dinamico, che consente di donare il cibo invenduto a chi ne ha bisogno: ‘Noi siamo stati protagonisti di un'esperienza positiva del ruolo delle PA. Abbiamo realizzato un progetto di recupero del cibo invenduto, per darlo a chi ne ha bisogno. All'inizio l'approccio da parte della Pubblica Amministrazione era dubbioso, ma successivamente siamo riusciti a coinvolgere ben 21 Amministrazioni Locali dalla Sicilia a Milano. Il primo dogma in ambito PA è ‘non si può fare’, ma questa esperienza insegna che se si dedica tempo alle persone, anche per permettere loro di comprendere, si riscontrano apprezzamenti e impegno. In questo la tecnologia può facilitare, ma non sostituisce la relazione diretta. Sicuramente, la reputazione si costruisce anche attraverso il web’. In breve, dalla presenza sui canali online non si può prescindere: ‘Nella nostra esperienza, se non sei online non esisti", sostiene Stefano Ficorella, ActionAid, che evidenzia un importante benefit della rete: la trasparenza. 'Il digitale dà la possibilità all’utente e al potenziale sostenitore di capire cosa succede con i soldi donati’. Il tema del digitale e della Rete sembra quindi essere al centro del dibattito.

17

Tuttavia, è anche vero che il digitale, se apre nuove opportunità di comunicazione, crea non di meno il problema dell’autorevolezza. Questo è un tema delicato perché in un ambiente, quello digitale, in cui alcuni punti di riferimento talvolta sembrano sospesi, e i pareri di tutti gli utenti su qualsivoglia argomento hanno apparentemente lo stesso peso specifico, far valere la propria autorevolezza è più arduo che in passato: ‘Le nuove tecnologie offrono sicuramente delle opportunità per il Terzo Settore, che vive normalmente con risorse limitate. Il digitale in questo senso apparentemente conviene. Impone però di affrontare alcune sfide culturali significative: soprattutto per organizzazioni che hanno chiaro il senso del mondo che vogliono comunicare, diventa difficile con questo intento confrontarsi in un mondo digitale dove tutte le opinioni vengono recepite come ugualmente autorevoli’, dice infatti Francesco Chiavarini, Caritas Ambrosiana. E Silvia Valigi, Fondazione Francesca Rava - N.P.H. Italia Onlus, adombra anche l’esistenza di un altro problema: la rete è un campo da gioco più adatto ai big player che alle piccole realtà. ‘La comunicazione digitale” ella sostiene, “è un reticolo dove tutti comunicano con tutti, ma spesso questo è una criticità per un’entità piccola che rischia di sparire rispetto ai competitor. Serve una profonda integrazione tra approccio analogico e digitale: è importante capire chi è il proprio target, se è digitalizzato o no’.

Gestire in modo organizzato e strategico la rete dei donatori, divulgare i risultati raggiunti, facilitare le interazioni al fine di ampliare i contatti. Il fundraising attraverso l’analisi dei donatori può divenire più mirato ed efficace

Il digitale, come si è qui e lì già accennato, è un acceleratore di processi e un canale di valorizzazione della propria audience, ma è altresì funzionale all’analisi del contesto, al mantenimento di relazioni consolidate e all’alimentazione di nuove relazioni. Consente inoltre di analizzare i propri donatori, con un dettaglio fino a poco tempo fa impensabile. Ebbene, se solo ci fermiamo su questo ultimo punto, è evidente che questa potenzialità rende attuabile un’attività di fundraising molto personalizzata e che in parte può svolgersi anche attraverso l'e-commerce. Inoltre, le nuove tecnologie facilitano la creazione di reti e danno la possibilità di fare campagne che possono ottenere un alto livello di engagement, fino a diventare virali. Se fino a qualche anno fa il trend era “fare rete”, oggi si parla di processi partecipativi. Bisogna quindi trovare una via per utilizzare questo mezzo in modo coerente con il proprio statuto, rendendosi immediatamente distinguibili e riconoscibili. Il tutto in piena trasparenza, come ricorda non a caso Martino Roghi, Fondazione Milan, secondo cui la trasparenza sarebbe appunto il vero plusvalore che si può trovare fra i nodi della Rete: “Abbiamo digitalizzato e certificato il nostro Rapporto di Sostenibilità, rendendolo accessibile a tutti e abbiamo avviato un progetto di analisi dei benefattori. Il digitale ci consente di ampliare e consolidare la nostra audience’. Se infatti ci sono Fundraiser da seguire, gestire e analizzare, e bisogna allargare la fascia dei donatori, cosa importante tanto quanto gestirla, è solo il digitale che può aiutare, come sottolinea Stefano Ficorella, ActionAid International Italia, 'sono importanti entrambi gli aspetti', conclude. 'Bisogna trovare il giusto equilibrio tra autenticità e supporto digitale tramite CRM’. In breve, vi è la necessità vitale di creare nuove forme di raccolta fondi che vadano oltre il classico "evento" (e in questo senso i social media offrono nuovi e accattivanti strumenti), bisogna trovare nuove modalità per collaborare in modo più efficace e raggiungere obiettivi comuni, bisogna diventare sistema. E scorrendo i brani degli interventi, tutti questi obiettivi si ritrovano puntualmente. Olivia Ponzanelli, La Triennale di Milano, ricorda: ‘E’ in atto un ripensamento generale sugli strumenti di comunicazione di cui possiamo disporre, pensiamo ad attività multimediali per relazionarci con un pubblico sempre più variegato e con tutti i nostri diversi target, aziende, finanziatori, sostenitori. Il digitale ha permesso di interagire con nuovi pubblici e può avere un ruolo decisivo nel rapporto con gli stakeholder. Noi lo abbiamo sperimentato con l’utilizzo della piattaforma Terzo Valore di Banca Prossima, grazie alla quale abbiamo avuto accesso a un prestito di 600.000 euro che ci ha permesso di finanziare il nostro ristorante sul tetto. Questo è un esempio virtuoso di tecnologia applicata. Sempre di più La Triennale si avvale di strumenti digitali per affermare la propria identità e sarà sempre più un asset strategico per lavorare sulla propria reputazione, non solo per l’attività di fundraising e la promozione’.

18

E Giovanna Ambrosoli, Fondazione Ambrosoli, ponendosi sulle medesime lunghezze d’onda, punta l'attenzione sulla brand awareness e sulla conoscenza approfondita della rete dei donatori: ‘Noi gestiamo un ospedale e una scuola di ostetricia in Uganda. Abbiamo un target di donatori molto anziani e poco propensi al digitale, ma proprio per questo il tema diventa centrale. Dobbiamo guardare al futuro e pensare a un pubblico giovane, quindi è fondamentale sviluppare un nuovo piano strategico e lavorare sulla brand awareness. Inoltre, per noi, pensare al digitale significa sviluppare l’infrastruttura in Uganda per consentirci di migliorare il servizio sul territorio e pensare a piattaforme che facilitino il rapporto tra profit e non profit. Abbiamo per esempio avuto una piccola ma significativa esperienza con un portale che finanzia bisogni medici’. Inoltre, l’aspetto personale e umano ha un grande peso, come ricorda Gianmarco Luggeri, Fondazione Cologni: 'Chiamare o mandare una mail personalizzata fa la differenza in questo settore. Però ci sono tanti fundraiser da seguire e qui il digitale potrebbe sicuramente essere d’aiuto’. Mentre Licia Casamassima, ricordando che il digitale ha un impatto pervasivo sia all'interno dell'organizzazione che all'esterno, sottolinea anche alcuni rischi connessi. 'Il digitale apre opportunità per raggiungere velocemente quantità di persone altrimenti impensabili, quindi facilita la costruzione della awareness, dello storytelling e della relazione con donatori, partners e pubblico in generale. Tuttavia” ella aggiunge, “ apre anche a nuovi rischi sul fronte reputazionale e di corretta informazione, con la necessità di avere competenze e capacità di gestione dei rischi rapide ed efficaci, per combattere fake news, commenti, contestazioni. Oggi la rete è diventata la nostra Treccani - senza però, spesso, alcun controllo in merito alle fonti - nonché il luogo dove ognuno si sente libero e disinibito nel sentenziare e manifestare le proprie idee, senza filtri’. Ancora una volta, tuttavia, l’aspetto costi che non sempre sono sostenibile da parte del Terzo Settore e l’ancor più importante aspetto competenze specialistiche che mancano abbondantemente in questo Settore, pongono il problema di come formare nuovi specialisti del fundraising e di come munirsi di nuove competenze che, ove presenti, producono subito effetti importanti. Un’interazione quasi empatica, infatti, è il valore aggiunto che internet ha conferito alla comunicazione esterna della Comunità San Patrignano, spiega Antonio Tinelli: ‘Grazie al web abbiamo potuto creare un sistema interattivo che permette alle associazioni e agli attori coinvolti nella cura dei ragazzi che entrano in contatto con la nostra comunità, di attingere alle informazioni e popolarle (in rispetto della normativa di privacy) con dati relativi al percorso dei ragazzi. Questo ha permesso di rendere più efficiente il processo e di migliorare la qualità della relazione interpersonale. Inoltre, grazie al digitale possiamo alimentare una relazione più costante con i nostri sostenitori e con tutti i nostri interlocutori, adottando una modalità di coinvolgimento più emotiva e diretta’.

Il digitale, asset chiave per fare sistema e condividere le best practice

Non c'è collaborazione senza condivisione. Di piattaforme, di dati, di modelli. Emerge dunque l’esigenza di creare un sistema digitale comune da mettere a disposizione del Terzo Settore e renderlo operativo, ossia innestarlo attraverso adeguati standard di riferimento e assegnargli una specifica mission. Il primo passo concreto da fare, è istituire una piattaforma cui tutte le organizzazioni possano accedere per supportarsi e scambiare informazioni sulle “best practice”. Necessità introdotta in primis da Alessandro Radicchi, Europe Consulting, che afferma: “Il tema fondamentale, oggi, è la condivisione: ma prima, è necessario parlarsi e definire uno standard unico di comunicazione e di classificazione delle informazioni da condividere, altrimenti sarà come parlare lingue diverse. Il Ministero del Lavoro, con le linee guida sulla marginalità, ha fatto un passo avanti, ma non basta. Dobbiamo trasferire quelle nozioni su un impianto digitale, non solo per conoscerci meglio l'un l'altro, ma anche per facilitare il lavoro degli organismi che operano in favore delle persone più bisognose, e non solo”. E poiché fra le esigenze principali di oggi, vi è quella di creare contatti fra chi ha le soluzioni e chi deve usarle, quindi fare squadra, Raffaella Pannuti, Fondazione Ant aggiunge: “Noi cerchiamo dei sistemi per mettere in pratica queste idee. A tal proposito abbiamo ideato Sprint 4 ideas, un meccanismo di raccolta fondi dalle aziende invitate a trovare

19

soluzioni per l'assistenza domiciliare, che permette di sollecitare idee da mettere al servizio dell’umanizzazione. L’idea alla base del progetto è proprio <la tecnologia al servizio dell’umanizzazione>. La nostra sfida è anche quella di essere sostenibili: ci deve essere la tecnologia, ma anche la parte umana”. Inoltre, se da un lato non è pensabile condividere le strategie di fundraising, è invece auspicabile collaborare su macro temi, continua Pannuti: 'Dovremmo lavorare sulla frammentazione del Terzo Settore: la gestione delle donazioni online è estremamente interessante, ma rimane problematica per molte associazioni perché sussistono problemi di privacy, di investimenti e di gestione. Anche la progettualità ha un costo, che le associazioni medio-piccole non possono affrontare'.

LA TERZA LEVA: L’IMPATTO COME CRUSCOTTO DI GUIDA

L'impatto come cruscotto di guida per il Terzo Settore per valutare le attività, migliorare le performance, verificare l'efficacia delle azioni

L'utilizzo del digitale nel Terzo Settore può essere sintetizzato attraverso tre parole chiave: investire, realizzare e misurare. Dei primi due aspetti, ne abbiamo già un poco parlato, e vi ritorneremo sopra. Per ciò che riguarda l’ultimo tema, invece, va subito sottolineato che nel non profit la misurazione è molto complessa, specialmente se si tratta di progetti misti (e per questo il digitale si inserisce, ancora una volta, come uno strumento facilitatore). Nei progetti misti, infatti, per misurare il loro impatto è necessario inserire indicatori di efficacia ed efficienza differenziati per tipologia di attori e di strumenti. Naturalmente, la digitalizzazione è fondamentale in quanto permette di confrontare i singoli costi facenti capo ai vari soggetti, cosa rilevantissima specialmente se si tratta di casi pubblico-privato. Tuttavia, la misurazione dell’impatto non solo consente di valutare l'efficacia dei progetti, ma spesso consente di far emergere anche altri dati che possono essere estremamente rilevanti (ad esempio, da varie ricerche emerge che il 50% dei progetti di inclusione riesce a procurare occasioni di lavoro). Ritornando al tema dell’impatto sociale degli Enti del Terzo Settore (ETS), è innanzitutto condivisa l’idea che per accrescere tale impatto occorra mettere insieme soggetti diversi ed allo stesso tempo focalizzarsi sui bisogni del territorio. Ma ancor prima, è necessario che banche, cittadini donatori, fondazioni, risorse pubbliche e imprese for profit condividano una visione nuova e nuovi strumenti finanziari che possano produrre valore per la collettività. Nell'attuale struttura del mercato italiano, ad esempio, bisognerebbe pensare a strumenti finanziari che consentano alle piccole e medie imprese profit di svolgere esse stesse attività ad alto impatto socio-ambientale. E questi stessi strumenti, una volta sviluppatisi, è possibile ipotizzarne la diffusione anche fra gli ETS. Inoltre, in questa cornice del “mettere insieme”, anche l’integrazione nelle decisioni d’investimento di criteri finanziari e non finanziari, viene valutata sempre più positivamente dagli investitori tanto che già alcuni case study permettono di inquadrare una moltitudine di strumenti che hanno la potenzialità di creare valore per l’investitore e per la società nel suo complesso, attraverso strategie orientate al medio-lungo periodo che integrano l’analisi finanziaria con criteri non finanziari. Tra questi, ricordiamo ad esempio: • La gestione del capitale proprio con criteri ESG di Fondazione Cariplo • I green bonds e l’esperienza del Gruppo Intesa Sanpaolo • L’erogazione della polizza assicurativa tramite il framework ESG di Allianz • Il segmento di ExtraMOT PRO di Borsa Italiana • I Piani Individuali di Risparmio (PIR) come investimento “etico”: l’esempio di Mediolanum • I social impact bond: il Carcere di Torino • Gli SDGs bond e l’esperienza di BBVA • I social bond di UBI • L’impact investing di Oltre Venture

20

Un case study in tal senso eccellente, è quello dell’Ospedale di Treviso. E’ stato infatti possibile aggiungere all’investimento un valore sociale, trasformando un fattore finanziario in un fattore impact. Come? Il soggetto che costruirà l’ospedale ha ricevuto credito sia da banche commerciali che dalla BEI il cui finanziamento aveva tuttavia un tasso inferiore di quasi un punto percentuale. Questo vantaggio di tasso, anziché trasferirlo a favore del costruttore, lo si è trasformato in un Fondo impact, che ha consentito ulteriori interventi di equity o di garanzia a beneficio di cooperative che operano intorno all’Ospedale, in ambito sanitario e assistenziale. E grazie al leverage bancario, le risorse messe così a disposizione delle neo cooperative (15 milioni di euro) sono addirittura sovrabbondanti rispetto ai bisogni del territorio. Ciò premesso, e sulla base della considerazione che qualsiasi attività che svolgiamo nel quotidiano genera un impatto sociale o ambientale che può essere misurato grazie a vari indicatori (ad esempio, la creazione di occupazione o la carbon footprint -l’impronta in termini di emissioni climalteranti), il tema è il “come procedere”. A questo riguardo, numerosi sono le testimonianze ed i contributi. Innanzitutto un tema qualitativo. Si ha un impatto se si influisce positivamente sul contesto in cui opera per cui, prima ancora della misura, va analizzata la natura dell’attività di questo o quell’Ente del Terzo Settore. Ad esempio, secondo Marco Morganti, Banca Prossima, la sua ‘può essere definita una “banca d'impatto” per due ragioni. La prima è che opera nell’economia sociale, ovvero un settore “full impact”, perché da statuto è dedicata al bene comune. La seconda ragione è più sofisticata e anche “contagiosa”: per statuto, Banca Prossima destina almeno la metà degli utili a un fondo patrimoniale che agisce come strumento di garanzia, per consentire alla banca di concedere credito a soggetti che hanno alto potenziale e buona gestione, ma che non possono accedere al credito secondo criteri bancari convenzionali. Sono quelli che chiamiamo “primi esclusi”. Per quanto attiene invece all’aspetto quantitativo, anche se come vedremo detta misurabilità non è questione pacifica, ed anche se tutti concordano che le misure quantitative sono spesso difficilmente applicabili in contesti dove gli aspetti qualitativi sono preponderanti, esso sta diventando tuttavia tema centrale. Maria Elena Vivaldi ricorda ad esempio che l’Associazione Dynamo Camp Onlus sta investendo molto sulla misurazione dell'impatto: ‘Nel 2015 abbiamo realizzato il primo SROI (Social Return on Investment) collegato a un social bond di UBI. Si tratta però di uno strumento piuttosto rigido e con un margine di discrezionalità. L’intenzione di Dynamo Camp è quella di muoversi verso forme di misurazione ibridate, quali-quantitative, perché la valutazione dell’impatto non può prescindere dal benessere dei bambini di cui si occupa l’Associazione”. E così vale anche per Tommaso Abbiati della Federazione Humana People to People, che afferma che: ‘E’ necessario puntare su due elementi: da un lato, l’importanza del capacity building come voce da finanziare, dall’altro, la misurazione di impatto, che non dovrebbe riguardare solo i singoli progetti, ma considerare a livello globale le attività dell'organizzazione, limitando, ad esempio, l’uso di un sistema legato allo SROI solo sui progetti sviluppati in Italia’. Secondo Lorenzo Triboli della Fondazione Social Venture, infine: 'La Fondazione investe direttamente in equity di imprese che rispondano a due requisiti fondamentali, l’intenzionalità dell’impatto sociale, ambientale o culturale perseguito, oltre che un presupposto di sostenibilità economica. Da un lato si guarda, quindi, che l’impatto sia intenzionale e non incidentale all’attività di business, dall’altro che questo impatto possa generare valore nel lungo periodo grazie al raggiungimento di una sostenibilità economica, mediante la vendita di beni o servizi – in assenza di contributi a fondo perduto da cui dipendere per raggiungere questa sostenibilità. La Fondazione nasce, quindi, con un approccio da investitore, complementare rispetto a quella di istituti tipicamente erogativi, come Fondazione Cariplo, aumentando l’offerta di risorse finanziarie disponibili per il settore'. Come si diceva poco sopra, però, qualche voce fuori dal coro esprime perplessità sulla misurazione dell'impatto. Ad esempio Francesco Paolo Reale, Fondazione Adecco, afferma: 'Occorre capire che misurare i risultati raggiunti in modo efficace può concretamente aiutare a operare con successo una vera trasformazione sociale, bisogna però capire quali criteri adottare. Ricercare a tutti i costi modelli profit nel non profit è uno sforzo inutile” E così continua allargando il discorso sul tema della comunicazione: “Credo che il digitale indebolisca parecchi degli alibi

21

tradizionalmente utilizzati dal non profit per limitare la sua azione. Oggi si può fare una buona comunicazione con meno investimenti, i costi degli strumenti sono spesso sostenibili’. Su una simile linea di dubbio sulla misurabilità quantitativa delle varie azioni, è anche Paolo Palmerini, CIAI, che rileva ‘un’oggettiva difficoltà’ a misurare a volte l'impatto delle loro azioni, a differenza di quanto accade nel mondo delle imprese, dove tutto è più semplice. 'Il profit è più veloce in questo contesto, perché ha obiettivi più chiaramente definiti. Noi cosa vogliamo fare? Quali sono i nostri criteri di valutazione? Gli strumenti ci sono, ma ancora non sappiamo come utilizzarli. In uno degli ambiti di nostra competenza, quello dell’adozione internazionale, la tecnologia ha portato problemi nuovi e apre nuove domande, ma dà anche la possibilità di attivare reti internazionali più velocemente, al di là di ogni vincolo giuridico’. Su una strada di mezzo, meno quantitativa e che ci riporta in modo significativo all’aspetto qualitativo, è infine Gianmarco Luggeri, Fondazione Cologni, per il quale la misurazione è estremamente utile per creare impatto e migliorare le performance, ma con criteri diversi da quelli del privato; no ai numeri, sì a indicatori qualitativi, che mettano in evidenza l'incremento nella qualità della vita dei soggetti su cui l'organizzazione ha profuso il proprio impegno: ‘Nel profit tutto è misurabile, ma nel non profit non è così. Nel momento in cui riusciamo a dimostrare il vero impatto sociale allora possiamo fare la differenza', spiega. 'Bisogna pensare alla misurazione in termini di miglioramento delle condizioni delle persone e dei territori dove i progetti insistono. Le istituzioni ragionano spesso solo sulla quantità, che spesso è l’opposto dell’impatto. Sarebbe estremamente utile pensare ad un software che sulla base di indicatori definiti possa misurare anche l’impatto delle azioni’.

La sostenibilità, concetto chiave nella valutazione degli investimenti La finanza sostenibile è stata oggetto di notevoli evoluzioni nel contesto globale, europeo e italiano. La Global Risk Map del World Economic Forum evidenzia che, dei cinque maggiori rischi globali in termini d’impatto e di probabilità di accadimento, quattro sono relativi a driver ambientali e sociali. Tra le iniziative internazionali volontarie, si ricordano gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (SDGs), i Principles for Responsible Investment (PRI), per favorire la diffusione degli investimenti sostenibili e i Principles for Sustainable Insurance (PSI), il loro equivalente per il mondo assicurativo. La Sustainable Stock Exchanges (SSE) delle Nazioni Unite è invece un’iniziativa che richiede alle Borse di tutto il mondo di impegnarsi pubblicamente per promuovere la diffusione di informazioni e l’integrazione di pratiche ambientali, sociali e di buon governo (c.d. ESG) di lunga durata. A livello europeo, l’High-Level Expert Group on Sustainable Finance (HLEG), nato in seno alla Commissione Europea, ha promosso lo sviluppo di una strategia per diffondere una finanza più sostenibile, imperniata sui criteri ESG. Sulla base di questa, la Commissione UE ha pubblicato un Action Plan che evidenzia le dieci azioni fondamentali con cui il sistema finanziario può sostenere il programma dell'Unione per il clima e lo sviluppo sostenibile. Anche nel nostro Paese, d’altro canto, aumentano le iniziative finalizzate ad orientare il sistema finanziario italiano nella transizione verso un modello di sviluppo che sia a bassa intensità di carbonio, e che quindi sia inclusivo e sostenibile, e tra queste, il Dialogo Nazionale per la Finanza Sostenibile ha individuato le possibili azioni volte a migliorare l’integrazione dei fattori ESG nelle strategie e nei processi decisionali del settore finanziario italiano. Tuttavia, secondo quanto riportato dal Rapporto ASviS 2017, il nostro Paese ha ancora molta strada da fare per diffondere la cultura promossa dagli SDGs, anche a causa della mancanza di un approccio sistematico nella finanza tradizionale italiana. Con gli attuali andamenti, pertanto, l’Italia non sarà in grado di centrare né i target internazionali da raggiungere entro il 2020, né quelli fissati al 2030, a meno di un cambiamento radicale del proprio modello di sviluppo. Tutto ciò premesso, in tema di Terzo Settore, il concetto di sostenibilità, ha una duplice faccia. Da un lato vi è l’aspetto, da non sottovalutare, di come fare arrivare fondi al Terzo Settore (il ritorno in termini monetari rimane limitato), e quindi quale sia l'origine della sostenibilità di un finanziamento a un soggetto del Terzo Settore. Quindi parliamo di sostenibilità dell’investimento dal punto di vista di chi finanzia il Terzo Settore.

22

Dall’altro, il concetto di sostenibilità va allargato al profilo del progetto portato avanti dagli Enti del Terzo Settore, nel senso che occorre sempre più guardare al lungo periodo. In questo caso, e parlando in termini generali e non specifici del Terzo Settore, il lungo periodo significa favorire il raggiungimento di un'equità intergenerazionale, tanto è che con l’approvazione dell’Agenda 2030, il significato di "sostenibilità" è diventato più complesso e integrato (presuppone ad esempio, che non si possano raggiungere gli obiettivi ambientali se non si ottengono anche quelli economico-sociali, fra i quali rientrano, appunto, i gap di salario, welfare e prospettive fra millennials e baby boomers). Per quanto riguarda il Terzo Settore, invece, il lungo periodo significa occuparsi di progetti prolungati nel tempo, di modo che i sostenitori non sposerebbero più un "progetto", ma una "causa", ossia una vera e propria visione futuribile di cambiamento. “Se gli ETS si limitano ad essere “progettifici” a breve termine, rimettendosi alle intenzioni dei finanziatori che tendono a concedere finanziamenti per un tempo massimo di 18 mesi, nella migliore delle ipotesi essi possono intercettare “prodotti finanziari a scaffale”, che tuttavia sono ben lungi dall'assicurare una risposta coerente e di lungo periodo ai bisogni sociali che devono soddisfare’, così ricorda appunto Maurizio Ferrari, Fondazione Renato Piatti con il quale concorda pienamente Stefano Molina, Fondazione Agnelli: ‘Ragionare di sostenibilità significa evitare di restare intrappolati nel presente. E’ fondamentale imparare ad usare al meglio oggi le risorse disponibili, per averle a disposizione anche per il domani”. Chiarita questa distinzione, è evidente che il tema più delicato in questa sede, è il primo, quello cioè della sostenibilità dell’investimento vista dal punto di vista del finanziatore. Le risposte sono varie. Quella di Marco Morganti ruota intorno al concetto di capitale fiduciario ed al compito della banca di provare a quantificarlo. ‘Banca Prossima ha lavorato con l'Università di Pavia elaborando un algoritmo in grado di ponderare il livello di fiducia comunitaria verso un progetto. Se questo gode di una maggiore fiducia da parte dei cittadini cui è destinato, allora migliora il rating per l'erogazione del credito’. Inoltre, 'molte delle iniziative pensate per finanziare il Terzo Settore sono totalmente risk-free', e pertanto propongono rendimenti bassi, al livello dei titoli di Stato’. Raffaella Pannuti di Fondazione Ant sottolinea però la necessità di chiarire alcuni punti fondanti: “Quali sono i criteri di scelta di un investimento? Quanto conta il fattore umano? Come viene finanziato oggi il Terzo Settore? Quando parliamo di finanza sostenibile ne parliamo in termini di interesse economico o pensiamo a una migliore capacità nella gestione delle risorse? Nel nostro caso, migliorare le prestazioni complessive vuol dire anche allargare le persone alle quali viene fornito il servizio o il supporto”, senza dimenticare che, come ricorda Gianluca Randazzo di Banca Mediolanum, ‘un’impresa deve tener conto degli stakeholder ai quali deve rendicontare. Bisogna intervenire sui ritorni degli investimenti e creare una maggiore correlazione tra sostenibilità e rendimento’. Il fatto è che, secondo il modello di rating ordinario, gli ETS non spiccano certo per merito di credito. Il Terzo Settore è tradizionalmente considerato debole, perché lo si valuta solo per la consistenza dei suoi asset materiali (soprattutto il patrimonio) e non per il capitale fiduciario, vera ragione della sua sostenibilità. Marco Morganti, Banca Prossima, propone però una soluzione più semplice, derivata dall’esperienza. Così egli spiega. 'Per noi la risposta è semplice: dalla nascita di Banca Prossima il Fondo ha consentito di dare credito a 1.700 imprese non bancabili per un totale di €450 milioni di credito erogato. Considerando che il numero totale dei clienti ha raggiunto quota 63.000, si tratta di numeri non indifferenti. Soprattutto, però, fa riflettere la qualità media del credito di Banca Prossima. Quello normale è del 2.7%; i clienti fragili che abbiamo finanziato grazie al Fondo hanno ovviamente performance peggiori, ma che non arrivano al 10% di deterioramento (vs 18% del sistema Italia); il 90% di essi sono tuttora in piedi e stanno restituendo regolarmente il debito, molto spesso realizzando una crescita quantitativa e qualitativa che li porta definitivamente nella fascia della migliore clientela. Il denaro prestato non è servito a sopravvivere, ma a crescere e a diventare primi’. In conclusione, considerando che è possibile attivare circoli virtuosi che, concretamente, producano valore sociale sul territorio e attivino modelli scalabili e replicabili, ne deriva che gli investitori hanno l’opportunità di sviluppare strumenti che diano una risposta ai bisogni sociali del territorio (anche sfruttando le potenzialità del digitale),

23

attraverso l’integrazione, nella valutazione degli investimenti, di elementi di sostenibilità che possano loro consentire di intercettare le best practice presenti sul territorio e supportarle nel loro processo di crescita. E ciò può avvenire anche attraverso strumenti finanziari (social bond, green bond e strategie di impact investing) e l'attivazione di scambi win-win tra investitori istituzionali del settore finanziario, ETS e realtà critiche sul territorio. Il tutto, per cercare di creare valore condiviso per la comunità.

LA QUARTA LEVA: FORMAZIONE E SVILUPPO DELLE COMPETENZE

Rafforzare le competenze necessarie per la nuova era digitale e per la gestione d’impresa, con particolare attenzione alle competenze soft, tipiche del Terzo Settore, e i "mestieri tradizionali" del Made in Italy

La scarsa competenza dell'ambito digitale, ancora talvolta presente sia nel pubblico che nel privato, crea non pochi problemi: rende difficile la definizione degli investimenti necessari (la prima voce di spesa che viene tagliata fuori in caso di risorse limitate); rischia di far perdere preziose opportunità che le attività online possono apportare (in ambito comunicazione, ma non solo); non consente di analizzare in piena consapevolezza i dati raccolti. Per rafforzare le competenze indispensabili per l'era 4.0, dunque, occorre valorizzare le soft skills (capacità relazionali, di gestione del cliente, ospitalità, fundraising, per citarne alcune) impossibili da sostituire attraverso le nuove tecnologie. Questo processo non può che partire dal sistema educativo che spesso non è preparato a farlo e che, in tempi di digital disruption, spesso si avvale di metodi ormai superati. D’altro canto, se è vero che il digitale aggiunge molti elementi di complessità, è anche vero che esso richiede lo sviluppo di nuove competenze. Le aziende, viceversa, sono talvolta impreparate a ciò (esse, in media, utilizzano solo il 35% del know-how interno), per cui bisogna ricollegare la domanda delle imprese all'offerta formativa. Specialmente considerando che nel futuro l'interazione tra macchine, tecnologia e uomo sarà ancora più pervasiva. Per colmare la carenza di expertise professionali tecniche che a breve si verrà a creare (per altro, si stima che 50.000 persone andranno in pensione nei prossimi anni, senza personale formato per sostituirle), le aziende stanno creando le Corporate Academy, finalizzate allo sviluppo di nuove professionalità tecnico-professionali. Ma il problema è molto complesso perché da un lato vi è una mancanza di trasmissione del sapere, anche quello tradizionale (molti ragazzi sono ignari del mondo dell’artigianato e della manifattura, poiché il sistema scolastico non aiuta e l’unione dei licei con gli istituti tecnici ha talvolta aumentato la confusione, per cui sarebbe importante che lo Stato sensibilizzasse i cittadini e valorizzasse alcune professioni, in modo da facilitarne il reperimento) e dall’altro il made in Italy è un’eccellenza che può essere valorizzata dal digitale, non solo in termini di immagine, ma anche in termini di efficacia della produzione (ad esempio l’artigiano, ricco della sua manualità e della sua tradizione irripetibili, può utilizzare la tecnologia 3D per velocizzare i processi e aumentare l'efficienza). Pertanto, sembra che noi siamo inefficienti su entrambi i fronti: trasmettere i vecchi sapere e impossessarsi dei nuovi. Quindi, e per ritornare al Terzo Settore, da un lato sarebbe importante che chi vi opera promuova progetti di sostegno basati sulla trasmissione dei saperi “antichi”, è dall’altro sarebbe necessario che essi stessi si dotino di strumenti educativi adeguati e realizzare progetti di aggiornamento continui per preparare al digitale loro stessi, i volontari a vario titolo, e quelli che si intende aiutare. Per fare ciò, si possono utilizzare le opportunità offerte dal digitale stesso, come l’e-learning, che garantisce una formazione costante e un accesso continuo, facendo anche attenzione a tenere costantemente aggiornati gli operatori sulle modalità di utilizzo dei canali digitali perché bisogna considerare che i tempi di evoluzione e sviluppo dello scenario tecnologico sono così compressi, che si rischia di formarsi su uno strumento già superato. E, detto per inciso, questa formazione digitale può anche aiutare a vincere una sfida importantissima cui il Terzo Settore è chiamato, ancora una volta, ad adattarsi: la gestione dei bandi. I fondi sono sempre meno, vanno

24

conquistati e bisogna avere le competenze per farlo, anche in tema di sostenibilità. E non a caso Elena Di Fazio, Fondazione Dr. Ambrosoli Memorial Hospital propone l'utilizzo di nuove figure professionali: ‘Pensare in digitale aiuta a identificare meglio i bisogni: oggi i bandi richiedono un livello di digitalizzazione che spesso non si ha. Una soluzione potrebbe essere quella di condividere degli specialisti come dei Data Analyst. Esiste, tuttavia, un divario tra le esigenze progettuali delle organizzazioni, che richiedono delle figure specializzate, e gli investimenti realmente possibili’. Sia quel che sia, il tema è vasto e rilevante, tanto che Leonardo Malvasi, Amici di Edoardo, così ricorda: “Spesso nel Terzo Settore non ci sono le competenze tecniche per affrontare la digitalizzazione, non tutti i ragazzi sono abituati a utilizzare le app o lo smartphone, soprattutto se non lo utilizzavano da bambini o da adolescenti. Una delle soft-skills che possiamo insegnargli, è come utilizzare le diverse tecnologie e soprattutto come farlo in maniera utile e consapevole’, così appunto ricorda. Ed anche Monia Dardi, Fondazione Adecco, è sulla stessa lunghezza d’onda: “Le persone di cui ci occupiamo sono lontane dal digitale. I NEET o i rifugiati politici (anche profili alti) non hanno una formazione adeguata. Ad esempio stiamo sviluppando delle app per fare il curriculum con il telefono - che rappresenta un'opportunità - ma dobbiamo insegnare loro a gestire questa applicazione’. ‘Gli investimenti nella formazione spesso non sono tra le priorità’, dice Elisa Rotta, Fondazione Sodalitas e inoltre, spiegano Luisa Fumagalli e Martina Monsù, Fondazione Renato Piatti, ‘c’è a volte un rifiuto del digitale a priori, perché la gestione del volontariato è ancora in gran parte analogica e si fa fatica, non solo con le persone di una certa età, ma anche con i più giovani. Un esempio è il cedolino digitale, non tutti riescono a scaricarlo. Si pone anche un problema di formazione, abbiamo 17 strutture tra Varese e Milano ed è difficile trovare un docente specializzato. A questo scopo abbiamo in corso un progetto per introdurre un portale interno di condivisione delle informazioni che ci agevoli, una sorta di Linkedin interno’. Va osservato inoltre che imparare nuove abilità non è solo una conquista tecnica perché il processo di apprendimento è esso stesso un cammino di scoperta dal grande valore umano per le persone, specialmente se malate o con gravi problemi: ‘Da qualche anno nelle scuole stiamo portando avanti il laboratorio di allenamento emotivo, sulle competenze trasversali, in modo da mettere in luce i ragazzi e le loro competenze personali. La malattia ti cambia dall’oggi al domani, se non si hanno gli strumenti per elaborare quanto accade e per collaborare allora tutto diventa più difficile’. Silvia Collazuol, CasaOz. Si diceva poco sopra, che il digitale può essere utile strumento anche per migliorare l’efficienza nello svolgere mestieri antichi che comunque vanno tramandati. E a questo proposito il progetto di Altagamma è uno degli esempi più riusciti di come la tradizione italiana possa beneficiare dell'innovazione: 'Altagamma si focalizza oggi sulla formazione professionale, stiamo sviluppando un accordo con il MIUR per sviluppare competenze tecniche partendo dall’analisi delle best practice nelle Corporate Academy', spiega Stefania Lazzaroni, 'un progetto europeo di comunicazione e valorizzazione delle competenze manuali: “Hands of Europe” che sono cruciali anche per le imprese culturali e creative che rappresentiamo’. Competenze manuali che in Italia rischiano di scomparire e l’iniziativa della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte serve proprio a evitare che ciò accada, e a dare alla tradizione un’ulteriore spinta propulsiva. Gianmarco Luggeri, così infatti sottoliena: 'In Italia molti artigiani fanno fatica a trovare apprendisti cui trasmettere il loro saper fare. Attraverso il progetto “Una Scuola, un Lavoro” selezioniamo talenti dalle scuole di arti e mestieri e finanziamo loro un tirocinio di 6 mesi all’interno di rinomate botteghe. Su quasi 200 tirocinanti circa il 60% è stato assunto dopo il tirocinio. Segno che c’è grande richiesta di lavoratori che “sanno fare”, non solo nei nuovi mestieri digitali ma anche in quelli più tradizionali, in cui l’Italia eccelle a livello mondiale. Sono lavori di grande attrattività, ma sono quasi sconosciuti ai più giovani. Oggi conosciamo soprattutto adulti che, dopo brillanti carriere, decidono di diventare artigiani: chiunque assistendo alla nascita di un violino rimarrebbe affascinato dalla figura del liutaio’. Possiamo aggiungere, infine, e per completare il quadro, che nel vasto tema delle competenze da implementare e che il digitale può in tal senso aiutare, vi sono le competenze trasversali che assumono un ruolo sempre più

25

importante. Secondo Stefania Lazzaroni, Altagamma: 'Mancano le competenze richieste dai mercati e in particolare quelle manifatturiere che sono il fiore all’occhiello del sistema Paese. Altagamma è impegnata sui temi della formazione e in particolare sull’analisi delle nuove competenze tecniche e professionali. Fra queste, nuova centralità stanno acquisendo anche le soft skills e le competenze trasversali - relazionali, di servizio, di sensibilità culturale - che sono state rivalutate. Skills che peraltro sono centrali nel Terzo Settore, che sviluppa competenze specifiche legate all'attenzione e ai bisogni dell'altro, molto interessanti per il mercato del lavoro’. E dello stesso avviso è anche Andrea Zucca, Fondazione Feltrinelli, che afferma: 'Bisogna rafforzare la filiera formativa per avere più competenze digitali, senza perdere di vista le competenze di base e le soft skills. Abbiamo una carenza di professionisti digitali ma anche di laureati, c’è un problema di dispersione scolastica e di incontro tra la filiera formativa e il mercato del lavoro con conseguenze di skills mismatching e overqualification. Bisogna tenere in considerazione tutto l’impianto formativo e agire con politiche attive tanto sull’offerta quanto sulla domanda di lavoro. Non può esserci occupabilità senza competenze’. Esistono alcune vie che facilitino tutto ciò? La risposta ce la fornisce Emma Togni, TechSoup, la cui piattaforma, nata negli USA nell’87, aiuta le associazioni non profit che non hanno budget per accedere alla tecnologia, facendo loro risparmiare fino al 95%: 'Le grandi piattaforme informatiche fanno CSR, ci donano prodotti informatici e noi li doniamo. Parliamo di donazioni di Microsoft e aziende grandi, quindi l’accessibilità a questi strumenti esiste, poi però spesso mancano le competenze, l’elemento umano non è sostituibile per elaborare obiettivi e messaggi, solo successivamente si può procedere alla scelta degli strumenti. Negli ultimi anni c’è stato un cambiamento di approccio radicale. Siamo passati dalla consulenza sul cosa/come alla consulenza sul perché. Lo strumento non è mai una soluzione di per sé, è importante andare alla radice, capire quale sia la propria identità e quali sono i propri obiettivi per poi adottare gli strumenti adeguati di conseguenza. Alla base c’è sempre un tema di identità, persone e competenze’.

Le competenze come conoscenze in azione: il valore dell’esperienza sul campo e dell’attenzione ai bisogni. "Saper fare per saper dare"

Il digitale non è solo uno strumento per pianificare meglio, ma permette anche di connettere formazione e lavoro. E dal momento che i tempi con i quali si evolve il mercato del lavoro sono più veloci di quelli della formazione, bisognerebbe dare il via a un modo più rapido per formare specialisti del digitale ad hoc, specialmente per ciò che riguarda il Terzo Settore dove ci vogliono figure professionali nuove che appunto per questo necessitano di percorsi specifici di inserimento. Ma i problemi, su questa strada, sono numerosi. Due in particolare. Innanzitutto, c’è il cambio generazionale inteso anche in senso tecnologico. 'Il cambio generazionale oggi aiuta un tipo di professionalizzazione diversa, anche l’offerta formativa oggi è più strutturata' dice Licia Casamassima, Azione contro la fame che poi continua riferendosi invece al tema del ricambio tecnologico: 'In alcuni contesti siamo ancora in una fase di conflittualità interna tra nuovi approcci e tradizione, ma c’è molto dinamismo’. Un dinamismo che per Marco Girolami, Touring Club Italiano, è a due corsie: ‘Siamo a metà strada tra analogico e digitale e questo è il momento di accelerare per cogliere le opportunità, tenendo conto che ci sono due diverse velocità di sviluppo tra profit e non profit e valorizzando ulteriormente le competenze del non profit'. In secondo luogo, c’è il problema delle competenze. O meglio di cosa si intenda per competenza e di come utilizzarla. ‘Oggi viene prestata molta attenzione al tema delle competenze, ma spesso senza metterle a fuoco adeguatamente. Ad esempio, non ci si chiede se la competenza sia una caratteristica individuale o qualcosa di socialmente riconosciuto', si interroga Stefano Molina, Fondazione Agnelli. 'Per agire in modo razionale, soprattutto nel campo dell’istruzione e della formazione, è fondamentale capire di cosa si stia parlando. Cosa si intende per competenza? Non esiste una risposta univoca. Per molti la competenza corrisponde al compito svolto (performance). Per altri è tutto il potenziale. Per un capo del personale, ad esempio, può essere l’una o l’altra: se devo premiare mi interessa la performance, se sto reclutando guardo al potenziale. La differenza tra primo, secondo e Terzo Settore non c’è da questo punto di vista. Le competenze sono dunque conoscenze messe responsabilmente in azione; come tali costituiscono una sfida per sistemi educativi pensati molto tempo fa e ancora oggi organizzati per trasmettere conoscenza’.

26

E il tema della consegna di conoscenza come qualcosa di prezioso, è stato messo a fuoco da Emma Baiardi, Fondazione Rava, che ha introdotto l'iniziativa Academy for Good: ‘Un'iniziativa inaugurata lo scorso anno, volta a portare competenze ai volontari più piccoli e ai ragazzi. Abbiamo identificato 4 aree principali per i nostri corsi: salute (mondo della sanità), digitale (partnership con aziende come Microsoft, con corsi mirati di specializzazione), soft skills e manual skills. Il nostro motto è saper fare per saper dare'. In termini generali, quindi, si ritorna sempre ai noti nodi: bisogna aiutare le persone in difficoltà, ma si hanno poche risorse, inadeguata cultura, insufficienti competenze. 'Nel caso di Fondazione Renato Piatti', spiega ad esempio Maurizio Ferrari, 'siamo un gruppo di persone che devono dare un servizio alle persone più fragili e il digitale ci può aiutare in modo sostanziale. Vedo due principali criticità: l’accesso alle risorse e la sostenibilità. Oltre ad avere la cultura, abbiamo budget? Abbiamo le competenze? E poi c’è il tema del processo decisionale, chi decide cosa e chi fa cosa? E a questo proposito, da un lato si ritorna al problema delle competenze, dall’altro si tocca quello del rapporto con il soggetto pubblico che spesso si limita ad affidare un contratto, definire vincoli e limitare le risorse e non ti permette di essere al passo con i tempi. Se non alziamo il livello culturale medio dei protagonisti, ci scontriamo con un digital divide insanabile’.

Il Terzo Settore laboratorio di innovazione, anche in ambito lavoristico Il Terzo Settore, infine, rappresenta un campo di sperimentazione e di anticipazione su molti fronti, un ambiente ricco di stimoli in cui si sviluppano capacità e approcci nuovi che vengono poi utilizzati con successo anche altrove, vale a dire per un successivo inserimento nel mondo del lavoro profit (ad esempio, Valore D, su 40 donne manager, ne ha selezionate 3 che appartengono al Terzo Settore). Quindi, il Terzo settore diventa anche “luogo” che apporta valore alla crescita professionale di chi vi opera, non importa se in Italia o all’estero perché 'le persone e i professionisti che fanno esperienza all’estero nel Terzo Settore e poi tornano, spesso hanno un enorme potenziale', fa notare Guido Calvi, Fondazione AVSI, anche se 'non sempre le competenze e l’esperienza maturate vengono sufficientemente valorizzate al ritorno in Italia’. A questo riguardo, un tema importante è però la mancanza di un riconoscimento normativo per alcune tipologie di lavoro tipiche del Terzo Settore, le cui modalità non rientrano nelle cornici che tradizionalmente hanno regolato il mondo del lavoro in Italia. In breve, non sempre un lavoro svolto nel Terzo settore ha un riscontro in una fattispecie giuridica, per cui spesso chi vorrebbe lavorare nel Terzo Settore viene scoraggiato a farlo. In questo caso, la burocrazia non va quindi di pari passo con l'evoluzione lavorativa del paese reale per cui sarebbe utile 'una modalità leggera di gestione delle attività svolte in smart-working', come spiega Leonardo Malvasi, Amici di Edoardo, ‘il Terzo Settore, e in particolare il lavoro volontario, necessita di una flessibilità contrattuale maggiore rispetto al profit e da questo punto di vista può essere più innovativo’.

Le nuove figure necessarie e le opportunità di lavoro per i giovani nate dal cambio generazionale

Come emerge anche dalle indicazioni provenienti dai grandi organismi internazionali (per esempio OCSE e Banca Mondiale) e da diversi tavoli di lavoro anche a livello nazionale, l’impatto del digitale sul mondo del lavoro e dell’innovazione sociale cammina su un filo sottile, a metà fra incognite e certezze. La fiducia nel valore delle skills e dell'esperienza sul campo, si accompagna a tanti punti interrogativi, in un contesto in continua evoluzione da cui partono innumerevoli strade e soluzioni. Il digitale è dirompente e non esiste una ricetta magica per instradarlo nella direzione desiderata. In termini generali, si assiste a una profonda riorganizzazione del mondo del lavoro, un cambiamento epocale, il cui impatto non è ancora del tutto prevedibile. Le tradizionali definizioni giuslavoristiche non sono più adeguate: ad esempio, la differenza tra lavoro subordinato e autonomo non è più attuale, in quanto esistono nuove forme contrattuali e modalità di collaborazione ibride. Basti pensare a casi emblematici come Foodora o Uber, forme di

27

appalto e subappalto che rispondono a un’app, definite come lavoro non subordinato, pur costituendo l’applicazione uno strumento di controllo. Qualche dato, ci aiuterà però a meglio comprendere il fenomeno: in Italia, il tasso di disoccupazione oggi è pari all’11,5%, ma per i giovani è balzato al 35,2%, tra le ultime posizioni in Europa. Per quanto riguarda, invece, i dipendenti senior, un terzo degli occupati in Italia appartiene alla fascia d’età 50-64 anni e stiamo parlando di 7,5 milioni di lavoratori. Da questi pochi dati se ne desume immediatamente che è importante una riqualificazione dell’ageing e la cross-fertilization e che cioè è importante integrare il know-how e l’esperienza delle vecchie generazioni con la conoscenza digitale delle nuove. E naturalmente il digitale può aiutare a fare tutto ciò, non fosse altro perché apre a nuove possibilità lavorative che possono avvicinare le diverse generazioni, avvantaggiando sia i giovani, che faticano a inserirsi nel mondo del lavoro, sia i lavoratori più maturi che non riescono a stare al passo con i tempi e rischiano di uscire dal mondo del lavoro o ne sono già emarginati. Per ritornare tuttavia al Terzo Settore, la verità è che l’evoluzione del digitale nelle onlus non appare scontata, anche se in questo processo incide sicuramente l’ingresso dei millennials (l’età media di chi lavora nelle onlus si sta sempre più abbassando). Ciò dipende dl fatto che questo settore ha delle sue tipicità e quindi le organizzazioni devono fare molta attenzione a utilizzare il digitale sia per migliorare i propri skills ma anche, ed allo stesso tempo, per valorizzare la propria identità e la propria reputazione. Proteggendo entrambe, competenze e reputazioni, da quei fattori che, proprio nell'ambiente digitale, possono comprometterle. Comunque sia, il Terzo Settore rappresenta oggi un mercato occupazionale in evoluzione che offre nuovi ruoli e nuove figure. Lo conferma l’ISTAT che, nel suo ultimo censimento, ha evidenziato che al 31/12/2015, le Istituzioni non profit attive in Italia erano 336.275: l’11,6% in più rispetto al 2011, e complessivamente impiegavano 5 milioni 529 mila volontari e 788 mila dipendenti. Rispetto al Censimento del 2011 il numero di volontari è cresciuto quindi del 16,2% mentre i lavoratori dipendenti sono aumentati del 15,8%. Per cui, e per ritornare al tema digitale-Terzo Settore, la domanda è il se ed il come esso possa offrire ulteriori e nuove opportunità per i giovani. In linea di massima, la risposta al se, è un si (per esempio, il "Social Innovator" sarà presto una figura di riferimento in tutti i Paesi), la risposa al come, è più complessa. Se solo guardiamo al mercato del lavoro in genere, vediamo come il lavoro svolto oggi dall'uomo, sia esso di matrice intellettuale o meramente esecutiva, potrebbe in futuro essere largamente sostituito. Tutti i processi si stanno digitalizzando e robotizzando: dall’avvocato al giornalista, dal personale dedicato al retail agli addetti alla logistica, l'intermediazione dell'uomo si assottiglia sempre di più e la filiera si accorcia. Le cause risiedono non solo nella digitalizzazione, ma anche nel contesto economico. Ebbene, questo cambiamento investe anche il Terzo Settore, che deve perciò comprendere come valorizzare a proprio vantaggio il processo in corso. In altri termini, occorre fornire un orientamento delle opportunità offerte oggi dal digitale, ma anche delle modalità di lavoro possibili nel Terzo Settore. I nativi digitali hanno sicuramente un vantaggio, ma il Terzo Settore deve trovare la strada giusta per inserirsi in un contesto di transizione. Servono, perciò, nuove figure dedicate che sappiano capire come stiamo transitando da un sistema analogico a un sistema digitale: servono dei Digital Specialist degli enti del Terzo Settore o dei Data Analyst che possano elaborare in modo efficace tutti i dati. E ciò lo evidenzia benissimo Maria Leddi, CasaOz: ‘In un’organizzazione è imprescindibile avere degli strumenti digitali e delle figure specializzate. In tal senso ci sono almeno 3 elementi diversi del digitale a cui corrispondono tre specialisti diversi: la digitalizzazione interna; la digitalizzazione sul progetto, ovvero come portare la tecnologia sulle attività; la digitalizzazione per il rafforzamento della brand awareness’.

IL FORUM

Massimiliano Tarantino, CEO Fondazione Feltrinelli

28

Sono Massimiliano Tarantino e a nome del presidente Carlo Feltrinelli vi do il benvenuto a questa giornata che siamo particolarmente onorati e contenti di ospitare nella nostra nuova sede. Come centro di ricerca dedicato alle scienze sociali, cerchiamo di comprendere e indagare anche gli impatti della trasformazione digitale e della rivoluzione 4.0 sulla cittadinanza. La nostra istituzione è stata voluta dal presidente Carlo Feltrinelli per portare avanti ciò che Giangiacomo Feltrinelli alla fine degli anni Quaranta e all'inizio degli anni Cinquanta aveva inaugurato, prima che diventasse editore e facesse impresa della conoscenza. La sua idea era che la cultura e lo spirito critico fossero a disposizione dei cittadini per un processo di trasformazione che li vedesse protagonisti, e che ci fosse una partecipazione nella dinamica di ascolto tra le differenze che compongono la cittadinanza. Più di tutto, la sua ambizione era che la conservazione del passato (negli archivi della Fondazione, due piani sotto il palazzo di vetro di viale Pasubio, sono custoditi un milione e mezzo di carte d'archivio e 260.000 volumi) fosse da esempio per tutti noi per affrontare le grandi sfide dell'oggi e del domani. Perché in questo nuovo edificio disegnato da Herzog e de Meuron ci occupiamo di sostenibilità, di trasformazione del mondo del lavoro e del futuro delle dimensioni della cittadinanza. Oggi siamo in un periodo fluido, contaminato, meticcio, ibrido, fragile e tutti noi sappiamo quanto è centrale il Terzo Settore, l'economia sociale, l'economia relazionale, l'economia culturale. Ma questa economia deve essere costruita, sistematizzata, messa in rete per sviluppare un futuro migliore. Questo luogo è il tentativo, a Milano, di materializzare l’idea che la cultura, la conoscenza, il dialogo, il confronto, siano le basi per un futuro migliore.

Paolo Venturi, Direttore di AICCON, Università di Bologna - ‘Il sociale come rigeneratore di valore: opportunità e sfide per banche, impact investors e filantropi’

Il tema del “sociale” che produce valore, nella storia ha avuto declinazioni diverse. Noi oggi non parleremo del “sociale” che definisce la sua identità nella “non lucratività” della sua attività, del sociale che viene categorizzato a partire da ciò che non è, ossia un soggetto che non deve produrre profitto. Fra l’altro questo è un errore enorme perché il divieto non è nel far utili ma nel ridistribuirli, ma approfondiremo quella visione che identifica la socialità nel “valore prodotto dalle relazioni”. Oggi parleremo del valore sociale di organizzazioni che generano soluzioni, che alimentano comunità, legami, e quindi capaci di dare risposta tanto ai bisogni dei cittadini quanto alle loro aspirazioni. Innanzitutto occorre ricordare che “il sociale” per essere autentico deve trovare coerenza fra mezzi e fini. In altri termini, per le organizzazioni orientate all’interesse generale “il come” è importante tanto quanto il “perché”. E’ pur sempre vero che la socialità trova il suo ancoraggio nel fare comunità e nell’erogazione di servizi meritori ma oggi, è nella creazione di valore (anche economico) che è possibile osservare il nuovo ruolo delle istituzioni non orientate al mero profitto. In altri termini la molecola della socialità è parte integrante della formula per generare “valore aggiunto”. Il sociale che crea valore non è una cosa recente, ma è parte del DNA della storia del nostro Paese. Fino alla fine del 1700 il sociale e l’economico erano in qualche modo legati, la dimensione espressiva e la dimensione strumentale di un'azione convivevano in armonia, così come l'utilità e la felicità (principi oggi separati). Dopo la rivoluzione industriale il paradigma che si è affermato prevedeva che la produzione della ricchezza fosse affidata ad alcuni soggetti (le imprese for profit), la ridistribuzione allo Stato, lasciando così alle organizzazioni non profit una funzione residuale, di nicchia. Il sociale esce così dal mercato e viene confinato nella sfera della responsabilità dell’impresa, nell’agire gratuito dei cittadini (volontariato) e nella filantropia.

29

Oggi assistiamo ad una riemersione di temi e valori che nella storia economica erano stati in maniera colpevole accantonati. Il superamento di questa visione lo si può osservare nel diverso ruolo che ricopre “il sociale”: non più effetto o esternalità della produzione, ma bensì come premessa. Se passiamo infatti da un'idea legata “all’estrazione di valore” o alla sua mera contabilizzazione, ad una che si focalizza sulla “generazione del valore” (su questo tema M. Mazzucato ha recentemente scritto un libro molto bello “The value of everything”) scopriamo come oggi non possiamo omettere, nella definizione di una strategia economica di lungo periodo, la dimensione sociale. In altri termini l’efficienza è necessaria ma non più sufficiente per costruire la competitività e la sostenibilità. Questo è il vero passaggio: il sociale inteso come qualità del valore, sostenibilità, cura dei propri stakeholder (tema già anticipato da Porter e Kramer quando parlavano di valore condiviso) non è più un'esternalità o un effetto dell'azione economica, né tanto meno un elemento che può essere usato unicamente per sanare i “fallimenti” dello Stato e del Mercato. Il sociale è un elemento che entra dentro la “value chain” delle imprese. Il valore è perciò l’esito di una “conversazione” fra la dimensione economica e quella sociale. Il tema della competitività si genera quindi nella convergenza fra la socialità (intesa come senso e fine dell’azione) e l'imprenditorialità. La socialità alimenta il fare impresa e il rischio dell’imprenditore, inteso come colui che genera valore aggiunto. L’avvicinamento del sociale, in tutte le sue forme, alla dimensione imprenditoriale sta creando una nuova generazione di istituzioni: una terra di mezzo popolata da imprese “intenzionalmente sociali” (es. Imprese Benefit) e da organizzazioni non profit “intenzionalmente imprenditoriali” (es. Associazioni che assumono la qualifica di impresa sociale). Questa convergenza sta alimentando due effetti oggi ben visibili. Il primo ha a che fare con la ridefinizione del concetto di efficienza. La razionalità economica ha sempre misurato l'efficienza nell’ottimizzazione dei processi e nell’allocazione ottimale delle risorse in funzione della massimizzazione del profitto. Se oggi assumiamo, come detto in precedenza, che il sociale fa parte della produzione del valore significa che la scelta efficiente è innanzitutto quella che razionalmente è capace di incorporare valore sociale e conseguentemente significa fare scelte di valore. Esemplare su questo è la lettera che ha inviato Larry Fink di BlackRock ai propri dipendenti e ai propri investitori, ricordando loro che il criterio guida delle loro scelte future dovrà basarsi principalmente su quello che ha definito “The sense of purpose”. La cosa è rilevante perché certifica come, oltre al rischio e al rendimento, ci sia una terza dimensione, quella etica, che compone il paniere della nuova razionalità economico-finanziaria. Ecco quindi il primo punto che volevo proporre: la trasformazione prodotta dal sociale sta nell’aver ridefinito il principio di efficienza allargandolo a quella che possiamo chiamare razionalità sociale o ragionevolezza. Per dirla con Von Wright: “i giudizi di ragionevolezza sono orientati verso il valore. Ciò che è ragionevole è senza dubbio anche razionale, ma ciò che è meramente razionale non sempre è ragionevole”. Bisogna recuperare gli assunti di valore, per essere efficienti e sostenibili. L'altro elemento che segna la trasformazione prodotta dal sociale ha a che fare con la costruzione dell’identità delle istituzioni (profit/non profit), infatti un conto è riconoscere l'identità, altro è costruirla. Se l’identità è un insieme di caratteristiche che connotano di sé un soggetto ed è qualcosa che è frutto di un processo di scelta, è evidente che essa non “si dia” una volta per tutte. Infatti, quello identitario è un fenomeno prettamente morfogenetico, un fenomeno cioè ad elevato grado di cambiamento che evolve sia per spinte interne, sia in seguito alle trasformazioni della società in cui tanto il for profit quanto il non profit, sono inseriti. In tal senso, la costruzione – e non già la scoperta – dell’identità comporta sempre che un confine mobile venga tracciato. E ogni confine, per il fatto stesso di separare interno ed esterno, comporta sempre il rischio della difesa ad oltranza della propria identità. Ciò la rende precaria e pericolosa: precaria perché un’identità che non riesce a vedere l’altro non è sostenibile alla lunga; pericolosa, perché un’identità che non si pone in discussione degenera, prima o poi, nell’integralismo, cioè nel rifiuto a priori della diversità dell’altro. Dico questo perché oggi, nell’era del sociale che produce valore, non possiamo riconoscere l'identità solo leggendo l’iscrizione ad un albo o conoscendo la tipologia giuridica. In questo senso va anche la riforma del Terzo Settore che,

30

istituendo la qualifica giuridica dell’impresa sociale, permette ad associazioni e fondazioni (tradizionali enti non profit) di assumere la natura imprenditoriale. Appunto, un conto è riconoscere l'identità altro è costruirla. La costruzione dell'identità si deve misurare inevitabilmente con delle scelte a volte rischiose e con l'allineamento fra intenzioni, risultati e trasformazioni prodotte; un po' come la circonferenza di Eraclito, dove il principio e la fine devono coincidere. Nel sociale questo è fondamentale, non bastano le intenzioni buone per garantire le azioni buone e né tantomeno le intenzioni buone sono garanzia delle trasformazioni buone. Quello che voglio dire è che il Terzo Settore, in un’epoca in cui la dimensione sociale è sempre più pervasiva, non può accontentarsi di un riconoscimento formale di “non lucratività”, ma deve declinare la sua biodiversità nei fatti e nelle trasformazioni che genera, ossia nell’impatto sociale che produce. Oggi il tema del sociale si misura sempre di più con le trasformazioni, cioè con gli effetti che le attività sociali producono sul contesto (comunità) e sui beneficiari. L’agire sociale non è solo un atto di solidarietà, ma è anche un modo per trasformare la società, generare cambiamenti e condivisioni fra persone che considerano la relazione come un “bene in sé” (Arrow). Questo cambiamento, che vede il sociale come “input” del valore e non come mera esternalità, sta generando uno scenario completamente diverso dal passato. Panorama che vede crescere nel non profit la popolazione appartenente alla sfera produttiva e imprenditoriale. Sono 336.000 le organizzazioni non profit, di queste 20.000 sono imprese sociali (cooperative sociali e imprese sociali ex lege), sono relativamente poche in termini numerici, ma producono oltre il 50% dei 900.000 occupati del Terzo Settore. Dentro queste 336.000 c'è un nucleo che produce valore in maniera stabile e continuativa, perché stabile e continuativa è la dimensione appunto dell'imprenditorialità sociale. Imprenditorialità che è destinata inesorabilmente a svilupparsi, anche perché si rivolge ad una domanda pagante che cresce in maniera esponenziale. E’ stata stimata in circa 110 miliardi della spesa complessiva delle famiglie e dei cittadini per la cura, la sanità (40 miliardi di spesa out of pocket), la scuola, l’assistenza, ecc. Se a questo flusso crescente aggiungiamo i 21 miliardi che le imprese sono in grado di mettere in campo attraverso progetti di welfare aziendale, si capisce bene come il mercato delle imprese sociali sia destinato ad aumentare. Un mercato che potrebbe aspirare ad avere una scala industriale in quanto, quella sociale, è una delle più significative e consistenti voci di domanda interna del nostro paese. A tutto ciò si aggiunge l’impatto della tecnologia che aumenta in maniera sensibile le opportunità e la scala dei progetti sociali, riducendo in maniera consistente i costi. La nuova imprenditorialità sociale infatti cresce con modelli di business diversi, che si nutrono in misura massiccia di strumenti come l’intelligenza artificiale, la blockchain e l’internet of things. Le nuove imprese sociali sono modelli “ibridi”, cioè capaci di ricombinare la dimensione commerciale con quella sociale, superando le classificazioni tradizionali (profit/non profit – pubblico/privato) Quella a cui stiamo assistendo, quindi, è la nascita di una nuova categoria di imprese che potremmo definire a “vocazione sociale” (cosa ben diversa da quella a responsabilità sociale). Se voi guardate molti bandi promossi da fondazioni, potete già notare come queste, oltre a non profit, imprese sociali, cooperative sociali, si rivolgano anche alle imprese a vocazione sociale, intendendo tutta quella “terra di mezzo” fra il profit e il non profit che si propone di perseguire finalità d’interesse generale (es. SIAVS, Benefit Corp, ecc). Ma la vocazione sociale di queste imprese come viene misurata? Dall'impatto sociale che possiamo definire come la metrica che ci permette di capire se la vocazione è autentica o meno; ecco perché è fondamentale far cultura e migliorare gli strumenti di misurazione. L’impatto sociale diventa così lo strumento principale per qualificare e misurare la socialità dell’azione imprenditoriale sulla comunità di riferimento. La seconda parte del mio intervento voglio dedicarla alle risorse per finanziare queste nuove imprese. Se, come detto, cambiano i meccanismi di produzione del valore, il concetto di efficienza e le identità delle istituzioni, allora deve cambiare anche il mix di risorse che serve per lo sviluppo di queste organizzazioni. In altri

31

termini se i modelli di gestione e di produzione del valore sono plurali e ibridi (pubblico/profit/non profit), anche le risorse finanziarie devono in qualche modo essere plurali, cioè devono ricombinarsi; non è più pensabile immaginare che il non profit possa svilupparsi solo con l’autofinanziamento, che l’equity sia prerogativa solo del for profit o che la cooperazione sociale si patrimonializzi solo con l’apporto di persone fisiche. Serve una visione nuova capace di dilatare le strategie finanziarie del non profit e dell’impresa sociale. Da una ricerca realizzata da AICCON sul tema della finanza per il Terzo Settore, emerge l’intenzione delle cooperative sociali di coprire parte dei propri investimenti (circa il 7%) attraverso l’apporto di investitori privati esterni. Può sembrare una cosa non significativa ma emerge per la prima volta, dopo 7 anni di osservazione. Questo è il segno di come, anche dentro al perimetro mutualistico, si stanno aprendo opzioni rivolte a investitori prima impensabili (questa tendenza dovrebbe amplificarsi grazie alla riforma del Terzo Settore che permette ad investitori privati di entrare nella governance delle imprese sociali e di ricevere, anche se in forma ridotta, dividendi). Le strategie finanziarie diventano così ibride come la natura delle imprese a cui si rivolgono. Detto ciò, vorrei concludere sottolineando molto sinteticamente i trend più significativi rispetto alle risorse rivolte all’economia sociale e al non profit: 1. Filantropia. Oggi questa “asset class” si sta orientando su due ambiti: il primo è quello della generazione

d’impatto sociale attraverso l’auto-organizzazione delle comunità, il secondo ha a che fare con il “consolidamento e la crescita” delle competenze presenti nelle organizzazioni non profit. Quindi community building e capacity building sono i due obiettivi verso cui il finanziamento delle fondazioni bancarie e delle organizzazioni filantropiche si sta orientando. Non si stimola più soltanto l'efficiente allocazione delle risorse, ma si stimola la generazione di infrastrutture sociali. Si stimola l'aggregazione della domanda, si stimola l'attivazione della domanda. E' un cambiamento radicale, nel senso che non si ha più solo l'obiettivo di sostenere dei progetti meritori, ma ci si orienta su progetti che generino soluzioni comunitarie sostenibili.

2. Le Banche. Gli istituti di credito stanno cambiando profondamente anche sotto la spinta delle trasformazioni prodotte dal sociale. Per quanto riguarda il loro posizionamento nel Terzo Settore, siamo passati dalle minoranze profetiche, alle banche orientate al prodotto, poi ai settori. Oggi assistiamo ad una nuova fase nella quale “il sociale” sta riorientando la visione e la “dimensione strategica” delle maggiori banche. Da cosa lo vediamo? Dall’investimento significativo che stanno facendo sulla formazione del loro capitale umano, e dalla tendenza ad uscire dal classico ruolo di erogatore, al fine di proporsi come “network orchestrator” (A. Giudici) fra profit e non profit, favorendo la creazione di progetti ibridi a finalità sociale.

3. Gli Investitori. In questo scenario è facile prevedere in futuro un maggior peso degli investitori. I fondi di social

venture si proporranno con maggior intensità quali partner interessati a partecipare ai business sociali promossi da queste nuove forme di economia. Dalle ricerche più recenti si evidenzia come stiano crescendo la domanda di beni e servizi ad alto contenuto sociale e, conseguentemente, il numero dei fondi e fondazioni volte a promuovere imprese orientate all’impatto sociale.

Siamo in una fase di transizione ed il processo di cambiamento è in corso. Non sappiamo cosa succederà in futuro, sappiamo però con certezza che il sociale sta cambiando l’economia e il modo di produrre valore, perciò dobbiamo attrezzarci per un nuovo paradigma dove peseranno maggiormente la coesione e la sostenibilità.

32

PRIMA TAVOLA ROTONDA: AUMENTARE L’IMPATTO SOCIALE DI ORGANIZZAZIONI NON PROFIT, IMPRESE, AMMINISTRAZIONI: IL DIGITALE E LA FINANZA SOCIALE COME LEVE STRATEGICHE

Luca De Biase, Nova 24 - Il Sole 24 ore

Per interpretare l'impatto dell'azione socialmente avvertita nel contesto digitale non possiamo che guardare alla prospettiva storica. Arriviamo da due fasi successive diverse. Dal Dopoguerra alla fine degli anni Settata, la società è centrata sul welfare e il ruolo dello stato. Dagli anni Ottanta, la società si organizza intorno a una grande fiducia nell’efficienza, nell'autoregolazione del mercato, nella capacità risolutiva delle privatizzazioni. Entrambe le fasi storiche sembrano avere raggiunto una conclusione. E ora ci poniamo nuove domande perché indubbiamente il valore e i valori si mescolano e il denaro non è più l'unità di misura sufficiente per definire quanto vale quello che facciamo. Era facile credere che il giudizio si potesse riassumere nel raggiungimento del profitto, ma dopo la crisi del 2008 non convince più; resta il fatto che ci domandiamo quale sia l'impatto delle azioni che mettiamo in campo e come lo valutiamo. Lo stesso mondo della finanza, che cerca di partecipare alla costruzione di senso nella società, è un mondo che si pone dei problemi che non sono più misurabili soltanto con il ritorno finanziario e il profitto, ma vuole ridefinire logicamente il suo impatto. In questo processo di ripensamento non possiamo prescindere dalle tecnologie abilitanti che oggi investono la struttura sociale concreta con la quale abbiamo a che fare: le persone non hanno più esclusivamente una dimensione genetica, ma hanno anche una dimensione elettronica. La realtà con la quale ci confrontiamo per quanto riguarda le comunicazioni e le relazioni sociali è profondamente mediata da piattaforme digitali, strumenti digitali, forme di azione che avvengono attraverso l'interfaccia uomo-macchina essendone guidate: non considerare questa dimensione implica una perdita di opportunità; se ne teniamo conto in maniera passiva, accettando l'esistente come semplici utenti, subiamo le logiche del digitale e i valori di chi ha costruito le tecnologie che usiamo; se invece partecipiamo alla costruzione degli strumenti dell'innovazione tecnologica pensando di proiettare nella loro progettazione i valori che mirano all'avanzamento della qualità della vita sociale, abbiamo una possibilità in più. Possiamo realizzare un concreto avanzamento solo lavorando insieme, ‘fare sistema’ è pur sempre una grande utopia, nonostante l'Italia si impegni costantemente a distruggere il senso di questa frase.

Vincenzo Algeri, Responsabile Area UBI Comunità

La strategia di approccio al Terzo Settore, e in senso più esteso alle tematiche connesse all’innovazione sociale, hanno portato il Gruppo UBI Banca già nel 2011, a strutturare una divisione commerciale, UBI Comunità, che affianca al modello di servizio destinato al Terzo Settore e quindi ai soggetti della sfera sociale gli Enti Pubblici. La finalità è di rafforzare l’attività di interazione con le comunità dei territori e di creare rete tra i diversi soggetti dell’ecosistema e stimolare sinergie che possano generare valore condiviso.

L’esperienza maturata da UBI Comunità, attraverso un percorso di ascolto ed interazione con i soggetti del Terzo Settore, ha permesso di rispondere ad alcuni dei loro bisogni evolvendo i prodotti e servizi bancari, adattandoli alle loro esigenze, dall’ambito dei Finanziamenti a quello digitale come con l’applicazione UBI Pay e il Bonifico di Solidarietà, servizi bancari sviluppati per sostenere la raccolta fondi.

33

Un altro esempio è l’Osservatorio nazionale sulla finanza e il Terzo Settore, realizzato con il contributo scientifico di AICCON che è giunto alla settima edizione. L’Osservatorio rappresenta uno strumento, a disposizione di tutti, utile per comprendere qual è la direzione verso cui il Terzo Settore, anche nella sua componente a più marcata vocazione economica, può dirigersi per realizzare i suoi progetti di investimento. Questa fase di ascolto genera sicuramente un’innovazione sociale che si estende all’evoluzione di strumenti finanziari che la banca mette a disposizione del Sociale come vera e propria “Finanza Sociale”.

Uno degli esempi che rappresenta un programma concreto e stabile all'interno della divisione UBI Comunità, sono i Social Bond UBI Comunità. Quasi novanta progetti che ci permettono di dimostrare come possano essere coinvolti i vari attori che gravitano intorno alla finanza e al mondo del non profit, con l’unica finalità di supporto ai bisogni sociali.

Il Social Bond è un'obbligazione che viene abbinata a un progetto presentatoci da un soggetto del non-profit; il progetto viene validato, ne viene analizzato l'impatto nella fase preventiva e dal 2015 ne viene misurato lo SROI come capacità di generare valore.

Con l’emissione di un Social Bond, i nostri 21.000 dipendenti possono rapidamente conoscere il progetto di un'associazione, le sue dinamiche e la sua storia agevolando la diffusione di informazioni sul non-profit a livello nazionale, anche in aree in cui un soggetto del Terzo Settore è meno conosciuto, per distanza geografica o per impossibilità di strutturare campagne di visibilità o di raccolta fondi. Grazie al coinvolgimento di clienti, dipendenti e campagne di comunicazione strutturate, anche digitali, raggiungiamo 4 milioni e mezzo di potenziali sostenitori aumentando così le possibilità di realizzazione dei progetti ad impatto per le comunità del territorio.

Con i Social Bond, dal 2012, attraverso il collocamento di obbligazioni per un totale di 993 milioni, e il sostegno di 35.000 clienti che li hanno scelti come investimento, UBI Banca ha potuto sostenere 89 progetti, sia a valenza nazionale che locale dimostrando come, anche attraverso la finanza, si possa generare valore reale per il non profit e le comunità dei territori. Per dare ulteriore supporto alla collaborazione con il non profit abbiamo integrato anche gli strumenti di comunicazione digitale nelle attività di promozione dei progetti sociali ampliando ulteriormente l’elemento informativo e l’impatto generato.

La riforma del Terzo Settore probabilmente inciderà sull’ambito creditizio, perché con l’introduzione dell'impresa sociale e l'avvicinarsi dei soggetti del profit al non profit si renderà necessario lo studio di nuovi strumenti di analisi creditizia e di finanziamento, in ambito bancario, che permettano, prendendo in considerazione anche la variabile dell’impatto, un’adeguata valutazione dei progetti.

Data l’esperienza acquisita nel mondo del Terzo Settore, abbiamo avuto la possibilità di contribuire alla stesura dell'articolo 77 della riforma, nel quale si introduce l'evoluzione dei social bond, in titoli di solidarietà. Evoluzione che porterà ad abbinare all'elemento di erogazione collegato all'obbligazione, anche alla creazione di funding dedicato a finanziamenti per il Terzo Settore. Proprio per confermare la strategia di partner strategico degli Enti del Terzo Settore, UBI Banca da anni punta sulla formazione di persone specializzate, che sappiano mettere in connessione, nella valutazione di un progetto, non solo l'elemento quantitativo, ma anche quello qualitativo. Le competenze specialistiche sono necessarie per poter dialogare adeguatamente con l’ecosistema del Terzo Settore che presenta specificità qualitative da dover considerare in tutti i processi bancari.

34

Luciano Balbo, Fondatore Oltre Venture, prima società di venture capital sociale in Italia Io ho fatto l'imprenditore tutta la vita, dieci anni fa ho deciso che, potendomelo permettere, volevo dedicare il resto della mia vita a fare altre cose. A dieci anni di distanza sono soddisfatto dell'esperienza fatta perché mi ha portato fuori dal quadrilatero della finanza milanese e mi ha fatto conoscere questo Paese, ma non sono contento di quello che è successo intorno a me. Ho prima raccolto un piccolo gruppo di investitori privati che, insieme a me, hanno messo insieme 10 milioni di euro e hanno investito in alcuni progetti. Siamo stati i fondatori di PerMicro che oggi è l'unica realtà italiana che fa microcredito, seppure con mille difficoltà, con un portafoglio di 200 milioni di euro, a prestiti medi di 5/6000 euro. A Milano siamo noti per l'operazione Centro Medico Santagostino, dove oggi - per esempio - eroghiamo i servizi psicologici e psichiatrici a prezzi risibili (che non danno margine), servizi che rappresentano il 50% di quanto eroga il settore pubblico; due anni fa abbiamo inoltre raccolto un fondo più importante con investitori istituzionali come il Fondo Europeo, Cassa Depositi e Prestiti e altre istituzioni e privati per fare più o meno le stesse cose, e cioè per attirare progetti - dovendo investire e muoversi nell'area della sostenibilità e non del non profit - che coprono l'area dei bisogni intermedi, perché al bisogno estremo o pensa lo Stato o pensa la filantropia. Oggi è molto di moda nel mondo quello che noi abbiamo cominciato a fare dieci anni fa, che va sotto il nome di impact investing. Sono nati i grandi fondi che si aspettano - con questo tipo di attività - lo stesso ritorno finanziario che si fa nel venture capital. Ho vissuto il trend del Fondo Europeo di Investimenti che è una facility, e sono stato il primo investimento che ha fatto in Europa continentale. Noi faremo dei ritorni bassi, ma oggi si chiedono dei ritorni alti, e la stessa vicenda l'ho vista con Cassa Depositi e Prestiti che ha continuato a far crescere i ritorni. Io non dico che sia giusto o sbagliato, però non si può vendere come sociale, ciò che non lo è. Oggi questa attività sta diventando mainstream, ma ha perso la sua significatività. Poi c'è l'altra faccia della medaglia: il settore non profit non è una fonte di proposte. Il settore non profit è totalmente incapace di produrre dei progetti sostenibili, è un grande erogatore, sa erogare bene, ma non sa fare azienda. Noi abbiamo investito come soci sovventori molte cooperative sociali, non ha funzionato quasi mai. Le migliori soluzioni le abbiamo avute quando abbiamo attratto persone della società civile a muoversi sul sociale, perché hanno una competenza più ampia. L’idea che in questo momento il settore non profit rapidamente cambi pelle e faccia altre cose, non funziona, non funziona nella storia. Il settore non profit continui a fare il non profit. L'ultimo aspetto che mi addolora è che con la nuova legge sul Terzo Settore non è cambiato quasi niente, ci sono dei vincoli enormi e tutto questo è stato venduto e comprato dal Terzo Settore e dagli enti, come fosse oro colato. I cittadini devono far sentire la loro voce, perché non nasceranno imprese sociali. Oggi la nuova legge prevede ancora che il controllo debba essere tenuto da persone fisiche o da strutture non profit. Noi cerchiamo progetti, cerchiamo persone di buona volontà, però il punto è che in questo Paese la gente è arrabbiata, perché non ci diciamo la verità, diciamo in pubblico cose diverse da quelle che diciamo in privato. C'è un tema legislativo: in Italia il settore pubblico è bloccato, si fa fatica a lavorare con Comuni e Regioni, anche quando si è disposti a fare investimenti, ma se le cose non succedono è perché noi non siamo in grado di farle succedere, e perché non ci raccontiamo perché le cose non succedono.

Carola Carazzone, Segretario Generale Assifero

Penso che – oggi, in Italia - sia veramente il momento di assumere posizioni forti e di uscire dalla sfera dell'irrilevanza. Sono, infatti, scettica sul fatto che sia sufficiente fare di più con meno. Il ruolo delle fondazioni filantropiche, e quindi delle fondazioni di famiglia, di impresa e di comunità, può essere molto impattante e molto diverso, ma non può ridursi ad un affastellarsi di progetti e la quantità non può fare la differenza: bisogna comprendere a fondo il ruolo che una fondazione filantropica può avere oggi nel nostro Paese. Questo è un passaggio

35

culturale rilevante. Dobbiamo spostarci dall'idea di una fondazione di erogazione - che si definisce quindi con uno solo dei mezzi a sua disposizione, nemmeno con il mezzo preponderante - a un'idea di fondazione filantropica di nuova generazione, moderna, che vuole avere impatto sociale e che, quindi, non fa di più con meno, ma usa meglio le poche risorse che ha. Le 90 fondazioni di famiglia, di impresa e di comunità associate ad Assifero erogano ogni anno circa 300 milioni di euro, che sono una goccia nel mare dei bisogni. Ma se partiamo da una prospettiva di assets e non di bisogni, se consideriamo quello che si può fare unendo non soltanto l'aspetto finanziario, ma anche i non financial assets che hanno a disposizione le fondazioni - relazionali, di immobili, di vario tipo - allora il portafoglio diventa molto più ampio e questo può fare la differenza. Significa passare dall’idea di una fondazione di erogazione a cui ci si rivolge come ad un bancomat per chiedere un finanziamento, che fa bandi ed eroga a dei beneficiari, ad una fondazione filantropica che si pone come partner strategico di sviluppo umano, di costruzione di capitale sociale e riesce in un certo senso ed essere più umile e coraggiosa. Quindi non sta nella sua torre eburnea a distribuire le poche risorse finanziarie che ha, perché anche quelle delle fondazioni di origine bancaria sono poche rispetto alla massa dei bisogni. E’ proprio la qualità degli assets di una fondazione che può fare la differenza; rispetto a tantissimi altri donatori - nonché agli investitori - le fondazioni filantropiche hanno un'agilità, una flessibilità, una libertà di azione che gli altri non hanno. Nel momento in cui riescono a comprendere questo, possono investire in un modo diverso e divenire attori del cambiamento sociale. Se invece si comportano come i donatori pubblici e fanno bandi, chiedendo poi di anticipare alle organizzazioni del Terzo Settore, che, quindi, devono andare da Banca Prossima per riuscire a portare avanti il progetto, allora non si riesce a fare la differenza nel Paese. In un Paese con una diseguaglianza galoppante, con una piramide demografica invertita, con gli stipendi fermi al 2001, con quel tipo di approccio non ci si pone come attori di cambiamento.

Marco Gerevini, Consigliere Fondazione Social Venture Giordano dell’Amore

L’housing sociale ha il vantaggio di avere alle spalle la parte immobiliare, e quindi la dimensione degli investimenti

raggiunge facilmente livelli molto importanti. In Italia, dopo un periodo iniziale di sperimentazione, si è arrivati a un

fondo nazionale da 3 miliardi di equity. Mentre per l'housing sociale si può parlare di un settore e quindi di un’asset

class, per “impact investing” si intende un approccio agli investimenti trasversale a tutti i settori. Quindi diventa più

difficile rintracciare nell'ambito generico dell'impact investing quei parametri che permettano agli investitori di

vedere un'asset class. Sulla scia dell'esperienza dell'housing sociale, Fondazione Cariplo ha costituito una nuova

fondazione che è Fondazione Social Venture Giordano Dell'Amore con lo scopo di supportare l'ambito degli investitori

e dei soggetti che si occupano di investimenti e impatto sociale a svilupparsi, consolidarsi e crescere, facendo essa

stessa investimenti equity. Abbiamo infatti effettuato alcuni investimenti iniziali, sia in veicoli che investimenti

diretti, e investito in soggetti non solo del Terzo Settore. Io non amo molto il riferimento al solo Terzo Settore, anche

la Fondazione stessa può investire in soggetti non propriamente del Terzo Settore, quindi società di capitali che però

abbiano modelli di attività che siano ad impatto e che producano benefici sociali.

Quindi la riforma del Terzo Settore non rende molto facile l’intervento di investitori equity, seppur di social

venture, però crea una maggior separazione tra i soggetti non profit e le imprese sociali; questo è senz'altro un

merito che ha la riforma e che avvicina questa parte del Terzo Settore al Secondo Settore. Mi piace infatti parlare

di “Secondo Settore evoluto” più che di Terzo Settore: il confine fra di loro sta sfumando. Quindi, guardandolo da

investitore equity – anche se un po' particolare perché l'investitore equity Fondazione non è un investitore equity

classico - vediamo che mancano sostanzialmente due elementi per poter attrarre maggiormente investitori equity

nello spazio degli investimenti a impatto sociale. Il primo, è senz'altro quello delle informazioni disponibili, ovvero

la possibilità di avere dei parametri di riferimento più solidi rispetto al calcolo del rapporto rischio/rendimento. E’

quello che ha fatto un po' Banca Prossima nel personalizzare il rating per soggetti del Terzo Settore, che ha permesso

di rendere bancabili soggetti non bancabili. Nell'equity non esiste l'evidenza del rischio di investimento in soggetti

del Terzo Settore. Nell'equity mancano ancora riferimenti, perché i casi sono molto limitati numericamente e

dimensionalmente. Nel tempo non si sono ancora consolidati i parametri che permettono di dire che i tassi di sconto

36

applicabili a soggetti di questo tipo possano includere un rischio inferiore, perché ci sono modelli e settori

completamente diversi. Come dicevo, infatti, non è un vero settore ma è più un approccio agli investimenti.

L'altro grande elemento riguarda la qualità della domanda di capitali, che è oggi molto limitata in termini di

sostenibilità economica e che richiede un grande sforzo di capacity building. Quindi l'altra iniziativa di Fondazione

Cariplo è quella di mettere a disposizione una dotazione di 10 milioni di euro per un programma di capacity building

a cui possono accedere soggetti del Terzo Settore, proprio per rafforzarsi dal punto di vista organizzativo,

professionale, gestionale e poter anche facilitare il ricambio generazionale. Quando guardiamo a soggetti

teoricamente investibili, dal punto di vista dell'impatto sociale hanno potenzialmente grandi qualità, ma dal punto di

vista della sostenibilità finanziaria sono spesso assolutamente non investibili. Sperando che il Secondo Settore si

avvicini un po' a questa terra di confine dell'impresa sociale, senza pensare di poter creare interesse per gli

investitori che guardano alle trimestrali delle aziende quotate, potremmo attrarre quelli che hanno un approccio di

sostenibilità di medio-lungo periodo, soprattutto nel momento in cui riusciamo a dimostrare che il rischio anche

dell'equity, non soltanto del credito, può essere più ridotto. A questo punto riusciremmo a tracciare una strada più

interessante per loro.

Federico Mento, Segretario Generale Social Value Italia e Direttore Human Foundation

Vorrei ripartire dalla necessità di dirsi delle verità: in un momento in cui siamo immersi in flussi di informazioni spesso poco veritieri è opportuno fare delle considerazioni puntuali nel descrivere le strategie e i meccanismi di funzionamento delle fondazioni filantropiche. Ci sono alcuni elementi che dobbiamo provare a mettere in fila.

Il primo è il tema delle risorse. C'è sicuramente, rispetto al passato, una riduzione delle risorse, dovuto al fatto che il meccanismo di generazione di valore si è inceppato, e qui ci dovremmo interrogare sul perché questo sia accaduto. Il tema delle risorse è un tema che esiste, ma se pensiamo a come in questo Paese vengano utilizzate le risorse della programmazione comunitaria, forse le risorse sono disponibili, ma andrebbero utilizzate in maniera molto più efficace, molto più efficiente.

E si arriva al tema della spesa e dell'allocazione delle risorse, rispetto a degli obiettivi e delle finalità. Negli ultimi 15 anni, la Pubblica Amministrazione ha agito su tre driver, più negativi che positivi. Da un lato, riproducendo in maniera meccanica tutta la programmazione del welfare locale, quindi non si è più interrogata su quali fossero i bisogni nei territori, ma ha sostanzialmente ripreso le programmazioni precedenti, riproponendo quella lettura dei bisogni, creando un disallineamento tra l'emersione di nuovi bisogni e gli interventi. Ha ragionato in termini prettamente ragionieristici nella gestione della relazione con le organizzazioni del Terzo Settore; quindi, non ha valutato l'operato delle organizzazioni e assegnato i servizi in base all'impatto che quei servizi avrebbero dovuto generare nei territori, ma il metro con cui ha misurato è stato un metro di natura prettamente finanziaria. Di conseguenza sono stati premiati quegli operatori in grado di avere dei costi più bassi rispetto ad altri, a discapito della qualità del servizio. Questo è un altro elemento dirompente nello scenario.

L'altro driver negativo è stato un modello di assegnazione dei servizi, formalmente corretto, ma sostanzialmente inefficace: abbiamo assistito ad una grande enfasi sulle procedure e questo è un grande tema prioritario che dovremmo affrontare. C'è stata una grande attenzione ai processi, alle procedure, alla trasparenza - che poi molto spesso trasparenza non è stata - che ha sostanzialmente relegato le organizzazioni del Terzo Settore a dei prestatori di servizio. Quindi è accaduto che il Terzo Settore si è trovato ad operare in scarsezza di risorse e, quindi, ha dovuto creare delle marginalità sulla qualità; ha perso la capacità progettuale che aveva e che era stata l’elemento caratterizzante del Terzo Settore italiano (io ho iniziato a lavorare nel Terzo Settore nel 2000, in un'organizzazione che nasceva da un'esperienza di volontariato all'interno del carcere, e in quegli anni non

37

dimenticherò mai quella dimensione di grande effervescenza culturale e intellettuale, di curiosità che c'era nel cercare di comprendere i bisogni e di trovare nuove soluzioni) e se tu diventi un prestatore di servizio non c'è più bisogno che progetti, perché io ti dico quello che è il servizio che mi devi prestare, io ti dico le caratteristiche di quel servizio, e di conseguenza tu a quel capitolato ti devi attenere. Ecco questi tre elementi hanno profondamente distorto la relazione tra Pubblica Amministrazione e Terzo Settore.

Prima si faceva riferimento al fatto che la legge sia un bidone: ecco adesso non so se questo bidone è pieno di spazzatura, o è ancora vuoto. Io mi auguro che sia ancora vuoto, sia da riempire - anche perché ci sono tutta una serie di decreti che andranno emanati anche con celerità perché la scadenza della delega è molto ravvicinata. All'interno di quell'impianto ci sono alcune cose interessanti, penso a tutto il tema della coprogettazione, che secondo me è fondamentale per restituire al Terzo Settore il suo ruolo e ristabilire un principio di sussidiarietà vera, e non di sussidiarietà solamente dichiarata nei documenti di programmazione. Riprendere a fare coprogettazione vuol dire anche cambiare la modalità con cui si assegna un servizio e si definisce la modalità e il metodo con cui valutare quel servizio. E questo è un altro tema chiave, la valutazione degli impatti.

Vorrei dire una cosa, sempre nello spirito delle verità: se non so qual è l'obiettivo che mi sono dato come organizzazione, e posso essere una Pubblica Amministrazione o un grande donatore, valutare non serve a nulla. Lo dico da valutatore di impatto e rappresentante di un'organizzazione che si occupa di promuovere la cultura della valutazione: così diventa un esercizio magari utile e puntuale, ma se non si ha una visione strategica e la valutazione rappresenta un pezzo di quella visione strategica e permette di alimentare la visione, per riallinearla, per andare a mitigare gli effetti negativi che quel tipo di intervento ha generato, allora valutare serve a poco. Quindi, la valutazione degli impatti è fondamentale se è inserita in una visione di lungo periodo e di cambiamento, in cui poi tutti gli attori trovano l'opportunità di collaborare insieme, di lavorare insieme per definire delle soluzioni che siano effettivamente efficaci sul lungo periodo.

Marco Morganti, CEO Banca Prossima

Vorrei raccontare la storia di come le banche non facevano impatto nell'ambito dell'economia sociale dieci anni fa. E per parlare di cose che conosco, vi parlo di Intesa e di San Paolo quando ancora non erano insieme, e mostravano a distanza la stessa patologia in merito alla valutazione del Terzo Settore. La sintesi è che per valutare un soggetto del Terzo Settore gli si sottoponeva un modello di rating nel quale mancava l’essenziale: per esempio la capacità di fundraising. La principale fonte di reddito, di ricavi di un soggetto non profit, associazioni e fondazioni, opere sociali della Chiesa, è il fundraising. E quindi, se veniva fatta tanta raccolta fondi o poca, che ne venisse fatta tanta in uno spazio piccolo, o poca in uno spazio grande, da sei mesi o da sessant'anni e su quale rapporto costi/ricavi era totalmente indifferente. E si può capire che fosse così, perché quel modello di rating era stato costruito per il soggetto for profit, il quale non fa raccolta fondi.

Ho cominciato con un paradosso a titolo di esempio, e continuo con un altro: l’impatto non è la CSR, né lo si legge nei bilanci sociali delle banche, almeno per come sono scritti oggi. Per me l'impatto una banca lo fa dando credito. Che cos'è infatti che la gente rimprovera alle banche? Di non dare prestiti a chi li merita ma non ha sufficiente consistenza patrimoniale e reddituale, e questo può accadere anche perché i modelli di valutazione non funzionano. Non sono adeguati ai soggetti da analizzare.

Dieci anni fa il normale sistema di valutazione cercava nel non profit quello che non c'era - il patrimonio - e non vedeva quello che c'era, il patrimonio immateriale, di cui una donazione rappresenta la conseguenza. Questo è l'essenziale: l'impatto lo si deve misurare attraverso il legame relazionale che esiste tra un soggetto di Terzo Settore e la comunità che lo ha prodotto e alla quale lui si rivolge erogando i suoi servizi. E' un capitale immateriale

38

ed è la migliore proxy dell'impatto. Tanto maggiore è il riconoscimento sociale, tanto maggiore è l'impatto che viene riconosciuto. Su questo si deve basare la valutazione, e noi di Banca Prossima lo stiamo facendo da anni, perché le banche i prestiti li realizzano con i depositi dei depositanti e quindi rischiano, senza l’attenzione dovuta, di produrre un danno forse ancora più grave. Esaminando i numeri di Intesa al tempo emergeva che un prestito medio fatto ad un soggetto di Terzo Settore era di 800.000 euro. Impegni da 800.000 euro, come valore medio per Banca Prossima, non sono frequenti. Il Terzo Settore è fatto anche di piccole esigenze. In Banca Prossima il credito medio è diventato 160.000 euro e al Sud di 130.000. C'è una maggiore predisposizione al credito, ma non per una volontà di fare CSR oppure di migliorare l’immagine, ma perché i modelli di valutazione sono diversi. E per cambiarli basta pochissimo. Per esempio, accorgersi che il fundraising non è una voce tra le varie ed eventuali, ma rappresenta la vita di molte organizzazioni, e finché non viene esaminato con attenzione e non se ne prende conoscenza, non si può decidere correttamente se dare o non dare credito.

Quanto alla propensione per il Sud non è una scelta politica, ma avviene in quanto il modello di valutazione standard fotografa condizioni avverse e, quindi, tende a sfavorire ancora di più un soggetto che invece ha bisogno del credito. Questo meccanismo può, quindi, divenire perverso se non vengono introdotti elementi di valutazione diversi come in Banca Prossima.

Modelli di valutazione più appropriati non sono sufficienti; c'è comunque necessità di esplorare interventi diversi. E questa è l'innovazione che fa di Banca Prossima la banca impact ante litteram capace di andare oltre il nostro stesso modello di valutazione. Basta prendere una parte del profitto (significativa) metterla in un fondo patrimoniale destinato a fare garanzia per coloro che stanno oltre il limite. A questo punto la piattaforma del credito si è allargata. Questa operazione, permessa da una parte del profitto finalizzato a ridurre il rischio, ha portato ad una maggiore estensione del mercato. Guardando da fuori è una grande operazione sociale, è un'operazione di inclusione e permette a tanti di quelli che prima non avevano il credito di poterlo ottenere.

Cambiando prospettiva e guardando da dentro, questo “dispositivo” scambia una minore remunerazione del capitale e la possibilità di andare in un mercato dove non c'è nessuno. Quindi l'imprenditore, colui che ha fatto nascere Banca Prossima Intesa San Paolo, ha investito in un modello che ha una diversa prospettiva di remunerazione. Remunera di meno, include di più. Questo è socialmente più interessante e socialmente più impact. E dal punto di vista dell'imprenditore è un'opzione di economia nuova, non di new economy, di un'economia che si rifonda perché ragiona sul profitto, e lo modifica in vista di una diversa sostenibilità. E siccome questo modello - come tutti i modelli buoni - è virale, dopo dieci anni dell'uso del Fondo nell'area in cui noi operiamo grazie ad esso, non c'è il 100% di default, ma si perde ancora in una maniera sostenibile. Siccome questo modello funziona, rappresenta la più bella delle attività che adesso Intesa San Paolo fa propria. Nel senso che stanzia un fondo patrimoniale di 250 milioni di euro che agirà da leva, moltiplicato per 5, quindi fino a erogare un miliardo e 250 milioni di credito per affrontare le situazioni di prima esclusione. E' né più né meno il modello di Banca Prossima. Le buone idee sono contagiose.

Il Fund For Impact consentirà a Intesa San Paolo di fare credito a studenti universitari, start-up tecnologiche, tutti coloro che possono essere riconosciuti come fascia di prima esclusione.

Carlo Segni, Lead Financial Officer The World Bank (da luglio 2018 Cassa Depositi e Prestiti) Ho lavorato 18 anni alla Banca Mondiale, arrivavo da Wall Street, ero molto interessato alla macro economia, e allo sviluppo. Ho lavorato dapprima su progetti nei Paesi dell'est Europa e in Africa, per sette anni, poi sono tornato alla tesoreria della Banca mondiale, che è un po' la trading room della Banca. La mia funzione era di emettere bond

39

strutturati, e sono subito stato coinvolto nel 2007 nelle prime emissioni dei green bond. Dopo lo sviluppo dei green bonds siamo passati dai social bonds ai green growth e abbiamo lavorato su diverse tipologie. La Banca Mondiale si rivolge ai Paesi più poveri per aiutare le loro economie, aumentare il loro benessere, dare opportunità, e lavora nei contesti più estremi e diversi, dunque non c’è una piattaforma di riferimento uniforme per quanto riguarda l’impatto sui clienti finali. Ma “impatto e sociale” sono presto diventati elementi fondamentali per i grandi investitori istituzionali. Abbiamo cominciato con i grandi fondi pensione per i green bonds e la loro domanda era molto semplice. Volevano un prodotto che fosse capital protect, a capitale garantito, garantito con triplo A, non erano attaccati al rendimento, quindi consideravamo adeguato il rendimento della Banca mondiale, però volevano un accesso alla nostra agenda del clima. Abbiamo, quindi, sviluppato il programma di green bond che ci permetteva di fare un link tra i dollari che ricevevamo e un gruppo, un paniere di progetti green, secondo i criteri che avevamo sviluppato noi con il supporto di terzi. Ho lasciato la Banca due mesi fa e oggi green e social sono l'argomento del giorno. Le ultime operazioni che ho seguito erano prodotti assicurativi per i paesi poveri, per le emergenze, le catastrofi ambientali. E mi sono ritrovato davanti asset manager o hedge funds, che avevano poca cognizione del sociale, ma erano però interessati a sapere a cosa sarebbero serviti questi soldi e come avremmo gestito un’eventuale emergenza. Abbiamo per esempio affrontato un terremoto in Messico e abbiamo pagato 150 milioni al governo Messicano, soldi di investitori e assicuratori. Sorprendentemente, non erano eccessivamente preoccupati delle perdite, ma hanno voluto conoscere come sono stati utilizzati i soldi, chi abbiamo aiutato, e come. La nuova attenzione degli investitori istituzionali alle tematiche sociali è un trend molto positivo. Fino a 11/12 anni fa, sapevano poco o niente del sociale, erano temi che non avevano in agenda, mentre adesso si informano sui progetti, sulla destinazione dei loro investimenti, vogliono sapere le storie, i contenuti che una volta erano in appendice con qualche fotografia, ora sono le prime pagine delle nostre presentazioni. Misurare l'impatto per la Banca Mondiale è difficilissimo, ogni progetto è specifico del Paese e della situazione, abbiamo modelli di valutazione dell'impatto dei progetti, che vengono controllati sia sul breve che sul medio e lungo termine. Il problema è che il sistema di valutazione dell'impatto non è omogeneo, perché le tematiche di sviluppo e le criticità dei paesi sono eterogene per natura, dipendono dai Paesi, dalle situazioni specifiche, che rendono difficile avere un indicatore singolo. Oggi sono in Cassa Depositi e Prestiti, mi hanno chiamato per gestire l’ufficio di cooperazione e sviluppo, una funzione di gestione dei fondi del Governo italiano per lo sviluppo e la cooperazione nei Paesi in via di sviluppo e nei Paesi poveri. E' una bella sfida, che trovo nobile, il fatto che si pensi di andare al di fuori delle mura domestiche; trovo veramente interessante che anche un'Istituzione come Cassa, così radicata nell'economia italiana, consideri attivamente i Paesi del terzo mondo, e spero di portare l’esperienza dei miei anni alla Banca Mondiale, magari riuscendo concentrarmi sui temi centrali dello sviluppo, dall’immigrazione al clima, l’educazione e la salute.

Cristina Tajani, Assessore a Politiche del lavoro, Attività produttive, Commercio e Risorse umane, Comune di Milano Nel mondo e nella sfera delle soluzioni c'è ancora tanto da lavorare, almeno in Italia o nel nostro contesto, quindi forse conviene fare un passo indietro e passare dalla sfera delle soluzioni a quella dei problemi, rispetto ai quali siamo alla ricerca di soluzioni nuove, con strumenti nuovi. Parliamo cioè d'investimento ad impatto sociale e quindi della mobilitazione di attori privati di varia natura. Urgono come attori a supporto di un settore pubblico che forse non riesce più nel compito di soddisfare alcuni bisogni, e questo è un elemento irreversibile, ed è una prima acquisizione che dobbiamo avere chiara in mente per poter poi progettare le soluzioni, anche in termini di procedure.

40

Osservando la storia dal punto di vista di un attore pubblico, come è ad esempio il mio caso, vedo che a livello comunale questo stato di cose è ancor più evidente, sebbene avessimo qualche sospetto e qualche dubbio già da diversi decenni, almeno a partire dal 2008. Io e gran parte dell'attuale squadra di Giunta dell'Amministrazione di Milano abbiamo avuto la possibilità di governare negli ultimi 7/8 anni subito a ridosso della crisi economica del 2008, e sebbene il nostro territorio e il nostro contesto abbia continuato in questi anni a mostrare performance occupazionali e produttive migliori rispetto al resto d'Italia, le trasformazioni profonde che quest'ultimo elemento di crisi ha prodotto, sono state evidenti anche nel nostro contesto. Al decisore pubblico a livello locale è quindi apparso ancor più evidente che quegli strumenti che aveva in mano non erano più sufficienti, non solo per una ragione esterna - cioè uno shock esogeno, come direbbero gli economisti ricordando la crisi economica - ma anche perché eravamo in un trend decrescente, e a questo punto irreversibile, di contrazione della spesa pubblica a disposizione degli enti locali per soddisfare i bisogni che i Comuni gestiscono direttamente - il welfare, i piani di zona, l'educazione con l'assistenza e l'accoglienza dei più piccoli. Questo è il primo punto che ha spinto verso la ricerca di alleati interessati a costruire, insieme all'ente pubblico ed in risposta a questi bisogni, impatto sociale sui territori. E quanto sopra non vale solo per i bisogni tradizionali, per i quali il soggetto pubblico non è più in grado di garantire le stesse risposte di prima, ma anche per i bisogni emergenti, resi evidenti per ragioni anche storiche. La crisi demografica è un dato epocale anche dal punto di vista dell'utilizzo delle risorse dei bilanci pubblici e delle scelte di investimento degli attori privati perché per il pubblico e per il privato una cosa è ragionare a fronte di una piramide demografica che sta in piedi con la punta in alto, altra è ragionare se è con la punta in basso. E questo in parte ci riporta anche alla questione migratoria, che è l'altro tema epocale, la cui risposta non può essere la rimozione del tema. Evidentemente siamo dentro una dimensione storica che è più grande delle volontà politiche o dei singoli Governi: ci sono fatti epocali che ti costringono a immaginare modelli diversi. Un altro aspetto rilevante per le amministrazioni pubbliche, e su cui noi abbiamo fatto alcune sperimentazioni, è il riutilizzo del patrimonio immobiliare pubblico. Questo è un altro tassello di sperimentazione possibile, che in alcuni casi mostra anche dei vantaggi dal punto di vista della costruzione di modelli di co-progettazione. Il vantaggio è quello che hai un valore che in altri casi non hai: quello immobiliare (come veniva ricordato prima dalla Fondazione Giordano Dell'Amore). Le sperimentazioni di maggior successo - e che oggi hanno restituito anche alla città immobili che erano in disuso e che erano forse anche oggetto di degrado - sono state fatte costruendo in una logica di cofinanziamento tra il pubblico e, in molti casi, imprese sociali, interessate ad utilizzare lo spazio con un orizzonte temporale di medio-lungo termine, per costruire iniziativa sociale, iniziativa culturale, sostenibile dal punto di vista economico. Quegli esperimenti sono stati sicuramente di successo, almeno fino ad oggi e per come oggi li possiamo valutare. Il resto del mondo dei servizi sociali a livello territoriale, anch'esso in modo diverso ha partecipato alla costruzione delle idee di fondo che sono state alla base di questa nuova progettazione; sono stati costruiti in una logica di integrazione tra quello che il pubblico è ancora in grado di offrire con risorse proprie - sempre più destinato a quei bisogni che non troverebbero sul mercato, anche sul mercato dell'impresa sociale o di impatto sociale delle risposte, perché non sufficientemente remunerativi - integrandoli con servizi offerti dal privato sociale, destinati ad una fascia di popolazione intermedia (non abbastanza solventi da poter stare su un livello alto, di mercato puro per acquistare le risposte ai propri bisogni e alle proprie necessità). Ed è in questa logica condivisa di integrare il pubblico con un privato attento all'impatto sociale, che è nata la nuova programmazione di welfare. Ma abbiamo anche fatto sperimentazioni un po' più avventurose per l'ente pubblico: per esempio quella fatta con alcuni dei soggetti presenti in questa tavola rotonda sul microcredito, avviata proprio nel 2011 come risposta con strumenti nuovi ai bisogni della crisi economica. Pertanto, grazie ad un accordo con le istituzioni che già lo facevano (come PerMicro o come anche Ubi Banca, Banca Prossima), e tramite una nostra Fondazione (Fondazione Welfare Ambrosiano) di cui sono soci anche altri attori pubblici (come Camera di Commercio) e privati (come CGIL, CISL e UIL), abbiamo cominciato ad erogare microcredito tramite il sistema bancario a persone e lavoratori in temporaneo stato di bisogno, con l' aggiunta di una gamma di servizi di

41

accompagnamento che facesse sì che il microcredito, sia sociale sia di impresa, non rimanesse un’erogazione che poi non trovava una forma di consulenza/aiuto. Abbiamo inoltre sperimentato forme di sostegno ad imprese ad alto impatto sociale (ad esempio tramite un incubatore specializzato voluto dal Comune e gestito da un gestore professionale) nel quartiere di Quarto Oggiaro, quindi in un'area periferica, con l'idea che quelle imprese ad alto impatto sociale potessero anche contribuire alla rigenerazione urbana dell'area. Abbiamo sperimentato il crowd funding civico, finanziando cioè progetti (ad impatto sociale) la cui scelta era però sottratta alla Amministrazione perché il finanziamento andava a quei progetti che tramite la raccolta pubblica riuscivano ad ottenere il 50% del budget iniziale. In breve, la scelta era affidata ad una valutazione del pubblico. Alla fine di tutte queste sperimentazioni la morale che ne traggo riguarda il tema dell'impatto sociale delle azioni cogestite o co-progettate dal pubblico e dal privato insieme. Un elemento che conta è l’orizzonte temporale a disposizione, e questo vale soprattutto se introduciamo elementi di valutazione. La valutazione è utile se, a seguito dei risultati ottenuti, sei in grado e hai la volontà di aggiustare il tiro, altrimenti è un esercizio molto sofisticato, ma politicamente muto. La variabile temporale oggi si scontra fortemente con l'orizzonte decisionale del policy maker in generale, soprattutto a livello nazionale, perché la durata media dei governi locali è di gran lunga superiore. Da quando io sono Assessore ho visto cambiare sette governi, abbiamo cominciato che c'era Berlusconi. Dunque il tema dell’orizzonte temporale delle decisioni, e anche della decisione pubblica, è sicuramente rilevante. L'altro elemento significativo, è un tema storico del nostro Paese, quello della procedura. Viviamo ancora in una pubblica amministrazione che privilegia l'aspetto giuridico formale, rispetto a quello sostanziale, per cui vi sono molti vincoli che rendono lenta la co-progettazione, anche quando si riesce a portare l'elemento innovativo. Questo tratto è per altro incompatibile con l'accorciamento dell'orizzonte temporale della politica che vuole il risultato spendibile e vendibile. Dovremmo prendere atto di alcune caratteristiche specifiche del nostro contesto e provare a far leva su quello che abbiamo, una serie di opportunità tipicamente italiane, legate ad una tradizione storica di mutualismo, di impresa di comunità, di cooperazione sociale di vario tipo. Quindi, se dovessi dire su che cosa mi concentrerei oggi, è su un'analisi obiettiva del sistema di vincoli e di opportunità, per provare a farli avvicinare, eliminando quell'elemento forse ormai retorico, rivendicativo, di pura protesta rispetto al contesto, e provando a verificare se, dove abbiamo delle potenzialità, ci sono elementi per lavorare e per innovare. Noi, nel nostro piccolo, abbiamo provato a fare così, utilizzando strumenti artigianali, nel senso nobile del termine, cioè cuciti addosso ai bisogni che vedevamo emergere nel nostro contesto.

Enrico Giovannini, Portavoce dell'Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile Le nostre Istituzioni stanno cambiando sotto i nostri occhi, in questi giorni, in queste ore, e non parlo soltanto delle istituzioni italiane, ma anche delle Istituzioni europee. Uno degli elementi cruciali della sostenibilità, è sapere che i quattro pilastri della sostenibilità - l'economia, la società, l'ambiente e le istituzioni - sono tutti strettamente connessi e sono tutti e quattro fondamentali. Per molto tempo non abbiamo voluto vedere che la non sostenibilità sociale sta determinando dei profondi cambiamenti nelle nostre istituzioni, che possono portare alla non sostenibilità istituzionale. Il cambiamento della cultura cambia la natura delle istituzioni e la difficoltà in cui ci dibattiamo oggi, difficoltà di carattere economico e sociale, cambia la cultura delle istituzioni. Ma la sostenibilità espressa nell’Agenda 2030, una straordinaria visione sul futuro, può cambiare la cultura delle istituzioni in meglio. Non ci sono alternative. Questo è il bivio di fronte a cui siamo, lo siamo come individui, ma lo siamo anche come imprese, come mondo del sociale, come mondo della finanza.

42

Il fatto che la finanza per la sostenibilità stia progredendo così tanto significa o che ci siamo sbagliati da sempre sul modo di fare finanza, o che la finanza è molto preoccupata dei propri investimenti. L'impressione è che la preoccupazione per il futuro ormai condizioni talmente tanto le scelte finanziarie che, di nuovo, abbiamo due alternative: la prima è quella di cambiare approccio nel modo di fare finanza e nel modo di fare impresa; la seconda è quella di non fare nulla, cercare di mantenere quello che si ha, e dunque non investire nel futuro. Sarà un caso che nei Paesi occidentali, in particolare nei Paesi europei e in Italia, la voce che manca alla ripresa economica degli ultimi anni sia la voce degli investimenti? Come ha detto un pensatore anni fa, un investitore è una persona che crede in un futuro migliore, altrimenti non investe. La sostenibilità è esattamente la chiave attraverso cui possiamo immaginare un futuro migliore e riattivare un investimento sul futuro. Ma di quale investimento stiamo parlando? E' un investimento basato su un cambiamento profondo nel paradigma che definisce addirittura gli investimenti. Noi parliamo tanto di capitale umano, anche nelle imprese, ma le spese nella formazione sono un costo nei bilanci delle imprese, non sono un investimento: in altri termini, comprare un computer ti dà un beneficio fiscale, mentre fare formazione è un costo che abbassa il risultato finanziario che i mercati guardano. Eppure, ci riempiamo la bocca sul fatto che le persone siano invece il vero asset delle imprese. Sono anni che mi batto per cambiare il modo con cui le spese per educazione e formazione vengono contabilizzate. Nel 2002, quando ero all'OCSE, proposi di cambiare il modo con cui, nei conti nazionali, si contabilizzavano le spese per ricerca e sviluppo, che erano considerate un costo e non un investimento, cosa poi avvenuta nel 2009. Ora faccio parte della Commissione mondiale sul futuro del lavoro all'Organizzazione mondiale del lavoro e sto insistendo per considerare anche le spese per il capitale umano un investimento. Oggi, nei principi contabili internazionali, le persone non sono considerate patrimonio dell'impresa perché - dice così il principio - non sono sotto il controllo esclusivo dell’impresa. Visto che la persona non è sotto il controllo esclusivo dell'impresa, non è un asset, ma è un costo. Tutto questo deriva dal fatto che quando c'erano gli schiavi le persone erano parte del patrimonio dell'impresa, ma considerare il capitale umano come una vera forma di capitale imporrebbe un radicale cambiamento delle regole attuali, generando un forte incentivo per le imprese ad investire nei lavoratori. Mi rendo conto della dimensione del cambiamento, ma si tratterebbe di una modifica perfettamente coerente con il principio dello sviluppo sostenibile. Lo sviluppo sostenibile, infatti, ha a che fare con i capitali economico, sociale, naturale, ambientale. Da questo esempio si vede la radicalità del cambiamento culturale richiesto dal pensare in termini di sviluppo sostenibile. Non è “green washing”, non è il fatto di fare un po' più di corporate social responsibility, è un cambiamento profondo nel modo di vedere il mondo, nel modo di pensare il mondo e addirittura di misurarlo. Nell'evento iniziale del Festival per lo sviluppo sostenibile - che si è svolto in tutta Italia dal 22 maggio al 7 giugno, con più di 700 eventi - la presidente della Rai Monica Maggioni, ha detto una cosa bellissima che io ripeto molto spesso 'L'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile è un regalo straordinario, perché ci obbliga a pensare in modo complesso – cioè, io aggiungo, da homo sapiens sapiens – E, obbligandoci a pensare in modo complesso, ci obbliga a riconoscere che nessuno di noi ha la soluzione a tutti i problemi, e quindi ci obbliga a cooperare'. Che pensiero rivoluzionario oggi nel mondo in cui 140 o 280 caratteri di Twitter dovrebbero esprimere ciò che pensiamo! Pensate di che pensiero rivoluzionario stiamo parlando in un mondo nel quale ognuno sembra proporre la propria 'pallottola d'argento', cioè l’azione singola con cui risolve tutti i problemi. Lo sforzo e la fatica della complessità sono l’unica strada per affrontare questi temi: io non so se oggi uscirete da questo evento diversi da come siete entrati, ma questi incontri dovrebbero servire non solo a imparare qualcosa di più, ma a suggerire punti di vista nuovi, a provocare cambiamento, non modifiche marginali del nostro agire. Questa è la radicalità di cui abbiamo bisogno. Ed è una radicalità che, paradossalmente, ci porterebbe alla cultura italiana di un po' di tempo fa, quando, nei secoli scorsi, la scuola italiana di economia civile considerava in modo olistico i singoli, la società e l’economia. Anche il Papa ci aiuta ad utilizzare un pensiero complesso quando dice che la cultura che genera gli scarti fisici è la stessa che genera gli scarti umani. E pensate al salto straordinario che adesso le imprese stanno facendo nell'economia circolare, con l’idea dell’eco design per cui non si gestiscono gli scarti alla fine del processo produttivo, ma si disegnano i prodotti e i processi in modo tale da riutilizzare le materie prime, che infatti si chiamano materie prime e seconde. Ebbene, si tratta di un salto culturale

43

straordinario, ma incompleto, perché non applica lo stesso principio alle persone. Non entro nel dibattito sulla flessibilità del mercato del lavoro, ma la logica dello scarto fisico è molto simile nella logica dello scarto umano e la società deve farsene carico per assicurare la sostenibilità sociale, analogamente a quanto bisogna fare per la sostenibilità ambientale. Ecco questo pensiero complesso è quello che forse ancora ci manca, ma se siamo qui vogliamo pensare in un modo diverso ed essere attori di cambiamento di una complessità che è la caratteristica delle nostre realtà. All’ASviS abbiamo deciso di costituire, in aggiunta ai gruppi riferiti ai 17 Goals dell’Agenda 2030, un gruppo di lavoro su un ipotetico “goal 18” dedicato alla cultura, perché una diversa cultura è indispensabile per realizzare uno sviluppo sostenibile. Penso alla cultura di impresa, ma penso anche alla cultura del Terzo Settore, a quella dei giornalisti che faticano a rapportarsi con lo sviluppo sostenibile, a quella di noi consumatori. La sfida allo sviluppo sostenibile è una sfida epocale, semplicemente perché da essa dipende non solo il nostro futuro, ma anche il nostro presente, ed essa richiede a tutti noi di fare qualcosa di più, e ogni giorno. Questa è la logica dell'Agenda 2030, non basta fare di più rispetto a qualcun altro, ma ognuno di noi deve fare qualcosa di più e di diverso rispetto a ieri.

SECONDA TAVOLA ROTONDA: LA SOSTENIBILITÀ COME OPPORTUNITÀ DI INCREMENTO OCCUPAZIONALE DI QUALITÀ, DI SVILUPPO DI NUOVE COMPETENZE E NUOVE FORME DI LAVORO PER PRODURRE PIÙ VALORE ECONOMICO E SOCIALE

Nicola Saldutti, Corriere della Sera, Buone Notizie Quando è nato Buone Notizie al Corriere della Sera si è deciso di collocarlo sullo stesso piano della redazione Economia. E’ un segnale importante perché rappresentano due mondi molto diversi che oggi cominciano a parlarsi, ed è bene che sia così in ottica di sviluppo generale. Nell’enorme complessità che caratterizza la nostra contemporaneità, in un momento nel quale i toni delle voci e il coefficiente di rabbia sono estremamente elevati, è forse proprio dalle realtà e dalle persone che si impegnano quotidianamente e che nonostante le complessità, nonostante i vincoli, nonostante gli impedimenti, inventano soluzioni, con grande rigore – che possiamo trarre motivo di fiducia. Io ho l’impressione che la ‘cultura del nonostante’ apra enormi occasioni di sviluppo, lo fa già nelle cose più di quanto non ne sia consapevole. Noi giornalisti forse, talvolta, lo raccontiamo poco, i protagonisti stessi non sono abbastanza consapevoli del valore che generano. Dovremmo, tutti, fare un salto culturale e penso che sarà effettuato quando sostenibile smetterà di essere un aggettivo ma diventerà una sostanza che è dentro le cose. Credo che anche le imprese debbano essere accompagnate in questa evoluzione, e credo che il meccanismo competitivo che ha un'infinità di difetti ha anche un pregio perché nel momento in cui le imprese si renderanno conto che quel fattore sostenibilità è competitivo, perché incide positivamente sul conto economico, il meccanismo di contaminazione diventa virtuoso. C’è molta innovazione nell’economia sostenibile, sociale, generata dal non profit; forse è proprio questa la vera nuova economia, non quella di cui si parlava nella bolla internet del 2001.

Alessandro Beda, Consigliere Delegato Fondazione Sodalitas La sostenibilità nell'impresa apre degli spazi occupazionali fortissimi, si incrocia col tema innovazione perché oggigiorno il tema occupazione è spinto dall'innovazione. La sostenibilità investe tutta l'impresa, dalla produzione alla vendita, all'organizzazione quindi determina anche una riconversione di attività e di competenze, e questo comporterà una crescita di livelli occupazionali di qualità. Inoltre, specialmente per i giovani, l'incremento è specifico in determinate attività: basti pensare che Confindustria raggruppa 150.000 imprese e quelle che si sono già strutturate relativamente ai temi della sostenibilità non sono più del 5/6%, l'altro 94% ha delle aspettative, ma non ha ancora una struttura con le professioni che vanno dal CSR Manager al Risk Manager, dell'integrated reporting, e

44

tante altre professioni specifiche. C'è quindi un enorme potenziale. Quindi sostenibilità e innovazione saranno due motori di crescita occupazionale. Fondazione Sodalitas è nata con la Mission dell’avvicinare l’impresa alla comunità attraverso lo strumento della responsabilità sociale di impresa. La diffusione del tema in questi anni ha riscosso una crescita costante. Il 2018 è stato l'anno dell'esplosione della sostenibilità, a Verona nel corso delle Assise di Confindustria 7.000 imprenditori hanno parlato di sostenibilità, non era mai successo negli ultimi vent'anni. Ora però bisogna fare passi avanti. L’obbiettivo è di passare dallo spingere la singola impresa verso un approccio sostenibile, alla promoz ione di azioni collettive, coinvolgendo più imprese per rispondere insieme ai bisogni della comunità. E' un'operazione che all'estero è già diffusa; le stesse Nazioni Unite tramite il Global Compact stanno promuovendo questa buona pratica. Così si crea una massa critica, potenzialmente molto efficace. Naturalmente, una collective action deve comportare un’alleanza tra imprese che coinvolge anche tutti gli stakeholder del territorio (non profit, università, cittadini). Fondazione Sodalitas crede nella diffusione di questa pratica virtuosa. Abbiamo già fatto un test di successo con il progetto Cresco Award Città Sostenibili: 15 imprese si sono impegnate a contribuire a progetti selezionati da un contest rivolto agli 8000 comuni italiani. Una nuova iniziativa sarà rivolta al miglioramento della vita nella periferie milanesi. Si tratta del progetto “Quartieri sostenibili “che prevede una grande collective action tra impresa e stakeholder di riferimento, che insieme all’Amministrazione pubblica dovrà migliorare la vita nelle aree più emarginate della città.

Giuseppe Bruno, Vice Presidente Gruppo Cooperativo CGM

E’ in atto un cambiamento culturale rispetto al fare impresa sociale oggi. Se guardiamo indietro, anche solo a qualche anno fa, partendo dalle origini dell'impresa sociale, vediamo come la cooperativa sociale di fatto è stata – ed è a tutt’oggi - l'elemento che aggrega i luoghi e le persone, in un nuovo sviluppo economico. Allora oggi l'impresa sociale non è altro che la legittimazione di quel coniugare l'essere sociale con l'economia; la giusta collocazione per ibridizzare i modelli profit e i modelli non-profit e avvicinarli quanto più possibile. Quello che le imprese sociali continuano a fare oggi e faranno ancora di più in futuro, è sempre nell'interesse del bene collettivo e, quindi, nell'interesse comune delle nostre comunità, entrando ovunque, non solo nelle aree metropolitane, come Milano, e nei quartieri periferici, ma anche in quei piccoli Comuni dove è necessario essere radicati in quel territorio e far sì che lo sviluppo economico avvenga. L'impresa sociale, oggi ancora di più, è il soggetto economico che, non solo ha un'attenzione all'avvicinamento delle persone, delle fasce sociali deboli, dei servizi alla persona, ma ridistribuisce le economie perché quelle economie risultano essere utili a sostenere quel territorio, in una logica che non è quella di essere solo un fornitore di servizi per la pubblica amministrazione. Facendo un esempio pratico, se un'impresa sociale nel nostro piccolo Comune, si allea con i cittadini per essere auto sostenibile rispetto ai servizi, significa che non solo sta producendo risorse economiche in quel luogo, ma sta fornendo servizi che molte volte la pubblica amministrazione non può più svolgere. Vuol dire avvicinare mondi tradizionalmente diversi come la finanza e il non profit, creare contaminazioni per fare il bene del Paese, cioè nell'interesse collettivo. Questo avvicinamento legittima l'impresa sociale rispetto a quello che ha fatto nel passato, fin dalla sua origine, ma stimola anche un ulteriore allargamento di orizzonti, un'estensione ad altri ambiti produttivi, con conseguenti risvolti occupazionali. Significa entrare in ambiti quali l'agricoltura, l'energia, il turismo sociale, inesplorati negli anni passati, ma che oggi un'impresa sociale affronta con grande professionalità e anche con un piglio diverso di assunzione di responsabilità nell'interesse comune del Paese. Come rete CGM, impegniamo 40.000 persone in 800 cooperative; accompagniamo i giovani nel fare, quindi non solo nella conoscenza che è fondamentale, ma nello stare nella praticità dell'essere imprenditori sociali a tutto tondo.

45

Per loro diventa una sperimentazione importante, anche per capire qual è la visione del loro futuro rispetto alle opportunità. A questo elemento aggiungiamo che il servizio civile universale consente al 60% dei giovani che entrano nel nostro mondo di rimanere, non solo soci delle nostre imprese e cooperative, ma di essere essi stessi protagonisti del proprio futuro e questo è un valore straordinario della cooperativa e dell’impresa sociale. E dove c'è un'evoluzione che va nella direzione del cambiamento culturale nel fare impresa, aumenta il senso di responsabilità, ma aumenta ancor più l'opportunità - anche e soprattutto per i giovani - di poter approcciare un nuovo modello, che diventa comune; significa anche responsabilizzare i nostri giovani ad una nuova forma d'impresa che abbraccia gli interessi del Paese.

Marzia Masiello, in sostituzione di Claudia Fiaschi Portavoce del Forum Nazionale Terzo Settore

Oggi vi porto l'esperienza e la testimonianza del Forum del Terzo Settore – a nome della portavoce Claudia Fiaschi –, sia in termini di rappresentanza – aderiscono al Forum 87 reti nazionali con 141.000 sedi territoriali – sia in termini di pluralità delle forme giuridiche ed organizzative, sia per mettere l’accento sulla grande capacità innovativa del Terzo Settore.

Il ruolo dell’iniziativa civica organizzata dei cittadini, che ha radici ben profonde, è in grado di alimentare e sperimentare soluzioni sociali innovative ed efficaci che vengono messe a disposizione delle Istituzioni del territorio e che hanno un forte impatto economico e occupazionale. Una ricchezza di esperienze riconosciute dalla nostra Costituzione che all’art.2, 3 e soprattutto all’art.118 si dà la pena di proteggere il ruolo della libera iniziativa organizzata dei cittadini, proprio in virtù di questa funzione promozionale delle persone e delle comunità e della funzione sussidiaria e concorrente rispetto a quella delle istituzioni. Il reciproco dialogo tra la libera iniziativa organizzata dei cittadini e chi esercita funzioni di interesse pubblico costituisce il principale motore del progresso sociale delle nostre comunità. Il Terzo Settore genera coesione sociale e laddove ci sono più coesione e capitale sociale, c’è più sviluppo economico inclusivo e sostenibile. La Riforma del Terzo Settore si inserisce in questo quadro, ed è in qualche modo necessaria – il tempo ci dirà se funziona - perché sfida il Terzo Settore a rispondere adeguatamente alle grandi trasformazioni dell’economia e delle economie sociali emergenti. Lo sparigliamento fa parte della natura del Terzo Settore che, oltre a recuperare dimensioni e modelli, ne genera di nuovi a partire dai territori che ascolta, familiarizzando con un territorio e osservandone alcune restituzioni, recuperando anche la dimensione emozionale perché il Terzo Settore, grazie alla sua capacità di attivare cambiamento, genera empatia. Uno dei compiti chiave del Terzo Settore è far convivere tra loro diverse anime e individuare una modalità comunicativa sostanziale che dia voce ad anime, persone, cose ascoltate dalla vita reale, per trasmetterle efficacemente, anche con l’obiettivo di chiedere finanziamenti. E’ un approccio funzionale, non si tratta più di chiedere un finanziamento a progetto – più o meno importante – ma è un processo che sviluppa naturalmente una cultura e un approccio nuovi, una generazione di impatto nuova, per quelli che possono essere definiti dei veri e propri cantieri alla rovescia. Non partiamo più, cioè, da un modello, ma recuperiamo i modelli che sono positivi, mettiamo insieme tanti elementi, e studiamo gli strumenti finanziari ipotizzabili per attivare quel tipo di processo.

Serena Porcari, Presidente Dynamo Academy Impresa Sociale

Dynamo è oggi un gruppo diversificato di imprese sociali, per forma giuridica e per missioni. Nasce tutto dalla volontà di creare un luogo gratuito dedicato ai bambini malati, e questo è stato - ed è ancora oggi - il motore che muove anche tutto il resto del gruppo. Noi abbiamo avuto la fortuna di avere alle spalle un'impresa che ha destinato questo

46

luogo a questo progetto; gestiamo un grande asset immobiliare - perché bisogna ricordarsi le origini, la storia di chi sei - siamo stati creati da un imprenditore, col patto che un giorno l'ente non profit sarebbe stato in grado di sostenere e re-impiegare le persone che erano all'interno di questo luogo all’origine. La sfida iniziale era principalmente sociale, coinvolgeva i bambini, ma insieme dovevamo creare attività economica. Ci siamo dati inizialmente un orizzonte temporale sbagliato, perché avevamo previsto di diventare sostenibili in tre anni e mezzo, e ce ne sono voluti ben più di cinque. Abbiamo imparato tutti, noi stessi per primi, ha imparato l'imprenditore che ci ha fondati, l'impresa che ci ha dato l'asset, i donatori che ci hanno creduto, io come amministratore delegato. Poi nell’evoluzione di Dynamo Camp è successo qualcosa di incredibile, avevamo considerato tutto nel business plan, ma non avevamo valutato correttamente il secondo impatto: si è creata una leva di occupazione. Il primo impatto è stato sicuramente sui bambini: oggi Dynamo Camp è un'organizzazione matura, arrivata alla sua dodicesima estate, 1800 persone ospitate in modo completamente gratuito, 5 milioni di euro raccolti in modo sostenibile, con fonti diversificate, abbiamo applicato le logiche di portafoglio di impresa alle logiche della raccolta fondi, e abbiamo costruito la squadra. Questa è stata la sfida di Dynamo Camp, che oggi costruisce le ultime due casette e arriva al massimo possibile di bambini e famiglie ospitate. Dal 2015 siamo economicamente indipendenti dal nostro fondatore; e abbiamo creato nuova occupazione per 176 persone, in una comunità priva di occupazione, dove le attività industriali erano finite. La seconda impresa sociale che abbiamo avviato è la Dynamo Academy e si occupa di fare un'altra cosa, in un altro settore, un altro brand, un altro team, altri 20 dipendenti. Si occupa di nuova economia, consulenza, formazione e ingaggio delle imprese perché le imprese donano a Dynamo e noi disponiamo di un luogo perfetto, dove poter far accadere le cose. Il 20% dei nostri volontari, 850 volontari, sono dipendenti delle imprese che ci sostengono. Noi siamo l'esempio vivente del fatto che il volontariato aziendale può fare la differenza, l'engagement cambia le imprese, siamo un luogo dove le imprese oggi vengono a fare i loro meeting, fusioni, acquisizioni, vengono a fare da noi presentazione dei piani d'azienda e ci aiutano a tenere il Camp bello come lo abbiamo ricevuto. Poi c'è un'impresa agricola che è in fase di sviluppo e si deve inventare un'attività economica per poter essere sostenibile; per questo, stiamo lavorando sulla conservazione della natura attraverso l'agricoltura, l’allevamento e l’eco-turismo. Obiettivo di occupazione - oggi sono più o meno 10 le persone coinvolte – arrivare a 30, minimo, nei prossimi cinque anni. Sono risultati occupazionali concreti: nel 2018 Dynamo ha creato più o meno 200 posti di lavoro e un consolidato, se vogliamo chiamarlo così, di più di 8 milioni di euro tra raccolta fondi e fatturato. Tutto questo partendo dall'asset e da qualcuno che all'inizio ci ha creduto, ha investito, ha rischiato con noi, donatori e banche. E’ un concetto di impresa che nel Terzo Settore ancora fa scandalo ma che, invece, dobbiamo applicare; i consigli d'amministrazione sono fondamentali, come lo sono i sistemi di controllo, il controllo di gestione, il controllo contabile. Noi abbiamo addirittura un ufficio di tesoreria, perché la gestione di 5 milioni donati deve doverosamente essere molto accurata; come donatore, investitore, cliente, voglio sapere esattamente che cosa fai con le mie risorse. Quindi noi, non solo diamo ovvia evidenza di quello che facciamo, ma lo rendicontiamo al massimo livello possibile; il nostro settore è ancora un po' ingenuo nell'affrontare queste tematiche, ma i donatori, invece, si stanno evolvendo. Noi siamo un esempio concreto. Dynamo Camp probabilmente non costruirà un altro Camp, però oggi ci sono persone impegnate con la Fondazione per fare un piano di raccolta fondi, c’è chi sta lavorando con un ente del Terzo Settore per fare, magari, un Dynamo Camp per bambini autistici; chi sta lavorando su un grande corso di formazione sulla terapia ricreativa. La nostra direttrice risorse umane ha creato un contratto nazionale collettivo di lavoro che si chiama Dynamo Camp. Noi siamo minuscoli rispetto ad altre organizzazioni, ma il lavoro per noi è la chiave di tutto e abbiamo dei bisogni di politiche del lavoro specifiche, spesso sottovalutate. Nella riforma, per esempio, il lavoro non è neanche un tema, l'occupazione non è uno dei capitoli ed è invece una delle variabili più importanti del nostro settore. Io non so se noi siamo un bravo employer; sarebbe interessante analizzare anche questo settore, rispetto alla capacità di dare lavoro buono, corretto, con i giusti strumenti.

47

In questi ultimi cinque anni ho trovato dei ragazzi eccezionali, molto meglio nell'ultimo periodo che in quello precedente: questo mi rende molto positiva sul futuro da ‘zia di Dynamo Camp’, come mi chiamano a Radio DJ.

Fabrizio Sammarco, Amministratore Delegato ItaliaCamp

In questa fase storica, più che darci delle risposte, credo che occorra porci delle buone domande: non tanto per arrivare a formulare dei giudizi, quanto per assumere degli elementi che ci aiutino ad intraprendere un percorso comune. Credo, infatti, che il tema dell'innovazione stia “andando di moda” anche perché esso ci consente di aprire una riflessione su un livello diverso da quelli a cui siamo abituati. Abbiamo bisogno di trovare un “senso comune” e con la sostenibilità il concetto dell'impatto aiuta a porci la domanda del senso: “ma tu sei convinto che in quel bilancio, in quella tua azione, in quel tuo ritorno sull'investimento, oltre ad esserci un significato ci sia anche un senso? Quale?”. Perché andando a scavare poi nella logica del senso, ci si rende conto che, molte volte, quel senso nasconde dei significati che non ci piacciono, che non ci soddisfano. E’ un tema complesso e sicuramente di non facile sviluppo, che può riguardare una direzione, una professione, o un gruppo di aziende profit o non profit.

Ci siamo resi conto che il modello di evoluzione, anche dal punto di vista formativo, oltre che informativo, ha subito in questa ultima fase un'accelerazione molto forte, che ci ha condotti ad un punto in cui non disponiamo di tutti gli strumenti necessari. La prima parte della nostra formazione, come persone e come professionisti, ha visto tutto il nostro impegno focalizzarsi sul concetto di conoscenza. Ci siamo sempre ripetuti, infatti, che era importante sapere, studiare, approfondire, ricercare, conoscere... Poi è arrivata una nuova era, anche di estrazione transatlantica americana, che ci ha aiutato a migrare dal concetto di conoscenze, al concetto di competenze. Quindi ci hanno detto che non bastava più soltanto sapere e che occorreva fare un salto verso il saper fare: nel senso di saper far accadere le cose, applicando quindi ciò che si studiava una volta sui libri. C’è stata un’accelerazione così forte, che oggi chi sa fare viene pagato più di chi sa. Saper fare una mezza riga di codice, per esempio, in questo momento è molto più importante che studiare una legge. Ovviamente questa situazione presenta dei pro e dei contro, ancora tutti da studiare. Adesso però ci siamo resi conto che le nuove professioni che prenderanno piede nei prossimi cinque anni, oggi non esistono. Quindi se noi oggi volessimo costruire una formazione focalizzata sull’apprendimento del “sapere” o del “saper far qualcosa”, forse perderemmo tempo, perché tra cinque anni probabilmente ci saranno dei lavori completamente diversi e lontani da quello che noi oggi possiamo trasmettere in termini di conoscenza o di competenza. Abbiamo scoperto non soltanto che il medico fra tre anni opererà in maniera diversa, prescriverà le medicine in maniera diversa, o che l'avvocato affronterà le cause utilizzando altri strumenti (e così via), ma anche che esisteranno professioni che oggi non conosciamo e che non immaginiamo: perché l'accelerazione dell’interazione fra uomo e macchina sarà così forte che nasceranno occupazioni completamente nuove.

Viene stimato che fatto 10 il gruppo classe di bambini che vanno all'asilo, oggi non esiste il lavoro di 6.5 di essi. Dunque cosa potremmo insegnare a i nostri figli oggi, se il sapere rischia di scadere nel momento stesso in cui lo si apprende, e se il saper fare fra cinque anni sarà completamente diverso anche in quelle professioni che pensavamo immortali? Quindi la nascita (inevitabile) di un nuovo paradigma, quello del saper essere, in cui la parola “conoscenza” viene sostituita con la parola “competenza”, che a sua volta viene rimpiazzata dalla parola “attitudine”, che possiamo definire come l’esigenza di saper stare al mondo. Se prima infatti ci interrogavamo sul significato di conoscenza e competenza, oggi dobbiamo focalizzarci su quello dell’espressione “saper stare al mondo”, sviluppando quindi la nostra attitudine a leggere il cambiamento, senza averne paura qualunque esso sia: tecnologico sociale o politico. Con ItaliaCamp, nello specifico, incardiniamo il nostro lavoro, la nostra riflessione nella ricerca di un senso che sicuramente non contempla soluzioni di facile utilizzo e non prevede una data di scadenza. Credo infatti che si debba accentuare la consapevolezza del fatto che debbano essere sviluppati dei paradigmi di trasmissione del “saper

48

essere”, riguardanti fasce che oggi ignoriamo: intendo quelle delle persone tra i 3 e i 6 anni. Occorre dunque mettere in campo investimenti molto più significativi di quelli fino ad ora attivati, e che ancora oggi ignorano queste fasce di persone, per costruire con loro una valida alternativa agli scenari attuali.

Probabilmente potremmo tutti recuperare un senso molto più profondo se riuscissimo ad investire in sfide focalizzate sull’educazione e sulla trasmissione, ambiti in cui l'innovazione serve perché carente, per sviluppare un senso di responsabilità e di connessione che è - oggi - nuovo per tutti. Il mio invito, dunque, è quello di fare rete, non tanto per agevolare l’arrivo di risposte, quanto invece per capire le aree in cui potremmo fare meglio di quanto abbiamo fatto fino ad oggi, abbandonando l’annoso tema della “creazione di nuovi posti di lavoro”, per concentrarsi sullo sviluppo e sulla comprensione delle nuove attività produttive da cui deriveranno le occupazioni del futuro.

Rossella Sobrero, Professore di Comunicazione sociale all’Università degli Studi di Milano

Ulrich Beck, famoso sociologo tedesco scomparso nel 2015, affermava nel suo libro La metamorfosi del mondo che non siamo in un'epoca dove è sufficiente il cambiamento, oggi viviamo in un'epoca dove è in corso una vera metamorfosi. Chi avrebbe mai detto qualche anno fa che, oltre alle organizzazioni del Terzo Settore e le imprese for profit, ci sarebbero state nuove forme organizzative? Invece sono nate le B Corp, imprese che nello statuto inseriscono l'obbligo di perseguire obiettivi sociali e ambientali non solo economici. Quando ci renderemo conto che stiamo vivendo una fase di metamorfosi inizieremo a ragionare in un modo diverso. Anche nel mondo del lavoro è in corso una metamorfosi: per esempio è noto che la maggior parte dei bambini che oggi frequenta l'asilo avrà una professione che non possiamo neppure immaginare. Il tema dei giovani e del lavoro è infatti cruciale: il problema è che si continuano ad insegnare materie che probabilmente tra pochi anni non serviranno più. Inoltre ai giovani non viene dato sufficiente spazio, non c'è un'attenzione vera: tutti affermano che i giovani sono importanti, ma quando si tratta di ascoltarli veramente, di utilizzare le loro competenze e la loro creatività, non li consideriamo. Chi ricopre ruoli di responsabilità non ha la volontà di lasciare spazio ai giovani. Nella mia esperienza molto diretta, insegno in università e quindi vivo in mezzo ai giovani, mi accorgo che non solo sono sempre più critici, diffidenti, esigenti. Sono anche arrabbiati perché gli stiamo lasciando un mondo peggiore di quello che abbiamo trovato. Tre anni fa ho creato la rete CSRnatives che ora è composta da 230 ragazzi che stanno frequentando l'università e che si definiscono" appassionati di sostenibilità": sono loro che devono aiutarci in questa fase di metamorfosi del mondo. Noi dobbiamo imparare a dargli più spazio e loro devono essere bravi a conquistarselo. Devono saper gestire in modo innovativo e creativo la loro partecipazione alla vita sociale. Quando posso cerco di dare ascolto anche ai giovani che creano nuove imprese. Da anni nel mio blog CSR e dintorni intervisto alcune startup. Ascolto storie incredibili di imprese che nascono grazie alla capacità anche tecnologiche di questi ragazzi che spesso trovano soluzioni innovative per risolvere in modo diverso problemi vecchi. Nella nostra società sarebbe necessaria una maggior collaborazione tra giovani e meno giovani: si dovrebbero trovare modalità per “ibridare” fantasia, competenza, creatività dei giovani con chi ha più esperienza. Sono i giovani che devono governare il cambiamento: noi dobbiamo coinvolgerli perché possano aiutarci a trovare soluzioni per superare le difficoltà che stiamo vivendo. Condivido una frase di Luca Mercalli che dice 'fare bene, ma anche fare presto'. Fare bene perché è bisogna agire nel modo più opportuno ma anche fare presto perché le sfide che ci attendono - ambientali e sociali - sono talmente importanti che se non uniamo le forze difficilmente riusciremo a superarle.

49

Mario Calderini, Professore ordinario e Direttore del Centro di Ricerca Tiresia presso la School of Management del Politecnico di Milano In questo periodo sono molto preoccupato, perché – che si chiami sostenibilità, impatto o altro – vedo un assalto al tema che dimostra attenzione al problema, ma dimostra anche un uso più o meno strumentale e opportunistico di questo supposto cambiamento paradigmatico. A questo aggiungo un forte elemento di preoccupazione, innescato da un’intuizione di Enrico Giovannini, e che cioè il vero costo della non sostenibilità è la non sostenibilità delle istituzioni. Lo svuotamento di cultura istituzionale, a cui noi stiamo assistendo in questo momento, è il punto da cui partire per giustificare una radicalità d'approccio che, secondo me, deve diventare un imperativo dell'azione e del pensiero dei prossimi mesi e dei prossimi anni. La sostenibilità non è più un vago problema legato a quanto verde avranno attorno i nostri bambini nei prossimi anni, ma è un problema legato all'architettura dei valori costituzionali e istituzionali che noi abbiamo attorno. Per cui, quando il problema è così serio, qualche volta accade che la voglia di affrontare le cose seriamente, diventi molto forte. A mio parere, quindi - al di là dei molti conflitti anche definitori - la sintesi è che bisogna essere radicali: radicalità contro non radicalità. Io credo che la “non radicalità” non ce la possiamo più permettere, dobbiamo essere netti, e lo dobbiamo essere in maniera diretta, dando precisi nomi e cognomi alle cose. Vediamo quindi cosa non è radicale, secondo me, nella narrativa di questo momento, proprio per far capire qual è il livello di crudezza cui dobbiamo scendere. Una certa parte di finanza etica, sociale, sostenibile non è radicale, perché confina a un atto laterale, marginale, il problema di cui stiamo parlando. Naturalmente non sto genericamente demonizzando il fatto che vengano allocate risorse a imprese attente all'ambiente, che trattano i dipendenti come si deve, che indirizzano le risorse sulle energie rinnovabili e non a carbone, però questo può diventare una scorciatoia morale all'intervento paradigmatico strutturale e profondo. Secondo me la finanza che non è intenzionale, misurabile e addizionale - cioè che intenzionalmente non affronta un problema, e non è disposta realmente a rinunciare a una forma di rendimento finanziario a fronte della volontà di cambiare delle cose - non si pone il problema di misurarlo. Ed è addizionale nel senso che va in settori sottocapitalizzati - non è la finanza di cui abbiamo bisogno lungo un certo percorso paradigmatico e radicale. Una larga interpretazione della responsabilità sociale d'impresa non è radicale, anzi, è nemica di quello di cui stiamo parlando. E’ nemica perché confina alla marginalità e alla lateralità gli obiettivi principali che noi abbiamo di fronte, quindi, quando noi sentiamo parlare di responsabilità sociale d'impresa associata alla volontà di innescare questo cambiamento paradigmatico strutturale, dobbiamo reagire perché vi stanno prendendo in giro, perché è un oppio che stanno usando per evitare questo tipo di livello di ragionamento. Il bilancio sociale non è radicale, il modo di fare il bilancio sociale è una presa in giro, il budget di impatto sociale è radicale, il management dell'impatto dentro un'impresa è una cosa radicale, il bilancio sociale è un esercizietto rendicontativo che serve a niente. La riforma non è radicale - anche se devo dire sono abbastanza moderato nel giudizio, perché credo che la riforma sia stata un esercizio anche di riordino, di classificazione ben fatto - perché ha perso un'occasione. Il dibattito sulla riforma iniziò come una provocazione culturale fortissima. Dobbiamo definire l'impresa sociale, per esempio, che è una questione importante in questa storia? Allora proviamo a dire che l'impresa sociale non è impresa sociale perché opera in certi settori, non è impresa sociale perché ha certi obiettivi, non è impresa sociale perché ha certe forme di governance: è impresa sociale qualunque cosa generi impatto sociale misurabile. Era chiaro che questa provocazione non poteva avere successo, ma era uno stimolo culturale fortissimo, a cui si è reagito svuotando sistematicamente di ogni contenuto la riforma, e quindi consegnandola come un oggetto sostanzialmente vuoto. Oggi la valutazione di impatto sta andando per strade completamente diverse, il mercato o il Terzo Settore stesso hanno trovato soluzioni. L'altra questione radicale è la seguente: la traiettoria della sostenibilità è destruction free? C’è una necessità di distruzione sistematica di grandi pezzi dell'esistente, ho paura che ce ne stiamo dimenticando, allora dentro la

50

narrativa potentissima e utilissima della sostenibilità, forse dobbiamo cominciare a chiederci cosa pensiamo noi della morte di impresa. Ci piace la morte di impresa come concetto astratto o non ci piace? Pensiamo che sia parte del nostro ragionamento oppure facciamo finta che non esista e sia una magnifica traiettoria di sorti progressive in cui tutti marciamo felici verso la sostenibilità? Io penso che oggi la grande sfida della sostenibilità, sia la distruzione sistematica di grandi pezzi dell'esistente. La radicalità necessaria - e passo alla parte un po' più propositiva - secondo me è ibridità, è fusione calda; io rigetto qualunque cosa che giustapponga profit/non profit, impatto buono/impatto cattivo, impatto sociale ed esternalità positive. Quando smetteremo di avere questo bipolarismo definitorio e parleremo di un solo tipo di impresa, di un solo tipo di finanza, in quanto generato a fusione calda di valori, quello sarà il giorno in cui il percorso della sostenibilità inizierà in maniera importante. Abbiamo una serie di alleati importantissimi verso questo percorso di ibridità e fusione. Vi faccio un esempio più locale. Oggi, una delle grandi spinte alla trasformazione degli strumenti è la seguente: gli immobiliaristi e i finanzieri, gli sviluppatori delle grandi aree urbane, si stanno rendendo conto che i loro asset mobiliari valgono zero. Quando io prendo un'area di rigenerazione urbana e un vecchio fabbricato industriale che ha bisogno di rigenerare, è inutile che mando i periti a fare valutazioni tecniche, perché non ha più mercato, non c'è più residenzialità, non ci sono più supermercati da fare, perché l'attrazione di impresa ormai non funziona più su quei canali. Prendete invece l'area Expo per esempio. Gli immobiliaristi più illuminati stanno lavorando sulla valutazione degli asset sulla base della progettualità sociale che so far nascere al contorno e dentro quegli asset; allora è chiaro che da un ragionamento così strutturale, così profondo, nasce una finanza diversa, che non fa i green bond, i social bond per marketing, ma fa degli strumenti che sono intenzionalmente progettati per generare del valore sociale, che è l'unico valore che garantisce la tenuta economica dei loro asset nel prossimo futuro. Se si innescano dei processi così profondi è evidente che poi la trasformazione comincia sul serio ma il problema non è se chiamarla finanza sostenibile o finanza sociale in maniera generica, il problema è la progettualità a monte. Dobbiamo anche dirci che abbiamo un’enorme opzione di politica industriale nella trasformazione di pezzi importanti del Terzo Settore e in questa trasformazione consideriamo lo scenario presentato da Paolo Venturi di Aiccon: 13/14.000 tra cooperative start-up a vocazione sociale e quant' altro, più centinaia di migliaia di forme associative del sociale. Pensiamo alle tecnologie che oggi stanno diventando delle commodity, costano poco, sono facili da usare, pensiamo a mettere della sensoristica nelle case degli anziani e poter assisterne invece che 10, 1000. Tutto ciò sta diventando una cosa reale. Allora facciamo questa ipotesi, prendiamo queste tecnologie low e medium tech, abbastanza economiche e proviamo a immaginare un esercizio in cui riusciamo a ibridare, a strutturare, a far crescere l'1% delle cooperative sociali italiane e l'1 per mille delle associazioni presenti; emergono numeri di trasformazione industriale e innovazione straordinari, tutti gli incubatori di impresa delle università italiane insieme impiegherebbero 50 anni a generare gli stessi risultati. Allora questo vuol dire uscire dalla retorica di scimmiottamento della Silicon Valley, per cui lo sviluppo locale non può che nascere dall'incubatore del Politecnico - quindi per qualunque problema di politica sociale e locale urbana coinvolgiamo il Politecnico e nasceranno startup meravigliose e ricchezza per tutti. Proviamo, invece, a pensare che c'è un mondo cooperativo che è già imprenditoriale, che è già strutturato, che è all'intersezione con grandi opportunità tecnologiche e, per esempio, può diventare protagonista di politica di innovazione industriale nel welfare. L'ibridazione di forme di impresa sociale con opportunità scientifiche e tecnologiche, ci porta numeri che nessun'altra opzione politica può in alcun modo generare. Concludo dicendo che un disegno di politica industriale ha bisogno sostanzialmente di alcuni oggetti da mettere in fila. Se pensiamo al mercato e prendiamo il welfare in senso molto ampio, alla Camera alla fine dell'anno scorso sono stati quantificati 107 miliardi di spesa out of pocket delle famiglie italiane. E’ una spesa di welfare non tanto importante in valore assoluto, ma sta diventando personalizzata, di precisione, evoluta. Allora, mi domando, se non è un mercato interno quello, non so che cosa sia un mercato interno. Vedere pezzi del Paese in cui c'è una lacerazione totale tra industria e società, invece che ipotizzare di riconnettersi con le grandi reti sociali, reclutarle alla causa dello sviluppo locale, dello sviluppo industriale, a me sembra un suicidio. Abbiamo tutti gli ingredienti per fare un

51

salto di qualità: un mercato interno, una forma di impresa emergente dal Terzo Settore, che diventa più ibrida, più manageriale e più intensiva di tecnologie e competenze, ma anche di profit che si sta riadattando, e con i capitali finanziari si stanno rendendo disponibili. Abbiamo fatto una ricerca con Tiresia, sono molti più i capitali disponibili cosiddetti a impatto, della capacità delle imprese di recepirli. Oggi, queste tre cose: un mercato interno, una forma di imprenditorialità nascente e una finanza pronta ad assisterlo, fanno un'opzione di politica di sviluppo ed è questo il livello di radicalità a cui noi dobbiamo pensare, perché la sommatoria di tutte le responsabilità sociali e di tutte le imprese italiane, non faranno mai questa forza di cambiamento che invece può nascere da queste forme di validazione. Parlando, infine, come professore universitario e pensando ai giovani, ricordo come io mi sia trasferito al Politecnico di Milano, perché si è immaginato che stesse nascendo una forma di impresa nuova, in cui la tecnologia contava e che una grande School of Management di un grande Ateneo, non polarizzata sul sociale, dovesse avere un corso dentro ingegneria gestionale, di social innovation e sustainability, pensando a un percorso di nicchia. Abbiamo attirato 40, 100, 200 studenti in tre anni, fino a diventare praticamente il percorso di specializzazione più popolare. Quando il Rettore ci ha chiesto il perché questi ragazzi partecipino, abbiamo fatto un piccolo sondaggio. Dicono due cose: la prima è ‘io voglio avvicinare il più possibile i miei valori personali a quelli professionali’, e ovviamente questo è un segno molto forte; l'altra cosa è ‘quando lei professore ci parla di profit e non profit, di finanza sostenibile o non sostenibile, noi non capiamo cosa lei dice, perché per noi c'è una roba sola là davanti’, e questo è il segno più forte del cambiamento paradigmatico che potremmo avere davanti1.

Riccardo Paternò, Presidente Fondazione EY

Oggi la capacità di coniugare nel proprio business, sostenibilità, solidarietà e interventi sociali, è diventata la cifra essenziale del nostro tempo. Fare sistema tra pubblico/privato, profit/non profit, economia di mercato e sostenibilità, tra le aziende e le Entità del Terzo Settore, fra queste ultime e la Pubblica Amministrazione, e fra questa e il mondo totalmente profit, diventa una parola d'ordine obbligatoria. Ma non basta, perché è necessario anche ridisegnare in tal senso la governance nella pubblica amministrazione, nelle aziende profit ed in quelle non profit, perché solo in tal modo si potrà cercare di coniugare insieme questi vari mondi. I problemi sono infiniti e vanno dalle competenze che spesso mancano, agli strumenti innovativi di carattere finanziario, ai problemi legislativi che regolano il lavoro nelle non profit, al concetto di misurabilità degli impatti. Su ognuno di questi temi il dibattito è stato denso e proficuo e, cosa più importante, ha messo in luce non solo i problemi, ma anche molte soluzioni. Le leve per raggiungere i tanti obiettivi, ci sono, specialmente quelle tecnologiche, ma tutto questo a mio parere si potrà fare non solo se tutti gli strumenti tecnico-finanziario-giuridico, saranno opportunamente utilizzati, ma anche se la ‘sostenibilità istituzionale’ di cui parlava il Prof. Calderini, terrà. E se, allo stesso tempo, aggiungerei io, prendiamo consapevolezza del fatto che viviamo in un mondo molto complesso per cui immaginare soluzioni semplicistiche o scorciatoie, è qualcosa di particolarmente pericoloso.

MESSAGGIO ISTITUZIONALE

Claudio Cominardi, Sottosegretario di Stato per il Lavoro e le Politiche Sociali

Gentile Presidente della Fondazione EY, Gentile Segretario Generale, sebbene la fitta agenda di impegni istituzionali mi costringa a declinarlo, ricevo con piacere ed interesse l'invito al Forum da voi organizzato, ed invio perciò questo messaggio.

1 Testo tratto dal discorso del prof. Mario Calderini.

52

Il fatto che la rivoluzione tecnologica e digitale sia destinata ad avere un impatto significativo sul modo di produrre, lavorare e consumare, è un tema ormai ampiamente discusso su scala globale. Di certo tale rivoluzione non interesserà unicamente le singole persone, bensì le nostre stesse relazioni sociali ed umane, e anche in questi campi, l'azione politica non potrà limitarsi ad assistere, ma dovrà svolgere un ruolo attivo per adattare al presente concetti e modelli, ormai superati, che riguardano il modo di fare impresa, di formare, di educare, di fare welfare. Tale consapevolezza ha ispirato l'azione del gruppo politico a cui appartengo, ed è propria - ne sono certo - del governo del cambiamento. Resto pertanto disponibile per future partecipazioni e per proseguire questo dialogo, e sarò lieto di ricevere gli eventuali atti prodotti durante i lavori del Forum con l'augurio di buon lavoro.

53

UNA LETTURA DI SINTESI

Progettare e agire in rete, è una condizione necessaria per generare valore sul territorio. Occorre facilitare le sinergie tra il non profit, in grado di recepire le esigenze del territorio, e il settore privato che può dare un impulso alla sperimentazione. Per questo bisogna facilitare la creazione di anelli di congiunzione e partnership più strutturate che vanno valorizzate e replicate, coinvolgendo anche l'Università e la PA. L’analisi evidenzia che le aziende profit, per lo più, sono riuscite a integrare i temi della governance e della tutela dell’ambiente, ma è necessario realizzare lo stesso risultato in ambito sociale. Esigenza della quale oggi il settore privato ha una maggiore consapevolezza e per cui sta mettendo in campo risorse ed energie. Tutti i temi emersi possono essere affrontati e risolti più efficacemente grazie alle tecnologie del digitale e alla raccolta e alla gestione sistemica dei dati, nonché definendo strategie e piani di lavoro dettagliati, a livello nazionale e locale. Pensare digitale, dunque, deve diventare la premessa per ogni fase del processo: dalla progettazione - che, partendo dalla conoscenza dei bisogni delle comunità e dall'analisi dei territori può divenire più efficace - alla pianificazione del budget, fino all'esecuzione. È da rimarcare, inoltre, il cambio di approccio alla trasformazione che il digitale induce: da un approccio progressivo - plan, execute, monitor - a un loop ricorsivo - try, analyze, plan, scale. Se spesso l’elemento che distanzia profit e non profit sono le diverse possibilità di investimento, specialmente nell'area digitale, oggi è possibile accedere a tecnologie innovative senza dover passare per investimenti faraonici e programmi di trasformazione invasivi. Ormai in numerosi ambiti è possibile trovare tecnologie dedicate accessibili (open source, ad esempio), che consentono di limitare i costi e di testare l'efficacia. E sempre più aziende stanno iniziando a comprendere la portata della Big Data Analysis come fonte di vantaggio competitivo e come strumento di evoluzione dei modelli di impresa. Il digitale rappresenta però, sia un acceleratore che produce risultati, sia una criticità da gestire: basti pensare a haters e fake news che possono molto velocemente mettere a rischio la reputazione di una organizzazione, o al GDPR che pone limiti al trattamento dei dati degli utenti online. Dalle analisi EY su dati di mercato, è evidente come i social network abbiano un’importanza cruciale per ottenere visibilità e sensibilizzare il target verso la propria causa sociale. Benché la presenza sia molto diffusa (9 organizzazioni su 10 sono presenti sulla maggior parte dei social network), solo 1/3 dichiara di utilizzare questi mezzi per ottenere fondi o donazioni a sostegno delle proprie attività, pur non avendone sempre avuto beneficio concreto. L’integrazione dell’attività sui social media in un piano di marketing omni-canale e di ingaggio verso il donatore, è quindi l’evoluzione da compiere per valorizzare la presenza digitale e non solo per scopi di comunicazione. Ma "digitale" non è solo sinonimo di comunicazione e social media: può essere uno strumento molto efficace anche per l'analisi dei donatori, per profilarli, capire i loro interessi e stabilire con loro relazioni: può essere quindi un grande facilitatore del fundraising, poiché consente di promuovere più velocemente i risultati e di fidelizzare i donatori in modo più soddisfacente. Il Terzo Settore, in un’epoca in cui la dimensione sociale è sempre più pervasiva, non può accontentarsi di un riconoscimento formale di “non lucratività”, ma deve distinguersi per l’impatto sociale che produce. Oggi il tema del sociale si misura sempre di più con le “trasformazioni”, cioè con gli effetti che le attività sociali producono sul contesto. L’agire sociale non è solo un atto di solidarietà, ma è anche un modo per trasformare la società, generare cambiamenti e condivisioni fra persone che considerano la relazione come un “bene in sé”. Si fa sempre più urgente la necessità di misurare l'impatto in modo sistematico e capillare, di implementare azioni di monitoraggio il cui esito deve diventare il cruscotto di guida delle azioni future. Se nel profit l’individuare esclusivamente nel profitto il raggiungimento del risultato, è limitante, ci si domanda, sempre più spesso, quale debba essere l'impatto delle azioni che il Terzo Settore mette in campo e come questo debba essere valutato. Lo stesso mondo della finanza, che cerca di partecipare alla costruzione della società che abbia “un senso”, pone dei problemi che non sono più misurabili soltanto con le forme di ritorno finanziario e di profitto, per cui cerca di “rilevare” con logica più vasta il suo impatto. Ed in questo caso è la finanza stessa a fornire alcune risposte grazie

54

proprio alla potenza di calcolo insita in dei modelli di analisi molto sofisticati. Sistemi innovativi di misurazione, la conoscenza degli scenari, la possibilità di un accesso sempre più mirato e strutturato a determinati prodotti finanziari e l’opportunità di formulare previsioni accurate, sia in termini di redditività dell’investimento sia di influenza sociale o ambientale, sono infatti oggi la bussola che guida gli investimenti nel profit. Per cui il tema cruciale, è come fare arrivare fondi al Terzo Settore, dal momento che il loro ritorno in termini monetari rimane spesso limitato. Ma se, come in un certo qual modo sta avvenendo anche nel profit, anche nel non profit cambiano a maggior ragione i meccanismi di produzione del valore, il concetto di efficienza e le identità delle istituzioni, allora può cambiare anche il concetto di ritorno. Inoltre, se i modelli di gestione e di produzione del valore diventano plurali e ibridi (pubblico/profit/non profit), anche le risorse finanziarie devono in qualche modo essere plurali, cioè devono ricombinarsi. Il mix di risorse necessario per lo sviluppo di queste organizzazioni non profit deve quindi cambiare perché non è più pensabile immaginare che il non profit possa svilupparsi solo con l’autofinanziamento, che l’equity sia prerogativa solo del profit o che la cooperazione sociale si patrimonializzi solo con l’apporto di persone fisiche. Serve una visione nuova capace di dilatare le strategie finanziarie del non profit e dell’impresa sociale. Per rendere sostenibile un finanziamento al Terzo Settore, occorre quindi innescare circoli virtuosi che producano valore sociale sul territorio e attivino modelli scalabili e replicabili, anche attraverso strumenti finanziari nuovi (social bond, green bond e strategie di impact investing) e con l'attivazione di scambi win-win tra investitori istituzionali del settore finanziario, ETS e realtà critiche sul territorio. Il tutto, per creare valore condiviso per la comunità. Negli ultimi anni il Terzo Settore è stato protagonista di una rapida evoluzione anche sul piano della necessità di nuove figure legate al digitale. Le nuove tecnologie, infatti, facilitano la creazione di network sempre più efficaci e danno la possibilità di fare campagne che possono diventare virali e ottenere un alto livello di engagement. Tuttavia, per fare ciò, è importante avere le risorse per formare e coinvolgere nuovi specialisti del fundraising, dei social media e della gestione e analisi dei dati. Nel Terzo Settore, infine, sono sorte nuove esigenze anche rispetto al lavoro e alle relative regole: occorre un riconoscimento normativo per alcune tipologie di lavoro proprie del Terzo Settore, tipologie che colgono le opportunità offerte dal digitale (come lo smart working), ma i cui orari e le cui modalità non rientrano nelle cornici che tradizionalmente hanno regolato il mondo del lavoro in Italia. Nonostante questa criticità, il Terzo Settore, in termini di capacità di sviluppo di skills utili e spendibili, crea comunque grande valore e rappresenta spesso un luogo dove crescono professionalità apprezzate successivamente anche nel profit. Pertanto, è importante per il futuro valorizzare sempre di più le competenze sviluppate nel Terzo Settore grazie alle capacità di gestione nate in risposta ai bisogni emersi nelle comunità.

55

HANNO PARTECIPATO

ActionAid International Italia Stefano Ficorella, Head of Digital Fundraising

ActionAid International Italia Deborah Sciocco, Expert Processi Official Funding

ActionAid International Italia Sebastiano Pagani, Responsabile Digital

Amici di Cometa Onlus Paolo Nardi, International Affairs & Research

Amici di Edoardo Leonardo Malvasi, Project Manager-Fundraiser

Amici di Edoardo Valentina Merlotti

Anima per il sociale nei valori di impresa Claudia Giorgio, Responsabile progetti

Assifero Pietro Ferrari Bravo, Coordinatore Ufficio Riforma Terzo Settore

Associazione Andrea Tudisco Maurizio Vannini

Associazione Autismo Pavia Roberto Iammarino, Chief Accounting Officer

Associazione Dynamo Camp Onlus Maria Elena Vivaldi, Responsabile Area Major Gift

Associazione Dynamo Camp Onlus Roberta Mottino, Responsabile comunicazione

Associazione Mani Tese Marino Langiu, Responsabile Gestione e Finanza

Associazione Peter Pan Gianpaolo Montini, Direttore Generale

Atlantia Giorgio Busato

Azione contro la fame onlus Licia Casamassima, High Value Partnership Manager

Banca Mediolanum Gianluca Randazzo, CSR Manager

Banca Prossima Marco Morganti, Amministratore Delegato

Binario 95/Europe Consulting Alessandro Radicchi, Responsabile cooperative centro diurno

Calciosociale ssdrl Massimo Vallati, Direttore

Calciosociale ssdrl Natalia Pane, Progettista

Casa Oz Onlus Silvia Collazuol, Responsabile fund raising

Casa Oz Onlus Maria Leddi, Consigliere di CasaOz e Vicepresidente di MagazziniOz

CESVI Fondazione (cooperazione e sviluppo) Giacomo Agosti, Project Cycle Managment & Innovation

C.I.A.I. - Centro Italiano Aiuti all'Infanzia Paolo Palmerini, Direttore Operativo

CO2 Giulia Minoli, Vice Presidente

Comunità di San Patrignano Antonio Tinelli, Presidente

Comunità di San Patrignano Nunzia Ramponi

Comunità di San Patrignano Enrica Zamparini, Responsabile Fundraising e Comunicazione

Comunità Sant’Egidio Silvia Tassarotti

Caritas Ambrosiana Francesco Chiavarini, Responsabile Ufficio Stampa

Fondazione Adecco Monia Dardi, Responsabile Progetto

Fondazione Adecco Elena Cantiani, Responsabile Progetti e Gestione Amministrativa

Fondazione Adecco Francesco Paolo Reale, Segretario Generale

Fondazione Adriano Olivetti Annalisa Galardi, Consigliere

Fondazione Altagamma Stefania Lazzaroni, Direttore Generale

Fondazione Ant Italia Onlus Raffaella Pannuti, Presidente

Fondazione AVSI Guido Calvi, Community Engagement Manager

Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte Gianmarco Luggeri, Project Manager di well-made.it

Fondazione Dr.Ambrosoli Memorial Hospital Elena Di Fazio, Responsabile corporate fund raising

Fondazione Dr.Ambrosoli Memorial Hospital Giovanna Ambrosoli, Presidente

Fondazione Eni Enrico Mattei Filippo Ravoni, consultant

56

Fondazione Eni Enrico Mattei Angela Voce, senior consultant

Fondazione Feltrinelli Andrea Zucca, Ricercatore

Fondazione Francesca Rava - N.P.H. Italia Onlus Mariachiara Roti, Vice Presidente

Fondazione Francesca Rava - N.P.H. Italia Onlus Emma Baiardi, Responsabile Academy

Fondazione Francesca Rava - N.P.H. Italia Onlus Silvia Valigi, Responsabile comunicazione e ufficio stampa

Fondazione Giovanni Agnelli Stefano Molina

Fondazione Milan Martino Roghi, Responsabile Esecutivo

Fondazione Near Onlus Silvia Cappellini

Fondazione Near Onlus Bill Niada

Fondazione per l'Innovazione del Terzo Settore / Rete Ribes

Roberto Bonifazi, Direttore Generale Ribes

Fondazione Poste Insieme Massimiliano Monnanni, Responsabile Responsabilità Sociale

Fondazione Renato Piatti Onlus Luisa Fumagalli, Risorse Umane

Fondazione Renato Piatti Onlus Martina Monsù, Risorse Umane

Fondazione Renato Piatti Onlus Maurizio Ferrari, Responsabile Comunicazione e Fund Raising

Fondazione SNAM Angela Maria Melodia – Responsabile Sviluppo

Fondazione Social Venture Giordano Dell’Amore Lorenzo Triboli, Impact investing associate

Fondazione Sodalitas Elisa Rotta, CSR Program Manager

Fondazione Sodalitas Aldo Cavadini, Consigliere d’indirizzo

Fondazione Sodalitas Paola Mercante, Consigliere

Fondazione Sodalitas Manuela Macchi, Consigliere

Fondazione Telethon Alessandro Betti

Fundacion Capital Laura Fuentes, Chief Financial Officer

GnuCoop Andrea Bertolazzi, CEO and trainer

HUMANA People to People Italia Tommaso Abbiati, Corporate Fundraising Manager

Istituto Serafico Assisi Stefano Malfatti, Direttore Comunicazione e Raccolta Fondi

La Triennale di Milano Olivia Ponzanelli, Head of Fundraising e Sponsorship

Life Based Value Milena Pellegatta, Marketing & Communication

Medici Senza Frontiere Annalaura Anselmi, Direttrice Raccolta Fondi

ONDS / Anthology Franca Iannaccio

Opera don Guanella Elisa Rimotti

Rondine Ida Linzalone, Direttore Generale

Save the Children Elena Avenati, Private Sector e SDGs Manage

Save the Children Emanuela Corallo, CSR & Foundation advisor

Talento Dinamico Fulvio Sperduto

Teatro dell'Opera di Roma Francesca Chialà, Consigliere

Techsoup Emma Togni, Marketing Manager

Touring Club Italiano Marco Girolami, Strategie Territoriali

Fondazione EY Italia Onlus Daniela Carosio

Fondazione EY Italia Onlus Cristina Pauna

Fondazione EY Italia Onlus Tina Russo

Fondazione EY Italia Onlus Angela Lombardi

EY Raffaele Vitale

EY Donato Ferri

EY Maria Teresa Iannella

EY Rossella Zunino

EY Riccardo Giovannini

EY Marco Grieco

57

EY Maurizio Milan

EY Stefania Galletti

EY Francesca Di Caprio

EY Irene Bruschi

EY Giulia De Martini

EY Nicolò Quilico

EY Alessandra Gargiulo

EY Simona Austoni

I RELATORI

Vincenzo Algeri Responsabile Area UBI Comunità

Luciano Balbo Fondatore Oltre Venture prima società di venture capital sociale in Italia

Alessandro Beda Consigliere Delegato Fondazione Sodalitas

Giuseppe Bruno Vice Presidente Gruppo Cooperativo CGM

Mario Calderini Professore ordinario e Direttore del Centro di Ricerca Tiresia presso la School of Management del Politecnico di Milano

Carola Carazzone Segretario Generale Assifero

Marco Gerevini Consigliere Fondazione Social Venture Giordano dell’Amore

Enrico Giovannini Portavoce dell'Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile

Marzia Masiello Responsabile Ai.Bi. Roma, in sostituzione di Claudia Fiaschi Portavoce del Forum Nazionale Terzo Settore

Federico Mento Segretario Generale Social Value Italia e Direttore Human Foundation

Marco Morganti CEO Banca Prossima

Serena Porcari Presidente Dynamo Academy Impresa Sociale

Fabrizio Sammarco Amministratore Delegato ItaliaCamp

Carlo Segni Lead Financial Officer The World Bank (da luglio 2018 Cassa Depositi e Prestiti)

Rossella Sobrero Docente di Comunicazione sociale all’Università degli Studi di Milano

Cristina Tajani Assessore a Politiche del lavoro, Attività produttive, Commercio e Risorse umane, Comune di Milano

Paolo Venturi Direttore di AICCON-Università di Bologna