il mensile dell’educazione interculturale

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IL MENSILE DELL’EDUCAZIONE INTERCULTURALE 3|2012 marzo www.cem.coop Poste Italiane S.p.A. - Sped. D.L. 353/03 (conv. L. 27/02/04 n. 46) Art. 1 - Comma 1 - DCB Brescia - Anno LI - n. 3 - Marzo 2012 - Via Piamarta 9 - 25121 Brescia - Contiene I.R. ® Gioco e sport Rivista del Centro Educazione alla Mondialità (CEM) dei Missionari Saveriani di Parma con sede a Brescia

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Page 1: IL MENSILE DELL’EDUCAZIONE INTERCULTURALE

I L M E N S I L E D E L L ’ E D U C A Z I O N E I N T E R C U L T U R A L E

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Page 2: IL MENSILE DELL’EDUCAZIONE INTERCULTURALE

Rivista del Centro Educazione alla Mondialità (CEM)dei Missionari Saveriani di Parma, con sede a Brescia

DirettoreBrunetto Salvarani([email protected])

Condirettori Antonio Nanni ([email protected]) Lucrezia Pedrali ([email protected])

SegreteriaMichela [email protected]

Redazione Federico Tagliaferri (caporedattore)[email protected]

Monica Amadini, Daniele Barbieri, CarloBaroncelli, Davide Bazzini, Giuseppe Bias-soni, Silvio Boselli, Luciano Bosi, PatriziaCanova, Azzurra Carpo, Stefano Curci,Marco Dal Corso, Lino Ferracin, AntonellaFucecchi, Adel Jabbar, Sigrid Loos, Karim

Metref, Clelia Minelli, Roberto Morselli,Nadia Savoldelli, Alessio Surian, Aluisi To-solini, Rita Vittori, Patrizia Zocchio

Collaboratori: Roberto Alessandrini, Ru-bem Alves, Fabio Ballabio, MichelangeloBelletti, Simona Botter, Paolo Buletti, Gian-ni Caligaris, Andrea D’Anna, Gianni D’Elia,Mariantonietta Di Capita, Alessandra Fer-rario, Francesca Gobbo, Cristina Ghiretti,Piera Gioda, Stefano Goetz, Grazia Grillo,Mimma Iannò, Renzo La Porta, LorenzoLuatti, Francesco Maura, Maria Maura, Oi-kia Studio&Art, Roberto Papetti, Luciana Pe-derzoli, Carla Sartori, Eugenio Scardaccio-ne, Oriella Stamerra, Nadia Trabucchi, Fran-co Valenti, Gianfranco Zavalloni

Direttore responsabileMarcello Storgato

Direzione e RedazioneVia Piamarta 9 - 25121 Brescia Telefono 030.3772780 - Fax [email protected]. n. 11815255

Amministrazione - abbonamentiCentro Saveriano Animazione MissionariaVia Piamarta 9 - 25121 Brescia Telefono 030.3772780 - Fax 030.3774965 [email protected]

Quote di abbonamento10 num. (gennaio-dicembre 2012) € 30,00Abbonamento triennale € 80,00Abbonamento d’amicizia € 80,00Prezzo di un numero separato € 4,00

Abbonamento CEM / esteroEuropa € 60,00Extra Europa € 70,00

Grafica: Orione. Cultura, lavoro e comunicazioneDisegni di copertina: Silvio BoselliStampa: Tipografia Camuna - Brescia

[email protected]

www.cem.coop

Registrazione Tribunale di Parma, n° 401 del 7/3/1967

Editore: Centro Saveriano Animazione Missio-naria - CSAM, Soc. Coop. a r.l., via Piamarta 9 -25121 Brescia, reg. Tribunale di Brescia n° 50127in data 19/02/1993.

La testata fruisce dei contributi statali diretti dicui alla legge 250 del 7 agosto 1990.

editorialeLa generazione di Harry Potter 1Brunetto Salvarani

questo numeroa cura di Federico Tagliaferri 2

pagine di storiaUna mondialità per tutti 3Savino Mombelli

Sommarion. 3 / marzo 2012

Esperienze collettive di mondialità 23

settima puntata

a cura di Antonio Nanni, Antonella Fucecchi

ascuolaeoltre

bambine e bambini

Il paese dei sogni 5Lucrezia Pedrali

ragazze e ragazzi

Il ventre molle... sarà fame? 7Sara Ferrari

generazione y

Patto generazionale e lavoro 9Antonella Fucecchi

in cerca di futuro

Said e le figurine 11Davide Zoletto

educazione degli adulti

Genitori sempre 12Rita Roberto

mondialità

Il Bambino, il Crocifisso, 14la missione e il mondoAntonio Nanni

l’ora delle religioni

La ragione ecumenica 16del pluralismo religiosoMarialuisa Damini, Marco Dal Corso

agenda interculturale

Giustizia Sociale ed Ambientale 33Alessio Surian

prati-care

P.I.P.P.I. 34a cura di Gianni D’Elia

domani è accaduto

Penelope, Orwell e Noè 35a cura di Dibbì

spazio cem

L’antisolidarietà 36Barbara Alunni

CEM-Sud | Cantieri interculturali 37e rivoluzioni positiveDomenico La Marca

crea-azione

Mediterranea 2011. Voci tra le sponde 39Arte, nusica e teatroNadia Savoldelli

saltafrontiera

Il piacere delle storie 40Lorenzo Luatti

mediamondo 41

nuovi suoni organizzati

Il Carnevale e la Quaresima 43Luciano Bosi

cinema

Miracolo a Le Havre 45Lino Ferracin

i paradossiI due rami della mondialità e della 47globalizzazione e i pescatori di granchiArnaldo De Vidi

la pagina di... r. alvesL’avarizia 48

Sentinella, quanto resta della notte? Oltre ogni crisi, per un nuovo patto generazionale

7) Gioco e sport

Gioco e sport 18Fra il mondo e il mio corpoDaniele Barbieri

brics

Crisi finanziaria. 20Interrogarsi non sul «come» ma sul «perché»Gianni Caligaris

di padre in figlio

Ettore e Astianatte 29Antonella Fucecchi

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Page 3: IL MENSILE DELL’EDUCAZIONE INTERCULTURALE

brunetto salvarani | direttore [email protected]

La generazionedi Harry Potter

editoriale brunetto salvarani | direttore [email protected]

«U na versione moderna del mito del Graal»,sentenziò tempo fa Serge Tisseron niente-meno che su Le Monde diplomatique,

mentre l’illustre critico Pietro Citati riconosce alla sua(fortunata) autrice, Joanne Kathleen Rowling, il dono rarodell’immaginazione teologica. Qualche mese fa, in coin-cidenza con l’uscita sul grande schermo dell’ultimo filmtratto da questa saga curiosamente sospesa fra il pre eil postmoderno, Harry Potter e i doni della morte, è com-parso in libreria addirittura un Vangelo secondo HarryPotter (Claudiana 2011), a cura del pastore valdese Pe-ter Ciaccio: che spulcia con arguzia in un centinaio dipagine le tematiche etiche e spirituali affioranti tra le vi-cende del maghetto per antonomasia da (quasi) tre lustria questa parte. Fino a sostenere che «la fede ha bisognodi fantasia, per capire che questo mondo pieno di vio-lenza e ingiustizia non è quello sognato da Dio». Con-viene rassegnarci: inutile sbuffare o limitarsi a pigliarloper il solito gadget letterario di moda, siamo di fronte aun fenomeno globale e qui e là persino raffinato, che sipuò anche non amare - ci mancherebbe! - ma non èpossibile ignorare. Il fatto è che, intanto, un’intera gene-razione è cresciuta su quei tomi, da quel ’97 quandocomparve in Inghilterra il romanzo d’esordio, Harry Pot-ter e la pietra filosofale, esattamente com’è cresciuto,un libro dopo l’altro fino a raggiungere la definitiva cifra(magica?) di sette, il suo protagonista: quella che oggisi sta affacciando, o ha conseguito da poco lamaggiore età. Legittimamente, perciò, il suo

consolidarsi nell’immaginario collettivo ha costretto so-ciologi, critici letterari e massmediologi a interrogarsisulle chiavi di un successo strepitoso: fino a dipingerlocome una riuscita metafora del complicato sviluppo, psi-cologico ed esistenziale, dall’infanzia all’età adulta, dellafolta schiera di nativi digitali fragili e spavaldi che - perbabbani che siano - l’hanno eletto propria icona. Tantoda sorbirsi avidamente, in una stagione che pullula dianalisi sull’indisponibilità congenita alla lettura di ragazziche consumano ore in balia dei social network più chesu Cuore e Pinocchio e Cipì (per restare in casa nostra),non poche centinaia di pagine a ogni puntata, con l’ovviocorollario dei film di rinforzo. Ce ne sarebbe abbastanzaper evitare qualsiasi sussiego, ma non è tutto. Perchédall’opera di Rowling, a ben vedere, gronda una granmesse di temi su cui varrebbe la pena investigare conattenzione: dal ruolo della magia e dell’occultismo (ele-menti presenti, sacrosantamente, in molte storie per l’in-fanzia) alla divisione fra bene e male (un po’ più com-plessa di quanto ci si attenderebbe, anche alla luce diun paio di colpi di scena finali); dal motivo, caro a diversifiloni protestanti, della predestinazione, fino alla relazio-ne intrigante fra coraggio e paura. E a quello che, a contifatti, va considerato il leitmotiv dell’intera Potterland: lalotta dell’amore contro la morte, esemplificata dal con-flitto inesausto fra il mefistofelico Voldemort e l’ingenuoe timido Harry. Meglio: l’amore-agape capace di scon-figgere la morte-thanatos, tanto da spingere questo ca-

limero britannico a rifiutare una comprensione ego-centrica della vita, per puntare su una visione aperta,altruista e comunitaria. Come svela in controluce, delresto, l’epitaffio sulla tomba dei defunti suoi genitori:«L’ultimo nemico che sarà sconfitto sarà la morte» (1

Cor 15, 26). Così, qualche volta, persino il fantasypuò rivelarsi una buona scusa per riprenderein mano la Bibbia, grande codice del pensieroe dell’arte occidentali, ma anche - come ab-biamo denunciato più volte dalle pagine diCEM Mondialità - vero e proprio libro assen-te nella cultura italiana. Purtroppo... nnn

editoriale

L’opera di Rowling gronda unagran messe di temi su cui

varrebbe la pena investigarecon attenzione: dal ruolo della

magia e dell’occultismo, alladivisione fra bene e male,

fino alla relazione intrigantefra coraggio e paura

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Q uesto numero contribuisce a comporre il quadro dell’annata 2011-2012 di CEM Mondialità, dedicata al tema

«Sentinella, quanto resta della notte? Oltre ogni crisi, per un nuovo patto generazionale», trattando dello sport,

a cui Daniele Barbieri dedica un dossier intitolato «Gioco e sport. Fra il mondo e il mio corpo». «Sembra che sport

e musica siano gli unici linguaggi quasi universali; è più probabile che un tunisino, uno svedese e un pakistano siano uniti

nel sapere chi ha vinto gli ultimi dieci mondiali di calcio piuttosto che nel conoscere la Dichiarazione dei diritti umani -

scrive l’autore -. “Alla fine del Novecento lo sport, dopo un itinerario di quasi un secolo e mezzo, sembra aver perduto le mo-

tivazioni ideali che ne erano state all’origine. In gran parte dispersa la valenza educativa e morale che costituiva la base

ideologica del gentleman amateur inglese, il tramonto delle ideologie sembra aver definitivamente fatto naufragare anche

l’ideale sportivo concepito come affermazione dell’identità e della supremazia nazionale” - continua l’autore citando Jean

Baudrillard -. E il corpo, non più luogo e me-

tafora di ideologie, sembra agire attraverso

la riproduzione di se stesso».

L’inserto centrale del «dossier», «Ri-pensare

la mondialità», curato da Antonio Nanni e

Antonella Fucecchi, è dedicato a «Esperien-

ze collettive di mondialità», un accurato

quadro delle organizzazioni, delle Ong, dei

gruppi e dei movimenti significativamente

impegnati, con modalità e stili diversissimi

tra loro, a condurre e a testimoniare com-

portamenti e pratiche di mondialità.

Sempre a proposito di «mondialità» segna-

liamo inoltre, nella prima parte della rivista,

nella sezione «A scuola e oltre», due articoli

che offrono, da prospettive diverse, due interessanti rielaborazioni dei vari concetti che il termine «mondialità» può esprimere.

Nel primo articolo, padre Savino Mombelli, direttore di CEM negli anni 1959-1964 e 1968-1971, propone una ricostruzione

delle varie categorie applicabili al concetto che la parola esprime; nel secondo articolo, dedicato a San Guido Maria Conforti,

Antonio Nanni richiama l’attualità del suo messaggio sotto il profilo della mondialità. Nella sezione «Resto del mondo», per la

rubrica di cinema, Lino Ferracin ci presenta «Miracolo a Le Havre», un film che, con toni poetici e naturalistici, ci permette di

avvicinarci al tema dell’immigrazione, dei suoi drammi e delle sue colossali ingiustizie. nnn

Cari lettori, vi invitiamo a consultare il sito www.cem.coop, vi troverete molti articoli e documentinon disponibili sulla rivista! Le fotografie a corredo di questo numero si riferiscono a passate edizioni del Convegno annuale di CEM.

2 | cem mondialità | marzo 2012

Questo numero

a cura di Federico [email protected]

La scomparsa di Giulio Girardi

Il 26 febbraio è morto Giulio Girardi, negliultimi cinquant’anni uno dei maggiori pen-satori e teologi che in Italia si siano con-frontati col marxismo e con la modernità,interloquendo contemporaneamente coimovimenti di base.CEM Mondialità ricorderà la figura e l’ope-ra di Giulio Girardi con un articolo nel pros-simo numero.

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marzo 2012 | cem mondialità | 3

A rrivai al Centro Educazione Missionaria nelnovembre del 1959 e subito mi resi conto cheil termine «missionaria» era problematico e ci

impediva di presentare la nostra proposta educativaalla scuola italiana. Gli insegnanti ci potevano acco-gliere per l’ora di religione o per la simpatia che nutri-vano per l’attività missionaria della Chiesa, ma nonperché avevamo un messaggio da trasmettere a tuttala scuola, a tutto il programma didattico. Il problema siacuiva quando i confratelli saveriani ci chiedevano seil CEM stesse producendo vocazioni missionarie. Sa-pendo che non ne aveva prodotte, se non in rarissimicasi, cominciammo a rispondere: «Noi non vogliamovocazioni missionarie, noi vogliamo cambiare il mon-do!». Con il tema missionario la scuola ci apriva la por-ta di fondo, con il tema della mondialità la scuola ciavrebbe aperto il portone centrale. La mondialità nonera ancora un progetto di attualità, ma destava una sim-patia immediata e veniva accolto come un’apertura ric-ca di promesse.

Sono passati oltrecinquant’anni da allora e lamondialità è divenuta unarealtà viva per tutta lasocietà, una proposta chenon può essere dilazionata orifiutata senzacompromettere la pacemondiale e l’avveniredell’intera umanità. Ma comeparlare della mondialità a chi non vive nella scuola e per la scuola?

La mondialità genetica

È la più antica della storia ed è iniziata da tempo im-memorabile. Si realizza mediante il matrimonio fra per-sone di diverse razze e culture. È in base ad essa chesi può negare l’esistenza di una razza pura e non par-larne più. L’idea di una razza pura fu il fiammifero cheaccese la pira della seconda guerra mondiale, sacrifi-cando la vita di sessanta milioni di esseri umani. Difattinon esistono razze pure se non teoricamente, se noncome realtà che si possono soltanto immaginare. L’im-pero bizantino non voleva accettare le tribù germani-che sul suo territorio e chiuse le sue frontiere da trelati: da est, da nord e da ovest. Ma dove si trova oggi ilpopolo greco con la sua immortale cultura classica?Parzialmente nella Grecia antica e attuale e meno an-cora in alcuni paesi vicini. E dove si parla il greco mo-derno? Soltanto in Grecia, un paese di terza categoriase lo si considera dal punto di vista politico. Con i latiniè avvenuto il contrario. Essi seppero ripensare gli av-venimenti della storia e trasformare gli invasori ger-manici in parenti e fratelli. Oggi le lingue neolatine siparlano in tutto il mondo, anche se questo fenomeno èdovuto solo in parte alla mondialità genetica. Sia chia-ro, essa è bella, naturale e ricca di conseguenze posi-tive, ma non può essere imposta o diventare legge. Sideve soltanto incoraggiare e onorare nei paesi in cuisi sta verificando, Italia compresa. La si deve deside-rare e suggerire là dove interessi di vario genere e unmalinteso patriottismo la vorrebbero impedire. Difatti,ciò significherebbe impedire che la natura umana sirigeneri e raggiunga il massimo delle sue possibilità.

La mondialità politica

Non c’è mondialità che non sia politica, come non c’èfatto sociale che non sia politico. Ma qui vorrei parlaredi una mondialità che deve essere decisa e mantenutapoliticamente, mediante prese di posizione astute, in-telligenti e generose da parte della classe politica. Ver-so la metà del secolo XVIII, il Marchese di Pombal,

Una mondialità per tutti

Savino Mombelli lezionidistoria

Padre Savino Mombelli,missionario saveriano a Belém do Pará, Brasile, è stato direttore di CEM negli anni 1959-1964e 1968-1971.

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Page 6: IL MENSILE DELL’EDUCAZIONE INTERCULTURALE

4 | cem mondialità | marzo 2012

lezionidistoria

primo ministro dell’impero portoghese, vedeva di ma-locchio il potere religioso e politico che sia i gesuiti siaaltri missionari esercitavano sulle tribù indigene graziealle riduzioni impiantate a sud e a nord del Brasile, os-sia nell’attuale Amazzonia. Pensava che i missionaristessero arricchendo le loro case madri col lavoro de-gli indigeni, nello stesso tempo in cui impedivano chegli indigeni s’incrociassero coi colonizzatori portoghesie i loro schiavi africani. Pombal liberò le comunità in-digene dal potere religioso/politico dei gesuiti e di altriordini trasferendone l’amministrazione ai municipi del-la colonia, espulse dal paese i missionari e autorizzò imatrimoni fra le tre principali popolazioni che forma-vano la colonia Brasile: i bianchi, gli africani e gli indi-geni. A distanza di due secoli e mezzo, ci rammari-chiamo per l’espulsione dei missionari, ma possiamocon tutta onestà ammettere che la decisione d’inco-raggiare l’incrocio fra le tre razze ha posto le basi delBrasile attuale, il paese più meticcio del mondo, in gra-do nel prossimo futuro di fare concorrenza alle potenzemondiali tradizionali. In Brasile c’è ancora un certo raz-zismo, sia pubblico sia occulto, ma da tempo apparefondato più sulla situazione economica che sulla razza.Nel linguaggio popolare si usa dire: «Bianco povero ènegro. Negro ricco è bianco». Pensando all’Europa,c’è da augurarsi che venga alla luce qualche nuovoMarchese di Pombal che faccia di essa il continentepiù meticcio e più umano del mondo. Solo così l’Euro-pa e l’Italia potranno sopravvivere e dire la parola giu-sta nel futuro parlamento mondiale.

La mondialità psicologica

È la più bella che si possa pensare e desiderare. Èquella che i maestri e professori associati al CEM fa-cevano e fanno balenare da settant’anni nelle scuoleitaliane. È quella per cui in certe classi italiane delleelementari e delle medie i figli dei migranti sono accoltifestosamente. La mondialità psicologica si fonda suimmaginazione, sentimenti, bontà, simpatia e genero-sità. Essa è tanto profonda e potente da riuscire a farcivoler bene perfino agli italiani che ci sono antipaticiper mille condizionamenti, tanto reali quanto immagi-

nari. Essa viene dal cuore, dall’allegria, dall’arte, dallamusica e dallo sport e non ha bisogno di incroci a li-vello genetico. Al contrario, la mondialità psicologicaapprezza più le differenze che le somiglianze e desi-dera che i cinesi e i boscimani restino tali per sempre,quantunque in mezzo a italiani e canadesi. Penso aicampionati mondiali di calcio e vedo tifosi di tutti i co-lori occupare i loro posti su tribune immense, che miricordano le messe del Papa a Roma: che differenzac’è fra queste e una partita di calcio ai campionati delmondo? C’è molta differenza, ma anche molta somi-glianza. In entrambi i casi c’è molta allegria, molta fra-ternità e una simpatia/avversità passionale fra squadrae squadra, fra paese e paese. C’è un superamento delpassato millenario costellato di disastri e il sogno diun futuro ricco di mense imbandite e di trasparenti va-lori umani eterni e sublimi.

La mondialità bancaria

È la più importante al mondo e quella che dovremmocancellare a tutti i costi. Lo si sente dire ogni giorno:duecento banche, associate a venti milioni di persone,hanno in mano l’80% delle ricchezze del pianeta, con-dizionando il presente e il futuro di miliardi di esseriumani. Quella bancaria è la mondialità negativa checerca d’impedire quella positiva di cui abbiamo par-lato. Ma bisogna conoscerla di più, bisogna studiareil modo di limitarla ed eliminarla. Il demonio l’ha fattavedere a Cristo sul monte dell’ultima tentazione: «Seti inginocchi ad adorarmi – gli aveva detto il demonio- le ricchezze della terra che vedi saranno tutte tue».Deve essere chiaro a tutti che l’accumulazione dei be-ni corrisponde al Regno di Satana e non al Regno diDio e che è ora di mettere in questione le quattro mon-dialità che abbiamo visto sopra. È ora di domandarcise tali mondialità stiano producendo uguaglianza efraternità reali, sconfiggendo il Regno di Satana. Se ciaccorgiamo che esse non servono a molto, dobbiamorivederle e correggerle, con entusiasmo e un’intelli-genza che, sottile e scientifica, offra risultati più sicurie più appetibili. nnn

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Il paese dei sogni

Molti dei disagi che gli alunni portano a scuola nascono da contesti di fatiche e di problematiche delle famiglie; disagi e fatiche che sono destinati ad aumentare perché nel frattempo anche i dispositivi a sostegno delle politiche sociali sono drasticamente diminuiti e le famiglie sono in difficoltà.

marzo 2012 | cem mondialità | 5

Sul quotidiano «Il sole-24ore» di domenica 19febbraio scorso, nell’in-

serto domenicale, è statopubblicato il manifesto «Peruna costituente della cultura»che enuncia, in cinque punti,gli elementi essenziali per una«costituente che riattivi il cir-colo virtuoso tra conoscenza,ricerca, arte, tutele e occupa-zione». La tesi del manifestoè dichiarata in forma esplicitagià nel titolo dell’articolo:«Niente cultura, niente svilup-po». Riporto di seguito unodei cinque punti (il numeroquattro) relativo a «L’arte ascuola e la cultura scientifica».«È importante che l’azionepubblica contribuisca a radi-care a tutti i livelli educativi,dalle elementari all’universi-tà, lo studio dell’arte e dellastoria per rendere i giovani icustodi del nostro patrimo-nio, e poter fare in modo cheessi traggano alimento per lacreatività del futuro. Per stu-dio si intende l’acquisizionedi pratiche creative e non so-lo lo studio della storia del-l’arte. Ciò non significa ri-nunciare alla cultura scienti-

La condizione attualedella scuola primaria

L’intervento dell’ex ministroGelmini sulla scuola primariasi è concretizzato soprattuttonell’«Atto di indirizzo» del2009 nel quale, tentandoun’ardita sintesi fra i prece-denti due documenti di rifor-ma (Indicazioni nazionali, mi-nistro Moratti 2004; Indica-zioni per il curricolo, ministroFioroni 2007) si giunge allaseguente conclusione: «oc-corre abbandonare con deci-sione la strada, talora percor-sa, dei programmi pletorici ri-sultanti perciò in parte consi-stente inattuabili e tali da vio-lare l’autonomia, la libertàmetodologica di insegna-mento per la molteplicità in-vasiva delle loro prescrizioni».In particolare, «va attualizza-ta e innovata la tradizionaledefinizione di scuola primariacome quella del leggere, scri-vere, far di conto». Va sottolineato che, in assen-za di altri indirizzi, quello delministro Gelmini è di fattotuttora il documento di rife-rimento per la scuola prima-ria, anche se nulla può sem-brare più lontano dall’idea discuola come luogo per pro-muovere la cultura, l’arte, ilsapere scientifico, la cittadi-nanza. E nella rassegna di ciòche va ripensato per riportarela riflessione sulla concretez-za ci sono altri fattori che de-vono essere considerati per-ché hanno modificato pro-

cordo? Del resto dalle pagi-ne di questa rivista tale tesi èstata sostenuta con forza etenacia persino quando risul-tava in contrasto con altrimodelli educativi istituziona-li. Ma giusto per connetterele dichiarazioni d’intentiespresse dal manifesto «Peruna costituente della cultu-ra» alla realtà, vale la pena ri-flettere sull’attuale condizio-ne della scuola vista sotto ilprofilo della sua materialità econsiderando la mancanza dipensiero progettuale che hacaratterizzato gli ultimi inter-venti legislativi.

bambine e bambinilucrezia [email protected]

ascuolaeoltre

fica, che anzi deve essere in-crementata e deve essereconsiderata, in forza dellasuo costitutivo antidogmati-smo, un veicolo prezioso deivalori di fondo che contribui-scono a formare cittadini econsumatori dotati di spiritocritico e aperto. La dicotomiatra cultura umanistica escientifica si è rivelata infon-data proprio grazie a una se-rie di studi cognitivi che di-mostrano che i ragazzi impe-gnati in attività creative e ar-tistiche sono anche i più do-tati in ambito scientifico».Bene. Come non essere d’ac-

La crisieconomicadetermina

scelteistituzionali e

personali cheentrano

direttamentein classe

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Page 8: IL MENSILE DELL’EDUCAZIONE INTERCULTURALE

6 | cem mondialità | marzo 2012

bambine e bambini

Per un’analisi seriadella scuola

Molti dei disagi che gli alunni portano ascuola nascono da contesti di fatiche e diproblematiche delle famiglie; disagi efatiche che sono destinati ad aumentareperché nel frattempo anche i dispositivi asostegno delle politiche sociali sonodrasticamente diminuiti e le famiglie sonoin difficoltà. La scuola diventa, suomalgrado, il terminale di istanze complesse,persino contraddittorie, e larga parte dellesue energie sono spese nel tentativo dicontenere e gestire problemi la cuisoluzione rinvia a responsabilità politiche aldi fuori delle sue possibilità. A chi chiedere di ripensare la scuola e dirifondarla, non solo attraverso i manifesti(fondamentali certo, e del tuttocondivisibili) ma anche e soprattutto conun’analisi seria, puntuale, delle suecondizioni e delle pratiche possibili? Ritornano alla mente le parole pronunciatenel 2008 da due grandi e inascoltatipedagogisti italiani, Andrea Canevaro eDario Ianes, quando con una lettera sidimisero per protesta dall’Osservatoriosull’integrazione del nuovo ministero dellapubblica istruzione: «Questa nuova politicascolastica fatta di tagli, economie presunte,annunci e smentite, rigore, disciplina,ordine, divise, autorità, voto in condotta,bocciature, selezione, produce in tuttiulteriore insicurezza, diffidenza e conflitti.Queste politiche scolastiche sonoevidentemente gestite da finalitàeconomicistiche, per risparmiare: ma questoavverrà sulle spalle delle famiglie, sulla pelledegli alunni e sulla credibilità della scuolapubblica, come la vuole la nostraCostituzione». E anche come richiesto dalmanifesto «Per una costituente dellacultura».

fondamente le condizioni realidella scuola e incidono sugli esiti:il numero degli alunni per classe,la modificazione dell’organizza-zione oraria, la figura dell’inse-gnante prevalente, tutti i proble-mi connessi all’inclusione delledifferenze, i disagi di apprendi-mento e in generale di relazione.Sullo sfondo, opprimente e per-vasiva, la crisi economica che de-termina scelte istituzionali e per-sonali che entrano direttamentein classe.

La questione dell’anticipo

Tra queste scelte se ne può con-siderare una che non viene maipresa in considerazione se non intermini statistici, ma che inveceemerge frequentemente dai col-loqui con insegnanti della scuoladell’infanzia: la questione dell’an-ticipo. Come si ricorderà il Regolamentodi riordino del primo ciclo d’istru-zione e della scuola dell’infanzia

(D.P.R. n. 89/2009) ha previstoche, a decorrere dall’anno scola-stico 2009-10 possano iscriversialla scuola dell’infanzia i bambiniche compiono tre anni di età en-tro il 30 aprile dell’anno scolasti-co di riferimento; per la scuolaprimaria esiste un’analoga possi-bilità d’iscrizione anticipata percoloro che compiono sei anni dietà entro il 30 aprile dell’annoscolastico di riferimento. Lo haprevisto il decreto legislativo n.59/2004.

La scuola erogatrice di servizi

In che rapporto stanno la costi-tuente per la cultura, la crisi, glianticipi? Anche se non immedia-tamente leggibile il rapporto èstrettissimo: la crisi sta producen-do comportamenti che spingonoa considerare la scuola come luo-go che eroga servizi e attiva prati-che di assistenza e di sostegno allefamiglie in difficoltà. L’abbando-no un anno prima della scuoladell’infanzia comporta la possibi-lità di limitare i costi obbligati de-rivanti dal pagamento della rettaper il servizio mensa; e per alcunefamiglie, alle prese con la pesantesituazione economica, anche que-sto risparmio diventa sostanziale.Quella che dovrebbe essere unascelta motivata soltanto da istanzeeducative e culturali è in realtà as-sunta per bisogno e talvolta innetto contrasto con le esigenzedel bambino. In diversi contesti,insegnanti della scuola dell’infan-zia hanno manifestato come lascelta dell’anticipo da parte deigenitori sia stata presa nonostan-te il vissuto del bambino, i suoibisogni e il sistema complessivodelle sue competenze indicasserocome maggiormente significativoil mantenimento nella scuola del-l’infanzia. nnn

«È importante chel’azione pubblica

contribuisca aradicare a tutti ilivelli educativi,

dalle elementariall’università, lo

studio dell’arte edella storia per

rendere i giovanii custodi del

nostro patrimonio,e poter fare inmodo che essi

tragganoalimento per la

creatività delfuturo»dal manifesto

per una Costituente della Cultura

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to finisci per crederci), so-prattutto da quelli che vi la-vorano (godiamo nell’auto-compiacimento), che sonoanche i meno soddisfatti perla loro formazione e si sen-tono poco apprezzati per lesfide educative (sociali oltreche educative) e d’organiz-zazione scolastica... dopo lacampagna di demolizionedella scuola pubblica svoltain questi ultimi anni, nullaera più facile che focalizzarel’attenzione sulla ex-scuolamedia, la Cenerentola senzamadre e senza figli, con unamatrigna cattiva e sempre aperder pezzi per le scale. Man-ca poi il Principe Azzurro (il 2°grado) che sposa Cenerentolae scopre che le sue competen-ze in realtà sono al di sottodelle attese… e vissero tuttiinfelici e incompetenti.

«Scuola primaria di 2° grado»

Una collega mi invia una re-lazione per un lavoro svoltocon me, leggo colta da unafolata di ilarità: «Il laborato-rio in una classe 3a presso la

scuola primaria di 2° gradodi…». Dal riso alla concretiz-zazione di un pensiero, lì,scritto nero su bianco. Scuolaprimaria di 2° grado? Presa-gio di «Fu scuola Media chedoveva essere secondaria di1° grado?». Non si possonousare parole diverse per cam-biare il significato delle cose,in questo caso dell’ordine diuna scuola. Qual è la defini-zione? A partire non dallaparola in sé, ma per arrivaread una che la delinei, che netracci i contorni, ne definiscagli obiettivi: un prolunga-mento della primaria? Deverispecchiare un percorso diaccompagnamento all’orien-

Ci rendiamo conto che una risposta per la scuola potrebbe essere la progettazione comune, nonsolo per aree come in parte avviene, ma come progettazione di scuola, verticale davvero etrasversale. Ma non si può. Come fare un lavoro di équipe quando mancano del tutto le risorse?Rendere interdisciplinare la scuola media era una sfida prima, ora, con queste risorse limitate, è un’utopia a cui mirare, ma che sembra più lontana

«Si fa qualcosa,dicendoqualcosa» Gianrico Carofiglio, 2010

Il rapporto sulla scuolasponsorizzato dalla fon-dazione Agnelli (novem-

bre 2011) ipotizza che la se-condaria di 1° grado (ivi chia-mata per lo più scuola me-dia) sia l’anello debole del si-stema scolastico italiano. Lui-sa Ribolzi aggiunge che essaè considerata il ventre molledella scuola italiana: calo diapprendimento dalla prima-ria (basato su raffronti proveTIMMS e dati PISA); allieviche frequentano meno vo-lentieri la scuola rispetto aicoetanei europei; insegnantiil cui numero è diminuitomolto dagli anni ‘90 (saran-no i tagli?) e che hannoun’età molto elevata (e nonhanno messo in conto lenuove regole dei 69 anni!).Non finisce qui: è giudicatauna scuola di bassa qualitàdagli insegnanti stessi (a for-za di sentirti dire che sei brut-

Il ventre molle...sarà fame?

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ragazze e ragazzisara [email protected]

ascuolaeoltre

Dopo lacampagna di

demolizionedella scuola

pubblicasvolta in questi

ultimi anni,nulla era più

facile chefocalizzarel’attenzione

sulla ex-scuolamedia, la

Cenerentolasenza madre esenza figli, conuna matrigna

cattiva esempre a

perder pezziper le scale

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ragazze e ragazzi

tamento in funzione dellostudio/lavoro futuro? Pren-diamone atto, se non è riu-scita - ancora - l’unione delprimo ciclo, o non c’è la con-tinuità sperata, c’è di certomolta nebbia nella quale simuove un organismo a dueteste, ancora un po’ prepa-razione al lavoro nonché nonancora preparazione di livelloiniziale agli studi superiori, el’orientamento sembra re-starne un punto dolente.Lascio gli interventi ai peda-goghi e ritorno in classe dairagazzi.

Carta dei diritti di classe

Geografia: «Dopo aver lettola Carta dei diritti europea,scrivi la Carta dei diritti dellatua classe, ad ogni diritto de-ve corrispondere un dovere».Scrivono individualmente iloro diritti e doveri, propon-gono vari articoli, ne risulta(dopo limatura e discussionecollettiva) una Carta dei dirittie dei doveri della classe sud-divisa in cinque articoli: Ac-cesso, Istruzione, Convivenzae rispetto, Sicurezza, Diverti-mento.Art. 2B Istruzione: avere in-segnanti preparati/impe-gnarsi per essere preparati.Da tanto si discute sulla spe-cifica preparazione degli in-segnanti per le scuole medie.Ripercorro a ritroso la miaformazione. Concorso: esa-me scritto pensato per una3a liceo; all’orale una doman-da di un membro della com-missione: «Se in classe qual-cuno ruba, lei cosa fa? Neapprofitta?» Giuro, rischiai labocciatura, risposi «Chiede serubo anch’io?», era una do-manda di gestione della clas-

se, l’unica domanda che po-teva riguardare anche le me-die; passato l’orale (rimedia-to con un Goldoni d’annata),dimenticai d’inviare il certifi-cato di laurea e finii tra le ul-time posizioni, per scalare lagraduatoria, mi iscrissi allaSSIS. Laurea specialistica: gliinsegnamenti disciplinari era-no tenuti da docenti delleuniversità che perlopiù ripro-ponevano corsi monografici,al 2° anno comparvero do-centi delle scuole secondarie,di 2° grado; l’unico approc-cio alle medie lo ebbi duran-te il tirocinio, lì ho potuto im-parare davvero come l’og-getto culturale, Dante (per

esempio), potesse essere in-segnato al liceo, ma anche aragazzi di 12 anni. Sono sta-ta fortunata, ho avuto un su-pervisore e due tutor di gran-de umanità, e questa loroumanità era nella scuola chefacevano e a cui aspiravano.Non è tanto l’oggetto cultu-rale la questione - che deveessere posseduto come con-dizione indispensabile - masono le strategie e gli stru-menti quelli che fanno la dif-ferenza, è la flessibilità delladidattica che è richiesta.L’unica flessibilità che passadalla Scuola media ora è lascuola media stessa, vissutada tanti colleghi come una

sorta di passaggio agevolatoper accedere al 2°. Ora? TFA?Concorso? Un percorso. Daquest’anno ho iniziato un in-teressante confronto con lemaestre del primo piano: co-sa fate di geografia, di geo-metria, serve insistere di piùsulle equivalenze o sul calco-lo? La grammatica, cosa fun-ziona meno? Abbiamo aper-to un dialogo, che sarebbeun vero peccato interrompe-re. Ci rendiamo conto cheuna risposta per la scuola po-trebbe essere la progettazio-ne comune, non solo peraree come in parte avviene,ma come progettazione discuola, verticale davvero etrasversale. Ma non si può.Come fare un lavoro di équi-pe quando mancano del tut-to le risorse? Rendere inter-disciplinare la scuola mediaera una sfida prima, ora, conqueste risorse, è un’utopia acui mirare, ma che sembrapiù lontana. nnn

Il diritto di non essere bravi

Art 3.a Convivenza e rispetto:all’inclusione/contribuire all’inclusione ditutti.Art. 2.c Istruzione: non essere bravi ascuola/impegnarsi per dare il meglio chepossiamo. Tra gli altri questo risalta, unmorbido pugno nello stomaco: il diritto dinon essere bravi associato al dovere diimpegnarsi per esserli. I ragazzi michiedono che l’equità sia declinata indiritto alla diversità di raggiungimentodegli obiettivi. Quanto riusciamo davvero afar acquisire questo diritto ai nostriragazzi?Ancora il rapporto Agnelli sulla mancataeguaglianza delle opportunità scolastichesostiene che nell’età 11-13 anni si creano

l’80% dei divari sociali (per genere,provenienza, istruzione dei genitori,benessere economico). Alle medie, rispettoalla scuola primaria - almeno per gliapprendimenti - ci sono effettive difficoltà,soprattutto per i ragazzi in situazione disvantaggio. In questi giorni sto lavorando,in gruppo con alcune colleghe di variordini, a un progetto di un percorsopomeridiano antidispersione, che tengaassieme DSA, stranieri (genitori compresi),montagna, eccellenze, peer education etanto altro ancora… tutte le sfumaturedello svantaggio. Lo facciamo perché nonsolo ce n’è necessità, ma anche perché cipotrebbero essere fondi a disposizione,senza quelli è solo volontà individuale. Silavora per trovare soluzioni per affrontare iproblemi, ma per la loro realizzazione nonbastano la buona volontà e glistraordinari.

L’unica flessibilità che passadalla Scuola media ora è lascuola media stessa, vissuta datanti colleghi come una sortadi passaggio agevolato peraccedere al 2°

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Irapporti tra le generazioni hannoluoghi e contesti tradizionali d’in-contro e di scontro, generalmente

identificati nella famiglia e nella scuo-la, ove l’inevitabile asimmetria ana-grafica comporta anche un profondocoinvolgimento affettivo, elementoessenziale di ogni relazione educativa:salotti di casa, stanze dei figli, canti-ne, garage, come aule, collegi ed uni-versità hanno rappresentato nell’im-maginario gli spazi della contestazio-ne generazionale che oggi si ripropo-ne con caratteri profondamente di-versi. Si tratta di un conflitto indotto,sostanzialmente non voluto dai prin-cipali protagonisti: padri e figli co-stretti a contendersi scrivania e op-portunità occupazionali: sono i luo-ghi del lavoro del terziario e non piùe non solo le fabbriche il ring dellescontro che vede improbabili prota-gonisti di un incontro di pugilato i se-niores più o meno legati alle poltronee giovani sfidanti poco convinti, diso-rientati dall’idea stessa del dovercombattere e dunque disarmati e nonpropositivi.Conflitti, tensioni, riconciliazioni estoriche contrapposizioni hanno ali-mentato correnti letterarie ed artisti-che, offrendo spunti indimenticabilianche in ambito musicale e cinema-tografico; lo scenario attuale, invece,

Patto generazionale e lavoroIl conflitto generazionale non voluto

Mai abbastanza vecchi per andare in pensione e troppogiovani per lavorare: questo in sintesi il punto contraddittorio etragicamente entropico del nostro sistema lavoro.

che propone l’occupazione e l’atten-damento nei luoghi pubblici aperti edesterni come piazze, parchi e zonevuote riempite e presidiate, sembranon stimolare particolari estri creativie non ha ancora, per il momento, tro-vato una voce interprete, presagio edanche annuncio di un’inevitabile ri-nascita. Segno che siamo in mezzo alguado, travolti dall’impressione dinon poterne uscire con un colpod’ala. È per questo che anche la mu-sica tace: questa è una rivolta senzacolonna sonora. Anche il rock, comeè stato efficacemente notato, non hanulla da dire.

Indignati senza arte né parte

Se non esiste un manifesto chiaro del-l’indignazione, se le parole più chiaresono state pronunciate da un parti-giano ultranovantenne, sorge spon-taneo chiedersi cosa abbia portato gliindignados a riempire le piazze. Essisono animati da una volontà di rivoltaquasi inerziale, causata dall’enormitàdegli scompensi e degli squilibri che,semplicemente, per forza di gravità,provocano tracimazioni incontenibiliin contesti diversi, ma uniti dalla sen-sazione che la misura, ogni misura,sia colma. Per dichiarare questa im-

marzo 2012 | cem mondialità | 9

generazione yantonella [email protected]

ascuolaeoltre

Un conflitto indotto,sostanzialmente nonvoluto dai principaliprotagonisti: padri e

figli costretti acontendersi scrivania e

opportunitàoccupazionali

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possibilità di prolungare oltre la sop-portazione, i giovani, guidati dai socialnetwork, sciamano nelle piazze oveconvergono e generano un’onda sismi-ca di dissenso esistenziale. Significativoè il testo di un cartello issato da unagiovane indignata europea: «Noi nonsiamo contro il mondo, il mondo ècontro di noi». La sensazione di essereestromessi, defraudati del futuro e de-rubati della speranza appare il motorepiù potente delle rivolte che scuotonola realtà politica di qualunque orienta-mento proprio perché appare evidenteche la politica, la finanza e l’economiavengono percepite come realtà contra-rie al bene comune, obiettivo che ogniproclama elettorale finge di voler per-seguire come scopo finale e come pro-messa sistematicamente disattesa. Gli indignati si sentono essenzialmentetraditi nelle loro aspettative: non sonodei rivoltosi anarchici o dei ribelli innati,piuttosto sembrano clienti in fila da an-ni cui è stato riferito che la loro attesaè destinata ad essere frustrata, perché«non ce n’è per tutti» come la propa-ganda, o la normalità degli avvicenda-menti anagrafici, avrebbe indotto acredere. Il meccanismo del turnoverautomatico nell’accesso al lavoro, alsuccesso, all’autonomia ad un certopunto si è definitivamente inceppato,mostrando in modo drammatico tuttii suoi squilibri e le sue aporie.

È quanto staaccadendo nelnostro paese inmerito al mercato dellavoro e al sistemaprevidenziale: èfondamentalechiarirsi il quadroattraverso l’apportodi testi efficaci edesaurienti cheillustrino conpuntualità il processoin corso

generazione y

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Generazioni sul ring

Mai abbastanza vecchi per andare inpensione e troppo giovani perlavorare: questo in sintesi il puntocontraddittorio e tragicamenteentropico del nostro sistema lavoro,il vero nodo della crisi che ècontemporaneamente economico-finanziaria, politica, democratica,demografica ed etica. In sostanza uncollasso, un tracollo civile dal qualenon possiamo sperare di uscireindenni. Nessuno ci salverà enessuno si salverà da solo, anche setale verità non è evidente a tutti. Loprova un’indignazione che in Italiatarda a venire: siamo ancora nel belmezzo di un gelido inverno, ma nonne siamo del tutto consapevoli. Nonlo sono i nostri giovani ben pasciutialla mensa dei padri in attesa, graziea lauree e titoli di studio, di accedereal benessere che, ormai è certezza,sarà loro drasticamente precluso.Eppure non sembra scattare lareazione sana di una società all’erta:poche sentinelle, pochi occhi e mentivigilanti. Predomina unarassegnazione venata di incredulità,resiste una rimozione tenace deisegnali che fanno presagire unavvenire drammaticamente diverso.Forse di povertà? È un termine fintroppo familiare ai nostri nonni.Torneremo poveri, come aspramenteammonisce Pansa in un recentelibro1. Come educatori e formatorioccorre iniziare a prospettare conlucidità tale scenario ai nostrigiovani, illustrando loro anche lecause della crisi, le radici globali delcollasso dei sistemi, con particolareriguardo al nostro caso nazionale. Aldi là di approcci sociologici edantropologici o psicologistici,occorre misurarsi con i dati econsultare testi di esperti del settorelavoro e previdenza, perché soltantoattraverso la sinergia di analisi eindagini provenienti da areedisciplinari diverse è possibileconvincersi che la crisi italiana hacause profonde e necessita di rimediurgenti e di misure lucide cheimpostino un’inversione di tendenza.In questo senso è utile la lettura deltesto2 di Walter Passerini. Analistaper testate di rilevanza nazionale,l’autore propone un quadropanoramico della situazione

nostrana maturato negli anni,collegando tra loro fenomenipercepiti in modo parcellizzato epuntiforme la cui convergenza puòanche additare possibili vie di uscita.In particolare, nella parteintroduttiva, intitolatasignificativamente «indignarsi nonbasta», l’autore precisa che «laquestione delle pensioni rientraormai nella più ampia questionedella crisi del welfare e della povertàdiffusa, a sua volta aggravata dallalentezza della crescita economica. Aessere e a ritenersi poveri sono straticrescenti della popolazione.All’aumento delle cosiddette fascedeboli si accompagnano lariduzione, se non la sparizione, delceto medio e la precarizzazionelavorativa della maggioranza degliitaliani». Il quadro non preoccupa solo legiovani generazioni destinate a nonaverla proprio, la pensione, masoprattutto le fasce deboli. L’autoreopera una significativa alterazionedella gerarchia di tali fasce: idipendenti pubblici precedono glioperai nella graduatoria. È unmutamento sociale e generazionaleche non abbiamo ancora focalizzatoma che sta alterando il profilo delnostro paese. Inizieremo a guardarciindietro, a recuperare virtùsconosciute da praticareecologicamente: la parsimonia, lafrugalità, la sobrietà, perché, comeafferma Enzo Bianchi, «il pane di ieriè buono anche domani». nnn

1 G. Pansa, Poco o niente. Eravamo poveri. Tor-neremo poveri, Rizzoli, Milano 2011.2 W. Passerini, I. Marino, Senza pensioni, Chia-relettere, Milano 2011.

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L’educazione intercultu-rale può spesso trova-re occasioni e stru-

menti utili in percorsi appa-rentemente secondari, lonta-ni dal clamore e dalle reci-proche strumentalizzazionidei grandi temi e delle grandiquestioni su cui si finiscespesso per polarizzarsi in ste-rili contrapposizioni.Un esempio può essere co-stituito da una meravigliosamostra e da un prezioso ca-talogo realizzati alcuni annifa dal Museo della Figurinadi Modena. Mostra e catalo-go si intitolavano People. Ilcatalogo degli umani tra‘800 e ‘900 e proponevanoal visitatore/lettore un ineditopercorso attraverso le diversecollezioni di figurine che - acavallo tra Otto e Novecento- avevano fornito a intere ge-nerazioni di piccoli e grandicollezionisti un’occasione perdivertirsi e per «imparare aconoscere», collezionando eordinando le piccole imma-gini, le caratteristiche dellepopolazioni che il coloniali-smo europeo andava sco-prendo/colonizzando nei vari

15-36). E in effetti del museoqueste immagini hanno tuttal’ambivalenza: costruzioneoccidentale e moderna perordinare e catalogare su basescientifica l’alterità, e, allostesso tempo, potente dispo-sitivo per incasellare in modospesso stereotipato la pre-sunta autenticità delle cultu-re altre. Nel caso delle figurine, aquesto meccanismo si ag-giunge l’efficacia e la quoti-dianità con cui il meccani-smo del museo poteva rag-giungere - nella sua versioneminiaturizzata - i piccoli col-lezionisti. Come molti museietnografici, anche molte se-rie di figurine si rivelano dun-que un mezzo di creazione ediffusione di quegli stereotipi«orientalisti» che il grandestudioso Edward Said (nelsuo fondamentale volumeOrientalismo) ci ha insegnatoa vedere alla base delle no-stre rappresentazioni dell’al-terità. «Imparare a conosce-re» attraverso le figurine lecaratteristiche delle popola-zioni extraeuropee significa-

Come molti musei etnografici, anche molte serie di figurine si rivelano un mezzo di creazione e diffusione di quegli stereotipi «orientalisti» che il grande studioso Edward Said (nel suo fondamentale volume «Orientalismo») ci ha insegnato a vedere alla base delle nostre rappresentazioni dell’alterità.

angoli del pianeta. I testi diPaola Basile, Maria GiovannaBattistini e Ilaria Pulini (postia corredo e introduzione delvolume) chiariscono efficace-mente il fascino e l’ambigui-tà di queste figurine. «Museoin miniatura» le definisce Ila-ria Pulini nel suo contributo(«Dal mondo in figurina alcatalogo degli umani», pp.

va in realtà - questa la lezioneche ci insegna Said - abituarsiad accettare come «autenti-che» immagini e rappresen-tazioni esotiche degli «altri»(americani, africani, asiaticiecc.) che invece erano gli oc-chi degli europei a costruire. Nelle figurine delle serie rac-colte in questa mostra e inquesto catalogo i piccoli col-lezionisti non imparavanodunque a conoscere comefossero e come vivessero ipopoli del resto del mondo;imparavano piuttosto a co-noscere (cioè ad accettarecome «autentici») i modi incui gli europei volevano rap-presentarli. Così facendo, co-me osservano Paola Basile eMaria Giovanna Battistininella loro introduzione al ca-talogo, queste figurine fini-vano per essere una modalitàattraverso la quale «i bambinidell’epoca - ma anche gliadulti - avevano la possibilitàdi costruire non solo una lorovisione del mondo, ma, percontrasto, anche di loro stes-si» («Dal catalogo degli uma-ni alla società multietnica»,p. 12). Sfogliare oggi un ca-talogo come questo, riper-correrlo come insegnanti ecome educatori, potrebbeforse aiutarci a riscoprirequali sono i meccanismi ana-loghi (non solo più solo le fi-gurine...) con i quali vengonooggi veicolati vecchi e nuovistereotipi sugli altri e su noistessi. nnn

Per saperne di più

Museo della Figurina, People. IlCatalogo degli umani tra ‘800e ‘900, Franco Cosimo PaniniEditore, Modena 2009E. Said, Orientalismo. L’immagi-ne europea dell’Oriente (1978),Feltrinelli, Milano 1999

Saide le figurine

in cerca di futurodavide [email protected]

ascuolaeoltre

«Imparare aconoscere»

attraverso lefigurine le

caratteristichedelle

popolazioniextraeuropeesignificava in

realtàabituarsi ad

accettarecome

«autentiche» le immagini

esotiche degli «altri»

Edward Said

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Tre fattori indispensabili

A qualsiasi età i bambini vivono la separazione deigenitori come una perdita: i figli sentono che con lafrattura coniugale anche loro perdono qualcosa etendono a ragionare più o meno così: «se ho perso te,posso perdere chiunque». Da qui deriva l’importanzache i figli abbiano accesso, dopo la separazione, adentrambi i genitori, possano mantenere con loro unrapporto significativo (salvo, ovviamente, casi estremidi violenze) e siano rassicurati sul fatto che con laseparazione non perderanno né il papà né la mamma.La separazione dovrebbe essere percepita dal bambinocome un cambiamento, ma mai come una perdita,tenendo conto che una crescita sana si basa su trefattori indispensabili: la continuità, la prevedibilità el’affidabilità:

la continuità coinvolge soprattutto gli aspettipragmatici della vita del bambino, dove egli deve potercontare su solidi punti di riferimento come una casadove abitare con precisi orari del sonno, dei pasti edegli svaghi o delle attività sportive; una scuola perapprendere e socializzare insieme ai pari e una routineche si ripete nel tempo e nello spazio. la prevedibilità riguarda la possibilità per il bambinodi saper pensare ad un domani simile all’oggi, con unacadenza sensata e prevedibile degli eventi; questo glipermette di sviluppare la sua capacità di controllare lesituazioni e le sue personali reazioni a queste. l’affidabilità, che è l’aspetto centrale, è fondamentaleperché i bambini possano sviluppare la fiducia nellerelazioni attuali e in quelle future: i bambini hannobisogno di solidi punti di riferimento emotivi, di avererapporti soddisfacenti e ricchi con le figure piùsignificative come il padre, la madre, i nonni, gliinsegnanti, ecc. Questo coinvolge varie dimensioni: adogni età il figlio deve poter sentire che i genitori glivogliono bene, hanno cura dei suoi bisogni e delle sueesigenze, hanno fiducia in lui, lo aiutano e lo spronanoa sviluppare le sue abilità, e lo proteggono nellesituazioni difficili e nuove.

Tutti i bambini hanno,almeno a livello laten-te, la paura di essere

abbandonati da mamma epapà. E la separazione e il di-vorzio rappresentano la con-cretizzazione del loro timoreimmaginario. Timore chepuò ingigantirsi o affievolirsia seconda di come i coniugiin via di separazione si com-portano e comunicano conloro, e che può letteralmenteprendere il sopravventoquando i genitori litigano fi-no alla disperazione, non liinformano di ciò che sta ac-cadendo e mancano di rassi-curazioni nei loro confronti.È quindi molto importanteche i genitori spieghino ai fi-gli tutti i passaggi della situa-zione in corso ed evitino distrumentalizzarli per ottene-re vantaggi e trasmetteremessaggi negativi sull’altroconiuge, cosa che potrebbeincrinare l’immagine di unadelle figure per loro più si-gnificative. I figli non dovreb-bero diventare i «confidenti»dei genitori, e neppure i loro«messaggeri». Per un bambi-no assumere il ruolo del-

Genitori sempre

Numerosi studi condotti sugli effetti che la separazione può avere sui figli sono concordi nel concludere che non sia la separazione dei coniugi di per se stessa ad avere conseguenzenegative sullo sviluppo dei bambini, ma il permanere del conflitto tra i genitori che mina in loro ogni speranza e fiducia nel presente e nel futuro.

educazione degli adultirita [email protected]

ascuolaeoltre

ascuolaeoltre

12 | cem mondialità | marzo 2012

l’amico di mamma o di papàsignifica contemporanea-mente tradire, diventare ne-mico dell’altro genitore: que-sto provoca in loro pericoloseambiguità e dannosi dilemmidi lealtà, quando supportareuno dei genitori vuol direcontemporaneamente volta-re le spalle all’altro. Tanto piùche spesso i figli si sentonoin colpa perché credono diaver causato la separazionee frequentemente vivonosentimenti di angoscia, auto-svalutazione e speranze di ri-conciliazione destinate ad es-sere di continuo deluse in uncircolo vizioso di delusione esofferenza.

Ci si separacome coniugi ma mai come

genitori: un figlio

è per sempre!

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Page 15: IL MENSILE DELL’EDUCAZIONE INTERCULTURALE

educazione degli adulti

Alcune regole pratiche

Di seguito riepilogo alcuneregole pratiche su come af-frontare il tema della separa-zione con i bambini:Fornire una versione il piùpossibile univoca e chiara diciò che sta accadendo. Me-glio se la decisione viene co-municata alla presenza di en-trambi i genitori. Una frasetipo potrebbe essere: «Io epapà non ci amiamo più eabbiamo deciso di separarci.Ma continueremo a volertibene ed avere cura di te co-me sempre».Dare informazioni il più pos-sibile dettagliate sulle que-stioni pratiche che cambie-ranno la vita del bambino,del tipo: «mamma/papà nonabiterà qui, vi vedrete ognifine settimana, il giovedì se-ra, tu dormirai da lei/lui il lu-nedì notte ecc.».Cercare di non alterare trop-po la vita quotidiana e la rou-tine dei figli, che proprio inquesto momento di caosemotivo hanno bisogno dipoter contare su solidi puntidi riferimento anche prag-matici, come la scuola, gliamici, gli orari del sonno, deipasti, dei giochi, ecc.Rassicurare quanto più pos-sibile il bambino, e invitarloa parlare dell’argomento e afare domande ogni volta chene sentirà il bisogno, metten-dosi in ascolto empatico enon giudicante su quantoracconta.Spiegare al bambino che icambiamenti fanno partedella vita, ed è bene impararea viverli e ad affrontarli. Ras-sicurarli sul fatto che prestociò che ora appare strano einusuale diventerà normale eanche piacevole. Soffermarsi

quelle attività che prima dellaseparazione condividevanocon i figli (giochi, cinema,passeggiate, sport, ecc.).Evitare di dire al bambinobugie, del tipo «tuo padre/madre è partito per un viag-gio di lavoro». Potrebbe fan-tasticare il suo ritorno, e su-bire poi dolorose delusioni.Allo stesso tempo non c’è bi-sogno di dilungarsi tropposui dettagli spiacevoli della vi-cenda separazione e sui mo-tivi che hanno portato i suoigenitori a lasciarsi.Rassicurare il bambino nelcaso in cui provi vergogna oimbarazzo con i suoi coeta-nei per la situazione anomaladella sua famiglia. Le fami-glia «diverse» sono tantissi-me al mondo, e di famigliene esistono di tutti i tipi: conun genitore, con due, con inonni, con più figli di geni-tori diversi, ecc. E non tuttele diversità vengono per nuo-cere... nnn

Bibliografia

N. Ethel Rodriquez, Aiuto! Papàe mamma si dividono. Come af-frontare con intelligenza e sen-za traumi una separazione,Paoline, Milano 2007A. Gemmi Miliotti, Le fiabe perparlare di separazione. Un aiu-to per grandi e piccini, FrancoAngeli, Milano 2009M. Mareso, Sotto il temporale.Fiabe-ombrello per famiglie intrasformazione, Edizioni Grup-po Abele, Torino 2011A. Oliverio Ferraris, Dai figli nonsi divorzia. Separarsi e rimanerebuoni genitori, Rizzoli, Milano2005L. Rees, Aiuto, speranza e feli-cità. Il divorzio spiegato ai mieigenitori, Bompiani, Milano2006J. Wilson, N. Sharratt, La bam-bina con la valigia, Fabbri Scuo-la, Milano 2002

Spesso i figli si sentono in colpa perché credono

di aver causato la separazione

e frequentemente vivonosentimenti di angoscia, auto-

svalutazione e speranze diriconciliazione destinate adessere di continuo deluse in

un circolo vizioso di delusionee sofferenza.

sugli aspetti positivi dei cam-biamenti in corso.Evitare di strumentalizzare ilbambino, di usarlo come ar-ma di ricatto verso l’altro co-niuge sul quale ci si vorrebbe«vendicare», di parlare maledell’ex moglie/marito, sia insua presenza sia in sua as-senza. Raccomandare anche

ai nonni e ad altre figure diaccudimento di mantenerelo stesso atteggiamento. È divitale importanza che i bam-bini possano mantenere se-reni e solidi rapporti con en-trambe le figure genitoriali econ le altre figure parentali.Entrambi i genitori dovreb-bero cercare di mantenere

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Ècertamente corretto enecessario vedere Con-forti come uomo che

fin da bambino fu «sedotto»dal Crocifisso, innamoratodel Vangelo, ma non possia-mo tacere che mentre in luisi approfondisce la spiritualitàdella Croce nel senso della re-denzione universale donatada Cristo a tutti (In omnibusChristus) nel mondo si fa stra-da il bisogno di creare istitu-zioni che superino i confinidegli Stati nazionali e consen-tano di non ripetere la trage-dia provocata dalla prima (e«inutile») guerra mondiale.Ciò è stato ben sottolineatoda Angelo Manfredi quandoscrive: «tra i temi ricorrentinella visione di Conforti si haun accenno al progetto di co-stituzione della Società delleNazioni che il presidenteamericano Wilson aveva in-cluso in “14 punti” per la pa-ce pubblicati nel gennaio1918 e che in Italia stavanoavendo grande fortuna nel-l’opinione pubblica»1.Proprio perché la corrispon-denza tra il risveglio missio-nario e la nascita di un’archi-

tettura politica mondiale sta neifatti e non nell’astrazione si puòaffermare che Conforti è un uo-mo di grande attualità non solonella Chiesa e nella pastorale, maanche nella società e nell’educa-zione rivolta a tutti. Ciò che a noi sta particolarmentea cuore è scorgere gli aspetti dellavita e del pensiero di Conforti chefanno di lui un precursore del-l’oggi, nella Chiesa e nella socie-tà. È quello che continueremo afare sia in questo contributo sianei prossimi due. Il CEM ha biso-gno di «ascoltare» prima di tuttoquelle persone che conosconopiù da vicino la figura del Con-forti. Auspichiamo perciò qual-che futuro incontro con chi hapartecipato alle attività del Cen-tro studi confortiani saveriani,con persone come don AngeloManfredi, oppure i saveriani Au-gusto Luca, Alfredo Ceresoli, Bat-tista Mondin, Guglielmo Camera.Di significato in qualche modo«storico» per il cammino delCEM, sarebbe poi un incontro -fatto di ascolto e confronto - conil Superiore Generale dei Missio-nari Saveriani, p. Rino Benzoni,che, partendo dalla recente san-tificazione del Conforti, potrebbeaprire nuove strade per la futuracollaborazione, già oggi moltofeconda, tra il direttore di Mis-sione Oggi, padre Mario Menin,e il direttore laico del CEM, il prof.Brunetto Salvarani.È compito dell’attuale leadershipdella famiglia saveriana, in tuttele sue articolazioni, creare le con-dizioni per una nuova stagione

mondialitàantonio [email protected]

Il bambino, il Crocifissola missione e il mondo

È compito dell’attuale leadership della famiglia saveriana, in tutte le sue articolazioni, creare le condizioni per una nuova stagione d’impegno condiviso sia sul versante della missionarietà sia su quello della mondialità.

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ascuolaeoltre

ascuola

eoltre

In questo nuovoarticolo su San GuidoMaria Conforti vorrei

mostrare alcuniaspetti della sua

figura che lo rendonoattuale soprattutto

come promotore del«risveglio» missionario

e, in questaprospettiva di

apertura universale,della mondialità

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d’impegno condiviso sia sulversante della missionarietàsia su quello della mondiali-tà. Che cosa, ad esempio, sipotrebbe fare nell’imminente«Anno della Fede»? Quali ini-ziative comuni si potrebberoprogettare in vista del pros-simo Sinodo dei vescovi sulla«Nuova Evangelizzazione»?E, almeno qui in Italia, checosa si potrebbe proporre inmerito alla cosiddetta «emer-genza educativa» che già datempo sta mobilitando laChiesa Italiana? Va da sé che, a giustificaretale collaborazione, sarebbesoprattutto la comune ispi-razione alla figura del Con-forti e ai suoi valori di fondo.Riprendendo il filo del discor-so è opportuno sottolineareche insieme a Paolo Manna(del PIME), Conforti è stato ilco-fondatore e primo presi-dente (per circa 10 anni, finoal 1927) dell’Unione Missio-naria del Clero (1918) cioè disacerdoti impegnati per la«missione». Questo docu-mento è importante non soloperché anticipava l’enciclicaFidei donum (1957) di PioXII, ma almeno in parte an-che il decreto Ad gentes delConcilio Vaticano II.Si pensi che quando Confortinel 1927 lasciò la carica dipresidente dell’Unione mis-sionaria del Clero i sacerdotiiscritti erano 21.714.Per Conforti, già negli annitra le due guerre mondiali

del ‘900 la missione era lamondialità di una pastoraleveramente matura, così co-me per noi del CEM, oggi,l’intercultura è la normalitàdell’educazione e il nomenuovo della mondialità. Lascoperta - ma anche l’inte-riorizzazione - di Conforti,della sua spiritualità, dellasua antropologia, dei suoisimboli, possono dare mag-giore efficacia alla nostraazione educativa e culturalenella società plurale. Com’èpossibile nel mondo di oggioperare una «traduzione lai-ca» della missionarietà uni-

quenza del sangue». Oggipossiamo identificare Stauro-poli con la città di Geyrenell’odierna Turchia. Essa fa-ceva parte del patriarcato diCostantinopoli. Alla luce delmartirio di tanti missionari -alcuni dei quali saveriani - èsignificativo che il Martirolo-gio romano, alla data del 3maggio, ricordi i martiri Dio-doro e Rodopiano, che furo-no condannati alla lapidazio-ne in questa città durante lapersecuzione di Diocleziano.Nella cronotassi degli arcive-scovi titolari troviamo confer-ma che Guido Maria Confortiè stato arcivescovo di Stau-ropoli con titolo personaledal 14 novembre 1904 al 12dicembre 1907, succedendoad Aurelio Zonghi e lascian-do poi la carica al vescovodell’Ordine dei frati minoricappuccini, Bernard Christen.È significativo che anche nel-le prime biografie di Confor-ti, scritte dagli stessi missio-nari saveriani che lo avevanoconosciuto in vita molto da vi-cino, essi abbiano messo inprimo piano la presenza delCrocifisso come attrazione ecome propulsione, quasi co-me l’alternarsi di sistole e dia-stole nel battito cardiaco. È ilcaso di padre Vittorino CallistoVanzin (1900-1976) che nel1950 pubblicò il volume Unpastore due greggi, conclu-dendo il primo capitolo («Unbambino e un vecchio Croci-fisso») con queste parole:«Tutto è consumato! Menol’amore eccezionale che haunito un bambino e un vec-chio Crocifisso». nnn

1 A. Manfredi, Guido Maria Conforti,EMI, Bologna 2010, p. 413.2 A. Manfredi, op. cit., p. 646.

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mondialità

versale che traspare nitida-mente fin dal Conforti piùgiovane? Si pensi al suo mot-to episcopale In omnibusChristus che è una citazionedi San Paolo (Lettera ai Co-lossesi 3,11) ma che viene as-sunta come una massimaprogrammatica per conden-sare in essa non solo il cristo-centrismo e l’universalismoma «perfino una dimensionecosmica» come osserva acu-tamente Manfredi nella suapoderosa biografia2. Si pensial fatto che anche dopo ledimissioni da vescovo di Ra-venna aveva mantenuto la ti-tolarità di vescovo di Stauro-poli. Come scrive AugustoLuca era «un’antica cittàdell’Asia minore non più esi-stente, il cui nome significa“città della Croce”. Stauro-poli, insieme, realtà e sim-bolo, è dunque il nome diuna città che ci conduce aquella spiritualità della Crocedi Cristo», nel senso che, perusare le stesse parole di Con-forti, «Il Crocifisso è il grandelibro sul quale si sono forma-ti i Santi e sul quale noi puredobbiamo formarci. Tutti gliinsegnamenti contenuti nelsanto Vangelo sono com-pendiati nel Crocifisso. Essoci parla con una eloquenzache non ha l’eguale: coll’elo-

Per Conforti,già negli anni

tra le dueguerre

mondiali del ‘900,

la missione erala mondialità

di unapastorale

veramentematura, così

come per noidel CEM, oggi,l’intercultura è

la normalitàdell’educazione

e il nomenuovo dellamondialità

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l’ora delle religionimarialuisa damini | marco dal [email protected] | [email protected]

ascuolaeoltre

un’unità donata piuttostoche conquistata è capace ditenere unite le differenze,senza annullarle, ma anchesenza farle diventare disu-guaglianze. Ne deriva l’ideadell’unità come cura della«patologia della parzialità»:non cura della parzialità, cheinvece, come detto, è la con-dizione storica in cui si dà laverità universale, ma cura eantidoto alla sua patologia,quando il parziale si pensaautosufficiente, senza neces-sità di relazionarsi con gli altrie le altre. La «convivialità del-le differenze», allora, è untraguardo possibile ancheper il dialogo interreligioso.

Ordo caritatis

Infine, la scuola ecumenicapuò insegnare al dialogo in-terreligioso che la via soterio-logica, caritativa è anch’essavia di salvezza, che, detto intermini di teologia ecumeni-ca, la fede che salva è la fedetestimoniale, quella messa ingioco, fatta diventare praticadi solidarietà. Il futuro deldialogo interreligioso si nutreanche dell’impegno per lagiustizia, per la pace, per lasalvaguardia del creato comeci insegna il recente «proces-so conciliare» delle Chiesecristiane. nnn

ancora» e, infine, lo stile veri-tativo è quello che conferiscedignità anche all’implicito,alnon-detto, a quello che rima-ne tra le righe. La scuola ecu-menica insegna al dialogo in-terreligioso uno stile comuni-cativo della verità: essa è unascoperta sempre parziale, dafare «in cammino», sapendoche le parole delle religioni laportano, ma anche la tradi-scono.

Ordo unitatis

La scuola ecumenica fin dasubito si è misurata su questacategoria teologica e ha im-parato che l’unità, come lafede, è un dono. Perché solo

Ordo fidei

La fede è dono piutto-sto che conquista, oc-corre quindi imparare

ad attenuare il «troppo» delnostro credere: dire troppo,voler dire tutto, conservare lafede in un qualche «deposi-to». Se è così, l’ecumenismoaiuta il dialogo tra le religionia non riposare sul depositumfidei di nessuna religione, alasciarsi sorprendere dal do-no che è la fede, qualsiasi fe-de, per ogni persona. La fedenon è adesione a certezzedogmatiche, essa è sempre«oltre» le nostre definizioni eteologie; questo permette direcuperare il registro dellasimbolicità: consegnare aisimboli la provvisorietà dellenostre definizioni. Se la fedenon è solo fissata da defini-zioni, ma consegnata ancheai simboli, il dialogo interre-ligioso è chiamato a diventa-

re dialogo simbolico. Occorreliberare i simboli: essi non so-no strumenti identitari, la lo-ro vocazione, piuttosto, èuniversale, permette una ca-rità interpretativa difficile perle dogmatiche. Lo scambiosimbolico è una possibilitàdel dialogo interreligioso.

Ordo veritatis

Il tema della verità, che è «pie-tra d’inciampo» nel dialogointerreligioso, alla luce dellascuola ecumenica, invece, siripresenta come tema d’in-contro e di dialogo. Perchél’ecumenismo ha imparatoche per dialogare occorre ri-comunicare l’essenziale, chela verità ha una sua gerarchiae un suo stile veritativo checonsiste in una sobrietà enun-ciativa, in una consapevolezzaescatologica per cui la verità,almeno quella giunta a con-fessione, è sempre «già e non

Desideriamo dire le ragioni di quella «teologia del pluralismo religioso» che tanto problema ancorapone alla riflessione delle Chiese. Per aiutare le comunità credenti a vedere le potenzialità delpluralismo religioso, appuntiamo alcune note che proprio dal patrimonio ecumenico prendonospunto. Il metodo ecumenico «apre» al pluralismo non come cedimento, ma come virtù.

La «ragione ecumenica»del pluralismo religioso

La scuolaecumenicainsegna al

dialogointerreligioso

uno stilecomunicativo

della verità:essa è una

scopertasempre

parziale, dafare «in

cammino»ascuolaeoltre

Il dialogo tra le religioni è una richiesta che viene anche dalmondo ecumenico. Abbiamo, cioè, bisogno di una teologiaecumenica delle religioni. A portare le ragioni ecumeniche ciaiuta l’architettura teologica ecumenica, partendo dalcosiddetto «quadrilatero teologico», con il quale è possibilecostruire un ragionamento. Sinteticamente:

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Sentinella, quanto resta della notte? Oltre ogni crisi, per un nuovo patto generazionale

Gioco e sport

Fra il mondo e il mio corpo

7

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Sentinella, quanto resta della notte? Oltre ogni crisi, per un nuovo patto generazionale

Sono circa 170 anni che lo sport «moderno» è con noi.Nel quasi vicino 1996, proponendo alcuni testi perun dibattito in una scuola, io e Riccardo Mancini az-zardammo come titolo E lo sport si fece mondo. Èsempre più vero. Anche senza Sky, mio figlio e i suoi

amici possono scegliere in tv, a ogni ora, il calcio o il basketdi metà pianeta, ma ci sono anche le dirette per quasi ognisport, un canale tutto sul biliardo e chissà cos’altro.Un trionfo. Sembra che sport e musica siano gli unici linguag-gi quasi universali; è più probabile che un tunisino, uno sve-dese e un pakistano siano uniti nel sapere chi ha vinto gli ul-timi dieci mondiali di calcio piuttosto che nel conoscere laDichiarazione dei diritti umani. L’era dello sport: così, nel 1994, Stefano Pivato scrisse (per lacollana «XX secolo» della Giunti-Casterman) un eccellente li-bretto riassuntivo. Pivato non è il tipo di cervellone senza cor-po che disdegna i piaceri del gareggiare, giocare, sudare,insomma fare sport e guardarlo. Eppure gli ultimi due para-grafi del libro - come si leggerà fra poco - rimandano a un fal-limento di fondo mentre, per quel che riguarda i corpi, la ci-tazione di Baudrillard sancisce un’ossessione diffusa.

Daniele Barbieri

e sport

«Alla fine del Novecento lo sport, dopo un itinerario di quasiun secolo e mezzo, sembra dunque aver perduto le motiva-zioni ideali che ne erano state all’origine. In gran parte di-spersa la valenza educativa e morale che costituiva la baseideologica del gentleman amateur inglese, il tramonto delleideologie sembra aver definitivamente fatto naufragare anchel’ideale sportivo concepito come affermazione dell’identità edella supremazia nazionale. Anche l’olimpismo, preso atto diuna irreversibile metamorfosi dello sport, sempre più sog-getto alla logica del mercato, ha ormai abdicato alla romanticaconcezione del dilettantismo.E il corpo, non più luogo e metafora di ideologie, sembraagire attraverso la riproduzione di se stesso. O, come osservaJean Baudrillard, essere ormai il “solo oggetto sul quale con-centrarsi, non già come parte di piacere ma come oggetto dismodate attenzioni, nella continua ossessione della decaden-za e della cattiva prestazione. Il corpo è il canovaccio di unospettacolo la cui strana melopea igienistica si dispiega fra gliinnumerevoli centri di potenziamento muscolare, club di cul-turismo, stimolazione e simulazione che esprimono un’identitàcollettiva asessuata”».

Fra il mondo e il mio corpo

Gioco

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Eads e PsdDialogo fra un Eads (ex appassionato di sport) e un Ptsd(perenne tifoso senza dubbi) non tanto immaginari vistoche abitano entrambi nel mio palazzo.

Eads: Gli sponsor sono ingombranti. Ptsd: Ma necessari.Eads: I campionati più importanti sono truccati.Ptsd: No, solo qualche partita ogni tanto.Eads: Comunque con tutti quei soldi vincono sempre isoliti.Ptsd: Può succedere di tutto, nessun risultato è scrittoin anticipo.Eads: Gran parte del tifo è violento e razzista.Ptsd: Macchè, si tratta di pochi idioti.Eads: Le grandi gare vengono vinte in farmacia.Ptsd: Un po’ di doping esiste da sempre ma i veri cam-pioni trionfano sempre...

Il dialogo fra sordi potrebbe continuare a lungo. Eads ètroppo pessimista, ma sul quadro d’insieme sembra dif-ficile dargli torto. Ptsd non crede che lo sport (bello oltreche necessario) sia persino più contaminato della poli-tica (bella di rado ma necessaria sempre) e coerente-mente si appassiona al primo e disdegna la seconda,compreso però l’agire sociale e culturale nel luogo dovevive. C’è forse un solo terreno sportivo sul quale Eads ePtsd potrebbero concordare e incontrarsi: il football deicampetti, le gare a scuola o nel quartiere, insomma losport senza sponsor e con riflettori spenti. Il discorso sichiude qui? Le belle pagine e persino le positive letturepolitiche dello sport (fatte, tanto per dire due nomi fa-mosi, da Julio Cortazar ed Eduardo Galeano) apparten-gono al passato? L’errore di Eads è credere che lo«scontro» - termine un po’ guerriero, allora diciamo«match» - sia definitivamente perduto, mentre intornoallo sport (persino al calcio) si continuano ad agitare di-verse opzioni culturali e di valori. L’errore di Ptsd è fer-marsi alla vetrina in primo piano senza verificare se altreofferte (non adulterate) potrebbero ridare allo sport mol-to del fascino originale. Ambedue dubitano - parafra-sando il noto slogan, quasi passato di moda - che un al-tro sport sia possibile.

GRANDI CHIACCHIERE E PICCOLI FATTI

Fra i tanti, un paio di esempi. Il primo rimanda a Samuele, poco più di 20 anni: sta tormen-tando tutti qui a Imola per creare una squadra di pattinaggiodove lui possa allenare (gratis) soprattutto i ragazzi della co-siddetta «seconda generazione» - insomma figli delle migra-zioni - e anche attraverso lo sport favorire un dialogo. Il secondo esempio è nell’armadio davanti a me. Una t-shirt,che d’estate indosso spesso, con i disegni di tre cervelli iden-tici e sotto ognuno la didascalia «europeo», «asiatico» e «afri-cano»; la quarta didascalia è «razzista» ma lo spazio resta

vuoto: me l’hanno regalata anni fa alcuni ultras del Modena,ironici ma decisi a non regalare le curve agli «scervellati». Credo che di Samuele ce ne siano tanti (e tante). E ogni annoin Italia si svolgono i Mondiali Antirazzisti. Insomma il risultatofinale non è scritto, perfino nel calcio dove dominano le dues: sponsor e santità (cfr. a p. 28 Liturgie del calcio). La squa-dra avversaria - i razzisti delle curve, per restare a questoesempio - sono indubbiamente in vantaggio; ma fingiamoun’intervista a metà partita con qualche spett-attore fiduciosonel dirci: «Se ci impegniamo possiamo ribaltare il risultato!».Nello spirito delle «piccole cose» - di Samuele o degli ultrasdel Modena - credo che sia utile riprendere un libretto di Raf-faele Mantegazza intitolato Con la maglia numero sette e ilsottotitolo «Le potenzialità educative dello sport nell’adole-scenza».

SPORT E PEDAGOGIA, LE STAZIONI DI UNA PASSIONE

«È facile - scrive Mantegazza - decodificare e mettere in ridi-colo la retorica del campione propagandata dai media: più

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gioco e sport 7

Jim Thorpe

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Scriveva Erich Fromm: «Si considera diimportanza capitale l’ottenere risposte esatte,mentre il formulare domande esatte viene a

paragone considerato insignificante» (cfr. Illinguaggio dimenticato, 1951). È quello che succedementre ci si leccano le ferite delle recenti crisifinanziarie, che poi sono diventate crisi epocali chehanno coinvolto non solo le grandi banche, maanche e soprattutto i piccoli risparmiatori, i fondipensione, il «plancton» su cui si regge il mercato deldenaro.Ci si interroga più sul come che sul perché; siproducono ponderose, ancorché interessanti, analisisu quei prodotti che poi sono diventati i «titolitossici» deflagrati nei ventri obesi delle banche e neiportafogli degli investitori, sia istituzionali sia privati.Si finisce nelle sabbie mobili di competenze etecnicismi complessi a portata di pochi. Io stesso,che un po’ ne mastico, mi ci sono impantanato e nelmomento stesso in cui iniziavo a cercare diliberarmi, ho rinunciato. Non perché non pensassi difarcela, ma perché ho capito che era inutile. Il «come» non è la domanda esatta, non mette indiscussione il sistema. Si limita a registrare cosa nonha funzionato per capire cosa occorre fare di megliola prossima volta. La vera domanda è il «perché».Investigando il «perché» si scoprono due blocchi direaltà strettamente interrelati. Il primo è un’ideologia: la deregulation. La tesiimperante è l’eliminazione di ogni controllo delleattività delle imprese, soprattutto per quantoriguarda le attività finanziarie. Il lassez faire, lassezpasser spinto alle estreme conseguenze. Aprire lagabbia ai lupi aspettando che la selezionedarwiniana produca un sistema d’eccellenzafortemente competitivo. Peccato che con questalogica i vincenti che emergono non sono i piùefficienti, quelli dai prodotti migliori, i portatori diqualità. I vincenti sono gli squali, quelli affrancati da

Crisi finanziariaInterrogarsi non sul «come» ma sul «perché»

gianni [email protected]

ogni scrupolo, disposti ad ogni rischio pur diassicurare i dividendi più alti. Ecco uno dei«perché».L’altro è un sistema che ha perso le propriecoordinate nella società. Ha perso il senso del limite,della ragionevolezza. Quando un manager porta acasa 48 milioni di dollari come bonus annuale,significa che si è smarrito ogni senso delleproporzioni, ogni comprensibile rapporto fraun’attività professionale ed il suo accettabilecompenso. L’ultimo dei trader può guadagnaretrenta, cinquantamila dollari in un giorno, ma ilcarico di tensione è altissimo, l’adrenalina diventadroga a se stessa. L’ormai datato film Wall Street iniziava a descrivere ilsistema, ma al confronto della realtà attuale è robada partita a Monopoli. La domanda è: quanto sono disposto a rischiare(soprattutto se metto in gioco soldi altrui) perguadagnare venti o trenta milioni? Probabilmentemolto. Tutti i prodotti che sono andati a costituire la«finanza radioattiva» sarebbero tuttavia rimastiappannaggio di pochi e spericolati operatori se lagià citata deregulation non avesse eliminato ognifreno inibitorio alle banche, azzerando ogni principiodi cautela e di tutela dei risparmiatori.Del resto, non è un caso che la tempesta quasiperfetta che ha colpito la finanza internazionaleabbia avuto il suo epicentro a Wall Street ed i suoiepigoni in Gran Bretagna e in Germania, meno nelresto d’Europa, meno ancora in Asia e nei paesiislamici. Poi lo tsunami ha colpito tutti, ma con ondedi rimbalzo. I «provinciali» della finanza hannosalvato la buccia perché non abbastanza «evoluti»da capire le grandi opportunità offerte dai maghidella finanza creativa. L’albero del Gatto e dellaVolpe. Questi sono i «perché». E i Brics? i Bricsstanno a guardare, come stelle fredde.

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interessante e difficile cercare di rispondere alle seguenti do-mande. Per quali motivi tali immagini hanno una presa imme-diata sui giovani, i quali sono ben coscienti del carattere mer-cantile e corrotto della pratica sportiva professionistica maaffiancano a questa operazione di cosciente demistificazioneun vissuto emotivo di condivisione e di identificazione con igrandi personaggi del mondo sportivo? […] Quanto dei mo-delli proposti dai media penetra nelle pratiche di allenamento,nelle metodologie di training, nelle posture, nell’abbigliamen-to, nel tono di voce dell’allenatore? […]

gioco e sport 7Sentinella, quanto resta della notte? Oltre ogni crisi, per un nuovo patto generazionale

«Lo sport è figlio dellademocrazia ma contribuisce

per proprio conto all'instupidimento

della famiglia»Karl Kraus

Tommie vola e Carmelo non va a scuolaVinse i 200 metri alle Olimpiadi del ‘68. Salì sul pal-co scalzo (la miseria dei ghetti), a capo chino (labandiera Usa non era la sua), con il guanto nero (illutto), a pugno chiuso (la volontà di lotta). Fu offesoed emarginato. Non si pentì di quel gesto. Ha con-tinuato a lavorare (anche nello sport, come allena-tore) contro il razzismo. Nel maggio ‘90 era a Ca-gliari per un convegno e lo intervistai per il quoti-diano «L’unione sarda»). Quando gli chiesi dei «pericoli» nello sport, mi ri-spose: «Il rischio c’è, e dobbiamo combatterlo. Seperò pensate che lo sport non serva chiedetelo alui» e indicò Carmelo Addaris, tetraplegico che vin-ceva medaglie alle para-olimpiadi e che però nonpoteva andare a scuola per le barriere architetto-niche. Poco prima Addaris aveva detto: «Se l’han-dicappato che fa sport dev’essere colore o pietà,non avete capito nulla». Ero accanto a Smith e soche nessuno gli aveva tradotto la frase. Ma capì lostesso. A Cagliari come alle Olimpiadi la questionecentrale si chiama diritti per tutti.

Che cosa c’è di così potente a livello simbolico ed emotivonella logica dello sport che fa sì che si incontrino ragazzi cheobbediscono all’allenatore e mandano a quel paese genitori,insegnanti, catechisti e altri adulti: teppistelli da strada cheabbassano lo sguardo davanti al cartellino giallo dell’arbitro;genitori che riscoprono la capacità di fare sacrifici del propriofiglio?».Subito dopo Mantegazza ragiona di materialità, ritualità, emo-tività. Siamo nel primo capitolo («Le stazioni della passione»).Il successivo ragiona su «qualche coppia di opposti»: grup-po-singolo; accoglienza-espulsione; differenziazione-omolo-gazione; regola-trasgressione; fantasia-realtà; vittoria-sconfit-ta; corpo-organismo; gesto-prestazione. Il terzo capitolo sul«rito magico della partita» è diviso in tre ampie sezioni: lospazio; il tempo; i corpi e i rituali. Il quarto e ultimo capitolo èsul tifo. Ho letto in questi anni molti libri intorno allo sport eal suo fratellino gioco: ma dovessi consigliarne uno (a chinon vuol perdere le speranze) sceglierei questo. Ci sono mol-te storie sportive che la retorica e/o le censure hanno cancel-lato e almeno un paio possono essere utili. Jim Thorpe

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MEDAGLIE E PERLINE DI VETRO

La prima è di un uomo che ha avuto tre nomi, molte medaglie(tolte) e un destino infame. Jim Thorpe ovvero Wa Tho Huchcioè «Sentiero lucente». Nativo, indiano d’America, pellerossase preferite. Probabilmente il più grande atleta di tutti i tempi,il più completo dell’era moderna. Quel prudente «probabil-mente» significa: per ciò che sappiamo, visto che delle Olim-piadi greche (o comunque dello sport nell’antichità) ben pococonosciamo.

Nel 1912, alle Olimpiadi di Stoccolma, l’allora sconosciutoJim Thorpe gareggia nel pentathlon e vince con risultati stra-ordinari per l’epoca: metri 7,07 nel lungo; 46,41 col giavellotto;33,57 con il disco; 4’44”8 sui 1500 metri e 22’09 sui 200 metri.Già che c’è, Thorpe partecipa anche alle gare del salto inalto e in lungo, dove arriva solo quarto e settimo rispettiva-mente. Ma il successo più clamoroso l’ottiene nel decathlone in almeno quattro gare (su dieci) fa registrare risultati chelo avrebbero portato a vincere medaglie anche in quelle spe-cialità (individuali) se avesse partecipato alle finali. Nel darglila medaglia d’oro, il re Gustavo di Svezia scandisce: «Signore,lei è il più grande atleta del mondo». All’inizio del 1913, però,un giornalista statunitense vede una fotografia di Wa-Tho-Huch in tenuta da football. In cerca di uno scandalo indaga escopre che nel 1909 Thorpe ha giocato sia a baseball sia a football per qualche decina di dollari al mese. La federazioneUsa di atletica leggera lo squalifica a vita. È costretto a resti-tuire le medaglie e il suo nome viene cancellato dall’elencodei vincitori olimpici. Nessuno muove un dito per difendere ilpellerossa Thorpe, nonostante episodi di «professionismo»(più o meno mascherato) fossero già allora tollerati. Il climaolimpico del resto era ben diverso da quell’ideale di «fratel-lanza» attribuito a De Coubertin e soci: soprattutto non piac-quero agli organizzatori delle Olimpiadi le vittorie di neri, in-diani e di un hawaiano contro i bianchi; e infatti gli Usa ave-vano ritirato dalla finale dei 100 metri di Stoccolma il più ve-loce, un afro-americano, per far vincere il connazionale wasp(white anglo-saxon protestant).Wa-Tho-Huch protesta. Inutilmente. Comincia a bere. Nel1952 finisce all’ospedale dei poveri di Filadelfia. E il 23 marzo1953 viene trovato morto in una vecchia roulotte. Solo nel 1982il Cio (Comitato internazionale olimpico) revoca la squalifica«per professionismo»; il 30 gennaio del ’98 le poste Usa glidedicano un francobollo. Forse la miglior riparazione è datatanovembre 1969: Grace Thorpe, figlia di Jim, fa parte del primogruppo di pellerossa che occupa l’isola di Alcatraz, al largodi San Francisco. Chiedono il rispetto dei Trattati firmati dalgoverno con le tribù indigene. Sull’isola si radunano più di600 nativi, in rappresentanza di oltre 50 tribù. Il Red PowerMovement (Movimento per il Potere Rosso) reclama i propridiritti sull’isola. Intendono trasformare Alcatraz in un centrostudi sui popoli indigeni, offrono lo stesso prezzo pagato ainativi per l’isola di Manhattan, 300 anni prima: 24 dollari inperline di vetro.

IL MARATONETA TEPPISTA

La seconda storia è vera solo nel mondo parallelo della lette-ratura e del cinema ma è concreta per chi ami correre e/onon si senta a suo agio fra la gente «per bene».«Perché, vedete, io non gareggio mai: io corro soltanto e inqualche modo so che dimentico la gara e mi limito a tenereun buon passo finchè non so più che sto correndo […] e mi

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Sentinella, quanto resta della notte? Oltre ogni crisi, per un nuovo patto generazionale

«Gli sport hanno sempresviluppato tutte le qualità che

è necessario avere in guerra [...]. Il giovane sportivo

di oggi sarà nettamenteavvantaggiato rispetto ai suoi

padri quando dovrà marciare verso il fronte»

Pierre De Coubertin

Daniele BarbieriDaniele Barbieri, giornalista, ha scritto

per varie riviste («CEM Mondialità»,«Come», «Piazza grande»…) e peralcuni quotidiani («il manifesto»,

«L’unione sarda», «Liberazione» ecc).È stato a lungo redattore del

settimanale «Carta». Ha pubblicatolibri e testi scolastici: l’ultimo (scrittocon Riccardo Mancini) è «Di futuri cen’è tanti: istruzioni per uscire da un

presente senza sogni», Avverbieditrice. Ha portato in scena il suo «Il

tranquillo calduccio della paura» evari testi («Le scimmie verdi», «Boh, il

prossimo presidente degli Usa»,«Omsizzar») con Hamid Barole Abdu,

narratore eritreo da tempo in Italia.Come reporter, ma soprattutto comepersona impegnata contro le guerre,

è stato nei Balcani, in America Latina,in Africa, in Palestina.

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per un nuovo patto tra le generazioni 1

Dove la mondialità oggi è «in fieri»

Negli inserti precedenti abbiamo presentatoluoghi, eventi, date, comportamenti e pratichedi mondialità. Si ricorderà che sono stati richia‑

mati numerosi «microcosmi» come Taizé, Nevé Sha‑lom ‑ Wahat as‑Salaam, Assisi, Porto Alegre, Chicagoʼ93, ma anche «giornate» particolari come quella del‑lʼinterdipendenza, del dialogo cristiano‑islamico, dellafesta dei popoli, o ancora comportamenti e pratichecome lʼeducazione ai beni comuni, lʼeducazione in‑terculturale, la partecipazione al «Cortile dei gentili».Nel presente inserto intendiamo allargare ancora dipiù il panorama valorizzando anche esperienze ‑ oramacro, ora micro ‑ che vanno nella stessa direzione:Nomadelfia, SantʼEgidio, Sermig, Emmaus, gli ashram(esperienze di integrazione spirituale), fino alle sceltedi mondialità come stile di vita. Se ci fosse stato più spazio avremmo potuto ag‑giungere anche le Comunità dellʼArca di Jean Vanieroppure quel laboratorio di riconciliazione che è«Rondine» in provincia di Arezzo (che dal 1987 ospi‑ta giovani provenienti da paesi in conflitto, dal me‑

dio Oriente, Balcani, Africa, Caucaso meridionale, Fe‑derazione russa, India, Pakistan, ecc.).

Nomadelfia

Di Nomadelfia (il cui significato è «dove la fraternitàè legge») bisogna considerare la sua storia, il fonda‑tore, don Zeno Saltini (1900‑1981), la sua attualeesperienza. Tutto iniziò a Fossoli di Carpi, in provinciadi Modena, e solo in seguito si costruì la nuova cit‑tadella della fraternità nella Maremma toscana, neipressi di Grosseto. Già negli anni trenta don Zenoaveva creato il movimento dei «Piccoli Apostoli» cheaccoglieva i bambini abbandonati, al cui interno unruolo importante assumono le donne che si fanno«mamme di vocazione». Il legame si fondava infattinon sul vincolo di sangue ma sulla comune appar‑tenenza allʼumanità.Dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel1947, don Zeno e i suoi occupano lʼex‑campo diconcentramento di Fossoli per costruire la primaNomadelfia. Le fotografie dei ragazzini intenti ad ab‑

a cura di ANTONELLA FUCECCHI - ANTONIO NANNI

ESPERIENZE COLLETTIVEDI MONDIALITAʼ 25‑28

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battere le mura e a costruire i nuovi ambienti com‑parvero su tutti i giornali italiani. Nel 1948 don Zenoincontra David Maria Turoldo, dei Servi di Maria, perimpulso del quale nasce a Milano un comitato pro‑Nomadelfia, presieduto dalla contessa Maria Gio‑vanna Albertoni Pirelli. Nellʼagosto del 1950 Noma‑delfia propone al popolo un movimento socialechiamato «Movimento della fraternità umana» al fi‑ne di abolire ogni forma di sfruttamento dei lavora‑tori da parte del capitale privato o dello Stato e dipromuovere un democrazia diretta. Ma nel 1952,con il pretesto dei debiti e con un atto giudiziario, iNomadelfi verranno costretti ad andarsene da Fos‑soli tanto che don Zeno scriverà il 31 ottobre: «Ilcampo di concentramento ha vinto una secondavolta». Il 5 febbraio 1952 il Santo Uffizio intima adon Zeno di lasciare Nomadelfia, lui a malincuoreobbedisce e ottiene la laicizzazione. Oggi a Noma‑delfia vivono oltre 300 persone che condividonotutto, dai beni al lavoro, senza proprietà privata. Perlo Stato italiano Nomadelfia è «unʼassociazione civi‑le», una «cooperativa di lavoro» e un «ente morale»(D.P.R. del 31 settembre 1973). Per la Chiesa è «unʼas‑sociazione privata» e una parrocchia «personale»(cfr. canone 518), il cui ambito, cioè, coincide conquella specifica comunità. Lʼultima rielaborazionedella costituzione è stata approvata dalla Congre‑gazione per il Clero il 22 maggio 1994.Nomadelfia accoglie ogni anno migliaia di visitatori,ai quali offre una visita guidata, la visione di filmati,lʼascolto di discorsi registrati di don Zeno ma ancheincontri su tematiche relative alla vita comunitaria.

Comunità di SantʼEgidio

Nata a Roma nel 1968 sulla scia del Concilio VaticanoII e della contestazione giovanile, la Comunità diSantʼEgidio è oggi una realtà internazionale con unamultiforme attività culturale e sociale, nel segno del‑la pace, del dialogo e della lotta alla povertà. La suasede è nellʼantico monastero di SantʼEgidio a Tra‑stevere. Tra i suoi principali impegni ricordiamo ‑ ol‑tre alle scuole per la pace e alle le mense per i poveri‑ lʼaccoglienza degli stranieri e dei nomadi, la curadegli anziani, lʼabolizione della pena di morte, la lottaallʼAids. Il suo vero punto di forza è il volontariato.Oggi SantʼEgidio è presente in 73 paesi di ogni con‑tinente , dallʼEuropa allʼAsia, dallʼAfrica allʼAmerica

Latina. Si è guadagnata la fama di essere «lʼOnu diTrastevere» perché già nel 1992 fece sottoscrivere aRoma lʼaccordo di pace per il Mozambico. Da quelmomento le iniziative di pacificazione si sono mol‑tiplicate: Algeria, Guatemala, Liberia, Costa dʼAvorio,Burundi, Guinea Conakry e Niger. Non si può parlaredi SantʼEgidio senza menzionare il suo fondatore,Andrea Riccardi, professore di storia allʼUniversità diRoma, oggi ministro della cooperazione internazio‑nale e dellʼintegrazione. Va sottolineata la spiritualitàlaicale e lʼorizzonte ecumenico e globale di SantʼEgi‑dio, come è dimostrato dallʼimpegno per il dialogotra le religioni nel mondo. Ha raccolto infatti lʼinvitodi Giovanni Paolo II a proseguire e diffondere lo «spi‑rito di Assisi» organizzando ogni anno, dal 1987, il«Meeting di Uomini e Religioni per la preghiera in‑terreligiosa per la pace»

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SERMIG

Il «Servizio Missionario Giovani» (in sigla SERMIG) hasede a Torino dal 1983, quando il fondatore ErnestoOlivero riceve in comodato dal Comune lʼantico ar‑senale militare abbandonato, che lui trasforma, conlʼaiuto di volontari e amici, nellʼarsenale della pace.Cinquantamila metri quadri di edifici e strutturecambiano totalmente aspetto grazie allʼopera deltutto gratuita di migliaia di volontari: da fabbrica dimorte a laboratorio di solidarietà, da santuario con‑sacrato alla forza bruta a luogo dʼincontro e di pre‑ghiera, da fucina di violenza a occasione di acco‑glienza e di condivisione. Questo è oggi lʼarsenale

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si deve mai subire passivamente la povertà e la sof‑ferenza, ma si deve reagire e agire sempre con lasperanza di umanizzare ciò che è disumano. Il se‑greto di Emmaus è ridare fiducia alle persone perconsentire loro di ritrovare la gioia di vivere. In que‑sto senso Emmaus rappresenta un esempio per ilcambiamento: contro lʼingiustizia criminale della fa‑me, contro lʼemarginazione dei senza tetto, controlo sperpero delle folli spese per gli armamenti, con‑tro le emigrazioni forzate, contro la tratta degli esseriumani, contro la mancanza di accesso allʼacqua po‑tabile, ecc. La storia di Emmaus è quella di una realtàorganizzata non tanto intorno a progetti, organi‑grammi o strutture, quanto centrata sulle persone,sul servizio gratuito a favore degli ultimi. Nel mondooperano oltre 300 gruppi Emmaus in 36 paesi. InItalia la storia di Emmaus inizia nel 1962, ossia 50anni fa, quando a Verona (poi a Prato, a San Nicolòin provincia di Ferrara) nascono i gruppi Emmaus.Un riconoscimento particolare merita Graziano Zoniche dal 1987 al 2008 è stato Presidente di EmmausItalia, dove è ancora impegnato. Oltre a lui ricordia‑mo Renzo Fior di Villafranca di Verona, già presi‑dente di Emmaus Internazionale ed attuale presi‑dente di Emmaus Italia.

Gli ashram e le esperienze come Shinmeizan

Si attuano esperienze di mondialità anche nei tantiashram aspra orientali dove si dialoga e si prega nel‑la diversità delle appartenenze religiose. Possiamodescrivere tali ashram come audaci esperimenti spi‑rituali di vita interiore diffusi soprattutto in India e inaltri paesi del mondo per iniziativa indù e cristiana.Il termine «aspra», derivato dalla radice sanscrita «a‑srama» significa ricerca totale, sforzo instancabileverso la perfezione. Le persone che ricercano unavita spirituale si riuniscono intorno al «guru», la per‑sona illuminata che è in grado di guidare i discepolinel loro cammino verso la perfezione. I primi tentavicristiani di aprire degli ashram cominciarono neglianni Venti, influenzati dalle esperienze di Gandhi eTagore. Come ha scritto sulla rivista Concilium lʼin‑diano Sebastian Painadath, «gli ashram indicanouna nuova direzione nellʼevoluzione spirituale del‑lʼumanità. La persona religiosa del futuro sarà unapersona interreligiosa. Questo non significa tener

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di Torino. Quella che fino alla seconda guerra mon‑diale era la più grande fabbrica italiana di armi e pol‑vere da sparo, oggi è lʼArsenale della pace. Oliveroha aperto nel 1996 lʼArsenale della Speranza a SanPaolo del Brasile e nel 2003 lʼArsenale dellʼIncontroin Giordania. Ha avuto numerosi riconoscimenti inItalia e allʼestero: gli è stata dedicata anche un giar‑dino di 18 alberi sulle colline di Gerusalemme.

Emmaus

Emmaus è il movimento fondato più di 60 anni fadallʼAbbè Pierre per lottare contro la miseria e ridaresperanza ai disperati. Oggi i gruppi Emmaus sono latestimonianza concreta di persone che offrono il lo‑ro servizio a coloro che hanno bisogno di tutto. Non

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un piede in due scarpe, ma che colui che è in ricercaspirituale sarà profondamente radicato nellʼespe‑rienza intima della propria fede e, nello stesso tem‑po, sarà onestamente aperto alla fede dellʼaltro, peressere sfidato ed arricchito dallʼaltro. Dio è più gran‑de di tutte le religioni, più grande dei nostri cuori,delle Scritture e dei simboli. Il programma creativodi un ashram dovrebbe essere quello di scoprirelʼunità dei movimenti convergenti di una spiritualitàumanizzante profonda, allʼinterno delle diversità del‑le religioni e delle ideologie secolari. Gli ashram delfuturo saranno comunità sacramentali dellʼunitàspirituale dellʼumanità».Parlando degli aspra, non possiano non fare riferi‑mento a Shinmeizan, una piccola esperienza di dia‑logo interreligioso in Giappone dove è presente ilmissionario saveriano padre Franco Sottocornola(nato a Bergamo nel 1935). Raggiunto il Giapponenel 1978, guida lʼesperienza di Shinmeizan dal 1986.Scrive Sottocornola: «Il Shinmeizan è una “casa dipreghiera” concepita come luogo di incontro e didialogo interreligioso. È composta da un gruppettodi edifici costruiti su una collina del villaggio di Ha‑boura, nella provincia di Kumamoto, nel Kyushu, lapiù meridionale delle quattro isole principali dellʼar‑cipelago giapponese. Attualmente vi vive una pic‑cola comunità di cinque persone: due sacerdoti etre religiose (tre italiani e due giapponesi) apparte‑nenti a quattro diversi istituti religiosi. La caratteri‑stica originale di questa «casa di preghiera» cristianaè quella di essere stata fondata nel 1987. È in questoumile, paziente, amorevole ascolto vicendevole che,oltre a capirsi meglio gli uni gli altri, si potrà even‑tualmente giungere anche ad uno scambio dei do‑ni che ogni tradizione religiosa porta con sè. E saràin questo scambio di doni che il cristiano potrà offri‑re allʼaltro il dono della sua testimonianza di fede inCristo e annunciare allʼaltro, da cui pure avrà certa‑mente ricevuto doni preziosi, la sua gioia e la suasperanza fondata in Cristo».

Neppure un eremo può essere un guscio di lumaca

Non sappiamo quanti conoscano la compianta teo‑loga e scrittrice Adriana Zarri e la sua scelta, nel 1975,di andare a vivere in un eremo. Leggendo il suo ul‑timo libro, pubblicato da Einaudi (2011), si compren‑

de come anche chi sceglie di essere un eremita èaperto al mondo. Molto significativo il capitolo doveAdriana Zarri scrive: «Qualcuno dice che mi sono “ri‑tirata”in un eremo; e io puntualmente reagisco. Uneremo non è un guscio di lumaca, e io non mi ci so‑no rinchiusa; ho scelto solo di vivere la fraternità insolitudine. E lo preciso puntigliosamente per rispon‑dere allʼobiezione che concepisce questa solitudinecome un tagliarsi fuori dal contesto comunitario eche ‑ come confonde la comunione con la comu‑nità ‑ confonde anche al solitudine con lʼisolamento,la misantropia, la chiusura egocentrica. E invece no.Lʼisolamento è un tagliarsi fuori, ma la solitudine èun vivere dentro. Lʼisolamento è una solitudine vuo‑ta, la mia solitudine, invece è una solitudine piena,cordiale, calda, percorsa da voci e animata di pre‑senze. Un libro sul monachesimo, che è stato pub‑blicato di recente, afferma che lʼeremita non develeggere i giornali. Non credeteci. È soprattutto lʼere‑mita che deve leggerli, per non estraniarsi dalle vi‑cende, dai drammi, dai problemi di un mondo colquale ha scarsi contatti; e se li tagliasse totalmenterischierebbe davvero di isolarsi».

La mondialità come stile di vita (pensiero, relazioni , consumo dei beni)

Affermare che la mondialità è stile di vita significadire no alla separazione tra teoria e pratica, tra mez‑zi e fini, fra parole e fatti. La mondialità si costruiscevivendola nel pensiero, nelle relazioni, con gli altri enei modelli di consumo. Per questo riteniamo chesemplici scelte come quella di partecipare alle atti‑vità dei Centri interculturali nelle città, o di aderire aiGas (Gruppi di acquisto solidali) siano concreti com‑portamenti di mondialità, in quanto essa è contem‑poraneamente etica, politica, economia, religione...tutto! Chi ha fatto la scelta della mondialità è impe‑gnato quotidianamente a costruire un nuovo mon‑do e una nuova umanità a partire da se stesso, so‑prattutto attraverso lʼeducazione e la testimonianza.Da sempre il CEM ha sottolineato il nesso intrinsecodella mondialità con la pace, lʼambiente, lo sviluppo,lʼintercultura. In breve la mondialità è la tessituraquotidiana di un nuovo modo di convivere dovenessuno è escluso. In questo senso la mondialitàvalorizza la cultura del dono e il primato dellʼaltroper costruire un umanesimo della fraternità.

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gioco e sport 7

domando se sono l’unico corridore al mondo con questo sistema di dimen-ticare che sto correndo perché sono troppo occupato a pensare». Una pa-gina indimenticabile di La solitudine del maratoneta di Alan Sillitoe: paurae gioia di star solo, di correre, di pensare… Sentimenti che tante personecondividono. Nel racconto non c’è solo lo Smith maratoneta ma anche quel-lo teppista, il non integrato che corre nei boschi e nei campi intorno a un ri-formatorio (prigione è forse più preciso) nell’Inghilterra degli anni ’50 per-ché il direttore vuole che lui vinca una gara. «Mi dico che sono il primouomo che sia mai caduto sulla Terra e appena spicco quel primo balzo ful-mineo sull’erba gelata in cui persino gli uccelli non hanno il coraggio dicantare, comincio a riflettere ed è questo che mi piace. Faccio i miei giricome in sogno […]. A volte penso che non sono mai stato così libero comedurante quel paio d’ore in cui trotterello su per il sentiero fuori dai cancelli[…]. Tutto è morto ma bene perché è morto prima d’essere vivo, non mortodopo essere stato vivo […] Clop-clop-clop. Ciuf-ciuf-ciuf. Paf-paf-paf fannoi miei piedi sul terreno duro. Zan-zan-zan mentre braccia e spalle sfioranoi rami nudi di un cespuglio». Nell’aprile 2010 è morto quello che il Times ha definito il migliore e piùsaggio degli scrittori inglesi; purtroppo in Italia Sillitoe era meno conosciutoe stimato. Molte sue opere sono introvabili da noi, ma per fortuna MinimumFax ha da poco ristampato due suoi libri importanti: Sabato sera, domenicamattina e l’antologia La solitudine del maratoneta, dal titolo del raccontoche diventò un film-manifesto (di Tony Richardson) e da noi è conosciutocome Gioventù, amore e rabbia. Sillitoe scelse di stare dalla parte deiproletari che si ribellavano ma anche dei teppisti (con o senza virgolette).«Nella nostra famiglia si era sempre corso molto, soprattutto per sfuggirealla polizia» si presenta l’io narrante di La solitudine del maratoneta, decisoa non farsi fregare passando una vita dura (da operaio appunto) per gua-dagnare solo poche sterline. Finisce in carcere ma non si sente sconfitto eprepara il più incredibile finale di gara che si possa immaginare. Ho pro-posto questo racconto in due classi, qualche anno fa. Forse significa qual-cosa che sia piaciuto soprattutto ai non italiani-doc.

«Un giornalista chiese alla teologatedesca Dorothee Sölle: “Come

spiegherebbe a un bambino checosa è la felicità?”. “Non glielo

spiegherei, rispose, gli darei unpallone per farlo giocare”. Il calcioprofessionistico fa tutto il possibile

per castrare questa energia di felicitàma lei sopravvive malgrado tutto»

Eduardo Galeano

Nel finale Eads e Ptsd incrociano DomcContinuano a litigare Eads (ex appassionato disport) e Ptsd (perenne tifoso senza dubbi). Li sen-to da qui.Eads: Ti fai ingannare dalla messinscena del su-dore, dallo stereotipo di giovani contro vecchi, diex, fedelissimi e traditori, campioni e brocchi...Ptsd: Ma io amo i polpacci in azione, le smorfie,sconfitta o vittoria, rabbia, guizzi, concentrazione,tensione, sorpresa... Che c’è di male?Eads: Tutto per scopi fasulli. Vendere un prodotto,mascherare l’ideologia dominante, distrarre l’at-tenzione da altri problemi. A questo si è ridotto losport.Ptsd: Non è vero. E poi la vita è davvero una gara.Perciò sudar sangue, correre rischi, esibirsi, mi-gliorare il corpo sono qualità positive. Perché nondovrei ammirare chi in questo diventa un cam-pione? Trucchi? Come nella vita ogni tanto s’im-broglia, è normale.Eads: Una volta tanto avevano ragione i latini,«Mens sana in corpore sano». A te sembra che ilcorpaccione dello sport sia sano?Ptsd: Sì. È accessibile a tutti, donne comprese. Emolte minoranze (etniche o sociali) si rendono vi-sibili attraverso lo sport. Fare sport giova alla sa-lute e guardarlo... male non fa. Dove sono tuttiquesti problemi? Eads: Lo sport mima i conflitti sociali ma al suointerno regna un’ambigua unanimità. Ptsd: A me pare che oggi persino la politica abbiaeliminato il conflitto, mica vorrei darne la colpaallo sport?Stanco di sentirli litigare, decide di intervenireDomc (Daniele occasionale mediatore culturale)rubando - al solito - idee qua e là. «E se ci po-tessimo riprendere il gioco e lo sport? Tentiamouna prima ipotesi. Favorire la sperimentazione ela consapevolezza di sé, la partecipazione e nonsolo il consumo. Dare a tutti eguali possibilitàpur riconoscendo le differenze. Acquisire abilità,migliorare la propria immagine non è in contrad-dizione con il riconoscere i propri limiti. Se le re-gole sono condivise bisogna accettarle. Che nedite? È una base chiara o ambigua? Troppo de-bole?». Si apre una discussione (né apocalitticané integrata) che... magari continuerà anche suquesta rivista.

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Liturgie del calcio di Roberto Alessandrinida «Il gioco» Emi, Bologna 2010

A nche se è privo di una configurazione mitica, distanteda riferimenti a trascendenza, aldilà, salvezza ed abitatoda ideali labili, lo sport «funziona un po’ come una Chie-

sa» e si configura come «la nuova religione del popolo», conpantheon di adulati campioni, reliquiari di coppe, trofei, me-daglie, abiti liturgici, sacerdoti garanti dei rituali, racconti mi-rabolanti di imprese, foto e immagini pie, riti magici di prepa-razione. La corsa ciclistica, l’incontro di pugilato, la partita dicalcio e il gesto del tennista sono spettacoli in sé, «con i lorocostumi, l’apertura solenne, la liturgia adeguata, lo svolgi-mento prestabilito» e, come la religione, si affidano al fascinodel rito e adottano modalità cerimoniali che rompono con iltempo e lo spazio profano. Osserva J.M. Brohm:«Metafore religiose di ogni genere abbondano nel discorsosportivo; l’intuizione più o meno consapevole riproduce og-

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Sentinella, quanto resta della notte? Oltre ogni crisi, per un nuovo patto generazionale

gettivamente la pratica sportiva e alcune strutture del mito,del sacro, del mistico, del culturale, del rituale. Sono numerosile cattedrali, i templi, le mecche, i campi e i recinti sportivisacri, etc; pullulano le liturgie, le messe, gli offizi, le cerimoniepagane, le messe a morte per sacrificio simboliche (e, a volte,reali…); mentre i grandi preti, gli officianti, gli eroi delle leg-gende, i servitori del culto, i pii, i martiri, i santi e i grandi avisono una legione. Così il linguaggio sportivo riflette la nostal-gia della comunione, della fusione mistica nel grande corpo(la Chiesa?) dell’immensa famiglia sportiva. Esprime unaconfessione, un credo, una Bibbia, l’appartenenza ad una co-munità superiore ammutolita dalla fede e dal culto dei grandiavi o dei nuovi messia.Un grande rituale moderno che si trova al centro di una dram-maturgia popolare è il calcio, imponente macchina di comu-nicazione e socializzazione, «spettacolo interpretato da pro-fessionisti, su cui avvengono investimenti materiali, emotivi esimbolici di massa» e luogo di un confronto rituale tra amici enemici che assume la forma di una metafora della guerra,quando addirittura non la provoca realmente, come accadenel 1969 tra Salvador e Honduras per gli incontri eliminatoridei campionati del mondo. Proprio in quegli anni, Pier PaoloPasolini afferma: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacradel nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Men-tre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in de-clino, il calcio è l’unica rimastaci».Segni di croce di calciatori al fischio d’inizio delle gare, pre-ghiere a mani giunte dopo un gol segnato, ricorsi superstiziosiall’acqua benedetta, esibizioni di magliette incui ci si dichiara appartenenti a Gesù o siinneggia al Papa, associazioni di atleti diCristo, lodi che vengono innalzate al cielodopo la vittoria sono gli esempi di una«delocalizzazione» di gesti religiosi ela conferma che il calcio si è trasfor-mato in una religione sostitutiva po-polare di tipo laico, in vettore di fa-scinazione non privo di un suo latoliturgico, in una forma di epica ca-pace di adattarsi alle necessità di

«Sono un cittadino attento allanostra epoca, alla chance

che offre ai più giovani: troppolimitate. Attento alle ingiustizie

che genera: troppo numerose,

violente, sistematiche»Eric Cantona

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marzo 2012 | cem mondialità | 29marzo 2012 | cem mondialità | 29

La figura di Ettore incarna tutte le qualità familiari e civilidi assunzione di responsabilità, di cura e di coraggioproprie del carattere maschile nella migliore delle sue

manifestazioni. Ettore rappresenta il maschile generosoe prodigo di sé, consapevole del ruolo di protettore e digarante che gli compete. Agli antipodi del maschio pre-datore, cacciatore, l’eroe troiano diviene l’archetipo dellospirito di sacrificio in nome del bene comune. È anche,

tra le figurazioni mitologiche maschili, quella più di altrecollegate alla paternità. Duccio Demetrio in un interes-sante saggio1 si sofferma sulle icone dell’interiorità ma-schile, così poco nota, sul carattere schivo della tene-rezza virile, tanto diversa da quella femminile ed offre lapossibilità di indagare un terreno di ricerca raramenteesplorato. Non c’è libro di antologia che non riporti, nella sezionededicata alla poesia epica, i versi del libro VI dell’Iliade,dedicati all’incontro di Ettore ed Andromaca e il piccoloAstianatte alle porte Scee; si tratta dell’ultimo colloquiotra i due sposi separati poi definitivamente dal destino diogni guerra: la morte dell’eroe, la riduzione in schiavitùdella sua donna, il bottino estratto a sorte tra i vincitori. Iversi (390-493) sono giustamente considerati una dellevette poetiche più elevate mai raggiunte dalla letteraturaoccidentale e forse universale. Il disperato incontro av-viene quando le sorti del conflitto sono già decise edaleggia tra le donne e le ancelle un sentore di lutto e ditragedia. Andromaca accoglie Ettore presso le porte e losupplica di evitare il fatale duello con Achille. Ripercorreil destino di dolore che la perseguita fin da quando vivevain Cilicia con la sua famiglia, sterminata dal Pelide, fa-cendo appello all’amore che prova per Ettore fratello, ma-dre, padre e marito e alla catastrofe irreparabile che rap-presenterebbe la sua perdita.Ma Ettore spiega ad Andromaca che non gli è possibilesottrarsi allo scontro. Troppo acutamente sente le respon-sabilità e i doveri nei confronti della città, inoltre ha a cuorela sua reputazione di fronte ai Troiani e alle Troiane dal

Ettore e Astianatte antonella [email protected]

Ettore e Andromaca, G. De Chirico (1966)

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vile, è compito del padre che dà il nome e il nomos, lalegge di appartenenza al clan e alla collettività. Il gesto diEttore è il titolo di un saggio2 il cui autore indaga le evolu-zioni della figura paterna, nel nostro tempo ampiamentein crisi. Ma il comportamento di Ettore è sorprendente peraltri aspetti, non sempre adeguatamente colti: dopo aversollevato il bambino, il padre ha per lui parole intense edindimenticabili. In primo luogo, lo chiama Scamandrio,perché - osserva il poeta - Astianatte, signore della città,si addice ad Ettore solo, il vero sovrano; in seguito il padreformula per lui gli auguri più generosi e fervidi che ognigenitore ha in serbo per il proprio figlio: che cresca inprosperità, bellezza e forza e agli occhi di tutti appaiamolto più grande del padre. Il vero educatore non auto-referenziale si augura sempre che i propri alunni e figli

nella carne o nello spirito possano superarlo, arrivare do-ve i suoi occhi stanchi non hanno potuto. Ma ciò che ègeniale da parte di Omero è attribuire con naturalezzaqueste parole di augurio ad un uomo che poco prima siè dimostrato acutamente lucido nel conoscere quale de-stino di guerra tocca ad una vedova. Quale incomprensi-bile rimozione impedisce ad Ettore di prevedere la tre-menda sorte riservata ad un orfano, per di più erede deltrono di Priamo? Come può ignorare che la legge dellaguerra, a lui ben nota, condanna il bambino ad una finecerta, gettato dalle mura? Eppure in questo pugno di versisi compie il miracolo dell’amore paterno, che non può ac-cettare mai la fine della speranza, il vicolo cieco dellamorte, e riafferma, comunque, il proprio incondizionato edisperato amore per il figlio che ha generato per semprealla vita.

1 D. Demetrio, L’interiorità maschile, Cortina, Milano 2010.2 L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del pa-dre, Bollati Boringhieri,Torino 2003.

lungo peplo. Alla sposa rivela anche il suo affanno perchében sa quale sorte incombe sulla donna del nemico equando Andromaca sarà schiava del vincitore, costrettaa vivere nella sua casa come straniera, nulla per lei saràpiù amaro che vedersi dagli altri additata come la sposadi Ettore, una volta regina, ora vile ancella umiliata nellasua dignità regale. Con estrema lucidità Ettore sa descri-vere, è uomo di guerra, cosa accadrà alla giovane vedo-va. A questo punto, lo sguardo del padre si rivolge alneonato stretto al seno odoroso della balia; Ettore lo os-serva orgoglioso. Il bambino si riscuote e piange spa-ventato dall’aspetto del padre cinto dall’elmo. Ettore, al-lora, poggia a terra l’elmo e riceve tra le braccia, con si-lenziosa e virile tenerezza il bimbo. Compie un gesto, ilgesto, che rappresenta l’assunzione di responsabilità del-la paternità: accoglie il bambino e lo solleva per mostrarlo.Questo gesto pubblico sanciva la disponibilità del padrea riconoscere come proprio il figlio appena partorito. Nelmondo romano il padre dimostrava di accettare comefrutto del proprio seme il neonato ponendoselo sulle gi-nocchia (da qui l’aggettivo genuino). Tale atto confermail riconoscimento, l’ingresso nella comunità familiare e ci-

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Quale incomprensibilerimozione impedisce ad

Ettore di prevedere latremenda sorte riservata adun orfano, per di più erededel trono di Priamo? Come

può ignorare che la leggedella guerra, a lui ben nota,

condanna il bambino ad unafine certa, gettato dalle

mura? Eppure in questopugno di versi si compie il

miracolo dell’amore paterno,che non può accettare mai la

fine della speranza

Ettore e Andromaca, J.M. Combette (1810)

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gioco e sport 7

una società postmoderna e di riprodurre alcune strutture del mito, delsacro e del rito. Il football, osserva Marc Augé, funziona come un feno-meno religioso e le affinità sono molteplici, come ha magistralmentenarrato Christian Bromberger, anche se il calcio non rimanda a un siste-ma religioso autonomo, ma è piuttosto un fertile campo di applicazione«di pratiche magico-religiose prese in prestito da altri orizzonti rituali»che svela il carattere ibrido e minore delle religiosità secolari. Si tratta dicredenze perennemente in bilico tra serietà e parodia che, prese allalettera, potrebbero avere un effetto di «trompe-l’oeil liturgico».La cerimonia riproduce le sequenze liturgiche, ma ne traveste lo stile ene travisa il senso. La coppa, che sarebbe un errore considerare un ac-cessorio intercambiabile, conserva un’aura quasi religiosa (i tifosi cer-cano di toccarla) ma è, per così dire, svuotata della sua trascendenza.Anche quando si osservano le vetrine (che spesso ricordano gli armadidi una sacrestia) in cui sono conservati i trofei del club si prova la stessasensazione di oscillazione tra secolarità e religiosità. Si tratta di un museo

«Se noi facciamo una bella partita epoi perdiamo per una palla, come

è successo a Barcellona, abbiamoperso. Pochi si ricorderanno seabbiamo perso per molto e per

poco. Ed è giusto, lo sport è così.Ma la vita non è così. Non è che

se uno fa un punto in meno di un altro è un perdente»

Julio Velasco

contro di calcio fra una squadra di SS e una rappresentanzadel Sonderkommando, i prigionieri incaricati di sgomberarela camere a gas e bruciare i cadaveri, «parteggiano, scom-mettono, applaudono, incoraggiano i giocatori, come se, in-vece che davanti alle porte dell’inferno, la partita si svolgessesul campo di un villaggio». Ed è curiosamente specchio deicampi di concentramento, anche se situato su un isolotto dellaTerra del Fuoco, l’inquietante e crudele stato totalitario, esclu-sivamente dedito allo sport, di cui narra Georges Perec in unsuo libro (W o il ricordo d’infanzia, Rizzoli, Milano 1991).Profondamente legata alle vicende del mondo ebraico olan-dese è la storia della squadra di calcio dell’Ajax, il cui campodi gioco, ancor prima della guerra, si trovava a circa tre chilo-

o di un santuario? Ci si va in visita o in pellegrinaggio? Davanti ad esse,i tifosi tacciono in furtivo raccoglimento, come il passante che incrociauna processione o scorge all’improvviso un altare dietro l’angolo. Re-stano a metà strada, tra il sacro e il profano. Questo ibrido si palesa conevidenza a Napoli in occasione dei festeggiamenti per lo scudetto del1987, quando la «canonizzazione» di Maradona, in un’esagerazione li-turgico-parodistica, prende la forma di un «san Gennarmando», realiz-zato con la statua del patrono e la testa del campione argentino, e di unaprocessione simile a quella della Madonna dell’Arco.Nel corso del ’900 nemmeno le guerre riescono completamente a inter-rompere il gioco del calcio. Il 22 giugno 1941, il giorno in cui i tedeschiinvadono l’Unione Sovietica in una delle azioni decisive della secondaguerra mondiale, 90 mila spettatori assistono a Berlino alla finale del tor-neo tedesco e nel 1944, pochi giorni dopo lo sbarco di Normandia, in 70mila seguono la finale di un campionato che in Germania prosegue an-che quando l’aviazione britannica rade al suolo il paese e i giovani ven-gono inviati sul fronte orientale. Come ricorda Primo Levi in Sommersie salvati, anche ad Auschwitz si gioca a pallone. Gli spettatori di un in-

metri a est del quartiere ebraico di Amsterdam. Racconta Si-mon Kuper: «Un ebreo, a una partita dell’Ajax, si sentiva partedi Amsterdam. Lì era protetto. Quando la bandiera con la sva-stica venne innalzata sullo stadio per una partita contro l’Ad-mira Vienna nel 1938, e i giocatori viennesi fecero il saluto na-zista, i tifosi dell’Ajax fischiarono furiosamente e alcuni lascia-rono lo stadio. Capire l’Ajax del periodo prebellico aiuta acomprendere lo “sciopero di febbraio” di Amsterdam del 1941,quando per un giorno e mezzo molti lavoratori della città in-crociarono le braccia in segno di solidarietà con gli ebrei». Lo sciopero di febbraio è l’unica azione di massa compiutadai gentili nei confronti dei loro concittadini israeliti. Il restodella storia prosegue purtroppo diversamente. Nel 1941 gliebrei olandesi vengono allontanati dai luoghi di lavoro, dallescuole, dai caffè, dagli eventi pubblici e i tedeschi decretano

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Bibliografia

Aa. Vv. (a cura di G. Boccardelli), I si-gnori del gioco. Storia, massificazione,interpretazioni dello sport, Liguori, Na-poli 1982

R. Alessandrini, Gioco, Emi, Bologna2010

Amnesty International, Pechino 2008.Olimpiadi e diritti umani in Cina, Ega,Torino 2007

Associazione culturale Panafrica, Rap-porto su razzismo e antirazzismo nelcalcio, edito in proprio, 2006

E. Audisio, Bambini infiniti. Storie di

campioni che hanno giocato con la vita,Mondadori, Milano 2003

D. Barbieri, R. Mancini, E lo sport si fe-ce mondo, La Nuova Italia, Firenze 1996

D. Colombo, D. De Luca, Fanatics. Voci,documenti e materiali del movimentoultrà, Castelvecchi, Roma 1996

E. Galeano, Splendori e miserie del cal-cio, Sperling & Kupfer, Milano 1997

R. Ghedini, Il compagno Tommie Smith.E altre storie di sport e politica, Mala-tempora, 2008

S. Kuper, Ajax, la squadra del ghetto,Isbn edizioni, Milano 2005

R. Mantegazza, Con la maglia numerosette. Le potenzialità educative dello

sport nell’adolescenza, Unicopli, Mila-no 1999

C. Petrini, Nel fango del dio pallone, Ka-os edizioni, Milano 2010

S. Pivato, L’era dello sport, Giunti Ca-sterman, Firenze 1994

R. Redeker, Lo sport contro l’uomo, Cit-tà aperta, Troina (En) 2002

D. Scaglione, Diritti in campo. Storie dicalcio, libertà e diritti umani, Ega, Tori-no 2004

M. Valeri, Black Italians. Atleti neri inmaglia azzurra, Palombi, Roma 2006

M. Valeri, La razza in campo. Per unastoria della rivoluzione nera nel calcio,Edup, Roma 2005

M. Valeri, Nero di Roma. Storia di Leo-ne Jacovacci, l’invincibile mulatto itali-co, Palombi, Roma 2008

Nella discussione (non esaltante) italia-na, riflessioni interessanti sono arrivateda alcune riviste e in particolare da Ildiscobolo della Uisp e dal quadrime-strale Lancillotto e Nausica (www.lan-cillottoenausica.it/Palombi editore). Se-gnalo infine La notte di san Nessuno,testi e disegni di Fogliazza cioè Gianlu-ca Foglia: tre numeri speciali della rivi-sta Italia missionaria (senza data ma2006) in coedizione con associazioneBotteghe del mondo per raccontare aragazze/i di calcio, sfruttamento e com-mercio equo.

la loro l’espulsione dalle società sportive: cinque club di Am-sterdam, composti per la maggior parte da ebrei, si ritiranodal campionato cittadino. I nazisti incoraggiano inoltre le fe-derazioni olandesi di cattolici, protestanti e operai a unirsi inun’unica organizzazione, impongono ai giocatori di cricket ditrovare equivalenti olandesi a termini come wickets e overs,vietano nel tennis il punteggio in inglese e impongono allesocietà che prendono il nome da membri della famiglia realein esilio, come Wilhelmina o Juliana, di cambiare denomina-zione. Nell’agosto dello stesso anno, la federazione olandesedecide di non designare più arbitri israeliti. La Neerlandia diAmsterdam adopera le stoffe usate dagli ebrei durante la pre-ghiera come bandierine d’angolo per segnare il campo digioco. Al termine della guerra, alcuni sopravvissuti fanno illoro ingresso nell’Ajax, destinata a diventare una delle squa-dre più forti del mondo. I calciatori non ebrei del grande Ajax(e un po’ ce n’erano), vivevano in un ambiente ebraico pres-soché unico nei Paesi Bassi del dopoguerrra. Il presidente, ivecchi danarosi, il massaggiatore, un paio di compagni disquadra, i giornalisti, l’agente di Arie Haan, il fornaio preferitodei giocatori: poteva quasi sembrare fossero molti gli ebreiin Olanda (cfr. Simon Kuper, Ajax, la squadra del ghetto. Ilcalcio e la Shoah, Isbn, Milano 2005). I giocatori della squadra, a lungo il club europeo più popolareanche in Israele, vengono chiamati ebrei dagli avversari peroltre mezzo secolo e sul volgere degli anni Ottanta negli stadiiniziano a sventolare bandiere con la stella di David. Episodiantisemiti, cori, sibili che evocano il gas dei campi di stermi-nio si verificano tra i tifosi del Feyenoord e del Den Haag ecomportano espulsioni dal campionato. Se la storia dell’Ajaxè profondamente intrecciata alle vicende del mondo ebraicoolandese, qualcosa di analogo avviene a Glasgow, in Scozia,dove i Rangers sono protestanti e i Celtic cattolici. Il gruppopunk Pope Paul and the Romans (noto anche come The Bol-lock Brothers) canta Why Don’t Rangers Sign a Catholic?,

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Sentinella, quanto resta della notte? Oltre ogni crisi, per un nuovo patto generazionale

chiedendosi perché i Rangers non mettano sotto contratto uncattolico visto che i Celtic mandano in campo quasi solo pro-testanti. Fondata nel 1873 come squadra di ragazzi presbite-riani, la compagine ingaggia effettivamente nel 1998 l’attac-cante cattolico Maurice Johnston, definito dallo Scotland onSunday «il Salman Rushdie del calcio scozzese». TemendoGlasgow, il giocatore prende casa a Edinburgo, ma l’edificio

«Non ci sono più terreni digioco ma solo stadi.

Lo stadio diventa una speciedi stabilimento industriale che produce macchine da correre, da saltare, da giocare a football»

Lewis Mumford

in cui vive viene attaccato con le molotov da tifosi del Celtic enemmeno l’assunzione di una guardia del corpo 24 ore su 24impedisce che i tifosi avversari aggrediscano suo padre.Durante la seconda guerra mondiale molti dei derby tra Ran-gers e Celtic, noti come Old Firm, sfociano in risse, mentrenel 1975 una di quelle gare ispira due tentati omicidi, due ag-gressioni con mannaia, un’aggressione con ascia, nove ac-coltellamenti e trentacinque aggressioni semplici. L’Old Firmdivide gli scozzesi e gli irlandesi in ogni parte del mondo, masoprattutto in Ulster, una contea che sembra «una partitadell’Old Firm scappata di mano».

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agenda interculturaleGiustizia Socialeed AmbientaleAppuntamento a Riovent’anni dopoAlessio [email protected]

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agenda interculturale

A fine giugno si terrà a Rio de Janeiro «Rio+20», laConferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo So-stenibile a vent’anni dal precedente summit dedi-

cato alle sorti del pianeta. Sarà preceduto (dal 15 al 23giugno, nell’area Aterro do Flamengo) dalla «Cúpula dosPovos na Rio+20 por Justiça Social e Ambiental», il summitdei popoli per la giustizia sociale e ambientale. Associazio-nismo e movimenti sociali vogliono partecipare in primapersona e far sentire la propria voce in un evento che segnala conclusione di un ventennio, il ciclo di conferenze Onucentrate sull’idea di sviluppo sociale. Non a caso, ancorauna volta, si sono riuniti a fine gennaio a Porto Alegre inun Forum Sociale dedicato alla Giustizia Sociale e Ambien-tale, mettendo a fuoco una propria agenda di lavori invista della Conferenza. Fra i documenti chiave, la rivendi-cazione di riforme che portino a privilegiare i beni comuni,la sovranità alimentare e il rispetto delle «soglie» indispen-sabili per una relazione di reciprocità fra umanità e madreterra. Un esempio sono le nove soglie stabilite da Rock-ström e colleghi nel 2009 relative a: cambiamento clima-tico, perdita di biodiversità, utilizzo di nitrogeni e fosfati,buco dell’ozono, acidificazione degli oceani, utilizzo di ac-qua, cambiamenti nell’utilizzo delle terre, particelle nel-l’atmosfera, inquinamento chimico.

Sappiamo di aver già «sforato» i primi tre indicatori e pro-prio queste nove soglie sono state selezionati per un re-cente rapporto Oxfam da Kate Raworth, nel tentativo distabilire una griglia di verifica che mostri quando e in chemisura un’attività economica contribuisca al benessere ocrei danni per l’umanità e la biosfera. Il rapporto «incrocia»dunque queste «soglie» con le undici «priorità sociali» sta-bilite dai governi durante la preparazione di Rio + 20: si-curezza alimentare, redditi adeguati, acqua potabile e ser-vizi igienici, cure sanitarie efficaci, accesso all’educazione,lavoro dignitoso, moderni servizi energetici, resilienza aidisastri, pari opportunità, equità sociale, partecipazione inprocessi politici democratici.Sia Kate Raworth, sia George Monbiot in un recente arti-colo pubblicato dal Guardian, mostrano come raggiungeresoglie di giustizia sociale non sia incompatibile con la giu-stizia ambientale: sfamare dignitosamente il 13% della po-polazione mondiale che soffre oggi la fame significa unincremento della produzione alimentare intorno al 1%: co-me per molte altre questioni di giustizia il tema chiave èl’accesso e non la crescita che rimane molto contenuta an-che per i temi energetici: fornire l’elettricità al 19% dellepersone attualmente tagliate fuori dalla rete elettrica puòprovocare al massimo un 1% in più di emissioni di anidridecarbonica. Il messaggio di Oxfam e di molti movimenti so-ciali è chiaro: non sono i poveri a minacciare la biosfera,ma sono soprattutto i ricchi, basti pensare che è l’11%della popolazione ad essere responsabile di metà delleemissioni di anidride carbonica (mentre il 50% della popo-lazione ne produce un mero 11%). Anche per questi motivil’ultimo rapporto Social Watch, dedicato al Diritto al futuro,preme per un radicale cambio di mentalità e di rotta a par-tire da Rio+20 e ospita un intervento di Miloon Kothari,già relatore Onu per il diritto alla casa (tema sempre inombra in questi summit), e Shivani Chaudhry, della dire-zione della Rete Casa e Diritto alla terra (India) che sugge-riscono di adottare il concetto di «giustizia ambientale»come comprensivo delle condizioni ecologiche (biologi-che), fisiche (naturali e frutto del lavoro umano), sociali,politiche, estetiche ed economiche. nnn

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a cura di Gianni D’[email protected]

P.I.P.P.I.

pratiCare

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pratiCare

Paola Milani, Sara Serbati,Salvatore Me, Adriana Ciampa

In questi ultimi decenni in Italia ci si èmolto interrogati su cosa significhiproteggere e tutelare i bambini. So-

no state fatte leggi importanti e si sonosviluppate esperienze che però descri-vono una realtà differenziata, ricca di lu-ci e ombre.Una delle questioni fondamentali è ca-pire quanto e a quali condizioni sia pos-sibile evitare l’allontanamento dalla pro-pria famiglia a bambini che vivono si-tuazioni di vulnerabilità e rischio. Questoè il punto di partenza che ha portato ilMinistero del lavoro e delle politiche so-ciali, insieme con il Dipartimento di filo-sofia, sociologia, pedagogia, psicologiaapplicata (F.I.S.P.P.A.) dell’Università diPadova, a proporre a 10 grandi città ita-liane un programma finanziato con ifondi della legge 285/97 che si ponel’obiettivo di costruire, sperimentare evalutare un modello di presa in caricodel bambino e del suo nucleo familiareintensivo, flessibile, ma allo stesso tem-po strutturato e limitato nel tempo chepossa concretamente ridurre i rischi diallontanamento del bambino o del ra-gazzo e/o di rendere l’allontanamento,quando necessario, un’azione forte-mente limitata nel tempo facilitando iprocessi di riunificazione familiare. Il no-me del programma si è ispirato a PippiCalzelunghe, che rappresenta le poten-zialità inesauribili dei bambini e le lorocapacità di cavarsela di fronte ad ognidifficoltà. La figura di Pippi è l’immaginedi sfondo che crea un orizzonte di sensocentrato sulle possibilità di cambiamen-to della persona umana, sull’importanza

delle reti sociali, dei legami affettivi, del-le possibilità di apprendimento e recu-pero anche nelle situazioni di rischio edi estrema vulnerabilità. La sfida è quelladel sostegno alla famiglia d’origine, as-sumendo l’idea che ci sono alcune fami-glie che, se sostenute in maniera inten-siva, rigorosa e per tempi definiti, attra-verso un processo di empowerment, daoperatori che lavorano integrando le loroprofessionalità e le diverse dimensionidel loro intervento, possono apprenderemodi più funzionali alla crescita positivadei loro figli, di stare insieme, di gestireil loro quotidiano. nnn

Il nome delprogramma si è

ispirato a PippiCalzelunghe,

cherappresenta le

potenzialitàinesauribili dei

bambini e leloro capacità di

cavarsela difronte ad ogni

difficoltà

Per maggiori informazioni

www.educazione.unipd.it/labrief/

Programma di Intervento Per Prevenire l’Istituzionalizzazione

L’avventura di P.I.P.P.I. è partitanel marzo 2011 e siconcluderà nel dicembre2012, gli operatori coinvolti intutta Italia sono più di 200,tutti si stanno misurando consfide importanti eimpegnative come l’utilizzo diuna metodologia scientificanella presa in carico dibambini e famiglie, cheprevede l’utilizzo di strumentiche lascino traccia del lavorofatto nel tempo e producanomateriale utile per lapromozione della riflessivitàsull’intervento stesso.Fondamentale è poi l’impegnorivolto alla costruzione distrategie d’intervento cherendano possibile lapartecipazione delle famiglie,anche con il supporto diinnovativi strumenti cheaccompagnino gli operatorinel «dare la parola» a genitorie bambini.Ancora, una grande sfida è lacostruzione di équipemultidisciplinari checoinvolgono tutte le personeche hanno cura del benesseredel bambino e della suafamiglia (operatori sociali esanitari, insegnanti, allenatori,animatori, ecc.) in modo dacreare un’azione consapevolee integrata.Rispondere a queste sfide nonè facile: richiede tempo e ladisponibilità degli operatori asperimentare nuove forme dipresa in carico, a creare spazidi ascolto dei bambini, dellefamiglie, e di tutte le personeche possono essere coinvolteper il benessere del bambinoal fine di realizzare unaprogettazione concreta,efficace e valutabile da tutti.

L’avventura di P.I.P.P.I.

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dei mutanti; chi viaggia in skate; chi amail fruscio dei libri e delle idee dentro.Mi pare che la protagonista sedicenne elo stile del libro possano essere due buo-ni appigli per agganciare ragazze e ra-gazzi. Come tutti i romanzi «catastrofi-sti» (o analisi scientifiche sempre piùpreoccupate per il futuro del pianeta)può spaventare e non è detto che lapaura sia una molla per agire. Ma questitimori possono essere messi a confrontocon una delle più note storie catastrofi-che a (parziale) lieto fine, quella di Noè. Stanco di annunciare sventure senza es-ser preso sul serio, Noè si veste di unsacco e si sparge cenere sul capo. Intor-no a lui si raduna una folla. Gli chiedonochi sia morto. Lui risponde che i mortisono tanti, tutti loro. Viene schernito.Gli chiedono quando è avvenuto. E luirisponde che accadrà domani. Ma «sesono venuto davanti a voi è per invertirei tempi». Sembra tutto inutile, ma quan-do Noè torna a casa un carpentiere bus-sa alla sua porta e gli offre aiuto: «Lasciache ti aiuti a costruire l’arca perché quel-lo che hai detto diventi falso». Rielabo-rando queste riflessioni di Gunther An-ders sul mito del diluvio universale, nel2006 in Piccola metafisica dello tsunami(edito da Donzelli) Jean-Pierre Dupuy hascritto che la nostra possibilità di pensa-re il cambiamento - in vista della cata-strofe annunciata - è rimettere in giocola nozione di tempo: il futuro dipendedagli atti compiuti nel passato o nel pre-sente, mentre il modo in cui agiamo eagiremo dipende dall’idea che ci faccia-mo del domani. Per questo, se incontrate Picabo, diteleche il 16 febbraio 2095 o un altro futuronon possono essere fotografati ma soloimmaginati, perché ogni nostra azionepuò ancora modificarli. nnn

Penelope, Orwelle Noè

Il 16 febbraio 2095 è un brutto gior-no per Penelope. Esplode la crisienergetica globale. D’altronde se lo

aspettava: sei anni prima il Pacific TrashVortex (immensa marea di rifiuti putre-fatti) ha unito le spiagge di Stati Uniti eAsia. Alle prime righe di Picabo Swayne;le storie della camera oscura (Fanucci,2011) lo scenario catastrofico è già de-lineato; ma il romanzo di AlessandroGatti e Manuela Salvi - all’esordio comecoppia letteraria - riserva un finale spiaz-zante. La Picabo del titolo è la figlia diPenelope, 16 anni: dunque sta per spo-sarsi perché a Coldbay vige la legge delle3 P: «presente, procreazione, produzio-ne». Per presente s’intende che è vietatooccuparsi del passato o immaginare fu-turi. Ed è questo forse il punto più inte-ressante del libro.

«Chi non spera quello che non sembra sperabilenon potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fattodiventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato, e a cui non porta nessuna strada».Eraclito

Un romanzo che subito si dichiara dalleparti del 1984 orwelliano. Anzi Pic tro-verà proprio quel libro (vietato e senzacopertina) e sarà una sorta di amico sag-gio e di contro-canto. Con tutte le diffe-renze del caso: Picabo, ad esempio, nonincontra solo ratti crudeli ma anche undelizioso topino-messaggero, quasi undeus ex machina.La camera oscura del sottotitolo è unamacchina fotografica che può mostrareil passato e con la quale Picabo rompe iltabù dell’eterno presente. Allora la ra-gazza decide di fotografare anche il fu-turo... Ci riuscirà?Non un capolavoro, ma un romanzo checattura. Da consigliare a chi apprezza labuona fantascienza ma anche a quattrocategorie particolari di persone: chi sidroga di cioccolata; chi non ha paura

a cura di Dibbì[email protected]

domani è accaduto

Se volete leggermi sul mio blog: http://danielebarbieri.

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Page 38: IL MENSILE DELL’EDUCAZIONE INTERCULTURALE

Barbara Alunni

La cultura di accoglimentopuò essere sollecitata dal-la lettura di libri come Ro-

binson Crusoe di Daniel Defoe,I viaggi di Gulliver di JonathanSwift e Il Piccolo Principe di An-toine De Saint-Exupéry. Il primotesto mostra la presunzionedell’occidentale, che, ritenendo-si il detentore della civiltà, si sen-te in dovere di trasmetterla almondo, attraverso l’assimilazio-ne della cultura altrui alla pro-pria. L’atteggiamento di Robin-son è di tolleranza nei confrontidelle altre culture. La secondaopera rappresenta l’altra attitudi-ne dei «bianchi»: l’interessamen-to agli altri per studiarli, cono-scerli ed interpretarli. Gulliversperimenta il relativismo cultura-le, riconoscendone le ragioni,ma senza realizzare una effettivaparità. Rispetto all’alterità assu-me una posizione liminale, attra-

verso la quale si fa osservatorecurioso degli altri. Il Piccolo Principe, invece, fa ve-dere come dal contatto con la dif-ferenza razziale, culturale ed et-nica può scaturire, all’internodell’interdipendenza, un profon-do legame in reciproca parità.Lasciandosi addomesticare, ci sipuò relazionare restando se stes-si. Nel cammino verso l’identitàculturale come accettazione, ac-coglimento dell’altro, passandoattraverso la tolleranza di cui par-la Defoe e il relativismo che vaoltre la solidarietà di Swift, si ar-riva all’addomesticamento di DeSaint-Exupéry, che GualtieroHarrison traduce con il termineprovocatorio di «antisolidarietà».Il concetto di solidarietà ha un al-to grado di ambivalenza ed inde-terminatezza. L’addomestica-mento del Piccolo Principe puòessere definito antisolidarietà, se

per solidarietà s’intende una tap-pa intermedia, un passaggio dal-la richiesta di tolleranza alla ela-borazione dei codici dei dirittiumani e sociali, nel camminoverso l’ecumenismo laico. Inquesto senso solidarietà signifi-ca il farsi prossimo del Buon Sa-maritano, mentre il lasciarsi ad-domesticare del Piccolo Princi-pe costituisce il prerequisito perla situazione esistenziale dell’ap-proccio all’altro. È in tal sensoche il volontariato - come rilevaGualtiero Harrison - è una rispo-sta all’emergenza data dall’alte-rità, prospettandosi come antiso-lidarietà. Il concetto di collabo-razione, invece - come sostieneVittorio Mathieu -, può estendersifino ad abbracciare l’umanità in-tera, superando la tolleranza edanche la solidarietà, che restaghettizzante contrappositiva.È necessario prendere coscien-za che oggi i gruppi umani sonolegati, sempre più, fra loro, inuno stretto rapporto di interdi-pendenza: è l’evidenza dei fatti arichiederlo, non il dovere moraleo la generosità. I barbari, gli altri,nel tempo e nello spazio, siamociascuno di noi e non gli stranierio gli emarginati.Attualmente, poi, l’idea di un ca-taclisma generale provocato dal-l’uomo, non è più pura fantasia.Risulta sempre più evidente co-me, con il passare del tempo, lanostra speranza di sopravviven-za sia legata ad una socialità chepossa abbracciare tutti i gruppi,le società e le nazioni.Su questa coscienza di destinocomune è possibile fondareun’educazione che valorizzi e ri-spetti gli altri, elaborando unametodologia non casuale, chesuperi la semplice tolleranza esolidarietà, per una pratica so-ciale di autentica condivisioneumana. nnn

L’antisolidarietàDalla tolleranza alla collaborazione

BarbaraAlunniè laureata inlettere conindirizzoantropologicopressol’Universitàdegli Studi diPerugia. Ha svoltoincarichi perl’Unicef,attualmente èimpegnata inpubblicazioni.

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Domenico La Marca

Nei mesi scorsi, la Coope-rativa sociale Arcobale-no di Foggia ha aderito

all’iniziativa di avviare sul proprioterritorio campi di lavoro interna-zionali: giovani da tutto il mondoaccettano di dare una mano perla realizzazione di progetti, inizia-tive, attività, vivendo per una set-timana, un mese... esperienze divita comune con giovani prove-nienti da diverse parti del mon-do. A Foggia, grazie alla collabo-razione degli amici dell’Associa-zione Cantiere Giovani di Fratta-maggiore (Na), abbiamo apertoun cantiere per l’animazione diuna settimana interculturalepresso il nostro centro giovanile:giovani provenienti da Spagna,Corea, Ucraina si sono uniti ainostri animatori per far conosce-re con giochi e attività il loro pae-se. Un’esperienza importanteche continueremo a condivideree a sostenere: attivare cantieri in-terculturali vuol dire avviare unarivoluzione positiva. Si tratta ditermini pericolosi su cui mi pia-cerebbe soffermarmi: cantieri,intercultura e rivoluzione.

Il cantiere

Il termine cantiere richiama sicu-ramente l’immagine del lavorarecon gli altri, del costruire, dellafatica quotidiana del lavoro so-ciale. Lo abbiamo visto in questianni di attività con il Centro In-terculturale, nel lavoro con i gio-vani ed oggi lo vedo nel mio im-pegno presso il Villaggio Don

Bosco. Il lavoro sociale non è unlavoro che possa essere fatto dalsingolo operatore o dal singoloservizio che interviene su unutente o per un utente. Dio c’è,ma non sei tu! Oggi più che maile situazioni problematiche ci in-vitano a pensarci con gli altri percapire le difficoltà, per gestire leproblematiche, per individuarepercorsi e soluzioni possibili. Sevolete l’organizzazione dellostesso convegno oggi, ci diceche noi operatori sociali non pos-

siamo più permetterci di lavora-re da soli. Che è finito il tempodell’improvvisazione, che non èpiù tempo della politica del «con-tentino», del favore: il privato so-ciale non deve essere un optio-nal per l’ente pubblico… ma undegno protagonista. Lavorarecon gli altri vuol dire dare una let-tura condivisa di una problema-ticità e condividere la modalitàd’intervento, l’oggetto di lavoro,facilitare processi di correspon-sabilità, attivare la partecipazio-ne... Gli studiosi parlano di «co-costruire».Tutto questo non è un processo

spontaneo, non è un calcolo ma-tematico, dove due più due faquattro. Nel sociale spesso cidobbiamo accontentare anchedel tre perché è un ottimo risul-tato. Lavorare insieme vuol direconfrontarsi, accorgersi che ilnostro punto di vista è solo la vi-suale parziale di un punto. Cheesiste una multiformità di puntidi vista, d’interessi, di rappresen-tazioni. Vuol dire sbattere il nasocontro i blocchi, essere spiazzatidalle chiusure, minacciati dallacontrapposizione. Facilmente l’altro è visto più co-me minaccia che come partnernella costruzione... È più facileallora lasciare stare, andare an-che contro quella che sembra lanormale logica delle cose. Maattivare cantieri oggi diventa in-dispensabile e vitale.

La diminuzione delle risorse

E sono tre le ragioni che ci devo-no spingere a questa dinamicitàvitale: anzitutto chi lavora nei ser-vizi oggi fa i conti con l’aumentodelle problematicità e con la di-minuzione delle risorse econo-miche, sociali e culturali. Dellerisorse economiche sappiamomolto, mentre per quanto attiene

Perdiamoun po’ di

tempo adascoltare, a

parlareinsieme, a

lavorareinsieme, a

scegliereinsieme, a

giocareinsieme...

a cura di Eugenio Scardaccione | [email protected]

Cantieri interculturalie rivoluzioni positive

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le risorse sociali, da alcune ricer-che emerge che sono sempre dimeno quelli che accettano discommettere sul lavoro sociale esulla cultura. Assistiamo al venirmeno delle culture di cittadinan-za, del bene comune, mentreavanza la cultura del locale, pri-vatistica, egocentrica. Dobbiamodavvero ripensare il lavoro socia-le, inteso come un lavorare insie-me tra i servizi, con gli utenti, chenon sono così stupidi come qual-cuno crede. Oggi i nostri utenti hanno richie-ste precise, non amano la dipen-denza, e il nostro obiettivo nonpuò non essere che quello edu-cativo, favorire l’autonomia, ilprotagonismo… L’altro non è so-lo portatore di bisogni, ma di co-noscenze. Dobbiamo ribellarci ad ogni for-ma di assistenzialismo demen-ziale, dove il dovere è un optionale il tuo diritto un favore. Lavorareinsieme vuol dire lavorare con lasocietà. Tener conto non solo delsingolo, ma del contesto, che èla condizione fondamentale perl’attivazione di ogni processo diinclusione e di vero cambiamen-to. Ma il nostro cantiere oggi vuolessere anche interculturale.

Rivoluzione

Un cantiere interculturale è giàrivoluzione, perché ci aiuta acambiare il mondo più a misurad’uomo, perché trasforma le per-sone in agenti di cambiamento,con quella capacità di inciderenon solo sulle relazioni, ma sulcontesto del territorio. Si tratta di un modello di societàdi cui abbiamo perso le tracce,ma che è capace di mettere indiscussione l’ordine predefinito,di mettere in crisi gli stereotipi,quel modello che pone l’indivi-dualismo, la competizione alcentro. Oggi sono molto conten-

to per questo cambio di rotta delCentro Interculturale. Le nuovegenerazioni devono essere posteal centro dell’attenzione, perchénon possono più essere spetta-trici ma devono diventare prota-goniste. È tempo di fermarsi unpo’. Basta correre! Apriamo ilcantiere. Ma passeggiamo, come diceFranco Cassano, camminiamo,muoviamoci a piedi; avremo lapossibilità di vivere un territorio,godere la gioia dello stare insie-me, di dare attenzione ai partico-lari e accorgerci dell’altro, senti-re i suoi odori, leggere le sueemozioni. Perdiamo un po’ ditempo ad ascoltare, a parlare in-sieme, a lavorare insieme, a sce-gliere insieme, a giocare insie-me… perdiamo un po’ di tempoa camminare per crescere e aguadagnare tempo!

«Intercultura» non è un termine staticoIn questi anni abbiamo maturato laconvinzione che il termine intercultura non siauna parola statica, una parola ad uso econsumo solo degli studiosi e dei teorici. Il termine intercultura oggi è quotidianità,racchiude una tensione, una dinamicità.L’intercultura non può che essere un cantiereaperto di giorno e di notte e se volete ilcantiere così come lo abbiano descritto primanon può non essere interculturale. Il cantiereinterculturale è dinamico, comporta unpassaggio dall’individuale al collettivo eviceversa… perché l’incontro con l’altrocertamente non è facile, ma quando si verifica,è sempre fecondo, crea qualcosa di nuovo, cicambia, è la strada che ci permette dirispondere ad una delle grandi domande deinostri tempi: quale linguaggio comune?L’intercultura ci chiede una scelta: lo stare,sentire l’altro al mio fianco, incrociare il suosguardo, incontrarlo. Tutto questo permetteràquel dialogo fondamentale per tradurre idiversi modi di pensare, di sentire, ponendo inrelazione l’appartenenza al concetto dicomunità. L’ultimo termine è rivoluzione.

Lavorareinsieme

vuol direconfrontarsi

accorgersiche il nostro

punto divista è solo

la visualeparziale di

un punto

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Il teatro dell’Archivolto di Genovapresenta nella primavera 2012 unricco programma di eventi artistici

attorno alle tematiche interculturali conMediterranea 2011: Dialogues Inévita-bles Arte e dialogo interculturale. L’Afri-ca tra postcolonialismo e globalizzazio-ne; Arte e Globalizzazione con MansourCiss, artista visivo senegalese residentea Berlino, che s’interroga sul ruolo ac-quisito dagli artisti africani e dalla loroarte nel resto del mondo; Il mito del DioDenaro danza e musica, contemporaneaoccidentale e tradizionale Africana, fusiin un nuovo linguaggio comune. Clan-destini con la regia di Federica Santam-brogio. Parole e musica per ricordareche un clandestino non è un atto am-ministrativo ma una persona. Nel pro-gramma abbiamo anche la Banca del-l’Afro, installazione itinerante per soste-nere, in chiave simbolica, l’indipendenzaeconomica africana e Laboratoire Dè-berlinisation di Mansour Ciss, mostradedicata alla discriminazione razziale, aldifficile processo d’integrazione dei mi-granti, alle guerre della primavera arabae all’utopia della libera circolazione deicittadini nel mondo.È da segnalare, in particolare, uno spet-tacolo molto interessante previsto per il23 e 24 marzo 2012, Mi chiamo Arame sono italiano. Storie da Synagosyty diGabriele Vacis e Aram Kian, con la regiadi Gabriele Vacis. In bilico fra incanto,ironia e tragedia, Synagosyty raccontala storia dei nuovi italiani, i figli degli im-migrati: le «seconde generazioni». Unaclassica infanzia degli anni Ottanta, vis-suta nella periferia industriale di unagrande città del Nord, fra tegolini delMulino Bianco e compagni di scuolastrafottenti; una banale adolescenza an-

Mediterranea 2011Voci tra le spondeArte, musica e teatro

a cura di Nadia [email protected]

crea-azione

Per maggiori informazioni

Teatro Gustavo ModenaGenovaTel. 010.412135- 010.6592220 [email protected]

Per la segnalazione di eventi interculturali

scrivere [email protected]

lo zainetto pieno di bombe… tu ti met-teresti a ridere, no?… Ma se te lo dicoio? Un brivido ti viene, no? Solo perchésono basso e nero. Che poi non sononeanche tanto nero, al limite un po’ oli-vastro…».Attraverso la voce dell’attore protago-nista, Aram Kian, Gabriele Vacis raccon-ta l’esperienza dei figli degli immigrati,le cosiddette «seconde generazioni», co-struendo un testo che è uno stralcio divita e di memoria e, insieme, uno sguar-do al futuro di una società che impara,giorno per giorno, a dare un significatoall’aggettivo «multietnica».«Aram Kian, lo chiamano arabo, anchese è persiano; lo chiamano straniero, maè italiano. Davanti alle umiliazioni, il pa-dre abbassa la testa e si scusa; lui s’ar-rabbia. È una schizofrenia identitaria cheha provocato tragedie […], e in Italia fa-tichiamo a comprendere. Peccato, per-ché sulla seconda generazione ci gio-chiamo una fetta di futuro». (Beppe Se-vergnini) nnn

ni Novanta, condita di musica grunge,cortei studenteschi e serate in discoteca;una comune giovinezza a cavallo delnuovo secolo, fatta di inconcludenti an-ni universitari e lavoro che non si trova.Ritratto tipico di un trentenne italiano.Solo che, quando il trentenne in que-stione si chiama Aram e ha un padreiraniano, le cose si complicano un po’.«[...] Io sono uno di quelli che si riem-piono lo zainetto di esplosivo e fannosaltare la metropolitana di Londra… Seuno alto, biondo venisse qui a dirti: ho

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Lorenzo Luatti

saltafrontiera

R idere e sorridere fa bene, a partire daipiccoli. Quando è intelligente e creati-vo, l’umorismo si rivela un canale fe-

condo per lo sviluppo cognitivo dei bambini.È spiazzante, allena a meglio cogliere aspetti«altri» della realtà. Oggi il riso, o perlomenoil sorriso, abbonda tra le pagine della lettera-tura per l’infanzia: soddisfa sia il bisogno dievasione e di svago sia il desiderio di misurarsicon un’ironia demistificante e liberatoria.Contribuisce a sdrammatizzare e ridimensio-nare problemi grandi e piccoli.Come succede in Fortunatamente di RemyCharlip (orecchio acerbo, pp. 50), un libro de-licato e lieve nei disegni come nelle parole,che mette di buon umore. È la storia di Ned,un bambino al quale succede in una paginaqualcosa di fortunato, e nell’altra qualcosa disfortunato. La vita non è forse una lunga se-quenza di alti e bassi, di salite e discese, e ri-salite? L’importante è non arrendersi e andareavanti e fare i conti con la realtà. Ned corre,nuota, scappa, fatica e si fa valere per arrivare,quasi inconsapevolmente, alla sua festa dicompleanno. Il gioco del bianco e del neroche accompagna la buona e la cattiva sortedi Ned, giornate luminose e giornate grigie;lo sconforto sempre ironico e la gioia, la forzadi volontà, la sorpresa e le tante emozionidella storia sono visivamente colte nei disegnidi Charlip. Con l’espediente narrativo del rovesciamentodelle parti, con l’invenzione di una prospettivaassurda e divertente è costruito Anche la pe-cora Beppe vuole un omino di Kirsten Boie ePhilip Waechter (Aliberti, pp. 26), dove sonole pecore, animali considerati particolarmenteinclini a ricevere ordini e a muoversi in greggi,a tenere in gabbia e ad addomesticare uomi-ni. Quando finalmente la pecora Beppe ricevein dono un omino scopre di avere molto dafare: deve dargli da mangiare, pulire la gab-bietta, portarlo a passeggio. Un giorno l’omi-

no scappa nel bosco e… succede l’imprevisto. Unastoria simpatica che insegna l’amore e il rispettoper gli animali e il senso di responsabilità. Sul capovolgimento del punto di vista si basa an-che La vera storia dei tre porcellini (riproposta daZoolibri, pp. 40) scritto da Jon Sciezka e magnifi-camente illustrato da Lane Smith. La voce narranteè quella del Grande Lupo Cattivo (A. Wolf, appun-to), che in realtà non è per niente malefico comesi racconta in giro, ma solo inesorabilmente desti-nato, per natura, ad apprezzare pranzetti a basedi conigli, uccelli e teneri grassi maialini rosa. Unafavola ironica e divertente per abituare grandi epiccini a sentire sempre due campane, prima digiudicare. Un classico della risata, recentemente ripubblicato,è Abbaia George (Salani, pp. 36) di Jules Feiffer,scrittore, vignettista e autore di fumetti e cartoni.George è un cucciolo di cane, ma quando la mam-ma gli dice «Abbaia!» gli escono miagolii, grugniti,ragli, muggiti. Il veterinario gli guarda in gola e,sorpresa!, tira fuori un gatto, un maiale, un asino,una mucca. Finalmente George impara ad abbaia-re, finché incontra gli umani e… La storia non di-verte soltanto: insegna a riconoscere «l’altro» cheè in noi. Insegna a riflettere su come sia normaleche in ognuno di noi coabitino aspetti identitarimolteplici e differenti, che non devono spaventarci,ma al contrario devono poter trovare spazio e vocedentro noi, aiutandoci così a non perdere mai divista ciò che siamo. nnn

Il piaceredelle storie

Oggi il riso, operlomeno il sorriso,

abbonda tra lepagine della

letteratura perl’infanzia: soddisfa siail bisogno di evasione

e di svago sia ildesiderio di misurarsi

con un’ironiademistificante e

liberatoria

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Paolo Martini, Stefano DamianiGiallo smalvitoCarta Bianca editore, Faenza (Ra) 2011, pp. 120, euro 10.00

Due bei libri in sole 120 pagine. Il primo è un gran giallo - senza sangue - pieno di passione versogli esseri umani; quasi fiabesco eppure radicato nella realtà sotto i nostri occhi … anche se pochila vedono. Il secondo mini-libro inizia a pagina 107: un piccolo taccuino sulle «azioni importanti»,sulle relazioni, sulla necessità che l’azione sociale si nutra anche di sogni. Cercate dunque Giallo smalvito e consigliatelo a chi apprezza le belle storie, a chi gestisce librerie,a chi cerca buone notizie nell’epoca del (non) pensiero unico e del pessimismo obbligatorio. Suivocabolari «smalvito» non si trova: è un’espressione romagnola per dire «scolorito». Proprio comeil cerchio «stinto» nella copertina gialla dove una signora che non pare giovanissima e neppuresuper-sexy viene sollevata in aria da 11 palloncini. Un piacevolissimo romanzo breve, scritto (anzicesellato) da Paolo Martini e Stefano Damiani, pubblicato da Carta Bianca editore di Faenza suprogetto della cooperativa sociale Zerocento. Le ultime 12 pagine del volume raccontano, fuorida ogni tono celebrativo, proprio i 25 anni di questa coop che gioca un ruolo anche nel giallo«smalvito». In una guida «sociale» scrive John Roche che per gli anglosassoni è difficile compren-dere la sanguigna Romagna anche perché, da questa parti, «la realtà - non di rado - è moltomeno importante del gusto di raccontarla». Consiglia poi di andare a Bagnacavallo per conoscere«una piccola rivoluzione» di arzilli vecchietti, in corso dal 2003. Ed è proprio in mezzo al «Giardino

dei semplici» di Bagnacavallo che ciconducono dolcemente (e con ironiache ogni tanto oscilla verso il surreale)Martini e Damiani. Subito incontriamo una persona-eufe-mismo cioè un «diversamente abile»: inrealtà un minotauro, «metà uomo e me-tà carrozzina» e, siccome a volte vedecose che non ci sono, difficilmente verràcreduto quando soltanto lui si accorgedi quel che tutti gli altri non sanno ve-dere. Dalle prime pagine capiremo chedue carabinieri piuttosto simpatici (mapoco abituati alle indagini e ai riflettori)dovranno fare i conti con un giornalistache definire razzista è poco ma anchecon i «portatori sani dei si dice»Tutto ruota intorno all’improvvisa, indo-lore, misteriosa scomparsa di Cesira Ta-gliaferri, 83 anni. Un poliambulatorio

viene requisito per ascoltare i testimoni e subito ribattezzato Polinterrogatorio. Compare poi un im-migrato minorenne, dai più designato capro espiatorio. C’è l’assistente sociale Paola, in segretopoetessa («io di mestiere rammendo l’esistenza)». Incontriamo anche il Malavolti che in paese«hanno visto in lacrime solo quando è morto Pantani» ma che stavolta piange per le sue «paturnie»di proteggere un innocente. Con un botto imprevisto arriva Andrea Mingozzi, figlio della Cesirasparita... o, dice lui, sequestrata. Piombano poi a Bagnacavallo le telecamere di Chi l’ha visto? e unavoce misteriosa si fa viva per telefono. Intanto il maresciallo capo Fabio Fargnoli si arrovella su unastrana idea, che «non risolvere questo caso fosse un modo come un altro di fare giustizia». L’epilogogli darà ragione? Nulla si può dire delle 12 pagine finali se prima non avete letto - e dunque amato- questo giallo che è «smalvito» per scelta, non per scarsità di personaggi o di sorprese. Sono certo(ne conosco anche io) dell’esistenza di assistenti sociali come Paola che sussurrano versi di GiorgioCaproni nell’orecchio di marescialli come il malinconico Fargnoli. Ne servirebbero di più ma intantoascoltiamo quelle che ci sono... a Bagnacavallo e in molti altrove.

Daniele Barbieri

mediamondo

Un piacevolissimo romanzobreve, scritto (anzi cesellato)

da Paolo Martini e StefanoDamiani, pubblicato da

Carta Bianca editore di Faenza su progetto

della cooperativa socialeZerocento

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Francesco Garzone (a cura di)Walter Ferrarotti. Il pedagogista della «biodiversità»L’educazione che orienta nell’infinita complessitàElledici, Torino 2011, pp. 314, euro 20.00

Il volume costituisce un primo tentativo di presentazione del pensiero e dell’opera del pedagogistaWalter Ferrarotti per avviare un successivo lavoro di ricerca, rigoroso nel metodo ed approfonditonel contenuto, tale da collocare il nostro nella storia del pensiero pedagogico e dei servizi educativiper l’infanzia.Come in una fuga di Bach, emerge, si sviluppa ed incalza un tema ricorrente, il reci-proco inveramento tra ruolo professionale e vita, attraverso gli apporti degli autori, figure profes-sionali che l’hanno incontrato nel mondo della scuola: il direttore didattico Gianluigi Camera, ilprofessore universitario Francesco Garzone, l’insegnante di scuola dell’infanzia Candida Bertiond,le coordinatrici pedagogiche Nives Baro, Laura Bruno, Milva Capoia e Maria Teresa Serasso, chehanno ricostruito gli eventi principali della sua vita e delle sue realizzazioni. Nel volume si eviden-ziano, oltre alle note biografiche, i significati filosofici e pedagogici della sua opera, il suo impegno

nella Città di Torino per l’apertura e la qualificazione diservizi per i bambini: le scuole dell’infanzia, i nidi, icentri per bambini e genitori, l’attivazione di risorse peri diversamente abili, la formazione degli insegnanti conparticolare riferimento al gioco, all’ambiente, all’arte ealle varie differenze, tra cui la pluralità delle culture.Tale formazione si è realizzata con l’istituzione dei Centridi Documentazione e dei Laboratori e con la stesura,condivisa con i collaboratori, di documenti pedagogiciquali il «Quadro dinamico dello sviluppo individuale», il«Quadro di riferimento per la programmazione educa-tiva nella scuola per l’infanzia», il «Quadro di riferimentodelle attività educative per la prima infanzia». Attraversoi contributi contenuti nel volume, si staglia la figura diun pedagogista dalla vitalità inesauribile, dalle operemultiformi, dalla vita connotata da tanti affetti e daampi interessi, dal pensiero derivante da solide radiciculturali e, contestualmente, in sintonia con i problemi

del suo tempo. Paolo Bianchini, nella prefazione al volume, afferma che è «grazie a questo sforzodi contestualizzazione che emerge pienamente la personalità di Walter Ferrarotti, un uomo che hasaputo cambiare se stesso e l’istituzione nella quale ha lavorato senza entrare in conflitto con essa,o meglio riuscendo a gestire le difficoltà connesse a ogni trasformazione».Il volume, in conclusione, non è un tradizionale saggio o un testo storico o un manuale o una te-stimonianza; è un’originale composizione che contiene tali generi ed altri ancora, che è destinatasia agli insegnanti e agli educatori della fascia 0-6 anni, sia agli studiosi di scienze dell’educazione,sia ancora a tutti coloro che hanno avuto l’onore di collaborare con lui o che, pur non avendolo co-nosciuto, desiderano dare continuità e reinvestire il suo patrimonio di passioni, sapienza e creatività.Il ricavato dalla vendita del volume sarà totalmente devoluto per finanziare una borsa di studio in-titolata a Walter Ferrarotti.

Milva Capoia

I libri possono essere richiesti alla Libreria dei Popoli che fa servizio di spedizione postale, con sconto del 10% per i possessori della CEM Card.

Via Piamarta 9 - 25121 Brescia - tel. 030.3772780 - fax 030.3772781www.saveriani.bs.it/libreria - [email protected]

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mediamondo

Nel volume sievidenziano, oltre alle

note biografiche, isignificati filosofici e

pedagogici della suaopera, il suo impegno

nella Città di Torinoper l’apertura e la

qualificazione diservizi per i bambini

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Ben ritrovate e ben ritrovati. I suoni organizzatidella cultura accademica europea/occidentalenon sono in genere argomento e meta dei no-

stri viaggi sonori interculturali. Ho tuttavia deciso dipredisporre un breve percorso che ci condurrà, in unaserie di articoli, ad evidenziare alcune produzioni so-nore molto importanti e significative nell’ambito delnostro incontro con culture musicali altre. Anche seaffronterò più specificatamente la dimensione ed ilcontesto contemporaneo, non è possibile avvicinarsiall’argomento senza un rapido passaggio storico-cul-turale. È innegabile che la nostra ricca ed estrema-mente elaborata cultura, non solo musicale, si ponee si è soprattutto posta in passato con sufficienza, senon supponenza, nei confronti delle culture musicalialtre, considerate primitive, semplici (se non sempli-ciotte), e quindi inevitabilmente inferiori e subalterne.Ciò nonostante va comunque ricordato al nostro smi-surato e sopravvalutato ego che la nostra musica stru-mentale non avrebbe avuto inizio senza l’arrivo, giànel primo medioevo europeo, degli strumenti musicalinati ed in uso da molti secoli nell’Asia occidentale,abitata a quel tempo da ex barbari, musulmani edebrei, anche loro diventati infedeli. Fortunatamentenel Medioevo l’Europa presentava anche contesti edaree territoriali a carattere multiculturale, soprattuttonella penisola iberica nel periodo che va dal X al XIIIsecolo. L’incontro, la convivenza e lo scambio tra cul-ture diverse generò una dimensione interculturale nel-la quale strumenti musicali giunti dal mondo arabo-islamico si interfacciarono con la cultura musicale eu-ropea, a quel tempo sostanzialmente ed esclusiva-mente dedita alla dimensione sonora vocale (cantogregoriano), dando origine a quel processo di elabo-razione strumentale e concettuale che porterà in po-chi secoli la musica della forse non troppo vecchiaEuropa agli splendori che conosciamo.

Il Carnevalee la QuaresimaL’eterno conflitto tra disordine ed ordine, tra profano e sacro, tra rumore e suono

Trovatori e menestrelli

I veri artefici di questa fusione ed integrazione furono indubbia-mente i trovatori, o meglio trovieri. Voce del popolo, musicisti liberie nomadi come le loro musiche, essi irruppero con grande faticasulla scena dominata dall’oscurantismo ed esclusivismo culturale emusicale del medioevo gregoriano, ripristinando l’alternanza tra sa-cro e profano, e ponendo soprattutto le basi per un ponte tra i dueopposti, solo ideologicamente in antitesi. Nell’arco di tre secoli tut-tavia, tra il XIV ed il XVI sec., vennero soppiantati dai menestrelli,musicisti-funzionari specializzati e servi. La rappresentazione ritornaad essere appannaggio esclusivo del potere dominante.Fino al Novecento, infatti, la cultura colta ed accademica che ha do-minato lo sviluppo della musica in Europa ha volutamente esclusoed emarginato le altre musiche; un altre totalizzante, in quantocomprendeva sia le musiche extraeuropee sia quelle popolari o ex-tracolte presenti nell’eterogenea dimensione culturale europea. Di fatto proprio tale esclusione ha permesso la sopravvivenza, in di-

Luciano Bosi

«Ci sono due modiper integrare isistemi. Uno consistenell’imporre modelliuniformi. L’altro è non integrare, non avere modelliintegratori, ma usare adattatoriintelligenti».ALVIN TOFFLER

organizzatinuovi suoni

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Page 46: IL MENSILE DELL’EDUCAZIONE INTERCULTURALE

verse aree tradizionali mediterranee e dell’Europa conti-nentale, di strumenti e forme musicali popolari che sa-rebbero altrimenti scomparse nell’omologazione coattaalla musica colta, e che possono oggi riportarci a quelladimensione sonora senza confini che caratterizzò e diedeimpulso alla musica europea. Per nostra grande fortunala dimensione culturale tradizionale conserva con gioiae passione il passato.

I moderni musicisti-ricercatori

I moderni e rigorosi musicisti-ricercatori, da decenni im-pegnati nel recupero e nella valorizzazione delle prassiesecutive della musica antica o medievale di caratterestrumentale, attingono a piene mani agli strumenti po-polari sopravvissuti, del tutto simili, se non uguali, a quel-li in uso nel medioevo, potendo contare anche su un’am-pia disponibilità di documenti redazionali ed iconograficidell’epoca da utilizzare come materiale di confronto.Per concludere, vista la vasta produzione discograficache da molti anni viene riproposta e reinterpretata da fi-lologi, musicisti e formazioni di consolidata esperienza,ritengo più opportuno indicare qui e nel prossimo nu-mero una selezione di composizioni ed eventuali pubbli-cazioni discografiche inerenti al periodo che va dal XIIsecolo fino al primo Novecento, davvero essenziale per800 anni di suoni e silenzi organizzati! In seguito vogliodedicarmi, come già sopra premesso, ad approfondirealcuni autori contemporanei dediti alla frequentazionedi musiche altre. A questo punto credo sia il caso di con-gedarmi augurando una buona ricerca e un buon ascoltoa tutte e a tutti.

Indicazioni compositive e discografiche Prima parte: XII-XIV secolo

Un documento fondamentale per la musica antica ècostituito dalla nota raccolta dei Carmina Burana,redatta probabilmente in Carinzia. È costituita daliriche scritte per lo più in latino e per la maggior parteda autori anonimi, risalenti al periodo che va dalla finedell’XI secolo alla prima metà del XIII secolo. Durante ilprocesso di secolarizzazione dei conventi della Baviera,nel 1803, il manoscritto originale venne acquisito dallaBiblioteca Centrale Reale della Corte a Monaco.Si tratta di testi goliardici, satirici e d’amore,raramente religiosi, predisposti perl’accompagnamento musicale. Curioso è il fatto chequesti componimenti profani, scritti ed eseguiti daitrovatori, siano stati raccolti per lo più da vescovi oecclesiastici della regione. Documenti contemporaneiparalleli confermano l’eterogenea provenienzageografica: Germania, Svizzera, Inghilterra, Scozia,Francia, Occitania, Catalogna e Castiglia.Impagabile la versione originale ed integrale dellaraccolta curata e diretta da René Clemencic nel 1974ed eseguita con strumenti dell’epoca dal ClemencicConsort, pubblicata all’epoca dalla Harmonia Mundi in4 lp, ora disponibile anche in cd.Altri importanti autori del periodo, spesso riproposti,sono: Peire Vidal (c.1140-1205), uno dei piùcelebri trovatori provenzali. Grande viaggiatore, portòla sua musica anche in Italia, Palestina, Ungheria eMalta. Raimbaut de Vaqueiras (1155-1207), famosoanche per la sua celebre e celebrata Kalenda maia.Adam de la Halle (c. 1237-1288), poeta e musicistafrancese, considerato il precursore dell’opera comica etra i primi autori di teatro profano.Le raccolte di componimenti vocali e strumentali delXIII secolo più indagate e riproposte in arrangiamentipiù o meno filologici sono: Cantigas de Santa Maria eFiestas de Santa Maria (Alfonso X El Sabio - Spagna);Laudario di Cortona (anonimo - Italia).Delle Cantigas in particolare è reperibile un’ampiaproduzione discografica.Per quanto riguarda i compositori del fecondo periododell’Ars Nova italiana e francese (XIV secolo) è curiososegnalare - a proposito di sacro e di profano - che i piùnoti erano chierici o avevano stretti legami con laChiesa; alcuni, come Philippe de Vitry, diventaronoaddirittura vescovi, o come Jacopo da Bologna, priori,o ancora organisti di chiesa come Francesco Landini,autore della splendida Ecco la primavera.La musica di questo periodo è essenzialmente profana,anche in conseguenza della Bolla Papale del 1324-25,che bandì dalla Chiesa la polifonia. Proprio per questola musica fiorì nelle corti del potere temporale diFrancia e in Italia. Concluderei ricordando alcunedanze rinascimentali composte da anonimi tra il XV eil XVI secolo, molto frequentate da chi pratica musicaantica: Lamento di Tristano/Rotta; Istampita Ghaetta,Trotto; ed il notissimo Saltarello.

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Fino al Novecento lacultura colta edaccademica che hadominato lo sviluppodella musica in Europaha volutamente esclusoed emarginato le altremusiche; un altretotalizzante, in quantocomprendeva sia lemusiche extraeuropeesia quelle popolari oextracolte presentinell’eterogeneadimensione culturaleeuropea

organizzatinuovi suoni

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La storia. Marcel fa il lustrascarpe a LeHavre e divide la sua vita con la moglieArletty; la sua giornata è scandita dalleore sui marciapiedi a servire i passanti, iritorni a casa alla sera e il bicchiere al bi-strot. La sua è una vita dignitosa e i suoirapporti in famiglia tranquilli. Un giorno,durante la pausa per il panino da casa,scopre nascosto nell’acqua, dietro un pi-lone del porto, Idrissa, giovanissimoclandestino, appena sfuggito «miraco-losamente» all’intervento della polizia.Marcel, che ha la moglie da poco rico-verata all’ospedale per una grave ma-lattia, lo nasconde a casa sua e si dà dafare per organizzarne clandestinamenteil passaggio in Inghilterra, dove vive lamadre del ragazzino.

Il film. Che cosa aspettarsi in questoMiracolo a Le Havre da uno come Kau-rismäki, nome sconosciuto ai più o daipiù tenuto a debita distanza perché re-gista ai margini e sostenuto molto dallacritica ma poco dal mercato? Un film diparticolare bellezza visiva, colorato a pa-stello con una fotografia capace di met-tere fisicamente e ontologicamente l’uo-mo al centro della vicenda e del mondo;un film dove la macchina da presa, sem-pre la stessa 35 mm Arriflex acquistatada Ingmar Bergman, non si agita, simuove pochissimo, non trucca e nonforza o suggerisce sottolineature emo-tive; un film dove i sentimenti sono rac-colti e protetti e gli attori recitano l’es-senziale sufficiente a comunicare ma do-ve il coinvolgimento, prima estetico epoi emotivo, dello spettatore aumentadi sequenza in sequenza.La storia è semplice, quasi già detta sesi pensa al «miracolo» del titolo: un ex

Miracolo a Le HavreLe Havre

scrittore e bohemien, che si è costruitoa Le Havre, con la dolce moglie Arletty,una nuova vita facendo il lustrascarpeed evitando il coinvolgimento con ciòche accade e con i commercianti credi-tori del quartiere, incontra un giovanis-simo gabonese clandestino, Idrissa, edecide di aiutarlo a ricongiungersi conla madre in Inghilterra. La favola si com-pie, anche con qualcosa in più. D’altraparte tutto fin dall’inizio va per il meglio,pur in questo mondo violento nelle uc-cisioni per rapina e per i calcioni dei ne-gozianti di scarpe ai suoi attrezzi di la-voro, per l’afflusso di clandestini rac-chiusi in container, per le denunce delvicino sulla presenza di un immigrato ir-regolare, per il cocciuto impegno delquestore di dover assolutamente acciuf-fare quel ragazzino, ma il poliziotto tut-to nero ha pure un cuore e i commer-cianti di quartiere, anche se creditori neiconfronti di Marcel, lo aiutano senza esi-tazione. Anche il suo dolcissimo cane si

Regia, soggetto e sceneggiaturaAki Kaurismäki

InterpretiAndré Wilms (Marcel Marx), Kati Outinen (Arletty), Jean PierreDarroussin (commissario Monet),Blondin Miguel (Idrissa)

Finlandia/Francia, 2011. 93min. BIM Distribuzione.

Lino [email protected]

cinema

La storia èsemplice, un ex

scrittore ebohemien, che si è

costruito a Le Havreuna nuova vita

facendo illustrascarpeincontra un

giovanissimogabonese

clandestino, Idrissa,e decide di aiutarlo

a ricongiungersicon la madre in

Inghilterra

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Il registaRegista riconoscibile per la coerenza del suo stile, aman-te della bottiglia e del fumo, capace di rifiutare due no-mination all’Oscar per protesta contro la politica mili-taristica degli Usa e di non presentarsi a ritirare il Premio«Gran Torino», perché a consegnarlo era Penelope Cruz.Aki Kaurismäki nato nell’aprile 1957 a Orimattila, Fin-landia, è fin da giovanissimo un cinefilo e un lettore ac-canito, a quattro anni il suo primo film di Tarzan e ilprimo libro di Topolino. Interrotta l’università, si man-tiene, come egli stesso ricorda, facendo almeno 40 la-vori diversi. Bocciato alla Scuola finlandese di cinema,perché troppo cinico, entra comunque in quel mondonel 1981 come attore e co-sceneggiatore in un film delfratello Mika. Il suo debutto alla regia è nel 1983 conDelitto e castigo da Dostoevskij. La sua produzione al-terna pellicole surreali, come Leningrad Cowboys GoAmerica (1989), Leningrad Cowboys Meet Moses(1994), Tatjana (1994), ad altre di adattamento di opereletterarie, Amleto nel mondo degli affari (1987), Vitada bohème (1992), Juha (1999), ad altre ancora cheraccontano, in modo a volte straniante, storie di prole-tariato come La fiammiferaia (1989), Ho affittato unkiller (1990), Nuvole in viaggio (1996). Il primo grandericonoscimento per il suo lavoro arriva nel 2002 conL’uomo senza passato che a Cannes vince il Grand PrixSpeciale della Giuria. Luci della sera (2006) è un nuovosuccesso di critica. Nel 2011 sempre a Cannes con Mi-racolo a le Havre vince il premio Fipresci (Fédération In-ternational de la Press Cinématographique) per il mi-glior film in concorso ed è inoltre selezionato comerappresentante della Finlandia nella competizione perl’Oscar come miglior film straniero; riceve quattro no-mination agli European Film Award.

ferenze della vita; il racconto di un mi-racolo non consolatorio ma che inveceprotesta contro ogni forma di potereche costringe i poveri ad attraversare ilmondo in un container e ad impediread un bambino di ricongiungersi con lamadre. Un miracolo che avviene perchégli uomini si muovono e rischiano e per-ché l’amore colora di bello anche i quar-tieri più squallidi e le situazioni più diffi-cile e … impossibili.Questo film può essere una bellissimasorpresa ed un invito, più che motivato,a visionare gli altri lavori di Kaurismäki,

soprattutto quelli della trilogia dei «per-denti» (Nuvole in viaggio, L’uomo senzapassato, Luci della sera), film che hannoper protagonisti emarginati, poveri o di-soccupati, esistenze nella banalità delquotidiano, raccontati con uno stile chenel ritmo e nell’espressività si adegua aquelle vite semplici a volte incapaci di dir-si. Una riflessione, infine, sul titolo italia-no modificato rispetto all’originale. Midomando spesso perché i distributori ita-liani si arroghino il diritto d’intervento sultitolo in casi, come questo, non necessarimentre in altri, soprattutto nelle titola-zioni in inglese, lascino lo spettatore nel-l’incomprensione più assoluta. Mah…!Nel nostro caso, l’aggiunta di Miracolosvela le intenzioni dell’autore e suggeri-sce un finale positivo, privando così lospettatore di una sua libertà di porsi do-mande e vivere attese rispetto alle possi-bili soluzioni della vicenda. nnn

ventando capace di coinvolgere altri nel-la sua impresa, arrivando a far riavvici-nare due innamorati per poter organiz-zare il concerto rock di un vecchio divolocale. Una storia che ha il tono dellafavola ma solidamente ancorata alle sof-

cinema

schiera fin da subito dalla parte delbambino.Il film è la storia del cambiamento diMarcel che, se nella prima sequenzafugge di fronte alla realtà violenta, dopol’incontro con Idrissa si trasforma, di-

La parolaal regista

«La rabbia non mi appartiene enon credo nel cinema troppo

arrabbiato. L’idea iniziale di LeHavre viene dalla nostalgia per gli

anni del dopoguerra, quando lepersone si guardavano negli

occhi e le porte non eranosbarrate. Ma provo vergogna percome trattiamo gli immigrati, in

tutti i paesi europei».Intervista di M. P. Fusco

«Ho scelto di fare un filmsull’immigrazione perché la

situazione dei rifugiati insulta lamia dignità. C’è una totaleindifferenza da parte delle

autorità su questa situazione,anche in Italia: basta vedere

quello che succede ogni estate aLampedusa. Ho realizzato questo

film non per dare soluzioni aqueste problematiche, non è

questo il mio lavoro, anche se diquesti tempi sembra che non sia

il lavoro di nessuno. Per questomotivo, il problema

dell’immigrazione non ha ancoratrovato una soluzione».

Intervista di M. L. Papaleo

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I due rami della mondialitàe della globalizzazionee i pescatori di granchi

arnaldo de [email protected]

i paradossi

Leggo in Luciano Gallino che nel 2007 i signori del-la finanza hanno comprato-e-venduto capitali eazioni pari a 4.050 trilioni di dollari, che corrispon-

dono a 75 volte il Pil del mondo (cioè 75 volte la ricchez-za prodotta nel mondo!). Insomma, essi hanno fatto affarie guadagnato montagne di denaro reale con denaro vir-tuale, senza nulla produrre, né pagare tasse. Questo è un paradosso talmente grande che non ne co-nosco di maggiori. È come se io facessi un viaggio vir-tuale in Cina, e dopo nove mesi ricevessi la notizia chesono diventato papà di una dozzina di bebè italo-cinesi.È il mondo dei furbi, pardon, dei furti. Mettiamo che siadovuto a un vizio di sistema e non a cattiveria criminale(ne dubito, perché essi sanno che gli impoveriti del terzomondo muoiono); in ogni caso questo vizio squalifica de-

finitivamente il sistema attua-le, neoliberale, finanziario. Da direttore del CEM, erodiventato una Cassandra,sempre a prevederne il crol-lo. Avevo elaborato una con-ferenza dove spiegavo che il«tronco» dell’umanità s’erasviluppato molto, grazie allatecnica, ai media, ai mezzi ditrasporto, all’interdipenden-za..., con un fenomeno di«pianetarizzazione» chiama-to «villaggio globale». Eraqualcosa di provvidenzialeche, chissà?, stava nel cuoredella materia, come pensava

Teillard de Chardin. Poi da questo tronco spuntaronodue rami: la mondialità e la globalizzazione. Mondialità vuol dire: convivialità delle differenze, incon-tro delle culture, dialogo tra le religioni, solidarietà, sen-so civico, giustizia, pace... Globalizzazione vuol dire, insintesi, tre elementi: pensiero unico, mercato globale elibero flusso dei capitali. La globalizzazione s’è presen-tata come la quintessenza del progresso, ha usurpato

alla pianetarizzazione la paternità dello sviluppo, haignorato giustizia e solidarietà. Ha predicato che i suoitre elementi funzionano da pilota automatico, insupera-bile per guidare la navicella spaziale del nostro pianeta(come nel film 2001 Odissea dello spazio)... Ma in realtàci hanno già portato fuori orbita. Io non potevo pretendere di essere creduto, del restocome Cassandra. Ma c’erano altri che profetizzavano lafine ingloriosa della globalizzazione col suo capitalismoneoliberale e finanziario. Ultimamente s’è aggiunta unavoce che non conoscevamo come profetica. Nella suaprolusione al Consiglio permanente della CEI, il 23 gen-naio scorso, il Presidente della CEI, cardinale AngeloBagnasco ha parlato di crisi economica e non solo. Ha detto che siamo governati non da una sana politicama da «reti e coaguli soprannazionali». «La democraziafin qui conosciuta, con la sovranità dei cittadini... è ormaiusurpata dall’imperiosità del mercato». «Non è possibilevivere fluttuando ogni giorno nella stretta di mani invisi-bili e ferree, voluttuose di spadroneggiare sul mondo».Si riferisce alle mani dell’economia finanziaria e dellatecnocrazia transnazionale anonima. «Quando il criterioè il guadagno più alto e facile nel tempo più breve pos-sibile, allora il profitto non è più giusto, ma diventa scopoa se stesso, giocando sulla vita degli uomini e dei popo-li». Bagnasco ha denunciato le privatizzazioni che inde-boliscono gli Stati e i sistemi che sostengono la vita, co-me pensioni, sanità, scuola... Ha invitato a rendersi contoche, purtroppo, «siamo entrati in una fase inedita dellavicenda umana». Ma qui i pescatori di granchi stannouscendo per la raccolta; hanno sempre più il colore mu-tante dei granchi; e hanno montato da sempre la loro re-sistenza inerziale. nnn

I signori dellafinanza hanno

fatto affari eguadagnatomontagne didenaro reale

con denarovirtuale, senza

nulla produrre,né pagare tasse

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L’avarizia

rubem alvesla pagina di

le immagini stereotipate dell’avaro come di colui chenasconde e accumula denaro. Quell’avaro è un pove-raccio. Fa male a poca gente. In realtà è lui il primo adesserne danneggiato. Tutti fuggono dalla sua compa-gnia. Egli è ridicolo. L’avarizia non è questo. Essa, inve-ce, è una qualità spirituale. Avarizia è malattia degli oc-chi. Bernardo Soares ha detto che noi non vediamo realmente quello che vediamo, ma quello che siamo.L’avaro non vede le cose; egli vede quello che questevalgono come denaro: la casa, l’auto, il figlio. Enon pensate che queste cose valgano soloper i ricchi... I poveri avari vedono anch’essile persone in funzione del denaro che se sipuò ricavare.Pensate un attimo alle miserie del Brasile.Non sono prodotte dall’ira, dalla pigrizia,dall’invidia, dalla gola, dall’arroganza odalla lussuria. Questi demoni sono de-boli. Le nostre miserie sono prodottedall’avarizia. I corrotti guardanoalla nazione e pensano: «dadove e come posso ricavaredenaro?». Gli orrori delleguerre e dei genocidi sono pro-dotti dall’uso di armi pensate dauna intelligenza scientifica, fab-bricate da cervelli pensanti evendute per amore del lucro. Chipensa e vende armi non pensa al-la sofferenza che queste produco-no. Chi è mosso dall’avarizia nonha occhi e neppure cuore per sen-tire la sofferenza degli altri, perchéquesti gli appaiono solo per il lorovalore economico. L’avarizia elimi-na la capacità della compassione.E, con questo, la nostra condizio-ne di esseri umani. nnn

Dice il testo sacro che lo Spirito condusse Gesùnel deserto per essere tentato dal demonio.Questa è la missione dei demoni: sono ministri

di Dio incaricati di verificare di che pasta è fatta l’anima.La tentazione, che è lo strumento per compiere la loromissione, si presenta solo nel luogo dove risiede il de-siderio. Il santo che resiste alla tentazione in realtà con-fessa: «In me abita questo desiderio che mi tenta». Nel deserto, il demonio iniziò il test dal desiderio più in-nocente, più naturale. Gesù aveva fame dopo aver di-giunato per quaranta giorni. Voleva mangiare. Sicura-mente si sognava il pane anche di notte. Il demonio glisuggerisce: «Un piccolo miracolo e si risolverà tutto. Tuhai potere. Devi solamente comandare e le pietre si tra-sformeranno in pani». Che Dio buono è questo, a nostradisposizione per soddisfare i nostri desideri. Ma il Diodi Gesù non è così. Egli non può essere invocato per li-berarci dai problemi.«Non di solo pane vive l’uomo, ma delle parole che esco-no dalla bocca di Dio…» rispose Gesù. Il demonio, allo-ra, percepì che quello non era il luogo adatto. Si trasferìallora per quel luogo dove abitano i desideri più futili. Ipeggiori peccati non sono delle carne, ma dello spirito.«Prova a immaginarti sul pinnacolo del tempio. Lì sottoil popolo che grida “Salta, salta!”. E tu ti butti e a quelpunto succede l’insperato: arrivano gli angeli e ti porta-no sulle loro ali. Sarà il trionfo, la consacrazione! Tutti ticrederanno e ti seguiranno!». Gesù rispose che non sideve tentare Dio per la realizzazione dei nostri desideri.Allora il demonio ricorre al più profondo dei desideriche esistono nell’animo umano: il potere. Porta Gesù sudi un alto monte, gli mostra tutti i regni del mondo e lesue ricchezze e dice: «Tutto questo ti darò se prostratomi adorerai!». Chi possiede il denaro possiede tutte le cose. Il denaroè il dio del mondo. Vinicus de Morais inizia il poema«L’operaio in costruzione» citando questo testo del Van-gelo. L’operaio, in alto sul monte, tentato dalle ricchezze.Perché il fascino del denaro non abita solo nel cuoredei ricchi. Abita anche nel cuore dei poveri. Dimentica

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Traduzione di Marco Dal Corso

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cem_marzo_2012_copertina 09/03/2012 12.11 Pagina 3

Page 52: IL MENSILE DELL’EDUCAZIONE INTERCULTURALE

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Claudio MongeFranco ValentiAnna Chiara VallePaolo Boschini

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