il morbo - anita book

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IL MORBO di Anita Book Non vi dirò se ciò che sto per narrarvi sia davvero accaduto oppure se sia il prodotto di un lungo e controverso processo di trasmissione e rielaborazione orale. Se lo facessi andrei a infrangere quel delicato meccanismo di empatia e suggestione psicologica indispensabile per la buona riuscita di una storia. Permettetemi, però, di darvi due raccomandazioni. Due sole. Chi soffre di un cuore particolarmente sensibile è pregato di mettere da parte ogni insistente curiosità nei confronti di questo racconto e di dedicarsi ad altro; l’ultima cosa che desidero è nuocere alla vostra fragile salute. Il secondo avvertimento, invece, necessita una maggiore presa di coscienza e di un più alto senso di responsabilità: se un giorno doveste sentire pronunciare il mio nome dalla bocca di qualche saccente agnostico, fingetevi sordi e rimanete concentrati sui vostri affari. Quello che di importante ho da dirvi lo confesserò qui, in questa lettera; dopodiché, per una ragione che a voi non 1

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Il racconto horror della talentuosa Aita Book per lo Speciale Paranormal October, organizzato dal blog letterario Sangue d'inchiostro

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Page 1: Il morbo - Anita Book

IL MORBOdi Anita Book

Non vi dirò se ciò che sto per narrarvi sia davvero accaduto oppure se sia il prodotto di un lungo e controverso processo di trasmissione e rielaborazione orale. Se lo facessi andrei a infrangere quel delicato meccanismo di empatia e suggestione psicologica indispensabile per la buona riuscita di una storia.

Permettetemi, però, di darvi due raccomandazioni. Due sole. Chi soffre di un cuore particolarmente sensibile è pregato di

mettere da parte ogni insistente curiosità nei confronti di questo racconto e di dedicarsi ad altro; l’ultima cosa che desidero è nuocere alla vostra fragile salute. Il secondo avvertimento, invece, necessita una maggiore presa di coscienza e di un più alto senso di responsabilità: se un giorno doveste sentire pronunciare il mio nome dalla bocca di qualche saccente agnostico, fingetevi sordi e rimanete concentrati sui vostri affari.

Quello che di importante ho da dirvi lo confesserò qui, in questa lettera; dopodiché, per una ragione che a voi non è dato conoscere, morirò.

Il signor Benjamin Turtle aveva un’unica figlia, e si chiamava Clarisse. Era la sua pupilla, il suo vanto e il suo orgoglio, nonché l’invidia di chi amava sputare sentenze e blaterare sul conto della gente senza un minimo di tatto e discrezione.

Clarisse non aveva conosciuto sua madre perché era morta

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dandola alla luce, ma aveva potuto contare su un padre sempre presente, scrupoloso e devoto, che non le faceva mancare niente e che per lei sarebbe stato disposto a tutto. Persino al sacrificio più estremo.

Tuttavia, è cosa risaputa come il Fato non sia incline alla compassione, alla misericordia e alla bontà. Tesse la sua tela rispettando tempi che ci sono ignoti e spesso ci riserva ostacoli che richiedono una forza d’animo smisurata per essere affrontati e superati. Alle volte si esce vittoriosi, alle volte perdenti. Sono le regole del gioco e provare ad opporsi non porta che a complicarne ulteriormente le dinamiche. E se credete che trovare una spiegazione logica e razionale possa servire a qualcosa, vi sbagliate.

Non c’è da scherzare col destino. Alla luce di tutto ciò, quello che successe al signor Benjamin resta

tuttora un mistero. Una fredda mattina d’inverno si alzò dal letto che la città dormiva

ancora e in casa regnava una quiete serena. Non infilò nemmeno le sue ciabatte dalla punta scolorita e si diresse in cucina trascinando i piedi, fissando il nulla davanti a sé.

Il vento fischiava contro i vetri appannati delle finestre e il rubinetto del tinello perdeva gocce d’acqua che ticchettavano sul metallo del lavandino. Questo suono doveva dargli fastidio perché cominciò a sollevare il sopracciglio destro ripetutamente, come preso da un tic nervoso. Si fermò davanti ai cassetti dove erano riposte le posate, le tovaglie inamidate, i centrini e le presine, e restò immobile, lo sguardo vacuo.

Quali pensieri occupassero la sua mente in quel momento non è

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chiaro — come del resto tante altre cose di questa vicenda — eppure pareva assorbito da uno spaventoso tormento interiore, come se fosse giunto alla fine di un vicolo cieco e non avesse vie di fuga.

Aprì il primo cassetto e tirò fuori un lungo coltello dalla lama lucida e affilata, di quelli che usano i macellai per affettare un grosso pezzo di carne. Passò un dito sul bordo dentellato e le labbra gli si storsero in un ghigno. Dal polpastrello sgorgò del sangue che macchiò il pavimento.

Sembrò non curarsene. Ora, se la vicina di casa, la sessantenne Rosemary Blatty, non

avesse deciso di concedersi qualche minuto di sonno in più e fosse uscita in giardino per innaffiare le sue piante come faceva tutte le mattine, allora forse avrebbe potuto accorgersi dell’ombra alla finestra e si sarebbe domandata cosa ci facesse il signor Turtle in piedi a quell’ora e soprattutto perché fissasse la lama di un coltello con occhi affamati. Magari l’istinto le avrebbe dettato di sollevare la cornetta e di fargli una telefonatina veloce, giusto per assicurarsi che stesse bene e che non avesse bisogno di qualcosa. Invece la dolce Rosemary continuò a sognare i suoi orti botanici e il signor Turtle lasciò la cucina per ritornare in camera.

No. Non la sua. Quella di sua figlia. La porta cigolò appena e un fascio di luce sottile s’intrufolò nella

stanza disturbandone l’oscurità. La piccola Clarisse riposava beata sotto le coperte con il suo fedele Carrot, un buffo coniglietto di peluche dalle orecchie flosce e spropositate che guardava il mondo attraverso un occhio solo, poiché l’altro gli era saltato via durante

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una lite tra amiche piuttosto accesa. Benjamin coprì la distanza che lo separava dal letto, il coltello che

scintillava nel buio. D’un tratto il fiato gli si condensò in gola, diventò pesante e gli ostruì le vie respiratorie tanto che per un momento il suo volto parve farsi di pietra. Terrorizzato.

Il vento ululò. Il signor Turtle deglutì e ritrovò il respiro. Serrò la presa sull’arma

che stringeva in mano fino a quando non sentì male e la pelle gli si tese e le nocche non divennero gialle. La fronte si imperlò di sudore e le labbra si ridussero a una linea sottile. Si trattava di esitazione? Nel suo petto si era forse fatta strada una punta di rimorso?

Agì fulmineo. Sollevò il braccio, la cui ombra si allungò minacciosa sulla

trapunta del letto. Le pupille gli si dilatarono a tal punto da conferirgli un’aria sovrannaturale, demoniaca.

Poi il coltello affondò nel costato della piccola una, due, tre volte. Carrot rotolò a terra e sul suo musetto peloso schizzò del sangue. Le urla strazianti di Clarisse perforarono le pareti della casa che parvero tremare come sotto l’influsso di una potente scossa sismica.

Agonizzò per una decina di interminabili minuti, durante i quali i suoi occhi si appuntarono sul viso deformato di quell’uomo che lei conosceva così bene, che lei amava, grazie al quale si sentiva al sicuro. Rantolava e nella sua testolina di bambina cercava le parole per domandare il perché di quel gesto. Ma ormai l’ora ineluttabile della morte era giunta e calò sul suo sguardo come un velo. Le palpebre fremettero e poi il suo corpicino si rilasso, cedendo all’abbraccio fatale del destino.

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Il signor Turtle vacillò dinnanzi al raccapricciante spettacolo di quella bambola di porcellana imbrattata di sangue che era stata sua figlia e si appoggiò alla parete.

La bile gli riempì la bocca e un attimo dopo vomitava la cena sul tappetino rosa dove erano sistemati un tavolino basso e due sedie a misura di bambino, la “sala da tè” di Clarisse. I conati non gli davano tregua, anche quando non c’era più niente da espellere. Ebbe la forza di ripulirsi la bocca con il dorso della mano con cui stringeva il coltello e subito l’odore metallico del sangue gli entrò nelle narici e gli finì in gola. Represse nuovi conati e tentò di recuperare l’equilibrio.

Ritornò accanto al letto e nello stesso istante bussarono alla porta. Il panico lo assalì solo per pochi attimi, poi si distese vicino al

corpo freddo di Clarisse e si recise la gola con un unico movimento deciso, come se si fosse esercitato già parecchie volte o fosse un esperto in materia di suicidi. I colpi alla porta si fecero insistenti e forti, e si unirono delle voci. «Signor Turtle, che succede?» gridavano. «Benjamin, sei in casa?».

Quello che accadde dopo potete ben immaginarlo. Sfondarono la porta ed entrarono in casa correndo alla spasmodica

ricerca di quei due inquilini tanto gentili, rispettabili e felici. Quando finalmente fecero irruzione nella stanza della piccola Clarisse e videro lo scempio, si lasciarono andare alle manifestazioni più disparate di rabbia, sgomento, dolore, incredulità e orrore.

Fu il finimondo. Ma ciò che nessuno notò fu la bizzarra presenza di un gatto appollaiato sul davanzale della finestra della camera. Un gatto nero dal pelo di velluto, con un paio di occhi color amaranto e

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uno sguardo ferino che avrebbe fatto venire la pelle d’oca anche al più temerario degli uomini. In verità quel gatto si aggirava da giorni nei pressi della casa del signor Turtle e qualche volta sostava a riposare sotto la finestra della camera di Clarisse, crogiolandosi nell’ascoltare il suono soave della sua voce mentre giocava con le bambole o con le sue compagne di scuola.

Quel gatto aveva qualcosa di sbagliato, di inappropriato.Ma nessuno se ne accorse. Nessuno lo vide balzare giù dalla sua

postazione con un agile salto e atterrare sul praticello del giardino, gli artigli ricurvi che scavavano sottili solchi nel terreno umido e brinoso. Aveva un’espressione quasi… quasi soddisfatta in quelle sue pupille sanguigne. Dove fosse diretto non saprei, la cosa certa è che non ricomparve più, né in quella casa né nelle vicinanze.

Negli anni seguenti continuarono a susseguirsi casi di gente apparentemente in perfetto equilibrio mentale che veniva colta da raptus di follia estrema e si macchiava di crimini indicibili. Non c’era differenza di sesso né di età, il virus colpiva chiunque. O forse rispettava uno schema ben più preciso e mirato a qualche fine. L’interrogativo rimase irrisolto e i corpi di Benjamin Turtle e di sua figlia Clarisse condannati, ci auguriamo, al riposo eterno.

Io, da parte mia, ho fatto quel che dovevo.

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Copyright ©2012 by Anita BookPublished by permission of Trentin e Zantedeschi Literary Agency

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