istituto per gli studi di politica internazionale master
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Istituto per gli Studi di Politica Internazionale
Master in Diplomacy
Schemi delle lezioni di Storia delle Relazioni Internazionali
del Ch.mo Prof. Massimo de Leonardis
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Avvertenza
Gli schemi che seguono sono da considerare semplicemente un ausilio didattico per il
ripasso degli argomenti affrontati a lezione e per lo studio dei manuali consigliati. I numeri tra
parentesi quadre rinviano ai testi dei documenti citati o relativi al problema discusso, pubblicati
in Storia delle relazioni internazionali: testi e documenti (1815-2003), a cura di O. Barié, M. de
Leonardis, A. G. de’ Robertis, G. Rossi, Monduzzi, Bologna, 2004.
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Premessa
L’essenza della politica internazionale è la lotta per il potere, la “politica di potenza”. In
quanto tale la politica internazionale è svincolata da rigidi schemi ideologici.
In alcune fasi storiche i fattori ideologici, la volontà di affermare il proprio sistema di
valori, la propria concezione di un ordine internazionale “giusto”, acquistano rilevanza, ma la
“politica di potenza” è comunque sempre preminente.
Fasi storiche della politica internazionale a forte caratterizzazione ideologica: le guerre di
religione (secolo XVI e prima metà del secolo XVII). Però il Re Cristianissimo di Francia non
esitò ad allearsi con i protestanti ed anche con i turchi in funzione antiasburgica. Le guerre della
Francia rivoluzionaria e napoleonica. Ma il nemico più tenace della Francia è proprio lo Stato
meno lontano dai principi del 1789: la Gran Bretagna. La Guerra Fredda (1945-1990). Tuttavia il
conservatore Nixon e la Cina comunista, ancora vivente Mao, non esitano ad intendersi, avendo
come comune avversario la Russia (cfr. Lezione 33).
Fasi storiche della politica internazionale in cui la “politica di potenza” regna
assolutamente sovrana: l’Europa degli equilibri dalla Pace di Westfalia (1648) alla Rivoluzione
francese (1789). L’Europa dal 1870 al 1914 (p. es. i due Stati ai poli ideologici opposti in Europa,
la Francia della III repubblica e la Russia dello Zar Alessandro III, si alleano nel 1891-94 contro
l’Impero Tedesco, cfr. Lezione 6).
Dal 1815 al 1870 i fattori ideologici che influirono sulla politica internazionale furono il
liberalismo ed il principio di nazionalità.
Le due guerre mondiali del XX secolo ed il periodo tra di esse vanno comprese tenendo
conto sia di fattori di potenza sia di fattori ideologici (cfr. le lezioni relative).
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Parte I
Il sistema europeo delle relazioni internazionali (1815-1918)
Lezione 1
La diplomazia della Restaurazione tra ideologia e Realpolitik.
Movimenti liberali e nazionali e rivoluzioni, 1815-1849
L’assetto dell’Europa dopo gli sconvolgimenti operati dalla Francia rivoluzionaria e
napoleonica fu deciso dal Congresso di Vienna, il cui “Atto Finale” [n. 1] fu sottoscritto il 9
giugno 1815, nove giorni prima la definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo. La posizione
della Francia fu definita dalla seconda pace di Parigi (20 novembre 1815), più punitiva rispetto
alla prima pace di Parigi, firmata il 30 maggio 1814.
Protagoniste del Congresso furono le “Grandi Potenze”, concetto codificato in questa
occasione: Austria, Gran Bretagna, Prussia, Russia, Potenze vincitrici, e la stessa Francia,
sconfitta, che il ministro degli esteri Talleyrand riuscì però ad inserire nel gioco diplomatico,
sottolineando che l’interesse comune a non umiliare il sovrano restaurato Luigi XVIII.
Diversamente avverrà un secolo dopo alla conferenza della pace di Versailles, dopo la prima
guerra mondiale, quando la Germania sconfitta sarà semplicemente posta di fronte ad un trattato
di pace senza possibilità di discuterlo. Spagna, Portogallo e Svezia, che erano state protagoniste
della politica europea nei secoli precedenti, furono definitivamente relegate in un ruolo di
secondo piano.
I personaggi più importanti del Congresso furono il Principe di Metternich (ministro
degli esteri austriaco), Lord Castlereagh (ministro degli esteri britannico), il Principe di
Talleyrand (ministro degli esteri francese), Alessandro I (Zar di Russia, rappresentata anche dal
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cancelliere Nesselrode), Hardenberg e Humboldt (plenipotenziari prussiani).
Tra le Potenze vincitrici, Austria e Gran Bretagna erano Potenze soddisfatte, che
desideravano il mantenimento dello status quo emerso dal Congresso e dell’equilibrio in Europa,
trovandosi in sintonia con la Francia della monarchia borbonica. Prussia e, soprattutto, Russia,
erano Potenze con velleità di espansione.
I criteri adottati dal Congresso per la riorganizzazione dell’Europa furono:
1. Il principio di equilibrio, riedizione aggiornata del supremo criterio regolatore
dell’Europa a partire dalla pace di Westfalia del 1648.
2. Il contenimento della Francia, attraverso la creazione o il rafforzamento di Stati con
essa confinanti, il Regno dei Paesi Bassi, la “Prussia renana”, il Regno di Sardegna. In
applicazione del primo e del secondo criterio fu stabilita l’egemonia dell’Austria in Italia.
3. Il principio di legittimità, ovvero la restaurazione dei sovrani legittimi, introdotto dalla
Francia, che se ne sarebbe giovata, inteso in senso più pragmatico che ideologico. A
riprova di ciò non fu applicato nei casi di organismi espressione di un’Europa feudale e
cavalleresca colpita a morte dalla rivoluzione francese; non furono, infatti, restaurati il
Sacro Romano Impero, le repubbliche aristocratiche come Venezia, Genova e Lucca, i
feudi pontifici in Francia e nel Regno di Napoli, il principato del Sovrano Militare Ordine
di Malta.
La diplomazia della Restaurazione, la diplomacy by conference (1815-1822), si fondava su
due trattati:
1. La Santa Alleanza (26 settembre 1815) [n. 3], proposta dallo Zar Alessandro I,
firmata, oltre che da lui, dall’Imperatore d’Austria e dal Re di Prussia e sottoscritta poi
da tutti gli Stati europei, ad esclusione della Gran Bretagna e dello Stato Pontificio. Il
testo del trattato, privo di un vero e proprio casus foederis, è un curioso manifesto
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ideologico-religioso ispirato al concetto della monarchia di diritto divino. Rispecchia
sia al misticismo dello Zar sia i concreti interessi della Russia (richiamandosi alla
religione cristiana, esclude, di fatto, l’Impero Ottomano).
2. La Quadruplice Alleanza (20 novembre 1815) [n. 4] fra le quattro potenze vincitrici
di Napoleone, dovuta soprattutto al ministro degli esteri inglese, Lord Castlereagh. Ha
lo scopo preciso di mantenere la solidarietà tra i vincitori contro una possibile ripresa
dell’attività espansionista e rivoluzionaria della Francia. All’art. VI prevede lo
strumento, nuovo per la diplomazia, della convocazione di periodiche conferenze in
tempo di pace per discutere i problemi della stabilità e dell’ordine in Europa.
Metternich giudica in un primo tempo la Santa Alleanza «un monumento vuoto e sonoro»,
poi la ritiene utile alla sua politica; ad essa la Santa Alleanza fornisce il quadro ideologico,
mentre la Quadruplice Alleanza fornisce lo strumento: la «diplomacy by conference». La
politica della Santa Alleanza e del Principe di Metternich fu quella più simile, nella forma, a
quella degli anni ’90 del XX secolo di «ingerenza umanitaria» e di peacekeeping. Infatti, lo
statista austriaco sosteneva l’esistenza di uno stretto nesso tra ordine politico e sociale interno ai
singoli Stati e stabilità internazionale. Se vi era una situazione di disordine all’interno di uno
Stato, il «concerto europeo» doveva subito intervenire per evitare che potesse turbare l’ordine
internazionale. La differenza è che per Metternich l’ordine interno si identificava con
l’«assolutismo» (uso il termine tra virgolette, perché per molti aspetti controverso), i cui principi
ed istituzioni erano dominanti in Europa, mentre oggi si ritiene che solo sulla democrazia liberale,
i cui valori sono universalmente accettati in Occidente, possano fondarsi un ordine interno ed una
pace internazionale stabili. Fonte di disordine era per Metternich il liberalismo, per i governanti
occidentali di oggi lo è la violazione dei principi democratici e dei «diritti umani». Un’altra
differenza non da poco è che Metternich sosteneva l’intervento del «concerto europeo» a
sostegno dei Sovrani legittimi minacciati da rivoluzioni; tali interventi avvenivano su richiesta del
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monarca stesso, come nel caso di Ferdinando II Re delle Due Sicilie alla conferenza di Lubiana.
Il principio di sovranità era quindi salvo. I sostenitori dell’«ingerenza umanitaria» invece lo
violano, perché in genere tali interventi, vedi il Kosovo, avverrebbero contro un governo in carica
che non rispetti i «diritti umani».
All’epoca di Metternich, l’Inghilterra si dissociò da interventi in questioni interne di altri
paesi finché esse non fossero diventate a tutti gli effetti un problema internazionale. In un
importante documento di Gabinetto del 5 maggio 1820, che esaminava la situazione
rivoluzionaria della Spagna, Castlereagh sottolineò che l’Alleanza tra le potenze europee non era
mai stata «intesa come un’Unione per il Governo del Mondo, o per il controllo degli affari interni
di altri Stati...Il principio in base al quale uno Stato interferisce tramite l’uso della forza negli
affari interni di un altro Stato...è da sempre una questione della massima delicatezza morale e
politica». Londra sostenne quindi il «principio di non intervento», provocando la crisi della
diplomacy by conference, attraverso la quale l’Austria voleva mettere in pratica i principi della
Santa Alleanza.
Si tennero le conferenze di Aquisgrana (1818), Troppau (1820), Lubiana (1821),
Verona (1822) che segnò la fine e la crisi della «diplomacy by conference», dopo la morte di
Lord Castlereagh, sostituito da Canning, più isolazionista e più contrario ancora ad intervenire
contro le rivoluzioni liberali.
Definiamo “sfide periferiche” al sistema della restaurazione quelle che avvengono al di
fuori dell’assetto politico-territoriale stabilito dal Congresso di Vienna. Negli anni ’20 sono
l’indipendenza della Grecia e l’indipendenza delle colonie spagnole e portoghesi in America
Latina.
L’indipendenza della Grecia dall’Impero ottomano si inquadra nella “Questione
d’Oriente” [cfr. Lezione 3]. Il movimento indipendentista greco suscita la simpatia di tutti gli
ammiratori all’antica civiltà greca (p. es. Lord Byron); la Grecia cristiana ortodossa ha nella
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Russia un naturale punto di riferimento. Il problema greco scompagina quindi gli schieramenti: la
Russia deve simpatizzare con una rivoluzione, sia pure contro un Sovrano non cristiano, la Gran
Bretagna non può mantenere il suo appoggio all’Impero Ottomano. Attraverso vari passaggi
(protocollo anglo-russo del 4/4/26, conferenza di Londra del luglio 1827, scontro navale di
Navarino nel quale la flotta turco-egiziana è distrutta dalla flotta anglo-franco-russa, pace
di Adrianopoli, 14 settembre 1829) la Grecia diviene una monarchia costituzionale
indipendente. Nonostante la comune religione ortodossa, la Grecia indipendente sarà più sotto
l’influenza britannica che russa.
Influenzate dall’esempio dell’indipendenza americana, dalle idee rivoluzionarie francesi,
approfittando della occupazione della penisola iberica da parte di Napoleone, per ragioni
politiche ed economiche le colonie latino americane si ribellano alla Spagna ed al Portogallo, che
peraltro trovano molti sostenitori lealisti. La Spagna potrebbe anzi prevalere se non fosse per la
rivoluzione liberale del 1820, che mina l’autorità del Re Ferdinando VII e gli impedisce di inviare
rinforzi di truppe.
Il “concerto europeo” delle Grandi Potenze autorizza l’intervento della Francia a
sostegno dell’autorità del Re di Spagna (vittoria del Trocadero, 1823). La Gran Bretagna
tollera tale intervento, ma si oppone ad un’estensione al sub-continente latino-americano della
politica di sostegno al Re di Spagna della “Santa Alleanza”. Il ministro degli esteri Canning
sollecita una dichiarazione comune anglo-statunitense in tal senso. La Gran Bretagna vorrebbe
Stati latino-americani indipendenti retti a monarchia ed un inserimento degli Stati Uniti nel
sistema internazionale nella scia della Gran Bretagna per bilanciare la prevalenza di potenze
conservatrici sul continente europeo (“I called the new world to existence to redress the balance
of the old”). Gli Stati Uniti però intendono marcare la loro posizione indipendente e proclamano
la dottrina Monroe (dal nome del presidente), peraltro sfruttando la protezione di fatto della flotta
britannica, che avrebbe impedito interventi della Santa Alleanza sul continente americano.
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La dottrina Monroe del 1823 sottolineò la “diversità” degli Stati Uniti, che in campo
internazionale si estrinsecava nei due principi del disinteresse per le questioni europee, purché
esse non toccassero i “diritti” americani, e della non colonizzazione delle Americhe
(“l’America agli americani”), ma che più in generale rifiutava la “ragion di Stato” e la
tradizione europea e indicava nella repubblica la forma istituzionale più adatta al continente
americano. Giustamente, commentando la dottrina Monroe, Metternich osservò che gli Stati Uniti
“hanno dichiarato in modo chiaro e distinto che è loro intenzione non solo di contrapporre
potenza a potenza, ma, per parlare con maggiore esattezza, altare ad altare”. Confermando il
messaggio d’addio di Washington, la dottrina Monroe fonda l’isolazionismo americano, che
riguarda soprattutto il distacco dall’Europa e il rifiuto delle alleanze vincolanti.
Le colonie spagnole divennero col tempo tutte repubbliche indipendenti; il Brasile,
colonia portoghese, seguì un percorso diverso, divenendo fino al 1888 un Impero sotto la stessa
dinastia, i Braganza, che regnava in Portogallo. La Gran Bretagna esercitò fino al 1945 una forte
influenza economica in America Latina.
Liberalismo e principio di nazionalità sono le due forze politiche di opposizione al
sistema internazionale – e interno agli Stati – instaurato nel 1815 e costituiscono le sfide interne
al sistema della Restaurazione. Loro manifestazioni sono i moti e le rivoluzioni in Piemonte,
Regno delle Due Sicilie, Spagna nel 1820-21, la rivoluzione di luglio in Francia (1830), le
rivoluzioni polacca contro lo Zar [la Polonia cattolica era un regno unito all’Impero russo; altre
parti di Polonia erano annesse all’Impero austriaco ed al Regno di Prussia, mantenendo così le
spartizioni della fine del secolo XVIII], e belga (1830), i moti nelle legazioni pontificie e nel
Ducato di Modena (1830-31), le rivoluzioni del 1848-49. Le realizzazioni principali sono
l’indipendenza del Belgio (1831), l’unificazione italiana (1861), l’unificazione tedesca (1870).
La rivoluzione di luglio (1830) in Francia sostituisce alla monarchia legittima di Carlo X
di Borbone Re di Francia, la monarchia borghese di Luigi Filippo d’Orleans Re dei Francesi. Sul
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piano internazionale, mentre la Francia di Carlo X era solidale con le potenze conservatrici
(Austria, Russia e Prussia), la monarchia orleanista è allineata con l’Inghilterra liberale, dove
è iniziata «l’età di Palmerston». Si ripresenta il pericolo, come nel 1792, di un’espansione della
Francia rivoluzionaria e di un suo sostegno alle rivoluzioni negli altri paesi. Ma il governo di
Parigi chiarisce di non voler intraprendere una crociata rivoluzionaria e di agire solo al servizio
degli interessi nazionali della Francia: «il sangue dei francesi appartiene solo alla Francia».
Abbandona quindi al suo destino la Polonia («l’ordine regna a Varsavia»), interviene in Italia
solo per bilanciare gli interventi austriaci, e concorda con le altre Potenze sull’assetto del Belgio,
affidato a Leopoldo I di Sassonia-Coburgo, legato all’Inghilterra, e vincolato a quella neutralità
perpetua il cui rispetto sarà violato dalla Germania nel 1914.
Negli anni ’30 si manifestano due allineamenti (non blocchi o alleanze contrapposte) di
Potenze in Europa. Le Potenze conservatrici (Austria, Prussia e Russia) con gli accordi di
Münchengrätz del 1833 [n. 12] riaffermano il loro diritto di intervento per reprimere le
rivoluzioni contro sovrani legittimi. Di fatto tale dichiarazione di principio non è stata applicata
né in Francia né in Olanda per l’indipendenza del Belgio. Le potenze liberali (Francia e
Inghilterra) intervengono nella penisola iberica a sostegno delle parti più liberali nelle guerre
civili in Spagna e Portogallo, stringendo nel 1834 una Quadruplice Alleanza [n. 13] (da non
confondere con quella del 1815) contro le fazioni reazionarie, carlista e miguelista.
Questa prima «Intesa cordiale» anglo-francese, (da non confondere con quella più nota del
1904) avrà una prima scossa con la seconda crisi egiziana (cfr. Lezione 3) ed una seconda
definitiva con la questione dei matrimoni spagnoli, che fanno temere a Londra il riformarsi di una
stretta unione dinastica tra le corti di Parigi e Madrid.
Per la politica estera britannica il periodo dal 1830 (quando ricopre per la prima volta la
carica di ministro degli esteri) al 1865 (anno della sua morte) è definito “età di Palmerston”,
perché dominato da Lord Palmerston, discepolo di Canning, passato dai Tories ai Whigs. Egli
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enuncia il principio che «gli Stati costituzionali sono gli alleati naturali della Gran Bretagna».
Interpretare però la politica estera britannica solo alla luce del criterio ideologico del suo
appoggio al liberalismo sarebbe del tutto fuorviante. La Gran Bretagna persegue, infatti,
soprattutto una politica attenta ai propri interessi («la Gran Bretagna non ha alleati
permanenti, ma interessi permanenti»). La politica estera dell’Inghilterra è quindi il risultato di
una composizione delle due esigenze, talvolta riuscita, come nel caso dell’unificazione italiana,
talvolta difficile, come nel caso dell’appoggio all’Impero ottomano nella questione d’Oriente.
Alla vigilia delle rivoluzioni del 1848-49 avvenimenti come la guerra del Sonderbund in
Svizzera tra i cantoni cattolici e quelli protestanti, le agitazioni per le riforme in Germania ed in
Italia preannunciano la crisi. L’elezione di Pio IX sembra, erroneamente, preannunciare un
atteggiamento più liberale della Chiesa cattolica.
Si contrappongono gli atteggiamenti di Palmerston (Inghilterra) e Metternich (Austria).
Per il primo le riforme sono il mezzo migliore per evitare le rivoluzioni ed egli nel 1847 invia in
missione in Italia il ministro Lord Minto [n. 15] a sostenere i sovrani riformatori (Carlo Alberto
Re di Sardegna, Leopoldo II Granduca di Toscana, il Papa Pio IX). Per Metternich invece le
riforme aprirebbero la strada alle rivoluzioni. Inghilterra e Austria hanno l’interesse comune ad
impedire il sovvertimento dei trattati del 1815, ma sono divise dall’ideologia.
Ancora una volta, anche se la prima rivoluzione è quella in Sicilia, nel gennaio 1848, il
fatto più significativo è la rivoluzione di febbraio in Francia, che abbatte la monarchia
orleanista, che in politica internazionale si stava avvicinando all’Austria ed in politica interna era
sempre più conservatrice ed invisa sia ai repubblicani sia ai legittimisti, ed instaura la II
repubblica. Come però dopo la rivoluzione del 1830, il governo francese rassicura l’Europa di
non volersi impegnare in una “crociata” rivoluzionaria [n. 15]: “amiamo...tutte le nazioni
oppresse, ma più di tutto amiamo la Francia”. Seguono i moti rivoluzionari in Italia, seguiti
dalla prima guerra di indipendenza [n. 17], le agitazioni in Germania con la convocazione del
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Parlamento di Francoforte (cfr. lezione 5), la caduta di Metternich a Vienna, la rivoluzione
in Ungheria e a Praga, mentre il “manifesto comunista” di Marx e di Engels segna la data di
nascita ufficiale del movimento proletario internazionale [n. 16].
L’andamento degli eventi può essere visto, particolarmente in Italia, con l’evoluzione dalle
riforme alle costituzioni e poi dalle rivoluzioni alla Seconda Restaurazione. Ancora una volta
la Francia da il segnale dell’inversione di rotta nel giugno 1848, con la repressione, da parte
del Generale Cavaignac delle agitazioni a sfondo socialista. In Europa il fronte liberale si
divide tra la fuga in avanti dei democratici e dei repubblicani (p. es. in Italia la Repubblica
romana di Mazzini) ed il riflusso dei moderati su posizioni conservatrici, che favorisce la
vittoria della reazione.
L’Austria riprende l’iniziativa (abdicazione di Ferdinando I, malato, ed ascesa al trono del
18enne Francesco Giuseppe che regnerà fino al 1916, nomina a Cancelliere del Principe di
Schwarzenberg), i suoi generali reprimono le rivolte e le rivoluzioni a Praga, in Italia (sconfitta
del Piemonte nella prima guerra d’indipendenza nel 1848 a Custoza e nel 1849 a Novara) ed in
Ungheria (con il concorso russo). Palmerston, che si era illuso di giocare un ruolo di mediazione
per indurre l’Austria a ridimensionare la sua influenza in Italia, assiste impotente ad intervenire,
sia perché l’Inghilterra si muove militarmente solo per interessi precisi, sia perché la mancanza di
un’alternativa moderata, quale le offrirà Cavour nel 1859-61, le lascia di fronte solo le opzioni,
entrambe sgradite della rivoluzione repubblicana o della reazione.
La Seconda Restaurazione rappresenta apparentemente un semplice ritorno allo status quo
ante. Vi sono però quattro elementi che differenziano la Seconda dalla Prima Restaurazione del
1815: 1) In Francia non vi è una monarchia legittima, ma una seconda repubblica, capeggiata da
Luigi Napoleone Bonaparte (dal 1852 Napoleone III, Imperatore dei francesi). 2) In Gran
Bretagna non vi è un governo conservatore, ma uno whig (liberale). 3) In Germania è ormai
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all’ordine del giorno l’antagonismo tra Austria e Prussia. 4) In Italia il Regno di Sardegna, ossia il
Piemonte liberale di Vittorio Emanuele II, mantiene lo Statuto (Costituzione) e si avvia a divenire
il catalizzatore del movimento liberale, nazionale ed indipendentista italiano.
L’assetto della Seconda Restaurazione subisce una scossa decisiva con la rottura del
fronte conservatore, ossia la contrapposizione tra Austria e Russia in occasione della guerra di
Crimea, fase della Questione d’Oriente (cfr. lezione 2).
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Lezione 2
La questione d’Oriente dall’indipendenza greca alle guerre balcaniche
Con l’espressione “questione d’Oriente” si indica il complesso di problemi posti dalla
decadenza dell’Impero Ottomano e dai contrastanti interessi delle Grandi Potenze al riguardo. La
“questione d’Oriente” si presentò sotto tre aspetti principali:
1. La “questione balcanica”, ovvero la decadenza del dominio turco sui Balcani, il
sorgere di movimenti nazionali e la costituzione nella penisola di Stati autonomi e poi
indipendenti, a cominciare dalla Grecia [n. 7].
2. La “questione degli Stretti”, ossia il problema del controllo degli stretti dei Dardanelli
e del Bosforo, che, attraverso il Mar di Marmara, collegano il Mar Nero al
Mediterraneo.
3. La “questione araba”, ovvero la decadenza del dominio turco sulle parti arabe
dell’impero dall’Africa settentrionale alla Siria. L’Africa settentrionale tra il 1830 ed il
1911 passò progressivamente sotto il controllo di Potenze europee: 1830-1848,
conquista francese di Algeri e poi di tutta l’Algeria; 1881, protettorato della Francia
sulla Tunisia; 1882, protettorato de facto della Gran Bretagna sull’Egitto; 1911,
protettorato della Francia sul Marocco (in parte anche spagnolo), che, comunque, non
faceva parte dell’Impero Ottomano; 1911, guerra italo-turca, o guerra di Libia, con
decreto di annessione all’Italia della Tripolitania e della Cirenaica.
Tendenzialmente costanti per tutto il secolo XIX furono l’ostilità della Russia all’Impero
ottomano ed il sostegno a quest’ultimo da parte della Gran Bretagna. La Russia appoggiava i
movimenti nazionali in prevalenza slavi e cristiano-ortodossi della penisola balcanica e mirava ad
accedere al Mediterraneo attraverso gli Stretti ed espandersi sulla frontiera del Caucaso. Proprio
per contenere la Russia Londra appoggiava l’Impero ottomano, finché, nel primo decennio del
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XX secolo, esso passò sotto l’influenza della Germania, mentre la Gran Bretagna, accordatasi con
la Russia nel 1907, sentiva assai meno l’esigenza di sostenerlo. L’“inorientamento” dell’Impero
asburgico, soprattutto dopo la perdita dell’egemonia in Italia ed in Germania, provocò la rivalità
tra Austria-Ungheria e Russia nei Balcani, tra tentativi di accordo e scontri diplomatici.
Gli anni ‘30 furono caratterizzati dalle due crisi egiziane, provocate dall’ambizione del
Pasha d’Egitto Mehemet Alì di costituirsi un dominio ereditario in tale paese ed in Siria a spese
del Sultano. Approfittando della prima crisi, la Russia impose all’Impero ottomano il trattato di
Unkiar Skelessi [n. 84] nel tentativo di sostituire a Costantinopoli la propria influenza a quella
britannica. La seconda crisi vide la Gran Bretagna opporsi risolutamente al Pasha d’Egitto [n.
85], sostenuto dalla Francia, coalizzando contro di lui anche le altre Grandi Potenze [n. 86].
Sconfitto il Pasha, abbandonato da Parigi, fu stipulata la convenzione sugli Stretti, che garantiva
internazionalmente la loro chiusura alle navi da guerra in tempo di pace [n. 87]. Il successo di
Londra fu completato dalla decadenza del trattato di Unkiar Skelessi.
Fase successiva della “questione Oriente” fu la guerra di Crimea, causa immediata della
quale fu il contrasto tra Francia e Russia sulla tutela dei Luoghi Santi e la protezione dei cristiani
nell’Impero Ottomano. In realtà lo Zar Nicola I riteneva che la Gran Bretagna non si sarebbe mai
alleata con Napoleone III ed era convinto che fosse giunto il momento di spartirsi le spoglie
dell’Impero Ottomano accordandosi con Londra [n. 88]. Gran Bretagna e Francia si allearono
invece in difesa dell’Impero Ottomano [n. 89], attaccato dalla Russia; alla coalizione antirussa si
unì il Regno di Sardegna [n. 20] ed infine anche l’Austria. Alla Russia sconfitta, il trattato di
Parigi [n. 90] impose clausole assai dure, in particolare la neutralizzazione del Mar Nero, con
la conseguente eliminazione della sua flotta militare in quelle acque; approfittando degli
avvenimenti del 1870, la Russia denunciò poi unilateralmente tale clausola, con la successiva
acquiescenza degli altri firmatari [n. 91].
Nel periodo bismarckiano si ebbero altri due momenti di crisi nell’ambito della “questione
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d’Oriente”, al fondo delle quali vi erano i nazionalismi balcanici, il panslavismo della politica
russa e il crescente interesse dell’Austria-Ungheria per i Balcani. Nel 1875-78 le insurrezioni
anti-turche in Bosnia Erzegovina e in Bulgaria portarono alla guerra vittoriosa della Russia contro
l’Impero ottomano [n. 92]. Le clausole del trattato di pace di S. Stefano del 3 marzo 1878 [n. 93],
assai favorevoli alla Russia, suscitarono l’opposizione della Gran Bretagna [n. 94] e dell’Austria-
Ungheria e Bismarck convocò il congresso di Berlino, cercando di mediare tra le potenze. Il
risultato del congresso [n. 95] rappresentò una sconfitta per la Russia ed una vittoria per Gran
Bretagna ed Austria-Ungheria. Un’altra crisi scoppiò nel 1884-87 per la guerra tra la Serbia,
appoggiata dall’Austria-Ungheria e la Bulgaria, che ottenne la Rumelia orientale. La Russia vide
diminuire la sua influenza a Sofia, dove salì al trono Ferdinando di Sassonia-Coburgo. La rottura
tra Vienna e San Pietroburgo pose fine senza rimedio all’Alleanza dei tre Imperatori [n. 54] e
Bismarck dovette ricucire i rapporti tra Germania e Russia con il trattato di controassicurazione
[n. 59].
Nel 1904 Austria-Ungheria e Russia giunsero ad un’intesa per il mantenimento dello
status quo nei Balcani [n. 97], vanificata dalla successiva annessione della Bosnia Erzegovina da
parte dell’Impero asburgico [n. 80]. Anche l’Italia, rinnovando la Triplice Alleanza nel 1887 [n.
56], aveva cercato di ottenere garanzie sugli sviluppi nei Balcani; in particolare si interessò, per la
sua posizione strategica, all’Albania, la cui indipendenza fu sancita nel 1913 [nn. 96 e 99].
Le guerre balcaniche del 1912-13, la prima vinta da Bulgaria, Serbia, Montenegro e
Grecia contro l’Impero ottomano [n. 98], la seconda vinta da quest’ultimo alleato con
Montenegro, Serbia, Grecia e Romania contro la Bulgaria [n. 100] furono l’ultima crisi in cui le
Grandi Potenze riuscirono ad evitare un conflitto generale, che un anno dopo ebbe invece la sua
origine proprio nei Balcani.
Esse determinarono alcuni fatti:
1. “Rivincita” della Russia sull’Austria-Ungheria dopo la sconfitta subita nel 1908
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con la crisi e annessione della Bosnia Erzegovina.
2. Inizio del passaggio, con la seconda guerra balcanica, dall’epoca delle guerre di
liberazione dal dominio turco ottomano a quella della rivalità tra gli Stati
balcanici.
3. Anticipazione, sempre nella seconda guerra balcanica, degli schieramenti della
Prima Guerra Mondiale: Serbia e Romania con l’Intesa, Bulgaria con gli Imperi
Centrali.
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Lezione 3
Il problema italiano nella politica europea, 1849-1870
Camillo Benso Conte di Cavour, dal novembre 1852 Presidente del Consiglio dei ministri
del Regno di Sardegna, ebbe il merito di comprendere la lezione degli avvenimenti del 1848-49:
la questione italiana era un problema di relazioni internazionali e non di politica interna, l’Italia
non poteva farsi da sé, il movimento nazionale italiano poteva avere successo solo sfruttando i
dissidi fra le Grandi Potenze ed ottenendo l’appoggio di una o più di esse, in pratica di Francia e
Gran Bretagna.
Prima tappa dell’internazionalizzazione della questione italiana fu la partecipazione del
Piemonte alla guerra di Crimea [n. 89] a fianco di Gran Bretagna e Francia (intervenute in
appoggio dell’Impero Ottomano) e contro la Russia [n. 20]. Un primo risultato, propagandistico,
di essa fu la discussione del problema italiano nella seduta conclusiva del congresso di Parigi,
convocato per stipulare la pace, promossa dai delegati francese e britannico [n. 22]. Conseguenza
più importante della guerra di Crimea fu comunque la rottura del fronte conservatore austro-
russo: il governo di Vienna, anche perché rassicurato al momento che Napoleone III non avrebbe
approfittato dell’impegno austriaco in Oriente per favorire la rivoluzione in Italia [n. 21], si
schierò a fianco degli anglo-francesi, abbandonando il tradizionale allineamento con la Russia,
sua rivale nei Balcani. La Russia, che si attendeva la gratitudine dell’Austria anche per l’aiuto
datole nel 1849 per reprimere la rivoluzione ungherese, colse la prima occasione per ripagare
Vienna della stessa moneta e Napoleone III, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza
italiana, che vide Francia e Regno di Sardegna alleate contro l’Austria [n. 25], si assicurò la
«benevola neutralità» di San Pietroburgo [n. 26].
Per l’Imperatore dei francesi l’appoggio al Piemonte ed al Risorgimento italiano si
inquadrava in un più vasto disegno di mutamenti politico-territoriali nel continente europeo, che,
19
scardinando l’assetto del congresso di Vienna del 1815, avrebbe instaurato l’egemonia della
Francia nella nuova Europa [n. 24]. Coerente con il tradizionale principio della politica estera
francese pas des grandes nations a nos frontiéres, nei suoi progetti Napoleone III prefigurava non
un’Italia unita, bensì divisa in quattro Stati, uniti in una Confederazione presieduta dal Papa:
Regno dell’Italia Settentrionale, ai Savoia, Regno dell’Italia Centrale, costituito dal Granducato
di Toscana e gran parte degli Stati Pontifici, da affidare forse ai Borbone Parma, il residuo Potere
Temporale del Papa, il Regno delle Due Sicilie, senza mutamenti territoriali, ma affidato forse al
figlio di Gioacchino Murat. Tale prospettiva era accettata negli accordi di Plombières [n. 23] da
Cavour, che sottolineava al Re Vittorio Emanuele II che comunque i Savoia, sovrani dell’Italia
settentrionale, avrebbero di fatto dominato la penisola.
L’Austria commise l’errore di inviare un ultimatum al Piemonte [n. 27], facendolo
apparire nelle vesti di aggredito, come voleva Napoleone III. La guerra volse a favore dei franco-
piemontesi, ma in luglio Napoleone III e l’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe conclusero
l’armistizio di Villafranca [n.28], che prevedeva l’annessione al Piemonte solo della Lombardia;
per protesta, Cavour lasciò temporaneamente la guida del governo. L’Imperatore dei francesi agì
in quel modo perché preoccupato dalla prospettiva di una campagna militare ancora lunga e
difficile contro le truppe austriache asserragliate nelle fortezze del quadrilatero (Mantova,
Verona, Legnago, Peschiera), allarmato dagli sviluppi rivoluzionari fomentati da Cavour non solo
in Emilia e Romagna, ma anche in Toscana (che in base agli accordi di Plombières non avrebbe
dovuto far parte dello Stato sabaudo) e timoroso di un intervento della Prussia e della
Confederazione Germanica a fianco dell’Austria. Le clausole di Villafranca furono poi precisate
nel trattato di pace di Zurigo [n. 29], che restò però lettera morta; prima il governo whig-liberale
di Londra si pronunciò contro la restaurazione dei sovrani spodestati dalle rivoluzioni, poi lo
stesso Napoleone accettò l’annessione al Piemonte, dopo plebisciti di dubbia legittimità [n. 30],
anche dell’Emilia-Romagna e della Toscana, ottenendo in compenso la cessione alla Francia di
20
Nizza e della Savoia [n. 31], già prevista a Plombières, ma non effettuata perché la guerra con
l’Austria era stata sospesa prima della conquista del Veneto.
All’iniziativa diplomatica e militare ufficiale del governo di Torino seguì, a partire dal
maggio 1860, la spedizione dei Mille, con la connivenza del Re e di Cavour, che dovettero però
procedere con ambigua cautela di fronte all’Europa, cercando allo stesso tempo di suscitare a
Napoli un moto filo-sabaudo prima dell’arrivo di Garibaldi [n. 32]. Per consolidare la conquista
del Regno delle Due Sicilie, completare l’unità e neutralizzare Garibaldi (evitando altresì che
marciasse su Roma), l’esercito piemontese invase poi lo Stato Pontificio escluso il Lazio. Francia
e Gran Bretagna accettarono il fatto compiuto; il governo di Londra, con uno dei documenti più
noti della storia della diplomazia britannica [n. 34] inneggiò alla rivoluzione italiana, mentre il
Papa Pio IX denunciò il “principio di non intervento” [n. 33], più volte sostenuto dalla Gran
Bretagna, in base al quale l’Europa doveva assistere inerte alle aggressioni ed alle rivoluzioni
fomentate dal Piemonte. Gran Bretagna e Francia furono le prime grandi potenze a riconoscere
ufficialmente il Regno d’Italia; più libero fu il riconoscimento di Londra [n. 35], più sofferto
quello di Parigi [n. 36], che si trovava nella scomoda posizione di ambiguo sostegno del residuo
Potere Temporale del Papa.
L’unità d’Italia si realizzò quindi grazie all’appoggio militare francese, al sostegno
diplomatico della Gran Bretagna ed alla rottura del fronte delle Potenze conservatrici, tra Austria
e Russia a causa della guerra di Crimea, tra Austria e Prussia, disposta a sostenere Vienna solo se
quest’ultima le avesse concesso maggiore spazio in Germania. La monarchia sabauda offrì
all’Europa una soluzione moderata del problema italiano.
21
Lezione 4
L’unificazione tedesca, 1848-1870
Al Congresso di Vienna non era stato restaurato il Sacro Romano Impero, dissoltosi nel
1806 (Francesco II d’Asburgo, Sacro Romano Imperatore, carica formalmente elettiva, diventa
Francesco I, Imperatore d’Austria, ereditario). Venne sostituto da una Confederazione
Germanica di 36 Stati, presieduta dall’Imperatore d’Austria. Di fatto si crearono le premesse
di un antagonismo per l’egemonia in Germania tra Austria e Prussia, che nel 1833 promosse una
unione doganale tra Stati tedeschi, lo Zollverein. Fino alla fine degli anni ’50 però la Prussia, pur
aspirando al ruolo di prima Potenza in Germania, non abbandonò il legittimismo che le impediva
di schierarsi apertamente contro l’Austria.
Nel 1849 il parlamento rivoluzionario di Francoforte offrì la corona di Imperatore
Tedesco al Re di Prussia Federico Guglielmo IV, che la rifiutò sdegnosamente: la accetterebbe
offerta dai Principi tedeschi, ma non da una assemblea rivoluzionaria. Si profilano due
programmi per l’unificazione della Germania: la “Piccola Germania” con alla guida la Prussia,
la “Grande Germania” guidata dall’Austria. Il movimento nazionale tedesco del trinomio
libertà, indipendenza e potenza, manifesta presto la disponibilità a mettere in ombra il primo
principio a favore degli altri due.
Dopo la bufera rivoluzionaria, in Germania ritorna lo status quo ante, la Confederazione
Tedesca rimane sulle basi precedenti, dopo il fallimento ad Olmütz (1850) [n. 19] di un progetto
che avrebbe dato maggiore peso alla Prussia, ed a Dresda (1851) di un progetto alternativo del
Cancelliere austriaco Principe di Schwarzenberg che avrebbe rafforzato l’egemonia dell’Austria.
L’ascesa al trono di Prussia nel 1858 prima come Principe Reggente poi come Re di Guglielmo I
elimina le remore legittimiste degli Hohenzollern.
22
Il decennio 1861-1871 vide il compimento dell’unificazione tedesca sotto l’egida della
Prussia e per impulso di Otto von Bismarck, Primo ministro e ministro degli esteri del Regno
dal settembre 1862. Il cammino verso l’Impero Tedesco fu scandito da tre guerre vittoriose,
freddamente preparate dallo statista prussiano. La guerra contro la Danimarca per i ducati di
Schleswig e Holstein, condotta nel 1864 a fianco dell’Austria, diede a sua volta origine nel
1866 al conflitto contro quest’ultima. Alleata della Prussia fu l’Italia [n. 39], che, pur battuta
dall’Austria per terra e per mare, ottenne comunque il Veneto [n. 41].
Sconfitta dalla Prussia, l’Austria dovette abbandonare la presidenza della Confederazione
Germanica, che fu sciolta, mentre fu costituita una Confederazione della Germania del Nord
egemonizzata da Berlino [nn. 40 e 42]. L’esito della guerra affrettò inoltre la trasformazione
interna della monarchia asburgica, con la sua divisione in due parti sotto lo stesso sovrano,
l’Impero d’Austria ed il Regno d’Ungheria, dominate rispettivamente dagli austro-tedeschi e
dai magiari, ciascuna con un proprio governo, mentre restavano in comune gli affari esteri, quelli
militari e le finanze [n. 43]. La fine dell’egemonia austriaca prima in Italia e poi in Germania,
determino l’«inorientamento» della monarchia austro-ungarica, i suoi interessi sono sempre più
rivolti all’Europa danubiano-balcanica, accentuando la rivalità con la Russia.
La proposta candidatura al trono di Spagna del Principe Leopoldo di Hohenzollern-
Sigmaringen, di un ramo cadetto cattolico della famiglia regnante in Prussia, offrì a Bismarck
l’occasione per provocare la guerra con la Francia, voluta per contrastare le tendenze
antiprussiane degli Stati meridionali della Germania, in particolare la Baviera, mobilitando tutti i
tedeschi in uno sforzo patriottico. Alterando il testo del “telegramma di Ems” che riferiva
dell’incontro tra il Re Guglielmo I e l’ambasciatore francese [n. 44], Bismarck provocò infatti ad
arte l’indignazione della Francia, che dichiarò guerra. La rapida sconfitta delle armate francese
(lo stesso Napoleone III cadde prigioniero) provocò la caduta del Secondo Impero; il trattato di
pace firmato dalla nuova repubblica francese previde la cessione dell’Alsazia e della Lorena
23
[nn. 48 e 49] all’Impero Tedesco, proclamato nella galleria degli specchi della Reggia di
Versailles il 18 gennaio 1871 con l’offerta della corona al Re di Prussia da parte dei principi
tedeschi [n. 47]. L’Impero tedesco ebbe una struttura federale, all’interno della quale
sopravvivevano gli antichi Stati con i loro sovrani, ma era chiara la supremazia della Prussia [n.
50].
La guerra aveva costretto la Francia a richiamare dal Lazio il corpo di truppe schierato a
difesa dello Stato Pontificio, che era stato ritirato a seguito della convenzione di settembre del
1864 [n. 37], ma era poi ritornato a Roma nel 1867 per fermare l’invasione garibaldina. Della
situazione approfittò l’Italia per invadere lo Stato Pontificio, conquistare il Lazio e Roma (20
settembre 1870) ed abbattere il più che millenario Potere Temporale del Papa. Per giustificare
l’aggressione, il Re Vittorio Emanuele II scrisse una ipocrita lettera al Papa Pio IX [n. 45], che
respinse sobriamente le argomentazioni del Sovrano [n. 46]. Il Pontefice, nel 1864, con la
pubblicazione del “Sillabo” dei principali errori moderni [n. 38], aveva proclamato la
inconciliabilità del Cattolicesimo con il liberalismo.
24
Lezione 5
L’età dell’imperialismo: blocchi di potenze e prove di forza in Europa, 1870-1913
Tra il 1871 ed il 1914 l’Europa conobbe un lungo periodo di pace. La politica
internazionale in Europa è guidata dal «concerto europeo» delle Grandi Potenze (Gran
Bretagna, Francia, Impero Tedesco, Impero Austro-Ungarico, Russia, Regno d’Italia). Il
«concerto europeo» riuscirà con crescente difficoltà a controllare le crisi internazionali, evitando
l’esplosione di una guerra generale, fino al 1914. È il periodo dell’apogeo dell’Europa, le cui
Potenze, con l’imperialismo coloniale arrivano a controllare circa il 60% del territorio mondiale.
Alla fine del secolo emergono però due Grandi Potenze extra-europee: Stati Uniti e Giappone
(cfr. lezione 6).
Il periodo tra il 1871 ed il 1914 può essere diviso in tre sottoperiodi:
1. 1871-1890: il “ventennio bismarckiano”, dominato dalla iniziative diplomatiche e dalle
alleanze che ruotano intorno alla figura di Bismarck.
2. 1890-1902: inizio dello sfaldamento del sistema bismarckiano, ma anche prevalenza dei
contrasti imperialistici extra-europei. Il 1902 (alleanza anglo-giapponese) è data
simbolica della fine dello “splendido isolamento” britannico.
3. 1902-1914: ritorno in primo piano dei problemi europei, consolidamento dei blocchi
contrapposti (Triplice Alleanza e Triplice Intesa), ripetute crisi internazionali.
Dopo il 1870 la Germania è una Potenza “soddisfatta”, lo scopo di Bismarck è di
mantenere lo status quo in Europa, isolando la Francia per impedirle di attuare la revanche. Per
fare ciò Bismarck cerca comunque di tenere la Russia legata alla Germania.
Il sistema di alleanze bismarckiano conobbe tre fasi e coinvolse tutte le Grandi Potenze,
tranne, se non in via del tutto marginale (accordi mediterranei con l’Italia del 1887) la Gran
25
Bretagna, che si mantenne dopo il 1870 nello “splendido isolamento”, dedicandosi al suo
Impero coloniale.
1. La prima fu incentrata sull’Intesa dei tre Imperatori (Tedesco, Austro-Ungarico e
Russo) del 1873 [n. 52], entrata in crisi a causa dell’esito del Congresso di Berlino del
1878, convocato a seguito della crisi d’Oriente, che provocò il risentimento della Russia,
ancor più contro la Germania che contro l’Austria-Ungheria, per la sconfitta diplomatica
ivi subita.
2. La seconda fase ebbe come capisaldi l’alleanza austro-tedesca del 1879 [n. 53],
allargatasi poi nella Triplice Alleanza [Impero Tedesco, Austria-Ungheria, Italia] del
1882 [n. 55], e l’Alleanza dei tre Imperatori [sempre Tedesco, Austro-Ungarico e
Russo] del 1881 [n. 54].
3. Tramontata definitivamente quest’ultima a causa della rivalità austro-russa nei Balcani,
Bismarck ricostruì i rapporti della Germania con la Russia attraverso il segretissimo
trattato di “contro-assicurazione” del 1887 [n. 59], che caratterizzò, insieme al rinnovo,
nello stesso anno, della Triplice alleanza [n. 56a], la terza ed ultima fase del suo
“sistema”.
Il quarto di secolo precedente la prima guerra mondiale vide il formarsi di un blocco di
potenze, la Triplice Intesa (Francia, Russia e Gran Bretagna), contrapposto alla Triplice
Alleanza (Germania, Austria-Ungheria, Italia), all’interno della quale però la posizione
dell’Italia si distingueva da quelle della Germania e dell’Austria-Ungheria, collocandosi come
ago della bilancia tra i due schieramenti (cfr. Lezione 7).
Differenza strutturale tra i due blocchi:
1. La Triplice Alleanza è un preciso trattato di alleanza difensiva, che raggruppa tre
26
Potenze, firmato nel 1882 e rinnovato ogni cinque anni, con integrazioni, fino al 1912.
2. Non esiste invece un trattato della Triplice Intesa prima della Prima Guerra Mondiale,
perché la Triplice Intesa è la somma di tre accordi bilaterali, in ordine di tempo: A.
L’alleanza franco-russa del 1891-94 (l’unico accordo dei tre a carattere di alleanza
militare). B. L’Entente Cordiale anglo-francese del 1904. C. L’intesa anglo-russa del
1907.
Conseguenza dell’allontanamento dal potere del cancelliere von Bismarck da parte
dell’Imperatore tedesco Guglielmo II fu il mancato rinnovo [n. 61] del trattato di contro-
assicurazione tra Germania e Russia, che portò nel giro di poco tempo all’alleanza tra
quest’ultima e la Francia [n. 63] in funzione anti-tedesca. Inutilmente Guglielmo II cercò poi nel
1905 di ricucire un’alleanza con la Russia, in quel momento in guerra con il Giappone alleato
della Gran Bretagna, attraverso il trattato di Biörkö, mai entrato in vigore [n. 74].
All’inizio del nuovo secolo il governo di Londra aveva deciso di uscire dallo “splendido
isolamento” [n. 66] che ne aveva caratterizzato la politica negli ultimi decenni, sentendo il peso
dell’imperial overstretching: troppi impegni mondiali in rapporto alla declinante supremazia
economica, commerciale e navale. Il primo atto formale in questo senso fu l’alleanza con il
Giappone [n. 67] al fine di trovare un sostegno alle proprie posizioni imperialiste in Estremo
Oriente. Scartata la prospettiva di un’alleanza con la Germania, Londra decise invece di porre
fine allo scontro imperialistico con la Francia, che nel 1898 era culminato a Fascioda. La
seconda tappa della Triplice intesa fu quindi costituita dall’Entente Cordiale tra Francia e Gran
Bretagna nel 1904 [n. 72], che regolava i reciproci interessi imperialistici extra-europei, in
particolare riconoscendo l’Egitto come zona di influenza britannica ed il Marocco come zona di
influenza francese. La Gran Bretagna, anche a causa della rivalità navale e commerciale con
Berlino, divenne sempre più sensibile al pericolo di una egemonia tedesca sul continente europeo
[n. 76], giungendo così a regolare le sue controversie extraeuropee con la Russia, con la quale
27
concluse il trattato del 1907 [n. 77], terzo ed ultimo anello della Triplice Intesa. Come l’Entente
Cordiale del 1904 con la Francia, il trattato anglo-russo regolava le questioni imperialistiche tra i
due paesi, in questo caso in Asia Centrale (Persia ed Afghanistan), ponendo fine al “grande
gioco”.
Una serie di crisi nel primo decennio del XX secolo accrebbero la tensione
internazionale: la prima [n. 73], nel 1905, e la seconda, nel 1911, crisi marocchina, che vide
contrapposte Germania e Francia, che alla fine ottenne il protettorato sul Marocco; la crisi per
l’annessione della Bosnia Erzegovina da parte dell’Impero Austro-Ungarico nel 1908 [n.
80], che irritò Russia ed Italia; la guerra italo-turca per la Libia; le guerre balcaniche [nn. 98
e 100] del 1912-13.
28
Lezione 6
L’età dell’imperialismo: gli imperi coloniali, le grandi potenze extraeuropee emergenti
(Stati Uniti e Giappone), la Cina
Gli storici discutono sulla differenza, più o meno pronunciata, tra espansione coloniale ed
imperialismo coloniale, intendendo quest’ultimo come una fase di accentuata spartizione del
mondo extra-europeo collocabile a partire dagli anni ’70 del secolo XIX. Si dibatte anche sulle
cause dell’imperialismo coloniale, che i marxisti e i radicali anti-imperialisti (Hobson, Hilferding,
Lenin, Louxemburg) vedono soprattutto economiche, mentre altri (Schumpeter, Aron) vedono
una prevalenza di motivazioni politico-strategiche. Una posizione equilibrata, che indica una
molteplicità di cause, è quella di David K. Fieldhouse.
Gli ultimi decenni del secolo XIX vedono quella che è stata chiamata la “gara degli
imperialismi” fra le grandi potenze europee rivali dell’Inghilterra. Così la Francia del Secondo
Impero e della Terza Repubblica (in Indocina, n. 106; nell’Africa centrale e settentrionale, n.
110). Così la Russia, impegnata in un’espansione territoriale verso la Cina fin dagli anni ‘50: (n.
105) per giungere alla fine del secolo, con lo stabilimento della base di Port Arthur, a promuovere
la divisione in sfere d’influenza di una parte del Celeste Impero. E l’Inghilterra stessa si adegua
(n. 115). La Germania attua un’espansione coloniale in senso stretto relativamente modesta
rispetto alla posizione del Secondo Reich come grande Potenza europea, ma esercita un ruolo
centrale anche in questo settore nella conferenza di Berlino del 1884-85 (n. 113). Infine, l’”ultima
delle grandi potenze”, l’Italia, non vuole rimanere esclusa dalla “corsa dell’Africa” (scramble for
Africa) in Africa orientale (n. 109) e settentrionale (n. 117). Lo scontro a Fashoda (1898) tra Gran
Bretagna e Francia è assurto a episodio culminante della lotta tra i due maggiori imperialismi
coloniali.
L’impegno generalizzato dell’Europa si esprime d’altra parte, nella “età
29
dell’imperialismo”, anche in forme diverse: dalla Conferenza di Berlino del 1885 appena
nominata, che intende regolamentare l’intervento internazionale nell’Africa centro-occidentale,
all’allora appena costituita Associazione Internazionale del Congo, la più privatistica delle
iniziative espansionistiche europee del secolo (n. 112), alla Convenzione internazionale sul
Canale di Suez, che nel 1888 regola la gestione e lo status internazionale della grande via d’acqua
fra Mediterraneo e Oceano Indiano inaugurata quasi vent’anni prima (n. 114).
La politica internazionale degli Stati Uniti d’America si mantenne durante l’intero corso
del secolo XIX staccata o “isolata” dalla politica europea sulla base della “dottrina” enunciata
dal presidente Monroe nel 1823 [n. 118] (cfr. lezione I) e più volte confermata dai suoi
successori [nn. 119a e 125]. Questa posizione mentre non impedì al governo di Washington di
accordarsi nel 1850 con l’Inghilterra per la costruzione di un canale fra l’Oceano Atlantico e il
Pacifico, nella America centrale [nn. 120 e 128], lo spinse a bloccare gli interventi di potenze
europee nell’Emisfero occidentale [nn. 122 e 125]. Nello stesso tempo gli Stati Uniti
perseguirono una direttiva di vigorosa espansione “nazionale” e/o commerciale ed un controllo
politico nel semicontinente nordamericano e nei territori continentali e insulari limitrofi [n. 118b,
123, 126, 129, 130] e un’altra direttiva di espansione e di impegno nel Pacifico fino all’Asia
Orientale [n. 121, 126b, 127].
Nell’ultimo decennio del secolo XIX, per una serie di circostanze, la fine della
colonizzazione interna, il passaggio dalla vecchia alla nuova immigrazione, l’affermazione del
sistema industriale, lo sviluppo del movimento imperialista, gli Stati Uniti si affacciarono alla
politica mondiale. La guerra dichiarata alla Spagna a motivo della rivolta di Cuba (ultima
colonia spagnola in America Latina) fu l’episodio culminante della svolta nella politica estera
americana. Nel suo messaggio di guerra al Congresso dell’11 aprile 1898 il presidente William
McKinley mescolò significativamente etica ed affari, affermando: “In nome dell’umanità, in
nome della civiltà, nell’interesse degli affari americani messi in pericolo, che ci danno il diritto e
30
il dovere di parlare e di agire, la guerra a Cuba deve finire”. La guerra di Cuba, iniziata con
motivazioni ufficialmente umanitarie, liberare gli insorti cubani dal dominio spagnolo, portò a
risultati decisamente imperialisti: il protettorato statunitense di fatto sulle Filippine ed il controllo
della stessa Cuba.
Nel suo primo messaggio sullo stato dell’Unione, il presidente Teodoro Roosevelt
affermò: “La crescente interdipendenza e complessità delle relazioni internazionali politiche ed
economiche rendono obbligatorio per tutte le potenze civili e ordinate di insistere sul corretto
mantenimento dell’ordine [proper policing] del mondo”. Agli USA spettava in particolare il
ruolo di poliziotto del continente americano; nel cosiddetto “corollario Roosevelt” alla
“dottrina Monroe”, il presidente affermò nel 1904 che quest’ultima conferiva agli USA “un
potere di polizia internazionale” nei confronti degli Stati americani incapaci di mantenere l’ordine
interno e di “agire con ragionevole efficienza e correttezza nelle questioni politiche e sociali”.
Durante la presidenza del successore di Roosevelt, il repubblicano William Howard Taft, si
ebbe la compenetrazione piena fra “diplomazia” e “dollaro” [n. 131], con molteplici
interventi politico-militari degli USA in America Latina a sostegno dei propri interessi
economici. Il presidente Roosevelt mediò la pace di Portsmouth tra Russia e Giappone e fece
partecipare gli Stati Uniti alla conferenza di Algesiras (1906), convocata a seguito della prima
crisi marocchina, schierandoli a favore di Francia e Inghilterra contro la Germania.
Il Giappone fu aperto all’influenza occidentale quando nel 1853 la squadra navale
americana del commodoro Perry giunse per prima sulle coste giapponesi, precedendo i russi.
Mentre la Cina, di fronte all’impatto con l’imperialismo occidentale, rifiutò la modernizzazione,
cadde sotto l’influenza delle Grandi Potenze e nel disordine, il Giappone, dopo iniziali esitazioni,
fece proprie le istituzioni e la tecnologia occidentali, mantenendo allo stesso i tempo i valori
tradizionali come la fedeltà assoluta all’Imperatore, grande spirito di sacrificio e capacità di
lavoro e ponendo così le basi per la sua ascesa come Grande Potenza regionale in Estremo
31
Oriente. Il Giappone vinse una guerra con la Cina (1894-95) [n. 64], ottenendo Formosa e le
Pescadores, ed una guerra con la Russia (1904-05) [n. 75], ottenendo la parte meridionale
dell’isola di Sakhalin, l’influenza sulla Manciuria e il protettorato sulla Corea (annessa nel 1910)
[n. 72]. Nel 1902 stipulò un’alleanza con la Gran Bretagna [n. 67], rinnovata nel 1911 e nel
1908 stipulò anche un accordo (Root-Takahira), con gli Stati Uniti [n. 79].
La Cina seguì un percorso diverso dal Giappone, rifiutando la modernizzazione, cercando
di cavalcare la rivolta dei boxer (1900) ed andando incontro alla spartizione in zone d’influenza.
L’Impero cadde nel 1912 aprendo una fase di instabilità e frammentazione.
32
Lezione 7
La politica estera italiana, 1870-1913
Fino al 1870 la politica estera del Regno d’Italia è dominata dalla necessità di
completare l’unità con il Veneto e il Lazio. Il primo obiettivo è raggiunto nel 1866 con la III
guerra d’indipendenza, meglio nota a livello internazionale come guerra austro-prussiana (cfr.
lezione 5), il secondo nel 1870 approfittando della guerra franco-prussiana. Nel 1869, con
l’affitto alla Società Rubattino della baia di Assab in Eritrea si sono poste le basi per la futura
espansione coloniale; nel 1867 l’Italia, venendo ammessa alla conferenza internazionale sul
Lussemburgo, è riconosciuta come membro del “concerto europeo”, ossia una Grande Potenza.
La storiografia ha descritto l’Italia come “l’ultima delle Grandi Potenze”, perché se da
un lato ragioni ideali (il mito della “terza Roma”) e la sua posizione geopolitica (importante sia
dal punto di vista continentale, con la pianura Padana, sia marittimo) la spingevano ad un ruolo
da Grande Potenza, altre ragioni ideali (una compagine nazionale giovane e divisa, innanzi tutto
dalla questione romana) e pratiche (scarsità di materie prime, debole economia) la ponevano in
una condizione inferiore a quella delle altre Grandi Potenze.
Dopo il 1870 si ponevano all’Italia due alternative. Una politica prudente, del “piede in
casa”, “indipendenti sempre, isolati mai”, sostenuta dal ministro degli esteri Visconti Venosta,
della Destra Storica erede di Cavour, consapevole che l’unificazione italiana si era compiuta non
tanto per forza propria del movimento liberal-nazionale italiano, quanto grazie ad una fortunata
situazione diplomatica. La Sinistra Storica, sopravvalutando la forza del movimento
risorgimentale e le possibilità dell’Italia, propendeva per una politica estera più attiva.
Dal congresso di Berlino del 1878 l’Italia tornò con “le mani nette, ma vuote”; nel 1881 la
Francia proclamò il protettorato sulla Tunisia. L’Italia non poteva opporsi contemporaneamente
33
all’avanzata francese nel Mediterraneo ed ai progressi austriaci nei Balcani; doveva scegliere il
male minore ed uscire dall’isolamento. Perciò concluse nel 1882 la Triplice Alleanza con
Austria-Ungheria e Germania: alleanza difensiva nei confronti della Francia e della Russia. Nel
1887, in occasione del primo rinnovo della Triplice Alleanza, l’Italia ottenne, con i trattati
italo-tedesco [n. 56c] ed italo-austriaco [n. 56b] un primo riconoscimento dei suoi interessi
in Africa Settentrionale e nei Balcani.
Il 1896 (sconfitta di Adua, nella guerra contro l’Etiopia) segna uno spartiacque nella
politica estera italiana dal 1870 al 1914. Fino a quel momento l’orizzonte diplomatico
dell’Italia era limitato alla Triplice Alleanza; Crispi esasperò il contrasto con la Francia e credette
erroneamente di poter sfruttare l’appartenenza alla Triplice per le ambizioni coloniali dell’Italia.
Dopo il 1896 l’Italia affiancò alla sua adesione alla Triplice alleanza, più volte rinnovata
[nn. 62, 69], l’ultima volta il 5 dicembre 1912, una politica di riavvicinamento alla Francia [n. 65
e 70], che, insieme alla tradizionale amicizia con la Gran Bretagna [n. 9] ed al trattato di
Racconigi con la Russia del 1909 [n. 81] a seguito dell’annessione austriaca della Bosnia, svuotò
di gran parte del suo significato la propria alleanza con gli Imperi centrali. Il riavvicinamento alla
Francia culminò negli accordi Prinetti-Barrère del 1902 (da non confondere con i Visconti
Venosta-Barrère del 1900) con i quali i due paesi si promettevano reciprocamente neutralità, nel
caso di coinvolgimento in una guerra “difensiva”. Fu la politica dei “giri di valzer”, secondo
l’espressione del cancelliere tedesco von Bülow, che rese l’Italia l’ago della bilancia tra
Triplice Alleanza e Triplice Intesa, un alleato infido, verso il quale il capo di Stato Maggiore
austro-ungarico arrivò ad ipotizzare una guerra preventiva [n. 82]. Alla vigilia della prima guerra
mondiale comunque le marine militari dei due schieramenti contrapposti stipularono piani di
collaborazione e di divisione dei compiti [n. 83].
L’Italia preparò diplomaticamente in un arco di vent’anni la guerra di Libia,
ottenendo da tutte le Grandi Potenze il riconoscimento della Tripolitania e della Cirenaica
34
come proprie zone di influenza [n. 69, 81]:
1. 1891 - Secondo rinnovo della Triplice Alleanza: la Germania dichiara di appoggiare gli
interessi italiani in Libia [n. 62].
2. 1900 - Accordi Visconti Venosta-Barrère: la Francia riconosce che la Libia rientra nella
sfera di influenza dell’Italia [n. 65].
3. 1902 - In occasione del rinnovo della Triplice Alleanza, l’Austria-Ungheria si impegna a
non ostacolare l’azione italiana a tutela dei suoi interessi in Libia [n. 69].
4. 1902 - Secondi accordi mediterranei, con i quali la Gran Bretagna promette un
comportamento conforme agli interessi italiani caso di mutamento dello status quo nel
Mediterraneo e conferma il suo disinteresse per la Libia [n. 68].
5. 1909 - Trattato di Racconigi, con il quale la Russia si impegna a considerare con
benevolenza gli interessi italiani in Libia [n. 81].
Le ragioni che indussero l’Italia a passare all’azione nel 1911 furono:
1. Ragioni di politica internazionale:
a) La rivolta dei Giovani Turchi (1908) mira a rafforzare l’Impero Ottomano.
b) La seconda crisi marocchina (luglio 1911) fa prevedere il protettorato francese sul
Marocco.
2. Ragioni di politica interna: nel 50° anniversario dell’Unità, il governo Giolitti deve dare
soddisfazione alle spinte nazionaliste ed alle esigenze di orgoglio e di prestigio di larga parte
dell’opinione pubblica.
La guerra di Libia (1911-12):
1) La posizione delle Grandi Potenze:
a) Atteggiamento “rassegnatamente” favorevole all’Italia delle sue alleate: Germania ed
Austria-Ungheria.
b) Atteggiamento più favorevole di Gran Bretagna e Russia.
35
c) Atteggiamento ambiguo della Francia.
2) Le conseguenze della guerra:
a) L’indebolimento dell’Impero Ottomano scatena la prima guerra balcanica.
b) Fallimento del progettato accordo mediterraneo tra Gran Bretagna, Francia ed Italia.
c) Rafforzamento dei legami tra l’Italia e le sue alleate della Triplice Alleanza (Germania
ed Austria-Ungheria): la convenzione navale del giugno 1913.
36
Lezione 8
Cause, caratteristiche e vicende militari, politiche e diplomatiche della prima guerra
mondiale
Alla vigilia della prima guerra mondiale l’Europa era la “proud tower”, all’apogeo del
potere mondiale: controllava il 60% dei territori mondiali, il 65% degli abitanti, il 57% della
produzione di acciaio, il 57% del commercio mondiale.
Esistevano tra le Potenze europee tre dissidi ancora aperti (le rivalità coloniali erano
state composte nel primo decennio del secolo): 1) Quello franco-tedesco relativo all’Alsazia-
Lorena. 2) Quello tra Russia ed Austria-Ungheria nei Balcani. 3) La rivalità navale e
commerciale tra Gran Bretagna e Germania.
Le crisi internazionali del primo decennio del secolo (cfr. lezione 5) avevano
rafforzato la contrapposizione tra i due blocchi: se però nella Triplice Intesa la Gran Bretagna
si è avvicinata all’Alleanza franco-russa, nella Triplice Alleanza l’Italia non è un alleato sicuro,
mentre l’alleanza tra Germania ed Austria è salda. La tensione internazionale porta al riarmo
terrestre e navale.
Causa scatenante della crisi è l’assassinio a Sarajevo il 28 giugno 1914 dell’Arciduca
Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austro-ungarico. Poco meno di un mese
dopo, il governo di Vienna inviò alla Serbia, giustamente sospettata di essere implicata nel
complotto, un ultimatum [n. 132], mettendo in modo un meccanismo diplomatico e militare che
nel giro di poco più di dieci giorni precipitò nella guerra gran parte dell’Europa. Ciascun paese
ritenne fosse in gioco un proprio vitale interesse nazionale: 1. L’Austria-Ungheria non poteva
perdere l’occasione di regolare i conti con la Serbia, che si poneva come punto di riferimento per
gli slavi del sud all’interno dell’Impero. 2. La Russia, protettrice della Serbia, non poteva lasciare
campo libero nei Balcani alla sua rivale Austria-Ungheria. 3. La Francia non poteva abbandonare
37
la sua alleata Russia, perdendo così l’occasione di riconquistare l’Alsazia-Lorena. 4. La
Germania doveva appoggiare la sua unica alleata sicura, l’Austria-Ungheria, sperando anche che
dichiarare il suo appoggio potesse servire a localizzare il conflitto. 5. La Gran Bretagna
intervenne perché riteneva che la potenza dell’Impero Tedesco stesse alterando l’equilibrio
europeo, al quale era da almeno due secoli attenta; l’intervento britannico fu facilitato dalla
violazione tedesca della neutralità del Belgio, necessaria per attuare il piano Schlieffen. I vari
paesi si aspettavano una guerra breve, che non provocasse sconvolgimenti politici e sociali, come
era stato per le guerre post-napoleoniche; nel 1914 la guerra non era ancora oggetto di condanna
morale.
Rimase inizialmente fuori del conflitto l’Italia, che, pur membro della Triplice alleanza,
proclamò subito la sua neutralità e ben presto cominciò a considerare quale atteggiamento le
convenisse assumere. Dopo aver sondato entrambi gli schieramenti [nn. 133 e 134], con il
Patto di Londra del 24 aprile 1915 [n. 135] l’Italia decise l’entrata in guerra a fianco della
Triplice Intesa. L’Italia dichiarò guerra all’Austria il 24 maggio 1915, alla Germania solo nel
giugno 1916.
La prima guerra mondiale scoppiò per ragioni classiche di politica di potenza. La
diplomazia segreta di guerra, come gli accordi tra le potenze dell’Intesa relativi agli Stretti [n.
136] ed al Vicino e Medio Oriente [nn. 137 e 141], spartito in zone d’influenza tra Gran
Bretagna e Francia, rivela chiaramente le ambizioni imperialiste dei contendenti. Sempre in
Medio Oriente, gravida di problemi gravissimi ancor oggi irrisolti la dichiarazione del
ministro degli esteri britannico Balfour a favore di una “sede nazionale” per il popolo
ebraico in Palestina [n. 143]. Difficile trovare una contrapposizione ideologica tra
autoritarismo e democrazia, in una contesa che vedeva la Russia zarista come pilastro della
Triplice Intesa. Il progredire del conflitto, la necessità di giustificare con ragioni più nobili i
sacrifici richiesti alle popolazioni e di motivare, come richiesto dagli Stati Uniti, gli “scopi di
38
guerra” pubblici della Triplice Intesa [n. 139], la caduta dello Zar fecero sì che alla fine la
propaganda dell’Intesa presentasse il conflitto come una lotta tra le democrazie e gli Imperi
autoritari, una lotta per le nazionalità “oppresse”, contro il multinazionale Impero asburgico.
Nel corso del conflitto fu più volte esplorata la possibilità di una pace negoziata. Ma la
Germania non accettò mai nemmeno la completa restituzione alla Francia dell’Alsazia-Lorena
ed il reintegro del Belgio nella sua piena sovranità; l’iniziativa personale dell’Imperatore Carlo
I d’Asburgo con la missione affidata al cognato Sisto di Borbone-Parma, ufficiale dell’esercito
belga [n. 138 b], per una pace di compromesso si arenò di fronte a tale scoglio, non volendo
l’Imperatore semplicemente abbandonare l’alleato tedesco, oltre che di fronte all’ostilità verso
gli Asburgo della Massoneria internazionale.
Gli Stati Uniti, dalla fase della neutralità, passarono alla proposta di una “pace senza
vittoria” per poi entrare in guerra nell’aprile 1917 a fianco della Triplice Intesa, ma
mantenendosi le mani libere, come Potenza “associata” ma non “alleata”, rispetto agli accordi
per il dopoguerra stretti dalle Potenze europee e decisi ad imporre al tavolo della pace la
propria nuova concezione di politica estera.
Durante il conflitto sorsero appunto tre “nuove diplomazie”: quella pontificia
contemporanea, impegnata nella promozione della pace [n. 142], quella sovietica [n. 144] e
quella, la new diplomacy per antonomasia, ispirata ai quattordici principi enunciati dal
presidente americano Wilson nel gennaio 1918 [n. 145].
Il trattato di pace di Brest Litowsk del marzo 1918 [n. 146], in conseguenza della
rivoluzione bolscevica in Russia, segnò l’effimera vittoria degli Imperi sul fronte
orientale.
39
Parte II
La crisi dell’Europa (1919-1945)
Lezione 9
La conferenza della pace. Europa, Stati Uniti e URSS all’inizio degli anni ‘20.
Nel gennaio 1919 i rappresentanti delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale si
riunirono alla conferenza della pace di Parigi con l'obiettivo di delineare i nuovi equilibri
internazionali. Il principale risultato della conferenza furono i trattati di pace conclusi con i paesi
sconfitti. Il presidente americano Wilson volle che il Patto della Società delle Nazioni [n. 147]
fosse inserito integralmente come Parte I in ciascuno di essi. Il trattato con la Germania
firmato a Versailles [n. 148] il 28 giugno 1919 era il più importante, riguardando quella che era
considerata dai vincitori l'anima della coalizione avversaria. Era evidente il carattere punitivo del
trattato. Dal punto di vista territoriale la Germania doveva rinunciare all'Alsazia ed alla Lorena, a
Eupen e a Malmédy, alla Posnania, alla Prussia occidentale, a Danzica e a Memel. La sorte dello
Schleswig-Holstein, di parte della Prussia orientale, dell'Alta Slesia e della Saar era affidata a
plebisciti. Si sanciva il divieto di unione tra la Germania e l'Austria tedesca (il cosiddetto divieto
di Anschluss). Si prevedeva a titolo di garanzia l'occupazione delle città renane di Colonia,
Magonza e Coblenza per un periodo complessivo di quindici anni. Si condannava la Germania
alla perdita di tutte le sue colonie. Dal punto di vista militare si stabiliva una drastica limitazione
delle forze armate tedesche e dei loro armamenti, la smilitarizzazione della riva sinistra del Reno
e di una zona di 50 chilometri sulla riva destra, la creazione di una commissione di controllo con
ampi poteri. Dal punto di vista economico s’imponeva il pagamento delle riparazioni, il cui
ammontare sarebbe stato fissato all'astronomica cifra di 132 miliardi di marchi oro. Non ultimo,
si affermava il principio della responsabilità morale della Germania per lo scoppio della guerra.
La Germania, a differenza di quanto era avvenuto con la Francia a Vienna circa un secolo prima,
non fu ammessa alla conferenza, ma posta di fronte ad un diktat, firmare il trattato senza
discuterlo.
40
Ad una concezione analoga erano ispirati i trattati di pace con gli sconfitti minori. Per
limitarci agli aspetti territoriali, vale la pena di rilevare che il trattato di Saint-Germain-en-
Laye [n. 149] prevedeva la separazione dell'Austria non solo dai domini di epoca asburgica,
ma anche dai nuclei tedeschi presenti in Alto-Adige o nelle terre ceche; inoltre ribadiva il divieto
di Anschluss austro-tedesco. Il trattato di Neuilly [n. 150] confermava le rinunce imposte alla
Bulgaria dopo la seconda guerra balcanica e le sottraeva i residui possedimenti in Macedonia e
lo sbocco al mare Egeo attraverso la Tracia occidentale. Il trattato di Trianon [151] privava
l'Ungheria storica di tutti i suoi territori periferici [la Slovacchia, la Rutenia subcarpatica, la
Transilvania, il Banato, la Backa, la Baranya, il Burgenland] e lasciava circa tre milioni di
magiari fuori dai suoi confini. Il trattato di Sèvres [n. 152] riduceva l'Impero ottomano ai
minimi termini, dando ampia soddisfazione alle richieste di arabi, greci e armeni e sottoponendo
gli Stretti e Costantinopoli al controllo di un'amministrazione internazionale.
Non tutte le questioni relative alla sistemazione postbellica, però, trovarono una soluzione
alla conferenza della pace. L'incapacità dei vincitori di esprimere una precisa politica nei
confronti della Russia bolscevica lasciò in una situazione di incertezza ampie zone dell'Europa
orientale, e in particolare fece sì che il dissenso russo-polacco fosse deciso da un vero e proprio
conflitto armato. Con il trattato di Riga del marzo 1921 [n. 153] la Polonia dovette
abbandonare le sue massime richieste, ma si assicurò comunque il dominio su un'ampia parte dei
territori dell'ex impero zarista e su consistenti minoranze ucraine e bielorusse. Per quanto
riguardava invece la Turchia, le decisioni della conferenza della pace furono apertamente
contestate dal movimento nazionalista di Mustafa Kemal. Attraverso una guerra vittoriosa, i
turchi riuscirono a respingere il tentativo dei greci di penetrare in Anatolia e ottennero una
sostanziale revisione del trattato di Sèvres. Il trattato di Losanna del luglio 1923 [n. 154]
restituiva così alla Turchia, Stato nazionale sorto dalle ceneri dell’Impero ottomano, la Tracia
orientale, Smirne e l'Armenia e ristabiliva la sua piena sovranità su Costantinopoli. Il Medio
Oriente arabo era spartito in zone d’influenza, Mandati della Società delle Nazioni tra Gran
Bretagna e Francia e Stati formalmente indipendenti ma soggetti all’influenza soprattutto di
Londra. In Palestina sorgerà il contrasto tra la popolazione araba autoctona e l’immigrazione
41
ebraica. Nasce il problema del Medio Oriente.
Infine, tra i problemi lasciati in sospeso alla conferenza della pace, bisognava annoverare
l'aspra controversia tra l'Italia e la Jugoslavia (nome usato qui per comodità, fino al 1929
Regno dei Serbi-Croati-Sloveni) per il confine adriatico. In questo caso non si arrivò ad uno
scontro armato, ma si rese pur sempre necessario un laborioso negoziato tra le due parti
direttamente interessate. Un primo compromesso fu raggiunto col trattato di Rapallo del
novembre 1920 [n. 155 a] e con l'assegnazione dell'Istria, di alcune isole e di Zara all'Italia, del
resto della Dalmazia alla Iugoslavia, e con la creazione dello Stato libero di Fiume. Ad esso segui
il trattato di Roma del gennaio 1924 [n. 155 c], col quale si procedeva ad una spartizione dello
Stato libero di Fiume e all'assegnazione del porto adriatico all'Italia e del suo entroterra alla
Jugoslavia.
All’Austria-Ungheria succedettero, infatti, pretesi Stati nazionali che in realtà erano
altrettanto multinazionali dell’Impero scomparso, con l’aggravante che rifiutavano di
riconoscerlo e l’etnia dominante opprimeva le minoranze. La composizione etnica e religiosa
di tali Stati risulta dalle tabelle seguenti:
Cecoslovacchia
Nazionalità
Cechi 6 661 000 48, 9 %
Slovacchi 2 100 000 15,4 %
Tedeschi 3 124 000 22, 9 %
Ungheresi 745 000 5,5 %
Ruteni 462 000 3,4 %
Polacchi 76 000 0,6 %
Vari 445 000 3,3 %
Religioni
Cattolici 10 800 000
Luterani/Calvinisti 800 000
Chiesa cecoslovacca 800 000
Unità dei Fratelli 300 000
Ebrei 250 000
Atei 1 750 000
Polonia
42
Nazionalità
Polacchi 20 000 000 65,5 %
Ebrei 2 300 000 7,5 %
Ruteni/Ucraini 5 400 000 17,8 %
Tedeschi 1 250 000 4,1 %
Bielorussi 1 000 000 3,4 %
Altri (lituani, russi, ecc.) 550 000 1,7 %
Regno dei Serbi-Croati-Sloveni (dal 1929 Regno di Jugoslavia)
Nazionalità
Serbi 5 365 000 47,7 %
Croati 2 834 000 25,2 %
Sloveni 1 024 000 9,1 %
Tedeschi 513 000 4,7 %
Ungheresi 472 000 4%
Albanesi 441 000 3,7 %
Bulgari 274 000 2,7 %
Turchi 236 000 2,3 %
Romeni 72 000 0,6 %
Italiani 14 000
Religioni
Ortodossi 48%
Cattolici 37%
Musulmani 11%
Vari 4%
Romania
Nazionalità
Romeni 12 981 000 71,9 %
Ungheresi 1 425 000 7,8 %
Tedeschi 745 000 4%
Ebrei 728 000 3,9 %
Ruteni 582 000 3,2 %
Russi 409 000 2,2 %
Bulgari 366 000 2,1 %
Zingari 262 000 1,4 %
Turchi 154 000 0,8 %
Religioni
Ortodossi 73%
Cattolici uniati 7,6 %
Cattolici latini 7,5 %
Luterani/Calvinisti 6,9 %
Ebrei 4%
Musulmani 1%
A questi dati eloquenti vanno aggiunte alcune considerazioni relative a due Stati, la
Cecoslovacchia e la Jugoslavia, creati con i trattati di pace del 1919, due costruzioni artificiali
43
che sono durate pochissimo e si sono dissolte, la prima volta rispettivamente nel 1939 e nel 1941,
la seconda, e stavolta non si può accusare nessun Hitler, nel 1993 e nel 1991. In entrambi gli Stati
le etnie dominanti, Cechi nel primo caso, Serbi nel secondo, che rappresentavano meno del 50%
della popolazione, esercitarono una dura egemonia sulle minoranze nazionali, che ebbero tutti i
motivi di rimpiangere la situazione precedente. Non a caso slovacchi, come del resto croati e
sloveni, erano rimasti fino all’ultimo fedeli alla monarchia. Nel 1938 in Cecoslovacchia su 140
ufficiali generali uno solo era slovacco, su 13.000 ufficiali subalterni, gli slovacchi erano 420; 33
erano gli slovacchi a fronte di 1.246 cechi nei ranghi del ministero degli esteri; tra gli 8.000
funzionari delle amministrazioni centrali dello Stato gli slovacchi erano solo 130. Considerando
la situazione della Slovacchia essa “rimaneva sotto ogni profilo una colonia dello Stato
cecoslovacco, sfruttata a esclusivo vantaggio dei cechi”.
La situazione della Jugoslavia è fin troppo nota. Sloveni e croati ebbero prestissimo modo
di rimpiangere anch’essi il passato, in uno Stato dominato dai serbi la cui costituzione centralista
fu approvata nel 1921 senza che alla sua votazione partecipassero, in segno di protesta, i deputati
delle due minoranze nazionali.
La caduta dopo la prima guerra mondiale dei tre Imperi europei ed in particolare di quello
asburgico determinò un vuoto ed una frammentazione di potenza nell’Europa centro-orientale (la
cosiddetta “balcanizzazione”). Sul piano economico i nuovi Stati potevano a fatica reggersi
autonomamente. Ma in politica e soprattutto in politica internazionale il vuoto viene sempre
colmato. Dopo vent’anni le nazioni di quella parte dell’Europa erano strette nella morsa della
Germania nazionalsocialista e della Unione Sovietica.
L’operato della Conferenza della pace “fu una curiosa miscela di potenza, di moralità e di
economia”. Gli sconfitti ebbero la sensazione che venisse fatto prevalere a seconda dei casi uno
di tali criteri, sempre a loro danno.
44
Lezione 10
Sviluppo e crisi del sistema di Versailles, 1925-1932
Il periodo tra le due guerre mondiali è convenzionalmente diviso in due periodi, che
hanno come spartiacque il 1929, anno del crollo della borsa di Wall Street, che determinò una
crisi economica a livello mondiale e segnò il passaggio ad una clima internazionale conflittuale.
Sin dall'indomani della conclusione dei trattati di pace la sistemazione postbellica
apparve minata da una serie di elementi di debolezza. Al prevedibile risentimento degli
sconfitti e dell’Unione Sovietica (che non aveva partecipato alla Conferenza della pace) si
aggiungevano le divisioni esistenti all'interno dello schieramento dei vincitori. Gli Stati Uniti
rinunciavano a svolgere un ruolo di primo piano nella conduzione degli affari mondiali e si
ritiravano su posizioni neo-isolazioniste, mentre il Giappone e, in una certa misura, anche
l'Italia manifestavano la loro insoddisfazione per le soluzioni adottate alla conferenza della pace.
La presenza di queste ombre sulla scena internazionale indusse le Potenze a fare
affidamento sul tradizionale strumento delle alleanze per soddisfare le proprie esigenze di politica
estera. Il timore di una restaurazione della potenza germanica e, inoltre, la volontà di affermare la
propria influenza in Europa spinsero la Francia alla realizzazione di un sistema di alleanze
orientali, le cui manifestazioni furono i trattati con la Polonia, con la Cecoslovacchia, con la
Romania e con la Jugoslavia [nn. 156, 164, 166 e 167]. Altre combinazioni furono formate dalle
piccole e medie potenze dell'Europa orientale. La duplice minaccia della restaurazione asburgica
e del revisionismo magiaro indussero la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e la Romania a
concludere una serie di trattati e a dare origine alla cosiddetta Piccola Intesa [n. 157]. Il
comune interesse al contenimento della Russia determinò invece l'alleanza tra Polonia e
Romania [n. 158]. Tuttavia anche gli elementi sconfitti o comunque insoddisfatti non
rimanevano inerti. Il caso più significativo era quello della Germania e della Russia (dal 1922
Unione Sovietica), che sin dalla fase conclusiva della prima guerra mondiale avevano allacciato
una collaborazione e che formalizzarono i loro rapporti con il trattato di Rapallo del 1922 (da
non confondere con quello del 1920 tra Italia e Jugoslavia) ed il trattato di amicizia del 1926
45
[nn. 163 a e b], tappe di una direttiva geopolitica che da Bismarck al Patto Molotov-Ribbentrop
del 1939 vide intese tra Germania e Russia indipendentemente dai regimi.
I primi anni ’20 furono videro la contrapposizione tra Francia e Germania. La prima,
appoggiata dal Belgio, occupò nel 1923 la Ruhr, poiché la Germania era in ritardo sul
pagamento delle Riparazioni. L’occupazione terminò nel 1925 a seguito dell’adozione del piano
Dawes per il pagamento delle Riparazioni, sostituito nel 1929 dal piano Young, e dell’inizio
di una fase di distensione nei rapporti tra Francia e Germania, della quale furono artefici,
rispettivamente, Briand e Stresemann.
La Società delle Nazioni cercò di garantire della sicurezza collettiva, ma dimostrò presto
di non avere gli strumenti statutari adeguati né di godere della fiducia delle Grandi Potenze. A
cavallo tra il 1921 e il 1922 la conferenza di Washington permise il raggiungimento di un accordo
tra numerose Potenze su due diversi ordini di problemi: da una parte sulla limitazione degli
armamenti navali [n. 161], rivisto poi a Londra nel 1930, dall'altra sull'assetto del Pacifico e della
Cina e [nn. 160 e 162]. In Estremo Oriente il Giappone era però sempre più insoddisfatto per i
vincoli posti alla propria espansione dagli Stati Uniti e dalle Potenze europee. Durante gli anni
’20 si preparò la convocazione di una conferenza generale sul disarmo; si riunì solo nel 1932,
con un nulla di fatto.
Nel 1925 la conferenza di Locarno portò ad un'intesa su una delle più gravi controversie
territoriali esistenti in Europa, quella relativa al confine renano [n. 165]. In realtà questi accordi
non sgombrarono il campo dalle reciproche diffidenze. In Europa la Germania di Stresemann
sembrava disposta ad accettare la stabilizzazione dei propri confini occidentali solo in cambio
dell'apertura di prospettive revisionistiche a Est e a Sud. Per il momento, però, la sicurezza
collettiva raggiungeva il suo apogeo. Nel 1928 vi fu il patto Briand-Kellogg è un accordo con
cui le Potenze firmatarie (ben 57 Stati: solo Arabia Saudita, Argentina, Bolivia, Brasile, Yemen
rifiutarono di firmarlo [n. 168]) “condannano il ricorso alla guerra per il regolamento delle
controversie internazionali, e vi rinunciano in quanto strumento di politica nazionale nelle loro
relazioni reciproche”. Restava quindi lecita solo la “guerra internazionale” avallata dalla Società.
Era culmine del “decennio delle illusioni” o della “illusione della sicurezza collettiva”. In
46
realtà le guerre non scomparvero, anzi!, al massimo scomparvero, soprattutto dopo il 1945, le
dichiarazioni di guerra. “Nei quindici anni dopo la prima guerra mondiale, - ha scritto Edward
Carr - tutte le Grandi Potenze (esclusa, forse, l’Italia) ripetutamente pagarono un tributo non
sincero alla dottrina di dichiarare la pace come uno degli obiettivi principali della loro politica.
Ma...la pace in se stessa è un obiettivo privo di significato...L’interesse comune alla pace
maschera il fatto che alcune nazioni desiderano mantenere lo status quo senza dover combattere
per esso, ed altre cambiare lo status quo senza dover combattere”.
47
Lezione 11
L’Italia del dopoguerra: il problema adriatico, l’avvento del fascismo, la continuità della
politica estera italiana, 1919-1933
A differenza di quanto era avvenuto a Vienna un secolo prima grazie all’opera di
Talleyrand, l’assetto dell’Europa dopo la prima guerra mondiale fu deciso soltanto dai vincitori.
Un esame dell’azione diplomatica dell’Italia a Versailles richiede quindi alcune considerazioni
preliminari sui rapporti tra il nostro paese e le potenze alleate ed associate quali si erano venuti
configurando durante il conflitto. Una recente opera sintetizza le relazioni politiche tra l’Italia e
l’Intesa durante la grande guerra nella formula, che dà il titolo al volume, Alleati non amici; essa
sottintende, da parte di Gran Bretagna e Francia, <<un atteggiamento poco cordiale, anzi
freddo...una scrupolosa osservanza dei patti convenuti ma non...mai gesti o...iniziative
o...suggerimenti utili a superare le difficoltà che l’Italia incontrò soprattutto con gli Stati
Uniti>>1. Una delle cause di questo atteggiamento fu certo il ritardo con il quale l’Italia dichiarò
guerra alla Germania, solo il 28 agosto 1916, chiaro segno che il nostro paese vedeva il conflitto
in maniera assai diversa da Londra, Parigi e poi Washington; queste ultime erano preoccupate
soprattutto di contrastare i disegni egemonici ed il militarismo della Germania guglielmina, verso
il quale era invece a dir poco indifferente l’Italia, che concepiva il conflitto come quarta guerra
d’indipendenza contro il <<secolare nemico>>, l’Austria-Ungheria. Con forte esagerazione
polemica, in un’opera del 19252, Gaetano Salvemini descrisse l’<<attitudine di alleato
provvisorio e di probabile nemico del dopoguerra che Sonnino [ministro degli esteri italiano]
mantenne sempre metodicamente con i governi dei paesi alleati>>.
La difficile situazione dell’Italia alla conferenza della pace è stata efficacemente descritta
dallo storico René Albrecht-Carrié: <<Verso gli americani, gli inglesi avevano l’enorme
vantaggio di dividerne la lingua e la cultura; i francesi beneficiavano dell’opinione generalmente
1 Prefazione di P. Pastorelli a L. Riccardi, Alleati non amici. Le relazioni politiche tra l’Italia e l’Intesa durante la
prima guerra mondiale, Brescia 1992, p. 10. Si può paragonare questa formula a quelle usate da Deakin per
descrivere l’alleanza tra Italia fascista e Germania nazista, The Brutal Friendship, e da Ellwood per il periodo della
cobelligeranza con gli angloamericani, L’alleato nemico. Decisamente l’Italia sembra aver avuto rapporti difficili con
i propri partner. 2 G. Salvemini, Dal patto di Londra alla pace di Roma, Torino 1925.
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accettata che essi erano stati vittime di un’aggressione e dell’impressione, molto sproporzionata
alla realtà delle cose, che il loro territorio avesse costituito il campo di battaglia...Il fronte italiano
era conosciuto soltanto da pochissimi tra i negoziatori a Parigi, e l’Italia non poteva certamente
atteggiarsi a vittima di un’aggressione. Essa era entrata in guerra al termine di una meditata
deliberazione e, praticamente sulla base delle condizioni poste da essa>>3. Si aggiunga a ciò
l’opinione prevalente all’estero che lo sforzo militare italiano fosse stato per nulla essenziale ai
fini della vittoria finale; una convinzione rimasta poi in gran parte della storiografia straniera,
anche la più quotata, che ricorda più facilmente il nome di Caporetto di quello di Vittorio
Veneto4. Di ciò il Comando Supremo italiano era consapevole già nei giorni stessi
dell’armistizio, come risulta dal messaggio che il Generale Diaz inviò il 4 novembre al Presidente
del Consiglio Orlando nel quale affermava : <<Vi sono tentativi di svalutazione dei risultati della
nostra vittoria>>5.
Infine va ricordato che lo strumento diplomatico in base al quale l’Italia era entrata in
guerra, il Patto di Londra del 26 aprile 1915, si fondava sui presupposti, venuti poi meno, della
sopravvivenza dell’Impero Austro-Ungarico e della presenza di una minaccia russa
nell’Adriatico; perciò esso non conteneva, tra l’altro, la rivendicazione di Fiume, dovendosi
comunque lasciare all’Austria-Ungheria un porto di una certa importanza. Non si può certo
accusare Sonnino, come farà tra gli altri Carlo Sforza6, di non aver previsto la fine degli Asburgo;
la più recente storiografia7 ha giustamente sottolineato che questa non era prevista né prevedibile
e che nell’Impero operavano sì forze centrifughe ma anche centripete, per cui il suo destino non
era affatto scontato. Nella politica di Sonnino riecheggiava la concezione di Cesare Balbo:
l’Impero asburgico è indispensabile all’equilibrio europeo, è un avamposto della civiltà cristiana
3 R. Albrecht-Carrié, Italy at the Paris Peace Conference, New York 1938, pp. 199-200. 4 Un esempio di ciò, dovuto anche all’ignoranza della lingua italiana che non consente di documentarsi, è un recente
volume che ha goduto di, meritato, successo. P. M. Kennedy scrive infatti a proposito dell’Italia: <<La sua “vittoria”
finale nel 1918, come la sconfitta finale e la disgregazione dell’impero asburgico, dipesero essenzialmente da
iniziative e decisioni prese altrove>>, salvo poi contraddirsi più avanti, ove parla di <<splendide vittorie [senza
virgolette stavolta] in Siria, Bulgaria e Italia>> (Ascesa e declino delle grandi potenze, Milano 1993, pp. 372 e 385). 5 Diaz ad Orlando, 4-11-18, in I Documenti diplomatici italiani, sesta serie: 1918-1922, vol. I (4 novembre 1918-17
gennaio 1919), Roma 1956, p. 1, n. 3. 6 C. Sforza, Costruttori e distruttori, Roma 1945, pp. 306 sgg. 7 Cfr. per tutti F. Fejtő, Requiem per un Impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico, Milano 1990.
49
ed ha un ruolo insostituibile nei Balcani8.
Esulano dall’oggetto della mia esposizione i temi dei compensi coloniali spettanti
all’Italia in caso di spartizione delle colonie tedesche tra Gran Bretagna e Francia e delle zone
d’influenza attribuitele in Turchia dagli accordi di San Giovanni di Moriana9. Molto brevemente
mi soffermo altresì sull’armistizio di Villa Giusti del 3 novembre 1918. Le vicende che portarono
alla sua firma sono state descritte molti anni fa dal Generale Alberti e da Tosti con particolare
riferimento agli aspetti militari ed alle posizioni al riguardo di austriaci ed italiani. Ma altrettanto
interessanti sono le discussioni tra l’Italia ed i suoi alleati in vista dell’armistizio10. La questione
degli armistizi era legata a quella delle condizioni di pace e sorgeva il problema se le potenze
alleate accettassero o meno il programma wilsoniano dei 14 punti, sul quale avevano riserve sia
inglesi che francesi ed italiani. Di fronte alle obiezioni, il 29 ottobre il Colonnello House,
consigliere del presidente americano Wilson, reagì duramente, facendo balenare l’eventualità di
una pace separata americana e il giorno successivo, profittando dell’assenza di Orlando, ottenne
che Lloyd George e Clemenceau si limitassero a sollevare riserve sui problemi della libertà dei
mari e delle riparazioni, nonché un loro tacito impegno a contrastare la presentazione di riserve
italiane. Lo stesso giorno fu deciso di dare priorità alla discussione delle condizioni di armistizio
con l’Austria-Ungheria, nella convinzione che essa avrebbe accettato una resa incondizionata
comprendente anche clausole volte a facilitare eventuali ulteriori operazioni militari contro la
Germania. House si dichiarò nettamente contrario ad inserire nell’armistizio austriaco una
clausola in virtù della quale l’Italia potesse occupare tutti i territori ad essa assegnati dal Patto di
Londra, ma poi acconsentì che essi fossero occupati di fatto, senza però citare il trattato, dopo un
lungo e concitato colloquio con Orlando, al quale Lloyd George e Clemenceau avevano
assicurato la loro solidarietà, ansiosi di concludere al più presto l’armistizio con l’Austria per
premere sulla Germania. Tra il 4 ed il 6 novembre il Regio Esercito giunse a Bolzano e Merano e,
8 Cfr. F. Chabod, L’Italia contemporanea, Torino 1961, pp. 20-23. 9 19 aprile - 8 agosto 1917. 10 A. Alberti, L’Italia e la fine della guerra mondiale, Parte II, Villa Giusti, Roma 1924; A. Tosti, Bandiere bianche.
Armistizi e capitolazioni nella guerra 1914-1918, Milano 1938, cap. V; M. G. Melchionni, La vittoria mutilata.
Problemi ed incertezze della politica estera italiana sul finire della grande guerra (ottobre 1918 - gennaio 1919),
Roma 1981.
50
con operazioni navali, furono occupate Zara, Pola, Sebenico, Lissa, Lagosta e Lussino. Il 19
novembre il confine armistiziale fu raggiunto in ogni punto.
Il confine settentrionale al Brennero non fu mai seriamente in discussione. Già nelle prime
valutazioni sulle richieste da avanzare all’Intesa, formulate nel settembre 1914 dal ministro degli
esteri Marchese di San Giuliano, mentre vi erano esitazioni sulla opportunità di rivendicare la
Dalmazia, nessun dubbio vi era sul confine del Brennero, indicato poi nell’art. 4 del Patto di
Londra. Il colonnello House osservò il 29 ottobre 1918 che certo gli italiani richiedevano in
Trentino una frontiera strategica che violava il principio di nazionalità; tuttavia, considerando
l’eventualità di una unione tra Austria e Germania, egli proseguiva: <<tracciando una linea netta
lungo la cresta delle Alpi, la sicurezza dell’Italia sarà enormemente aumentata e sarà ridotta la
necessità di armamenti pesanti>>. Nel memorandum Barzilai del 7 febbraio 1919 la delegazione
italiana alla conferenza della pace, senza fare riferimento al Patto di Londra per non irritare
Wilson, chiese la frontiera del Brennero con l’aggiunta della valle di Sesto e della conca di
Tarvisio, non comprese in quel documento. Sperando di facilitare una soluzione della questione
adriatica più consona ai princìpi da lui propugnati, il Presidente americano si dimostrò subito
disposto ad accettare le richieste italiane, che, nonostante le proteste austriache, trovarono
sanzione definitiva nel trattato di pace di Saint-Germain del 10 settembre 1919. Nel discorso
della Corona del 1° dicembre successivo, il Re Vittorio Emanuele III, riferendosi ai nuovi
problemi imposti dalle <<nuove terre riunite all’Italia>>, sostenne la necessità di un <<maggiore
rispetto delle autonomie e delle tradizioni locali>>. Pochi mesi prima, intervenendo alla camera il
14 luglio, il leader socialista Filippo Turati aveva però fatto riferimento ad una petizione di 172
comuni del Tirolo meridionale dalla quale risultava evidente che quelle popolazioni di lingua
tedesca mai avrebbero accettato di essere divise dalla madre patria e che nessuna autonomia
avrebbe potuto compensarle. Erano i germi di un conflitto non ancora del tutto risolto11.
Del tutto diverso il problema del confine orientale e adriatico12. Schematizzando al
massimo, si può dire che il Patto di Londra assegnava all’Italia <<Trieste, le contee di Gorizia e
11 Cfr. M. Toscano, Storia diplomatica della questione dell’Alto Adige, Bari 1967, pp. 5, 8, 23, 26-31, 47, 51-2. 12 Per una raccolta di documenti commentati sul tema cfr. F. Curato, La conferenza della pace 1919-1920, vol. II, I
problemi italiani, Milano 1942.
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di Gradisca, tutta l’Istria fino al Quarnaro comprese Volosca e le isole istriane di Cherso,
Lussin>> ed altre minori, nonché <<la provincia di Dalmazia nei limiti amministrativi attuali>>.
Lasciava invece alla Croazia <<nell’Alto Adriatico, tutta la costa dalla baia di Volosca alla
frontiera settentrionale di Dalmazia>>, alla Serbia ed al Montenegro <<nel Basso Adriatico...tutta
la costa da capo Planka fino al fiume Drin>>, non accogliendo integralmente, in questo secondo
caso, le richieste italiane. Sempre in Adriatico, l’Italia riceveva inoltre <<l’intiera sovranità su
Valona, l’isola di Sasseno>> ed il territorio circostante, nonché la rappresentanza all’estero
dell’Albania. Di fronte alla nuova situazione che vedeva la nascita del Regno dei Serbi, Croati,
Sloveni (dal 1929 Regno di Jugoslavia) all’interno della classe politica italiana si manifestarono
sostanzialmente due posizioni. Un gruppo composto da conservatori, nazionalisti ed interventisti
di varie tendenze, chiedeva quanto previsto dal Patto di Londra con l’aggiunta di quelle parti
della Dalmazia da esso non previste e di Fiume; l’Adriatico dal golfo di Arbe alle bocche di
Cattaro doveva divenire un lago italiano. Per essi alla rivalità con l’Austria-Ungheria succedeva
quella con gli jugoslavi; il principio di nazionalità non doveva tener conto solo del numero (che
avrebbe visto prevalere in molte zone gli slavi), ma anche di fattori storici e di civiltà, che
facevano dell’Italia l’erede, oltre che dell’Impero romano, della Serenissima Repubblica di
Venezia. L’interventismo democratico (Salvemini, Bissolati, il Corriere della Sera, ecc.) e i
socialisti, per assicurare una pacifica convivenza con gli slavi, necessaria per ragioni militari ed
economiche, ed un’equa applicazione del principio di nazionalità, chiedeva la revisione del Patto
di Londra per assicurare l’annessione all’Italia di Fiume (i cui abitanti si erano espressi in tal
senso) o almeno la sua costituzione in territorio autonomo, rinunciando alla Dalmazia, ma non a
Zara. Va ricordato, soprattutto in questa sede, che mentre la Regia Marina sostenne la necessità di
annettere la sponda orientale dell’Adriatico, così diversa da quella occidentale, per assicurarsi il
dominio assoluto di tale mare, il Regio Esercito fece presenti le difficoltà di garantire il controllo
di isole e di una costa alle cui spalle stava un retroterra slavo prevedibilmente ostile. Il governo
Orlando-Sonnino, dal quale si era dimesso il social-riformista Bissolati, si schierò
sostanzialmente dalla parte dei nazionalisti, chiedendo, con il già citato memorandum Barzilai, i
territori promessi nel Patto di Londra con l’aggiunta di Fiume e della Dalmazia fino a Spalato.
52
Francesi ed inglesi confermarono di sentirsi legati agli impegni sottoscritti nell’aprile
1915, ma non oltre. Ma soprattutto lo scontro divenne aspro tra l’Italia e Wilson. Questi, nel 9°
dei suoi famosi 14 punti enunciati l’8 gennaio 1918, aveva parlato, con una buona dose di
ingenuità, della necessità di <<Una rettifica delle frontiere italiane...secondo le linee di
nazionalità chiaramente riconoscibili>>. Gli Stati Uniti avevano tenuto a distinguersi dai paesi a
fianco dei quali avevano combattuto, dichiarandosi potenza <<associata>> e non <<alleata>> e
sottolineando di non essere affatto vincolati dai patti conclusi prima del loro ingresso in guerra; la
diplomazia wilsoniana si caratterizzava per il suo carattere <<aperto>>, che comportava il ripudio
dei patti segreti (come quello di Londra, anche se, grazie ai bolscevichi, il suo contenuto era
ormai noto), Sonnino appariva invece come tipico rappresentante della <<vecchia>> diplomazia,
che, come Shylock, chiedeva il suo pugno di carne. Wilson, assurto a paladino degli slavi,
respinse le richieste italiane, contrapponendovi, tra l’altro, una sua linea che in Istria spostava
verso occidente il confine tra Italia e Jugoslavia. Ma soprattutto Wilson, applicando i princìpi
della open diplomacy, si rivolse direttamente al popolo italiano con un suo messaggio del 23
aprile 1919. Pochi giorni dopo Orlando e Sonnino abbandonarono in segno di protesta la
conferenza di Parigi, costretti a ritornarvi precipitosamente il 7 maggio per evitare che il Patto di
Londra venisse dichiarato decaduto13. Un mese dopo Wilson presentò un progetto che prevedeva,
tra l’altro, la costituzione dello Stato Libero di Fiume e di Zara come città libera sotto la Società
delle Nazioni. Due settimane dopo, con la caduta del governo Orlando-Sonnino, ebbe termine la
prima e più drammatica fase del problema adriatico.
Il successivo governo presieduto da Nitti, con Tittoni ministro degli esteri, impostò la sua
politica adriatica sullo spostamento delle ambizioni italiane dalla Dalmazia all’Albania. Ottenuto
con gli accordi Tittoni-Venizelos del 15 luglio 1919 il consenso della Grecia, alla quale venne
offerta in cambio la regione di Smirne, già prevista come zona d’influenza italiana, il 12 agosto il
ministro degli esteri presentò alla conferenza di Parigi un progetto (che ebbe due varianti
successive) basato sulla costituzione di uno Stato libero di Fiume, la neutralizzazione dell’Istria
13 Tredici giornate di passione, intitola il capitolo dedicato al periodo di assenza da Versailles di Orlando e Sonnino
il ministro S. Crespi, Alla difesa d’Italia in guerra e a Versailles (Diario 1917-1919), Milano 1937.
53
orientale e delle isole di Cherso e Lussino, l’assegnazione di Zara e del suo retroterra all’Italia e
del resto della Dalmazia alla Jugoslavia, il conferimento all’Italia del mandato sull’Albania. Il
piano, pur avendo il merito di interrompere il muro contro muro dei mesi precedenti, presentava
grossi limiti. A parte la necessità di assicurarsi il mandato della Società delle Nazioni, il progetto
di Tittoni non segnava una adesione alla <<politica delle nazionalità>> propria dell’interventismo
democratico e di Wilson, perché non abbandonava la politica <<imperialistica>>, spostandone
solo gli obiettivi dalla Dalmazia all’Albania; ma non soddisfaceva certo nemmeno le aspettative
nazionaliste, tanto che l’11-12 settembre avvenne l’occupazione di Fiume da parte dei legionari
di D’Annunzio, episodio che evidenziò a tutto il mondo la crisi dello Stato e della disciplina
militare in Italia. Il piano di Tittoni, accolto favorevolmente da Francia e Gran Bretagna, fu
decisamente respinto dagli Stati Uniti con una nota del 13 novembre dal tono minaccioso:
<<Tutti i popoli del mondo - erano le parole messe in bocca a Wilson reduce da un collasso -
hanno bisogno che le questioni europee siano sistemate e la nazione che vi si voglia opporre
costringerà il mio paese a prendere spiacevoli provvedimenti, imposti unicamente dalla decisione
irrevocabile del governo del mio paese di assistere nel compito di ricostruzione economica
soltanto quelle nazioni che aderiscono al mio programma>>. Tittoni reagì con le dimissioni,
segno di irritazione e di impotenza al pari del precedente abbandono della conferenza della pace
da parte di Orlando e Sonnino, e venne sostituito da Vittorio Scialoja.
L’inizio del 1920 vide la riunione a Parigi di conferenze dedicate specificamente al
problema adriatico. In tale quadro iniziarono i contatti tra italiani e jugoslavi, in un primo tempo
con la procedura di conversazioni separate tra gli alleati e le due parti (la stessa che porterà nel
1954 all’accordo per Trieste), poi a partire dal 29 febbraio, a Londra e a Parigi, direttamente tra
Roma e Belgrado, culminando nell’incontro di Pallanza, l’11 maggio, dei ministri degli esteri
Scialoja e Trumbic. Un elemento favorevole alla soluzione del problema fu la costituzione, il 15
giugno, del governo Giolitti, con Sforza ministro degli esteri, fautore dell’amicizia con i serbi,
con i quali era in buoni rapporti. Il nuovo governo italiano abbandonò la politica albanese,
riconoscendo il 2 agosto l’indipendenza di quello Stato. L’evoluzione della situazione
internazionale (ritiro di Wilson, sconfitta del suo candidato alle elezioni presidenziali, isolamento
54
di Belgrado) ed interna nella Jugoslavia (predominio dei serbi con il governo Pasic, mentre i
territori contesi erano abitati da sloveni e croati) favoriva l’Italia, che aveva oltre tutto in mano la
carta fondamentale dell’occupazione militare dei territori in discussione. Il trattato di Rapallo del
12 novembre 1920 tracciò in Istria una linea di confine più orientale di quella proposta da Wilson
ed anche alquanto più favorevole all’Italia di quella prevista dal Patto di Londra. Zara ed il
territorio circostante, le isole di Cherso, Lussino, Pelagosa e Lagosta furono assegnate all’Italia, il
resto della Dalmazia alla Jugoslavia. Venne costituito lo Stato libero di Fiume e furono
sottoscritte norme per la salvaguardia delle minoranze italiane in Dalmazia e sui rapporti culturali
e commerciali tra i due paesi. All’affermazione del nazionalista Federzoni che l’Italia avrebbe
potuto ottenere di più, Sforza replicò che non avrebbe voluto ottenere di più, perché la sua
politica mirava a stabilire una sistemazione equa, capace di fondare un’amicizia stabile tra Roma
e Belgrado, premessa di una politica d’influenza economica e culturale dell’Italia nei Balcani.
Con il successivo trattato di Roma del 27 gennaio 1924 l’Italia ottenne poi anche la città di
Fiume, lasciando alla Jugoslavia il sobborgo di Porto Baross.
In conclusione va rilevato che il confine italo-jugoslavo fu fissato senza plebisciti delle
popolazioni (dai quali comunque, data l’intricata situazione etnica, difficilmente sarebbe uscita
una soluzione ragionevole) e fu determinato dai rapporti di forza espressi dalla situazione
diplomatica e militare del momento. La <<vecchia>> diplomazia (o meglio la diplomazia tout
court) aveva prevalso sulle ingenuità wilsoniane. Dopo la seconda guerra mondiale, mutati i
rapporti di forza, la Jugoslavia imporrà la sua rivincita all’Italia, ancora una volta non aiutata dai
suoi alleati.
La politica estera dell’Italia fascista ebbe elementi di forte continuità con la politica estera
precedente, né potrebbe essere altrimenti, considerando le considerazioni fatte nella Premessa a
queste lezioni riguardo alla prevalenza della politica di potenza sull’ideologia nelle relazioni
internazionali. Soprattutto all’inizio, tra il 1922 ed il 1926, quando vi era un governo fascista, ma
non ancora un regime fascista, la diplomazia italiana vide nel fascismo il modo per perseguire
con maggiore decisione, autorevolezza e continuità gli scopi tradizionali della politica estera
italiana. La politica estera dell’Italia fascista può essere divisa in due periodi:
55
1. 1922-1929: in questo periodo prevale, per Mussolini, la politica interna sulla politica
estera, sia per la necessità di consolidare il regime, sia per la staticità della situazione
internazionale. Il termine del 1929 è scelto perché con la Conciliazione il regime è
consolidato (iniziano gli “anni del consenso”) ed acquisisce prestigio anche
internazionale, sia perché appunto quell’anno rappresenta una svolta in politica
internazionale (cfr. Lezione XX).
2. 1929-1934: prevalenza della politica estera. Dopo il periodo di transizione 1929-1932
(Dino Grandi ministro degli esteri), Mussolini riprende la guida del dicastero e la rinascita
del pericolo tedesco (avvento di Hitler, gennaio 1933), offre spazi di manovra all’Italia.
56
Lezione 12
La politica estera della Germania nazista fino alla conferenza di Monaco
Con la fine degli anni Venti si assistette ad un deciso deterioramento della situazione
internazionale, cui contribuirono avvenimenti quali la recessione economica mondiale e la crisi
della Repubblica di Weimar.
Nel gennaio 1933, poi, la nomina di Hitler a cancelliere in Germania segnò l'avvio di
un tentativo sempre più aperto di sovversione della sistemazione operata al termine della prima
guerra mondiale. Le forze interessate al mantenimento dello status quo reagirono in vario modo a
tali sviluppi. Le piccole e medie potenze dell'Europa orientale cercarono in maniera piuttosto
velleitaria di rafforzare i vincoli tra loro esistenti e di qualificarsi come interlocutori delle grandi
potenze, con l'istituzionalizzazione della Piccola Intesa [n. 170] o con la creazione dell'Intesa
Balcanica [n. 172]. Diversa fu la risposta di Mussolini, che con il Patto a Quattro [n. 171]
elaborò una proposta diretta da una parte a ricondurre le spinte sovversive esistenti in Europa
nell'ambito di un “revisionismo moderato”, dall'altra ad assicurare all'Italia una posizione centrale
nello scenario internazionale. Nonostante l'iniziale adesione di Inghilterra, Francia, Germania e,
appunto, Italia, anche il Patto a Quattro si rivelò però un fallimento, finendo per non essere
ratificato dai suoi contraenti.
Gli obiettivi della politica estera di Hitler, esposti nel Mein Kampf e largamente
condivisi dai tedeschi, possono essere sintetizzati in tre fasi:
1. Liberare la Germania dalle clausole limitative del Trattato di Versailles, ridandole
piena sovranità politica e militare.
2. Riunire alla Germania le popolazioni tedesche di altri Stati: i Sudeti (minoranza
tedesca della Cecoslovacchia, annettere (Anschluss) l’Austria, Danzica e il corridoio
polacco.
3. Fare della Germania la Potenza egemone in Europa, dominante un suo Lebensraum
(spazio vitale) nell’Europa centro-orientale.
Nel luglio 1934 il tentativo di putsch nazionalsocialista in Austria e l'uccisione del
57
cancelliere Dollfuss sembrarono porre le premesse per l'organizzazione di una combinazione
anti-hitleriana. Nel gennaio 1935 la Francia e l'Italia si accordarono per difendere l'indipendenza
austriaca e per regolare le questioni tra loro pendenti in campo coloniale [n. 173]. Anche gli
inglesi diedero prova di una certa solidarietà, partecipando con i francesi e gli italiani alla
conferenza di Stresa [n. 174]. A maggio, inoltre, la Francia e l'Unione Sovietica conclusero
un trattato di mutua assistenza [n. 175].
In realtà lo schieramento anti-hitleriano era tutt'altro che compatto. L’Inghilterra diede
prova delle sue esitazioni raggiungendo, nel giugno 1935, a soli due mesi di distanza dalla
conferenza di Stresa, un accordo con la Germania in materia di armamenti navali [n. 176], in
deroga al trattato di Londra del 1930 [n. 169]. Era la prima manifestazione della politica di
appeasement, ossia della ricerca di compromessi con Hitler, nella convinzione che egli fosse uno
statista ragionevole di tipo tradizionale. Al fondo della politica di appeasement vi era la
debolezza dell’Inghilterra, la convinzione che molte delle richieste di Hitler fossero giustificate, il
disinteresse per l’Europa centro-orientale. L’Italia modificò il suo atteggiamento, in senso filo-
tedesco, a seguito dell'opposizione manifestata dagli inglesi e dai francesi ai propri progetti di
espansione in Etiopia.
Le incertezze dei propri oppositori permisero a Hitler di procedere con sempre maggiore
determinazione. Alla ri-militarizzazione della Renania nel marzo 1936, seguirono nell’aprile
1938 l'Anschluss dell’Austria, che già nel 1936 aveva dovuto concludere un accordo con la
Germania [n. 178] impegnandosi a condurre una politica da “Stato tedesco”, e le crisi
cecoslovacche nel 1938-1939 [nn. 184, e 185]. La conferenza di Monaco nel settembre 1938
(con la partecipazione di Germania, Italia, Gran Bretagna, Francia) concesse alla Germania
l’annessione dei Sudeti.
58
Lezione 13
La guerra civile spagnola. La crisi della politica di appeasement. La politica estera sovietica
negli anni ‘30. Il patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939
Nel marzo 1939, approfittando del tentativo del governo di Praga di revocare l’autonomia
ottenuta dagli Slovacchi, Hitler provocò la scomparsa della Ceco-Slovacchia: Boemia e Moravia
divennero un protettorato tedesco, la Slovacchia uno Stato indipendente satellite di Berlino.
Solo dopo la dislocazione della Ceco-Slovacchia, la Gran Bretagna ruppe le sue esitazioni
e si decise a impedire l'ulteriore espansione della Germania nazionalsocialista. In particolare il
governo di Londra si impegnò a favore di quella che ormai appariva la successiva vittima
della Germania, la Polonia, offrendole prima una garanzia unilaterale [n. 186] e
concludendo poi con essa un trattato di alleanza [n. 189]. Tuttavia Hitler riuscì ancora ad
assicurarsi un importante successo: il trattato di non aggressione tedesco-sovietico del 23
agosto 1939, al quale era annesso il protocollo segreto con cui Berlino e Mosca si accordavano
per una spartizione in "zone d'influenza" della Polonia, della Finlandia, dei Paesi Baltici e della
Bessarabia [n. 188].
È fuorviante interpretare le relazioni internazionali a partire dalla seconda metà degli anni
’30 alla luce della semplice contrapposizione tra democrazie liberali e Potenze nazi-fasciste. Il
gioco diplomatico è a tre: 1) Democrazie liberali (Gran Bretagna e Francia). 2) Potenze
autoritarie e totalitarie “di destra” (Germania e Italia). 3) Comunismo sovietico (U.R.S.S.).
Al di là della ideologia la politica di potenza, la Realpolitik, determinò alleanze diverse in tempi
diversi. In realtà tra il 1939 ed il 1941 Germania nazista ed U.R.S.S. comunista furono di fatto
alleate contro l’unica democrazia imbattuta (Gran Bretagna). Tra il 1941 ed 1945 (...circa) le
democrazie (Stati Uniti e Gran Bretagna) furono alleate con l’U.R.S.S. contro la Germania (e
l’Italia, fino al 1943). A partire dal 1949 (nascita dell’Alleanza Atlantica), le democrazie
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occidentali si contrapposero nella guerra fredda all’U.R.S.S. e dovettero accettare legami di
alleanza con Stati autoritari di destra (Portogallo, dal 1949, Spagna, dal 1953, Grecia dei
colonnelli dal 1967 al 1974, per limitarci all’Europa).
La guerra civile spagnola (1936-39) non è interpretabile come una “guerra per
procura” tra democrazie e nazi-fascismo, né come un preludio dello scontro tra democrazie
e nazi-fascismo nella Seconda Guerra Mondiale. La guerra civile spagnola, nasce da una
situazione interna alla Spagna, anche se le due parti trovano appoggi esterni, è l’ultimo
episodio (ricordare ad esempio la prima delle tre guerre carliste negli anni ’30 del secolo XIX,
cfr. Lezione III, p. 8) dello scontro plurisecolare tra le due Spagne, quella cattolica, tradizionale e
imperiale e quella dei seguaci delle idee rivoluzionarie venute dalla Francia (gli afrancesados):
illuminismo, massoneria, anticlericalismo. I due campi sono ora quello nazionalista (solo in parte
fascista, la Falange) del Generale Francisco Franco, che vincerà, e quello repubblicano (solo in
parte comunista). La guerra civile spagnola è una cruzada per l’identità cattolica della Spagna,
che la repubblica massonica e anticlericale voleva cancellare. I nazionalisti hanno l’appoggio di
Germania e Italia, i repubblicani di Francia e U.R.S.S. La Gran Bretagna è l’unica pienamente
fedele alla politica di non intervento.
L’U.R.S.S. constata che le democrazie occidentali permettono la vittoria dei nazionalisti.
Allo stesso tempo l’U.R.S.S., non invitata alla conferenza di Monaco, constata che le democrazie
occidentali lasciano mano libera alla Germania in Europa centro-orientale. Stalin sospetta che le
democrazie occidentali intendano lasciare che Hitler rivolga la sua aggressività ad est e dopo la
conferenza di Monaco, in nome della Realpolitik, ri-orienta la politica estera sovietica in senso
filo-tedesco: tra l’alleanza con Francia e Inghilterra contro Hitler ed un patto con la Germania,
sceglie questa seconda soluzione ed il 23 agosto 1939 fu firmato il trattato di non aggressione
tra Germania e U.R.S.S. [188], o patto Molotov-Ribbentrop. In realtà, con il successivo
trattato di frontiera e di amicizia fra la Germania e l’U. R. S. S. del 8 settembre 1939 [n. 190], a
60
seconda guerra mondiale iniziata, si realizza una alleanza di fatto tra Germania ed U.R.S.S. che
dura fino al giugno 1941.
Ragioni di Stalin per concludere il Patto:
1. Scegliendo la Germania si accorda con l’unico potenziale aggressore dell’U.R.S.S.,
ottenendo l’obiettivo supremo evitando che la guerra tocchi il territorio sovietico, poiché
teme il crollo del regime indebolito dalle colossali “purghe” degli anni precedenti.
2. Scegliendo l’accordo con la Germania, Stalin guadagna una serie di territori in Europa
orientale (parte della Polonia e della Finlandia, Stati baltici) riconquistando il terreno
perduto dalla Russia dopo il 1918.
Obiettivi di Hitler:
1. Spera che dopo l’accordo con l’U.R.S.S., Francia e Inghilterra non osino intervenire a
difesa della Polonia.
2. Se la guerra scoppia ugualmente, non sarà costretto a combattere su due fronti e, grazie
all’accordo con l’U.R.S.S. disporrà delle risorse per combattere una guerra più lunga.
3. Hitler non cambia la sua strategia, che vede nell’Europa orientale il lebensraum tedesco e
nell’U.R.S.S. il nemico della Germania. Guadagna tempo tatticamente per vincere in
Occidente e poi rivolgersi ad est, ciò che farà nel giugno 1941 attaccando l’U.R.S.S.
61
Lezione 14
La nuova fase della politica estera dell’Italia fascista fino al Patto d’Acciaio
Va respinta l’idea semplicistica che, data l’affinità dei due regimi, l’Italia fascista e
la Germania nazional-socialista fossero fatalmente destinate ad allearsi. Italia e Germania
sono inizialmente divise da interessi (innanzi tutto il problema dell’Austria) e da differenze
ideologiche (romanesimo fascista contro germanesimo nazional-socialista). Dal primo incontro
con il Fuhrer, giugno 1934 a Stra (PD), Mussolini ricavò una cattiva impressione di Hitler.
L’Italia nel luglio 1934 intervenne decisamente per sventare il putsch nazista a Vienna.
Mussolini era disposto a collaborare con le democrazie occidentali (Francia e Inghilterra)
contro il risorgente pericolo tedesco, purché gli fosse data mano libera in Africa Orientale
(Etiopia). Con il Patto a Quattro del 1933 [n. 171], elaborò una proposta diretta, da una parte a
ricondurre le spinte sovversive esistenti in Europa nell'ambito di un “revisionismo moderato”,
dall'altra ad assicurare all'Italia una posizione centrale nello scenario internazionale. Nonostante
l'iniziale adesione di Inghilterra, Francia, Germania e, appunto, Italia, anche il Patto a Quattro si
rivelò però un fallimento, finendo per non essere ratificato dai suoi contraenti.
Il Duce non abbandonò però la collaborazione con le democrazie. Dagli accordi
Mussolini-Laval (ministro degli esteri francese) del gennaio 1935 [n. 173] e dalla
Conferenza di Stresa [n. 174] dell’aprile 1935, il Duce ricavò la convinzione che Francia e
Inghilterra fossero disposte a dargli via libera in Etiopia per mantenere la collaborazione
con l’Italia in Europa. La Gran Bretagna però, dopo aver inaugurato la politica di appeasement
con la Germania (cfr. Lezione XXI), quando scoppiarono le ostilità in Etiopia, condusse, seguita
dalla Francia, una politica inconcludente e contraddittoria: da un lato promosse sanzioni
inefficaci da parte della Società delle Nazioni, che irritarono l’Italia senza impedirle di vincere la
guerra, dall’altro avanzò piani di compromesso, come quello Hoare-Laval (dicembre 1935),
subito però ritirato per le reazioni delle opinioni pubbliche francese e britannica.
Nel marzo 1936 Hitler rimilitarizzò la Renania e l’Italia, per reazione alle sanzioni, non si
allineò alle proteste anglo-francese, attuando una svolta filo-tedesca che portò in ottobre
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novembre all’Asse Roma-Berlino [n. 180] e nel novembre 1937 all’adesione italiana al Patto
anti-Komintern [n. 181], mentre la guerra civile spagnola (cfr. Lezione XXIII) la divideva
dalle democrazie e la avvicinava alla Germania. L’Asse non era un’alleanza tra Italia e
Germania. Tra il 1936 ed il 1939 Mussolini di mantenere dei margini di manovra attraverso
un'intesa con l'Inghilterra [nn. 182 e 183], ma nel maggio 1939, con la conclusione del Patto
d'Acciaio [n. 187], alleanza militare a carattere offensivo, l'Italia finì per legarsi alla
Germania, nonostante Mussolini volesse evitare impegni definitivi e soprattutto fosse
consapevole che l’Italia non era in grado di entrare in guerra prima di due-tre anni. Con il Patto
d'Acciaio, Mussolini voleva ottenere il diritto di essere consultato da Hitler, che lo metteva di
fronte a fatti compiuti (come l’Anschluss e la dislocazione della Ceco-Slovacchia), ma il trattato,
mal formulato, lo legò alla Germania senza dargli una vera voce in capitolo. L’invasione e
l’annessione dell’Albania (aprile 1939), concepita come un segnale alla Germania che l’Italia
voleva difendere i suoi interessi nei Balcani, fu vista dalle democrazie come un’imitazione della
politica aggressiva di Hitler. Mussolini fu sempre più condizionato da un rapporto di imitazione
(p. es. le leggi razziali) e ammirazione della Germania nazista e dal timore che l’Italia fosse vista
ancora una volta come un alleato infido.
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Lezione 17
La politica estera americana negli anni ’30.
La seconda guerra mondiale: diplomazia e operazioni militari
Nel settembre 1939, la Germania conquistò la Polonia, aggredita anche dall’U.R.S.S.,
mentre Gran Bretagna e Francia restarono inerti sul fronte occidentale. Nella primavera
1940 la Germania, con la guerra lampo (blitzkrieg), conquistò Norvegia, Danimarca, Belgio,
Olanda e Lussemburgo, Francia, dove il giugno il nuovo governo del Maresciallo Petain chiese
l’armistizio [n. 194 b e c]. In Francia nacque lo Stato francese, più o meno collaborazionista
della Germania, mentre da Londra il Generale De Gaulle [n. 194 a] fece invece appello alla
resistenza.
Il 10 giugno anche l’Italia, fino a quel momento “non belligerante” (concetto diverso
dalla neutralità) entrò in guerra a fianco della Germania [n. 193]. Mussolini sapeva che l’Italia
non poteva fare una “guerra lunga”, ma con i tedeschi alle porte di Parigi ritenne il conflitto
concluso e dichiarò guerra per due motivi: 1) Sedersi al tavolo dei vincitori per spartirsi il bottino.
2) Paura della vendetta tedesca contro un alleato ancora una volta infido. L’alleanza tra Berlino e
Roma non eliminava le preoccupazioni italiane sul ruolo egemonico della Germania [n. 195].
L’Italia cercò di condurre una sua “guerra parallela”; ma il fallimento dell’attacco alla Grecia [n.
198] e le difficoltà in Africa Settentrionale avviarono la sua “satellizzazione” da parte della
Germania. Nel settembre 1940, fu concluso il Patto Tripartito tra Germania, Italia e
Giappone [n. 197], e nell’aprile 1941 il patto di non aggressione tra quest’ultimo e l’U. R. S.
S. [n. 201], che sarà denunciato da Mosca solo nel 1945. Nell’Europa occupata dai tedeschi (in
alcune zone anche dagli italiani) si manifestarono, i fenomeni della resistenza, del
collaborazionismo e dell’attesismo.
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La Gran Bretagna, rimasta sola contro Hitler e guidata da un leader eccezionale
Winston Churchill [n. 192], che si era opposto all’appeasement, poté contare sul crescente
appoggio degli Stati Uniti del presidente Franklin Delano Roosevelt, anche se essi non entrarono
in guerra.
Gli Stati Uniti, a partire dal 1935, avevano reagito agli avvenimenti internazionali anche
attraverso l’approvazione di una serie di “leggi di neutralità” [n. 177]. Con la prima legge di
neutralità (31 agosto 1935) sarà illecito esportare armi, munizioni, o strumenti di guerra da ogni
punto degli Stati Uniti, verso porti degli Stati belligeranti, o verso porti neutrali per il trasbordo
verso un paese belligerante o per uso di un paese belligerante. Una seconda legge di neutralità
(29 febbraio 1936) aggiunse la proibizione di concedere prestiti o crediti ai belligeranti. Una
terza legge (1° maggio 1937) incluse anche le guerre civili, dando altresì al presidente il potere
di aggiungere materiali strategici alla lista dell’embargo e di dichiarare illegali i viaggi di cittadini
statunitensi su navi di paesi belligeranti. Una quarta legge (4 novembre 1939), attenuò le
precedenti, introducendo una formula cash and carry, che permetteva nuovamente ai belligeranti
di acquistare dagli Stati Uniti armi e materiali strategici, purché li pagassero in contanti e li
trasportassero su proprie navi. Il presidente Roosevelt, un “wilsoniano realista”, con il “discorso
della quarantena” (ottobre 1937) mise in guardia contro le potenze bellicose; ma Roosevelt non
intendeva forzare l’opinione pubblica.
Rieletto nel novembre 1940 per un terzo mandato, Roosevelt, che già nel settembre aveva
concluso un accordo per fornire alla Gran Bretagna 50 cacciatorpediniere in cambio di basi nelle
colonie britanniche sul continente americano [n. 196], s’impegnò più decisamente a sostegno
dell’Inghilterra, ed in prospettiva di qualunque nemico della Germania e dei suoi alleati, con la
legge “Affitti e prestiti” [n. 200], enunciò il suo programma delle “quattro libertà” [n. 199] e
sottoscrisse con Churchill la “Carta Atlantica” [n. 204], che, dopo l’entrata in guerra degli
Stati Uniti, a seguito dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, sarà fatta propria dalla coalizione
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“anti-hitleriana” delle Nazioni Unite (da non confondere con l’ONU). Ancor prima della
formale entrata in guerra, gli Stati Uniti parteciparono alla “battaglia dell’Atlantico”, subendovi
le prime perdite di navi e uomini, e concordarono con gli inglesi la strategia da seguire in caso di
loro partecipazione al conflitto. Verso il Giappone gli Stati Uniti adottarono una linea
intransigente e di sanzioni economiche, alla quale Tokio reagì con l’attacco di Pearl Harbor il 7
dicembre 1941.
Nel frattempo, nel giugno 1941, la Germania, rompendo l’alleanza di fatto stretta
temporaneamente con Mosca, aveva attaccato l’Unione Sovietica [nn. 202 e 203].
Immediatamente Gran Bretagna e Stati Uniti accettarono l’U.R.S.S. come alleato inviandole
ingenti rifornimenti.
Delle complesse vicende della seconda guerra mondiale si accennano qui solo le
principali. La svolta militare della guerra fu segnata da tre vittorie contro le forze del Patto
Tripartito: Midway nel Pacifico (giugno 1942), El Alamein in Africa Settentrionale (ottobre
1942), Stalingrado in Russia (novembre 1942-gennaio 1943). La ragionevole certezza che la
guerra sarebbe stata vinta dalle Nazioni Unite si ebbe con il successo dello sbarco in
Normandia (Operazione Overlord), nel giugno 1944.
Nel Patto Tripartito mancò l’intesa strategica. Il Giappone non attaccò l’U.R.S.S. nel
giugno 1941, quando lo fece la Germania, e restò fedele al patto di non aggressione con Mosca.
Tokio attaccò invece gli Stati Uniti, che Hitler avrebbe preferito tenere fuori della guerra.
L’Italia, dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 e l’invasione del territorio nazionale, fu in
settembre la prima alleata della Germania a chiedere un armistizio [n. 206], passando poi alla
“cobelligeranza” con le Nazioni Unite [n. 296.].
Tra le Nazioni Unite la collaborazione fu piena (non senza divergenze) tra Stati Uniti
e Gran Bretagna, dando vita alla “special relationship” protrattasi nel dopoguerra, ma
improntata a diffidenza tra anglo-americani e sovietici. Stalin, pur ricevendo subito ingenti
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aiuti era diffidente, temendo che gli anglo-americani volessero lasciarlo solo a combattere con i
tedeschi sul fronte terrestre europeo; sospettava anche che alla fine gli occidentali potessero
accordarsi con Hitler: in realtà era ciò che aveva fatto lui ed era pronto, se necessario, a rifare. I
rapporti tra anglo-americani e sovietici non migliorarono finché, alla conferenza di Teheran,
Stalin non ricevette formali assicurazioni sulla data dell’apertura del “secondo fronte”.
Le tre grandi conferenze di guerra tra i capi supremi di Stati Uniti, Gran Bretagna e
U.R.S.S. furono:
1. La conferenza di Teheran nel novembre-dicembre 1943 [n. 207], che vide appunto il
momento di maggiore collaborazione tra Churchill, Roosevelt e Stalin. Stalin annunciò
che avrebbe dichiarato guerra al Giappone solo dopo la sconfitta della Germania. Si
discusse del futuro della Germania, delle frontiere della Polonia e della futura
Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU).
2. La conferenza di Yalta nel febbraio 1945 [n. 210], ancora tra Churchill, Roosevelt e
Stalin. A Yalta furono affrontati quattro ordini di problemi: 1) L’ONU. 2)
L’occupazione e la sorte della Germania (concessione di una zona di occupazione
anche alla Francia). 3) I confini (spostamento ad Occidente, a favore dell’U.R.S.S. ed a
danno della Germania) e il governo (allargamento del governo filo-comunista insediato a
Lublino dai sovietici ad elementi del governo polacco in esilio a Londra) della Polonia.
4) L’entrata in guerra dell’U.R.S.S. contro il Giappone. La conferenza è assurta a
simbolo della divisione dell’Europa. In realtà a Yalta non fu “decisa” la divisione
dell’Europa, che fu il risultato di decisioni politico-militari precedenti e successive a
Yalta. La spartizione dell’Europa coincise con le posizioni raggiunte rispettivamente dagli
eserciti anglo-americano e sovietico; per non irritare Stalin, Roosevelt freno l’avanzata
delle armate di Eisenhower, impedendo loro di giungere a Berlino, Praga e Vienna in
anticipo sull’Armata Rossa, come avrebbe voluto Churchill. La “Dichiarazione
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sull’Europa liberata”, approvata a Yalta, fu l’illusorio tentativo di impegnare l’U.R.S.S.
al rispetto dei principi liberal-democratici enunciati nella Carta Atlantica (cfr. p. 53).
Nell’ottobre 1944 Churchill, assai più acutamente consapevole di Roosevelt dal
potenziale pericolo che l’Unione Sovietica rappresentava per l’equilibrio europeo, aveva
cercato, senza l’accordo di Roosevelt, un’intesa con Stalin (il cosiddetto “accordo sulle
percentuali”) [n. 208], ispirata a criteri di una Realpolitik in realtà impraticabile.
3. La conferenza di Potsdam [n. 214], (17 luglio-2 agosto 1945), in un clima già
deteriorato, dove Truman sostituì il defunto Roosevelt e Churchill, nel corso dei lavori,
lasciò il posto al laburista Attlee, che aveva vinto le elezioni. Decise l’istituzione di un
“Consiglio dei ministri degli esteri” delle Potenze vincitrici con l’incarico di elaborare i
trattati di pace con gli alleati della Germania; il trattato di pace con quest’ultima sarebbe
stato elaborato in seguito, la conferenza ne stabilì però i principi ispiratori generali e le
modalità di occupazione del territorio tedesco. Truman, sentendosi anche più forte per il
successo del primo esperimento atomico americano, era meno disposto di Roosevelt a fare
concessioni a Stalin.
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Lezione 18
L’Italia nella seconda guerra mondiale
Nel suo discorso del 22 agosto ai principali comandanti militari, Adolf Hitler sottolineò
l’importanza <<decisiva>> per la Germania della persona del Duce: <<Se gli accade qualcosa, la
fedeltà dell’Italia all’alleanza non sarà più sicura. La Corte italiana è fondamentalmente avversa
al Duce ... Mussolini è messo in pericolo da quell’imbecille di un Re e da quel perfido furfante di
un Principe Ereditario ... Dopo tutto vi sono solo tre grandi statisti al mondo, Stalin, io e
Mussolini. Mussolini è il più debole, perché non è stato capace di spezzare il potere Né della
Corona né della Chiesa>>. A guerra iniziata il Führer ribadì questi concetti il 23 novembre,
sempre ai comandanti militari: <<Molto dipende dall’Italia, soprattutto da Mussolini, la cui morte
può cambiare tutto. L’Italia ha grandi mete per il consolidamento del suo Impero. Il Fascismo e il
Duce personalmente sono i soli sostenitori di questa idea. La Corte vi si oppone>>.
Proclamata a fine agosto la non belligeranza dell’Italia, gli sforzi del Re, in stretto
collegamento con il ministro degli esteri Galeazzo Ciano, genero di Mussolini e ormai convinto
antitedesco, furono volti a trasformarla in una definitiva neutralità. Un momento importante di
questa azione fu lo scambio di visite, nel decennale della Conciliazione, tra il Papa Pio XII ed il
Sovrano. Fu significativo che il Sommo Pontefice restituisse personalmente la visita al Quirinale
e che nel suo discorso alludesse chiaramente al ruolo di pace dell’Italia.
La prospettiva della neutralità tramontò di fronte ai controlli navali ed al blocco marittimo
delle forniture di carbone tedesco all’Italia decretati dall’Inghilterra e poi definitivamente di
fronte alle vittorie tedesche in Occidente. La questione dell’impreparazione delle Forze Armate
fu liquidata da Mussolini con un ragionamento apparentemente non privo di logica. In una
memoria preparata il 31 marzo 1940, il Duce escluse la possibilità per l’Italia di <<rimanere
neutrale per tutta la durata della guerra, senza ...squalificarsi>> ed affrontò il problema dei tempi
dell’impegno bellico italiano: <<Si tratta di ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente
con l’onore e la dignità, la nostra entrata in guerra: per prepararci in modo tale che il nostro
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intervento determini la decisione; perché l’Italia non può fare guerra lunga>>. Impostando il
problema in questo modo, Mussolini considerava l’entrata in guerra un problema più politico che
militare, accantonando così le obiezioni relative alla impreparazione delle Forze Armate. Si
doveva entrare in guerra nel momento in cui questa sembrasse ormai vinta dalla Germania, non
solo per avere le poche migliaia di morti da far valere al tavolo della pace per partecipare alla
spartizione del bottino, ma anche per evitare la rappresaglia di una Germania vittoriosa che non
avrebbe mancato di punire l’Italia per il secondo “tradimento” nel giro di un quarto di secolo. Gli
umori di Mussolini nella primavera del 1940 rivelano chiaramente che, di fronte alle vittorie
lampo della Germania, la sua decisione di entrare in guerra fu dovuta sia dal desiderio di
conquiste che dalla paura della reazione tedesca.
La cosiddetta “fuga di Pescara”. Restando a Roma e cadendo prigioniero dei tedeschi il
Re avrebbe forse salvato la monarchia, ma non avrebbe risparmiato all’Italia la vendetta tedesca e
la guerra civile, privandola per di più del sicuro riferimento della legittimità incarnata dal
sovrano, che giustamente rifiutò la proposta di trasferirsi nella Sicilia occupata dagli anglo-
americani, per insediarsi in un territorio sotto pieno controllo italiano. Sul piano internazionale la
legittimità del governo di Brindisi si affermò con chiarezza. Le superstiti rappresentanze
diplomatiche italiane non esitarono a proclamarsi fedeli al Re ed al suo governo. Un caso
emblematico fu quello dell’ambasciatore a Madrid Giacomo Paulucci di Calboli, che rifiutò
l’offerta fattagli personalmente da Mussolini del dicastero degli esteri della RSI, nonostante i
tedeschi lo minacciassero ricordandogli che suo figlio era loro prigioniero ed egli si trovasse in
una sede dove la comunità italiana simpatizzava con il Duce. Altrettanto significativo fu il
mantenimento delle relazioni diplomatiche tra il “Regno del sud”, la Spagna di Franco (che
accoglierà solo un rappresentante ufficioso della RSI) e Stati come l’Ungheria e la Romania, che
pure gravitavano nell’orbita della Germania, dalla quale furono peraltro costretti a riconoscere
ufficialmente anche la RSI. Il trasferimento della Corona e del governo da Roma fu quindi una
misura doverosa e opportuna.
Certamente discutibili furono invece le circostanze in cui avvenne l’abbandono della
capitale. A questo proposito va peraltro rilevato che nella notte tra l’8 ed il 9 settembre, prima di
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lasciare Roma, il Re chiese ed ottenne assicurazioni da Badoglio che tutti i ministri fossero stati
avvertiti, mentre ciò non rispondeva a verità. Ma sull’armistizio l’apertura degli archivi britannici
ed americani ha portato nuovi e fondamentali elementi, che dimostrano come della tragedia delle
Forze Armate italiane (soprattutto del Regio Esercito) ebbero una grossa parte di responsabilità
gli alleati. Essi infatti indussero gli italiani a credere che le loro forze fossero assai più consistenti
di quello che erano in realtà e che sarebbero sbarcate anche a nord di Roma e non si
preoccuparono di dissipare l’impressione formatasi a Roma che lo sbarco principale alleato, e
quindi la proclamazione dell’armistizio, sarebbero avvenuti più tardi della data in realtà prevista.
Gli italiani erano convinti che l’armistizio non sarebbe stato proclamato prima del 12 settembre e
furono quindi colti impreparati dall’annuncio dell’8 settembre.
Il diplomatico americano Robert Murphy, consigliere politico del Generale Eisenhower,
comandante in capo delle forze anglo-americane nel Mediterraneo, ha scritto nelle memorie:
<<Gli italiani insistettero...che non avrebbero firmato alcun accordo se gli alleati non avessero
garantito di sbarcare alcuni reparti a nord di Roma...Nessuno degli italiani sospettava che gli
americani e gli inglesi avevano già deciso di ridurre le loro operazioni nel Mediterraneo ad una
azione secondaria...Naturalmente gli alleati non avevano alcuna intenzione di confidare che non
disponevano delle forze sufficienti per invadere l’Italia settentrionale>>. Il collega britannico di
Murphy, il futuro primo ministro Harold Macmillan, nel suo diario, definì il comportamento
alleato nell’armistizio il <<più grande bluff che si sia mai veduto nella storia!>>, grazie al quale
si aveva potuto <<mettere le mani su una flotta in cambio di nulla>>. Dal canto suo il Generale
Eisenhower parlò di <<sporco affare>>.
Il 31 agosto 1943, a Cassibile, il Generale Castellano, inviato a trattare l’armistizio,
domandò ripetutamente <<se poteva presumere che 15 divisioni alleate sarebbero sbarcate: la
maggior parte fra Spezia e Civitavecchia>>; il Generale Bedell Smith, Capo di S. M. di
Eisenhower, gli replicò <<che non poteva rispondere a questa domanda>> ed assicurò comunque
il Generale Castellano che gli alleati sarebbero sbarcati con un numero sufficiente di divisioni. In
realtà lo sbarco di Salerno coinvolse solo 7 divisioni ed una brigata anglo-americane. Badoglio e
il Comando Supremo italiano si convinsero che quello di Salerno fosse uno sbarco secondario e
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che dovesse ancora avvenire lo sbarco principale, con almeno 9 divisioni, a nord di Roma. Perciò,
scrive Elena Aga Rossi, <<al momento della fuga da Roma essi pensavano che quest’emergenza
sarebbe durata una o due settimane, e che poi sarebbero tornati nella capitale ormai in mano agli
anglo-americani>>.
Si è molto criticata la frase del proclama di Badoglio, all’annuncio dell’armistizio: <<Esse
[le Forze Armate italiane] reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza>>,
giudicandola non sufficientemente esplicita contro i tedeschi. In realtà essa rispecchiava il testo,
anch’esso reticente, dell’art. 2 dell’armistizio di Cassibile: <<L’Italia farà ogni sforzo per negare
ai tedeschi tutto ciò che potrebbe essere adoperato contro le Nazioni Unite>>. La tragedia dell’8
settembre fu dovuta anche alla diffidenza, peraltro pienamente comprensibile, degli alleati nei
confronti degli italiani, che li portò a rifiutare di concordare con loro piani per il momento della
proclamazione dell’armistizio. Il 29 luglio Macmillan aveva scritto nel suo diario: <<A noi preme
solo annientare le forze armate italiane e usare il territorio italiano per continuare la guerra alla
Germania>>. Di fronte a troppo facili accuse, giustamente Renzo De Felice ha ricordato che <<la
drammaticità della situazione dell’Italia, stretta nella tenaglia tra tedeschi e alleati deve indurre a
valutazioni meno semplicistiche di quelle che hanno tenuto sin qui il campo>>.
Si deve inoltre rilevare che la riscossa delle Forze Armate italiane dopo l’armistizio
avvenne in nome del Re. Vittorio Emanuele III assicurava la fedeltà delle Forze Armate, mentre
<<Non credo - scrisse Churchill a Roosevelt il 6 novembre 1943 - che Sforza [il leader
antifascista, ndr] rappresenti qualcosa che spingerà gli uomini a uccidere o morire>>. Alla fine il
Regio Esercito fornì un quarto degli uomini impiegati e circa un ottavo delle forze combattenti
nella campagna d’Italia>>, nonostante gli alleati facessero di tutto per ostacolare l’impiego di
truppe combattenti italiane, per non doverne poi ricompensare il contributo in sede di trattato di
pace, e nonostante la vergognosa campagna di molti antifascisti, che per combattere la monarchia
giunsero a screditare le Forze Armate. Il 17 dicembre 1943 Sforza non esitò a scrivere al
Dipartimento di Stato americano: <<Per ciò che riguarda il Re, egli sta preparando un terribile
neofascismo; Badoglio deplora questo ma non fa nulla; egli permette a tutti i fascisti di diventare
un corpo di nuove reclute per un nuovo Esercito regolare fascista (per uccidere italiani, non i
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tedeschi)>>.
Come in politica interna il Sovrano parve non rendersi conto che la restaurazione della
democrazia liberale dopo il fascismo non poteva essere del tutto priva di conseguenze per la
dinastia e venire considerata come un semplice passaggio politico da un governo ad un altro, così
in campo internazionale il Re mostrò di credere che il rovesciamento delle alleanze potesse essere
relativamente indolore e che gli anglo-americani avrebbero accolto l’Italia senza troppo
recriminare sul passato. Ma nell’era delle guerre ideologiche e totali non valevano più le regole
della diplomazia classica settecentesca. Parallelamente i partiti si illusero che la loro verginità
antifascista inducesse automaticamente gli anglo-americani a consegnare loro il potere e che
l’Italia democratica non sarebbe stata chiamata a pagare il prezzo della guerra voluta da
Mussolini.