l' architettura della salute prima parte
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L' Architettura della salute prima parteTRANSCRIPT
L’Architettura della saluteLuoghi e storia della Sanità lombarda
L’Architettura della salute
Luoghi e storia della Sanità lombarda
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tettu
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ella
sa
lute
A.O. Ospedali Riuniti di Bergamo
A.O. Spedali Civili di Brescia
A.O. Spedale di Circolodi Busto Arsizio
A.O. Mellino Mellini di Chiari
A.O. S. Annadi Como
A.O. Ospedale Maggiore di Crema
A.O. di Cremona
A.O. di Desenzano sul Garda
A.O. S. Antonio Abatedi Gallarate
A.O. G. Salvinidi Garbagnate Mi.se
A.O. Ospedale di Lecco
A.O. Ospedale Civile di Legnano
A.O. della Provincia di Lodi
A.O. “C. Poma”di Mantova
A.O. Fatebenefratelli Oftalmico
A.O. Istituti Clinici di Perfezionamento
A.O. Istituto Ortopedico G. Pini
A.O. Ospedale L. saccoA.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda
A.O. Ospedale S. Carlo BorromeoA.O. Ospedale S. Paolo
A.O. Ospedale S. Gerardo dei Tintoridi Monza
A.O. della Provincia di Pavia
A.O. Bolognini di Seriate
A.O. della Valtellina e della valchiavennadi Sondrio
A.O. di Treviglio
A.O. Ospedale di Circolo Fond. Macchi di Varese
A.O. Ospedale civile di Vimercate
Vizzolo Predabissi - A.O. di Melegnano
IIII
Testi di
Rita BalestrieroGiorgio Cosmacini
Maria Antonietta Crippa(Politecnico di Milano)
Stefano Della Torre(Politecnico di Milano)
Schede a cura di
Daniele GarneroneIrene Giustina
(Università degli Studi di Brescia)Elisa Sala
(Università degli Studi di Brescia)Adele Simioli
Emanuele ViciniFerdinando Zanzottera(Politecnico di Milano)
Fotografie di
Chiara CadedduGermano Borrelli
Archivio Ospedale Maggiore di MilanoArchivio Infrastrutture Lombarde
Progetto, coordinamento editoriale e design:
Si ringraziano
Pietro Petraroia - Valorizzazione del Patrimonio artistico e culturale - Regione LombardiaPaolo M. Galimberti - Servizio Beni Culturali Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli Regina Elena
Le Aziende Ospedaliere lombardeInfrastrutture Lombarde Spa
In copertina:Facciata dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano
A pag. III:Dettaglio scultoreo della facciata - Ave gratia plena di Franco Lombardi
Servizi per la Comunicazione
L’Architettu
ra
della salute
Luoghi e sto
ria della
Sanità lombarda
Regione Lombardia
V
Regione Lombardia considera il miglioramento e lo sviluppo dell’edilizia sa-nitaria come uno degli obiettivi prioritari per adeguare il servizio sanitario alle sempre più complesse esigenze che si presentano nella nostra società.
In questo ambito, crediamo che il nostro compito sia innanzitutto quello di incenti-vare e valorizzare il protagonismo delle aziende ospedaliere lombarde che, proprio in forza del loro profondo radicamento nel territorio, possono, e anzi devono offrire un apporto fondamentale per rispondere alle nuove sfide che le riguardano.In questa direzione vanno i consistenti investimenti degli ultimi anni per la rea-lizzazione di nuovi ospedali e la razionalizzazione delle strutture esistenti nella nostra regione. Gli interventi mirano a dare concretezza, anche nelle soluzioni architettoniche, al principio che ha guidato la riforma dell’intero sistema sociosa-nitario lombardo: restituire centralità alla persona. Le nuove strutture si impongono così all’attenzione perché incarnano, negli aspetti funzionali e tecnologici, una concezione moderna di ospedale, capace di accogliere integralmente i malati nelle loro esigenze e offrire condizioni di lavoro in cui gli operatori possano esprimersi secondo tutta la loro professionalità. Strutture non più chiuse in se stesse, ma aperte al territorio e ai bisogni in esso presenti, in un’armonica interazione con il contesto sia urbano che naturale.Saluto quindi con piacere la pubblicazione di questo libro che, nel ripercorrere la storia dell’architettura ospedaliera lombarda dal Quattrocento fino ai giorni nostri, contribuisce a far riflettere sul cambiamento profondo che ha investito, prima che la forma, la funzione stessa dei luoghi della salute.
Roberto FormigoniPresidente della Regione Lombardia
VII
L ’ospedale inteso come luogo di ospitalità e di cura per i malati e i bisognosi è il più fulgido esempio della capacità organizzativa e identitaria che la nostra terra lombarda, fin dal Medioevo, riuscì ad esprimere. Un luogo di attenzione
per il popolo, inizialmente espressione dei sentimenti di carità di istituzioni e congregazioni religiose e poi obiettivo sociale dei governi.Con piacere dunque esprimo il mio più vivo apprezzamento per questa opera, che intende ripercorrere la storia della sanità lombarda attraverso il racconto dei vari progetti architettonici ospedalieri dispiegatisi nei secoli in Lombardia.Un percorso d’umanità e di professionalità che continua nel tempo e che sta cono-scendo proprio in questi anni un nuovo protagonismo, grazie agli imponenti investimenti finanziari messi a disposizione da Regione Lombardia e finalizzati a realizzare un nuovo modello di sanità, dove l’attenzione alla persona e ai suoi bisogni sono centrali anche nella programmazione architettonica e urbanistica delle nuove strutture ospedaliere.L’aumento dell’età media della popolazione congiuntamente alla necessità di mantenere costante il livello d’efficienza e d’efficacia degli interventi sanitari, la volontà di proseguire la strada dell’innovazione con la forte attenzione al man-tenimento della parità di bilancio. Queste sono le sfide che attendono oggi chi si occupa di sanità, di fronte a un’Istituzione che necessariamente evolve nel tempo perché continuamente partecipe della scienza e della tecnologia, di passioni e sentimenti.Questo volume rappresenta così un’occasione utile per approfondire la storia e proseguire l’attenzione all’umano che questa terra è stata e sarà sempre capace d’esprimere.
Luciano BrescianiAssessore alla Sanità
VIII
Le Aziende Ospedaliere lombarde
Le Aziende Ospedaliere sono ospedali di rilievo regionale o interregionale costi-tuiti in Aziende in considerazione delle loro particolari caratteristiche. Si tratta spesso di strutture ad alta o particolare specializzazione oppure di ospedali che affiancano alle normali attività di ricovero e cura anche quelle di ricerca/insegna-mento a livello universitario.
BERGAMO - A.O. OSPEDALI RIUNITI
BRESCIA - A.O. SPEDALI CIVILI
BUSTO ARSIZIO - A.O. OSPEDALE DI CIRCOLO
CHIARI - A.O. MELLINO MELLINI
COMO - A.O. SANT’ANNA
CREMA - A.O. OSPEDALE MAGGIORE
CREMONA - A.O. DI CREMONA
DESENZANO - A.O. DI DESENZANO DEL GARDA
GALLARATE - A.O. SANT’ANTONIO ABATE
GARBAGNATE MILANESE - A.O. G. SALVINI
LECCO - A.O. OSPEDALE di LECCO
LEGNANO - A.O. OSPEDALE CIVILE di LEGNANO
LODI - A.O. DELLA PROVINCIA di LODI
MANTOVA - A.O. C. POMA
MILANO - A.O. FATEBENEFRATELLI OFTALMICO
MILANO - A.O. ISTITUTI CLINICI DI PERFEZIONAMENTO
MILANO - A.O. ISTITUTO ORTOPEDICO G. PINI
MILANO - A.O. OSPEDALE L. SACCO
MILANO - A.O. OSPEDALE NIGUARDA CA’ GRANDA
MILANO - A.O. OSPEDALE S. CARLO BORROMEO
MILANO - A.O. SAN PAOLO
MONZA - A.O. SAN GERARDO DEI TINTORI
PAVIA - A.O. DELLA PROVINCIA DI PAVIA
SERIATE - A.O. BOLOGNINI SERIATE
SONDRIO - A.O. DELLA VALTELLINA E DELLA VALCHIAVENNA
TREVIGLIO - A.O. TREVIGLIO
VARESE - A.O. OSPEDALE DI CIRCOLO FONDAZIONE MACCHI
VIMERCATE - A.O. OSPEDALE CIVILE DI VIMERCATE
VIZZOLO PREDABISSI - A.O. DI MELEGNANO
IX
1 Dal frigidarium alla bio-robotica, l’evoluzione della cura Giorgio Cosmacini
9 Introduzione L’Ospedale tra passato e futuro: mutamenti morfologici, rapporto con il territorio, centralità della persona Maria Antonietta Crippa
19 Arte e storia nei luoghi della cura: un patrimonio da valorizzare Pietro Petraroia
24 Capitolo 1 Gli ospedali a crociera del Quattrocento e successivi sviluppi fino all’Ottocento Stefano Della Torre
36 Capitolo 2 L’ospedale a padiglioni dall’Ottocento al primo Novecento Stefano Della Torre
46 Capitolo 3 Evoluzione dall’ospedale a padiglioni all’ospedale monoblocco o misto nel XX secolo Maria Antonietta Crippa
58 Capitolo 4 I nuovi ospedali lombardi tra presente e futuro Rita Balestriero
IndICe
XI
71 Il patrimonio edilizio degli ospedali di Lombardia dal secolo XV ad oggi Maria Antonietta Crippa
80 Scheda 1 Gli Ospedali Riuniti di Bergamo Ferdinando Zanzottera
86 Scheda 2 Gli Spedali Civili di Brescia Irene Giustina
92 Scheda 3 L’Ospedale Sant’Anna di Como Daniele Garnerone
98 Scheda 4 Gli Istituti Ospitalieri di Cremona Daniele Garnerone
104 Scheda 5 L’Ospedale Manzoni di Lecco Daniele Garnerone
110 Scheda 6 L’Ospedale Maggiore di Lodi Adele Simioli
116 Scheda 7 L’Ospedale Carlo Poma di Mantova Daniele Garnerone
122 Scheda 8 L’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano Ferdinando Zanzottera
128 Scheda 9 L’Ospedale San Carlo Borromeo di Milano Adele Simioli
134 Scheda 10 L’Ospedale San Gerardo dei Tintori di Monza Ferdinando Zanzottera
140 Scheda 11 L’Ospedale San Matteo di Pavia Emanuele Vicini
146 Scheda 12 Il Villaggio Sanatoriale di Sondalo Ferdinando Zanzottera
152 Scheda 13 L’Azienda Ospedaliera di Circolo Fondazione Macchi di Varese Ferdinando Zanzottera
159 Bibliografia
XII
1
L ’antica Grecia non ebbe ospedali. Luoghi collettivi di salute pubblica erano i
templi dedicati ad Asclepio, semidio della medicina, e gestiti dagli asclepiadi,
sacerdoti esercenti una medicina ieratica, sacra. Anche l’antica Roma non
ebbe ospedali. Luoghi collettivi di salute erano le terme, dove appositi locali –
calidarium, frigidarium, tepidarium – permettevano rispettivamente la dilatazione
dei pori corporei ristretti, il restringimento dei pori corporei dilatati e l’equilibrio
degli uni e degli altri nella giusta misura corrispondente alla buona salute.
Però la Roma imperiale ebbe i valetudinaria, “ospedali delle legioni” dove si
curavano i legionari dalle ferite belliche e dove, in tempo di pace, si curavano gli
schiavi dalle lesioni traumatiche dovute ai loro duri lavori.
Fu però il Medioevo cristiano a dare fondamento etico alla hospitalitas.
L’“ospitalità”, conosciuta e praticata dagli antichi, ma solo come attività
individuale od obbligo nei confronti dell’ospite, si affermò nella bassa latinità
come condimento condiviso, come servizio all’uomo bisognoso e sofferente
nell’ambito di un cristianesimo che si proclamava e professava come “religione
dei poveri”.
Al nome e al concetto di “povero” – pauper – erano strettamente legati il nome e il
concetto di “malato” – infirmus –. Il povero malato o il malato povero esprimeva
una categoria composita, senza troppa distinzione tra indigenza economica ed
emergenza sanitaria. La categoria comprendeva tutti coloro che non erano in
grado di far fronte alle crisi di esistenza: malati e invalidi, con inclusi gli storpi
e i vagabondi, i ciechi e i mendicanti, i folli e i pezzenti, e con ai primi posti i
vecchi in solitudine e i bambini senza famiglia, orfani o fanciulli abbandonati e
i “trovati” (trovatelli). Per tutti costoro, spesso costituenti una umanità derelitta
di Giorgio Cosm
acini
Dal FriGiDarium alla bio-robotiCa, l’evoluzione Della Cura
2
e questuante, esisteva l’hospitale. Questo nome comparve in età carolingia a
sostituire quello preesistente di xenodochium, usato per indicare “l’albergo dove
ospitare i forestieri”, pellegrini e viandanti. L’ospedale, in questa fase, era piuttosto
l’ospizio, “l’albergo dei poveri” dove accogliere l’umanità indigente e “paziente”.
Nelle antiche abbazie benedettine vigeva la regola dettata da San Benedetto a
complemento dell’ora et labora: “Prima di tutto e soprattutto bisogna prendersi
cura dei malati” (cap. XXXVI). Tra i luoghi abbaziali esisteva un hospitale
pauperum adibito ai poveri, bambini, vecchi, poveri di mente, ai quali veniva
riservato l’affectus, l’“affabilità”, prestata con gioia (libente animo), con allegria
(cum hilaritate), con liberalità (cum largitate).
Intorno al X secolo, cioè alle soglie dell’anno Mille, l’organizzazione sanitaria di ogni
grande monastero comprendeva almeno un infirmarium, o “infermeria”, con un
cubiculum valde infirmorum, o “cameretta di degenza per malati gravi”, con un locale
appartato per clisteri e salassi e con un orto di “semplici”, o piante medicinali.
A moltiplicare tali strutture ospitaliere contribuivano i pellegrinaggi, in Italia
quelli diretti alle tombe romane dei Santi Pietro e Paolo, mete di una umanità
itinerante alla ricerca di una salus che non era solo “salvezza” spirituale, ma
spesso anche “salute” corporale o speranza di guarigione.
Dopo l’anno Mille iniziava, dal grembo terriero della società altomedievale, la
rinascita delle città, raccolte intorno alle cattedrali e popolate di poveri “senza
terra”. Cambiava la vita, anche quella assistita. Ogni città importante possedeva
almeno un ospedale, dapprima in diretta connessione con il luogo di culto, con
commistione tra pratiche sacre a pratiche profane. Successivamente questi
ospedali, anche se legati a fondazioni ecclesiastiche, tendevano a distaccarsi dal
3
modello religioso. Il risultato di questa tendenza era, alla fine, l’ospedale civile. In
Italia l’organizzazione ospedaliera, in anticipo sul resto d’Europa, era importante
in ogni città, ma soprattutto in quelle più popolose, affollate da una popolazione
spesso a rischio tra ricorrenti carestie e condizioni d’igiene precaria.
Nel suo scritto “Sulle meraviglie della città di Milano” – De magnalibus urbis
Mediolani –, opera amanuense del 1288, il grammatico milanese Bonvesin de
la Riva, terziario degli umiliati, afferma che “vi sono in città dieci ospedali per i
malati poveri e quasi tutti adeguatamente dotati di beni temporali. […] Nessuno
che sia in condizioni di indigenza o di miseria viene rifiutato o respinto. Nel
contado vi sono quindici ospedali o pressappoco”.
Un patriziato caritatevole e un clero provvido non si esimevano dal fondare
e sostenere ospedali. Coloro che gestivano in prima persona il rapporto
assistenziale con gli infirmi erano gli infirmarii, gli “infermieri”, religiosi o laici,
fratres vel sorores, “fratelli o sorelle”, uomini o donne. Essi dovevano farsi carico
delle pratiche di assistenza a vantaggio del prossimo bisognoso: preparare un
buon letto, somministrare un buon pane o un buon brodo, praticare una buona
pulizia, dire e ridire una buona parola.
Le cure prestate erano cure generiche, non specifiche. Oltreché “ristorare di vitto
e di letto”, esse contemplavano solo qualche medicamento, linimento o tisana, e
qualche manipolazione, unzione cutanea o serviziale (clistere). Il servizio al degente
doveva essere sempre erogato con la dovuta misericordia, o cordialità per i miseri,
per i “poveri di Cristo” detti “poveri cristi”. L’ingresso in ospedale dei medici fu un
evento ulteriore, non medievale, ma rinascimentale. Nella “Relazione ai deputati
dell’Ospedale Grande di Milano”, scritta dal priore (presidente) Gian Giacomo Gilino
4
e data alle stampe nel 1508, è detto che la dotazione di sanitari di un grande ospedale
quattro-cinquecentesco come quello milanese è di “quatro phisici [medici], uno per
bracio de la crociera, et altri tanti chirurghi similmente distribuiti”.
Dal sistema della carità indifferenziata, che aveva caratterizzato i medievali
“alberghi dei poveri”, si passava al sistema degli ospedali maggiori, dove questi
erano concepiti, strutturati, organizzati come “fabbriche della salute”: si parlò,
a tale riguardo, di gran reformatione. La “gran riforma” viene enunciata dallo
stesso priore Gilino, il quale dice che la “reformatione è stata in questo modo”:
essendo le malattie “o croniche o de qualità che presto son terminate vel, con
salute, vel con morte, queste de presta terminatione son designate al hospitale
grande”, mentre i “mali de altra qualità, quali vogliono tempo” perché inveterati
“hano la receptione sua separata”.
è detto esplicitamente che tra i malati, a prescindere dal fatto che tutti quanti
devono essere premurosamente assistiti, quelli acuti, suscettibili di guarigione,
devono essere ricoverati e curati all’“ospedale maggiore”, principale e centrale,
mentre quelli cronici, inguaribili e invalidi, la cui salute piena non può essere
ricuperata e la cui salute residua necessita di lungodegenza (o sempredegenza),
devono essere ricoverati e curati negli “ospedali minori”, satelliti e decentrati.
La riforma ospedaliera da poco realizzata non doveva essere vanificata
ritrasformando i nuovi grandi ospedali rinascimentali in vecchi ospizi di
medievale memoria. Il Rinascimento, se voleva essere tale anche in campo
ospedaliero, non doveva ripiombare nell’ambito di una ospitalità indifferenziata.
Perché questo regresso non avvenisse era indispensabile che medici e chirurgi
fossero direttamente coinvolti. La loro competenza diversificata doveva
5
differenziare e specificare le cure ospedaliere. La folla dei degenti non era più un
indistinto genere umano, piagato come la carne del suo Divino Redentore, ma era
un accorpamento di gruppi di individui patologicamente diversi, ciascuno con la
sua specie di male.
Le cure non erano più pratiche generiche di assistenza e di aiuto; erano pratiche
specifiche realizzanti questa o quella terapia. I curanti degli infermi non erano
più infermieri generici, ma medici e chirurghi specialisti di questo o quel male.
Dalle cure ai “mali interni” (medicina interna) ed “esterni” (chirurgia operativa)
medici e chirurghi si avviavano a intraprendere un’aurorale specializzazione.
Tutto ciò non comportava una svalutazione dell’assistenza infermieristica.
In questo insostituibile servizio venivano a porsi come figure di spicco quei
gruppi autonomi di chierici regolari e di laici devoti che nel maturo e tardo
Cinquecento, sull’esempio di Giovanni di Dio (1493-1550), fondatore dell’ordine
dei Fatebenefratelli, e di Camillo de Lellis (1550-1614), fondatore dell’ordine
dei Ministri degli infermi (Camilliani), si facevano interpreti della volontà di
“riforma cattolica” nel campo ospedaliero, assumendosi il carico dell’assistenza
spirituale e corporale ai malati degli ospedali.
Questo sistema ospedaliero visse o sopravvisse in età barocca, tra crisi e riforme,
tra luci e ombre, con alterne fortune di efficienza ed efficacia.
Nella tardo-settecentesca “età dei Lumi” (i cosiddetti “lumi della ragione”) il
problema degli ospedali, dato lo stato miserando di molti fra essi, fu oggetto
di un intenso dibattito. Nelle sue Observations sur les hopitaux, pubblicate nel
1789, il medico-filosofo Georges Cabanis sottolinea l’inderogabile necessità di
ridimensionare i grandi ospedali, taluni dei quali trasformati in “caravanserragli
6
della disgrazia”, in ospedali con capienza massima di 100-120 letti, onde potervi
“esercitare in modo adeguato la medicina”, personalizzata attraverso i journeaux o
“cartelle cliniche”. Pur senza recepire tutte le istanze illuministiche, fu l’Ottocento,
a pieno titolo, il secolo dell’affermazione dell’ospedale moderno. L’instaurazione
partì dalla clinica, secondo una dinamica interna, scientifico-tecnica, sinergica agli
sviluppi ottocenteschi della medicina e della chirurgia. Ma l’istituzione conobbe
anche una trasformazione prodotta dai mutamenti socio-culturali: la beneficenza
mossa dalla carità si mutò nel dovere civile di una assistenza ai malati evolvente in
diritto di costoro alla tutela della propria salute.
Lungo la prima delle due direttrici fu la scienza medica il motore della “macchina
per guarire” in cui venne a configurarsi via via l’ospedale ottocentesco e poi
novecentesco. Lungo la seconda direttrice, connessa ai mutamenti della cultura
e della società, troviamo, a Novecento inoltrato, un ospedale definitivamente
trasformato da luogo di assistenza agli aventi bisogno, con spese di degenza a
carico della pubblica beneficenza e dei Comuni (nei quali i ricoverati avevano il
“domicilio di soccorso”), in luogo di diagnosi perfezionata e di terapia efficace,
come tale ambito anche dal ceto abbiente, “solvente in proprio” delle spese
necessarie per fruire di prestazioni medico-chirurgiche vantaggiose, non più
sostituibili dalle pratiche esercitate in ambulatorio o a domicilio.
L’ospedale s’è aperto anche ai “semi-abbienti”, cioè alla moltitudine crescente
assistita dalle mutue, e, dal 1978 in poi, all’intera popolazione assistita dal
Servizio Sanitario Nazionale. Nello stesso periodo la cosiddetta “rivoluzione
tecnologica” ha cambiato l’ospedale. Le varie discipline si sono fatte super-
specializzate, pluri-specialistiche, sofisticate e incorporanti elettronica e
7
informatica. L’endoscopia ha esteso il campo del “guardar dentro”. La radiologia
utilizza macchine complesse e si è fatta anche interventistica. La chirurgia ha
allargato le sue tecniche dall’elezione all’emergenza; inoltre è diventata mini-
invasiva e ambulatoriale (day surgery). Si prospetta, in un prossimo avvenire, la
chirurgia bio-robotica.
Sono solo alcune delle prospettive future. Parallelamente è sempre più
sentita l’esigenza che l’ospedale odierno, divenuto una macchina sempre più
produttiva e regolativa della salute, adegui al proprio sviluppo scientifico-
tecnico quello amministrativo, organizzativo, gestionale, unendo efficienza ed
efficacia e contemperando i benefici con i costi, questi ultimi intesi peraltro più
come investimenti che come spese. Sotto questi aspetti l’ospedale d’oggi è una
“azienda”, il cui funzionamento è da valutarsi non tanto in termini di spese e
quantità di prestazioni prodotte, quanto in termini di investimenti e qualità di
produzione della salute. Nell’odierna realtà dei fatti, l’ospedale è atteso a una
duplice prova: trasferitasi l’importanza della quantità dei posti letto alla qualità
della risposta ai bisogni, esso deve intendere tale effettiva qualità tanto come
prova di efficienza e competenza quanto come prova di efficacia ed equità.
Aldilà delle etichette definitorie, il giudizio sull’efficienza compete ai tecnici della
salute, il giudizio sull’efficacia spetta ai malati.
8
9
“L a configurazione morfologica, funzionale e tecnologica dell’ospedale
non è mai riuscita a tenere il passo delle modificazioni di ruolo e
funzioni che per esso via via si andavano definendo. L’ospedale non
può continuare ad essere considerato, in termini edilizi e tecnologici, come un
corpo separato, prodotto di un sapere tecnico e pertanto del tutto autonomo;
identificato come sottosistema del sistema città e di continuo soggetto alle sfide
che vengono dal suo ambiente e dal sistema societario complessivo, dovrebbe
registrarne costantemente e puntualmente le linee di tendenza evolutive.
Questa tesi è confermata dal fatto che la morfologia dell’ospedale è andata nel
tempo continuamente modificandosi, anche se i cambiamenti non sono mai stati
contestuali e delle stessa portata del fenomeno che li ha prodotti”1.
La tesi affermata nel Rapporto Sanità 2000, relativa alla situazione ospedaliera
contemporanea lombarda in particolare, propone un nesso tra società e ospedale
solo all’apparenza in controtendenza rispetto alle articolazioni, spaziali e sociali,
richieste dai continui aggiornamenti scientifici e tecnologici e della diffusa
volontà di introdurre nuove, grandi strutture edilizie aggiornate. La sottende,
non a caso, la volontà di riproporre la centralità della persona, del malato, come
cuore del problema edilizio ospedaliero.
Il far emergere una progressiva “perdita di rapporto tra complessità e dimensione,
fra specializzazione e governo autonomo dei processi di cura, fra territorialità e
distribuzione delle specialità”2 ha lo scopo di evidenziare l’urgenza del recupero
di una funzione sociale dell’ospedale, con efficace termine moderno individuata
come “negoziazione”, intesa come “opzione antidogmatica rispetto al sapere
l’ospeDale tra passato e Futuro: mutamenti morFoloGiCi, rapporto Con il territorio, Centralità Della persona
1 AA. VV., Rapporto Sanità 2000, Documento introduttivo, Mulino, Bologna 2000, p. 30.2 Ivi, p. 38.
introDuzione
di maria
antonietta Crip
pa
NELLA PAGINA ACCANTO:Azienda Ospedaliera di Circolo Fondazione Macchi di Varese - Particolare del ponte aereo di collegamento tra la nuova struttura architettonica ospe-daliera e il nucleo centrale dei padiglioni originari
10
medico basato sulle prove, nella necessità di scelta tra varie opzioni continuamente
presenti in questo sapere, nella capacità di riconoscimento e di accoglienza dei
bisogni di salute della comunità”3.
Nei vari saggi allegati al Rapporto viene comunque riaffermata l’importanza
degli aggiornamenti scientifici e tecnologici, di una programmazione capace di
continua riorganizzazione funzionale che esige anche una stretta collaborazione
tra committenza, progettista e impresa, di un coinvolgimento nel progetto futuro
del patrimonio edilizio ospedaliero già esistente in quanto risorsa storico-culturale
capace di trattenere dal ricorrere alla “scorciatoia” della edificazione ex-novo.
Benché il Rapporto sia steso da medici ed esperti del settore non da architetti, offre
tuttavia uno stimolo importante a questi ultimi. Solo all’apparenza la tesi dei primi
cancella il valore dell’architettura volatilizzandone, in una mutevolezza continua,
la morfologia specifica per l’ospedale, sottoposta a continue trasformazioni dalla
fine del XVIII secolo in poi. In realtà tale tesi incide sul compito proprio, peculiare,
di ogni architettura, costruzione attorno a un “arché”, principio originario che pare
coralmente inafferrabile, per qualcuno persino indicibile a parole ma fisicamente
percepibile “in situazione”, in quanto, tramite essa, si è abitanti di un pianeta e di
una terra, di una città, di una casa, di una scuola, di un ospedale. Il Rapporto evoca
la necessità inderogabile di fare dell’ospedale un luogo abitabile, ricco del vissuto
di una società plurale e dinamica, non semplicemente uno spazio razionalmente
funzionante.
Da sempre l’uomo costruisce l’architettura utilizzando materiali che trova in
natura o che ha elaborato a partire da componenti naturali. Da sempre chiude su
se stesso una porzione di spazio, la isola, la collega allo spazio esterno illimitato
3 Ivi, p. 37.
11
attraverso soglie, per il passaggio del corpo e per quello del solo sguardo.
Costruisce la propria casa, da sempre, incardinandola nella terra sotto il cielo.
La collega ad altre case, con funzioni collettive analoghe alla sua o di tipo e di
scala d’uso comune maggiore, fino a configurare una città, dotata di gerarchie e
interne specializzazioni spaziali, dove più uomini vivono secondo regole condivise.
La città, a sua volta, è un luogo che viene colto come fattore costitutivo della
realtà, è scena e condizione d’ordine imprescindibile del vivere comune, ma
anche articolazione di spazi chiusi e aperti che consentono le espressioni di vita
individuale e associata, decise dai diversi nuclei sociali in rapporto alle loro
concezioni del vivere. Ogni luogo inoltre, così come lo si sperimenta vivendoci, è
una realtà fisica complessa, ogni volta percepita come fenomeno unitario, sintesi
di natura e artificio, di realtà precedenti gli interventi umani e di operazioni
costruttive e d’ordine di molti uomini, operazioni non istantanee ma stratificate
nel tempo, benché d’uso istantaneo ogni volta nelle componenti fondamentali. è
uno degli aspetti fondamentali della realtà, ma è anche oggetto di costruzione
da parte dell’uomo; è “arché”, o principio originario, fisicamente percepibile da
ognuno “in situazione” in quanto abitante, che accomuna i progettisti, siano essi
architetti o ingegneri con qualunque specializzazione, imprenditori del campo,
politici, abitanti, senza distinzione.
Pratiche e saperi intrecciano da sempre attorno all’abitare e al costruire i fili
d’oro di una saggezza, sintetica e ordinata. Accade talora che tali fili divengano
grovigli complicati da dipanare. In questi ha pescato il Rapporto Sanità 2000,
da questi ha estratto una tesi guida come presupposto di scelte da determinare
concretamente, caso per caso. Il nesso, non meccanico, dell’ospedale con la città;
12
il rapporto di continuità tra architetture preesistenti, spesso di grande qualità
o artistiche, e nuovi complessi ospedalieri; l’attenzione alla persona, riferimento
centrale del sistema ospedaliero a ogni scala, sono i fattori principali della tesi
del Rapporto, che non trascura tuttavia il fatto che il progettista e le direzioni
ospedaliere dovranno misurarsi anche con altri problemi, di non lieve portata,
come la valutazione dei modi di gestione delle risorse finanziarie a disposizione,
pubbliche o private, la razionalità complessiva di un sistema ospedaliero flessibile,
gli orientamenti politici e amministrativi.
I due fattori principali che hanno dato luogo nel corso dei secoli alla costruzione
degli ospedali sono stati la necessità di isolare le persone affette da malattie
contagiose e la volontà di assistere caritatevolmente quelle ridotte da povertà
e malattia in condizioni di non autonomia. Malattia e morte, in realtà, sono da
sempre momenti importanti nella vita di famiglie e comunità; anche il medico
è stato a lungo strettamente legato al tessuto sociale primario; per questo da
sempre il più normale luogo di cura delle prime, come di assistenza alla seconda,
oltre che fino a tempi recenti anche del parto, è la casa.
Sono rare le notizie sugli ospedali nel periodo che precede l’avvento del
cristianesimo. Le informazioni diventano più precise lungo l’intero arco del
Medioevo, quando, in tutta l’Europa oltre che nella penisola italiana, si diffusero,
nelle città, nei borghi e nelle campagne, ospedali collegati ai monasteri e ai
conventi o retti da confraternite di laici, che ricalcavano l’attività caritatevole
monastica, per assistere indistintamente poveri, pellegrini e malati. La carità
fiorì a partire da iniziative ecclesiastiche e dall’attività monastica; fondamentale
e di lunga durata fu il rapporto tra ospedali e vescovi; attivo in più modi fu anche
Il Nuovo Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo
13
il papato. Ogni città aveva più hospitalia di piccole e medie dimensioni, dedicati
alla carità nei confronti degli strati di popolazione che vivevano in estrema
povertà, totalmente indifesi nell’affrontare carestie ed epidemie. Normalmente in
essi, sempre governati da comunità religiose, si soccorrevano i bisogni più urgenti
dei poveri, dei malati, dei pellegrini, dei bambini, anche di frati e monache se
l’hospitale era connesso o interno a un monastero. Vi erano comunque prevalenti
i servizi di ricovero e di distribuzione delle elemosine rispetto alla cura medica.
Sorsero tuttavia anche ospedali specializzati, come i lazzaretti, per malati di
peste e di lebbra.
Nell’area padana la maggior fioritura di ospedali nel Medioevo si ebbe tra XII
e XIII secolo, nell’epoca dei liberi Comuni e con l’affermarsi della disponibilità
dei laici per l’attività caritativa. Si trattò della convergenza, in molti, di una
vissuta religiosità quotidiana con un senso di civile impegno per la comunità
di appartenenza. Il fenomeno assunse rapidamente dimensioni notevoli, fu
contrassegnato anche da conflitti tra laici e istituzioni ecclesiastiche e diede
spazio crescente all’affermarsi di attenzioni sanitarie e terapeutiche4.
In questo stesso arco temporale il complesso edilizio ospedaliero di area
mediterranea ebbe normalmente forma di un insieme di spazi di sevizio, tra i
quali predominava la grande sala di degenza, gravitanti su un chiostro o cortile.
Il piano terreno era porticato; se era presente un primo piano, esso era dotato di
loggia per la sosta dei convalescenti. Non mancava mai la chiesa o la cappella. Il
primo, completo piano di questo tipo è quello del celebre monastero benedettino
di San Gallo del IX secolo, dove sono ben leggibili la chiesa dell’ospedale e
l’infirmarium, organizzato attorno ad un piccolo chiostro composto da sale, alcune
4 Sull’argomento si veda in particolare: G. Albini, Città e ospedali nella Lombardia medievale, Clueb, Bologna 1993.
14
delle quali di degenza, su tre lati e chiuso, sul quarto, dal fianco della chiesa. Lo
completava un “giardino dei semplici” per la produzione delle spezie curative.
Nel nord dell’Europa si sviluppò anche una tipologia ospedaliera isolata, composta
da una sola grande sala di degenza, costruita a più navate e conclusa con uno
spazio dedicato all’altare, come negli hôtels-Dieu francesi.
Gli hospitalia, annessi ai conventi o collocati presso le porte delle città, divennero
luoghi di convergenza di una vasta rete di fraternità cui partecipavano nobili, ceto
mercantile e membri del governo urbano. A Milano in particolare, sottolineano gli
storici, si sviluppò una diffusa vocazione solidaristica che spinse al superamento
della natura prevalentemente elemosiniera degli hospitalia, per affermare
un insieme di istituzioni che differenziava gli ospedali dai ricoveri dagli enti
elemosinieri. Si strutturò dunque un sistema di carità differenziata e largamente
condivisa, nel quale crebbe presto di importanza l’ospedale. All’inizio del Trecento
erano molto attivi in Milano, tra gli altri, l’ospedale del Brolo nei pressi del
Verziere, regolato dal 1168 dagli statuti emanati dal vescovo Galdino; quelli di
Donna Bona, di Sant’Ambrogio, di San Simpliciano, di San Dionigi, voluto dal
celebre vescovo Ariberto d’Intimiano.
Con l’accrescersi delle dimensioni degli hospitalia, le sale di degenza divennero
parallelepipedi molto allungati formanti lunghe corsie; di questo tipo erano
ancora nel Quattrocento le costruzioni ospedaliere romane. In area lombarda,
invece, all’insorgere di problemi di igiene, di razionalizzazione delle strutture, di
amministrazione, di gestione finanziaria dei beni accumulati, di attenzione laica
seppur con fondamento religioso, si attivò una riforma ospedaliera coincidente con
un importante rinnovamento architettonico. Tale rinnovamento, esploso nell’Italia
15
centro settentrionale con epicentro in Milano, si manifestò nella costruzione di
nuovi “ospedali grandi” o “maggiori”.
La storia dell’architettura, italiana e lombarda ma con echi rilevanti in tutto
l’Occidente, è profondamente segnata dall’eccezionale e celebre esperienza
ospedaliera capostipite di tale innovazione, l’esperienza della Ca’ Granda,
l’Ospedale Maggiore di Milano di matrice filaretiana, oggi sede centrale
dell’Università degli Studi di Milano. Nei primi due secoli della sua costruzione,
grazie alla genialità del suo ideatore Antonio Averulino detto il Filarete, videro
la luce anche soluzioni innovative risolutrici di fondamentali esigenze di igiene.
Contemporaneamente, le disposizioni amministrative e gestionali dell’arcivescovo
milanese Enrico Rampini diedero luogo al passaggio dell’ospedale da luogo pio
soprattutto per poveri pellegrini, a sede di cura per i malati.
Un cambiamento radicale dell’assetto maturato nel Quattrocento, sia sotto il
profilo architettonico che relativamente all’attività medica in tutti i suoi aspetti,
fortemente evoluta nel corso dei secoli successivi, ebbe avvio, come ricorda Catananti,
dalla forza di “fatto storico” del dibattito avvenuto all’interno dell’Accademia delle
scienze di Parigi, dopo l’incendio dell’Hôtel-Dieu della città nel 1772, dibattito
dal quale “emerse un metodo di studio che può essere considerato l’antesignano
degli odierni ‘studi di fattibilità’”. In quell’ambito “Lasson, Daubenton, Tenon,
Ospedale Maggiore di Milano Facciata dell’edificio rinascimentale verso via Festa del Perdono, 1866 circa
16
Bailly, Lavoisier, La Place, Coulomb, D’Arcet e Condorcet, eminenti scienziati
(chimici, fisici, medici, matematici) cui toccò quell’esaltante compito” seppero
configurare una nuova mentalità, al punto che: “Scorrere gli atti elaborati da
quel gruppo ‘multidisciplinare’ di teste pensanti è ancora oggi una lezione di
metodo di affascinante attualità”. Dopo di allora, infatti, la medicina ospedaliera
prese una nuova strada, che divenne del tutto evidente dalla fine dell’Ottocento
in poi; in essa: “L’attenzione fu quindi rivolta non solo all’organismo edilizio ma
anche alla disciplina giuridica e organizzativa che doveva disciplinare la vita
interna dell’Ospedale”5. Catananti innesta, su tale moderno scatto di razionale
prefigurazione dei processi costruttivi, la necessità esplicita, da quel momento in
poi, di una “fattibilità” programmata nell’innovazione ospedaliera.
Tra XVIII e XIX secolo, con lo sviluppo della medicina scientifica e l’attivazione del
metodo sperimentale per diagnosi e terapia, l’ospedale divenne sede per la cura
delle malattie infettive e chirurgiche; il medico mirò sempre più a collegarsi a esso
in modo costante per avere a disposizione la più ampia casistica possibile delle
malattie e l’indispensabile concentrazione di competenze con cui confrontarsi.
Tale nuova situazione diede luogo ad un rapporto di contiguità tra Ospedale e
Università, anche perché l’autorevolezza scientifica di quest’ultima si fissò in
stretta relazione con le indagini rese possibili dalle nuove tecnologie a supporto
delle diagnosi e delle cure mediche.
Sono state le innovazioni tecnologiche costruttive, all’inizio del XX secolo e
a partire dagli Stati Uniti d’America, a consentire il passaggio dall’ospedale a
padiglioni distinti, affermatosi nel secolo precedente a quello a monoblocco,
a grande sviluppo verticale, adattato in Europa, ma soprattutto in Italia, ad
5 C. Catananti, Esiste un modello ideale?, “Salute e territorio”, n. 131, 2002.
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articolazioni in più blocchi non eccessivamente alti. La diffusione in Europa, tra
le malattie infettive, della tubercolosi, diede anche luogo al grande sviluppo dei
complessi sanatoriali.
Nella seconda metà del secolo XX, il quadro delle esigenze ospedaliere cambiò
radicalmente, ancora una volta, a causa dell’enorme sviluppo della tecnologia
diagnostica in campo chimico-analitico e radiologico e della produzione di farmaci
risolutivi, come quelli antibiotici o cortisonici. A partire dagli anni Ottanta si
accelerò lo sviluppo scientifico e organizzativo di discipline mediche specialistiche,
che comportarono articolazioni organizzative e curricolari autonome. Nel decennio
successivo si diffusero tecnologie diagnostiche di alta sofisticazione nei settori
radiologico, elettrofisiologico, chimico-analitico.
Rapidamente gli ospedali esistenti si differenziarono per tipi di cure, tramite
combinazioni in dipendenza dalle opzioni di cultura e di gestione dei gruppi
dirigenti. Il mondo della medicina si trovò pertanto ad affrontare un conflitto
tra l’esigenza di continuità di cura dell’ammalato e necessità di operare in
contesti ad alto contenuto tecnologico e altamente specializzati. Diventava
fondamentale inoltre il nesso tra funzionamento dell’ospedale e sua integrazione
con il territorio.
Nella legislazione italiana come anche in quella di altri paesi europei, infine,
l’innovazione più rilevante di questa fase è stata il processo di trasformazione
dell’ospedale in Azienda, secondo un senso non del tutto coincidente con quello di
impresa. L’intreccio dei molti fattori di novità qui riferiti in estrema sintesi evocò
la necessità di nuova attenzione all’edilizia ospedaliera.
“L’edilizia sanitaria è un campo da esperti, ma esiste anche l’‘architettura’;
Ospedale Niguarda Progetto Blocco Nord
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questa variabile, soffocata per anni dalle esigenze economiche e, come si usa
dire, tecnologiche, è tornata in primo piano, si è parlato di modello distributivo,
organizzativo, ma anche di immagine, di ambiente, di qualità degli spazi,
sottolineando scelte di carattere progettuale e spaziale. La Commissione
ministeriale ha lavorato per 5 mesi, un tempo troppo breve per poter porre in essere
un programma di ricerca e di approfondimento tematico sull’edilizia ospedaliera,
ma abbastanza per muovere le acque stagnanti del settore e alimentare un
dibattito”6: queste riflessioni, elaborate nel 2002 sullo stato di fatto dell’edilizia
ospedaliera italiana, aprivano vive speranze di risveglio nella direzione di progetti
di qualità, collegandola alle proposte elaborate da una Commissione ministeriale,
dell’anno precedente e di breve durata, qualificata dalla presidenza del medico e
ex-ministro Umberto Veronesi e dal coordinamento dell’arch. Renzo Piano.
Si riconosceva anche una “innegabile” mancanza sostanziale di “attenzione alla
qualità progettuale, distributiva e compositiva” dell’attività edilizia italiana in
questo settore precisando che “si sono utilizzate come riferimento le realizzazioni
di altri paesi europei”. Si concludeva che, finalmente, in quella sede, erano stati
affrontati problemi del tutto trascurati da anni, quali: il rapporto territoriale e
sociale tra città e ospedale, l’identificazione delle dimensioni indispensabili per
aree di nuovo intervento di cui vanno preventivamente ipotizzati i parametri
dimensionali; l’indispensabile identificazione orientativa della tipologia edilizia e
le sue connessioni con le indispensabili dotazioni di aree tecnologiche complesse.
Prendeva così corpo il nuovo slancio costruttivo, in cui Regione Lombardia si
trova attualmente impegnata.
6 R. Bucci, Un nuovo modello di ospedale, “Salute e territorio”, n. 131, 2002.
19
Se considerato globalmente, il Sistema regionale costituito in Lombardia con
la legge 30/2006 all. A1, possiede nel territorio il più grande complesso di
beni culturali mobili, dopo quello della Chiesa cattolica, che sia caratteriz-
zato da continuità di storia e di identità, talvolta a partire dal tardo Medioevo; gli
stessi importantissimi musei comunali lombardi sono nati infatti in larga misura
a partire dal XIX secolo, mentre la componente di più antica origine del sistema
regionale - cioè l’insieme degli enti ospedalieri pubblici - ha in proprietà un patri-
monio architettonico, artistico, storico e scientifico, che testimonia concretamente
il permanere nei secoli dei valori di solidarietà, impegno e generosità della società
lombarda nel perseguire scopi assistenziali e di cura di interesse generale.
Il patrimonio degli enti assistenziali e sanitari, acquisito nei secoli grazie a dona-
zioni di contenuto anche artistico e storico, costituisce dunque testimonianza pre-
ziosa di un valore assai attuale: l’esigenza che la cura non sia destinata soltanto
al corpo degli ammalati, ma alle persone sofferenti come tali, con il loro inesausto
desiderio di bene e di bello, al cui soddisfacimento, sia pure parziale, l’arte non
può restare estranea, come non lo fu nel passato.
Non a caso da molti secoli costruire le sedi, più o meno complesse, dei luoghi di cura
è stata - particolarmente in Lombardia - una sfida di innovazione e ricerca di una
bellezza accogliente, non separata da un concetto di funzionalità adeguato ai tempi;
e questo è un impegno che le più raffinate esigenze tecnologiche e scientifiche di oggi
non possono farci dismettere, proprio mentre in questa regione si tenta di dare rispo-
ste innovative all’originario e umanissimo bisogno di salute e serenità.
Mentre questo volume tratteggia, per la prima volta, un sintetico ma avvincente
profilo storico dell’architettura degli ospedali lombardi nei secoli, si deve purtrop-
1 Cfr. allegato “A” alla legge regionale 30/2006 riprodotto in: C. Ruggiu, Enti regionale: ragioni e esiti di una riforma, in: “Confronti”, 2008, fasc. n. 1, pp. 127-134.
di pietro petra
roia
arte e storia nei luoGHi Della Cura: un patrimonio Da valorizzare
20
po riconoscere che non si dispone ad oggi di un inventario unificato - neppure
meramente patrimoniale - dei numerosissimi beni artistici del Sistema regiona-
le, se non altro perché esso è di recentissima costituzione. E poi, come avviene
ancor oggi per molti enti pubblici, neppure i singoli enti del Sistema dispongono
sempre di una catalogazione scientifica di tale patrimonio, sicché sembrerebbe
quasi impossibile attivare fin da ora quelle forme di sinergia e di qualificazione
dei processi gestionali e anzitutto di salvaguardia che, pure, sono non soltanto
opportuni, ma anzi obbligatori, in attuazione del Codice dei Beni culturali e del
Paesaggio e in vigenza di un regime sanzionatorio severo: basti considerare che
il Codice Penale prevede persino la reclusione per chi danneggi i beni culturali
pubblici (art. 733); e ben sappiamo quanti danni possano derivare proprio dalla
mancata manutenzione e – prima ancora – dal mancato riconoscimento dei beni
stessi nel loro effettivo valore.
è apparso dunque urgente alla Giunta regionale avviare, nella logica della sussi-
diarietà, un processo partecipato di riconoscimento e valorizzazione del patrimo-
nio artistico regionale, che - senza accentrare responsabilità e decisioni in termini
che avrebbero potuto produrre addirittura deresponsabilizzazione nei singoli enti
- punti a sviluppare un’azione di accompagnamento e controllo, che orienti cia-
scun ente secondo principi di “sistema”, partendo dalla consapevolezza che presso
la grande maggioranza degli enti stessi non vi è oggi - e difficilmente potrà esservi
in futuro - personale professionalmente competente per lo studio scientifico e la
valorizzazione del patrimonio artistico e storico ereditato dal passato2. Si tratta
in pratica di lanciare e sostenere nel tempo un programma di inventariazione, ca-
talogazione e definizione di più appropriate modalità di conservazione e fruizione
2 Sulla problematica cfr.: A. Tocci, Beni artistici e culturali degli enti del Sistema regionale: un patri-monio da ri-conoscere, in: “Confronti”, 2007, fasc. n. 3, pp. 52-60.
21
pubblica del patrimonio artistico e storico degli enti regionali, a partire da quelli
sanitari pubblici; insomma, abilitare progressivamente tutti gli enti del Sistema
regionale a gestire adeguati servizi e iniziative di valorizzazione del patrimonio
culturale posseduto.
Naturalmente non va dimenticato che alcuni enti già da tempo stanno ponendo
in essere iniziative di grande pregio per la valorizzazione del proprio patrimonio
culturale, in particolare il Policlinico di Milano3. Né va trascurato che il rinveni-
mento e un’appropriata valutazione storico-critica ed economica dei beni cultura-
li degli enti regionali potrà compiersi davvero soltanto quando lo studio dei beni
(inclusi quelli di interesse storico scientifico) sarà affiancato sistematicamente
dalla ricerca archivistica e storica e sostenuto da un’autentica passione.
Si tratta di un percorso non facile, che richiede la presa di coscienza del fatto che
la salvaguardia (verrebbe da dire: la cura) della memoria sociale e culturale del
territorio, testimoniata da innumerevoli beni culturali presenti negli enti sanita-
ri, costituisce un servizio primario per il benessere - nel senso letterale, ma anche
comune - di tutti i cittadini, fruitori o meno di servizi sanitari. In questo parti-
colare contesto (dove, comunque, gli organi di amministrazione dei singoli enti
mantengono intatti i loro poteri e le loro responsabilità in ordine alla corretta ge-
stione dei beni culturali anche sotto il profilo patrimoniale) è sembrato opportuno
e urgente attivare in primo luogo figure di “referenti” dei singoli vertici aziendali
del Sistema regionale, che sono stati individuati nel personale dipendente, secon-
do valutazioni proprie dei direttori dei singoli enti4; in secondo luogo, si è voluto
3 Emblematico è il caso dell’Ospedale Maggiore - Policlinico di Milano, il cui patrimonio artistico e sto-rico è stato oggetto di numerose attività di studio ed esposizione, oltre che di pubblicazioni tra le quali: Ospedale Maggiore - Ca’ granda. Ritratti antichi - Ritratti moderni - Collezioni diverse, (3 voll.), Milano, Electa Editrice, 1987 (Musei e Gallerie di Milano).. Da ultimo, si veda: P. M. Galimberti, Il patrimonio di opere d’arte degli ospedali lombardi: il caso della Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico, cliniche Mangiagalli e Regina Elena di Milano, in “Confronti”, 2008, fasc. n. 2, pp. 179-189.4 Cfr. al riguardo la nota di Regione Lombardia, prot. A1.2008.0063869 del 03/06/2008
22
porre l’insieme dei referenti (e dei loro sostituti) nella condizione di sviluppare
in gruppo le proprie conoscenze sul tema e, se possibile, la condivisione di buone
prassi, man mano che se ne abbia notizia, anche grazie all’iniziativa dei singoli.
In altre parole, si è deciso di puntare alla costituzione di una community inter-
aziendale di referenti, capace di proporre e gestire processi progressivi di inte-
razione e di far crescere in ciascun ente consapevolezza e motivazione nel lavoro
di riconoscimento e gestione virtuosa dei beni culturali, evitando che un compito
percepito come nuovo dai singoli incaricati possa generare sensazione di solitu-
dine nell’affrontarlo o, peggio, faccia sentire di essere sottoposti a responsabilità
per la cui gestione non si dispone di conoscenze e risorse adeguate.
Per accompagnare il Sistema regionale e, in specie, gli enti sanitari nel percorso
indicato, Regione Lombardia ha attuato tre iniziative:
1. percorsi di formazione e di aggiornamento delle persone incaricate in
ciascun ente di fungere da “referente” sul patrimonio culturale di appartenen-
za;
2. pubblicizzazione di apposite “Linee guida” predisposte da un gruppo di
esperti in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività culturali, per
supportare i “referenti” sul patrimonio di interesse artistico e storico nella
gestione delle diverse tipologie di beni, in conformità alle vigenti norme di
tutela;
3. implementazione di un forum telematico riservato ai referenti nominati
dai Direttori generali dei singoli enti; tale forum consente di accedere facil-
mente alle norme, alle informazioni e agli strumenti software individuati per
realizzare l’inventariazione e la catalogazione del proprio patrimonio artistico,
23
nonché per supportare le azioni di conservazione, fruizione pubblica, stima
patrimoniale, spostamenti, cessioni o vendite, affidamenti in deposito, prestiti
per mostre, ecc.
L’obiettivo è quello di supportare ciascun Direttore generale dei singoli enti (se-
condo le specifiche situazioni, ma in una cornice metodologica comune) nel gestire
adeguatamente la propria responsabilità in ordine al patrimonio artistico e stori-
co dell’ente, nell’ambito complessivo del Sistema regionale, valorizzando al meglio
le professionalità in esso presenti, ovvero individuando correttamente gli apporti
specialistici di cui necessita. Ai referenti individuati dai Direttori degli enti non
si chiede infatti di improvvisare competenze specialistiche, ma di riconoscere le
problematiche di base e di supportare l’acquisizione di beni e servizi adeguati.
Parallelamente si è realizzato nel 2008, attraverso varie forme di cooperazione
con università e con l’Istituto per la Storia dell’arte lombarda, un lavoro di rico-
gnizione dell’entità, caratteristiche fondamentali e distribuzione territoriale delle
collezioni di tutti gli enti sanitari, più o meno antichi, presenti in Lombardia. Su
questa base, diviene possibile negli anni a venire completare l’inventariazione
dei beni e poi la loro catalogazione scientifica, che, d’altra parte, costituisce la
premessa ineludibile per programmare interventi di conservazione e restauro,
oltre che per organizzare, secondo le specificità delle singole situazioni, iniziative
di promozione della fruizione pubblica nel modo più consapevole possibile.
CapitoLo 1 GLI OSPEDALI A CROCIERA DEL QUATTROCENTO
E SUCCESSIVI SVILUPPI FINO ALL’OTTOCENTO
25
Prima del Quattrocento: luoghi di ospitalità nella città medievale
L a Lombardia partecipa nel Quattrocento a un generale movimento di rifor-
ma dell’organizzazione ospedaliera, del quale gli ospedali, organizzati attor-
no a grandi infermerie intersecate a croce, rimangono come memoria tangi-
bile, e costituiscono forse il più specifico contributo della regione a un fenomeno
storico di più vasti confini.
Lo sfondo della riforma quattrocentesca è la lunga tradizione caritativa svilup-
patasi nel corso del Medioevo, ispirata al messaggio evangelico e condizionata
dall’evoluzione delle strutture sociali, in una tipica ambivalenza tra istanze e
regole sia ecclesiastiche che laicali.
Come in gran parte d’Italia, anche a Milano e nelle altre città lombarde il con-
solidarsi delle istituzioni comunali, coincidente con un profondo rinnovamento
religioso, diede luogo, soprattutto dall’inizio del secolo XII, a un grande sviluppo
della rete di xenodochi e luoghi pii. La metafora della “rete” di ospedaletti non è
casuale. Essi infatti, rivolti in modo generico al sollievo dei bisognosi, essendo la
malattia uno dei tanti fattori del bisogno, erano ubicati presso monasteri e abbazie
che offrivano ospitalità ed elemosina, o si costituivano abbastanza casualmente nei
luoghi posseduti dal benefattore che fondava la comunità assistenziale, talvolta in
un quadro non chiaro né stabile di regole e statuti, che riflette del resto la ricchezza
del movimento spirituale che promuoveva tali fondazioni. In Lombardia molte di
queste piccole e spontanee comunità ospitaliere sono riconducibili alle prime fasi
del movimento degli Umiliati, e assunsero col tempo diversi assetti regolari.
Di questi ospedaletti, alcuni assumevano una funzione più precisa, e avevano
di stefano della torre
A LATO: Ospedale Maggiore di Milano – Veduta animata del cortile maggiore, 1866 circa
26
quindi una più riconoscibile collocazione all’interno del disegno urbano. Si allude
a quegli ospedali collocati sulle strade di accesso alla città, che dovevano non
soltanto ricoverare i viandanti, ma anche esercitare su di loro un controllo al fine
di prevenire l’ingresso in città di malattie contagiose, a partire dalla lebbra. Ri-
corrente è quindi la collocazione degli ospedali dedicata a San Lazzaro fuori delle
città, di solito verso Oriente o comunque sul percorso d’accesso più frequentato.
Date le loro dimensioni, fisiche e organizzative, tendenzialmente piccole, rara-
mente gli ospedaletti medievali diedero luogo a strutture architettoniche notevoli
e tipologicamente originali. Soltanto una ampia ricognizione può riconoscere le
prime manifestazioni di quelli che sarebbero stati gli elementi fondativi della
invenzione quattrocentesca dell’ospedale a crociera. In alcuni grandi ospedali, tra
cui gli esempi più noti sono quelli di S. Maria della Scala a Siena (dove questa
infermeria prende il nome di “pellegrinaio”) e di S. Maria Nuova a Firenze, si
ritrovano grandissimi corridoi destinati all’accoglienza, arredati con letti, spesso
anche dotati di un altare per le celebrazioni destinate agli infermi. Di solito si ri-
tiene che la matrice di questi spazi sia da ricercare nella tradizione dell’architet-
tura monastica; ma certamente è attraverso la mediazione degli ospedali urbani
che essa giunse ai progetti lombardi del Quattrocento.
La riforma amministrativa
La riforma quattrocentesca consiste prima di tutto in un riordino amministrativo
che vede l’istituzione laicale farsi protagonista e garante dell’assistenza. Questo
avvenne attraverso una energica azione di concentrazione delle rendite in una
unica organizzazione amministrata di regola da un collegio elettivo espressione
27
della municipalità. Il profondo radicamento del precetto della carità nelle coscien-
ze aveva infatti garantito alle fondazioni ospedaliere un generoso sostegno da
parte delle popolazioni. Ogni piccolo ospedale aveva quindi ereditato piccoli e
grandi possedimenti fondiari, la cui amministrazione era però spesso divenuta
appannaggio dei ministri, e perfino di singole famiglie attraverso l’istituto del
giuspatronato. Le motivazioni addotte per la concentrazione delle rendite denun-
ciano lo stato critico in cui versava l’assistenza, la pratica amministrativa spesso
ai confini dello sfruttamento, le malversazioni, a volte il venir meno dell’erogazio-
ne caritativa.
Quindi, facendo riferimento all’esperienza di altre città italiane, anche nelle città
lombarde si promosse questa opera di moralizzazione e riforma dell’assistenza.
La vicenda milanese ha un sapore tutto particolare, che ne fa un paradigma chia-
rissimo. Essa fu infatti promossa dall’arcivescovo Enrico Rampini nel 1448: è dun-
que l’autorità religiosa che avvia il processo che si concluderà con il sostanziale
passaggio da un modello fondato su istituti in realtà misti, ecclesiatico-laicali, ma
almeno come facciata prevalentemente religiosi, a un modello decisamente laico,
in cui l’amministrazione concentrata spetta alla civitas. è significativo che l’ini-
ziativa dell’arcivescovo Rampini si collochi in quel breve periodo, tra la cacciata
dei Visconti e il ritorno del principato con Francesco Sforza, in cui Milano sembrò
ritornare alle forme e allo spirito glorioso dei comuni attraverso il tentativo della
Repubblica Ambrosiana. L’atto arcivescovile in effetti diede forma e sanzione ad
alcune iniziative cittadine di riordino della materia, attuate tra il 1445 e il 1447.
Non si trattava ancora dell’esproprio delle rendite, ma della nomina, attraverso
un meccanismo cui contribuivano i ministri, il Comune e il Vescovo stesso, di una
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commissione di cittadini, rinnovata annualmente, chiamata a sovrintendere alla
distribuzione delle rendite. Veniva fissato un tetto al prelievo da parte dei ministri
degli ospedaletti, mentre si imponeva un preciso modello anche per l’ordinaria am-
ministrazione dei beni. La commissione poi rendeva conto periodicamente all’arci-
vescovo. La riforma rampiniana fu approvata da papa Nicolò V nello stesso 1448.
L’avvento di Francesco Sforza come signore di Milano vide un primo periodo di
conflitto, in quanto il nuovo signore dimostrò da subito grande attenzione al tema,
procedendo alla concentrazione degli ospedali in altre città, mentre in Milano
cercò di sostituire alla commissione di nomina vescovile un organismo di nomi-
na ducale. Nel 1456 lo Sforza fondò l’Ospedale Maggiore, e nel 1458 i beni degli
ospedaletti furono concentrati, con l’accordo dell’arcivescovo e la benedizione di
papa Pio II.
L’ospedale a crociera nelle città lombarde
Le bolle di fondazione degli ospedali maggiori ripetono, con poche varianti, un
formulario in cui si afferma che l’ospedale maggiore delle singole città sarebbe
stato “unum, novum, amplum et generale”. Un programma politico, che era imme-
diato tradurre in un programma architettonico. L’ospedale nato dalla riforma non
poteva avere la forma casuale data dalle successive aggregazioni degli ospedali
tradizionali, ma doveva simboleggiare anche attraverso l’impianto, la forma e le
dimensioni la sua carica di novità. Questo fu il primo punto del programma ar-
chitettonico: avviare la costruzione di un edificio imponente del tutto fuori scala
rispetto al tessuto urbano, la Ca’ Granda, il cui nomignolo nasconde la saggia
comprensione popolare del programma politico sotteso all’architettura.
29
L’ospedale della capitale del Ducato è naturalmente il punto focale e il riferimen-
to di una fenomenologia che spazia per tutta l’alta Italia, e vede il modello sfor-
zesco al centro dell’interesse fino almeno all’età neoclassica. Il grande interesse
dell’ospedale milanese, oggi sede dell’Università degli Studi grazie a una serie di
restauri novecenteschi che a loro volta sono una pagina fondamentale nella storia
dell’architettura italiana, sta nel fatto che in esso la tradizione tipologica delle
grandi infermerie trova una forma compiuta, dalle ricchissime valenze simboli-
che e pratiche, ponendosi anche come riferimento di un simultaneo aggiornamen-
to condiviso da una regione allargata oltre i confini del ducato, e ponendosi come
riferimento in assoluto, quasi una icona dell’architettura ospedaliera universal-
mente riconosciuta.
Proprio questi valori molteplici hanno focalizzato sull’ospedale milanese, in rela-
zione con gli altri esempi coevi (Brescia, Pavia, Mantova, Cremona, Lodi, Como,
Piacenza…), una grande attenzione degli studiosi, con una molteplicità di propo-
ste interpretative.
Molti sono i punti fermi della storia, a partire dall’intervento dell’architetto e
scultore fiorentino Antonio Averlino detto il Filarete (1400 – 1469), che nel suo
trattato di architettura descrisse l’ospedale milanese sotto forma di ospedale del-
la città ideale di Sforzinda. Il celebre schema filaretiano vede l’ospedale costituito
da due nuclei quadrati, uno per i maschi, l’altro per le femmine, separati da un
cortile bislungo con al centro la chiesa a pianta centrale; ciascuno dei quadrati
contiene una croce, costituita dalle grandi infermerie, che forma quattro cortili
minori. Collocato ai margini della cerchia dei navigli, l’edificio sfruttava le acque
correnti, attraverso un ingegnoso sistema di derivazione e mandata, per dotare
31
le infermerie di latrine collocate in appositi spazi sui lati delle stesse. Anche per
questa pionieristica attenzione agli aspetti igienici l’ospedale milanese costitui-
sce una pietra miliare nella storia dell’architettura ospedaliera.
L’edizione critica del trattato filaretiano edita nel 1972 a cura di Liliana Grassi, figu-
ra di spicco tra quanti hanno contribuito ai restauri della Ca’ Granda, fu una acqui-
sizione fondamentale, in quanto la studiosa aveva modo di riscontrare sulle evidenze
materiali le affermazioni del sedicente progettista. L’interesse degli studiosi ne è sta-
to ulteriormente sollecitato. Negli anni successivi, infatti, molte osservazioni e molte
ipotesi sono state fatte per capire più a fondo la genesi della Ca’ Granda.
In particolare è parsa intrigante, nello scenario culturale di un Rinascimento agli
albori, la questione del rapporto tra Milano e Firenze. L’origine toscana del Fila-
rete, i molti riferimenti agli ospedali di Firenze e Siena nella genesi degli ospedali
lombardi, i documentati contatti tra Galeazzo e Cosimo de’ Medici, addirittura un
viaggio di studio di Filarete in patria proprio per studiare gli ospedali: tutti questi
argomenti hanno spinto a ipotizzare che da Firenze giungessero indicazioni ancor
più precise, tali da far interpretare la razionale organizzazione degli spazi nel
progetto milanese come un portato di cultura albertiana, secondo alcuni mediata
da Bernardo Rossellino in quanto architetto di Nicolò V, il Papa che con le sue
bolle veniva benedicendo le fondazioni degli ospedali lombardi.
Tali suggestive ipotesi hanno comunque il valore di sottolineare l’eccezionalità
del sistema degli ospedali lombardi quattrocenteschi, che nel loro insieme rappre-
sentano un evento di grande rilevanza. Tuttavia un esame dei dati storici certi
induce a proporre interpretazioni più caute, seguendo una lectio facilior che nulla
toglie all’esemplarità fiorentina e alla volontà innovatrice affidata al linguaggio
NELLA PAGINA ACCANTO:
Ospedale Maggiore d
i Mila
no
Cortile m
aggiore con l’o
rologio,1925 cir
ca
32
aggiornato di Filarete. Risulta infatti certo che i precedenti di Siena, Firenze
e Brescia, cui i deputati milanesi guardarono, non presentavano strutture cru-
ciformi, ma soltanto, e non era certo poco, i grandi pellegrinai divenuti ormai
consolidati riferimenti tipologici. Quello che Filarete sicuramente trovò e imitò
nel S. Maria Nuova di Firenze è l’ampiezza dell’infermeria, quel modulo di sedici
braccia che costituisce il primo passo verso la definizione del progetto.
La discussione potrebbe rimanere aperta, mancando ancora molti elementi cono-
scitivi che sarebbero necessari per meglio valutare gli intrecci tra i quasi coevi
cantieri ducali degli ospedali di Pavia (prima pietra 1449), Cremona (dal 1451,
realizzando una struttura a T in un perimetro irregolare) e Milano (in cantiere
dal 1456, ma con una serie di antefatti) e il cantiere dell’ospedale di S. Leonardo
a Mantova (dal 1449), per il quale molti nomi di artisti toscani sono stati proposti
su base più stilistica che documentaria. Si potrebbe anche pensare, e non sarebbe
deludente, a un processo quasi corale, per successive approssimazioni tra cantieri
tutti seguiti molto da vicino dalla corte sforzesca, in cui Milano rappresenti il
frutto più ambizioso e maturo, quello che richiese un ulteriore scatto inventivo e
l’innovazione tecnologica. Del resto la cifra stilistica rinascimentale, “all’antica”,
sarebbe stata ben più marcata se si fosse proseguito il partito avviato nel cortile
oggi detto della Farmacia, e rimesso in luce nei restauri, con il portico a pianter-
reno e superiormente una teoria di archi su pilastri a collegare i contrafforti in
un’immagine fortemente evocativa di modelli romani antichi, o forse anche alber-
tiani. Ma il progetto filaretiano fu abbandonato in corso d’opera a favore di portici
sovrapposti meglio accetti al gusto locale.
La straordinaria invenzione “lombarda” si colloca però non sul piano dei detta-
33
gli, ma su quello dell’organizzazione spaziale, e consiste nell’aver organizzato i
lunghi spazi dei “pellegrinai” in forma di croce greca, enfatizzando come snodi
spaziali pregnanti quegli incroci che prima di allora, se ve ne furono, erano sta-
ti degli accidenti in processi di crescita disorganica e utilitaristica. L’inscrizione
delle infermerie in una cornice quadrata, che dà luogo ai quattro cortili a loro
volta quadrati, perfeziona l’edificio come emblematico di un approccio razionale,
matematico alla organizzazione dello spazio. Che questo razionalismo possa esse-
re esclusivamente di radice albertiana, e non possa avere una componente nella
tradizione lombarda è un pregiudizio comprensibile, che forse però sottovaluta
la cultura del tardo gotico lombardo. Sarebbe comunque sorprendente che una
invenzione nata alla corte medicea o imposta dalla corte papale desse frutto sol-
tanto in Lombardia, in termini di così alta concentrazione spaziale e temporale.
Altre suggestioni sono legate all’archetipo della croce greca e alla sorprenden-
te analogia tra il disegno filaretiano e una serie di lontani precedenti orienta-
li. Anche queste osservazioni contribuiscono a dimostrare la qualità altissima
dell’invenzione di questa architettura, proprio per la molteplicità dei riferimenti
culturali che i suoi progettisti hanno saputo distillarvi. Che poi la croce in sé as-
sumesse un valore simbolico altissimo in senso cristiano è fuori di dubbio, e si può
aggiungere soltanto che questo poteva avere un peso particolare nel quadro di un
processo di laicizzazione voluto dalle stesse gerarchie ecclesiastiche.
Il successo del tipo nelle altre città del Ducato fu immediato: si devono ancora
citare Lodi, dove la prima pietra fu posta nel 1459, e Como, dove l’avvio effettivo
dei lavori tardò fino al 1481. In questi casi, peraltro, la costruzione assunse gli
elementi fondamentali del nuovo tipo senza portarlo a perfezione: il cortile deco-
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rato fu soltanto uno, a Como il progetto prevedeva soltanto tre bracci di croce. Del
resto lo schema a T si configura come una variante non casuale della tipologia a
crociera, presente in numerosi casi, e prevista dallo stesso Filarete per la crociera
delle donne. L’ospedale di Como, dedicato a Sant’Anna, è anche l’unico, che si sap-
pia, ad aver riproposto il sistema delle latrine laterali distintivo delle infermerie
milanesi: il che dimostra che il progetto era perfettamente informato, e che una
certa flessibilità e adattabilità era proprio una delle apprezzabili caratteristiche
di questa invenzione tipologica.
La fortuna dell’ospedale a crociera è dimostrata da numerose realizzazioni in
area padana: qui possono soltanto essere citati gli ospedali di Bergamo, Piacenza,
Parma, Novara… la cui realizzazione fu avviata ancora entro il Quattrocento.
Ma ancora nei secoli seguenti, quando il tipo cominciava ad avere riscontri nella
trattatistica, varie realizzazioni in Italia settentrionale dimostrano la persisten-
za del tipo e il suo successo: si possono citare ad esempio l’ospedale di Vercelli,
costruito a partire dal secondo Cinquecento, il monumentale S. Giovanni Battista
di Torino, costruito a partire dal 1680 su progetto di Amedeo di Castellamonte, il
più tardo Ospedale degli Infermi di Faenza, fondato nel 1752 su progetto di G.B.
Campidori, o ancora la pianta a T dell’ospedale di Treviglio del Segré (1786).
L’elenco potrebbe essere ancora più lungo e articolato, comprendendo alcuni
esempi più remoti, ad esempio spagnoli, che non smentiscono la primaria perti-
nenza padana di questa ampia filiazione tipologica. Sembra però più interessante
accennare, in chiusura, alla problematica della “tenuta” degli ospedali a crociera
nei secoli seguenti. Le grandi infermerie erano nate per il ricovero indifferenziato,
pur consentendo qualche suddivisione dei malati nei diversi bracci in funzione
35
delle esigenze curative e organizzative; ma sempre più sentito si fece il bisogno
di spazi più specializzati e separati, corrispondenti funzionalmente, ma anche
concettualmente, a una visione sempre più medicalizzata dell’ospedale. La pro-
secuzione della fabbrica della Ca’ Granda vide quindi una serie di modifiche per
moltiplicare il numero delle infermerie, e in seguito anche una infinita teoria
di sopralzi e ammezzati, per avere l’ospedale diviso in reparti. Nel frattempo, a
partire del celebre Lazzaretto di Porta Orientale eretto già nel Quattrocento per
le necessità create dalle epidemie di peste, nascevano altri ospedali e ricoveri spe-
cializzati, articolando una nuova rete assistenziale dentro e attorno alla città.
CapitoLo 2 L’OSPEDALE A PADIGLIONI
DALL’OTTOCENTO AL PRIMO NOVECENTO
37
Il lento abbandono dell’ospedale tradizionale
Nel corso del Settecento circolarono sempre più gli studi di medici che
proponevano miglioramenti e radicali mutamenti d’impostazione per
l’edilizia ospedaliera. Si puntualizzavano le esigenze igieniche, cui
dovevano corrispondere accorgimenti costruttivi efficaci, si teorizzava della più
razionale collocazione urbanistica, si chiedevano spazi di ricovero suddivisi in
entità limitate, così da corrispondere a una organizzazione in reparti distinti
in funzione dei morbi e delle esigenze curative. Dal ricovero indifferenziato si
passava gradualmente alla clinica.
In età neoclassica il progetto di gradi ospedali fu più volte proposto come tema
di concorsi accademici: ad esempio, nel 1832 all’Accademia di Brera di Milano
Angelo Pisoni vinse il concorso per un ospedale da 1500 malati. Ma si trattava di
elaborazioni accademiche, appunto, mentre la realtà vedeva più che altro interventi
di miglioramento su complessi ospedalieri esistenti ormai da molti anni.
Se qualche nuovo ospedale fu realizzato in Lombardia nel primo Ottocento, si
trattò di edifici di limitate dimensioni, ispirati all’austera immagine delle fabbriche
di pubblica utilità più che a una ricerca di innovazione tipologica. Ad esempio,
l’architetto Pietro Gilardoni progettò gli ospedali di Varese e Busto Arsizio e a
Milano il Fatebenefratelli (1824); Giulio Aluisetti il Fatebenesorelle (1836);
Giuseppe Bovara l’ospedale di Lecco (1836). Si trattava generalmente di edifici in
collocazione urbana, disegnati su impianti compatti a cortili chiusi, studiati con
attenzione alle esigenze di ventilazione sottolineate dai medici, senza che questa
problematica divenisse lo spunto per aderire a quella impostazione radicalmente
A LATO: Ospedale Sant’Anna di Como - Scalone del padiglione Giovanni Battista Grassi
di stefano della torre
38
nuova che ormai la letteratura straniera teorizzava, ovvero l’ospedale costituito
da padiglioni separati anche come strutture edilizie. A metà Ottocento, nessuno
più dubitava che il modello migliore per la costruzione dell’ospedale fosse quello
che, attraverso la suddivisone in padiglioni distanziati e quindi ben dimensionati,
areati e illuminati, garantiva le condizioni basilari per una efficace e organizzata
assistenza medica.
Nel 1844, all’Accademia di S. Luca a Roma, Angelo Angelucci vinse il concorso
sul tema di un grande ospedale che dichiaratamente il bando voleva a padiglioni
separati. La ricerca teorica, e gli auspici dei sanitari, riguardavano dunque il
disegno dei singoli padiglioni, mentre il tema per gli architetti era soprattutto il
modo di articolare e collegare i padiglioni stessi.
Più che in passato, la progettazione degli ospedali diveniva materia codificata in
una abbondante messa di riferimenti scientifici e di esemplificazioni circolanti a
livello internazionale. Gli schemi adottati a Parigi nel Settecento per ricostruire
l’Hotel-Dieu (1773) e per l’ospedale Lariboisiere (1839) erano costantemente
tenuti presenti, così come erano ben note le proposte di Florence Nightingale per
l’organizzazione dei singoli padiglioni. Il progetto dei padiglioni trovava efficaci
modelli da importare, sperimentati sul campo in tempo di guerra o presentati
nelle Esposizioni Universali: per esempio a Parigi, nel 1878, veniva presentato
il padiglione modulare in struttura metallica di Casimir Tollet, destinato ad
ampia fortuna. Costante era l’aggiornamento degli specialisti sulla manualistica
francese e tedesca.
Ma la più evidente caratteristica del nuovo tipo era il vasto respiro della
composizione, e quindi la reale difficoltà stava nel reperimento delle aree, che
39
dovevano essere molto più estese di quelle occupate dagli ospedali tradizionali. Si
interponevano quindi problemi di tipo urbanistico, che rallentarono notevolmente
l’affermazione del tipo a padiglioni in Italia.
Le prime realizzazioni di ospedali a padiglioni in Lombardia
Soltanto nel 1885 si arrivò concretamente all’avvio di un progetto di ospedale
a padiglioni in Lombardia: si tratta dell’ospedale di Broni, ed è significativo
che ciò sia avvenuto a seguito di un intervento da parte del professore d’Igiene
dell’Università di Pavia, Giuseppe Sormani, che giudicò il primo progetto ancora
troppo legato al tradizionale tipo a corti chiuse. Il secondo progetto redatto dall’ing.
Febo Bottini comportò così, nel suo piccolo, l’adozione della più moderna tendenza:
ubicazione ai limiti del borgo, galleria centrale che congiunge il corpo anteriore
degli uffici al corpo posteriore contenente i bagni e la chiesa, e disimpegna i
quattro padiglioni disposti a doppio pettine, e i padiglioni a loro volta ispirati al
sistema Tollet presentato all’esposizione universale di Parigi nel 1878 e subito
ripresi nella pubblicistica tecnica milanese.
Il sistema Tollet non venne invece adottato anche per l’ospedale per contagiosi a
Dergano, alla periferia di Milano, iniziato nel 1883, dove si cercò di realizzare padiglioni
autosufficienti che non avessero bisogno di corridoi o pensiline di collegamento.
Pochi anni dopo, la costruzione del nuovo ospedale di Monza fu promossa
utilizzando una beneficenza in denaro del sovrano Umberto I, il che conferisce
all’iniziativa un certo valore di esemplarità. Numerose furono infatti le revisioni
del progetto redatto dall’ing. Ercole Balossi Merlo tra il 1890 e il 1894. I padiglioni
a un piano, disposti su più file con attenzione al miglior soleggiamento, venivano
40
qui collegati da pensiline in ghisa e andavano a occupare una vasta area all’esterno
della città. Pur differenziandosi dal sistema Tollet, le infermerie dell’ospedale
monzese risultavano progettate nella ricerca della ventilazione e della luce solare,
chiaramente tematizzata come la principale preoccupazione del momento.
L’Ospedale di Monza fu ampiamente illustrato sulle riviste specializzate nazionali,
entrando in confronto con altre realizzazioni coeve, come il Mauriziano a Torino e
soprattutto il Policlinico di Roma, che segnavano una tappa precisa nell’evoluzione
dell’ingegneria sanitaria italiana. Si abbandonava infatti nella costruzione degli
ospedali ogni riferimento alla monumentalità, e la ricerca trovava una sua via
strettamente tecnica, nel concorso della scienza medica, della scienza delle
costruzioni, dell’innovazione produttiva delle industrie applicate.
Gli ospedali a padiglioni nei primi decenni del Novecento
Ospedale Maggiore d
i Mila
no
Veduta later
ale del P
adiglione
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nizio del N
ovecento
41
Le prime realizzazioni dimostravano i pregi del nuovo tipo e corrispondevano
pienamente allo slancio tecnicista portato dalla borghesia emergente di inizio
secolo, ma non rimuovevano gli ostacoli urbanistici ed economici che rendevano
comunque difficile sostituire i vecchi ospedali con quelli moderni. Nei primi
anni del Novecento furono quindi avviati nuovi grandi progetti, che sarebbero
stati però realizzati soltanto molti anni dopo. Ad esempio il progetto del nuovo
Policlinico San Matteo di Pavia, auspicato da Camillo Golgi nel 1902, fu messo a
concorso tra il 1909 e il 1913, ma la realizzazione secondo il progetto di Gardella e
Martini si trascinò fino al 1927, allorché il progetto fu rivisto nel senso di ridurre
lo spazio occupato da istituti e cliniche progettati con eccessiva larghezza, e si
arrivò all’inaugurazione soltanto nel 1932. Altri progetti rimasero senza esito, o
furono ampiamente rivisti in corso d’opera.
In sostanza, alla fine degli anni Venti si inauguravano come modernissime
strutture progettate dieci anni prima, spesso ancora ispirate alla manualistica
di fine Ottocento, mentre la tecnica ospedaliera andava tuttavia evolvendo. I
progettisti specializzati guardavano con attenzione alla manualistica tedesca,
francese e anglosassone. Pur con qualche ritardo, si prese atto che le infermerie
a un solo piano per circa 50 malati erano ormai superate, e ci si orientava verso
degenze più piccole e meglio integrate con i servizi competenti. Si trattava non
soltanto di garantire le condizioni igieniche basilari, ma di dare forma a una
tecnica ospedaliera in via di costante specializzazione. La manualistica tedesca
proponeva padiglioni a corridoio, in cui le degenze maggiori stavano agli estremi
opposti di un’asta che ospitava su un lato i servizi medici e sull’altro camere più
42
piccole per degenze particolari. Questo tipo a metà degli anni Venti fu adottato
da uno dei più celebri specialisti italiani di architettura ospedaliera, l’ing. Giulio
Marcovigi, che in Lombardia progettò tra gli altri gli Ospedali di Mantova, Milano
Niguarda, Bergamo e Como.
Nel frattempo si sviluppava a Milano, allargandosi nei dintorni della vecchia Ca’
Granda, l’ospedale Policlinico, composto di padiglioni indipendenti, ciascuno dei
quali rappresentava un progetto autonomo, e spesso una occasione di ricerca sulla
forma edilizia meglio rispondente ai bisogni delle singole cliniche.
La svolta verso la “via intermedia” tra sviluppo in orizzontale e in verticale
Il progetto per il nuovo Ospedale Maggiore di Milano a Niguarda, per le cui
vicende dettagliate si rimanda alla scheda curata da Ferdinando Zanzottera,
rappresenta lo snodo cruciale del processo di revisione del tipo a padiglioni, con
la ricerca di una via italiana intermedia tra l’elaborazione del tipo ottocentesco e
la nuova proposta di ospedali sviluppati in altezza, che avrebbe preso il nome di
ospedale “monoblocco”.
Il concorso bandito nel 1926 prevedeva una capienza di 1500 malati suddivisi in
divisioni di 125 letti ciascuna, con il chiaro presupposto che ciascuna divisione
fosse allogata in una unità edilizia autonoma. Il primo grado del concorso vide un
esito contrastato e di un certo interesse: tra i progetti primi classificati vi furono
sensibili differenze nell’articolazione dei padiglioni su due o tre piani, padiglioni
ad H, esistenza o soppressione dei collegamenti. L’immagine del progetto vincitore,
con la sua teoria di edifici isolati orientati secondo l’asse dell’irraggiamento solare,
sembra alludere più al concetto di città-giardino che di ospedale, e dimostra
43
quanto fosse stato sottovalutato il problema dei collegamenti, che risultava in
larga misura nuovo. Per decenni si era lavorato a isolare i padiglioni cercando di
dare più luce e aria possibile, ma al crescere dei servizi e dei movimenti richiesti
dal progredire delle tecniche mediche si moltiplicavano i problemi gestionali posti
dalle distanze, allo scoperto, tra un padiglione e l’altro. Uno dei progetti esclusi dai
premi, quello dell’architetto razionalista Enrico Agostino Griffini, si distingueva
per aver dedicato grande attenzione al tema dei collegamenti, riferendo anche,
ma soltanto nella relazione scritta, che negli Stati Uniti già si erano sperimentati
ospedali in cui scale, montacarichi e ascensori avevano preso il posto delle gallerie
orizzontali.
Mentre si traduceva il progetto vincitore negli esecutivi, aumentavano le
perplessità sul ritardo tecnico-culturale delle scelte operate. Così nel 1930 fu
incaricato il direttore medico dell’Ospedale, Enrico Ronzani (1877-1943), di
valutare il progetto. Le valutazioni di Ronzani, radicalmente negative, furono
condivise dal governo, tanto che l’intera vicenda del concorso fu archiviata, e
l’anno seguente fu chiamato l’espertissimo ing. Marcovigi a tradurre in progetto
edilizio le idee innovative di Ronzani.
I concetti informatori del nuovo progetto sono sintetizzabili in pochi punti:
riduzione del numero di letti a sei per ogni infermeria, raggruppamento delle
infermerie in un minor numero di padiglioni tra loro collegati; edifici a un maggior
numero di piani, per razionalizzare sia le reti tecnologiche (elettriche, acqua,
fognatura, riscaldamento) sia i collegamenti, ritenendo i collegamenti verticali
ormai più rapidi di quelli orizzontali. Si pervenne così al progetto di padiglioni a
cinque piani, soprelevati dal suolo da un ampio porticato terreno alto oltre cinque
44
metri e tra loro collegati.
Molto rilevante fu la conseguente attività pubblicistica e didattica svolta da
Ronzani attraverso le pagine della rivista “L’Ospedale Maggiore” e attraverso
interventi in svariate sedi. Pubblicando i nuovi progetti e ospitando traduzioni e
segnalazioni dalla stampa specializzata internazionale, si costituì quello che per
alcuni anni fu il principale propulsore dell’innovazione nell’edilizia ospedaliera
italiana, nonché il referente italiano del dibattito internazionale.
Il punto di vista di Ronzani era orientato verso una adozione del tipo a sviluppo
verticale, limitato però in altezza per adattarlo alle località, ai climi e alle abitudini
italiane, e quindi presentato come tipo a padiglioni a molti piani (da cinque a
otto) accentrati e ben collegati tra loro. Qualche volta questo tipo viene definito
“poliblocco”, e quale esempio tra i più felici viene spesso citato l’Ospedale di
Brescia progettato da Angelo Bordoni, autore anche dello studio per una moderna
“infermeria-tipo”. Nel progetto bresciano di Bordoni i blocchi si compongono in uno
schema poligonale, che restituisce al tipo una marcata monumentalità ottenuta
senza ricorso a decorazioni sovrastrutturali.
La ricerca negli anni Trenta
Durante il decennio successivo, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale,
il regime fascista diede notevole impulso alla costruzione di nuovi ospedali, anche
attraverso concorsi di progettazione che furono altrettante occasioni di dibattito e
confronto. In alcuni casi le giurie diedero la preferenza ai progetti più audaci, nei
quali si andava decisamente verso monoblocchi alti nove o dieci piani.
Un momento importante fu il 4° congresso ospedaliero internazionale, tenutosi
45
a Roma nel maggio 1935, accompagnato da una mostra delle realizzazioni del
regime. In quell’occasione fu istituito un sottocomitato italiano, presieduto da
Ronzani con tra i membri l’attivissimo architetto romano Ettore Rossi e come
vicepresidente un altro milanese, quell’Ernesto Griffini che nel frattempo, con
il progetto del padiglione Granelli al Policlinico, aveva prodotto una delle poche
architetture ospedaliere ricordate anche nelle autocelebrazioni del movimento
razionalista, altrimenti piuttosto distratte verso questa produzione, forse troppo
legata a una ricerca strettamente funzionale e pratica.
Nel 1939, infine, si giunse alla emanazione di un decreto legge che fissava norme
generali per le costruzioni ospedaliere. Tali norme da una parte affermavano
decisamente la preferenza per le costruzioni a blocco, per ragioni di economia;
ma d’altra parte limitavano drasticamente a sette il numero massimo dei piani.
Questa scelta non era dettata soltanto da pregiudizi o arretratezza culturale:
essa trovava argomentazioni non solo di natura funzionale, per i problemi d’uso
di ascensori destinati a collegare troppi reparti di troppo varia natura, ma anche
psicologiche, pensando alla scarsa abitudine dei pazienti italiani a ritrovarsi
isolati a certe altezze.
Veniva dunque ufficializzata la linea moderata che era stata indicata dagli
igienisti milanesi fin dall’inizio del decennio, e che conferma il ruolo dell’Ospedale
Maggiore milanese come snodo della vicenda storica dell’architettura ospedaliera
italiana nel Novecento.
CapitoLo 3 EVOLUZIONE
DALL’OSPEDALE A PADIGLIONI
ALL’OSPEDALE MONOBLOCCO
O MISTO NEL XX SECOLO
47
Nel corso del XX secolo la concezione del complesso edilizio ospedaliero,
nodo centrale delle politiche di salute pubblica, si è inscritta
impetuosamente entro logiche istituzionali dapprima a scala nazionale,
poi anche regionale. Contemporaneamente la sua interna organizzazione e la
sua gestione, pur adattandosi a tradizioni locali e a specifici contesti territoriali,
hanno implicato una costante, spesso dirompente, apertura a tutto campo alle
innovazioni scientifiche internazionali.
L’architettura ospedaliera, nelle diverse tipologie mediche comprendenti spesso
una stretta connessione con l’Università, ha preso presto in Italia configurazione
di una vera e propria città nella città, più tuttavia cittadella sui generis - di studi,
esperimenti e cure - che non machine à guerir come, nei due secoli precedenti,
venne talvolta chiamata.
Si tratta di una cittadella che può essere ritenuta efficace interfaccia tra evoluzione
scientifica e sociale, in campo medico e comportamentale, e modificazione
insediativa della città contemporanea, della quale trattiene in sé, come obiettivo
imprescindibile, il primato della funzione programmatoria, funzione che i
progetti urbani dal canto loro inseguono invece con scarsi esiti, non solo in Italia.
Microcosmo altamente strutturato, essa esige inoltre, attorno alla sua robusta
piattaforma medico-tecnica, un’attività esterna, logistica, di ospitalità, di relazione
con servizi medici diffusi.
Nel XX secolo la sua morfologia architettonica è stata travolta da continue
sperimentazioni, che si sono provvisoriamente attestate in configurazioni globali
e dimensionali ben distinte, anche se sottoposte a reciproci influssi, nelle diverse
nazioni occidentali, differenziandosi inoltre anche in rapporto a contesti molto o
A LATO: Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano - Corridoio che affaccia sul cortile della Chiesa
di maria
antonietta Crip
pa
48
poco urbanizzati. Nella prima metà del secolo la tipologia a padiglioni, sviluppatasi
dal Settecento in poi, venne approfonditamente discussa e modificata, anche in
ragione delle conquiste scientifiche della moderna medicina che, avendo debellato
i problemi di contagio, rendeva inutile l’eccessiva frammentazione delle degenze.
L’insorgere inoltre di laboratori di ricerca e di analisi, che articolavano stretti
rapporti tra scienze chimiche e proposte terapeutiche, diede luogo a una
disseminazione di corpi edilizi nel recinto ospedaliero che obbligavano a lunghe
percorrenze medici e personale. Sempre più numerosi e importanti diventavano
nello stesso tempo gli ospedali specialistici.
Il dibattito di inizio secolo si sviluppò attorno a due problemi ritenuti primari: una
attenta valutazione della densità fondiaria, esigita dalla tipologia architettonica
a padiglioni, e il sistema di connessione tra i volumi edilizi, in superficie, con
percorsi aperti o chiusi, o in tunnel, sotterranei o seminterrati. In tutti i paesi
ma soprattutto in Italia, l’enorme estensione delle cittadelle ospedaliere, anche
per il modesto sviluppo in altezza dei padiglioni, comportò normalmente lentezze
eccessive negli spostamenti; la sorveglianza divenne praticamente impossibile;
incontrollabile la continua crescita numerica dei padiglioni in ragione della
crescente specializzazione.
Nel periodo tra le due guerre mondiali, l’innovazione edilizia conseguente al
diffondersi dei nuovi materiali - del calcestruzzo armato, dell’acciaio e del vetro -,
la messa a punto di un funzionalismo generalizzato, una prevalente tendenza
igienista stimolarono ingegneri e progettisti a superare i limiti del tipo ospedaliero
a padiglioni. Il primo passaggio, in Europa, avvenne tramite l’aumento volumetrico
dei padiglioni e la loro funzionale articolazione; vennero allora costruiti alti blocchi
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edilizi con struttura planimetrica a T o ad H, nei quali degenze e servizi di cura
venivano integrati in unità e la corsia aperta, con più posti letto, abbandonata;
si preferì invece lo sviluppo di camere, da quattro a sei letti, lungo un corridoio,
dapprima su un solo lato, in seguito anche su due. A Milano, il primo padiglione
con planimetria ad H fu il Litta del 1900, il primo a T fu il Luigi Sacco del 1927,
ambedue nel Policlinico affacciato su via Francesco Sforza.
Nella penisola italiana la tipologia a padiglioni venne introdotta tardi, solo dopo
il 1870, in ragione soprattutto della diffusa esistenza di antichi ospedali nel
cuore di fitti tessuti urbani difficilmente modificabili o ampliabili. Del 1877-84
è l’Ospedale a padiglioni Galliera di Genova, dello stesso tipo sono anche quello
di Broni, del 1887-89, quello di Umberto I a Monza in Lombardia, del 1896; il
Policlinico Umberto I di Roma, del 1899, e il Policlinico di Milano, del 1900.
Merita almeno una segnalazione, per la novità dell’impianto a corte oltre che
per la ricerca di linguaggio architettonico nuovo, l’Ospedale civico di Gallarate
(Varese) del 1871, opera dell’architetto, storico e restauratore Camillo Boito1.
Nel periodo del governo mussoliniano venne dato enorme incremento
alla progettazione e realizzazione di nuovi ospedali, spesso realizzazioni
morfologicamente riuscite della transizione dall’ospedale a padiglioni a quello a
poliblocco, variante del tipo a monobolocco di matrice americana. Molti complessi
edilizi, iniziati nel Ventennio fascista, rimasero però incompiuti; la ripresa del cantiere
per il loro completamento nel secondo dopoguerra ebbe oneri non indifferenti, fu
persino causa di ritardi nello stesso aggiornamento delle strutture ospedaliere.
Episodio cruciale del passaggio dall’ospedale a padiglioni a quello a più
blocchi, di sei piani fuori terra sopra l’alto portico al piano terreno, è il Nuovo
1 L.Grassi, Camillo Boito, Il Balcone, Milano 1959.
50
Ospedale Maggiore di Milano a Niguarda, per 1.500 posti letto, dalla lunga
e travagliata vicenda, conclusasi con l’incarico di progettazione dato all’ing.
Giulio Marcovigi, al medico Enrico Ronzani e all’arch. Giulio Ulisse Arata
per le componenti architettoniche, nel 1931. Il complesso ospedaliero venne
realizzato tra 1933 e 1939.
Intorno alla costruzione di questo ospedale milanese si intrecciarono vari fattori
rilevanti: dalla modifica del perimetro comunale, che inglobò l’area sul quale esso
sorse, alle importanti modifiche istituzionali dell’antica Ca’ Granda, destinata ad
abbandonare l’originaria destinazione per divenire sede di Università collegata al
vicino Policlinico; dalla formazione di una vasta cittadella, immersa nel verde, alla
esplorazione di morfologie edilizie aderenti a nuove esigenze mediche e gestionali;
dalla volontà di rinnovare la solennità monumentale e artistica dell’antico
ospedale filaretiano, nel grandioso ingresso e nel rivestimento in pietra, della
gran parte degli edifici, all’attenzione per l’arte in tutte le sue forme, in opere di
grande qualità artistica concentrate soprattutto nella chiesa centrale.
Attorno alla transizione tipologica, che culminò nella sua realizzazione, si
annodarono, inoltre, ricerche del primo razionalismo italiano, poco note ma
meritevoli di ulteriori esplorazioni, sia perché vissute da personalità che non hanno
ancora attirato adeguata attenzione da parte di critici e storici d’architettura,
benché di sicuro talento, sia perché testimoni di un influsso della modernità
oltreoceano sulla ricerca italiana. La conoscenza dei primi ospedali monoblocco
americani, di grandi dimensioni, ebbe infatti precoci ricadute in progetti e dibattiti
lombardi contrassegnati dall’incrocio tra grandi ambizioni mussoliniane e
intelligente recezione di forti stimoli innovativi, orientati in particolare a recepire
Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano - Vista del monoblocco e della cappella
51
possibilità di attivazione della produzione edilizia prefabbricata. Fondamentale è
stato, in particolare, il dibattito sorto intorno al concorso per l’Ospedale clinico di
Modena del 1933-34, vinto dall’arch. Ettore Rossi2 con un progetto monumentale
monoblocco articolato a piastra, certamente influenzato da progetti realizzati
negli Stati Uniti del tipo di quelli pubblicati nel volume di Bruno e Franco Moretti,
su ospedali, opere di assistenza, colonie, istituti scientifici, dell’anno successivo
al concorso3. I Moretti riuscirono a illustrare con grande efficacia l’impegno
mussoliniano e l’inventiva dei progettisti di ospedali in Italia di questo periodo,
certo non minore di quella degli altri paesi europei.
Il superamento definitivo del tipo a padiglioni era avvenuto in America nel
primo decennio del Novecento in giganteschi complessi alti fino a trenta piani,
con prospetti alleggeriti da ampie finestre, struttura in calcestruzzo armato o in
acciaio, con articolazione modulare generale e pertanto prefabbricabili, oltre che
dotati di nuclei di veloci ascensori. Negli anni Venti e Trenta il nuovo tipo si diffuse
in vari paesi d’Europa nella forma del monoblocco, espressione quest’ultima presa
dal gergo dell’industria automobilistica per indicare edifici alti e ben utilizzabili
grazie alla larga diffusione dei sistemi meccanici di trasporto verticale.
Nel monoblocco si riducevano moltissimo i tempi di percorrenza; ognuno dei
piani di degenza, inoltre, poté essere dotato delle strutture fondamentali per la
diagnosi e la terapia, divenendo autosufficiente unità operativa. Poiché nei paesi
europei venne subito imposta una altezza massima di circa 15 piani, l’ospedale
monoblocco si estese anche in orizzontale, spesso si articolò liberamente in più
blocchi. Tale assetto ebbe particolare fortuna in Italia, dove un decreto legislativo,
del 20 luglio 1939, ne fissò l’altezza massima di sette piani fuori terra. Il Nuovo
2 S.a., Il concorso per l’Ospedale di Modena, “Architettura”, A. XIII, 1934, fasc. VII (luglio) pp. 414-430.3 B. Moretti, Ospedali, Note preliminari all’impostazione a cura di F. Moretti, Hoepli, Milano 1935.
52
Ospedale di Brescia dell’ing. Angelo Bordoni, per 1.430 posti letto, iniziato nel
1934 e costruito in calcestruzzo armato, è del tipo a grossi blocchi articolati in
doppia Y, collegati tra loro da percorsi coperti e disposti attorno ad una corte al
cui centro era posizionata la chiesa. Anche l’Istituto medico chirurgico XXVIII
Ottobre in Milano venne concepito, dall’ing. Giuseppe Casalis nel 1933, come un
grande monoblocco con corte interna, sviluppato per quattro piani fuori terra.
Di progetto dell’ing. Giulio Marcovigi sono l’Ospedale civile di Como, del 1928, a
padiglioni di tre piani collegati tra loro da loggiati, e l’Ospedale degli Infermi di
Biella, del 1935, un lungo monoblocco di sette piani fuori terra.
Opera dell’ing. Giuseppe Invitti è, invece, l’Ospedale Maggiore della Carità di
Novara del 1929-30, in un solo blocco articolato e dalle forme classicheggianti
semplificate. A Enrico Griffini, architetto protagonista di una raffinata ricerca
razionalista orientata alla prefabbricazione, si deve l’Istituto di patologia medica
della Regia Università di Milano del 1932-33, con interessanti soluzioni tecniche
e formali. L’arch. Mario Favarelli è stato autore del progetto per l’Istituto
Neurologico Vittorio Emanuele nella zona milanese di Città Studi, del 1930-32,
un grosso monoblocco con planimetria a E di quattro piani fuori terra, ornato da
sculture nelle parti alte dei prospetti su strada.
La larga diffusione in Italia del tipo monoblocco e pluriblocco, spesso anche
affiancato a preesistenti e talvolta antiche strutture ospedaliere, dagli anni
Cinquanta in poi, come attestano per la Lombardia le schede predisposte per
questo volume, consentì di rispondere facilmente a un insieme composito di
necessità, quali: l’utilizzo di aree di dimensioni non troppo grandi; costi contenuti
di costruzione, anche grazie all’accorpamento di impianti tecnologici; riduzione
53
delle distanze di percorrenza; articolazione gradevole dei volumi edilizi in aree
a parco o giardino; modi di vita ospedaliera ancorati alla scala umana, simile
a quella di una unità di vicinato o di quartiere, la stessa che in quegli anni si
metteva a fuoco nell’edilizia residenziale, soprattutto popolare, soprattutto nelle
città del nord più sottoposte a processi di urbanizzazione.
L’esplosione delle conseguenze dell’industrializzazione a scala urbana, con
abbandono di molti insediamenti dall’antica storia e crescita fuori controllo di
alcune città soprattutto del nord Italia, innanzi tutto nel triangolo territoriale
compreso fra Torino Milano Genova, avvenne in Italia molto in ritardo rispetto al
resto dell’Europa. Fu infatti fenomeno rilevante dei primi due decenni della seconda
metà del XX secolo, cui corrispose il proliferare di nuovi ospedali a pluriblocco o
misti, caratterizzati da soluzioni architettoniche non innovative, spesso però tese
a risolvere un positivo intreccio fra qualità architettonica e relazione efficace con
il contesto urbano, da una parte, e richieste medico-sanitarie, sociali e gestionali,
dall’altra, in una nazione che stava ancora, e non senza difficoltà, consolidando la
sua unità e le sue scelte democratiche.
Ne aveva coscienza la classe politica dirigente, come segnalano le dichiarazioni
del presidente del Consiglio dei Ministri, Aldo Moro, all’inaugurazione del nuovo
ospedale dedicato a San Carlo Borromeo in Milano nel 1967, quando collegava
l’evidenza, di “opera monumentale e insieme di grande significato umano e sociale”
del nuovo ospedale, al momento storico della “nostra democrazia che comincia
ormai una sua maturità e stabilità”, nello sviluppo delle “esigenze fondamentali
inerenti la dignità umana” e delle “possibilità di soddisfarle, sia pure con quella
gradualità che è inerente all’alto costo di questi servizi e allo stadio intermedio di
Ospedale San Carlo – Vista del monoblocco e della Chiesa dell’Annunciata
54
sviluppo economico nel quale si trova il nostro paese, che ha fatto grandi progressi,
ma altri ancora ne deve fare”, in particolare in direzione “della sicurezza sociale
nel campo dell’assistenza sanitaria”4.
Il paese, inoltre, era ancora fortemente impegnato nel rispondere al problema
residenziale nelle aree più urbanizzate, oltre che investito da tensioni politiche e
dure controversie urbanistiche.
Dell’evidente limite, di adeguatezza culturale e preparazione logistica della politica
del settore ospedaliero italiano, erano consapevoli anche i progettisti, stretti nella
difficoltà di coniugare offerta di quantità, nella capacità ricettiva ospedaliera e
nella predisposizione di servizi a essa connessi, con la qualità dell’architettura,
solo in qualche caso perseguita pienamente.
Meritevole di attenzione, da questo punto di vista è il milanese Ospedale di San
Carlo Borromeo, ritenuto urgente per “provvedere ad una carenza di posti letto
riguardante tutta la città di Milano e non quella di un quartiere o di un distretto
soltanto”. L’ing. Arturo Braga e il medico G. Sollazzo, descrivendo le caratteristiche
del progetto, motivavano la scelta morfologica mista - composta da ‘monoblocco
articolato’ a Y, alto quattordici piani di cui dodici fuori terra, e altri edifici minori
compreso un villaggio per l’ospitalità di circa 360 persone addette all’ospedale -
in funzione della riduzione dei costi di esercizio, che permettevano larghezza, ma
senza sprechi, per quelli di costruzione.
L’urbanistica e la disposizione generale degli edifici godevano in questo caso
di un disegno generale e di finiture eccellenti, anche perché elaborate con la
collaborazione dello studio professionale di Gio Ponti, “non solo sotto il profilo
della massima funzionalità, ma anche in relazione ai molti problemi psicologici e
4 F. Chiappa (a cura di), L’Ospedale San Carlo Borromeo, ed. “La Ca’ Granda”, Milano 1968, p. 24.
55
umani che una tale comunità comporta”5. Da tali attenzioni discesero l’attivazione
di impianti tecnologici moderni, la controllata possibilità di aumentare con
sopralzi alcuni degli edifici in ragione del continuo evolvere della scienza medica,
il disegno delle aree libere con giardini e filari di alberi molto curati, l’elegante
raffinatezza del progetto della chiesa, realizzata con entusiasmo da Gio Ponti, che
la ritenne indispensabile nell’ospedale, “dove l’umanità è al sacro cospetto del suo
destino di dolore, di vita e di morte, e la speranza cerca conforto nel mistero, e così
la rassegnazione”6.
L’edificio ha dimensioni di chiesa vera e propria, più che di cappella. Del resto
era diffusa la convinzione che l’ospedale fosse “una vera parrocchia […] per la
concreta realtà di una situazione in cui si articolano di fatto tutte le componenti
di una parrocchia: popolazione (degenti e personale) dalle esigenze tanto più vaste
quanto più la vita vi è condizionata da una situazione eccezionale e da orari vari e
forzatamente tiranni; aumento ricorrente di fedeli dovuti alla massa di parenti e
dei visitatori, normale amministrazione di tutti i Sacramenti con un ritmo e una
frequenza talora superiori a quelli di altre parrocchie”7. Non altrettanto curata
era tuttavia la zona mortuaria, come al solito collocata in area poco visibile da
visitatori e malati.
Questo ospedale milanese, insieme al Centro Traumatologico ortopedico di Careggi,
sorto negli stessi anni nella zona a nord di Firenze dove fin dall’inizio del secolo si
è già insediato un importante ospedale, meritano particolare menzione in quanto
riuscirono ad attivare anche un positivo rapporto col territorio circostante, di cui
divennero occasione e perno di sviluppo.
La letteratura specialistica segnala che nella maggior parte dei casi i progetti
5 Ivi, p. 996 Ivi, p. 1657 Ivi, p. 174
56
italiani di ospedali monoblocco o poliblocco della seconda metà del XX secolo
non attestano particolare impegno di ricerca morfologica e architettonica. Anche
la variante piastra-torre, caratterizzata da ampia piastra di base a sviluppo
orizzontale per ospitare i servizi generali e di diagnosi, dalla quale si stacca il
blocco verticale delle degenze, non è stata attuata in soluzioni di grande rilievo.
Meritano comunque di essere segnalate, tra le soluzioni a mono o pluriblocco
e quelle a piastra-torre, alcune equilibrate realizzazioni, cui vanno aggiunte,
in particolare per la Lombardia, quelle descritte nelle schede predisposte per
questo volume. A Roma presentano morfologia di monoblocco articolato il Centro
traumatologico ortopedico INAIL, del 1957, progettato dall’Ufficio Tecnico
dell’ente, e il primo volume del Nuovo Ospedale di San Giovanni, concluso nel
1958, opera dell’ing. G. Gasbarri con la collaborazione dell’arch. G. Francisci,
composto da un volume degenze di sette piani fuori terra, davanti al quale un
corpo più basso per i servizi generali si sviluppa in forma planimetrica ad arco di
cerchio, attestandosi su via dell’Amba Aradam.
A Saronno, tra Milano e Varese, gli ingegneri e architetti Eugenio ed Ermenegildo
Soncini progettavano nel 1955 un ampliamento, secondo il tipo monoblocco,
dell’Ospedale di Circolo, caratterizzato da estrema cura sia nell’organizzazione
funzionale, che nella qualità ambientale offerta ai degenti, ospitati in stanze con
pochi letti, tramite particolari soluzioni architettoniche normalmente riservate
all’edilizia per le cliniche private, come ampie porte vetrate, pareti colorate, arredi
raffinati. Ogni piano di reparto degenza era stato inoltre dotato di un proprio
nucleo di servizi, con cucine che consentivano uscita diretta anche verso l’esterno.
Di questi stessi ingegneri architetti è la Clinica privata “La Madonnina” di Milano
57
del 1956, costruzione monoblocco, in cui la parte bassa, di due piani fuori terra,
allineata sul confine di via Quadronno, costituisce zona filtro rispetto alla città e
ospita i servizi tecnici, l’accoglienza e gli ambulatori, mentre il blocco delle camere
dei degenti si alza in verticale per otto piani, affacciandosi sul giardino che si
intravede dalla strada attraverso una pensilina per la discesa delle automobili.
Molto curate sono le finiture architettoniche dei prospetti e dell’interno: la facciata
su strada presenta un bow-window con lastre in cristallo smaltato grigio, le scale
interne hanno parapetti in cristallo, l’atrio ha grandi pareti panoramiche e pareti
rivestite in marmo; ogni camera possiede una piccola veranda che guarda sul
giardino, qualcuna ha anche proprio salottino; piccola e accogliente è la cappella.
Un architetto milanese recentemente scomparso, Carlo Casati (1918-2004), ha
progettato molti ospedali nel corso della sua attività professionale, non tutti
realizzati o completati; nelle tavole di progetto li ha denominati ospedali a
‘monoblocco siamese’ perché articolati in due volumi, connessi tra loro nei piani
bassi. Sono suoi: la ristrutturazione e il nuovo progetto dell’Ospedale Psichiatrico
di Codogno (Lodi) del 1953; i progetti del Nuovo Ospedale di Desio (Milano), del
1963, dell’Ospedale generale provinciale San Paolo alla Barona (Milano) del 1964,
dell’Ospedale Civile di Montichiari (Brescia) del 1968, della Nuova Residenza
Assistenziale di Seregno (Milano) del 1970, del Nuovo Ospedale degli Infermi di
Biella del 1970, dell’Ospedale di Rovigo del 1973, dell’Ospedale Vittorio Emanuele
II di Jesi (Ancona) del 1986 e altri ancora.
CapitoLo 4 I NUOVI OSPEDALI LOMBARDI
TRA PRESENTE E FUTURO
59
L a rivoluzione è cominciata nel 2001. In principio c’era solo il medico, ora
invece, al centro di ogni progetto per la costruzione di un nuovo ospedale c’è
in primo luogo il paziente, quindi dottori, infermieri e tutti gli altri attori che
lavorano all’interno delle cliniche. Niente barricate né cortei per ottenere questa
conquista: Regione Lombardia si è armata di un team di professionisti che è stato
capace di far ruotare di 180 gradi l’angolo della visuale del progettista. La novità
dell’approccio: tutto deve essere pensato per soddisfare le necessità del singolo
cittadino malato e quelle della comunità che lo accoglie e non, al contrario, per
dare spazio a tecnicismi o accontentare i desideri di pochi.
All’origine di questa rivoluzione c’è un decalogo. Era il 2001 quando un’apposita
commissione presieduta dall’allora ministro della Sanità Umberto Veronesi
e coordinata dall’architetto Renzo Piano, elaborò un modello di ospedale al
quale potessero ispirarsi tutti i nuovi progetti di edilizia sanitaria. Dieci regole
semplici, ma fondamentali per costruire un buon ospedale, capace di essere a
misura d’uomo, centrato sulla persona e sulle sue esigenze, un luogo di speranza,
guarigione, cura, accoglienza e serenità.
Detto e fatto. A Regione Lombardia è bastato poco più di un anno per passare
dalla teoria alla pratica grazie al Piano straordinario per lo sviluppo delle
infrastrutture lombarde 2002/2010 che ha previsto lo stanziamento di oltre
cinque miliardi di euro per il settore sanitario. Obiettivo: ottimizzare le strutture
esistenti e costruirne di nuove dove necessario, per essere un polo attrattivo anche
per chi proviene da altre regioni, offrendo servizi sanitari all’avanguardia grazie
all’introduzione di macchinari di ultima generazione e all’eccellenza tecnologica.
Un rinnovamento generale reso possibile grazie a un ingente finanziamento, che
di rita balestri
ero
60
nel 2007, ha permesso di sovvenzionare i lavori di nove diversi ospedali: Nuovo
Ospedale Beato Giovanni XXIII di Bergamo, Presidi Ospedalieri di Busto Arsizio,
Saronno e Tradate, Presidi Ospedalieri di Cittiglio e Luino, Nuovo Ospedale
Sant’Anna di Como, Nuovo Ospedale di Legnano, Ospedale Niguarda Ca’ Granda
di Milano, Nuovo Complesso Ospedaliero di Vimercate. Nove cantieri a cui vanno
aggiunti gli sforzi per la redazione del masterplan degli ospedali San Gerardo
di Monza e di Circolo e Fondazione Macchi di Varese. Un impegno unico nel
panorama europeo che metterà a disposizione dei cittadini lombardi quasi 6.000
posti letto, numerosi nuovi ambulatori e oltre 150 sale operatorie.
Responsabile per conto di Regione Lombardia dell’esecuzione dei lavori è
Infrastrutture Lombarde Spa, società di capitali sotto il totale controllo del
Pirellone, nata nel 2003 per dare concreta attuazione al Piano. Obiettivo della
Regione: identificare un organismo specialistico in project management capace di
fungere da stazione appaltante per la realizzazione dei progetti, gestendo anche la
procedura di gara e coordinando il lavoro dei cantieri in termini di monitoraggio,
per poter intervenire tempestivamente con azioni correttive in caso di deviazione
dagli standard predeterminati.
La Sanità sta cambiando. è questa la consapevolezza che ha spinto all’ideazione di
un nuovo modello di ospedale. Le tecnologie si sono evolute straordinariamente e
di conseguenza la Sanità ha subito profonde rivoluzioni. Pensiamo alla diagnostica
per immagini, alle tecniche chirurgiche, anestesiologiche e rianimatorie, alla
genetica, ai trapianti e così via. La medicina oggi è in grado di curare sempre
di più, ma non sempre riesce a guarire. E allora si crea un popolo di pazienti
(dializzati, trapiantati, cardiopatici, oncologici, diabetici, ecc.) che convivono,
61
spesso a lungo, con la propria malattia e hanno bisogno di cure di nuovo tipo.
E ancora, la consapevolezza dei propri diritti che spinge i malati a pretendere
prestazioni di livello sempre più elevato. Era necessario, quindi, rinnovare
tutto il sistema per fornire risposte adeguate a tutte le aspettative (in termini
di diagnosi, terapia, riabilitazione, assistenza) e a tutte quelle persone che si
trovano a convivere con la propria patologia. Da qui la decisione di porre in atto
una vera e propria rivoluzione nel modo di concepire, progettare, realizzare e
gestire l’ospedale, perché corrisponda alle nuove esigenze e alle nuove idee.
Partiamo allora dalle dieci regole stilate dalla Commissione ministeriale per
capire le scelte che hanno portato all’elaborazione dei progetti che, entro il 2009,
permetteranno l’inaugurazione delle nuove strutture lombarde. Il decalogo:
1. umanizzazione: centralizzazione della persona;
2. urbanità: integrazione con il territorio e la città;
3. socialità: appartenenza e solidarietà all’interno della struttura ospedaliera;
4. organizzazione: efficacia, efficienza e benessere percepito;
5. interattività: completezza e continuità assistenziale;
6. appropriatezza: correttezza delle cure e dell’uso delle risorse;
7. affidabilità: sicurezza della struttura;
8. innovazione: rinnovamento diagnostico, terapeutico, tecnologico e informatico;
9. ricerca: impulso all’approfondimento intellettuale e clinico-scientifico;
10. formazione: aggiornamento professionale e culturale.
Nella pratica, come è stato possibile costruire un ospedale “paziente centrico”,
capace cioè di racchiudere in sé tutte queste caratteristiche? Dal punto di vista
operativo, i principi contenuti nel decalogo si traducono in strutture compatte, in
62
grado di consentire collegamenti veloci, connessioni e interazioni più rapide ed
efficaci tra le differenti attività mediche, ma anche di garantire la separazione dei
percorsi tra i diversi flussi, permettendo agli addetti e agli operatori di muoversi
sempre su tragitti diversi da quelli dei visitatori e degli utenti e assicurando ai
malati percorsi riservati.
Questa precisa esigenza sta alla base del motore che ha portato all’evoluzione della
struttura degli ospedali stessi. Quelli sorti verso la fine dell’Ottocento venivano
costruiti a padiglioni perché si pensava che il modo migliore per organizzare lo
spazio fosse la suddivisione per blocchi, ognuno dei quali era destinato a una
specializzazione precisa. Bisogna aspettare gli anni Sessanta per capire che
questa divisione era poco funzionale e che un ospedale monoblocco avrebbe
potuto risolvere molti problemi. Come strutturarlo allora? Si pensò che il modo
migliore per ridurre le distanze fosse l’organizzazione dello spazio in verticale, da
qui nacquero edifici alti e compatti. Un’idea di ospedale questa che si è diffusa
fino ai giorni nostri, o almeno, finché la necessità di garantire la separazione dei
percorsi e la corretta relazione tra le aree funzionali non ha costretto a ripensare
a un nuovo modello di ospedale: più basso, orizzontale e meglio strutturato, come
quello che oggi comunemente viene chiamato “a piastra”.
Partiamo dagli ingressi: il nuovo ospedale di Vimercate, ad esempio, avrà quattro
accessi differenziati per tipologia di utilizzo. Sul lato est, rivolto alla città e alle
direttrici viabilistiche principali, sorgerà un ingresso per gli utenti e i visitatori e
un altro, separato, riservato alle emergenze e alle urgenze. Sul lato nord, invece,
quello dedicato ai mezzi logistici e ai vigili del fuoco e infine l’ultimo, riservato
agli addetti alla manutenzione dei giardini. Dagli accessi all’organizzazione
Il Nuovo Ospedale di Vimercate
63
dello spazio: all’interno degli edifici la posizione di ogni reparto è stata pensata
esattamente in quel punto perché, ad esempio, l’accettazione deve essere contigua
agli ambulatori, i pazienti che devono subire un intervento chirurgico lo devono
essere alla sala operatoria e così via. Come a dire: alcune cose, se non stanno
insieme non funzionano e, ancor di più, è arrivato il momento di superare il
concetto di reparto tradizionale, perché le funzioni specifiche non sono più legate
alla peculiarità delle singole discipline specialistiche, ma sono realizzabili in
settori di facility, il più possibile comuni. Di fatto, i processi di diagnosi e cura
del singolo malato ora seguiranno percorsi integrati che andranno a intersecare
le diverse facility, perché sale operatorie, ambulatori e laboratori saranno il più
possibile centralizzati e utilizzabili da molteplici professionalità.
Le degenze, invece, verranno situate nella zona più esterna, per garantire
l’affaccio delle finestre su un panorama gradevole. Pensiamo al nuovo ospedale
Sant’Anna di Como che si estende sotto le pendici delle colline, a metà strada tra
la località Tre Camini e i comuni di Como, San Fermo della Battaglia e Montano
Lucino. Le necessità paesaggistiche e storiche hanno guidato il progetto nella
costruzione di un sistema ospedaliero orizzontale, la cui articolazione prosegue
lungo le curve naturali del terreno dando vita a una nuova interpretazione di
ospedale giardino: le camere si aprono alla valle e il verde viene fatto penetrare
perfino negli ambienti interni attraverso l’introduzione di corti. L’umanizzazione
è anche questo: un’attenzione particolare al malato che dovrà poter vivere i giorni
di ricovero in un luogo il più caldo e accogliente possibile. Si comincia dai colori
delle pareti, fino alle decorazioni sul soffitto, perché nessun architetto può scordare
che il malato spesso può beneficiare di un’unica visuale: quella che si gode da
Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano – Interno
6464
65
sdraiati, nel letto della propria stanza. Riguardo alle camere, la nuova tendenza
degli ospedali lombardi supera le indicazioni normative: quasi tutte le stanze,
infatti, sono state progettate con due letti inseriti in uno spazio ben più ampio dei
diciotto metri quadri circa che impone la legge. Senza contare le eccezioni come
i reparti di pediatria, in cui le misure si espandono ancora di più per lasciare
spazio ai genitori dei piccoli pazienti. Si può parlare, quindi, di uno standard
alberghiero in cui il malato che divide la stanza solo con un altro paziente può
guardare la televisione, riporre i propri effetti dentro un armadio personale e
fare la doccia nel bagno dentro la stanza. Situazione impossibile nelle vecchie
camerate che ospitavano contemporaneamente anche otto malati. Inimmaginabile
in quelle strutture, pensare di poter fare due passi nella main street dell’ospedale
che non sarà certo un centro commerciale, ma offre la possibilità, ad esempio,
ai parenti dei malati di mangiare in un ristorante, di comprare libri e giornali
e di portare a lavare la biancheria. Non solo acquisti, i nuovi edifici sono stati
pensati per garantire a tutti i credenti un luogo di preghiera, indipendentemente
dalla religione. Al Sant’Anna di Como, ad esempio, ce ne saranno tre: una
cappella cattolica, un luogo di preghiera e un locale per il rito delle esequie. Per
approfondire la definizione di standard uniformi, Regione Lombardia ha perfino
istituito un apposito team dedito alla determinazione degli spazi dedicati al culto
negli edifici di nuova costruzione.
A inizio capitolo dicevamo che le esigenze del paziente ora vengono poste al centro
dell’attenzione del progetto, ma non solo quelle. Pensiamo ai medici e a tutti gli
altri operatori sanitari che trascorrono gran parte della loro giornata dentro
l’ospedale: per loro, nei nuovi ospedali lombardi verrà costruito un nido dove
A LATO:
Ospedale Niguarda
Blocco Nord, galler
ia
66
potranno portare i figli. Per loro e per tutte le persone che entreranno nelle nuove
cliniche, sono stati pensati degli standard di sicurezza per contenere eventuali
rischi di contaminazione. Come? Gli ospedali, oltre ad avere una componente
impiantistica studiata per preservare l’edificio da tali rischi, sono collocati in aree
immerse nel verde, al di fuori dei centri storici; l’accesso alla struttura avviene
attraverso una serie di filtri successivi in progressione: dalla main street per
l’accoglienza si arriva ai servizi specialistici ambulatoriali, passando poi ai luoghi
di degenza, fino alle zone di attività subintensive, operatorie e intensive. Tutto è
stato progettato in base al criterio di sanificazione. Facciamo due esempi ancora
più concreti: il rischio di contaminazione da legionella è maggiore laddove vi siano
forti condensazioni che non vengono smaltite in modo corretto, mentre il rischio
di epatite si nasconde nella mancata possibilità di corretta sanificazione della
camere o dei luoghi di ristorazione. Per questo motivo, le stanze sono costruite
tutte con aspirazione automatica, fornita di successivi filtri. Le tecnologie più
avanzate permettono inoltre di risolvere i problemi legati alle malattie infettive
all’interno del contesto ospedaliero, rendendo obsoleti i padiglioni per l’isolamento
che, per loro stessa natura, non tengono conto del principio della centralità della
persona.
Il Nuovo Ospedale Beato Giovanni XXIII di Bergamo sorgerà in località Trucca,
quello di Legnano nella periferia ovest della città e così tutte le nuove strutture
sono state volutamente progettate lontane dal centro storico. Il loro decentramento
potrebbe far storcere il naso a qualche cittadino che teme di rimpiangere la
vecchia clinica sotto casa. Alla base di questa scelta ci sono ragionamenti precisi:
innanzitutto la necessità di spazio quindi, come dicevamo, quella di sicurezza,
67
e inoltre la possibilità di garantire al malato l’affaccio su una porzione di
verde, una più facile connessione con la rete stradale, la disponibilità di ampi
parcheggi dedicati ai dipendenti, ai visitatori e ai pazienti ambulatoriali e, infine,
l’assicurazione ricevuta dai diversi Comuni di fornire un servizio navetta da e per
i punti nevralgici della città, con cadenza regolare, più volte ogni ora e per tutta
la settimana.
Sono 1.200 circa gli operai che ogni giorno lavorano nei cantieri degli ospedali
lombardi. Per assicurare qualità dei lavori e rispetto dei tempi di consegna, Regione
Lombardia ha deciso di adottare, ogni volta che è stato possibile, uno strumento
operativo che prende il nome di project finance. Di fatto, si tratta di un metodo
innovativo che punta a far risparmiare al pubblico notevoli risorse, consentendo
di valorizzare il ruolo decisivo che anche il privato può svolgere nell’ambito
sociosanitario. Il meccanismo ruota attorno a un sistema di compensazioni.
L’investimento necessario alla realizzazione di una nuova struttura sanitaria
viene garantito sia dalla Regione che dal costruttore dell’ospedale, che ne diviene
in parte anche gestore. Al privato, infatti, viene affidata la direzione dei cosiddetti
servizi no core come la gestione del calore, la manutenzione, la pulizia, la mensa,
la vigilanza, ecc. Il costruttore verrà quindi incentivato al rispetto dei tempi di
realizzazione, dal momento che avrà il pieno interesse a terminare l’opera quanto
prima per iniziare a rientrare nei costi dell’investimento grazie alla gestione dei
servizi e alla riscossione di un canone per l’utilizzo della struttura stessa. Oltre
all’effetto incentivo per la ditta costruttrice, il project finance si sta rivelando
molto utile perché consente anche di reperire risorse altrimenti non disponibili.
Spetta a Infrastrutture Lombarde, per conto di Regione Lombardia selezionare,
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mediante procedura pubblica, il privato a cui affidare la costruzione, sorvegliando
poi sulla qualità del metodo e dei lavori.
Aspettando il taglio dei nove nastri, si possono osservare già i primi
risultati: allo stato dei fatti, la Lombardia è la regione italiana con il più alto
coinvolgimento di capitale nell’edilizia sanitaria, che arriva al 35 per cento
del valore dell’intero mercato nazionale. I fatti in cifre: diciannove sono gli
interventi di project finance, 1,3 miliardi il valore complessivo dell’operazione.
Inoltre, grazie al project finance tutte le strutture in costruzione verranno
ultimate entro il 2009, segnando un tempo medio di costruzione pari a tre anni
circa, contro i 9,5 della media nazionale.
Prendiamo il nuovo complesso ospedaliero di Vimercate: i lavori sono iniziati
il 30 novembre 2006 e al termine del 2007 era già stata completato il 25 per
cento dell’intero intervento. Valore dell’opera: 120 milioni di euro per un totale
di 538 posti letto e nove sale operatorie che sorgeranno su 115.588 metri quadri
che si estendono a sud rispetto al centro storico e la frazione di Oreno, un’area
facilmente raggiungibile grazie ai collegamenti con l’uscita della tangenziale
est e con la provinciale Vimercate-Monza. Il progetto originario è stato firmato
dall’architetto Mario Botta e quello esecutivo è stato curato dall’architetto
Alessandro Martini. Qualche numero per rendere la portata dei lavori: al momento
dell’inaugurazione, prevista per la primavera del 2009, saranno state impiegate
370 persone, movimentati 542mila metri cubi di terra, gettati 70mila metri cubi
di calcestruzzo e posati 150 chilometri di cavi. E ancora, per soddisfare il principio
di umanizzazione e urbanità, verranno piantati oltre 700 alberi e 6.000 arbusti.
Le degenze affacceranno su un ampio e folto bosco che avvolgerà completamente il
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Chiosco Maffeo e sarà fruibile da tutti i pazienti. I 100mila metri quadri circa del
nuovo complesso saranno suddivisi in tre blocchi. Il primo, su tre piani, destinato
all’accoglienza; il secondo per i servizi di diagnosi e cura e l’ultimo, immerso nel
verde, dedicato alle degenze. La particolarità di quest’ultimo settore consiste
nella sua struttura: quattro raggi disposti a semi raggera, ciascuno destinato ad
un settore in particolare, collegati ad un’estremità con la piastra della diagnosi.
Un esempio di efficienza organizzativa pubblica e di innovazione architettonica
che aprirà nuove strade percorribili per il rinnovamento dell’edilizia sanitaria in
Italia, perché gli ospedali siano permeabili, ovvero aperti: non più un recinto per
proteggere i sani dai malati, ma un pezzo di città in cui i luoghi della città stessa
(la strada, la piazza, il parco) penetrino nel cuore dell’edificio.
Il Nuovo Ospedale di Bergamo